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Palazzani Riccardo (Summer) Star Trek The Next Generation THE LAST ENTERPRISE 2001 La diffusione di questo documento è autorizzata dall’autore nei limiti della correttezza e cortesia dei lettori affinché ne citino sempre la fonte. www.veridiano3.com CAPITOLO 1 Le stelle, come lacrime su un volto scuro, scorrevano veloci, mentre l'USS Enterprise NCC 1701-E viaggiava a curvatura cinque verso il tunnel spaziale bajoriano. Dietro ad essa, a formare un enorme sciame, migliaia di navi stellari, di vario genere e dimensione, della Federazione, romulane, klingon, cardassiane, da guerra, cargo, yacht privati. La più imponente carovana di profughi che il quadrante Alfa avesse mai visto dai tempi della caduta dell’Impero T’Kon. Il capitano Picard, seduto alla poltrona della saletta tattica, contemplava, in solitudine, lo spazio profondo e le stelle che fuggivano veloci, domandandosi con profonda desolazione, quanto ancora sarebbe rimasto in vita per godersi uno spettacolo così sublime. Quello che aveva sempre temuto, era purtroppo accaduto. Dopo solo due anni erano tornati. La prima volta furono fermati ad un passo dalla Terra. La prima volta, divenne parte di loro e quasi li condusse alla vittoria. La seconda volta, fu proprio la sua esperienza, maturata nell’attacco precedente a salvare la Terra, da un tentativo più ingegnoso. Avevano tentato di modificare il passato dell’umanità, per sottometterli più facilmente nel presente. Anche allora erano stati sconfitti. Sempre grazie a lui ed al suo equipaggio. Alcuni anni erano trascorsi in una relativa tranquillità. La guerra contro il Dominio aveva profondamente scosso l’equilibrio del quadrante Alfa. Poi era terminata e finalmente parve che un’era di pace fosse alle porte. Invece, tre mesi addietro, prima un'unità isolata, che seppure con qualche difficoltà fu annientata ben lontana 1 dal settore zero-uno. Poi ne arrivarono due, e fu più difficile fermarli. Ma furono annientati. Poi furono dieci. Senza tregua, la Federazione dovette chiedere aiuto a tutte le forze del quadrante Alfa. Per la prima volta, Terrestri, Klingon, Romulani, Cardassiani, Vulcaniani, Breen, Ferengi e decine di altre razze combatterono fianco a fianco. La battaglia di Kaatana fu un successo, ma ci furono molte perdite. La Flotta era ormai ridotta a poche centinaia di vascelli, molti dei quali gravemente danneggiati. Anche gli alleati non stavano meglio. Ma proprio quando si pensava che fossero stati definitivamente sconfitti, tornarono. Questa volta dovevano avere deciso di chiudere la questione con il quadrante Alfa. Picard ricordava ancora quella tragica mattina, in cui fu informato del ritorno dei Borg. Solo tre settimane dopo la battaglia di Kaatana. Un moto di sconforto gli strinse il cuore, la tanto agognata pace era ancora rimandata, ma avrebbe combattuto ancora. L’Enterprise aveva quasi ultimato le riparazioni ed era nuovamente pronta a scontrarsi con i Borg. Ma il suo orgoglio e la sua incrollabile fiducia, che l’avevano sorretto in quegli ultimi terribili mesi, e che nulla all’universo avrebbe potuto scalfire, trovarono un muro invalicabile, quando l’Ammiraglio Summer gli comunicò il dispiegamento delle forze nemiche. Questa volta, non erano né uno né dieci né venti. Più di cento cubi Borg viaggiavano a tutta velocità verso il quadrante Alfa, diretti ai pianeti natale delle principali forze del quadrante. Nulla di conosciuto avrebbe potuto resistere ad una tale potenza. Nemmeno se la Federazione e gli alleati fossero stati al massimo delle loro forze, avrebbero potuto sconfiggere un'armata così numerosa. Quel giorno, Picard si chiese se quello non fosse che l’inizio della fine. Entro pochi mesi i Borg avrebbero 2 devastato migliaia di pianeti, assimilato razze, popoli, mondi interi. Era quello il destino dell’Homo Sapiens? Dopo aver lottato per millenni contro le forze della natura, evolvendosi lentamente, fino a riuscire ad elevarsi al di sopra della sua bestialità, dopo aver imparato a volare, a viaggiare nel cosmo, spinti da insaziabile curiosità, tutto sarebbe finito così? Rinchiusi per l’eternità in alveari Borg, con le carni straziate dagli impianti cibernetici? A quel punto scoppiò il panico e la Federazione andò letteralmente in pezzi. Il terrore fu più forte di ogni altro freno morale. Saccheggi, devastazioni, follia collettiva trasformarono pacifici pianeti in fornaci di violenza e morte. In quei terribili giorni di puro caos, Picard cercò di mantenere l’ordine, e cominciò a studiare un piano. Ma non per sconfiggere i Borg, bensì per lasciarseli alle spalle, conscio del fatto che non vi era speranza alcuna di salvare l’universo che aveva conosciuto. Raccolse quante più navi della Flotta possibile e iniziò il viaggio che li avrebbe portati verso il tunnel spaziale bajoriano. Sempre più navi si unirono al convoglio, che di giorno in giorno cresceva. Su di esse decine di migliaia di profughi avevano trovato posto, assiepati quasi come animali. Picard poteva ancora udire le urla strazianti di coloro che erano stati costretti, causa mancanza di spazio a rimanere nelle colonie indifese, consci che mai sarebbero potuti sfuggire ai Borg. Ogni angolo dell’Enterprise non essenziale venne riadattato per essere utilizzato da alloggiamento. Più di ventitremila persone avevano trovato rifugio sulla nave. I sistemi di rigenerazione dell’atmosfera interna erano al limite dell’operatività e nei corridoi, affollati di profughi, il puzzo era quasi insopportabile. 