Vai al report della Ricerca parte seconda - capitolo due
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Vai al report della Ricerca parte seconda - capitolo due
Parte II Capitolo 2 Analisi dei percorsi dei “dirigenti di successo” Ricerca sulle competenze dei dirigenti che hanno avuto una carriera veloce nelle pubbliche amministrazioni di Carla Chiara Santarsiero “Da quando Flaubert ha detto “Madame Bovary sono io” ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di persone. L’autore di questo libro spera che gli sia perdonato il naturale narcisismo, e quanto al gusto del narrare confida che sarà apprezzato anche da coloro che per avventura potessero riconoscersi alla lontana quali personaggi del romanzo.” (Giuseppe Berto, Il male oscuro, dalla Prefazione dell’autore) 2 Breve premessa e ringraziamenti Questa ricerca ha un carattere prettamente qualitativo. E’ basata su un metodo inusuale, almeno nell’ambito delle ricerche sul lavoro pubblico: il metodo autobiografico, o meglio, l’approccio autobiografico. Non abbiamo raccolto propriamente delle autobiografie scritte da un gruppo di dirigenti dello Stato; li abbiamo piuttosto ascoltati. Abbiamo ascoltato le loro storie professionali dalle quali sono emersi, crediamo, indicazioni utili anche per la Scuola superiore della pubblica amministrazione che ha finanziato la ricerca e messo a disposizione le sue strutture per realizzarla. La ricerca è stata ideata e coordinata da Carla Chiara Santarsiero, con il contributo fondamentale di Micaela Castiglioni, Andrea Fontana, Emanuela Mancino e Dietelmo Pievani, ricercatori dell’Università degli studi “Bicocca” di Milano. Tutti hanno contribuito alla stesura del rapporto finale. In particolare: - Il paragrafo 1.1 dell’Introduzione e il paragrafo 3.3 delle Conclusioni sono stati curati da Carla Chiara Santarsiero; - Il paragrafo 1.2 dell’Introduzione è stato curato da Micaela Castiglioni; - Il paragrafo 2.1 del Capitolo 2 sui Risultati dell’indagine è stato curato da Emanuela Mancino; - Il paragrafo 2.2 del Capitolo 2 sui Risultati dell’indagine è stato curato da Andrea Fontana; - Il paragrafo 2.3 del Capitolo 2 sui Risultati dell’indagine è stato curato da Dietelmo Pievani. Dobbiamo innanzitutto ringraziare il prof. Duccio Demetrio dell’Università Bicocca di Milano, che ci ha aiutato nella realizzazione del progetto. Senza l’incoraggiamento, il sostegno e la sponsorizzazione scientifica del prof. Emanuele Sgroi, docente della Scuola superiore, difficilmente la ricerca avrebbe visto la luce. E’ quindi soprattutto lui che dobbiamo ringraziare. Questo lavoro è il frutto della disponibilità e della pazienza dei dirigenti intervistati, senza la cui collaborazione la ricerca non sarebbe stata possibile. A loro va il nostro ringraziamento particolare. Per i consigli ricevuti ringraziamo ancora Bruno Dente e Maria Grazia Mei che hanno letto il rapporto finale prima della consegna. Consigli preziosi ci sono venuti anche da Luca Lo Schiavo che ci ha aiutato a mettere a punto lo strumento della traccia del colloquio. Desideriamo infine ringraziare il Ruolo unico dei dirigenti e, in particolare, il dott. Claudio Rossi per aver consentito l’accesso all’archivio elettronico dei dirigenti dal quale sono stati selezionati coloro che hanno aderito alla ricerca. 3 2.1. Introduzione: le ragioni della ricerca, il metodo di indagine e i soggetti intervistati L’idea di individuare, tramite un metodo originale, le competenze dei dirigenti pubblici “di successo” è nata più di due anni fa. Era il momento di massimo impatto delle riforme promosse dall’allora Ministro per la funzione pubblica, l’On. Franco Bassanini. La strategia che orientava i provvedimenti legislativi che si susseguivano di anno in anno viaggiava su alcune parole d’ordine: separare la politica dall’amministrazione, rendere le amministrazioni centrali più snelle e più focalizzate sulla loro missione; devolvere, esternalizzare, differenziare e decentrare le funzioni dello Stato; avvicinare le decisioni ai destinatari finali. Era il cosiddetto “federalismo amministrativo” culminato poi nella riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione. Riforma dei ministeri e riforma della dirigenza sembravano strettamente connesse; la prima agiva sul piano strutturale, la seconda su quello dell'ordinamento professionale. Forse uno degli esiti che ci si attendeva dalla azione congiunta delle due riforme era la rottura dell'intreccio tra articolazione delle carriere e articolazione degli uffici. Quindi non più proliferazione di uffici per soddisfare le aspettative di carriera dei dirigenti oltre ogni effettiva esigenza operativa, niente più sovrapposizioni e duplicazioni che finivano per favorire l'inefficienza e l'irresponsabilità. Questo almeno nelle buone intenzioni. Ci sembra che gli istituti deputati a favorire questo risultato fossero, dal lato dei ministeri, il nuovo modello articolato in dipartimenti e agenzie, assieme al riconoscimento del potere di auto-organizzazione prima riservato esclusivamente alla legge, e, dal lato dell’ordinamento professionale, la riforma della dirigenza e l’istituzione del ruolo unico dei dirigenti. E’ proprio dalla posizione che l’istituto del ruolo unico avrebbe dovuto assumere nella dialettica tra amministrazioni e dirigenti che siamo partiti. Il ruolo unico avrebbe dovuto costituire la fonte cui attingere per l’individuazione dei dirigenti cui attribuire un determinato incarico, il serbatoio delle competenze; con un immagine che è stata più volte ripresa, il ruolo unico doveva configurarsi come una sorta di mercato dove si sarebbero dovute incontrare la domanda delle amministrazioni e l’offerta dei dirigenti. A più due anni di distanza dalla nascita dell’idea di questa ricerca l’uso del condizionale è d’obbligo. Sappiamo che il primo Ministro per la funzione pubblica del 4 Governo Berlusconi, l’On. Franco Frattini, ha fatto approvare una legge, più nota come legge “spoil system”, che ha, ancora una volta, riordinato la dirigenza statale e abolito il ruolo unico dei dirigenti, ripristinando la compartimentalizzazione dei dirigenti: non ci sarà più, quindi, un unico ruolo, ma tanti quante sono le amministrazioni dello Stato. Non vogliamo entrare nella polemica se il ruolo unico fosse o meno lo strumento migliore per favorire la mobilità dei dirigenti o se l’appartenenza ad uno specifico ruolo ministeriale garantisca il possesso delle conoscenze tecniche necessarie per agire all’interno di quella determinata amministrazione, quel che ci preme, ai fini della nostra ricerca, è che il problema della identificazione delle competenze dei dirigenti, che li si voglia selezionare in uno o in più ruoli, permane, tanto che la stessa legge Frattini recita: “per il conferimento di ciascun incarico … si tiene conto … delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente”. E per tenere conto delle attitudini e delle capacità professionali di ogni singolo dirigente bisogna o conoscerlo direttamente, per averlo visto lavorare e ottenere o meno risultati, o essersi dotati di un metodo che consenta di valutare i risultati o di un metodo che faccia emergere, meglio di quanto possa fare il più completo dei curricula, le competenze che si ritiene siano necessarie per ottenere quei risultati. Riteniamo quindi che il problema del metodo per identificare le competenze di un dirigente sia ancora attuale e che la sua soluzione non possa che partire da ciò che intendiamo per “competenza”. Intendiamo per competenza quell’insieme di caratteristiche individuali messe in atto da un soggetto in una data situazione e che si ritiene siano le più appropriate per raggiungere i risultati voluti. Ogni competenza agita all’interno di una organizzazione comprende un insieme di fattori: conoscenze, capacità, tratti o atteggiamenti, immagine di sé, ruolo sociale, motivazioni. La competenza si incrocia con la “carriera morale”, cioè con il livello di auto-stima e di stima sociale che il dirigente va raggiungendo sia nell’ambito dell’organizzazione in cui svolge la sua attività sia nell’ambiente sociale di riferimento. Questo significa che c’è un mercato “non-economico” delle competenze che le remunera in termini non soltanto economici, ma in termini simbolici, di prestigio, di approvazione e valutazione sociale. Le competenze per essere valorizzate devono essere identificate, definite, indirizzate e sviluppate in modo da costituire un patrimonio dell’organizzazione. 5 Questa ricerca si pone l'obiettivo di verificare la possibilità di usare il metodo autobiografico nella ricostruzione delle competenze organizzative e dei valori condivisi di un gruppo di dirigenti che, avendo avuto una carriera veloce nelle amministrazioni pubbliche – e la velocità della carriera è considerata, come vedremo, un elemento dell’eccellenza -, possa rappresentare un modello di riferimento per azioni di sviluppo successive. Il metodo autobiografico, applicato alla vita professionale – ma il confine tra la vita professionale e la vita personale di un individuo non è poi così ben definito – consente di enucleare dalla narrazione autobiografica raccolta oralmente dal ricercatore, quanto ha più segnato, nel lavoro e nelle relazioni professionali, il soggetto narrante, generando svolte e cambiamenti che lo hanno condotto ad apprendere maggiormente rispetto alla situazione cognitiva e comportamentale precedente. Riteniamo inoltre che il metodo autobiografico consente di raccogliere informazioni sulle motivazioni del soggetto intervistato, sulla immagine che ha di sé, sulle origini dei suoi atteggiamenti che, insieme a quelle relative alle sue conoscenze ed esperienze professionali, danno un quadro completo dello stato delle sue competenze personali. Essendo un metodo che favorisce l’auto-consapevolezza, fa emergere le conoscenze tacite o implicite e rende possibile l’ulteriore sviluppo delle proprie competenze. Per definire il campo di indagine ci siamo posti le seguenti domande: di quali dirigenti è interessante conoscere le competenze? Con quale criterio selezionarli? Quale può essere il modello di riferimento? La risposta che ci siamo dati è stata questa: quelli che hanno raggiunto risultati di eccellenza, quelli che corrispondono a un profilo di eccellenza. Il primo passo, quindi, è stato quello di individuare le persone che, sulla base delle informazioni disponibili, potevano corrispondere ad un profilo di eccellenza. “Eccellenza”, la parola magica che apre tutte le porte! Anche quella, crediamo, del consenso ad essere intervistati. E, qual è l’indicatore dell’eccellenza nelle pubbliche amministrazioni? In assenza di consolidati sistemi di misurazione dei risultati, in assenza, potremmo dire, di una cultura della valutazione, che stenta a diffondersi nelle pubbliche amministrazioni dove prevalgono verifiche di tipo amministrativo-legale, se non di 6 valutazione politica, l’unico indicatore che abbiamo trovato presso il ruolo unico dei dirigenti è stato quello della velocità della carriera. Nell’archivio elettronico del ruolo unico dei dirigenti, al quale ci siamo rivolti per selezionare i dirigenti da coinvolgere nella ricerca, non abbiamo trovato infatti alcuna traccia di una valutazione purchessia dei dirigenti. Abbiamo dovuto pertanto ricorrere ad un indicatore che, noi per primi non riteniamo oggettivo, ma che era l’unico che allo stato attuale poteva essere utilizzato, quello appunto della velocità di carriera. E tuttavia tale criterio è considerato una caratteristica dell’eccellenza visto che un dirigente che abbiamo intervistato ci ha detto: “L’eccellenza si manifesta in una carriera già di per sé eminente, risultato di una combinazione di elementi tra cui la componente del tempo impiegato per arrivare ad una certa posizione …”. Gli inviti sono stati rivolti ad una sessantina di dirigenti aventi le seguenti caratteristiche: - dirigenti di seconda fascia che hanno avuto il primo incarico dirigenziale a meno di 30 anni; - dirigenti di seconda fascia che hanno avuto il primo incarico dirigenziale in età compresa tra i 30 e i 35 anni; - dirigenti di seconda fascia che hanno avuto un incarico dirigenziale superiore (prima fascia) a meno di 40 anni; - dirigenti di prima fascia che hanno avuto l’incarico dirigenziale a meno di 40 anni; - dirigenti di prima fascia che hanno avuto l’incarico dirigenziale in età compresa tra i 40 e i 45 anni. Molti dirigenti di seconda fascia che corrispondevano alle prime due caratteristiche provenivano dal primo corso-concorso dirigenziale per accedere al quale era richiesta un’età non superiore ai 35 anni. Essendo il requisito della giovane età condizione per la partecipazione al concorso, abbiamo evitato di invitarli a partecipare alla ricerca, pur ritenendo che molti di loro, per il tipo di selezione cui sono stati sottoposti e per la preparazione acquisita durante il corso, abbiano le competenze per diventare degli high fliers. Per consentire un confronto con gli altri temi della ricerca abbiamo ristretto il campo a tre amministrazioni: quella del tesoro e delle finanze (ora Ministero dell’economia e delle finanze), quella del lavoro e delle politiche sociali e quella dell’istruzione, dell’università e della ricerca. In origine era previsto che partecipassero 7 alla ricerca anche un certo numero di dirigenti dell’INPS; da parte di questo Istituto però è mancata la necessaria collaborazione per individuare i dirigenti da coinvolgere nella ricerca. Ce ne rammarichiamo perché in quel contesto, essendo da tempo in uso un sistema di valutazione delle prestazioni, sarebbe stato più facile basarsi su un parametro più oggettivo per individuare gli eccellenti. Avremmo inoltre voluto confrontare i risultati ottenuti nell’indagine sugli eccellenti con quelli di un campione di controllo costituito da dirigenti che non hanno avuto una carriera veloce, ma che forse sono semplicemente meno ambiziosi oppure hanno avuto, nonostante la lentezza della carriera, notevoli risultati nel loro lavoro. Ma, come saperlo, in assenza di consolidate esperienze di valutazione dei risultati? E, soprattutto, come ottenere il loro consenso senza provare imbarazzo? L’approccio autobiografico scelto per questa ricerca richiede infatti un’adesione consapevole ed attiva. Si tratta di essere disposti a raccontare la propria storia, a ripercorrere episodi piacevoli e spiacevoli del proprio passato professionale, a riconoscere le proprie qualità positive, ma anche quelle negative; in altri termini, si tratta di dare, attraverso il racconto di sé, un senso al proprio percorso professionale. A prescindere dalle difficoltà incontrate nell’individuazione del campione, quel che ci preme essenzialmente dimostrare è che la nostra proposta metodologica, come dimostrato da alcune esperienze condotte nel privato, può essere utilizzata per far emergere le competenze dei singoli individui anche in un contesto pubblico. Nel campione originario i dirigenti erano equamente distribuiti tra maschi e femmine, tra amministrazioni centrali e periferiche, nell’ambito di queste ultime, tra Nord, Centro e Sud-Isole. All’invito hanno aderito circa 35 dirigenti che però, al momento di trovare il tempo e un accordo per l’intervista autobiografica, si sono ridotti a 21, di questi tre hanno partecipato con un auto-intervista scritta, stimolata attraverso le medesime domande che erano state rivolte agli altri.. Le interviste sono state condotte, nel mese di aprile del 2002, da quattro ricercatori afferenti la Cattedra di Educazione degli Adulti dell’Università di MilanoBicocca, perlopiù presso i locali della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione di Roma, sono state registrate e hanno avuto mediamente una durata di 2 ore. Le 21 storie di vita professionale che abbiamo raccolto sono molto diverse fra loro. 8 Per mantenere l’anonimato ci limitiamo a sintetizzare nella tabella che segue il profilo essenziale dei dirigenti intervistati. N. Fascia di dirigenza 1 2 Prima Seconda Età in cui ha ricevuto l’incarico corrispondente all’attuale fascia di dirigenza 41 35 3 4 5 Seconda Seconda Seconda 6 7 8 Età attuale Amministrazione presso la quale svolge l’incarico 42 45 Ministero Economia e Finanze Agenzia delle entrate 33 35 35 36 50 49 Ministero Economia e Finanze Ministero Economia e Finanze Agenzia del territorio Prima Prima Seconda 32 43 33 58 53 44 Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Agenzia delle entrate 9 10 Seconda Seconda 34 35 45 46 Posizione di vertice in un ufficio del bilancio di un ministero Agenzia delle entrate 11 12 13 14 15 16 Prima Seconda Prima Prima Prima Seconda 43 29 41 43 36 35 46 35 43 56 38 48 Ministero Economia e Finanze Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali Ministero Economia e Finanze Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali Agenzia del territorio 17 18 Seconda Seconda 34 36 45 46 19 20 21 Prima Seconda Seconda 45 35 35 51 50 45 Ministero Economia e Finanze Posizione di vertice in un’articolazione interna dell’Ufficio centrale del bilancio di un ministero Ministero Economia e Finanze Ministero Economia e Finanze Agenzia delle entrate Molti di loro sono all’inizio della loro carriera dirigenziale, sono pronti ad andare avanti e non sono spaventati dal cambiamento e dall’impegno che ciò comporta; altri sono al vertice della carriera, avendolo raggiunto già da molti anni; altri ancora sono addirittura usciti dal percorso ministeriale per accedere ad altre carriere più prestigiose sempre all’interno della pubblica amministrazione. Il criterio della velocità della carriera, scelto per selezionare i dirigenti da coinvolgere nella ricerca, ha messo subito in evidenza che la carriera si fa a Roma e che il centro attrae i migliori, penalizzando la periferia. Chi vuole far carriera e ha le competenze per farla deve mettere in conto di spostare, almeno per un certo periodo, la propria vita a Roma. 9 Dei 21 dirigenti intervistati 14 sono uomini (7 di prima fascia e 7 di seconda), delle 8 donne solo una è di prima fascia, ma questo non ci stupisce. Tutti i dirigenti di seconda fascia che lavorano in uffici periferici, pur essendo diventati dirigenti molto presto, sembrano essersi fermati nella carriera. Questo conferma l’affermazione precedente sull’attrazione dei migliori o dei più ambiziosi al centro. Il colloquio autobiografico in profondità ha comunque consentito di raccogliere una serie di esperienze significative nella costruzione della loro identità professionale e nel loro divenire organizzativo. 2.2. L’intervista (auto)biografica: percorsi professionali dei “dirigenti di successo” delle pubbliche amministrazioni. Nei vari ambiti disciplinari o campi di ricerca in cui viene utilizzato, l’approccio (auto)biografico è caratterizzato dalla raccolta di informazioni su come gli individui hanno vissuto o vivono alcuni momenti salienti o alcuni aspetti particolari della loro vita, della loro storia di formazione o della loro vicenda professionale. Dal momento che la ricerca delle informazioni su come le persone hanno vissuto o vivono non può che essere condotta “interrogando” le persone stesse, opportunamente scelte fra i possibili “testimoni privilegiati”, ogni studio o ricerca che si basi sulla raccolta di testimonianze di “storie di vita” non può prescindere da un utilizzo del metodo dell’intervista. Il che equivale a dire che l’intervista costituisce il metodo principe nello studio delle storie di vita, professionali e non, soprattutto nei contesti della ricerca (auto)biografica. All’interno dell’approccio di ricerca e di formazione (auto)biografica, la cui natura è di tipo qualitativo, per cui è la storia del singolo come unica e irripetibile a costituire l’oggetto del percorso euristico, è possibile utilizzare tutta la gamma dei vari tipi di intervista, da quelle molto strutturate (rivolte a campioni più estesi), a quelle meno strutturate che, generalmente, tendono ad essere focalizzate su alcuni nodi o momenti particolari della vita delle persone, a quelle molto più libere in cui è il soggetto che si racconta a scegliere quali elementi e aspetti della sua vita narrare e sui quali valga la pena di riflettere 1. 1 D’altra parte anche gli scopi e i metodi di ricerca che possono essere ricondotti all’approccio (auto)biografico sono i più vari, dal momento che si va da ricerche di tipo più “tradizionale”, in cui il ricercatore e i soggetti della ricerca si collocano su piani “più distinti”, a ricerche più o meno partecipate, che seguono l’orientamento della ricerca-azione, nelle sue varie accezioni. 10 Nel nostro percorso di ricerca orientato a ricostruire le traiettorie professionali e le competenze organizzative che vengono “agite” da parte di un gruppo di “dirigenti di successo” delle pubbliche amministrazioni, si è optato per un tipo di intervista semistrutturata, focalizzata su alcuni nodi e aspetti cruciali della vicenda formativa e soprattutto professionale dei soggetti intervistati. Il che ha voluto dire proporre agli interlocutori 2 che hanno preso parte alla ricerca una serie di stimoli capaci di generare, nell’interazione conversazionale con il ricercatore, un processo di ri-appropriazione riflessiva e di auto-consapevolezza orientato alla formulazione, “locale” e soggettiva, d’ipotesi esplicative e attributive rispetto alla personale vicenda formativa, alla propria traiettoria e “pratica” professionale, così come alla propria identità e ruolo professionale. 2.2.1. Temi e motivi della ricognizione (auto)biografica In modo particolare l’esperienza dell’intervista (auto)biografica, di tipo semistrutturato, si è configurata come occasione volta ad ottenere, attraverso i punti di vista e le concezioni di cui i soggetti interpellati sono biograficamente e situazionalmente portatori, “dati” e riscontri empirici significativi riguardanti 3: - gli intrecci tra la vicenda di formazione e quella professionale; - l’espressione di sé e della propria unicità soggettiva nella vita professionale; - le situazioni, gli eventi, i passaggi/le svolte e gli incontri personali che hanno influito nella costruzione della propria identità e ruolo professionale e sulle modalità relazionali che la contrassegnano; - le competenze “agite” nella propria professione e le responsabilità che la definiscono; - i momenti e gli elementi di criticità/difficoltà nella personale traiettoria professionale; - i fattori di gratificazione e di “successo” nella professione; - la propria epistemologia professionale, nelle sue dimensioni di continuità e discontinuità; - i fattori di continuità/discontinuità o anche di maturità e di evolvibilità nella professione; 2 3 Per la descrizione dettagliata del campione coinvolto nell’indagine si rimanda alle pagine 9 e seguenti. Le dimensioni indicate di seguito hanno costituito i fuochi d’indagine e i temi privilegiati in cui si è articolata l’intervista rivolta agli interlocutori privilegiati. 