3 Una volta raggiunto il Quadrante Gamma, era intenzione di Picard richiudere definitivamente il tunnel spaziale, Profeti o non Profeti. I Borg avrebbero potuto raggiungerli ugualmente, prima o poi, ma Picard sperava che tutto ciò sarebbe avvento in un futuro così lontano da permettere ai loro discendenti di trovare una valida difesa. La priorità ora era impedire che intere civiltà venissero sterminate e che non restasse più nessuna testimonianza della loro esistenza. Nel Quadrante Gamma avrebbero dovuto affrontare i rimasugli del Dominio, il quale sicuramente non avrebbe gradito tale intrusione. Ma a quello ci avrebbe pensato dopo, meglio affrontare i problemi uno per volta. Ed ora, la sua principale preoccupazione erano quei cinque cubi che li stavano inseguendo. Li avrebbero raggiunti in quattro giorni. E al tunnel bajoriano ne mancavano ancora dieci. Picard si alzò e si portò al replicatore della saletta «Te, Earl Grey, caldo» «Impossibile eseguire. Risorse insufficienti. Sistemi in sovraccarico» Picard fece una smorfia di disappunto. Forse è proprio la fine - pensò amaramente Picard che, sistemandosi l’uniforme, tornò alla sua poltrona, voltandosi ancora verso le stelle, dando la schiena alla scrivania. «Prego signore! Ecco il suo te! Earl Grey, caldo!» Picard si voltò di scatto, riconoscendo quella voce. «Q!» L’entità onnipotente e onnisciente, conosciuta come Q, che negli anni passati aveva procurato parecchi grattacapi a Picard e al suo equipaggio, stava in piedi, acconciato come un cameriere. Con un tovagliolo sull’avambraccio sinistro, una giacchetta bianca, con un curioso cravattino nero, che pareva stringergli il collo, porgeva a Picard un vassoio con una tazza fumante di te, accompagnata da un 4 sorriso forzato. «Jean-Luc! Che piacere rivederti!» «Q! Ci sei tu dietro a tutto questo? Sappi che questa volta hai esag…» Q sgranò gli occhi, fintamente sorpreso dalla pessima accoglienza, assumendo l’atteggiamento di chi è rimasto davvero ferito nei sentimenti. «Jean-Luc!» e fece comparire nuovamente il finto sorrisetto «il tuo te, si fredda.» Picard, con un gesto pieno di rabbia scagliò lontano il vassoio, che andò assieme alla tazza a sbattere contro una paratia. Il te si rovesciò sul pavimento, rilasciando il suo aroma nell’aria. Quando raggiunse le narici di Picard, egli fu colto, per un breve istante, dal rimpianto per non avere accettato il dono di Q. Una tazza di te era proprio quello di cui aveva bisogno. Q osservò il vassoio e i cocci della tazza sparsi sul pavimento «le buone maniere non sono mai state il tuo forte Jean-Luc» commentò scuotendo il capo e con uno schiocco delle dita il vassoio, la tazza e il te scomparvero. Picard non si lasciò intimorire dal giochetto di Q. Era ormai abituato a molto peggio. Ma ora, quello che catturava la sua attenzione era il motivo della visita di Q. In cuor suo, sperava che lui centrasse con tutta la devastazione e la miseria di quegli ultimi giorni. Se non altro, forse, ci sarebbe stato un modo per rimettere le cose a posto. Parecchi anni prima, era stato proprio Q a fare incontrare, per la prima volta, a Picard i Borg, permettendo alla Federazione di prepararsi in anticipo all’inevitabile incontro successivo, anche se non era servito a nulla. Forse tutto era opera sua, forse era tutto un lungo, terribile incubo. Q, con un altro schiocco si cambiò d’abito, indossando un'uniforme della Flotta, con i gradi di Ammiraglio. 5 Picard noto con disgusto, che a Q, continuavano a piacere le sceneggiate. Q era davvero l’ultimo gradino dell’evoluzione? Se era così, augurò all’umanità di estinguersi ben prima. E forse stava accadendo. Q si accomodò sul divanetto della saletta, incrociando le gambe. «Allora Jean-Luc? Che mi racconti?» domandò con fare confidenziale, come se stesso parlando ad un vecchio caro amico. «Ci sei tu dietro tutto questo?» Picard era furioso e non tolse un attimo lo sguardo da quello dell’entità. «Dietro a cosa?» chiese Q, allargando le braccia. «Ai Borg! E’ opera tua quest'invasione? Ci stai ancora mettendo alla prova? Non ti abbiamo dimostrato già più di una volta che l’umanità merita rispetto?» Q scosse nuovamente la testa «quanto siete presuntuosi, cosa ti fa supporre che io, Q, l’essere supremo, stia sprecando il mio tempo per una specie primitiva e rozza come la vostra?» Una divertita risatina accompagnò le ultime parole. Picard fu preso da una rabbia incontrollabile. La Federazione, il suo universo, la sua vita erano sull’orlo del baratro e anziché lottare per impedire che accadesse l’inevitabile, stava perdendo, lui si, il suo tempo, dietro alle menzogne di Q. Q si rese conto della rabbia di Picard e, quasi dispiaciuto per averlo fatto infuriare, cambiò sia tono della voce che espressione. Con finta umiltà si scusò: «scusami JeanLuc, questo forse non lo dovevo dire.» Picard, si rilassò, udendo l’ammissione di Q, il quale non tradendo il suo solito atteggiamento irriverente, non rinunciò ad un’ultima stoccata «anche se devo ammettere che voi umani non avete rappresentato, un grosso stimolo!» «Vieni al dunque! Perché sei qui questa volta? come 6 saprai abbiamo ben altro di cui preoccuparci di questi tempi!» inveì Picard. «Ah! Si, certo. I Borg» con uno schiocco delle dita, Q si trasformò in un drone Borg. Picard d’istinto voltò lo sguardo, disgustato da quella visione. Quanti di quei droni aveva visto massacrati negli ultimi mesi? Quanti amici, compagni, ufficiali erano diventati droni? «Ormai sarà questo l’aspetto che dovrò assumere. Peccato. Le uniformi della Flotta, seppur poco eleganti e notevolmente scomode, erano sicuramente meglio di questi bio-impianti» Q azionò uno degli strumenti che costituivano il prolungamento del suo avambraccio, e un fascio sottile di luce rossa colpì il soffitto della saletta. «Primitiva ma divertente, non trovi?» chiese Q, che pareva affascinato dagli impianti. A quel punto, Picard, sconsolato, decise di non opporsi più alle provocazioni di Q. Si lasciò andare sulla poltrona, afflosciandosi come un corpo morto, troppo stanco per continuare a ribattere. Per contro, Q, un po’ scocciato dall’aver perso l’unico suo spettatore, tornò ad indossare l’uniforme della Flotta scomparendo in un lampo di luce, per ricomparire, un istante dopo, alle spalle di Picard, con lo sguardo rivolto la dove, poco prima, il capitano aveva lasciato i suoi pensieri. Il cielo stellato. «E come accadde per l’impero T’Kon, anche per la Federazione sembra siano arrivati i giorni dell’agonia che precede la morte» esclamò un Q dall’espressione seria. Quasi dispiaciuta. Possibile che Q potesse nutrire un qualche tipo di affetto per l’umanità? Si domandò Picard. «Così pare Q. Ma io spero che sia invece l’inizio di una nuova era, nel Quadrante Gamma» rispose Picard, mentendo spudoratamente anche a se stesso. Ma non voleva che Q pensasse che lui si fosse arreso. Anche se probabilmente era così. 7 «Peccato. Mi mancherete. E credimi, fatto da un Q, questo è davvero un apprezzamento notevole, Jean-Luc!» «Vuoi anche che ti ringrazi?» chiese con tono sarcastico Picard. «No, figuriamoci. Non mi sono mai aspettato la gratitudine da voi umani!» Picard trovò persino la forza di sorridere. Era l’inizio della follia? O era solo il fondo dell’esasperazione? «Vuoi, dirmi, una volta per tutte, cosa vuoi questa volta?» insistette Picard Q fece una pausa, come se stesse raccogliendo le parole da dire. «Diciamo che il Q-Continuum, ha preso a cuore la vostra causa, diciamo che io» e sottolineò l’io alzando il tono della voce «li abbia convinti, che lasciare che la Galassia diventi un unico alveare Borg, pieno di noiosissimi droni, non sarebbe una cosa, come dire, divertente! E…» «E? Continua!» Q prese il respiro. Possibile che quanto stava per dire gli pesasse così tanto? Picard attese fremente una luce nella notte buia del suo futuro. «E, in accordo con il Q-Continuum, abbiamo deciso di darvi un'ulteriore possibilità, davvero immeritata credimi!» concluse Q, che pareva davvero imbarazzato. Picard meditò sulle parole di Q. Quella che gli stava dando, seppur non conoscesse ancora i dettagli, era una possibilità davvero unica. Ma Picard scosse la testa. «Non posso accettare. Dobbiamo cavarcela con le nostre gambe. E poi, l’idea di esserti debitore, per l’umanità intera, mi disgusta!» fu la risposta tagliente di Picard. «Sciocchi! Non lo capisci che quella che ti sto dando è una possibilità irripetibile? Lo sai anche tu che siete spacciati! Non arriverete mai al tunnel bajoriano! Le navi Borg vi raggiungeranno prima e vi annienteranno!» urlò con rabbia Q, perdendo il suo solito autocontrollo. 8 «Se il destino dell’umanità è quello di venire assimilati, io lotterò fino all’ultimo per impedirlo, ma non scenderò mai a compromessi con te! Condannerei l’Universo intero ad una piaga ben peggiore di quella dei Borg!» «Ovvero?» «A doverti riconoscenza» concluse amareggiato Picard. Q era venuto sull’Enterprise solo per divertirsi, probabilmente un’ultima volta, mettendo alla prova i suoi principi. Cercando, fino all’ultimo, di imporsi sull’umanità intera come salvatore. Cercando di umiliarli, più di quanto il destino non stesse già facendo. Q rimase a bocca aperta «Tu pensi che sia questo il mio scopo? Salvarvi per farmi adorare come un dio? JeanLuc! Non ti facevo così meschino!» Rise divertito «anche se devo dire che a volte ho pensato a questa possibilità!» «Non ci trovo nulla di divertente Q e se hai finito, per favore, torna da dove eri venuto!» Rispose stizzito Picard, che fingendo di non badare più alla sua presenza, accese il terminale e finse di esaminare i primi dati che gli vennero sotto mano. «Ignorarmi non ti servirà a nulla, Jean-Luc,» continuò Q «medita solo su questo: chi sei tu per decidere, non solo per te stesso, ma anche della vita dei tuoi compagni, del tuo amato equipaggio, delle miliardi di vite che popolano il Quadrante Alfa e che ora gettano nel terrore più cupo, nella attesa di assimilazione certa?» Picard non rispose. Le mani gli tremavano. La tentazione di accettare la proposta di Q era grande. Qualunque essa fosse. Q aveva ragione. Chi era lui per decidere della vita di miliardi di esseri viventi? Parigi valeva bene una messa? «Pensaci Jean-Luc, pensaci!» Furono le ultime parole di Q, prima di svanire. Picard si voltò di scatto, ma ormai Q era sparito. Parole, pensieri, tormenti, fluttuavano nella sua mente. 9 CAPITOLO 2 «Comandante Riker, vorrei la sua opinione.» Picard aveva riunito i suoi ufficiali superiori nella sala d’osservazione dell’Enterprise, per illustrare loro il suo incontro con Q, di poche ore prima. Aveva bisogno anche del loro parere e in particolare di quella del suo primo ufficiale. «Signore, in tutta franchezza…» Will fece una pausa, come se avesse avuto il timore di pronunciare qualcosa di sgradito al suo capitano. «Continui Numero Uno» insistette Picard «credo che…» Will era in evidente imbarazzo e continuava a massaggiarsi con la mano sinistra, quello che restava del suo braccio destro, mutilato poche settimane prima durante la battaglia di Kaatana in un corpo a corpo con un drone Borg. La dottoressa Crusher si era subito offerta di rimpiazzarlo con uno nuovo, replicato dal suo DNA, ma Riker aveva rifiutato quando aveva visto l’infermeria stracolma di feriti in condizioni ben peggiori delle sue. Per un braccio nuovo ci sarebbe sempre stato tempo, aveva risposto alla Crusher che insisteva per operare immediatamente, fintanto che la ferita era ancora fresca, anche se sapeva benissimo, che più avrebbe rimandato nel tempo l’intervento, più avrebbe rischiato un rigetto. «Will, la prego» Picard era arrivato al punto di supplicare. Riker inspirò profondamente e lasciò da parte ogni indugio. Fissando intensamente Picard, disse tutto quello che aveva dentro «In tutta franchezza, signore, vista la situazione disperata, credo che l’opportunità che ci vuole offrire Q non sia da