11 - le rappresentazioni e i punti di vista relativi ad alcune precipue caratteristiche delle pubbliche amministrazioni 4 (sempre messe in correlazione con il proprio ruolo e le proprie competenze professionali). 2.2.2. Le idee sui “fatti” e sulle vicende professionali Nella prospettiva di avviare con i soggetti della ricerca una comunicazione relazionale che fosse esperienza, tramite la narrazione di sé: - di teorizzazione contingente e soggettiva delle personali esperienze e contesti di apprendimento e di formazione; - di costruzione e ri-attualizzazione attiva e problematizzante di saperi e punti di vista, noti o meno conosciuti, sulla propria vicenda professionale (declinata al passatopresente-futuro); così come - di chiarificazione ulteriore della propria identità, ruolo ed epistemologia professionale. Le domande-stimolo rivolte sono state attraversate da una logica 5: - narrativa, in quanto tendenti a far liberamente narrare gli eventi personali dei soggetti protagonisti della ricerca; - attributiva, in quanto orientate a far emergere le attribuzioni di significato operate dal soggetto; - evocativa, dal momento che la riattualizzazione del tempo passato era orientata ad una comprensione del tempo presente e ad una prospetizzazione del tempo futuro. 2.2.3. La funzione della teoria, il ruolo dell’osservatore e il rapporto intervistatoreintervistato nel paradigma qualitativo La ricerca (auto)biografica, collocandosi all’interno della prospettiva euristica di tipo qualitativo 6, non è interessata a riportare le teorie, i punti di vista e le conoscenze 4 Si è fatto particolare riferimento: - ai cambiamenti che hanno investito negli ultimi anni le organizzazioni dell’Amministrazione Pubblica, portandole verso gradi più elevati di flessibilità, di autonomia e di decentramento; - ai meccanismi di autocorrezione e di valutazione presenti o non, in questi ambiti e contesti professionali; - al tema dell’”eccellenza professionale”, sempre nella Pubblica Amministrazione. 5 Si veda a tal proposito la traccia dell’intervista in Appendice 6 Vogliamo brevemente qui richiamare che, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, non solo si è riacceso il dibattito sui modelli e sui significati del fare ricerca in educazione, ma si è assistito ad una nuova problematizzazione dei concetti di qualitativo e quantitativo, rispetto ai quali la maggior parte degli studiosi della ricerca educativa dichiara che non si tratta tanto d’assumere atteggiamenti di 12 che il soggetto produce su di sé, sulla propria storia di crescita, di formazione o professionale (come nel nostro caso), all’interno di una teoria generale “data” e preesistente al di fuori del sistema osservatore-osservato, della quale si finirebbe col cercare la conferma tramite l’esperienza ripetuta e la quantificazione dei dati ottenuti. Essa è piuttosto orientata a comprendere il “dato”, dall’”interno”, così come esso viene partecipato soggettivamente, co-costruito, interpretato, negoziato e prodotto processualmente, e in modo evolvibile, nell’interazione dell’esperienza concreta di ricerca. In questa prospettiva, viene assunto e valorizzato il ruolo reciprocamente attivo dei soggetti implicati (e non solo quindi del ricercatore), che, in questo modo, contribuiscono a dare forma all’oggetto stesso di ricerca. Di conseguenza, “nessun sistema può essere pensato o analizzato al di fuori o a prescindere dalle sue relazioni con l’osservatore e col suo linguaggio osservativo (Pardi, 1985,p.77)” 7. Pertanto, l’approccio dipendente dall’osservatore assume la nozione di sistema “come costrutto selettivo” (ivi, p.78), come “prodotto” (ibidem), e la funzione del ricercatore è quella di scegliere “un modo per ritagliare dalla complessità caotica elementi di ordine” (ibidem). Il ricercatore qualitativo ((auto)biografo) non può non indirizzare la propria ricerca verso “l’identificazione dei molti punti di vista che possiamo far emergere dall’interno di un’area di studio (…) delimitata e che diventerà così oggetto di plurime rappresentazioni” (Demetrio, 1988, p.105) 8. Inoltre, dal momento che il ricercatore-osservatore si trova davanti non tanto degli oggetti quanto delle relazioni in divenire, tra gli oggetti di ricerca e all’interno di ciascun oggetto, la sua procedura euristica dovrà tenere conto (e rendere conto) di questa complessità, situata e dinamica, e dotarsi, pertanto, di un dispositivo logico, d’orientamento, come lo definisce Demetrio (ibidem), sempre ancorato ai fenomeni e alle esperienze concrete e singolari, quindi “aperto” e provvisorio, funzionale alla scoperta di “nuovi volti” della realtà delimitata. contrapposizione, orientati a sostenere la validità di un approccio e la conseguente pregiudiziale esclusione dell’altro, quanto di riconoscere, in modo più cauto, la praticabilità di entrambe le prospettive che verranno di volta in volta utilizzate, a seconda delle fasi della ricerca, delle condizioni di lavoro e delle risorse a disposizione o del tipo d’oggetto di ricerca (Al riguardo si faccia riferimento a E.Becchi, V.Vertecchi, (a cura di), (1984), Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa, Franco Angeli, Milano; D. Demetrio (1992), Micropedagogia. La ricerca qualitativa in educazione, La Nuova Italia, Firenze; S.Mantovani (a cura di), La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi, B.Mondadori, Milano; 7 F.Pardi (1985), L’osservabilità dell’agire sociale, F.Angeli, Milano. 8 D.Demetrio (1988), “Specificità euristiche in educazione degli adulti: il dibattito, i problemi, un modello possibile”, in Lichtner M. (a cura di), Esperienze di educazione degli adulti in Europa: una ricerca comparativa, Cede (I quaderni di Villa Falconieri), Frascati. 13 Ci troviamo di fronte, quindi, ad una pratica d’indagine che riconosce scientificità alla soggettività umana, all’interno della quale viene attribuito valore euristico ai saperi esperienziali, quotidiani e biografici dei soggetti della ricerca, tutte dimensioni queste che possono “influenzare” e richiedere riorganizzazioni ai saperi (e alle procedure) del ricercatore, i quali a loro volta, secondo una circolarità ermeneutica, rappresentano un’”interferenza” creativa e generativa per i soggetti dell’indagine. Tale esposizione del ricercatore e dei soggetti dell’indagine alla possibilità contingente d’interrogazione dell’esperienza, così com’è stata dotata di senso, e delle alternative del pensare, conoscere e sentire, connota il contesto euristico più come ambito di “costruzione di domande”, di “formulazione di dubbi” sulle spiegazioni, argomentazioni e soluzioni trovate, piuttosto che di ricerca di risposte. Anche il nostro percorso d’indagine, pertanto, si è configurato come processo di chiarificazione ulteriore della propria vicenda professionale e della propria “pratica” professionale. Collocandosi all’interno di questa prospettiva, quindi, i ricercatori, nell’incontro dialogico con gli interlocutori coinvolti, sono stati chiamati soprattutto ad affinare la propria disponibilità e capacità d’ascolto e auto-ascolto, propensioni e atteggiamenti che non sono per niente scontati e che si rivelano tuttavia indispensabili. Si tratta di un esercizio di auto-osservazione critica, che implica la consapevolezza di essere vincolato ad una prospettiva,a strategie cognitive, pregiudizi e modi di sentire che orientano la propria azione, e la capacità conseguente di riflettere e d’interrogarsi su tutto ciò e sulle risonanze cognitive ed emotive suscitate dai racconti ascoltati e raccolti. Operazione imprescindibile se si vuole stabilire un clima di fiducia e se si è orientati a comprendere nell’interazione conversazionale con i soggetti della ricerca, le loro idee sui “fatti”, ridimensionando il rischio di anteporre il punto di vista e i saperi del ricercatore. Sempre muovendosi lungo questa prospettiva, nell’individuazione e nella presentazione dei temi dell’intervista si è cercato il più possibile di non prevaricare gli scavi e approfondimenti tematici (e cognitivi) autonomi di chi si è narrato. Il soggetto narrante, quindi, è stato rispettato nelle proprie soste narrative, nei propri silenzi autoriflessivi e di coscientizzazione, così come nella strutturazione del proprio racconto e nella sua coerenza significativa, secondo un procedere in cui il ricercatore ha assunto il ruolo di sollecitare, stimolare, accompagnare e “problematizzare” il processo di 14 narrazione e comprensione di sé e della propria storia professionale da parte dei soggetti intervistati 9. 2.2.4. I “fuochi” dell’indagine e aspetti metodologici Proprio la scelta di collocarci all’interno della prospettiva di ricerca (auto)biografica, e in modo particolare, l’interesse conoscitivo per i riscontri empirici cui si è già fatto riferimento ci ha spinto ad avviare, con i nostri interlocutori, alcuni “ritrovamenti” significativi nel loro percorso di vita, di formazione e professionale. Abbiamo individuato, quindi, alcune aree d’indagine privilegiate capaci di far affiorare, tramite le auto-attribuzioni degli interlocutori, una sorta di “tragitto” mediante “soste” e attraverso insiemi significativi. In questo modo i registri e le dimensioni che hanno attraversato il testo dell’intervista proposta, e che hanno orientato la conversazione con i soggetti che si sono narrati, hanno reso possibile proprio nell’interazione discorsiva, quella che potremmo definire una “produzione pratica -rispetto alla personale storia professionale- che cerca la propria teorizzazione”, in modo coerente con il paradigma qualitativo della ricerca. La ricostruzione, inoltre, dei percorsi di formazione e professionali dei soggetti implicati nella ricerca, secondo il punto di vista bio-sistemico della ricerca (auto)biografica, si è realizzata lungo due vie che hanno orientato la scelta dei nuclei tematici e degli stimoli riflessivi in cui si è articolata la traccia dell’intervista: - la via della ricostruzione della storia del soggetto, che ci avrebbe fornito la narrazione di come il soggetto coinvolto si percepisce e di come percepisce il “mondo” (in particolare, quello professionale) cui ha attribuito un significato o che ancora va interpretando (momento biografico); - la via della ricostruzione delle interazioni che il soggetto stabilisce o ha stabilito (o potrà ri-stabilire), con “oggetti”, con se stesso, con gli altri, all’interno delle personali appartenenze di formazione, di apprendimento e professionali (momento sistemico). All’interno di questo orizzonte di riferimento siamo stati mossi, prima di tutto, dalla curiosità di sondare le possibili connessioni tra vita professionale e vicende di 9 I temi e i motivi introdotti in questo paragrafo sono ampiamente sviluppati L.Formenti (1998), La formazione autobiografica. Confronti tra modelli e riflessioni tra teoria e prassi, Guerini Studio, Milano; M.Castiglioni (2002), La ricerca in educazione degli adulti. L’approccio autobiografico, Unicopli, Milano. 15 formazione. All’interno di questa prima area d’indagine abbiamo, quindi, focalizzato il nostro “riflettore conoscitivo” su alcune dimensioni in particolare: - le rappresentazioni della propria traiettoria professionale (con riferimento ai punti di vista sui “passaggi cruciali” o sulle vere e proprie “svolte”); - la percezione di sé rispetto alla categoria di continuità e/o di discontinuità (ciò che l’intervistato ritiene di continuare ad essere o di non essere più relativamente alla propria storia professionale); - ciò che il soggetto ritiene essere delle peculiarità-caratteristiche personali che possono averlo favorito o svantaggiato; - il significato, cognitivo ed emotivo, attribuito alla categoria del cambiamento, e i punti di vista sviluppati sul rapporto tra cambiamenti personali/professionali e cambiamenti che hanno attraversato le organizzazioni contemporanee, tra cui la Pubblica Amministrazione; - la vita relazionale (con particolare riferimento alle possibili connessioni tra appartenenza familiare, interazioni amicali-sociali e storia professionale, così come alle “figure” che il soggetto reputa essere fonte dei suoi saperi e dei suoi apprendimenti, che possono essere di vario tipo, non solo di natura cognitiva e/o tecnica). In questa ricostruzione che invitava i soggetti della ricerca al ritrovamento dei tratti o segmenti salienti della propria esperienza professionale, così come alla possibile connessione tra questi, processo quest’ultimo, che avrebbe permesso loro di generare ipotesi esplicative, secondo un procedere di ricerca-formazione (auto)biografica, risultava inevitabile il riferimento all’area delle competenze (seconda area). Ci siamo chiesti, pertanto: - in quali caratteristiche, risorse e competenze, i soggetti intervistati, si identificassero, a livello di “rappresentazione” della propria identità e del proprio ruolo professionale; - quale immagine avessero di sé come manager, con particolare riferimento alle eventuali differenze tra sé e un manager di un’azienda privata. Di notevole interesse, ai fini della nostra ricerca, risultava essere la dimensione, che potremmo definire, della vita espressiva, che si è tradotta nel sondare le forme della relazione e della comunicazione realizzate nel contesto professionale. 16 Una terza area inserita ha riguardato i momenti critici e di successo nella propria carriera lavorativa e il rapporto che il soggetto sente di poter stabilire tra il successo personale e quello dell’organizzazione in cui è inserito. La ricomposizione della propria trama professionale si è conclusa con una sorta di bilancio (propositivo) rispetto ad essa. Quest’ultima area dell’intervista si è configurata inoltre come momento in cui riflettere su due temi cruciali, quello della responsabilità e dell’eccellenza, che rappresentano due “rilevatori” significativi alla luce dei quali gli intervistati potevano leggere la loro professionalità contestualizzata in un ambito organizzativo quale quello delle pubbliche amministrazioni. Prima di passare alla stesura definitiva della traccia dell’intervista che abbiamo utilizzato nel corso dell’indagine, e di cui abbiamo appena ripercorso il processo di strutturazione e l’articolazione interna, si è verificata la sua validità rivolgendoci a due interlocutori privilegiati: due dirigenti, sensibili al tema e al metodo della ricerca, che si sono lasciati intervistare per “testare” lo strumento di indagine. In questa fase di validazione dello strumento ci premeva raccogliere impressioni ed opinioni circa i nuclei tematici introdotti e considerati cruciali, od eventualmente lasciati eccessivamente sullo sfondo o troppo a margine. Ritenevamo importante, inoltre, sondare l’adeguatezza e la comprensibilità del linguaggio usato, onde ridurre il rischio dell’utilizzo di una terminologia che fosse troppo connotata dalla formazione pedagogica dei ricercatori e che, pertanto, poteva risultare poco familiare a chi, a sua volta, appartiene ad un ambito e ad un’organizzazione che ha un “proprio linguaggio”. Non trascurabile era, infine, l’aspetto temporale: ci chiedevamo, infatti, se fosse realmente praticabile un’intervista che, considerata la sua articolazione interna, avrebbe richiesto un tempo sicuramente superiore alle due ore. In seguito a questa prova iniziale di validazione si è potuta constatare, grazie anche alla collaborazione degli interlocutori contatti, la pertinenza e la coerenza dei temi introdotti, nonché la loro completezza (che ovviamente poteva essere “problematizzata” nell’incontro con i partecipanti alla ricerca). Così come non ci è sembrato necessario inserire eventuali modifiche rispetto al linguaggio usato che è risultato più che comprensibile. Si è cercato soltanto di rendere più “agile” la traccia togliendo, a tal proposito, alcune domande che potevano risultare ridondanti e appesantire perciò il clima conversazionale nonché la relazione comunicativa. 17 2.3. I risultati dell’indagine 2.3.1. Area del cambiamento I diversi cambiamenti personali e professionali e i modi in cui il soggetto li ha vissuti con le conseguenti ricadute sulla sua vita e il suo mondo relazionale 2.3.1.1. Ciò che cambia e ciò che rimane come prima Il “lavoro”, campo semantico-pratico sia dell’agire per scopi definiti, sia dell’autorealizzazione professionale e quotidiana, esige e porta con sé la rilevanza della fondamentale valenza del “cambiamento”. La componente empirica della nozione di “cambiamento” si esprime in vicende adattive che rendono materialmente percepibili, e quindi emotivamente misurabili, i momenti della formazione individuale, e, a seguire, della professione del “lavoratore”. Dal confronto col paradigma strutturante del cambiamento, tutti gli intervistati hanno espressamente detto che la loro vita è cambiata con l’entrata nel contesto professionale delle amministrazioni pubbliche e si è plasmata su di esse. Per esempio qualcuno segnala di aver avuto progetti professionali di altro tipo o di essersi inizialmente interessato alla carriera accademica, tuttavia – una volta entrati nelle amministrazioni pubbliche – i dirigenti hanno percepito nitidamente un valore di appartenenza: […] appena laureato, venni contattato a più riprese da un grosso istituto di credito, perché servivo per il loro ufficio studi. Ringraziavo il direttore della filiale di ….: ”non c’è modo che lei mi convinca ad accettare una prospettiva di questo genere, perché ho già un piano ben preciso d’azione, che vorrebbe essere quello della magistratura”, per dire che quella del Ministero del …. era una sorta di area di parcheggio, e che poi si è rivelata essere proprio la mia carriera. E ancora: […] molte delle mie aspettative si sono realizzate quando sono entrato nella pubblica amministrazione; non mi ero posto questo obiettivo, avevo solo la motivazione e la curiosità di lavorare e di intervenire in un settore stimolante. Ciò che colpisce nei diversi colloqui è l’incisività con cui la carriera nelle pubbliche amministrazioni segna il vissuto del dirigente. I dirigenti infatti più volte e in tutte le interviste evidenziano il valore del lavoro nelle amministrazioni pubbliche e esprimono la necessità di una sua ulteriore valorizzazione da parte dello Stato. Valgano a titolo esemplificativo i seguenti stralci: 18 Sono stato più volte tentato dai percorsi privati… e ho avuto più volte richieste, ma la mia vocazione è nello Stato. Oppure: Sapere che si lavora nell’interesse sociale può dare una motivazione superiore rispetto alla gratificazione economica. E di nuovo: E’ difficile individuare una cultura peculiare della pubblica amministrazione, talmente questa stessa è variegata; non c’è una tradizione di forme, semmai esistono continuità di azioni, coerenze nei comportamenti, tradizioni consolidate, atteggiamenti ripetuti, che se sono validi diventano prassi. La vera cultura, se c’è, è l’amministrazione corretta, la discrezionalità, la trasparenza, la neutralità nei comportamenti rispetto ai contrapposti interessi. Ancora: Il senso dello Stato… cioè il senso della funzione del pubblico potere rispetto alla generalità. Se invece per senso dello Stato intendiamo l’attaccamento al potere pubblico è una cosa diversa… Lo Stato ha potere, interesse, ma guarda al bene comune o meglio al bene di tutti e di ciascuno. Chi lavora nello Stato secondo me deve avere questa attitudine, è quello che protegge dalla corruzione del potere. Rispetto al tema del cambiamento, abbiamo riscontrato che esso viene influenzato molto dal modo in cui i singoli dirigenti riescono ad elaborarlo. A questo proposito ci pare chiarificatrice – e rappresentativa rispetto ad altri colloqui – la narrazione svolta da un dirigente che ha spiegato il cambiamento come elaborazione del lutto: Elaborare il lutto. Il cambiamento ti costringe a rimettere in discussione esperienze, affetti, legami… quando cambi devi elaborare lutti. Quando ho lasciato il mondo del sociale… la casa famiglia in cui sono stato per sette anni… ho dovuto elaborare questo lutto. Questa esemplificazione non va letta, secondo noi, in termini esclusivamente psicoanalitici, come potrebbe essere suggerito dall’area di pertinenza del lessico utilizzato, ma come espressione di una capacità di dare senso all’esperienza, di una attenzione alla percezione soggettiva dei mutamenti e dei modi o delle strategie intenzionalmente agite nei diversi vissuti: Bisogna lavorare sulla conoscenza, ma anche sulla consapevolezza, sull’immagine di sé, sui propri tratti psicologici e le proprie motivazioni per creare un profilo dinamico della propria professione e competenza. Ma soprattutto autoconsapevolezza per creare sviluppo di carriera più razionale e autocorrezione. 19 Oppure: Lo studio, cioè la capacità di riflessione sul reale, mi ha aiutato… quella capacità di non fermarsi all’aspetto fenomenico, ma sentirsi altrove pur sentendo di far parte della realtà, anche se stai nella “stanza dei bottoni”. Ci pare di poter dire che questa “capacità riflessiva”, altrimenti riconoscibile come tensione al continuo rapportarsi del pensiero a quegli eventi in grado di generare modificazioni e reazioni o individuazioni di nuovi significati, non appare come segnalata da tutti i dirigenti intervistati, ma emerge prevalentemente dai vissuti o dalle narrazioni di coloro che paiono ricondurre il senso della propria storia professionale ad un portato vocazionale, manifestando di avvertire, quindi, il proprio lavoro come un compito, vissuto e agito nello Stato e per lo Stato. 