disprezzare. Comprendo il suo 10 timore, di alterare il corso della Storia, di dovere, in seguito, essere debitori verso di lui, ma qui si parla di salvare un intero quadrante della galassia dalla distruzione totale.» Picard rivolse uno sguardo anche agli altri ufficiali. I loro volti, che mostravano i segni dello stress enorme degli ultimi tempi, esprimevano solidarietà per le parole del comandante Riker. Nei loro occhi si poteva leggere la rassegnazione per quello che pareva un destino ingiusto ma inevitabile. Solo il comandante Data era sempre uguale a se stesso. Ma Picard era sicuro, che come androide, stesse soffrendo anche lui, a modo suo. «Ma Will, la Prima Direttiva ci impedisce di interferire con…» «Al diavolo la Prima Direttiva!» lo interruppe Riker, alzando il tono della voce «Capitano, la Flotta, la Federazione, non esistono più. Tutto è perduto. Qui si tratta di sopravvivenza, della nostra sopravvivenza, come specie e di quella di altre centinaia di razze» Riker si interruppe, comprendendo di essersi lasciato prendere dal dolore e dalla rabbia che aveva in corpo «mi scusi capitano.» «Non occorre Numero Uno, siamo stati tutti messi sotto pressione ultimamente» lo giustificò Picard. «Quello che volevo dire signore, è che dovremmo dare una possibilità a Q. Ascoltare quello che ha da proporci e valutare se il rischio vale la candela.» Picard chiuse per un attimo gli occhi, cercando la maggiore concentrazione possibile. Le parole di Riker erano arrivate dritte dove il suo primo ufficiale aveva voluto ficcargliele. Ormai si conoscevano troppo bene e non avevano più segreti l’uno per l’altro. A differenza di Riker, Picard era restio ad accettare che tutto quello per cui aveva lavorato, tutto quello in cui credeva stessero per essere spazzati via. Fino all’ultimo aveva creduto che una 11 soluzione sarebbe, forse magicamente, emersa, che i Borg sarebbero stati ancora sconfitti. Riker aveva ragione. E lui era solo un vecchio stupido, incapace di accettare la realtà per quella che era. Schiavi dei Borg o schiavi di Q? Questo era il dilemma. Anche se Picard non aveva ancora idea di cosa in effetti, Q volesse proporgli. Riaprì gli occhi. I suoi ufficiali erano ancora li ed attendevano una sua decisione. «Anche voi la pensate come il comandante Riker?» chiese loro. La Crusher, Troi, La Forge, il nuovo capo della sicurezza, il signor Yan, annuirono. «Signore, se permette, credo di parlare a nome di tutti,» la voce di Data interruppe il silenzio seguito alla domanda di Picard «vista la situazione, credo che ogni possibile via d’uscita vada presa in considerazione, indipendentemente dal prezzo da pagare. Siamo ben consci di violare principi in cui noi tutti fermamente crediamo, ma i cinque cubi a soli quattro giorni da noi sono un motivo che ci giustifica ampiamente.» «Ben detto!» La voce di Q rimbombò nella sala d’osservazione «Q! Ci stavi ascoltando?» domandò Picard Q apparve dal nulla, sempre indossando l’uniforme da ammiraglio, seduto la dove un istante prima stava Riker, il quale ora, con sua sorpresa e fastidio si ritrovava in fondo al lungo tavolo della saletta. «Vedo che i tuoi ufficiali dimostrano di avere un po’ più sale in zucca di te, Jean-Luc» continuò Q. «Ti prego!» lo interruppe subito Picard «risparmiami il tuo sarcasmo, e vieni subito al sodo. Siamo disposti a darti una opportunità.» Q strabuzzò gli occhi, prima di scoppiare in una risata davvero sgangherata. 12 Picard e i suoi ufficiali si guardarono interrogandosi sulle vere intenzioni di Q. «Jean-Luc! Erano eoni che non mi divertivo così! Tu dare una opportunità a me? Questo si che è divertente!» Q continuò a ridere, seppur in maniera più contenuta. Picard, sentendosi deriso, cominciò a perdere la pazienza. A dire il vero, con Q, non ne aveva mai avuta molta. «Per favore» lo supplicò Picard Q tentò di ricomporsi e riassumere un atteggiamento più formale. «Ah! Si certo, Jean-Luc, scusami sono stato poco educato» - E quando lo sei mai stato? - commentò dentro di sé Picard «Dovresti fare il comico, Jean-Luc, avresti grande successo sai? Tu dare una possibilità a me!» «Ok! Ok! Forse le cose non stanno proprio così, comunque, per favore, vieni al dunque. Prima mi hai accennato che potresti salvarci dai Borg». Q scosse la testa «ti sbagli. Io non ti ho detto che vi salverò dai Borg. Io ho detto che il Q-Continuum ha deciso di offrirvi una chance.» «E in che cosa consiste questa chance?» domandò Riker dal fondo del tavolo. Q si voltò verso Riker «Will, sbaglio o ti manca qualcosa? Lo ho notato solo ora.» Riker sostenne lo sguardo, con aria di sfida. «Q! Rispondi! Che hai architettato questa volta?» intervenne Picard in difesa del suo primo ufficiale. «Io? Vorresti forse insinuare che io vi abbia mai creato qualche genere di grattacapo?» domandò fintamente stupito Q «Almeno una mezza dozzina di volte!» rispose Picard, deciso ad impedire a Q di farsi beffe di lui «Per la precisione, sono state…» 13 «Non ora signor Data!» Picard interruppe bruscamente l’androide «Mi scusi signore» terminò il resosconto Data. «D’accordo, lo ammetto! Qualche volta mi sono divertito a punzecchiarvi. Oddio, non che voi siate degni della mia ben che minima considerazione, diciamo che però avete un certo fascino come specie. Primitivi, ma…» Q non poté terminare, Picard, esasperato, non glielo permise. «Basta! Questo discorso lo hai già fatto altre volte. Vieni al sodo» «D’accordo Picard, non indugerò oltre» Q si alzò in piedi e mani dietro la schiena cominciò a camminare nervosamente «Dall’alto dello nostra posizione, di specie evoluta, il QContinuum non sta gradendo lo sviluppo che quei noiosi Borg stanno avendo, ma non volendosi occupare direttamente di una faccenda così infima, preferisce relegare a voi umanoidi, così combattivi e caparbi, il compito di ricacciarli indietro» «Grazie per la fiducia!» fu caustico Picard. «Jean-Luc! Non mi interrompere!» Q fece una pausa, come se avesse perso il filo del discorso. «Allora, dicevo, ecco! Come Q-Continuum ci è normalmente fatto divieto di interferire così drasticamente sullo sviluppo delle specie inferiori, ma abbiamo deciso di comune accordo di fare uno strappo alla regola» Picard non riuscì a trattenersi e interruppe nuovamente il discorso di Q. «Davvero? E farete sparire i Borg con uno schiocco di dita?» «Jean-Luc!» «Ora basta Q! Il tuo discorso non sta in piedi. Da quando il Q-Continuum ha bisogno degli umani? Vi danno fastidio i Borg? Bene, voi siete a conoscenza del passato 14 e del futuro, potevate fermarli subito! Potevate impedire che si sviluppasse la loro civiltà! Potreste andare nel passato e schiacciare il primo drone e nessuno di noi saprebbe mai dell’esistenza dei Borg! Q, raccontacene un’altra! Qual è la verità?» Le parole di Picard colsero Q impreparato, il quale parve vacillare e per alcuni istanti perse la sua solita aurea di superiorità. Tutti gli sguardi degli ufficiali erano puntati su Q, in attesa di una risposta alle domande del loro capitano. Q, ripresosi, si ricompose e con un tono di voce sommesso continuò: «Il Q-Continuum non può intervenire. Normalmente lo potrebbe fare! Oh! Si certo! Normalmente potremmo ridurre i Borg all’impotenza in una manciata di microsecondi. Se questa fosse una situazione normale» «Cosa c’è di anormale?» Domandò Geordi, spalancando i suoi nuovi occhi bio-meccanici. Q parve imbarazzato a fornire una risposta e tentennò. «Q? Vuoi spiegarci che sta succedendo?» domandò Picard usando un tono rassicurante. «Diciamo che all’interno del Q-Continuum, ultimamente, ci sono state delle divergenze. Alcuni membri sostenevano che lo sviluppo attuale della galassia fosse troppo, come dire, caotico. Alcuni sostenevano la necessità di eleggere una razza, che fosse meritevole, quale dominatrice incontrastata, capace di portare ordine e stabilità.» «I Borg?» domandò Data «Si esattamente. Naturalmente la maggioranza del QContinuum, tra cui il sottoscritto, era contraria ad una simile ingerenza nelle faccende delle specie primitive, ma la diatriba si è inasprita, fino a sfuggirci di mano.» «Ci stai dicendo, che dietro agli attacchi dei Borg, ci sono dei Q rinnegati?» domandò Riker inorridito all’idea di 15 dover lottare, non solo contro droni senza anima, ma anche contro entità onnipotenti altrettanto crudeli. «In termini molto ridotti, si è così» confermò Q Questa rivelazione cambiava completamente la visione che Picard si era fatto sugli avvenimenti recenti. Tutto quanto stava accadendo non era frutto della selezione naturale, che porta il più forte a schiacciare il più debole. Quello che era sembrato ineluttabile destino, in realtà era manovrato da forze esterne, che avevano deciso arbitrariamente delle vite di miliardi di persone. Probabilmente non era la prima volta nell’intera storia della galassia, che il Q-Continuum interveniva a favore di quella specie piuttosto che di quell’altra, checché dicesse Q a proposito dei loro principi etici di non interferenza. Q stesso aveva violato tali principi più di una volta con gli umani. Ora, se non altro, Picard si sentiva autorizzato ad utilizzare qualunque mezzo per porre rimedio allo stato di disparità delle forze in campo, compreso accettare l’aiuto di Q. Il brusio causato dai commenti degli occupanti la saletta d’osservazione riempì l’atmosfera. Solo Picard e Q tacevano. Infine, proprio Picard richiamò l’attenzione dei suoi ufficiali superiori e si mise in piedi. «A questo punto, Q, ci devi ancora dire perché il QContinuum ha bisogno di noi, per sbrigare una faccenda, che, anche se sta letteralmente sconvolgendo le nostre esistenze, tutto sommato ...» Picard esitò «si, insomma, cosa possiamo fare noi?» Gli occhi di Q si illuminarono quasi attendesse con ansia la domanda «Vuol dire che accetti, Jean-Luc?» domandò. «Non so ancora cosa tu voglia propormi, ma venuto a conoscenza dei fatti, non posso tirarmi indietro, qualunque sia la sfida» rispose sicuro Picard, convinto di 16 parlare a nome di tutto il suo equipaggio. Forse a nome di un intero quadrante galattico. «Ottimo!» esclamò Q. Nelle sue mani si materializzò una bottiglia di champagne d’annata e sul tavolo della saletta apparve un vassoio contenete una serie di calici di cristallo «dobbiamo brindare!» Felice come un bambino, Q iniziò a versare lo spumante nei calici. Il capitano e i suoi ufficiali si scambiarono occhiate perplesse. Q distribuì rapidamente un calice ad ognuno dei presenti, lasciando gli ultimi due per sé e Picard. Il capitano, preso in contropiede accettò con imbarazzo il flute e rimase impalato senza sapere che fare. Non stava ancora capendo. Semmai ci fosse stato qualcosa da capire, quando c’era di mezzo Q. «Su forza! Brindiamo!» incitò Q alzando il calice al cielo «Ma, a cosa brindiamo?» domandò Data, mentre analizzava il contenuto del calice, usando i suoi sensori olfattivi. «Ma alla Sfida!» esclamò Q «Prosit!» ed ingollò tutto d’un fiato lo spumante. Ma nessuno lo imitò. Solo Data fece per assaggiare il fresco e frizzante vino francese, ma appena si rese conto di essere l’unico, con fare imbarazzato, staccò il calice dalle labbra e lo ripose sul tavolo. «Di che sfida parli Q?» domandò Picard «Ma di quella che dovrete sostenere! Se sarete voi a vincere, la galassia tornerà ad essere dominata dal caos Se vinceranno i Borg la galassia non sarà più divertente come prima!» «E in che consisterà la sfida?» domandò il nuovo capo della sicurezza Yan, anticipando Picard 17 «Oh! Lo vedrete presto! Ma ora devo lasciarvi! Devo avvertire il Q-Continuum che avete accettato! Ne saranno entusiasti! Dobbiamo disporre tutti i preparativi! Vi chiamerò quando sarà il momento!» Q svanì nel suo caratteristico lampo di luce. Picard rimase in piedi, con ancora il calice in mano. A quel punto ne sorseggiò giusto una punta. Non ne riconobbe l’annata ma lo trovò davvero eccellente. Poggiando il bicchiere sul tavolo, si sentì stanco e privo di energie, svuotato dalla tensione accumulata nelle ultime settimane. Ora, poi, anche quest’ultima incognita, così carica di speranza e di mistero. Beverly si accorse dello stato del capitano e gli si avvicinò. «Jean-Luc, ti senti bene?» Picard fissò negli occhi la Crusher, incapace di darle una risposta precisa. 