2.3.1.2. Le origini familiari: determinazione o influenza? Nella maggior parte dei casi gli intervistati hanno mostrato la volontà di minimizzare l’importanza delle loro origini familiari, ammettendo con difficoltà di essere stati “ispirati” dall’esempio di un parente che lavorava nelle pubbliche amministrazioni (sovente il padre, alcune volte un nonno). In molti casi è stata sottolineata la totale estraneità della cultura familiare di provenienza rispetto alla pubblica amministrazione, non senza un conflitto aperto in taluni casi fra le ambizioni dei genitori e la scelta di partecipare ai concorsi per la pubblica amministrazione. In particolare, le tipologie di risposta sono state tre e suddivise in tal modo: a) Una certa influenza (debole) di un familiare nella scelta della carriera nelle pubbliche amministrazioni; b) Nessuna connessione fra la scelta di una carriera nelle amministrazioni pubbliche e la cultura familiare di provenienza; c) Aperta ostilità o comunque perplessità della famiglia verso la scelta del pubblico impiego. Vengono invece considerati fondamentali e determinanti valori e principi morali, spesso insegnamenti impliciti, che la famiglia ha trasferito. Senza dubbio la famiglia di origine, in termini di tradizione culturale e di modelli impliciti acquisiti, riveste una certa importanza. La famiglia infatti è stata raccontata in tutti i colloqui autobiografici come fondamentale (in otto colloqui la famiglia viene esaltata come momento di formazione unico) nell’aver ricoperto un ruolo nella 20 formazione caratteriale individuale, nel suo essere stata influente. A sostegno di questo atteggiamento, si segnalano di seguito alcuni stralci tratti da quattro colloqui diversi, esempi di quanto questa influenza sia da ritenersi “fondativa”: Le mie origini familiari sono state molto importanti soprattutto per la forma mentis che mi hanno aiutato a creare; mio padre era professore e critico d’arte e quindi parlare, viaggiare, conoscere poeti mi ha aperto la mentalità al dibattito costruttivo. Nel mio caso ha influito il fatto di avere entrambi genitori nella pubblica amministrazione, mentre mio marito ha deciso di fare il libero professionista, anche perché con due figli non so come avremmo fatto! Con i nostri amici parliamo di lavoro, anche se solo per riderci sopra, e devo dire che credo mi sarei trovata meglio in un‘azienda, anche se non ne ho mai avuto una diretta esperienza… Mi sono tornati utili tanti elementi delle vicende professionali di mio padre e di mia madre. Vengo da un famiglia piccolo borghese, e non dimenticherò mai le ragioni per le quali esisto; conosco la sofferenza, quindi mi interessano di più i processi immateriali, tra i quali necessariamente il senso di appartenenza allo Stato, il senso filosofico della funzione del pubblico potere. Chi lavora nello Stato deve avere questa percezione. Mio padre era maresciallo di polizia. Ho vissuto in un ambiente statale dove era fortissimo il senso del servizio allo Stato, nonché quello di onestà. In famiglia abbiamo un dirigente d’azienda, un avvocato cassazionista e un professore universitario. Quindi, bene o male, c’è stata una certa tendenza comune in famiglia. Che la famiglia abbia avuto un peso in termini di influenza, piuttosto che di condizionamento è evidente anche dal brano che segue: Mio padre era un funzionario statale, mi ha trasmesso l’attenzione, l’interesse per gli studi giuridici, per l’amministrazione in generale, in particolare per il settore pubblico, rispetto a quello privato; ma non è stato un condizionamento, sono sempre stato libero nelle mie scelte. L’ambito tematico della famiglia rappresenta, comunque, un nodo problematico, contraddittorio. Altri intervistati hanno affermato di non aver ricevuto alcun tipo di sollecitazione dalla propria famiglia. Paiono lontani anche dal tipo di esempi o di modelli, la cui componente condizionante avrebbe potuto sortire effetti di emulazione, i 21 racconti di chi, sollecitato dall’intervista a confrontarsi con l’eventualità di un’influenza familiare nelle scelte professionali, risponde come nei due brani di narrazione riportati di seguito: Le mie origini non mi hanno influenzato molto. Nella mia famiglia c’erano tanti tipi di esperienza: libera professione, ambito pubblico e ambito privato. Nessuno della famiglia ha mai lavorato nella pubblica amministrazione, anche perché mio padre pensava che gli statali fossero assurdi per principio, che lavorassero per compartimenti stagni. Data la tangibile ambiguità del tema, crediamo che al fine di una rilevazione che prenda le mosse da un approccio di tipo autobiografico, non paia rilevante individuare tanto i meriti e le eventuali “colpe” delle scelte professionali operate dagli intervistati, quanto piuttosto di stabilire i limiti, i vincoli, ma anche gli spazi aperti alla libertà individuale nel costruire la propria identità personale e professionale. E quindi dar voce all’emergere e al segnalarsi dei momenti di riflessione, individuazione, percezione autorealizzativa della propria decisionalità e intenzionalità. Il colloquio autobiografico ha avviato, pertanto, la focalizzazione del singolo dirigente in direzione di una rielaborazione tesa a motivare, a dar ragione e contezza delle proprie scelte, contrattandole e negoziandole, nel corso della riflessione e della conseguente narrazione, con i contesti di appartenenza parentale o di condizionamento sociale. In questo senso la comune tendenza a definire il proprio percorso formativo come normale, o avvertito come generalizzato, rispetto all’epoca, al milieu ambientale , all’età (quindi nel confronto con i coetanei), fa ritenere, infatti, che il terreno culturale in cui hanno avuto avvio le scelte ed i percorsi scolastici siano di un livello riconducibile ad una media borghesia, cioè a famiglie con reddito fisso e con una più o meno marcata o riconosciuta vicinanza o abitudine all’istruzione di tipo classico. Questo dato si intreccia con la generale percezione di linearità rispetto agli itinerari di carriera. Pensiamo che l’importanza dell’origine familiare sia da rilevare in questa prospettiva, piuttosto che nella minimizzata espressione di un legame di consequenzialità tra influenza familiare e scelta professionale: la cultura familiare di provenienza può aver generato, in taluni casi, conflitti rispetto alle scelte professionali o aderenza ad aspetti esemplari di familiari coinvolti a loro volta in esperienze di funzione statale. La continuità o discontinuità con eventuali figure di congiunti impiegati nella pubblica amministrazione non registra casi di “ispirazione” o volontà di emulazione, ma 22 sembra tracciare i contorni di un quadro di riferimento da definirsi familiare in senso lato. 2.3.1.3. Le figure morali (maestri e/o anti-maestri) della formazione e della carriera Il dirigente impiegato nelle amministrazioni pubbliche si trova al centro di relazioni molto complesse. Nei colloqui svolti, i dirigenti hanno sottolineato, segnalando le dinamiche interazionali connesse al proprio ruolo, necessità e dimensioni relazionali rappresentabili secondo uno schema che le vede indicate secondo tre nuances di bisogni fondamentali: 1. I bisogni di relazione, con le relative declinazioni (responsabilità, carriera, valutazione), sono universali, appartengono cioè trasversalmente a tutti i soggetti intervistati; 2. Una certa continuità di questi bisogni, la cui soddisfazione non è sufficiente per eliminarli o per appagarli, poiché essi riappariranno con l’intensità della prima volta; 3. Una progressività degli stessi bisogni: se non soddisfatti, si ripropongono con un’intensità crescente fino a causare l’ineluttabile soddisfazione da parte di qualcuno a qualunque costo. C’è chi ravvisa e manifesta una certa necessità di ascolto, di riscontro e di partecipazione: Il che significa anche una certa modalità di gestione del personale… se uno assume il fatto che esiste un legame tra produttività, benessere delle persone e qualità della organizzazione allora il processo di cui bisogna farsi carico non è solo quello organizzativo, ma anche quello di accompagnare chi vive in un certo contesto di lavoro, il che significa anche occuparsi del benessere degli altri… senza paternalismi o atteggiamenti da piccolo padre. Le figure determinanti che i dirigenti narrano di aver avuto o di poter individuare come tali, lungo il percorso della propria carriera professionale, sono state spesso quelle dei “superiori” con cui a vario titolo gli intervistati sono entrati in contatto, sia attribuendo loro valore di esempi positivi – e che ci si propone, perciò, di emulare –, sia in termini di esempi negativi – conferendo a questi ultimi caratteri, caratteristiche, comportamenti o stili di direzione che si desidera e si tenta, nel prosieguo della propria carriera, di non imitare o riproporre. 23 Quasi tutti i dirigenti intervistati, infatti, con diverse sfaccettature, riconoscono un ruolo molto forte e determinante per la propria carriera ad alcune figure “magistrali” che hanno insegnato loro il mestiere soprattutto attraverso l’esempio e la vicinanza. Alcuni mostrano una sincera e calorosa gratitudine verso questi referenti istituzionali e professionali, a cui ritengono di dovere gran parte della loro fortuna e del loro successo, come sintetizzato nei tre stralci che riportiamo: Ho lavorato con un capo legislativo presidente di sezione del Consiglio di Stato, una persona di altissimo livello sul piano giuridico; fu un vero maestro che mi passò l’amore per l’arte giuridica. E’ stato una di quelle figure che, se sei fortunato, incontri e ti formano moltissimo. Credo molto alla “scuola professionale sul campo” Tra i maestri annovero sicuramente il vice direttore generale, poi direttore generale del personale. E’ un funzionario molto tradizionalista, ma anche molto acuto nel suo campo; mi ha dato degli importanti strumenti, il codice di lettura dei comportamenti amministrativi. Da lui ho capito come si fanno le cose, e soprattutto come si possono gestire i conflitti. Conoscerlo è stata un’esperienza molto importante perché era una persona che non faceva dormire sugli allori. Tale rapporto mi ha dato una cultura del risultato e una cultura del tempo. Ho avuto moltissimi maestri. Sono stato meritatamente fortunato. Quando ho vinto il primo concorso, e all’epoca, c’era la riforma tributaria, ho avuto la fortuna di avere sia l’insegnamento, ma anche l’abilità di poter costruire un confronto e un dialogo. Soprattutto ho conosciuto un dirigente che mi ha fatto crescere perché ha visto in me potenziale soprattutto di trasferimento della conoscenza: si era accorto che ero capace di trasferire il sapere e insegnare. Lui mi ha supportato. Il dirigente, attraverso: - l’ascolto - il riscontro - la partecipazione vive un’educazione implicita sul lavoro che genera poi appartenenza alla professione. Questo ci induce a pensare infatti alle pubbliche amministrazioni come ad organizzazioni molto ricche di “nozioni implicite”, che formano indirettamente perché apprese attraverso norme non scritte, ma grazie all’apprendistato diretto e quotidiano. Queste pratiche implicite appaiono come una sorta di “iniziazione” che solo un maestro può gestire, guidando il giovane o meno giovane dirigente: 24 La mia esperienza è iniziata faticosamente per via di un dirigente “vecchio stampo”, che ragionava, non so se a torto o a ragione, pensando che il funzionario dovesse formarsi a partire dai gradini più bassi, dai servizi più umili, tipo la protocollazione degli atti, ecc, ecc...questo io al momento non lo capii e non mi diedi spiegazione logica. L’ho compreso più tardi: quell’esperienza mi era servita per conoscere innanzi tutto tutti i servizi e quindi per poter anche familiarizzare col personale, dall’usciere, al collaboratore diretto. Molti hanno ripetuto che la pubblica amministrazione possiede le sue regole, le sue specificità, i suoi “segreti” utili per consentire una sopravvivenza al suo interno. In questo luogo misterico, iniziatico, il maestro è colui che introduce a tali tecniche implicite – come riportato nello stralcio appena sopra – della professione di dirigente nelle amministrazioni pubbliche (una specie di “codice di lettura dei comportamenti”) e da ciò deriva un forte attaccamento, un senso di filiazione, di discendenza professionale. Alcuni hanno anche individuato i loro “anti-maestri”: Se devo rispondere direi tanti anti-maestri, dissapori con i colleghi. Non ho particolari figure di riferimento. Ho visto però esempi notevoli che avevano un grande senso dello Stato che ho adottato come modelli di professione. Figure di anti-maestri parecchie… l’amministrazione finanziaria è piena di anti-maestri fin da quando ero ufficiale di complemento. Per esempio il mio comandate di compagnia fu un antimaestro per me, perché era autoritario: comandava solo con l’imposizione del potere e quindi in realtà non comandava la struttura… se non con la forza. Cattivi maestri davvero tanti, ma sicuramente sono stati una palestra, anche loro insegnano delle cose. Ricordo che una cosa che mi colpiva parecchio era quando venivi mandato a fare un’indagine e non capivi, perché apposta non erano chiari, se eri strumento di legalità o di illegalità. La figura dell’anti-maestro si lega quindi ai colleghi oppure a capi che fanno proliferare le ingerenze politiche: […] ho avuto parecchi scontri con i vertici e siccome ho cambiato spesso sede anche con il personale interno, non ho mai ricevuto solidarietà dai colleghi. In particolare ricordo un episodio, quando sono stato trasferito a Reggio Emilia nell’ufficio in cui andai c’erano a mio avviso parecchie cose che non andavano a partire dalla segretaria. Così la feci rimuovere. Fu un errore, perché questa era amica del precedente dirigente che aveva ancora la sua influenza e che era amico del Direttore Generale. Il Direttore mi mandò a chiamare e la fece tornare in sede, poi ebbi altri spiacevoli vicende,,, a livello personale che non è il caso di raccontare, ma mi creda è stato un periodo molto duro. Per cui i miei maestri sono stati esempi negativi della vita professionale 25 che mi hanno fatto vivere a volte la professione con risentimento. Certo non ho mai avuto solidarietà dai colleghi. 2.3.1.4. Cosa è il cambiamento e cosa significa cambiare I dirigenti che nelle loro storie hanno raccontato i vari cambiamenti vissuti, le trasformazioni di ruoli, i passaggi di carriera, i cambiamenti di posizione, i trasferimenti in altre situazioni lavorative, valutano questi processi secondo una duplice modalità. Da una parte i cambiamenti sono accolti in modo naturale, spontaneo, come se fossero quasi doverosi: Il cambiamento significa spinta e adeguamento non verso il nuovo tout court, ma verso ciò che di positivo c’è nel nuovo, senza peraltro mai rinnegare gli insegnamenti positivi che si traggono sempre dal nostro passato. I cambiamenti in questa declinazione sono un semplice gradino in più della scala. Ed in questa naturalità vengono interpretati come eventi di trasformazione positivi (e riportati e raccontati come: “possibilità”, “opportunità”, “arricchimenti”) privi di problematicità, di drammaticità o stress tanto da essere cercati perché intesi secondo una chiave di lettura evoluzionistica, in cui il cambiamento è sempre visto come portatore di novità. Per me il cambiamento è una disponibilità a innovare gli schemi tradizionali dai quali si proviene, quel sistemi di regole e strumenti organizzati che compongono la nostra struttura aprendosi a nuovi modelli culturali diversi. Anche creando soluzioni originali, laddove sia necessario. Il cambiamento è il non avere vincoli nei confronti dell’innovazione tenendo saldo i principi etici. Ritengo che i cambiamenti siano utilissimi, purché ci sia corrispondenza di livello, di funzione; che non sia una mortificazione. Quando i passaggi sono coerenti, legati alla professionalità acquisita, il cambiamento fa parte di un continuum e diventa importantissimo. Tuttavia, i cambiamenti sono intesi anche secondo criteri critici. Infatti, i vari dirigenti si rendono conto che è necessario “mutare”, che il nuovo offre loro i mezzi per apprendere altro, ma solitamente la possibilità di dover intervenire su consolidate abitudini e radicate routines provoca paura e angoscia: 26 “Paura… Il cambiamento oggi non mi piace. Mi fa paura…” Il cambiamento è così vissuto attraverso rappresentazioni negative che rifiutano un suo accoglimento totale. Esso danneggia il benessere dell’individuo o dell’organizzazione. Porta il soggetto in una zona di disagio in cui egli è “costretto” ad andare verso una direzione diversa da quella prevista. Oggi la cosa che mi pesa di più è perdere le mie competenze… ho vissuto male questi cambiamenti ogni volta che ci sono stati. Cioè mi sembra una grande perdita, uno spreco enorme, non poter esercitare più certe competenze quando cambi mansioni, uffici, amministrazioni. I cambiamenti, comunque, seppur narrati come perturbazioni della vita individuale, a volte anche come traumi, sono sempre contingenze transitorie e assumono la valenza di occasioni “per adeguarsi ad una situazione nuova” e dalle quali poter trarre il maggiore beneficio possibile. Questa capacità di elaborare il cambiamento si lega, come già detto, ad un’“attitudine riflessiva”: […] un grande regalo della mia formazione filosofica: la capacità di individuazione dei nodi critici tentando di dare delle risposte culturalmente congrue rispetto ai problemi. Non mi sono mai depotenziato intellettualmente di fronte ad un problema, ma ho cercato di cogliere la possibilità di lavorare nel pubblico per aggredire quei problemi. 2.3.1.5. Il vissuto legato ai momenti critici della professione Il concetto di mutamento e di crisi che abbiamo riscontrato nei dirigenti appare duplice. Da una parte si profila un vissuto di caduta: una sorta di sconfitta, narrata come esperienza che lascia il segno nel proprio percorso di vita lavorativa. Un cadere che può diventare crisi nel momento in cui coinvolge dinamiche relazionali che producono in taluni casi frustrazioni di carriera. I dirigenti hanno segnalato vari gruppi di esperienze negative. Tra i più frequenti riportiamo: - le invidie dei colleghi Viene per esempio narrato: Mi pesa quando percepisco che per invidia una persona viene manipolata. 27 - le ingerenze politiche, come nelle due testimonianze che seguono: I momenti critici nel mio percorso sono stati legati o a ingerenze politiche o problematiche personali che potevano venire o dall’alto o dal collega perché si innescano momenti di conflittualità. I momenti più critici, più negativi sono stati quando mi è stato praticamente chiesto di farmi da parte per lasciare posto a qualcuno che intratteneva rapporti amicali stretti con qualche personaggio importante e, ad aggravare il tutto, usando scuse e giri di parole. - le incomprensioni o l’incompetenza dei superiori. Qualcuno parla di: Ho vissuto un momento di particolare delusione quando ho elaborato una memoria del consiglio di Stato; mi è stata rovinata da un dirigente con una lettera, per giunta scritta in un pessimo italiano. Tuttavia è finita bene. - il mancato riconoscimento della propria professionalità. C’è chi denuncia: I momenti difficili all’interno della PA per me sono quelli in cui la mia professionalità non viene riconosciuta dal mio ambiente di lavoro. Ma sono serena: so quanto valgo e questo mi fa sentire serena. … nel 99 sono stato messo a disposizione del ruolo unico……. Poi nel marzo 2001 sono stato ripescato dal Ministero de ……. e credo che ciò sia avvenuto per motivi di anzianità perché non c’è stata altra ragione per la chiamata…. Queste amarezze, spesso indotte da “piccolezze” e “grettezze” umane, hanno però un lato positivo nelle parole dei nostri intervistati: svezzano alla professione e fanno crescere. Come esemplificato in un’intervista: Un momento critico l’ho vissuto quando ho dovuto gestire due inchieste a mio carico. Furono promosse per invidia, su cose assolutamente infondate e benché vissute non molto bene a livello personale, ho subito reagito. Ho contato molto sul mio carattere. I dirigenti tendono quindi a dare un concetto sfumato di crisi che, in questo 28 senso, assume quasi i connotati di una rimozione. Abbiamo però notato che in tutti vi è stato il palese tentativo di elaborare la crisi attraverso processi di autodirezione che sembrano abbreviare nel tempo i momenti negativi. Come detto da un intervistato: “Ho superato le crisi, con pazienza e andando avanti nel convincimento dell’esercizio di un’azione svolta in aderenza ai miei principi”. E ancora qualcuno (lo abbiamo già citato per la sua significatività) sottolinea l’importanza dello studio, nella sua qualità di attitudine riflessiva, come strumento di soluzione della crisi stessa: Lo studio, cioè la capacità di riflessione sul reale, mi ha aiutato… quella la capacità di non fermarsi all’aspetto fenomenico, ma sentirsi altrove pur sentendo di far parte della realtà, anche se stai nella “stanza dei bottoni”. 