18 CAPITOLO 3 Ad un osservatore esterno, la carovana dei profughi disperati, guidata dall’Enterprise, sarebbe potuta apparire come una immensa nube, che a velocità elevata stava attraversando il cosmo. Simili visioni richiamavano alla memoria arcaiche figure di un passato remoto, ormai dimenticato. Come insetti impazziti, i vascelli del convoglio, stavano stretti fra loro, alcuni trascinando i più lenti. Incroci di raggi traenti, sovrapposizioni di campi energetici generati da scudi generati al loro volta, da decine di diverse forme di creazione di energia. Tutto formava un unico calderone, non vi era il tempo per armonizzare, ordinare, razionalizzare. Gli incidenti, le collisioni, le rotture meccaniche erano all’ordine del giorno. Chi era costretto a fermarsi poteva dirsi perduto, nessuno si sarebbe minimamente preoccupato di soccorrere le navi in difficoltà. Ogni giorno molti vascelli, soprattutto quelli più malridotti, si sganciavano dalla nube, destinati a restare soli nello spazio, ma questo nei casi migliori. Solitamente si limitavano ad esplodere, spesso coinvolgendo anche le navi vicine, quando i loro motori, sottoposti ad uno sforzo che non erano in gradi di reggere, senza avvertire cedevano di schianto. Furiose carambole di vascelli erano all’ordine del giorno. Chi non aveva scudi più che efficienti era spacciato. Teletrasporti di emergenza erano fuori discussione. Ogni nave era carica di profughi fino all’orlo. Non vi era più spazio per nessuno. Picard aveva paragonato tale spettacolo ai biblici sciami di locuste, che invasero l’antico Egitto, mandate dalla furia divina. Solo che nell’attuale frangente, le locuste, stavano fuggendo da predatori ben più voraci. Forse i 19 Borg erano una punizione mandata da dio? Adesso che sapeva che dietro il loro massiccio attacco si celava la mano di esseri onnipotenti, definibili come veri dei, poteva rispondere affermativamente. Anche se, con tutta la sua cultura laica a sostenerlo, il pensiero che, semmai fosse esistito un dio, questi non fosse altro che un Q, lo disgustava tremendamente. L’idea che Picard aveva di dio, era lontana anni luce dal Q-Continuum. Il dio di Picard non era necessariamente dotato di poteri simili a quelli di un Q, ma di un cuore immenso, capace di amare qualunque forma di vita dell’Universo. Per quel che ne sapeva poteva nascondersi in uno qualsiasi dei membri del suo equipaggio o in un sasso, scansato senza badarci durante una delle tante esplorazioni effettuate negli anni passati. L’opinione che Picard aveva del Q-Continuum e dei suoi membri, invece, rasentava il disprezzo. «E’ davvero possibile che i Q siano la massima evoluzione di una specie senziente?» mormorò Picard, senza accorgersi di avere pronunciato tali parole. Il pensiero gli era uscito dalla bocca, come se avesse voluto a tutti i costi non restare relegato nella mente del capitano. «Come signore?» domandò Deanna, che seduta alla sua sinistra, nella plancia dell’Enterprise, aveva a malapena udito le parole del Capitano, ma aveva percepito chiaramente il suo pensiero. Picard, comprendendo di essere stato udito, decise di fare partecipe il consigliere dei suoi interrogativi. «Anche noi umani, diventeremo come i membri del QContinuum? E’ questo il destino evolutivo di ogni specie senziente?» Deanna sorrise amabilmente, concentrandosi sulla risposta più adatta per rinfrancare il capitano «Forse, signore, i Q non sono il gradino ultimo, forse sono il primo.» 20 Picard, rimase qualche secondo immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, come se le parole del consigliere avessero aperto in lui nuovi orizzonti mai esplorati. Sorridendo tornò a volgersi verso Deanna: «secondo lei, consigliere, potrebbe essere che anche noi, millenni fa fossimo come i Q?» Picard non trattenne una risatina poi tornò a farsi serio e continuò «E se ciò fosse vero, perché avremmo rinunciato a tutti i nostri poteri, per questa vita da mortali, secondo lei?» Deanna ci rifletté qualche istante prima di dare una risposta, a quella che era solo una sua supposizione, anche ridicola volendo, non suffragata da nessuna prova scientifica, ma frutto di una ardita e originale rivisitazione della realtà dei fatti o forse solo della loro apparenza. «In fondo, se ci si pensa bene, la vita da Q, deve essere piuttosto noiosa, signore. La ricerca di qualcosa di più stimolante, ecco a cosa porta l’evoluzione.» Picard sorrise. Trovava l’analisi di Troi ironica e geniale allo stesso tempo. Il consigliere fu felice di constatare che le sue parole parevano avere, seppur in piccola parte, sollevato l’umore del capitano. Lei era il consigliere di bordo e in quel momento di grave crisi, ogni sorriso regalato le infondeva gioia e speranza e le dava la forza di continuare. Deanna, oltre al terrore portato dai Borg, già tre anni prima aveva dovuto subire l’umiliazione di vedere il proprio pianeta natale, Betazed, invaso e violentato dalle forze del Dominio. Fu svegliata nel pieno del turno di notte dal capitano Picard, il quale la convocò nella sala riunioni. Assonnata ma al contempo stesso ansiosa di conoscere il motivo di tanta urgenza, si era messa l’uniforme in tutta fretta, senza però acconciarsi a dovere. Nella sala riunioni, oltre al capitano e a Will, vi erano anche tutti i betazoidi che erano in quel momento in servizio sull’Enterprise. Poté percepire la loro 21 preoccupazione per la convocazione e percepì anche una profonda amarezza provenire da William quando i loro sguardi si incrociarono fugacemente. Dopo che Picard ebbe rivelato quanto era accaduto a Betazed, la mente empatica di Deanna fu letteralmente invasa dal dolore degli altri betazoidi presenti nella sala che, come un urlo assordante e disumano crebbe nella sua mente fino a farle quasi perdere i sensi. Nella sala riunioni, in realtà, nessuno emise neppure il più flebile sussurro. Era il modo betazoide di esprimere il dolore, condividendolo con gli altri, affinché ognuno ne fosse partecipe e potesse contribuire a lenirlo. Ma Deanna, solo per metà empatica, aveva maggiori difficoltà a gestire quel tipo di emozioni, così intense e coinvolgenti. La prima cosa che fece fu cercare di accertarsi delle condizioni delle persone che conosceva ed amava sul pianeta. Dopo affannose ricerche pianse dalla gioia, quando un messaggio subspaziale, la informò che sua madre, Lwaxana Troi, era sana e salva. Il puro caso, aveva voluto che Lwaxana non fosse su Betazed in quei giorni. Almeno sua madre stava bene ed era al sicuro, anche se non poté mettersi subito in contatto con lei. Per gli altri, purtroppo, le forze del Dominio, i temibili guerrieri creati geneticamente, i Jem’Hadar, avevano posto un blocco interplanetario alle comunicazioni. «Consigliere, c’è qualcosa che non va?» le domandò Picard, che aveva notato che era scomparso d’improvviso il sorriso dalla bocca del consigliere. Deanna, rendendosi conto che stava sognando ad occhi aperti, scacciò dalla mente i brutti ricordi e il sorriso, luminoso come i primi raggi del sole all’alba, tornò a far capolino sul suo viso. Q stava camminando nervosamente, ripetendo lo stesso percorso, con le mani dietro la schiena, strette l’una nell’altra. A capo chino, borbottava sommessamente. 22 Pareva uscito da una classica vignetta umoristica sui padri che attendono l’arrivo del primo figlio, in un sala d’aspetto di una unità medica di ostetricia. «Ma quanto ci mettono!» imprecò «Io ho tutta l’eternità a disposizione, ma loro no! Se fanno come l’ultima volta, avranno il tempo di estinguersi un paio di volte!» «Calmati Q! Non temere! Hanno ben presente che gli umani hanno un ciclo temporale molto breve.» «Davvero? Come sei ingenuo Q!» Q rivolse queste parole con un tono duro all’altro membro del Q-Continuum che assieme a lui stava attendendo l’esito della consultazione del Consiglio dei Q. «Si vede che hai quattro miliardi di anni meno di me! Non li conosci davvero quei vecchi rincitrulliti! L’ultima volta che ho avuto bisogno del loro giudizio, tu non eri nemmeno ancora nato, si trattava della razza dei Glosh, dispute da poco conto! Per farla breve, quando finalmente avevano preso una decisione era passato così tanto tempo, che il sole dei Glosh era diventato una supernova già da un pezzo!» Q ricordava quello spiacevole episodio. I Glosh avevano avuto la sfortuna di fare la conoscenza di Q, durante uno dei loro primi viaggi a curvatura. Il Q di allora, più giovane e più dispettoso che mai, si era divertito a stuzzicarli un poco. Si presentò come Jaart, il loro sommo dio. Per duemila anni, si divertì a vestire i panni del dio arrogante e oppressivo, umiliando il popolo Glosh in ogni modo conosciuto, interrompendo la loro naturale evoluzione. Fino al giorno in cui essi si ribellarono, e decisero di rinunciare alla sua adorazione, sfidando il potere di un dio. Q, di fronte a quello che riteneva un atteggiamento sfrontato ed inammissibile da parte di una specie primitiva, che semmai doveva a lui solo riconoscenza, per punizione, gettò il pianeta in un era 23 glaciale senza precedenti. Solo che accade tutto in un giorno. Per la precisione in un istante. Il Q-Continuum, a quel punto, solo a quel punto purtroppo, intervenne per punire l’operato di Q. Ma Q, furbescamente, si appellò al Consiglio dei Q, affinché fossero essi a prendere una decisione, ben sapendo che sarebbero passati secoli prima di arrivare ad emettere una sentenza. Infatti, quando finalmente la meritata punizione arrivò, per i Glosh era ormai troppo tardi. Il loro pianeta non orbitava più attorno al suo sole, ma ne era stato inglobato quando questo era diventato una supernova, con tutti i Glosh, ancora congelati. La punizione per tale atrocità fu incredibilmente lieve. Solo mille anni di isolamento nel nucleo di una galassia in formazione. Nonostante tutto, ancora adesso, Q provava un certo risentimento per i Glosh. «Stupidi bipedi…» «Cosa?» «Niente! Mi riferivo a… Ma quanto ci stanno mettendo!» imprecò ancora Q. «Pensi che accetteranno la nostra proposta?» domando il Q più giovane, rinunciando a sapere cosa avesse detto il suo tutore anziano. «Lo spero bene! E’ ciò che di più sensato la mia vulcanica mente abbia mai partorito!» Q sapeva bene che il consiglio non avrebbe potuto rifiutargli la richiesta. L’aveva pensata, progettata, costruita, proprio seguendo i loro gusti ed inclinazioni. Era fatta su misura per le menti dei membri del consiglio. Q disprezzava il Consiglio, lo riteneva un circolo ristretto di Q talmente vecchi, che probabilmente erano già presenti ancora prima che nascesse l’universo intero. Si mormorava che essi fossero gli ultimi Q che avevano avuto l’opportunità di sperimentare la vita materiale, prima che la loro specie compisse l’ultimo salto evolutivo 24 verso una forma di vita di pura energia e puro pensiero e che essi custodissero gelosamente il segreto sull’ubicazione di quello che era stato il pianeta natale dei Q. Erano rigidi ed inflessibili, poco inclini al gioco e incapaci di provare stimoli verso qualunque tipo di impresa. La condanna