2.3.1.6. Le risorse determinanti nei momenti critici Le risorse, prevalentemente interiori, che hanno consentito ai soggetti intervistati di superare i momenti critici - che, ricordiamolo, sono legati prevalentemente ai seguenti fattori: ingerenze politiche o dei superiori, conflittualità tra colleghi, perdita di identità professionale dovuta ai cambiamenti strutturali e senso di inadeguatezza rispetto ai compiti o alle conoscenze necessarie per adempierli - si ricollegano ad alcune caratteristiche caratteriali tra le quali predominano la determinazione, la tenacia e una certa emotività “rabbiosa” che genera la volontà di “rimboccarsi le maniche” per andare avanti. A fronte di tale fermezza, altri atteggiamenti possono produrre comportamenti di più deciso equilibrio, segnalandosi in pacatezza, serenità, riflessione; tolleranze che qualcuno si spinge a definire “capacità di soffrire” , una sorta di imperturbabile capacità di consentire il superamento dei momenti difficili attraverso la distensione. In un solo caso la via della soluzione di una crisi ha visto emergere un contributo esterno, non autoriferito o autoderivato: “ … Grazie all’entusiasmo e alla fiducia dei collaboratori ho superato tutte le fasi difficili …” 29 Le risorse interne sono state raccontate come situazioni che devono collimare con l’organizzazione e che trovano il giusto valore solo nella misura in cui il contesto di riferimento fornisce riscontri. A fronte di tali atteggiamenti si segnalano le esplicitazioni di disagio derivanti dal mancato incontro tra la propria adeguatezza nel ricorrere alle capacità o alle competenze personali, all’interno di contingenze problematiche, e la suggevolezza, o meglio, l’intermittenza dello scorrere della propria strada professionale, che molto spesso deve confrontarsi o scontrarsi con durate sincopate degli incarichi dirigenziali o con antinomiche polarizzazioni tra riforme e controriforme che vedono mutare scenari di azione e investimento del “soggetto lavoratore” nelle amministrazioni pubbliche. Tra le variabili dell’esercizio della responsabilità politica e dell’appartenenza ad un ruolo decisionale, si vede, a volte, qualcuno indugiare nel rimpianto di un’icona, che pur segnalata come vetusta, autoreferenziale, inadatta al tempo odierno e rappresentativa di un sistema superato di amministrazione rigida e faraonica, si configura tuttavia come simbolo stabile e potente, in contrasto con la variabilità e l’evanescenza attuale. Quasi segnalandola come risorsa e fonte di continuità e costanza, gli intervistati si soffermano sull’ osservazione dell’imprescindibile coinvolgimento personale nella cosa pubblica, che si manifesta, sostanzialmente, in due componenti che ci sembra di poter definire come attitudini: lo studio e la riflessione. Lo studio, inteso latinamente come impegno, fatica, laboriosa attenzione rivolta alla propria professione, si declina nella capacità percettiva, nell’inclinazione a soppesare, valutare, ponderare e pensare alla propria vicenda professionale, così intrecciata all’attività, al negotium pubblico. In un colloquio tale disposizione si configura e viene direttamente presentata come fantasia costruttiva, che sembra ricoprire importanza cruciale nella costruzione della professionalità dirigenziale e nella conseguente riuscita in termini di carriera. Si segnala dai colloqui: Mi hanno favorita la grinta, il fortissimo senso del dovere, l’attaccamento al lavoro e l’aver studiato molto; mi è sempre piaciuto ed ho sempre cercato di farlo bene, approfondendo ciò che studiavo. E ancora: 30 Una caratteristica che mi ha favorito nel mio lavoro è lo sforzo di utilizzare una fantasia costruttiva, non limitarmi all’analisi e alla gestione del presente ma cercare di prevedere l’impatto di una riforma, i possibili problemi che questa può incontrare, lo studio attento della sua fattibilità, delle alternative preferibili. Poi un atteggiamento sereno, imparziale, scientifico di giudizio ed un atteggiamento dialettico e costruttivo che cerca di coinvolgere attivamente gli altri, di collaborare, di non gestire in modo centralizzato. Nel settore più strettamente gestionale la diplomazia nei rapporti, l’utilizzo di fiuto e buon senso A conferma del forte senso di appartenenza già evidenziato, e come conseguenza delle competenze e predisposizioni di attinenza e coinvolgimento alla cosa pubblica, si segnala un altro elemento che ricalca e conferma la motivazione e lo stretto rapporto tra successo personale e successo dell’organizzazione: è la passione. Alcuni dirigenti hanno fatto notare come il credere nel proprio lavoro con dedizione, attaccamento e passione costringa a esporsi molto: Credo nel mio lavoro, e infatti mi espongo in prima persona. Il forte compiacimento derivante dalla percezione della propria partecipazione al processo di regolazione e riforma può talvolta vedere tale esposizione trasformarsi, da forza costruttrice, in elemento destabilizzante. Come emblematicamente esplicitato in un colloquio: Io sono molto appassionata, e se da un lato questa caratteristica comporta dei vantaggi, d’altra parte costituisce un limite. La passione molte volte ti conduce a giungere a tutti i costi a dei risultati, e il mio ottimismo mi conduce a pensare che ci arriverò. Per quanto riguarda i conflitti, dovrei gestirli in modo più calmo. 2.3.1.7. La soddisfazione legata alla carriera Durante le interviste è emerso da parte di tutti i dirigenti la necessità di realizzarsi attraverso la professione. I dirigenti infatti associano la loro dimensione di senso soprattutto allo Stato e alla cura della “Cosa Pubblica”. Il quadro in cui sembra inserirsi sia l’ambito delle competenze proprie di un ruolo dirigenziale in ambito squisitamente pubblico, sia gli investimenti e le passioni personali rappresenta, relativamente al confronto con la componente variabile, ma paradigmatica del cambiamento, la ricerca, da parte del dirigente, di un continuo e ragionato e personale bilanciamento tra domini etico-morali personalistici e domini 31 pubblici. Se la prima modalità si misura come passione e fedeltà ai propri principi, rispetto ad una valutazione critica e culturale dell’appartenenza al sistema-Stato, il senso dell’agire politico, normativo o anche meramente esecutivo si configura e si rende esprimibile nell’adattamento al cambiamento. Qualora la costante soggettiva di bilanciamento tra convinzione e responsabilità permetta alla passione di trovare nella prassi il proprio dominio, questa si configura, oltre che come una sorta di competenza trasversale a tutte la altre, e cioè alla capacità di sintesi e mediazione (in grado di far convergere livelli di astrazione appartenenti alla sfera dei valori, dell’etica, dei desideri e della programmazione, con manifestazioni e problematiche estremamente quotidiane, concrete e tangibili), anche come una soddisfazione esperienziale ed esistenziale manifestata con compiaciuto orgoglio da parte degli intervistati. I bilanci raccolti dalle interviste svolte mostrano in genere percorsi di soddisfazione di carriera, di riuscita anche esistenziale raggiunta solo “con le proprie forze”. Il disagio, quando e se compare, si manifesta per la realizzazione ottenuta: L’esercizio di una assunzione di responsabilità è una cosa particolare… non so come dirle ma io non ho dato una direzione alla mia vita per raggiungere certi scatti di carriera, ho vissuto un processo di induzione alla carriera perché è sempre prevalso l’interesse alle cose e di saperle bene non come tutti gli altri. Ho avuto spesso l’idea che io stessi superando qualcosa… l’idea di andare su territori mai percorsi prima… primo della mia famiglia a laurearsi… insomma molte cose sono capitate. Non c’è bisogno dell’ascesi, ma un po’ di ascesi ci vuole. Alcuni dirigenti, a volte, ammettono che potrebbero “ottenere di più” se solo si “rimettessero in gioco”: Ho ancora molto da fare… sono contenta delle scelte che ho fatto. Ma dopo questi 10 anni ferma in un posto, soprattutto per la mia famiglia, comincio a sentire di poter fare di più. La voglia di ri-cominciare, di dare di più fa quindi comparire nella narrazioni un certo disagio, una segnalazione di un aspetto che richiede maggiore studio, dedizione. Altri dirigenti poi parlano di “delusioni” personali o relazionali all’interno del contesto di lavoro. Altri ancora lamentano ingerenze politiche nella loro carriera: […] ho visto persone passare davanti a me che avevano molti meno meriti di me… per vari motivi loro sono andati avanti e io sono rimasto qua. Non sono soddisfatto della mia carriera. 32 I momenti critici nel mio percorso sono stati legati o a ingerenze politiche o problematiche personali che potevano venire o dall’alto o dal collega perché si innescano momenti di conflittualità. Altro aspetto negativo di questo passato, evidenziato da molti, è come già detto, la fatica di conciliare la vita familiare, e anche amicale, con quella professionale. Solo qualcuno vanta la riuscita di questa difficile convivenza: Tutti gli obiettivi che mi sono posta dopo la laurea hanno seguito una certa continuità, tranne alcune attività di maggiore intraprendenza, cose che comunque non mi hanno impedito di avviare e percorrere progetti di tipo anche familiare, raggiungendo gli obiettivi anche personali. I bilanci tracciati, sfociando nei progetti che i dirigenti esprimono relativamente al loro futuro, appaiono legati non tanto alle prospettive di carriera, ma anche e soprattutto al desiderio di una realizzazione ulteriore che il soggetto può raggiungere attraverso la dimensione lavorativa: […] il momento non è particolarmente brillante per me… mi sento in grado di dare cose a questa agenzia… allo Stato. Sono soddisfatta dei risultati conseguiti e di tutte le esperienze professionali acquisite. Contemporaneamente cerco di trovare soluzioni alternative in ciò che mi si presenta quotidianamente. 2.3.2. Area delle competenze Le diverse caratteristiche personali e professionali che i protagonisti della ricerca ritengono di possedere rispetto alla loro professione e rispetto al tema della “dirigenza”, con le ricadute nella vita organizzativa e nel rapporto con l’organizzazione 2.3.2.1. I tratti distintivi del dirigente Quali competenze si attribuiscono i dirigenti che abbiamo intervistato? L’analisi delle risposte alla specifica domanda sulle competenze ideali di un dirigente pubblico e su quelle possedute, in particolare, dai soggetti intervistati mette in evidenza due approcci diversi. I due approcci sono: - uno di tipo tradizionale che identifica le competenze con il dominio delle procedure amministrativo-contabili e con le conoscenze giuridiche; 33 “Nella mia professione è indispensabile una forte competenza nel settore amministrativo; la conoscenza dei suoi meccanismi, delle procedure, della contrattualistica pubblica..” “Secondo me non si può prescindere da una solida preparazione giuridica, anche se si proviene da studi economici o di altro tipo. La norma è comunque il nostro punto di riferimento ed è lo strumento centrale per la difesa dell’interesse generale. Gli aspetti giuridici sono centrali …. Senza sottovalutare gli aspetti contabili…” - l’altro sembra privilegiare le competenze manageriali quali la capacità decisionale e operativa, la capacità di risolvere i problemi, il governo dell’informazione, la flessibilità: “…. La capacità di adattamento …. la capacità di produrre, nel modo più rapido possibile, risultati operativi …..credo che un'altra caratteristica sia la comunicazione permanente: informare tutti delle cose che riguardano il lavoro...” Emerge inoltre l’importanza attribuita al “corretto funzionamento” delle relazioni di ruolo che determina il clima di lavoro. Sembra infatti che un buon dirigente pubblico non possa prescindere oggi dalla necessità di saper creare e portare avanti buone relazioni interpersonali, che vanno calibrate in base ai diversi ruoli gerarchici e al tipo di cultura organizzativa. Tanto è vero che qualcuno indica come competenza specifica quella di sapersi relazionare efficacemente con gli altri: “ …. A parte le competenze di carattere amministrativo, giuridico e legale, direi la capacità di rapportarsi agli altri e la capacità di correggersi, di modificare i propri comportamenti …” “ …. ci sono caratteristiche più personali come la capacità organizzativa, la capacità di motivare il personale incentivandolo, saper rendere partecipe ognuno come fosse un attore indispensabile, anche quando non si è interamente convinti del suo valore professionale. E ancora riuscire a creare un gruppo di lavoro compatto che collabora, coordinato dal vertice ma che sente l’unitarietà del lavoro.Questo è il percorso che ho cercato di fare io, convocando riunioni periodiche di dirigenti, condividendo con loro esperienze anche in settori diversi ed è un valore che cerco di passare anche a loro; questo aspetto di cura, di mentoring è importante per me, forse proprio per il tipo di formazione che ho ricevuto …” 34 Evidentemente il rispetto di ruoli gerarchici molto ben definiti impone un tipo di relazionalità basata sullo scambio messo in evidenza dalla riflessione psico-socioanalitica: Genitore/Bambino. Tuttavia, oggi anche le pubbliche amministrazioni stanno passando da una cultura burocratico-amministrativa a una cultura più basata sulla delega e l’impegno personale, una visione più adulta dell’organizzazione dove non ci sono genitori e bambini, ma soggetti autonomi in una relazione di interdipendenza. Come espresso in questi due stralci di intervista: “… non basta essere all’apice di un sistema e esercitare un potere per produrre risultati di cambiamento, ma occorre ridisegnare i percorsi di carriera, i processi formativi, le logiche e le strategie di governo…” “ … Preparazione giuridica e preparazione manageriale … sono complementari. Il manager pubblico deve essere un manager amministrativo e un manager del personale, principalmente. Senza sottovalutare gli aspetti contabili, che a me non sono familiari ma che sono importantissimi. Ci vuole una cultura dei controlli di gestione. Bisogna inoltre familiarizzarsi con le tematiche sindacali, inevitabilmente. Quindi è un quadro di competenze molto variegato. In più, ciò che manca molto oggi è l’abitudine al confronto con altre realtà, soprattutto con altri sistemi pubblici statali. Noi ne sentiamo parlare ma in realtà non conosciamo le amministrazioni pubbliche di altri paesi, c’è solo un sentito dire, non una conoscenza scientifica comparativa ...” La necessità di integrare la preparazione tecnica (giuridica, economica, contabile, etc) con le competenze di tipo più manageriale, quali la gestione dei processi, l’analisi e la soluzione dei problemi, la presa di decisioni in modo coerente e veloce, è fortemente sentita. Pochi ricollegano le caratteristiche di un dirigente alla “capacità di lavorare finalizzando l’azione all’obiettivo”; infine, uno solo, introduce una distinzione basilare tra il dirigente in senso stretto e il professional: “ … per la maggior parte delle posizioni non si richiede una preparazione iperspecialistica, mentre certamente è richiesta una consapevolezza della missione istituzionale. Io non sono fra quelli che ritengono che il dirigente di base possa essere facilmente sostituibile. Per questo è necessario condividere lo stesso modello culturale …” I più giovani si rendono conto di quanto sia importante il gioco di squadra e ritengono che le competenze cruciali siano legate alla capacità di interpretare i bisogni e di innovare. 35 “ … Lavorare in gruppi di lavoro, capire le problematiche. Avere attenzione verso la customer satisfaction, essere innovativi… ma sono cose queste che ancora oggi a volte non vengono capite. Io credo che le organizzazioni di successo e di eccellenza devono essere innovative, perché devono rispondere a richieste che cambiano sempre… “ I soggetti intervistati ritengono che la dirigenza pubblica oggi, oltre a dover necessariamente avere una solida preparazione tecnica e prevalentemente giuridica, deve possedere anche altre competenze come: − capacità di risolvere i problemi (problem solving); − capacità di gestione delle risorse umane; − capacità di motivare i collaboratori; − attitudine all’autoriflessione; − capacità manageriali e operative, anche per la gestione ordinaria; − capacità decisionale; − capacità di assumersi le responsabilità in proprio, di farsi carico del proprio ruolo pubblico con equilibrio; − capacità di dialogo, di comunicazione e di coordinamento; − capacità di gestione dei gruppi, dei team; − capacità di ottenere consenso, piuttosto che di imporre decisioni; − capacità di premiare i migliori; − capacità di mantenere rapporti chiari, trasparenti e corretti con i dipendenti; − saper ascoltare i funzionari anziani e sfruttare la loro esperienza per capire la memoria storica di un ufficio; − mantenere il disinteresse e l’obiettività del servitore dello Stato; − adempiere ai propri compiti avendo come riferimento ultimo il cliente-cittadino; − favorire l’innovazione e la progettualità all’interno del proprio ufficio; − capacità di adattarsi ai continui cambiamenti di orientamento politico; − disponibilità all’aggiornamento continuo. In sintesi, i protagonisti della ricerca si rendono conto che vengono loro chiesti comportamenti volti ad assumersi una certa dose di rischio e di responsabilità nel processo decisionale; un atteggiamento meno rigido; un’attitudine all’iniziativa personale; un orientamento alla cultura del servizio al “cliente interno” e “esterno”. Per 36 questo, se dovessimo trovare tre macro aree in cui inserire tutte le competenze precedentemente elencate, dovremmo individuare le seguenti: COMPETENZE “TECNICHE” − − − − − − − Problem solving Favorire l’innovazione e la progettualità all’interno del proprio ufficio Solida preparazione tecnica e giuridica Capacità manageriali e operative, anche per la gestione ordinaria Capacità decisionale Adempiere ai propri compiti avendo come riferimento ultimo il cliente-cittadino Capacità di interpretare i bisogni COMPETENZE RELAZIONALI − − − − − − − − Gestione risorse umane Motivazione dei collaboratori Ascolto dei funzionari anziani e utilizzo della loro esperienza per capire la memoria storica di un ufficio Capacità di dialogo, di comunicazione e di coordinamento Capacità di gestione dei gruppi, dei team; Capacità di ottenere consenso, piuttosto che di imporre decisioni Capacità di motivare i dipendenti e di premiare i migliori COMPETENZE "FILOSOFICHE" (METACOMPETENZE) − − − − − Autoriflessive Capacità di assumersi le responsabilità in proprio, di farsi carico del proprio ruolo pubblico con equilibrio Capacità di adattamento Disponibilità all’aggiornamento continuo Mantenere il disinteresse e l’obiettività del servitore dello Stato Mantenere rapporti chiari, trasparenti e corretti con i dipendenti 2.3.2.2. Aggiornarsi sempre: tra stress per il cambiamento ed entusiasmo per il nuovo La volontà di apprendere sempre, sia dalle situazioni professionali che personali, è una delle caratteristiche che abbiamo riscontrato: [Conoscere cose nuove]… Assolutamente sì… soprattutto oggi che per vari motivi siamo nell’occhio del ciclone… Questa mia struttura è nuova e si confronta con modificazioni costanti, non siamo noi i protagonisti… non siamo noi che chiediamo di riscrivere l’articolo 18 o la sua modifica… per cui bisogna sempre conoscere cose nuove. E ancora: Credo che un dirigente non debba mai rimanere nello stesso posto per più di due anni, perché ciò causa un errato rilassamento. E’ giusto conservare l’entusiasmo per le novità. In bilico tra stress da cambiamento continuo e entusiasmo delle novità, i dirigenti intervistati si confrontano con la necessità di formazione permanente e di 37 governance delle relazioni complesse che si creano nel rapporto individuo/organizzazione/gruppo di lavoro. In questo senso appare chiaro come l’efficacia e il successo del servizio pubblico dipende da un buon equilibrio tra le caratteristiche, i valori, gli interessi, le storie delle persone che lavorano nelle pubbliche amministrazioni e le richieste/aspettative di formazione legate allo specifico contesto organizzativo: Mi piacerebbe che le amministrazioni pubbliche facessero dei corsi di aggiornamento, di qualificazione, come nelle imprese private; invece siamo autodidatti. Un dirigente è una risorsa, un investimento, e bisognerebbe valorizzarlo. Dovrebbero farci corsi seri di gestione del personale, io ne sento francamente un grande bisogno, finora mi sono inventata un po’ da sola la gestione del personale. Non ci dovrebbero lasciare così soli… I bisogni di formazione emersi durante le interviste possono essere così catalogati: - formazione tecnica (considerata dai dirigenti facilmente reperibile); - formazione culturale, tesa a fornire nuovi strumenti per interpretare meglio contesti e processi di lavoro (considerata dai più come difficile da reperire); - formazione relazionale, tesa a fornire la conoscenza delle complesse dinamiche dei rapporti organizzativi tra gli individui e i diversi contesti di lavoro (considerata rarissima). In una logica di risposta alle molteplici richieste di cambiamento provenienti dall’ambiente esterno, i dirigenti ritengono che le politiche innovative nelle pubbliche amministrazioni, oltre a focalizzarsi sulla soddisfazione del cliente esterno, dovrebbero iniziare ad avere maggiore attenzione verso la cosiddetta “employee satisfaction”, la soddisfazione del dipendente visto come protagonista dello sviluppo interno. Abbiamo registrato anche una netta prevalenza di giudizi favorevoli ad una gestione aperta, trasparente ed esplicita dei conflitti all’interno delle strutture poste sotto la loro guida. Lo strumento indicato più spesso è la riunione settimanale fissa nella quale far emergere qualsiasi tipo di problema e di conflitto interno (anche personale). Durante queste riunioni l’ufficio elabora collettivamente le strategie migliori per il futuro, con il coordinamento del dirigente che in ogni caso si assume la piena responsabilità delle decisioni prese. In molti casi abbiamo notato l’emergere di una formula basata sulla polarità responsabilità/autonomia, con crescenti sforzi di democratizzazione e di condivisione delle decisioni all’interno di gruppi di lavoro. 38 Quindi maggiore collegialità, ma senza abusi e senza retorica del “gruppo”. In generale vi è una forte attenzione agli aspetti emotivi, affettivi, familiari, psicologici dell’attività lavorativa. Molti dirigenti, egualmente distribuiti fra donne e uomini, hanno sottolineato l’importanza di una buona qualità dei rapporti umani e affettivi sul luogo di lavoro, al fine di potersi comprendere reciprocamente per condividere le scelte dell’ufficio e per correggere la rotta di volta in volta. 2.3.2.3. Dirigenza pubblica e privata: differenze e somiglianze Sono più le differenze che le somiglianze a contraddistinguere il lavoro nel settore pubblico. La maggiore differenza è individuabile principalmente nella diversità e nei modi di perseguimento degli obiettivi. Il privato tende al profitto; mentre il pubblico si mette al servizio dello Stato e della collettività: […] credo che ci siano similitudini, ma che le differenze siano molto maggiori. Oggi si fa un gran parlare di management nel pubblico, ma temo che sia un modo per dimenticare il senso dello Stato di cui parlavamo prima. Un manager privato può anche non averlo, nostra caratteristica distintiva invece è questo senso dello Stato, senza di esso non siamo altro che semplici commessi. C’è quindi nel vissuto degli intervistati un profondo sentimento di diversità di scopo dell’attività istituzionale rispetto a quella aziendale; emerge anche la consapevolezza dei diversi livelli di autonomia per il raggiungimento degli obiettivi: Non so se posso definirmi un manager, ma decisamente sento di differirne rispetto al senso di appartenenza all’istituzione. Mi considero aperto agli strumenti manageriali. Rispetto ad un’azienda godo di maggiore consenso; ci sarebbe da discutere sul fatto che la pubblica amministrazione trascura da molto tempo questo aspetto. Bisognerebbe razionalizzare la dedizione, ossia promuovere delle politiche atte a valorizzare quest’aspetto del dipendente pubblico. Le aziende in questo sono più avanti, perché tendono a dare premi economici. Ciò è paradossale, perché la pubblica amministrazione avrebbe tutto il materiale a disposizione; credo si potrebbe ovviare innescando una serie di atti responsabilizzanti. Se i protagonisti della ricerca celebrano giustamente questo nobile senso dello Stato che dovrebbe contraddistinguere chi lavoro nel pubblico e per il pubblico, nello stesso tempo essi sottolineano le caratteristiche negative di un eccesso di “statalismo”. Un eccesso che si fa vivo nel momento in cui prevalgono le ingerenze di ordine politico: 39 […] le ingerenze politiche nella PA sono grandissime non paragonabili a quelle che avvengono anzi non avvengono nel privato. Abbiamo molte cose da imparare dal privato, ma anche il privato deve imparare da noi… Io ho alcuni dirigenti che potrebbero essere paragonati a manager di imprese private per l’informalità con cui lavorano e le competenze che hanno… Nel settore pubblico ci sono maggiori condizionamenti, quando cambia il ministro, con lui cambiano alcuni collaboratori e si perde in continuità, in stabilità ed in qualità. Non mi sento diverso da un manager di aziende private se non per la maggiore responsabilità relazionale che credo di avere; ad ogni mossa ci si sente controllati da Ministro, Sottosegretario, Capi di Gabinetto; si è meno liberi e si deve sottostare a tanti tipi di compromessi perché i passaggi obbligati per ogni atto o progetto sono numerosi.” In generale emerge la sensazione della maggiore libertà goduta da un dirigente che lavora nel mondo del privato rispetto ad un dirigente pubblico: “Credo che i manager di aziende private siano più liberi, meno condizionati, rispondono per ciò che producono e, in base a questo, vengono valorizzati. C’è perciò una valutazione più oggettiva del loro lavoro e si cerca maggiormente la qualità e l’efficienza del personale per avere risultati immediati. Qualcuno ha infine messo in evidenza una tendenza che si sta diffondendo anche nelle pubbliche amministrazioni: un orientamento ai risultati e una maggiore responsabilizzazione personale nel raggiungimento degli obiettivi. 2.3.2.4. Quale cultura peculiare per le pubbliche amministrazioni? La cultura di un’organizzazione è la somma degli atteggiamenti degli individui che la compongono, ma soprattutto delle interpretazioni che gli individui danno dei modi e dei processi di lavoro presenti in un determinato contesto. I dirigenti intervistati, di fronte alla necessità di definire la loro cultura di appartenenza, hanno mostrato qualche difficoltà; secondo alcuni la pubblica amministrazione non ha una cultura peculiare sua propria o comunque non ha una cultura sola, si caratterizza invece per un’eterogeneità culturale molto elevata che, negli ultimi decenni, ha aderito a tre diversi modelli: 1. Il primo corrisponde al vecchio modello che qualcuno ha definito “faraonico”. 40 E’ rappresentato dal burocrate che può tutto, fa riferimento solo a se stesso, non si cura del cittadino, né del servizio di cui è responsabile. 2. Il secondo è quello del dirigente “mediatico”. E’ questa la cultura prevalente a partire dagli anni ’80. L’enfasi è posta sulla comunicazione e sulla cultura mass-mediatica. Tale modello culturale ha aperto il dirigente al mondo esterno, nel senso di renderlo più sensibile all’immagine, ma non ha scalfito la sua autoreferenzialità. 3. Il terzo è quello del dirigente “manager”. E’ questo il modello culturale che sta tentando di prevalere oggi; l’attenzione si è finalmente spostata sul cittadino inteso come cliente che ha diritto di ricevere una prestazione di servizio dalle pubbliche amministrazioni. Abbiamo quindi notato una consapevolezza diffusa di questi cambiamenti, ma anche una certa disillusione rispetto al prevalere effettivo del terzo modello. Le ragioni di tale disillusione vengono fatte risalire ad alcuni meccanismi di forte dipendenza dal potere politico di turno, da una sorta di “attesa del principe”: Forse quello che caratterizza la pubblica amministrazione è la tendenza ad aspettare che la legge cali dall’alto. Basta pensare a tutte le riforme che sono state fatte. Nonostante tutte le riforme ho la sensazione che si stia tornando indietro, soprattutto grazie alle pressioni che stanno attuando su figure che potenzialmente potrebbero emergere. E in più ci sono dirigenti che ricoprono cariche di altissima responsabilità che assumono come atti personali atti che riguardano esclusivamente la pubblica amministrazione. Formazione e studio ci vogliono, ma non bastano. Infine, qualcuno rileva che il terzo modello, quello del dirigente manager, potrebbe o dovrebbe avere come esito la “razionalizzazione della dedizione”. L’utilizzazione pratica e riconosciuta del senso dello Stato: Non ho ancora capito quale è la cultura della pubblica amministrazione. Posso dire quella che mi piacerebbe potesse avere. Dovrebbe essere una organizzazione che razionalizza la dedizione. Cioè una struttura che valorizza l’individuo mentre serve il bene comune. La forte dedizione morale finalizzata al bene pubblico del singolo dovrebbe essere premiata mentre non viene fatto. 2.3.3. Area delle responsabilità e dell’eccellenza I modi attraverso cui i soggetti intervistati leggono la loro professionalità e la necessità di aggiornamento continuo nel pubblico impiego 41 2.2.3.1. Quali sono le responsabilità incontrate con più frequenza e come vengono vissute Il tema della responsabilità è molto sentito. Tutti i dirigenti intervistati, senza eccezioni, hanno sottolineato il fatto di essere investiti di forti responsabilità amministrative che, a volte, creano ansia e richiedono un equilibrio delicato tra gli aspetti politici e quelli professionali, tra competenze tecniche e relazioni interpersonali. Come detto in un’intervista che assumiamo come rappresentativa anche delle altre: Ovviamente responsabilità di ordine politico. Come ho già detto ho avuto maestri che mi hanno svezzato a queste responsabilità che sono tutte basate su una forma di equilibrio delicatissima da raggiungere a metà strada tra la relazione personale e il tecnicismo professionale. Le responsabilità più pesanti sono quelle civili, anche se quotidianamente le responsabilità sono a livello contabile e amministrativo. Spesso capita però di scoprirsi denunciati dalla Corte dei Conti, e altrettanto spesso per motivi futili, banali, e questo perché non si producono riscontri preventivi. Ma ciò avviene per evitare di ricevere una denuncia. Questo meccanismo grava come un zavorra sull’assunzione di responsabilità, perché se anche so come e quando agire non posso farlo liberamente, poiché rischio una vendetta. Molti poi sentono una crescente esigenza di autonomia che legano all’assunzione di responsabilità decisionali, sia quantitative che qualitative, limitando l’area della delega e del rinvio ad altri livelli dell’organizzazione: Avere una buona capacità decisionale e saperla applicare in tempi ristretti, vale a dire anche quando non si hanno a disposizione tutti gli elementi necessari. Per me questo non rappresenta un problema poiché sono di indole decisionista, mentre mi rendo conto che per altri questo può essere un problema. Le responsabilità che più frequentemente incontro riguardano quindi la gestione del personale, sia dal punto di vista organizzativo che dal punto di vista relazionale e decisioni importanti sul bilancio. Queste decisioni sul bilancio sono uno stress abbastanza forte perché le prendo da sola… con l’aiuto dei collaboratori, ma la responsabilità finale è mia. 42 Questa affermazione era di solito accompagnata sia da un certo carico di ansia sia da una malcelata soddisfazione per la maggiore libertà di movimento e la maggiore autonomia nella gestione del proprio ufficio. 2.2.3.2. Come i dirigenti valutano il loro percorso professionale La maturità professionale è un concetto/rappresentazione contraddittorio. I dirigenti percepiscono il loro percorso professionale come un’esperienza “mobile”, perché contemporaneamente maturo e immaturo. Maturo perché il percorso professionale intrapreso ha realizzato i diversi percorsi di vita, immaturo perché i dirigenti si rendono conto della necessità di continuare a imparare. Per questo, tutti i dirigenti intervistati hanno evidenziato le caratteristiche di incompiutezza del loro percorso di carriera, accettando le possibilità di cambiamento. Nessuno si sente in qualche modo “arrivato” e in molti casi il dirigente ha esplicitato di essere pronto fin da subito ad una nuova collocazione, ad un nuovo incarico anche in un ministero diverso, ma sempre all’interno delle amministrazioni pubbliche, per esplorare nuove competenze e accrescere le proprie conoscenze. 2.2.3.3. Nuove modalità di valutazione del “rendimento” dei risultati ottenuti da un dirigente pubblico Molti intervistati hanno sottolineato intensamente e ripetutamente la necessità di avere maggiore discrezionalità nella gestione del personale. Non è sufficiente introdurre criteri privatistici di valutazione sul merito e sui risultati se poi il dirigente pubblico non ha la possibilità di mettere in mobilità o addirittura di allontanare i funzionari che non collaborano alle attività dell’ufficio o che creano problemi di compatibilità. Molti hanno sottolineato che da decenni si parla di valutazione, ma non si è mai giunti ad una pratica effettiva. Gli indicatori si sono sempre rivelati inadeguati, farraginosi, parziali e arbitrari. La riforma dà più potere e autonomia ai dirigenti, ma non fornisce gli strumenti gestionali per rendere tale autonomia effettiva e conseguentemente per valutare i risultati della gestione. L’impossibilità di potersi scegliere i propri collaboratori è vissuta come un grave handicap che pregiudica qualsiasi valutazione obiettiva. Detto questo, vi è però una certa concordia nel ritenere necessari nuovi metodi , anche più severi, di valutazione dei dirigenti, basati su: 43 − conformità dei risultati rispetto agli obiettivi prefissati di anno in anno; − gradimento all’interno dell’ufficio; − equilibrio nello svolgimento delle funzioni pubbliche. Una minoranza ritiene invece che sia impossibile, per definizione, “misurare” il rendimento dei dirigenti pubblici, perché la loro attività è talmente complessa da non poter essere misurata con criteri di efficienza o tramite obiettivi standardizzati. Non essendoci omogeneità, la sola possibilità è quella di affidarsi alla discrezionalità dei superiori. Tuttavia poi cadono in contraddizione quando, da un lato, si augurano che si possa arrivare a definire un profilo professionale complessivo del dirigente, anche se da sottoporre a continua revisione, e, dall’altro, denunciano che il Ruolo Unico funzioni solo da “parcheggio” per i dirigenti che hanno avuto conflitti con i loro superiori. Tutti, in ogni caso, ritengono fondamentale diversificare “localmente” le procedure di valutazione, perché le competenze e gli obiettivi cambiano profondamente da ministero a ministero e da ufficio a ufficio. Non ritengono accettabile una modalità unica di valutazione del dirigente. Unica eccezione la recente esperienze degli uffici unici delle entrate che, basata sui metodi SIVAD, SIRIO e BEI per la misurazione di “competenze complesse”, rappresenta un caso di eccellenza nella valutazione delle performances di lungo periodo. Ciò che accomuna, dunque, le riflessioni degli intervistati sulla valutazione è il fatto che essa: − è delicata, complessa, ma non impossibile; − deve essere necessariamente plurale, legata al contesto e diversificata; − deve avere un carattere eminentemente qualitativo. 2.2.3.4. Una visione dell’eccellenza nelle pubbliche amministrazioni Per definire l’eccellenza, un tema poco frequentato nelle pubbliche amministrazioni e, non a caso, sentito da molti come un’ideale irraggiungibile, vogliamo mettere in evidenza i due approcci riscontrati. Il primo, più semplicistico, fa dell’eccellenza una questione tecnica, legata ad una forte preparazione disciplinare e a solide competenze relazionali, che fa parte della sfera professionale del dirigente: 44 “[…] l’eccellenza risiede in una solida preparazione di carattere giuridico e nella capacità gestionale delle risorse umane e strumentali. Bisogna sapersi assumere responsabilità, quindi non essere passivi”. Una professionalità capace di raggiungere gli obiettivi: “Realizzare i propri obiettivi in modo armonioso con quelli dell’ufficio e dei collaboratori. E’ importante realizzare qualcosa per la collettività profondendo il massimo dell’impegno”. E che diventa per ciò stesso misurabile: “L’eccellenza deve emergere dai dati, deve avere un riscontro obiettivo. Posso dire che quando abbiamo progettato il riassetto organizzativo, abbiamo raggiunto un grande successo. Ma questo testimonia quanto l’eccellenza sia un prodotto individuale, quando ci sarebbe bisogno di una condivisione di intenti per poter raggiungere una certificazione. C’è bisogno di un leader condiviso, di una squadra in cui ogni membro deve contribuire con la propria responsabilità. Per esempio andrebbero introdotti incentivi economici.” E comunicabile: “L’eccellenza si dimostra quando un’amministrazione crea qualcosa di realmente utile alle persone e lo divulga, all’interno e all’esterno, confrontarsi con l’ambiente per poter fare una valutazione oggettiva riguardo alla corrispondenza ai bisogni dell’utenza. Una dirigenza che è eccellente è una dirigenza che sa dire quella che fa. Una dirigenza che divulga. E poi occorre una amministrazione che sa ascoltare. L’eccellenza è quindi: comunicazione, ascolto e servizio.” Il secondo approccio invece prende in considerazione l’identità personale del dirigente, la sua soggettività di individuo che deve mantenere una forte sintonia con se stesso, con la sua personalità: “L’eccellenza si raggiunge quando un individuo è in contatto con se stesso: è eccellente chi riesce a coniugare la facoltà organizzativa con il proprio pensiero. Deve fare quello che fa non solo perché deve farlo, ma per una ragione profonda che non è tautologica. Può essere estetica, politica, etica, ma deve essere allocentrica.” Un dirigente che sa trovare e mantenere un equilibrio introspettivo nella relazione con gli altri: 45 “L’eccellenza nella pubblica amministrazione consiste soprattutto nel mantenere un atteggiamento molto equilibrato con tutti sia con il collega che con il cittadino. Poi conta anche essere determinato, e direi anche non chiudere mai la porta in faccia. Per me conta molto la disponibilità, che per me è stata una via al successo; anche se mi rendo conto che questa qualità non coincide con l’identikit del perfetto manager di successo, tutto intento al raggiungimento del risultato, ma che non ha tempo per altro. Anzi si teorizza proprio il fatto che non si deve dedicare tempo a niente altro se non al risultato… però in quel tempo che non si vede o non si vuole curare c’è il cliente, il contribuente, l’utente… c’è colui che dobbiamo servire.” Un dirigente quindi che assume connotati psicoterapeutici perché chiamato a farsi carico degli altri: “Direi che il problema delle responsabilità è quello di farsi carico… Io penso di appartenere a una generazione che ha ri-scoperto la necessità di farsi carico. Il che significa anche una certa modalità di gestione del personale… se uno assume il fatto che esiste un legame tra produttività, benessere delle persone e qualità della organizzazione allora il processo di cui bisogna farsi carico non è solo quello organizzativo, ma anche quello di accompagnare chi vive in un certo contesto di lavoro, il che significa anche occuparsi del benessere degli altri… senza paternalismi o atteggiamenti da piccolo padre.” E addirittura a farsi amare: “Sicuramente la capacità di assumersi le responsabilità del caso, facendo assumere le responsabilità al personale e facendosi amare. Io in questo ho qualche difficoltà… forse anche per le esperienze che ho avuto; una donna entrata giovane in un ambiente duro e maschile.” E ancora: “E’ bene che vi sia capacità di relazione con le persone, in senso moderno, cioè che non faccia male agli altri, ad esempio mobbing involontario. Occorre che si capisca davvero che ogni volta che si sta insieme agli altri si ha a che fare con la loro psiche, che ci si trova al centro di proiezioni…. Il processo di qualità riguarda anche le relazioni. Ho incontrato tali mostri…” L’eccellenza – secondo questa interpretazione – è costituita dall’equilibrio tra le capacità manageriali e le qualità umane e trova nel prendersi cura dell’altro una caratteristica fondamentale. 46 Vi è infine chi contesta un diritto di cittadinanza all’eccellenza nelle pubbliche amministrazioni e lo fa con un’argomentazione che è difficile contestare: “Non so cosa sia realmente l’eccellenza nella pubblica amministrazione. Preferirei ci fosse più <buon senso> generalizzato, piuttosto che punte di eccellenza, perché la pubblica amministrazione non è fatta di singoli individui; quindi se ci fosse una sola persona eccellente, inteso come colta, aperta, di buon senso, aggiungerebbe ben poco all’intero apparato se questo nel suo complesso è mediocre. E sarebbe difficile trovare un linguaggio comune tra questi due livelli. Meglio un’amministrazione. giovane, moderna, attenta, motivata, di buon senso. Bisognerebbe far capire di più che si lavora per l’interesse pubblico.” 2.4. Conclusioni 2.4.1. Una sintesi delle autobiografie raccolte Nel complesso, abbiamo ascoltato racconti di percorsi biografici piuttosto lineari e prevalentemente interni alle amministrazioni pubbliche durante tutto il loro iter. Il grado di soddisfazione per la propria carriera è mediamente alto, così come la motivazione. L’elemento trasversale che caratterizza unanimemente le testimonianze raccolte è il forte senso di appartenenza allo Stato. Nel dipanarsi dei colloqui, questo dato sembra diventare l’elemento costitutivo e peculiare della propria identità professionale; nel momento della ricostruzione storica dei propri esordi e dei tentativi di esplorazione di un’iniziale vocazione appare come il segno marcato di una particolare attenzione per il servizio alla collettività, una sensibilità che predispone alla predilezione per il lavoro nel settore pubblico rispetto a quello privato. L’avvio professionale prende le mosse, infatti, da momenti definiti come occasioni favorevoli, anche se fortuite. Alcuni hanno scelto di partecipare ai concorsi per caso mentre erano in attesa di intraprendere altre carriere, altri per un’aspirazione coltivata durante l’università. L’aspirazione ad entrare nel mondo accademico non è marginale negli orientamenti iniziali. La partecipazione ad un concorso per la carriera amministrativa nelle pubbliche amministrazioni è stata una seconda scelta dopo quella dell’insegnamento, dello studio e della ricerca in università e in alcuni casi nasceva proprio dalla delusione per il mancato inserimento nell’università. Per alcuni lo sviluppo agognato per la propria carriera è ancora quello di integrare l’impegno di dirigente con la docenza. 47 L’ingresso nelle pubbliche amministrazioni viene spesso descritto come una discontinuità imprevista, come una sorpresa, una svolta contingente in un processo di formazione che prevedeva anche altre strade, come il lavoro in uno studio di avvocati o di commercialisti, in magistratura o, come abbiamo detto, in università. La scoperta della “vocazione pubblica” di solito coincide con l’incontro con un maestro, con il trasferimento in un ufficio particolarmente vivace, con la partecipazione ad un progetto di rilancio o di neo istituzione di un ufficio. L’evoluzione del percorso professionale ha caratteristiche diverse per i dirigenti che operano nelle amministrazioni centrali rispetto ai cosiddetti “periferici”. Per i primi l’evoluzione procede per maturazione progressiva, iscrivendosi in una continuità “senza salti”, caratterizzata da una certa stabilità e linearità di carriera. Il percorso professionale dei dirigenti “periferici” è invece difficoltoso, costellato da spostamenti e momenti di cambiamento, sia rispetto al ruolo (mobilità di funzione e gerarchica), sia rispetto alla collocazione geografica. Se, per i “ministeriali”, i momenti di passaggio sono stati vissuti senza stress, come naturali progressioni di carriera che consentono di investire il proprio tempo e le proprie attitudini personali anche su altri versanti culturali e lavorativi, permettendo l’espressione di soddisfazione in un bilancio professionale e personale: “[…] sono molto soddisfatto, ho sempre trovato molte motivazioni, arricchimenti, discussioni…”, “[…] credo di esser sempre rimasto il giovane curioso ed interessato alle novità”; Nei “periferici” si rintracciano i segni di una maggior fatica, anche in ragione di disfunzioni pratiche o scarsità di risorse materiali rispetto alle strutture ministeriali (scarsità di spazi, emergenza di problemi di ricollocazione, carenza di risorse informatiche, ecc.). Emerge, in qualche modo, una differenza sostanziale, anche se prevedibile, nella strutturazione delle competenze di chi ha lavorato in un ministero e chi ha invece percorso la propria carriera negli uffici periferici: nei primi prevale un approccio programmatico e “ideativo”, tipico di chi lavora a stretto contatto con il vertice politico che ha compiti di indirizzo, programmazione, coordinamento e controllo; mentre nei secondi è rintracciabile una forte componente gestionale e pragmatica, dovuta al contatto con i cittadini e alla vicinanza ai loro problemi. 48 Nel tirare un bilancio professionale si nota un certo compiacimento nel ritenersi protagonisti del processo di riforma, della costruzione di una pubblica amministrazione nuova; tuttavia tale atteggiamento positivo si accompagna, a volte, come un rovescio della medaglia, a un vissuto di insoddisfazione per non essere riusciti a tradurre in realtà operativa il proprio impegno professionale, visto più come “passione civile” che come capacità di raggiungere i risultati. Qualcuno è consapevole dello stretto rapporto tra successo personale e successo dell’organizzazione (“…Un altro fattore vincente è l’immedesimazione organica, avere la consapevolezza che il proprio successo sia legato a quello dell’azienda…”), ma gli altri dirigenti intervistati tendono ad attribuire gli insuccessi dell’organizzazione, o meglio la lentezza del processo di cambiamento nel senso voluto dalla riforma, più a cause esterne, non riferibili ai loro atteggiamenti e comportamenti operativi. Sembra quasi che il loro operare nelle pubbliche amministrazioni, il loro contributo ai processi decisionali, il loro personale impegno intellettuale e professionale abbia più l’effetto di rafforzare la già forte motivazione valoriale (il senso sociale e pubblico del proprio lavoro) che non quello di indurre una rivendicazione dei successi ottenuti dall’amministrazione. E infatti, più che adesione alla riforma, sembra più esatto parlare di adattamento dei dirigenti intervistati ai mutamenti che stanno avvenendo nelle amministrazioni pubbliche: un adattamento pro-attivo che vede risposte differenziate e che non nasconde fatiche e resistenze, soprattutto per quanto riguarda il tema della privatizzazione del rapporto di lavoro e della flessibilità del ruolo. L’“ibridazione” del rapporto di lavoro pubblico con elementi del privato è accettata a condizione che non danneggi in alcun modo la specificità del ruolo pubblico del dirigente. Si vorrebbe, in altri termini, “prendere” dal rapporto di lavoro privato solo alcuni aspetti, ma evitare qualsiasi “colonizzazione” o tentazione di esportazione forzata di modelli privatistici nel pubblico. Secondo molti intervistati, la volontà di “copiare” il privato è stata finora meramente di facciata e ha comportato soltanto una deburocratizzazione superficiale dell’amministrazione pubblica. Nessuno vuole ammettere di voler “resistere al cambiamento”, ma nel complesso si ritiene che un’impostazione totalmente privatistica snaturi l’ispirazione pubblica del dirigente. L’atteggiamento nei confronti della riforma è ambivalente. 49 Essi concordano su una ricostruzione storica delle trasformazioni attraversate negli ultimi vent’anni dalla pubblica amministrazione e ne riconoscono la profondità sul piano istituzionale, organizzativo e culturale. E’ in atto una vera e propria “rifondazione” del ruolo pubblico, necessaria ma non esente da alcuni rischi, il più sentito dei quali è la paura della perdita di un certo tipo di identità professionale e istituzionale, senza che la nuova identità che dovrebbe sostituire la vecchia abbia i connotati per essere riconosciuta e assimilata, anche perché le riforme sono per lo più imposte dai vertici politici e non condivise. Le connotazioni della “vecchia” amministrazione pubblica sono prevalentemente negative e nei racconti ruotano attorno ad alcune parole chiave: − inerzia; − demotivazione; − formalismo esasperato; − organizzazione gerarchica e spirito di “casta”; − spiccata politicizzazione; − scarsa sensibilità verso i cittadini come referenti finali della propria attività. Le connotazioni positive delle amministrazioni pubbliche “di una volta” (cioè fino alla metà degli anni ottanta) ruotano invece attorno a queste altre parole chiave: − etica accentuata del lavoro pubblico (che secondo alcuni si sta perdendo); − elevato livello di professionalità e di competenza tecnica (soprattutto giuridica, anche questa in calo, ad avviso di alcuni). La filosofia della riforma è invece espressa, a parere dei più, da queste caratteristiche: − maggiore managerialità (dai primi anni novanta); − maggiore decentralizzazione territoriale; − attenzione prioritaria agli obiettivi; − maggiore apertura al cittadino; − commistione fra efficienza e funzione pubblica nell’esercizio della leadership; − informatizzazione dei servizi interni ed esterni; − comunicazione più precisa e puntuale verso l’interno e verso l’esterno. Gli aspetti negativi del cambiamento in atto si concentrano invece su due aree tematiche: − la confusione nell’applicazione delle riforme e il conseguente sentimento di insicurezza; 50 − la scarsa preparazione culturale del personale di cui le amministrazioni non si fanno carico. Trasversalmente a queste due aree critiche esiste una problematica espressa, in modo più o meno esplicito, in tutte interviste: - la persistente ingerenza dei vertici politici nelle decisioni amministrative. E’ un tema predominante, anche se sfumato, sul quale ci soffermiamo. Abbiamo avvertito, innanzitutto, un certo fastidio per una situazione lavorativa in cui troppo rapidamente cambiano i responsabili politici e, con essi, i loro più stretti collaboratori ai vertici delle amministrazioni. Ogni volta viene rimesso tutto in discussione e bisogna “ricominciare da capo”. Tuttavia, l’argomento delle interferenze politiche è molto marginale nei racconti autobiografici raccolti. Quando viene sfiorato, vi è una certa unanimità nel ritenere che la distinzione tra indirizzo politico e attività di gestione sia soltanto teorica e non ancora praticata. Alcuni hanno spiegato nel dettaglio la delicatezza del confine fra i compiti “tecnici” del dirigente e la sfera della decisione politica: il dirigente può influenzare, ma non decidere, anche se in molti casi il politico delega completamente al dirigente di fiducia la conduzione di una trattativa o la realizzazione di un progetto. Viene fatto rilevare che l’ingerenza politica, più che condizionare le scelte “tecniche”, produce una serie di disfunzioni che si ripercuotono sull’organizzazione, oppure “penalizzano” del tutto il singolo dirigente che non si uniforma, negandogli il rinnovo del contratto alla scadenza. Vogliamo contestualizzare quanto detto, riportando alcuni stralci, rappresentativi delle interviste, dove si può leggere esplicitamente quanto stiamo dicendo. Nel primo viene fatto capire come l’ingerenza politica produca problemi alla struttura organizzativa: “Va detto anche che nel pubblico probabilmente c’è una ingerenza politico-clientelare molto più grande, soprattutto nelle fasi pre-elettorali… nessuno chiede di fare cose irregolari, ma c’è comunque una continua pressione. Ma questo fa parte della cultura italiana che si basa sull’affidarsi al principe. Queste cose fanno perdere molto tempo e spendere parecchia fatica in termini organizzativi.” Nei due stralci che seguono si può notare, invece, tutta l’amarezza personale e professionale che la pressione politica può far vivere al dirigente: 51 “Altra cosa che ci diversifica pesantemente è l’incidenza del fattore politico, e più si va in alto, più si avverte questa ingerenza, nonostante una norma entrata in vigore recentemente avrebbe proprio dovuto scollegare questi due fattori. Il decreto legislativo 29 che voleva evitare questa ingerenza in realtà la incrementa e questo genera cose drammatiche. Di fatto, l’ingerenza viene accentuata; e ciò è drammatico perché questo praticamente si traduce in una cosa molto concreta, per esempio: ora il dirigente ha un contratto a termine, per il quale se, a scadenza, si è ritenuti invisi al proprio dirigente di riferimento, si viene trasferiti. Prima non succedeva nulla… Secondo me la situazione è peggiorata.” “Il problema è che non sempre vengono assunte le persone sulla base di reali competenze e ci si avvale troppo di consulenti esterni che non conoscono la storia precedente, così si perde la continuità, la coerenza della pubblica amministrazione; inoltre, se la parte progettuale viene svolta da consulenti esterni senza coinvolgere direttamente i funzionari, questi possono cominciare a provare disinteresse. Separare i compiti politici da quelli gestionali può essere una grande risorsa ma bisogna anche pensare ai rischi che si corrono.” Cresce tuttavia la consapevolezza che l’ingerenza impropria della politica possa essere contenuta da una forte professionalità e da strumenti di gestione più consoni ad un’amministrazione moderna: “[…] il dirigente burocrate e faraone ha iniziato a rispondere a necessità di managerializzazione: non basta essere all’apice di un sistema e esercitare un potere per produrre risultati di cambiamento, ma occorre ridisegnare i percorsi di carriera, i processi formativi, le logiche e le strategie di governo.” C’è invece chi vive in forma dialettica il rapporto con la politica e lo ricollega ad una specifica capacità positiva del dirigente: “[…] la capacità “politica” di comporre nella sintesi migliore gli interessi che entrano in gioco, così da riuscire a suggerire, collaborare con le autorità politiche responsabili del Ministero nel modo migliore, più efficace, utile. Proporre, dialetticamente ricercare le soluzioni migliori.” o chi vuole proteggersi dal potere facendo appello al senso, quasi sacrale del “bene comune”: “Il senso dello Stato… cioè il senso della funzione del pubblico potere rispetto alla generalità ……………Lo Stato ………. guarda al bene comune o meglio al bene di tutti e di ciascuno. 52 Chi lavora nello Stato secondo me deve avere questa attitudine, è quello che protegge dalla corruzione del potere.” Infine ci siamo meravigliati che il tema del decentramento, che pure sappiamo essere tra le opzioni di fondo della riforma, non compaia molto spesso nei racconti e non sembra appassionare i dirigenti intervistati. Una spiegazione può essere riconducibile al criterio con il quale è stato selezionato il campione. La maggior parte dei dirigenti che hanno avuto una carriera veloce lavorano a Roma, laddove hanno sede le strutture centrali delle amministrazioni, ed hanno pochi contatti con gli uffici periferici. Quando il tema del decentramento compare nei loro racconti emerge una certa sfiducia e incredulità di fondo sul buon esito dell’operazione, riconducibile alla confusione, alle incertezze e ai ripensamenti che stanno caratterizzando il processo di attuazione del cosiddetto “federalismo amministrativo”. Il principio è ritenuto giusto, ma le modalità di realizzazione sbagliate e controproducenti. Secondo molti intervistati sarebbe necessaria una maggiore gradualità e l’introduzione di una pratica di sperimentazione preliminare all’attuazione definitiva delle riforme, soprattutto nel caso di una riforma così destrutturante come quella disegnata dalla riforma dei ministeri. E’ ritenuto deleterio continuare a sovrapporre riforme su riforme senza verificarne gli esiti e senza coerenza. In sintesi, l’analisi dei colloqui evidenzia alcuni temi forti, trasversalmente comuni a tutte le conversazioni svolte: 1) Un forte “senso dello Stato” che, unito alla consapevolezza di essere investiti di una elevata responsabilità pubblica verso la collettività, rivela una spiccata motivazione professionale; 2) Una buona disponibilità al dialogo, al confronto e all’apprendimento continuo; in alcuni si poteva avvertire quasi l’ansia di volersi mettere in discussione, di confrontarsi con altri, di discutere insieme dei problemi e delle prospettive del lavoro pubblico; 3) Una rivendicazione orgogliosa della specificità delle pubbliche amministrazioni rispetto alle organizzazioni private, pur condividendo la necessità di introdurre alcuni elementi organizzativi e gestionali tipici delle organizzazioni aziendali; 4) Il riconoscimento dei mutamenti profondi che le amministrazioni pubbliche hanno subito negli ultimi anni (quasi sempre indicati come il periodo che va dai primi anni novanta ad oggi). 53 5) La consapevolezza delle implicazioni organizzative, procedurali e culturali del fase di cambiamento che le pubbliche amministrazioni stanno vivendo. In particolare il cambiamento culturale è avvertito, a livello personale, come la necessità di saper aggiungere alle conoscenze tecnico-giuridiche già possedute, che costituiscono il patrimonio comune, quelle più propriamente relazionali. Da qui deriva la volontà individuale di acquisire e governare nuovi strumenti di gestione di se stessi e degli altri, la necessità di fare un lavoro su di sé che potenzi sia l’intelligenza cognitiva, per far fronte alle pressioni derivanti dalle nuove conoscenze e abilità richieste per la gestione di organizzazioni complesse, sia l’intelligenza emotiva, per rispondere alle tante e diversificate sollecitazioni interpersonali; 6) La volontà di comunicare di più e meglio all’interno e all’esterno del contesto lavorativo; 7) Il desiderio di avvicinare di più le amministrazioni pubbliche ai cittadini, attraverso una molteplicità di strategie di “familiarizzazione del cliente” (siti web, servizi on line, numeri verdi, sportelli, consulenza…). 2.4.2. Quale formazione per un dirigente pubblico “di successo”? I suggerimenti e le indicazioni per lo sviluppo delle competenze che provengono dagli stessi intervistati sono la vera scoperta di questa ricerca. I loro bisogni formativi sono più raffinati rispetto all’offerta prevalente: non si accontentano più dei soliti corsi di lingua o di informatica, chiedono una strategia formativa integrata, flessibile e mirata ai loro bisogni individuali. Non ignorano che la velocità richiesta alle loro prestazioni, la spinta a fornire risultati misurabili e l’innovazione continua dei processi producono uno scenario di cambiamento continuo che costituisce una sfida non più fronteggiabile con le sole conoscenze tecniche e professionali possedute, per quanto elevate esse siano. In questa sfida i dirigenti, in quanto individui, assumono un ruolo più importante rispetto al passato perché chiamati in prima persona a farsi carico di rischi e di responsabilità, a fronte dei quali i valori tradizionali dell’etica e dell’imparzialità del lavoro pubblico possono “proteggere dalla corruzione del potere”, come ha detto un intervistato, ma non sono sufficienti per governare l’incertezza. Al dirigente che lavora nelle amministrazioni pubbliche viene chiesto di essere capace di gestire più situazioni nello stesso momento, di saper lavorare in gruppo, di 54 cooperare con gli altri dirigenti della stessa amministrazione o di altre, anche non italiane, di saper anticipare i bisogni dei cittadini, delle famiglie, delle imprese. Se, nel recente passato, per fornire un servizio pubblico era necessario avere a propria disposizione un elevato know-how, cioè una buona preparazione tecnica e un’elevata conoscenza del proprio ruolo, oggi per riuscire a competere gli individui e le organizzazioni devono avere anche un know-that e un know-why; non solo nozioni specifiche ma anche modi per elaborare creativamente quelle stesse nozioni, per “riflettere sulla realtà” nel confronto con la progettualità e le esperienze di altri contesti organizzativi, senza trincerarsi dietro la rivendicazione di una diversità insanabile del settore pubblico. La parola d’ordine diventa, anche nelle amministrazioni pubbliche, “imparare sempre”: da se stessi, dagli altri e dall’ambiente esterno per adattarsi e far fronte ai mutamenti continui. Il miglioramento si chiama apprendimento, che, negli adulti, si consolida con l’esperienza e con il confronto costruttivo, la cross fertilization, il bench marking. L’esigenza di un confronto con la cultura e le pratiche aziendali è infatti avvertita da alcuni; come è sentito, più diffusamente, il bisogno di analizzare, studiare e confrontarsi con i diversi sistemi di pubblica amministrazione di altri paesi europei. Quale formazione va dunque offerta al dirigente pubblico? Pensiamo, forse un po’ illuministicamente, ad una formazione che sia in grado di formulare itinerari e strumenti di condivisione delle esperienze (come il “knowledge management”), di innescare nuove pratiche di apprendimento organizzativo, magari supportate dalle tecnologie, di promuovere programmi per lo sviluppo di queste competenze: - Prevedere, e non solo risolvere, i problemi (visione strategica); - Comunicare e scambiare le esperienze (confronto); - Lavorare bene insieme (fare squadra); - Progettare l’innovazione; - Programmare e pianificare gli obiettivi; - Decentrare le decisioni operative; - Valutare per apprendere dai risultati. Perché, come dicevano David Osborne e Ted Gaebler in “Reinventing Government”, se non si misurano i risultati non è possibile distinguere i successi dai fallimenti e se non si riconoscono gli insuccessi non è possibile correggerli. 55 La formazione nella PA, nell’epoca dell’incertezza, non è più solo un intervento spot, fatto una tantum per dare risposte immediate e fornire strumenti contingenti, ma si configura soprattutto come un percorso di ascolto e di elaborazione della conoscenza (individuale e collettiva), per produrre innovazione organizzativa, competenza professionale, assistenza personale. In sostanza, la formazione diventa un “partner evolutivo” attraverso cui produrre sviluppo nell’organizzazione. Uno strumento complesso che non serva solo per creare benefici immediati rispetto le diverse necessità contingenti delle amministrazioni, ma riesca a promuovere lo sviluppo di capacità strategiche in grado di anticipare i bisogni della collettività, pianificare gli obiettivi, governare le risorse e introdurre trasformazioni. 2.4.3. Ancora sul metodo autobiografico. Un possibile utilizzo nelle pubbliche amministrazioni Abbiamo imparato a conoscere, attraverso il racconto delle loro storie professionali, i dirigenti che abbiamo intervistato; abbiamo imparato a scoprire i loro punti di forza e i loro punti deboli, a prevedere in anticipo che tipo di risposta avrebbero dato alla domanda successiva. Abbiamo incontrato gli entusiasti, i pacati, i “politici”, gli introspettivi, gli eroi, i tenaci, gli scontenti, i disillusi, gli amareggiati e via dicendo: non solo però stati d’animo, come potrebbe sembrare, ma caratteristiche personali che possono costituire le variabili significative per ricoprire al meglio una determinata posizione. L’accezione di competenza alla quale aderiamo è un concetto complesso che comprende una serie di componenti quali: - Conoscenze (sapere), ossia una certa base di sapere che nasce dal corso degli studi e dall’esperienza; - Capacità (saper fare), intese come abilità di mettere in pratica determinate conoscenze in uno specifico contesto organizzativo; - Atteggiamenti, predisposizione a comportarsi in un determinato modo in determinate circostanze; - Immagine di sé, come percezione che il soggetto ha di sé e valutazione che egli stesso dà di quella immagine; - Ruolo sociale, come percezione che l’individuo ha dell’insieme di norme di comportamento accettate e considerate appropriate nella propria organizzazione; 56 - Motivazioni (saper essere), come interesse ricorrente che guida, dirige e seleziona il comportamento dell’individuo. Riteniamo che il metodo che abbiamo scelto per individuare le competenze dei dirigenti che hanno avuto una carriera eccellente corrisponde alle nostre aspettative in quanto ci ha consentito di ricostruire queste componenti in ogni singolo dirigente intervistato. Abbiamo individuato le sue conoscenze e capacità attraverso la ricostruzione del suo corso di studi e delle sue esperienze professionali. Abbiamo individuato i suoi atteggiamenti attraverso la ricostruzione delle influenze dei personaggi-chiave della sua storia professionale e personale e delle sue reazioni nei momenti critici o nelle trasformazioni. Abbiamo messo a fuoco l’immagine che ha di se stesso sia rispetto a come valuta la sua carriera che rispetto alla percezione che ha delle sue caratteristiche cruciali per la sua professione. Abbiamo ricostruito la percezione che ha del suo ruolo sociale attraverso il confronto con i dirigenti aziendali e l’auto-valutazione del suo percorso professionale. Abbiamo ancora messo in evidenza le sue motivazioni che si ricavano da tutte le risposte messe insieme e che potevano emergere solo nella interazione discreta con il ricercatore. Abbiamo infine enucleato dalle sue risposte i valori che condivide con gli altri e che abbiamo cercato di non generalizzare troppo per non tradire l’approccio autobiografico della ricerca che attribuisce alla storia del singolo un valore unico e irripetibile. Riteniamo che sia proprio questa unicità soggettiva che vada valorizzata e che, in qualche modo, dovrebbe consentire la scelta dell’ «uomo giusto al posto giusto», sempre che colui o coloro che devono sceglierlo abbiano le capacità per valutare e le competenze per definire gli obiettivi da raggiungere nella posizione organizzativa che intendono fargli ricoprire e che, infine, non vogliano sceglierlo sulla base di altri criteri, più o meno oggettivi. Nel selezionare e commentare i brani che abbiamo riportato è inevitabilmente intervenuta una scelta interpretativa. Cercando di non tradire il punto di vista soggettivo di coloro che raccontano il loro percorso individuale abbiamo cercato di ritagliare degli “elementi di ordine” nella complessità delle storie che abbiamo ascoltato. 57 Inevitabilmente abbiamo privilegiato alcune ipotesi interpretative che abbiamo cercato di verificare restituendo ai protagonisti della ricerca, durante un workshop tenuto presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione, i risultati cui eravamo pervenuti, al fine di enucleare, insieme a loro, tematiche e problematiche ricorrenti o significative che potessero trovare, in un laboratorio di formazione co-gestito, il luogo e il modo per essere discusse e approfondite. La restituzione delle storie professionali e delle ipotesi interpretative agli intervistati è un momento importante dell’approccio autobiografico; costituisce un primo abbozzo di laboratorio autoformativo dove, attraverso la rilettura della propria storia professionale, l’individuo narrante ha modo di confrontare la propria unicità con quella degli altri, mettendo a confronto l’immagine che si ha di sé con quella che viene percepita da colui che ascolta o legge la sua storia. Siamo stati confortati dalle reazioni dei dirigenti che hanno partecipato al workshop. Qualcuno ha affermato che si è sentito “rispettato e rappresentato” dagli esiti della ricerca. Ancora una volta è emerso il disagio di lavorare in strutture pubbliche sottoposte a continue riforme; è emerso il disagio dell’incertezza, della precarietà del ruolo (“la vita effimera del dirigente”), del mancato riconoscimento del proprio sforzo e della propria dedizione al lavoro pubblico. Non sono mancati i riferimenti letterari per esprimere questo disagio, questa “cognizione del dolore” che accompagna colui che si assume responsabilità verso la collettività. Rivedendosi e rispecchiandosi nella narrazione degli altri, i protagonisti della ricerca hanno avuto la possibilità di riflettere e di re-interpretare la propria vita professionale. La ri-appropriazione riflessiva del proprio percorso da parte del soggetto narrante è parte del metodo autobiografico; questa operazione favorisce l’autoconsapevolezza senza la quale nessuno sviluppo personale e professionale è possibile. Il pensiero riflessivo è la chiave che consente di trovare un filo conduttore, un significato, una negoziazione interpretativa, una condivisione nella complessità delle autobiografie raccolte. Crediamo che raccontarsi sia un modo per esplorare la propria vita, per riflettere su di essa, per ri-orientarsi e far emergere nuovi bisogni di crescita e di apprendimento. 58 E’ questo uno degli esiti che, da formatori, ci aspettiamo da questa ricerca. Perché si concretizzi occorre che le tematiche di maggiore interesse emerse dalle storie di vita professionale che abbiamo raccolto vengano approfondite criticamente, con l’aiuto di specialisti delle tematiche stesse e di esperti in metodologie autobiografiche, nel contesto di specifici laboratori di formazione. A titolo esemplificativo, i focus dei laboratori potrebbero essere i seguenti: Laboratorio a): “Il dirigente pubblico: competenze organizzative e autoriflessive”; Laboratorio b): “Dal sogno al progetto: dirigenza e progettazione professionale”; Laboratorio c): “Il mentoring nella relazione dirigenti/collaboratori”; Laboratorio d): “Empowerment professionale e metodologie autobiografiche”; Laboratorio e): “La dirigenza pubblica e il burn out professionale”; Laboratorio f): “Pedagogia del lavoro e organizzazione”. Dei risultati di questa ricerca c’è un’altra possibile utilizzazione che ci sta a cuore. Negli ultimi dieci anni la pubblica amministrazione è stata investita da un processo di riforma ampio e incisivo senza precedenti. Anche se l’immagine di una pubblica amministrazione ostile ed inefficiente continua a perdurare nell’immaginario collettivo - più per resistenza culturale che per esperienza reale -, i cambiamenti, soprattutto quelli legislativi sono stati tanti e ripetuti nel tempo. Il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, che costituiva il testo base della riforma del lavoro pubblico, è stato rivisto, modificato e integrato ben sei volte; nel 2001 è diventato un testo unico e ha cambiato numero, ieri è stato ancora una volta modificato dall’ultima riforma della dirigenza promossa dal Ministro Frattini, oggi si appresta ad esserlo di nuovo ad opera del Ministro Mazzella. Anche se la maggior parte dei cittadini ancora non sa che gli incarichi dei dirigenti sono a tempo determinato (non più di tre o cinque anni, con l’ultima riforma); che gli incarichi ai dirigenti di livello più elevato sono conferiti sulla base di un rapporto fiduciario con il vertice politico dell’amministrazione e che non esiste più la giurisprudenza esclusiva del giudice amministrativo per il contenzioso che riguarda il lavoro pubblico, questi ed altri cambiamenti epocali sono stati e vengono vissuti da coloro che lavorano nelle pubbliche amministrazioni con un senso di spaesamento e di disagio, dovuto più all’incertezza e alle contraddizioni nella direzione della riforma che ad una reale resistenza al cambiamento. 59 Di questo diffuso sentimento di incertezza abbiamo trovato tracce profonde nelle nostre interviste. Crediamo che, almeno in parte, questo sentimento derivi dalla paura di non essere considerati e valutati adeguatamente. Trascorsi i tre o cinque anni della durata del contratto, il dirigente pubblico si trova di fronte alla eventuale mancata conferma dell’incarico. Se ha lavorato bene e non si è inimicato colui che gli deve rinnovare il contratto, può sperare in una riconferma. Ma, che fare se, con un cambio di governo, i vertici politici e amministrativi cambiano? E, che fare per poter legittimamente ambire ad incarichi di maggiore prestigio e responsabilità? In assenza di metodi di valutazione consolidati o di una conoscenza diretta, il rischio di discriminazioni nelle opportunità, sia per il dirigente stesso che per colui che deve sceglierlo, è elevato. Esistono molti metodi per valutare le prestazioni di un dirigente ed altrettanti per individuarne le competenze. Certo è improbabile che, senza una conoscenza diretta, i decisori si accontentino del confronto tra curricula per scegliere “l’uomo giusto al posto giusto”. Vorranno sapere qualcosa di più; chiederanno informazioni a chi lo conosce. Ebbene, noi crediamo che una raccolta di storie di vita professionale, basata sull’approccio autobiografico e costruita con il consenso degli interessati, possa fornire più elementi di valutazione rispetto ad un freddo curriculum vitae. La traccia dell’intervista autobiografica che riportiamo in Appendice non è che una prima bozza di uno strumento da utilizzare in una ricerca che verifichi quantitativamente la validità dell’approccio che proponiamo. 60 Appendice 1. La traccia del colloquio a) Storia di vita e storia professionale tra cambiamenti, proiezioni e aspettative personali 1. Può raccontarmi quale è stato il Suo percorso professionale e come ha raggiunto la Sua posizione attuale all’interno della Pubblica Amministrazione (la posizione ricoperta, le funzioni svolte, i passaggi fondamentali, eventuali svolte/cambiamenti)? 2. In questo Suo percorso professionale, a Suo avviso, che cosa è cambiato e che cosa è rimasto come prima (Quali elementi di continuità e di discontinuità ravvede nella Sua storia professionale fino ad ora)? 3. Secondo Lei, quali sono state le caratteristiche del Suo carattere che l’hanno favorita e quelle che l’hanno svantaggiata (Quale è stata la storia dei Suoi rapporti con i colleghi)? 4. Quanto sono state importanti le Sue origini familiari e la Sua rete di relazioni personali in rapporto alla Sua storia professionale (alla carriera)? 5. Quali sono state le figure cruciali per la Sua formazione e la Sua carriera? Ha avuto un collega più anziano che può definire oggi un “maestro”? b) Cambiamento 6. Che cosa significa per Lei “cambiamento”? In particolare, che rapporto si è creato fra i Suoi cambiamenti personali (e professionali) e i cambiamenti generali che hanno investito negli ultimi anni le organizzazioni contemporanee, portandole verso gradi più elevati di flessibilità, di autonomia e di decentramento? (Quanto ha influito sulla Sua carriera, storia professionale/personale, lo spostamento geografico (se vi è stato), dalla Sua regione di origine e di formazione ad un’altra? Che ripercussioni ha avuto la mobilità territoriale sulla Sua carriera, storia professionale/personale?) 7. Si sente in generale soddisfatto della Sua carriera? Le gratificazioni sono in qualche modo superiori alle difficoltà? (Lei avrebbe mai pensato di arrivare dove è arrivato? Quale era la Sua proiezione personale nella fase iniziale della Sua carriera, quali erano le Sue aspettative di fondo?) 61 c) Competenze 8. Quali sono a Suo avviso le caratteristiche cruciali e le competenze che definiscono in modo appropriato la Sua professione? 9. In quali competenze specifiche si riconosce maggiormente? (Articolazioni ulteriori della domanda/stimolo: a) Le risorse personali e professionali che Le permettono di svolgere con competenza il Suo ruolo nella Pubblica Amministrazione sono principalmente autoriferite, hanno cioè un’origine prevalentemente soggettiva, oppure sono eteroriferite, cioè in qualche modo “oggettive”? b) Elaborare i conflitti e le tensioni interpersonali è una competenza importante per la Sua professione? c) E’ in qualche modo “emozionante” il Suo lavoro? Le emozioni sono una dimensione pertinente per il suo lavoro? d) Quanto sono diventate importanti nel corso del tempo gli aspetti di “cura”, cioè le pratiche di tutoring, di mentoring, di coaching nella sua professione?) 10. Lei è riuscito a comunicare e a condividere le Sue competenze con altri colleghi all’interno della Sua organizzazione? Si è mai sentito un “formatore”? 11. Esistono a Suo avviso meccanismi efficaci di “apprendimento” e di autocorrezione nella Sua organizzazione? (Articolare, se necessario, facendo riferimento alla velocità dei processi di gestione, di organizzazione e di cambiamento) 12. In che cosa si sente diverso e in che cosa si sente uguale rispetto ad un manager di aziende private? 13. La Pubblica Amministrazione è un’organizzazione che possiede a Suo avviso una “cultura”, o forse addirittura un’etica, peculiari oppure no? d) Criticità 14. Come ha vissuto i momenti critici e i momenti di successo della Sua carriera ? (Si può articolare in: a) mi vuole raccontare un episodio particolarmente felice della sua carriera? b) mi vuole raccontare un episodio negativo della sua carriera ? c) quali sacrifici emotivi o personali pensa ci siano stati nella Sua storia professionale e nella Sua carriera?) 15. Che rapporto esiste fra il Suo successo personale e il successo della Sua organizzazione? 16. Nei momenti critici sono state determinanti le risorse “interne” (cioè personali, emotive, di carattere…), oppure le risorse esterne (cioè del gruppo, dei superiori, dell’organizzazione, del contesto…)? 62 e) Responsabilità ed eccellenza 17. Nel Suo lavoro quali sono le responsabilità più frequenti che incontra? Come vive su di sé queste responsabilità quotidiane? (a) Le danno più un senso di potere o più di timore ? (b) Lei tende ad assumersi in prima persona tali responsabilità oppure avverte nella Sua organizzazione la tendenza a rinviare ad altri livelli le responsabilità decisionali?) 18. Ritiene che il Suo percorso personale e professionale sia incompiuto? 19. Che cos’è l’eccellenza professionale nella Pubblica Amministrazione? Che cos’è l’eccellenza? (a) Lei crede che il grado di eccellenza di un dirigente sia proporzionale al peso delle responsabilità che egli si assume nel suo operato ? (b) Lei crede che nella Pubblica Amministrazione chi ha commesso errori di valutazione e di gestione renda effettivamente conto del proprio operato ?) 20. Lei pensa che sia giusto approntare nuove modalità di valutazione del “rendimento” e dei risultati ottenuti da un dirigente di Pubblica Amministrazione? 21. Lei pensa che sia possibile misurare in qualche modo il rendimento di un dirigente di Pubblica Amministrazione? 22. Che cos’è l’eccellenza ? 2. Alcune interviste esemplari 2.1. Intervista autobiografica n. 1 a) Area del cambiamento 1. Può raccontarci qual è stato il suo percorso professionale e come ha raggiunto la sua attuale posizione all’interno della pubblica amministrazione? Ho iniziato la mia vita lavorativa alla Scuola Superiore della P.A. avendo vinto un corso-concorso per l’accesso alla carriera direttiva nel 19…; intanto frequentavo il quarto anno del corso di laurea, stavo preparando una tesi molto impegnativa in filosofia del diritto. Tra l’altro una delle clausole del bando richiedeva di completare il corso di laurea entro un anno solare, e per un disguido burocratico non riuscii a completare il corso di studi. E’ stato un setting formativo molto importante, poiché molto competitivo, omogeneo. Mi sono classificato ai primi posti ma in virtù di quel disguido non entrai nella P.A. prima dell’…... Non mi hanno fatto scegliere e sono entrato nell’amministrazione più sociale tra quelle in bando. Anche perché avevo sviluppato da molti anni mio interesse nel volontariato e facevo assistenza all’infanzia, ho diretto una associazione… ho coniugato nella mia attività di lavoro successiva 63 interessi filosofici e esistenziali con quelli professionali. Avevo una forte motivazione e questo mi ha portato ad emergere direi anche con un grosso merito nel settore delle politiche pubbliche. Ho lavorato alla direzione generale de …………. dal ’.. al ’.., occupandomi di …………. Dal 200.. sono diventato dirigente con un profilo di esperto in ……….. Ho fatto la Scuola Superiore come tanti… di quel periodo ricordo le alzate alle quattro del mattino, ma ripeto è stato importante il clima della scuola. C’era l’idea di formarsi per un lavoro che seppur vecchio aveva caratteristiche innovative. 2. In questa sua storia professionale che cosa è rimasto come prima (di lei e della sua vita) e che cosa è cambiato? Dal ’92 ho incontrato vere e proprie stratificazioni geologiche: persone con una spiccata capacità di galleggiamento in mezzo ai problemi, con una scarsa sensibilità di confronto con il cittadino, ma con un’elevata sensibilità a livello politico, aspetto, questo, visto come alleato di carriera. Solo da pochi anni la P.A. è orientata alla performance, al meglio. L’atmosfera prima era di scarsa produttività; solo poi sono emerse figure protagoniste in grado di produrre un cambiamento a livello di immagine. La svolta del ‘.. - dalla circolare [nome del ministro] - fu di notevoli dimensioni organizzative, poiché legava la funzione dei dirigenti più ai risultati in termini di percorso, dove diventavano chiare le procedure e i livelli di verifica. E’ cambiato moltissimo. Aver lasciato la [settore precedente] ha significato lasciare un mondo a cui sono legato da profondi vincoli personali. La richiesta di cambiamento è in atto, ossia l’[nome della attuale struttura di lavoro] si sta organizzando per obiettivi, e questo comporta una riorganizzazione delle prestazioni dei dipendenti pubblici. Questo fenomeno incontra delle resistenze nella struttura. 3. Secondo lei, quali sono state le caratteristiche della sua personalità (o carattere) che l’hanno favorita e quelle che l’hanno svantaggiata nella sua storia professionale? L’attitudine, l’intuizione è un grande regalo della mia formazione filosofica: la capacità di individuazione dei nodi critici tentando di dare delle risposte culturalmente congrue rispetto ai problemi. Non mi sono mai depotenziato intellettualmente di fronte ad un problema, ma ho cercato di cogliere la possibilità di lavorare nel pubblico per aggredire quei problemi. Di contro, ho una sensibilità che molte volte mi porta ad espormi, ma anche a farmi carico. Ci vuole anche la disponibilità a fare il salto nel vuoto, a fidarsi. 64 Ho quella che gli psichiatri infantili inglesi chiamano “mother mind minded”, ossia avere una testa che, oltre a pensare delle cose, ricomprende il mondo circostante, anche inconsapevolmente. Non tutti lo fanno, e questa è la ragione per cui il nostro mondo è segnato dal degrado. Mi piace occuparmi del benessere altrui, ma senza atteggiamenti paternalistici. Aggiungo la sensibilità, io sono uno che si espone e a volte mi espongo un po’ troppo correndo il rischio di farmi male. Infine, anche l’empatia, credo, mi sia stata d’aiuto, perché credo che la prevalenza degli aspetti formali rischia di cortocircuitare la capacità di visione dei processi e dei problemi reali. 4. Quanto sono state importanti le sue origine familiari e la rete delle sue relazioni personali rispetto al suo percorso professionale e alla sua “carriera”? Mi sono tornati utili tanti elementi delle vicende professionali di mio padre e di mia madre. Vengo da un famiglia piccolo borghese, e non dimenticherò mai le ragioni per le quali esisto; conosco la sofferenza, quindi mi interessano di più i processi immateriali, tra i quali necessariamente il senso di appartenenza allo Stato, il senso filosofico della funzione del pubblico potere. Chi lavora nello Stato deve avere questa percezione. 5. Quali sono state le figure cruciali (“maestri” e/o “anti-maestri”) per la sua formazione e la sua carriera? Sicuramente [nome e cognome del “maestro”], perché persona molto diversa da me. E’ un laico di formazione marxista e in parte ebraica. Io sono invece uno che ha una formazione più cattolica… personalistica… La sua capacità di lavoro e soprattutto di lui ammiro l’irriducibilità alla figura stereotipata del burocrate, nonché la straordinaria capacità di valorizzare chi gli sta attorno. E’ una persona che sa riconoscere se di una materia non sa nulla, vale a dire che lascerà che la persona competente si possa esprimere. Inoltre credo che ci possano essere tanti maestri, ma bisogna possedere la predisposizione ad apprendere da tutti, anche dall’autista.. 6. La sua storia è una storia (anche) di “cambiamento/i”? Che cosa è per lei il cambiamento e che cosa significa? Elaborare il lutto. Il cambiamento ti costringe a rimettere in discussione esperienze, affetti, legami… quando cambi devi elaborare lutti. Quando ho lasciato il mondo del sociale… la casa famiglia in cui sono state per sette anni… ho dovuto elaborare questo 65 lutto. Sono sempre disponibile al cambiamento a patto che… non lo so se possiamo davvero cambiare. Per esempio io sono arrivato alla dirigenza generale per le mie conoscenze specifiche perché ho sostituito il collega che era qui prima di me. Se avessi avuto un profilo meno definito forse la scelta sarebbe andata su qualcun altro… In questo senso la specializzazione che non può cambiare è un elemento di successo. Non so se è un fattore di buona gestione. 7. Si sente in generale soddisfatto della sua carriera? Quale erano le sue aspettative di fondo all’inizio? L’esercizio di una assunzione di responsabilità è una cosa particolare… non so come dirle ma io non ho dato una direzione alla mia vita per raggiungere certi scatti di carriera, ho vissuto un processo di induzione alla carriera perché è sempre prevalso l’interesse alle cose e di saperle bene non come tutti gli altri. Ho avuto spesso l’idea che io stessi superando qualcosa… l’idea di andare su territori mai percorsi prima… primo della mia famiglia a laurearsi… insomma molte cose sono capitate. Non c’è bisogno dell’ascesi, ma un po’ di ascesi ci vuole. b) Area delle competenze 8. Quali sono a suo avviso le caratteristiche cruciali e le competenze che definiscono in modo appropriato la sua professione? Le dobbiamo dividere in due: le caratteristiche della dirigenza della prima era e quelle attuali. Le caratteristiche delle dirigenza della “prima era” sono: una grande capacità di galleggiamento, un non governo dei problemi vissuto all’insegna della navigazione dei problemi, una scarsa sensibilità nei confronti dei cittadini come termini di riferimento e una elevata attenzione all’ingerenza politica percepita come alleata di carriera; una scarsa percezione della proprio ruolo nel senso che non ci si configura ma ci si lascia configurare dal potere di turno… Negli anni Ottanta invece è emersa una specie evoluta di dirigente pubblico che ha percepito la possibilità del proprio esercizio del potere sia verso il politico (anche grazie a una elevata mortalità delle formazioni di governo) sia verso i media… Prima la dirigenza non aveva una esposizione alla opinione pubblica, dagli anni ottanta in poi invece questa esposizione è aumentata molto. 66 Questa dirigenza ha avuto un protagonismo mediatico sconosciuto in precedenza. In questo periodo si è fatta molta immagine ma nessun empowerment. Sono stati però iniziati percorsi importanti come questo della Scuola… le politiche riformiste che sono iniziate negli anni Ottanta hanno avuto il merito di aver contribuito a rinnovare la P.A. Poi c’è una terza fase iniziata nel’92 in cui il dirigente burocrate e faraone ha iniziato a rispondere a necessità di managerializzazione: non basta essere all’apice di un sistema e esercitare un potere per produrre risultati di cambiamento, ma occorre ridisegnare i percorsi di carriera, i processi formativi, le logiche e le strategie di governo. 9. In quali competenze lei si riconosce maggiormente? Il senso dello Stato… cioè il senso della funzione del pubblico potere rispetto alla generalità. Se invece per senso dello stato intendiamo l’attaccamento al potere pubblico è una cosa diversa… Lo Stato ha potere, interesse, ma guarda al bene comune o meglio al bene di tutti e di ciascuno.Chi lavora nello Stato secondo me deve avere questa attitudine, è quello che protegge dalla corruzione del potere. 10. Lei ritiene che la sua carriera abbia bisogno di aggiornamento continuo? Certo sempre… soprattutto di tipo filosofico e questo lo dico ovviamente dal versante della mia formazione. Comunque credo che non sia il curriculum di studi a determinare l’aggiornamento prima e il successo poi nella professione ma fattori personali, come la motivazione. 11. Esistono a suo avviso meccanismi efficaci di apprendimento (individuale e collettivo) da sviluppare nelle Pubbliche Amministrazioni? Occorre sviluppare sistemi di condivisione delle cosiddette migliori pratiche. Bisognerebbe poi creare degli approcci di apprendimento dinamici che si basino sullo scambio delle informazioni e delle esperienze molto più veloce e preciso di quelli che possediamo, anche sulle applicazioni delle leggi. 12. In che cosa si sente diverso e in cosa si sente simile da un manager (dirigente) di aziende private? Io credo che ci siano similitudini, ma che le differenze siano molto maggiori. Oggi si fa un gran parlare di management nel pubblico, ma temo che sia un modo per dimenticare il senso dello Stato di cui parlavamo prima. Un manager privato può anche non averlo, nostra caratteristica distintiva invece è questo senso dello Stato, senza di esso non siamo altro che semplici commessi. Anche l’aziendalizzazione da questo punto di vista non ha senso. 67 13. La Pubblica Amministrazione è un’organizzazione che possiede a suo avviso una “cultura” peculiare? Se sì quale? Stanno cambiando molte cose… come le dicevo abbiamo avuto tre periodi: quello del dirigente faraone, quello del dirigente mediatico, quello del dirigente manager… ora siamo in questa ultima fase e io personalmente sono al centro di questi cambiamenti. Dal 95’ al 2000 sono state scritte anche col mio contributo diretto tutte le leggi più importanti che disciplinano ciò di cui mi occupo, come la legge [numero della legge] del ’98 che disegna per la prima volta un sistema di [oggetto della legge] e che investe 1100 miliardi dal ’98 al 2001… ed è una legge federalista in cui lo Stato esercita solo funzioni di orientamento e controllo. La legge [numero della legge] del ’97 che mette in campo un sistema di [obiettivo della legge]. Insomma siamo al centro di un grande cambiamento… in cui attività periferiche si mescolano con quelle centrali. 14. Come ha vissuti i momenti critici della sua professione? Tra i negativi decisamente le morti dei colleghi, e anche le invidie. Vorrei avere un atteggiamento più lieve… vorrei essere più libero di essere quello che sono: non posso dimenticarmi che per me la musica è un elemento distintivo e non accessorio. Uno non è fatto solo di una etica ma anche di una estetica. Mi pesa quando percepisci che per invidia una persona viene manipolata. Una soddisfazione personale invece l’ho raggiunta quando abbiamo portato settemila persone a [nome di una città italiana] per una conferenza nazionale su [oggetto della conferenza]: fu una cosa enorme. Oppure quando è stato pubblicato qualcosa a cui tenevo molto, ad esempio su riviste. 15. Nei momenti critici sono state determinanti le risorse interne (cioè le sue caratteristiche personali) oppure le risorse esterne (cioè le caratteristiche della sua organizzazione)? Sicuramente quelle interne… lo studio e la sofferenza… non ho una visione sacrificale, ma conosco la sofferenza, penso che ci siano molte ragioni per cui esiste la sofferenza (non solo di natura economica). Parlo di sofferenza sul lavoro ma non solo perché a me interessano i processi immateriali. Lo studio, cioè la capacità di riflessione sul reale, mi ha aiutato… quella la capacità di non fermarsi all’aspetto fenomenico, ma sentirsi altrove pur sentendo di far parte della realtà, anche se stai nella “stanza dei bottoni”. c) Area delle responsabilità e dell’eccellenza 16. Nella sua professione quali sono le responsabilità più frequenti che incontra? Come vive su di sé queste responsabilità quotidiane? 68 Direi esistenziali e morali… quando ci si occupa di politiche …….. … si toccano da vicino mondi come [campi di intervento delle politiche cui ha fatto riferimento prima]…Direi che il problema delle responsabilità è quello di farsi carico… Io penso di appartenere a una generazione che ha ri-scoperto la necessità di farsi carico. Il che significa anche una certa modalità di gestione del personale… se uno assume il fatto che esiste un legame tra produttività, benessere delle persone e qualità della organizzazione allora il processo di cui bisogna farsi carico non è solo quello organizzativo, ma anche quello di accompagnare chi vive in un certo contesto di lavoro, il che significa anche occuparsi del benessere degli altri… senza paternalismi o atteggiamenti da piccolo padre. Infine direi: gestire il potere. Credo che Tolkien avesse ragione quando diceva che il potere è veramente questo anello che rischia di ucciderti nella vita e nella mente. Se ti lasci prendere dalla burocrazia e dal potere viene ucciso nell’animo, perdi l’orizzonte di senso. 17. Lei ritiene che il suo percorso professionale sia in qualche modo incompiuto? Assolutamente sì… soprattutto oggi che per vari motivi siamo nell’occhio del ciclone… Questa mia struttura è nuova e si confronta con modificazioni costanti, non siamo noi i protagonisti… non siamo noi che chiediamo di riscrivere l’articolo 18 o la sua modifica… per cui bisogna sempre conoscere cose nuove. 18. Lei pensa che sia giusto approntare nuove modalità di valutazione del “rendimento” dei risultati ottenuti da un dirigente della Pubblica Amministrazione? Lo sforzo di legare insieme i risultati della responsabilità del dirigente con i percorsi in cui si realizza questa responsabilità non è ancora compiuto. Si sconta una deriva inerziale dell’amministrazione pubblica e questo sforzo tocca proprio i dirigenti. 19. In conclusione, cosa – secondo lei – è l’eccellenza nella sua professione e come si manifesta all’interno di un contesto professionale come la Pubblica Amministrazione? L’eccellenza si raggiunge quando un individuo è in contatto con se stesso: è eccellente chi riesce a coniugare la facoltà organizzativa con il proprio pensiero. Deve fare quello che fa non solo perché deve farlo, ma per una ragione profonda che non è tautologica. Può essere estetica, politica, etica, ma deve essere allocentrica. 69 E’ bene che vi sia capacità di relazione con le persone, in senso moderno, cioè che non faccia male ali altri, ad esempio mobbing involontario. Occorre che si capisca davvero che ogni volta che si sta insieme agli altri si ha a che fare con la loro psiche, che ci si trova al centro di proiezioni…. Il processo di qualità riguarda anche le relazioni. Ho incontrato tali mostri… E poi ci sarebbe la dirigenza senza quelli che vengono diretti? Non ci sarebbe dirigenza senza quelli che vengono diretti. Se ti senti altro a prescindere, non sei dirigente, ma un consulente. 2.2. Intervista autobiografica n. 2 a) Area del cambiamento 1. Può raccontarci quale è stato il suo percorso professionale e come ha raggiunto la sua attuale posizione all’interno della pubblica amministrazione? Il mio approccio nella P.A. nasce non nello Stato ma nel mondo ospedaliero. Appena laureato ho tentato di entrare nel mondo privato, avrei dovuto entrare in [nome di una società], ma avevo il militare di mezzo… finito il militare l’[nome della precedente società] era ancora disponibile ma nel frattempo era andata in crisi. Mi sono laureato in Scienze Politiche e poi ho tentato alcuni concorsi. Sono arrivato alla direzione del personale nell’ospedale di […] come capo del personale. Ho scelto quest’ambito perché più simile ad un’azienda privata nel contesto del pubblico impiego. Dopo altri concorsi sono passato all’ospedale di […] sempre con funzioni di direzione personale. Poi mi sono spostato dalla Lombardia al Friuli. Rientrato in [una regione italiana], ho partecipato al concorso per un posto da Segretario Generale, sfruttando la riforma della [settore della pubblica amministrazione]. Sono diventato Segretario Generale molto giovane: avevo 32 anni. Così sono passato ad un’attività di supporto al Ministro di [settore della pubblica amministrazione] sviluppando il primo contratto nazionale collettivo per il personale di servizio […]; è stato uno dei lavori più complessi che ho svolto. Poi nell’86 ho avuto la nomina a Direttore Generale presso il Ministero di [settore della pubblica amministrazione]. Devo dire la verità: ho accettato quella nomina, che non mi interessava, solo perché avevo la necessità di stabilizzare la mia posizione gerarchica. Il Ministero di [settore della pubblica amministrazione] era appena nato e quindi… diciamo che è stata un’esperienza interessante e gradevole. Presuntuosamente è stata un’esperienza che mi ha dato la consapevolezza personale di poter fare tutto. Perché il mio primo incarico è stato quello 70 di Direttore del servizio [nome del servizio], che per me era un argomento del tutto sconosciuto. L’ho accettata anche perché mi interessava la difesa di [missione del servizio], la conservazione di […]. E dall’86 al 99 sono stato al Ministero di [settore della pubblica amministrazione]… nel 99 sono stato messo a disposizione del ruolo unico. Io ho sempre fatto questo mestiere rivendicando l’esercizio del ruolo. In realtà sono stato a casa… mi sono autodenunciato alla Corte… l’ho fatto non per creare problemi al Ministero, ma solo perché avendo imparato come funziona tutta la macchina non volevo realizzare le condizioni perché qualcuno un domani mi potesse chiedere: “cosa facevi a casa?” Poi nel marzo 2001 sono stato ripescato dal Ministero di [settore della pubblica amministrazione] e credo che ciò sia avvenuto per motivi di anzianità perché non c’è stata altra ragione per la chiamata. L’impatto con il mondo di [settore della pubblica amministrazione] è stato molto gratificante… anche se è un mondo alquanto strano, perché non coincide con la mia idea di Amministrazione e non si concilia nemmeno con le mie esperienze pregresse. E’ un mondo nel quale si dicono tante parole, si progetta molto, ma si fa poco. E devo dire che è esattamente l’opposto delle mie esperienze, soprattutto con quella ospedaliera dove la risposta andava data sempre e comunque. 2. In questa sua storia professionale che cosa è rimasto come prima (di lei e della sua vita) e che cosa è cambiato? E’ cambiato ovviamente il contesto esterno… ma non quello interno. Io ho mantenuto sempre le mie caratteristiche comportamentali e per cui alla fine finisco sempre per apparire un diverso. Cioè è anomalo che io pretenda il rispetto delle norme, che io risolva i problemi, che io risponda il giorno dopo… questo sicuramente non viene apprezzato. 3. Secondo lei, quali sono state le caratteristiche della sua personalità (o carattere) che l’hanno favorita e quelle che l’hanno svantaggiata nella sua storia professionale? Credo che ad aiutarmi sia stata quella che io definisco una certa duttilità nei comportamenti e la disponibilità a spostarmi fisicamente. Però poi dal punto di vista operativo in molte circostanze la mia duttilità nell’operare mi ha creato qualche problema… Se posso fare un esempio: nel mondo ospedaliero la figura del Segretario Generale è molto particolare. Faceva parte del Consiglio di Amministrazione, senza il diritto di voto ma partecipava in toto alla responsabilità… una anomalia. Per essere esonerati dalla responsabilità bisognava esprimere dissenso motivato. Allora, molte 71 volte mi è successo di esprimere dissenso motivato. Lì esisteva una sorta di equilibrio tra l’essere duttili e il non esserlo… Nello Stato degli ultimi anni ciò non è più possibile. Il Dirigente è totalmente prigioniero della politica. 4. Quanto sono state importanti le sue origine familiari e la rete delle sue relazioni personali rispetto al suo percorso professionale e alla sua “carriera”? Non mi sono lasciato condizionare molto perché c’erano tutte le realtà. Le mie origini non mi hanno influenzato. Nella mia famiglia c’erano tanti tipi di esperienza: libera professione, ambito pubblico e ambito privato. 5. Quali sono state le figure cruciali (“maestri” e/o “anti-maestri”) per la sua formazione e la sua carriera? Come maestro sicuramente direi il Segretario Generale dell’ospedale di […]; anche se non ho mai avuto la fortuna di collaborare strettamente con lui, ho visto come aveva attuato la riorganizzazione. L’ho ritrovato a distanza di alcuni anni quando abbiamo lavorato per la costituzione del Contratto Nazionale. Però questo è un ragionamento che sto facendo adesso a posteriori… perché non me lo ero mai posto. Credo l’esperienza che ho visto attraverso di lui mi abbia consentito di ripensare molte vicende riorganizzative che ho vissuto successivamente. [Nome dell’Ospedale] è stato un momento molto importante della mia vita lavorativa. 6. Si sente in generale soddisfatto della sua carriera? Quale erano le sue aspettative di fondo all’inizio? Non lo so. Non lo so perché francamente credo che occorre una presa di coscienza soprattutto da parte di chi svolge una attività di gestione per conto dello Stato deve avere una sua indipendenza vera e questo non c’è… per cui non so se posso dirmi soddisfatto. b) Area delle competenze 7. Quali sono a suo avviso le caratteristiche cruciali e le competenze che definiscono in modo appropriato la sua professione? La capacità di lavorare finalizzando l’azione all’obiettivo, rendere coerenti qualsiasi azione all’obiettivo di riferimento. Le regole sono fatte per essere rispettate, e se non vanno bene vanno modificate, mai infrante. Il dirigente ha il dovere di prendere contatto con i bisogni della collettività e poi cercare di fornire le risposte migliori. 8. In quali competenze lei si riconosce maggiormente? 72 In tutte quelle che ho detto... Non si fanno assenze sulle regole. Personalmente odio quando ricevo risposte incomplete, quindi cerco di non commettere mai questo errore. 9. Lei ritiene che la sua carriera abbia bisogno di aggiornamento continuo? Si. Ci dovrebbe essere poi un orientamento molto più grande nell’amministrazione. 10. Esistono a suo avviso meccanismi efficaci di apprendimento (individuale e collettivo) da sviluppare nelle Pubbliche Amministrazioni? Credo che la Dirigenza mediamente abbia presenti i suoi criteri e doveri di lavoro e cerchi di applicarli… apprendendo sul lavoro. C’è forse un’altra cosa che va in negativo che è l’incapacità di resistere ad alcune pressioni. Certo le condizioni del contesto non sono fatte per resistere. 11. In che cosa si sente diverso e in cosa si sente simile da un manager (dirigente) di aziende private? Molte cose… tanto è vero che credo che non si possa veramente parlare nel pubblico di privatizzazione. Quando lei sta in una azienda privata, lei ha comunque qualcuno che investe e rischia in proprio e che alla fine è giustamente legittimato a dire l’ultima parola. Nel pubblico non è così. Perché il ministro non è il proprietario. Il proprietario è il cittadino comune. 12. La Pubblica Amministrazione è un’organizzazione che possiede a suo avviso una “cultura” peculiare? Se sì quale? Non mi sono mai posto il problema… ma visto che me lo pone credo di sì. Dovrebbe essere la gestione dell’ordinarietà, ma il quotidiano non è oggetto dell’attenzione politica. La cultura peculiare si basa su un paradosso. Ciascuna struttura dell’Amministrazione dovrebbe rispondere ai bisogni degli utenti, ma nessuno osserva questi bisogni. Allora io posso essere bravissimo nell’attuare tutte le direttive e non aver fatto niente per la vita ordinaria. E viceversa posso essere un pessimo direttore perché ho soddisfatto tutti i bisogni, ma non sono stato capace di svolgere e conseguire l’obiettivo particolare che mi era stato consegnato. Complessivamente credo però che ci sia stato un peggioramento. E’ per questo che molti dirigenti sono andati via e hanno fatto il salto nel privato. 13. Come ha vissuto i momenti critici della sua professione? I momenti critici nel mio percorso sono stati legati o a ingerenze politiche o problematiche personali che potevano venire o dall’alto o dal collega perché si innescano momenti di conflittualità. Li ho vissuti e basta. 73 14. Nei momenti critici sono state determinanti le risorse interne (cioè le sue caratteristiche personali) oppure le risorse esterne (cioè le caratteristiche della sua organizzazione)? Le risorse interne. Come le dicevo prima ho una grande duttilità sia mentale che comportamentale e questo mi ha permesso di reagire e andare avanti. c) Area delle responsabilità e dell’eccellenza 15. Nella sua professione quali sono le responsabilità più frequenti che incontra? Come vive su di sé queste responsabilità quotidiane? Nei diversi lavori che mi sono trovato a fare devo dire che esiste un filo conduttore: la supremazia della parte comportamentale sulla questione tecnica. Cioè i lavori che ho fatto e quindi le responsabilità conseguenti richiedevano tutti un alto livello di capacità relazionale. 16. Lei ritiene che il suo percorso professionale sia in qualche modo incompiuto? Come le dicevo non so se posso dirmi soddisfatto della mia carriera per cui non saprei cosa rispondere a questa domanda. 17. Lei pensa che sia giusto approntare nuove modalità di valutazione del “rendimento” dei risultati ottenuti da un dirigente della Pubblica Amministrazione? Credo che questo ragionamento si possa fare solo se si trovano degli indicatori idonei oltre che congruenti... non le saprei rispondere sugli indicatori giusti da adottare, forse dovrebbero essere trovati indicatori settore per settore. Non è possibile pensare che ciò che vale nel mondo della Sanità valga anche nel mondo dell’Istruzione. Non credo che oggi il meccanismo che si è messo in piedi, il controllo di gestione, non aiuta i dirigenti. 18. In conclusione, cosa – secondo lei – è l’eccellenza nella sua professione e come si manifesta all’interno di un contesto professionale come la Pubblica Amministrazione? L’eccellenza appartiene a coloro i quali sono capaci di osservare il quadro normativo di riferimento e rispondere al meglio ai bisogno che i cittadini esprimono. Da un certo punto di vista direi anche la qualità con la quale soddisfano le risposte del Ministro pro tempore. E infine capire sempre quale misura di riferimento si vuole adottare, nel senso che possono esistere diversi tipi di eccellenza. 74 2.3 Intervista autobiografica n. 3 a) Area del cambiamento 1. Può raccontarci quale è stato il suo percorso professionale e come ha raggiunto la sua attuale posizione all’interno della pubblica amministrazione? Mi sono laureata in Economia e Commercio in tre anni accademici e una sessione (devo dire che ho accelerato i tempi ), ho sostenuto l’esame di stato per l’abilitazione alla professione di Dottore Commercialista, ho poi partecipato al corso-concorso della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione per il reclutamento di funzionari. Ho lavorato per diversi anni presso il Ministero del …., occupandomi di bilancio e programmazione economica; successivamente ho vinto il concorso pubblico di Dirigente presso il Ministero de …... Nell’arco di questi otto anni ho partecipato ad iniziative formative bandite dalla S.S.P.A., seminari tematici in materia economica e di contabilità pubblica e corsi di formazione per formatori. E’ stato un buon volano per l’espletamento della mia attività professionale. Si è sviluppato, tra l’altro, il concetto di rete: conoscendo persone con diverse competenze mantengo tuttora rapporti di scambio con altre amministrazioni e settori. Ho inoltre avuto la possibilità di tornare in ambito universitario come Cultore della Materia per la cattedra di Economia Pubblica e tuttora questa attività mi è utile per tenermi aggiornata. Ho preso poi servizio nel ….. nel Ministero de …., in qualità di dirigente amministrativo e sono stata poi richiamata dal Ministero de …, che è la mia vecchia amministrazione, per sottoscrivere il contratto. Richiamata poi al Ministero de … con ruolo dirigenziale presso il Servizio …., mi occupo della gestione di un programma operativo di assistenza tecnica. 2. In questo sua storia professionale che cosa è rimasto come prima (di lei e della sua vita) e che cosa è cambiato? Tutti gli obiettivi che mi sono posta da dopo la laurea hanno seguito una certa continuità, tranne alcune attività di maggiore intraprendenza, cose che comunque non mi hanno impedito di avviare e percorrere progetti di tipo anche familiare, raggiungendo degli obiettivi anche personali, quindi. 3. Secondo lei, quali sono state le caratteristiche della sua personalità (o carattere) che l’hanno favorita e quelle che l’hanno svantaggiata nella sua storia professionale? Tenacia, capacità, volontà, carattere. 75 4. Quanto sono state importanti le sue origine familiari e la rete delle sue relazioni personali rispetto al suo percorso professionale e alla sua “carriera”? La mia famiglia è stata determinante, ha consentito di farmi studiare fino all’assunzione nel Servizio Pubblico senza dover ricorrere ad altri strumenti e mi ha aiutata a crearmi una mia personalità, elemento fondamentale per raggiungere l’autonomia. 5. Quali sono state le figure cruciali (“maestri” e/o “anti-maestri”) per la sua formazione e la sua carriera? Molti professori sia del corso di laurea, sia del corso di Reclutamento della Scuola Superiore della P. A. mi hanno trasmesso una buona dose di positività e mi hanno insegnato ad interpretare i documenti di finanza pubblica e, in questo modo a costruire la mia carriera. Altri maestri sono stati tutti i ministri che partecipavano alle riunioni politiche quando lavoravo nella Segreteria del … e che mi hanno dato la possibilità di approfondire aspetti fino a quel momento estranei. 6. La sua storia è una storia (anche) di “cambiamento/i”? Che cosa è per lei il cambiamento e che cosa significa? L’educazione alla flessibilità per me è subentrata solo in un secondo momento, successivo all’ingresso nella P.A., coincidente con il Corso di Formazione per Formatori. Fino a quel momento avevo una rigidità di interpretazione dei segnali, che progressivamente è stata smussata nei due anni di Corso. Anche l’esperienza dell’aula, la necessità di controllare le emozioni educando l’atteggiamento, mi hanno migliorata e mi è dispiaciuto non poter attuare l’attività di formatore nel mio campo. 7. Si sente in generale soddisfatto della sua carriera? Quale erano le sue aspettative di fondo all’inizio? Sicuramente sono molto soddisfatta, sicuramente anche gli aspetti economici hanno accompagnato le motivazioni e le aspettative iniziali. b) Area delle competenze 8. Quali sono a suo avviso le caratteristiche cruciali e le competenze che definiscono in modo appropriato la sua professione? Differiscono rispetto a quelle di un Funzionario pubblico in quanto un Dirigente ha una responsabilità diretta, personale, patrimoniale. Il Dirigente sottoscrive un contratto col Direttore Generale, in questo contratto sono indicati obiettivi, strumenti e risorse e risponde del raggiungimento dei risultati, similmente al settore privatistico. Inoltre, 76 gestire il personale ed agire tramite altri, creare sintonia nel proprio ufficio è molto difficile. 9. In quali competenze lei si riconosce maggiormente? Credo di essere molto determinata, di essere dotata di competenze acquisite con lo studio e l’impegno. 10. Lei ritiene che la sua carriera abbia bisogno di aggiornamento continuo? Certamente 11. In che cosa si sente diverso e in cosa si sente simile ad un manager di aziende private? Non avendo avuto esperienze dirette nel settore privatistico, non le saprei rispondere. 12. La Pubblica Amministrazione è un’organizzazione che possiede a suo avviso una “cultura” peculiare? Se sì quale? La P.A. ha avuto una “cultura peculiare” in passato, adesso, cominciando a parlare di privatizzazione del Pubblico Impiego, è stata messa in secondo piano; certe logiche vengono ora interpretate in maniera più flessibile e vengono superate tante rigidità, continuando però ad attenersi a certe disposizioni. 13. Come ha vissuto i momenti critici della sua professione? I momenti per me maggiormente critici sono stati i momenti di stasi derivanti da incertezze. Quando si parlava di accorpamenti, si notava del pessimismo diffuso tra i superiori gerarchici che si ripercuoteva su tutto il personale e che si cercava di combattere aspirando a dei miglioramenti attraverso la partecipazione a dei concorsi. E’ fondamentale mantenere l’ottimismo anche nelle situazioni estremamente critiche e negative, trovare gli aspetti positivi per riuscire a produrre prodotti positivi. Un altro fattore vincente è l’immedesimazione organica, avere la consapevolezza che il proprio successo sia legato a quello dell’azienda. 14. Nei momenti critici sono state determinanti le risorse interne (cioè le sue caratteristiche personali) oppure le risorse esterne (cioè le caratteristiche della sua organizzazione)? Determinazione e forza di volontà. c) Area delle responsabilità e dell’eccellenza 15. Lei ritiene che il suo percorso professionale sia in qualche modo incompiuto? Non si è mai arrivati, e mai finiscono gli esami. Mi pongo obiettivi più alti di me per non appiattirmi sul presente. 77 16. Lei pensa che sia giusto approntare nuove modalità di valutazione del “rendimento” dei risultati ottenuti da un dirigente della Pubblica Amministrazione? E’ già possibile la valutazione del rendimento, soprattutto in termini quantitativi (numero di procedimenti amministrativi conclusi, numero di procedimenti avviati che prevedono un certo numero di istruttorie… ). E’ misurabile il rendimento, tanto è vero che la nostra retribuzione consta di una parte fissa e di una variabile a seconda del merito. Anche la possibilità di trasferimento dei dirigenti che non raggiungono gli obiettivi, è da salutare favorevolmente, perché sprona al miglioramento e al perseguimento dell’efficienza dell’amministrazione. 17. In conclusione, cosa – secondo lei – è l’eccellenza nella sua professione e come si manifesta all’interno di un contesto professionale come la Pubblica Amministrazione? L’eccellenza si manifesta in una carriera già di per sé eminente, risultato di una combinazione di elementi tra cui la componente del tempo impiegato per arrivare ad una certa posizione. Altre componenti sono invece riferibili all’atteggiamento e non sono percepibili dalle carte, sono quindi da valutare attraverso il contatto. 78