dell’onniscienza, conoscere il risultato di una azione ancora prima di averla pensata. Q invece aveva sempre cercato dei diversivi viaggiando per l’universo. Il suo più grande spasso, che gli serviva ad alleviare la noia di un’esistenza piatta e lineare, era confrontarsi con le specie primitive, sottoponendole a delle specie di test al fine di guidarne la loro evoluzione verso orizzonti a loro sconosciuti, anche se gli altri membri del Q-Continuum definivano tali azioni come vere e proprie persecuzioni. Q aveva sempre ignorato tali critiche e nonostante fosse stato punito varie volte, per avere in effetti, un poco esagerato in alcune occasioni, non aveva mai rinunciato a tale pratica. Ora era il turno degli umani, la specie più affascinante e complessa che avesse incontrato da almeno dieci milioni di anni. Curiosi, caparbi e dotati di un intelletto non disprezzabile, da soli trecento anni solcavano la galassia in quei fragili gusci di noce di cui loro andavano tanto fieri. Nonostante la brevità delle loro esistenze avevano stabilito una posizione dominante sulle altre razze, imparando a coesistere con esse. Erano ancora fondamentalmente dei barbari incivili, ma promettevano bene. Avevano già superato con successo alcuni dei suoi test e una volta erano stati proprio loro a cavarlo dai guai, dopo l’ennesima diatriba con il Q-Continuum. Li ammirava e li invidiava, per la insaziabile curiosità che spingeva le loro esistenze. Lui non aveva mai conosciuto il significato vero di tale parola. 25 Ma ora tutto questo avrebbe potuto finire, sempre se non fosse riuscito a portare a termine il suo piano. L’universo si sarebbe popolato di droni Borg e la noia l’avrebbe fatta da padrona fino a quando anche l’ultima stella non avesse esaurito la sua risorsa di elio ed idrogeno. Il giovane Q stava ancora osservando il Q più anziano agitarsi e borbottare. Non capiva il perché di tanta apprensione. Lui non provava come Q, il bisogno di qualcosa di più, oltre alla sua sola esistenza. Ma da un po’ di tempo cose strane agitavano il Q-Continuum, soprattutto fra i Q più maturi. Una vento portatore di nuove idee aveva forse irrimediabilmente sconvolto la pacifica esistenza dei Q. Era ancora fresco l’increscioso episodio di un Q che aveva desiderato morire, fino a riuscirci. La morte, per un Q, è un concetto del tutto estraneo, eppure uno di loro aveva voluto sperimentarla, quale soluzione al tormento che provava. Tormento causato dalla stessa esistenza quale Q, per lui divenuta insopportabile. Dopo di allora, anche altri Q, avevano trovato il coraggio di ammettere di provare una eguale noia e di desiderare qualcosa di diverso da ciò che erano sempre stati. Anche il Q che aveva di fronte, pareva ardere dello stesso fuoco. Lui era ancora troppo giovane per provare noia e non comprendeva i sentimenti di ribellione che provavano i Q più anziani. Nelle specie primitive, il vento di ribellione era sempre portato dalle generazioni più giovani, decise a sottrarre il potere a quelle che le avevano precedute. Nel Q-Continuum era esattamente l’opposto. Più milioni di anni si accumulavano sulle spalle di un Q, più questi sentiva crescere in lui il bisogno di qualcosa di più. Ma nessun Q, era ancora riuscito a trovare una risposta alla domanda che li tormentava : cosa si può volere di più? Il Q più maturo, che ancora non voleva accennare a smettere di agitarsi tanto, aveva forse trovato una 26 possibile risposta? Si domandò. Ma era ormai stanco di stare a fissare il suo tutore e decise di andare a vedere che tempo facesse in un pianetino interessante nella galassia di Andromeda. E svanì in un lampo di luce. Q notò la partenza del suo allievo. «I giovani- Alla sua età non mi sarei mai permesso di andarmene senza salutare!» «Alla sua età facevi anche di peggio!» Q riconobbe la voce del suo avversario e si voltò rapidamente verso di lui, ma con un certo stile. Non voleva fargli capire che lo aveva colto di sorpresa. «Ecco qua il tutore dell’ordine, della pianificazione…della noia!» rispose Q in tono canzonatorio. «Le tue parole non mi toccano, caro Q. Sono qui per godermi la mia vittoria» «Ma santo iddio! Ma come ti sei conciato? Ti sei talmente compromesso nel perorare la loro causa che ora sei addobbato come uno di loro?» Q storse il naso di fronte agli impianti Borg del suo avversario. Certo, anche lui ogni tanto si divertiva ad imitare gli umani, ma sicuramente le loro uniformi erano più comode ed eleganti. «Non ti piacciono Q? Beh, sarà il caso che cominci a farci l’abitudine. Tra poco saranno molto di moda, in tutta la galassia» Il Q-Borg si arrestò ad un palmo dal volto di Q e con la voce resa roca dagli impianti lo minacciò: «Arrenditi! Per te e le tue scimmie senza pelo non c’è scampo. E’ finita l’era del caos indiscriminato» «Questo è tutto da vedere, caro mio. Il consiglio sta discutendo una mia mozione» rispose per nulla intimorito Q. «Lo so, lo so, ma sappi che questo è il tuo ultimo trucchetto. Non funzionerà vedrai» sentenziò il Q-Borg. 27 L’attenzione dei due contendenti fu attirata dal cigolio del portone in marmo bianco oltre il quale il Consiglio del QContinuum era riunito. Erano infine giunti ad una decisione. «Staremo a vedere!» esclamò Q, certo che la sua proposta fosse stata accettata e che Picard non lo avrebbe deluso. 28 CAPITOLO 4 Picard stava riesaminando per l’ennesima volta il display tattico, che mostrava cinque punti rossi in costante ed inarrestabile avvicinamento alla loro posizione. Un piccolo timer, posizionato nell’angolo destro dello schermo, misurava il tempo che quei puntini avrebbero impiegato a raggiungere il centro dello schermo. Inarrestabile, il conto alla rovescia, incombeva sul destino di migliaia di vite. «Signore, ci restano solo dodici ore» Il capo della sicurezza Yan, un umano sulla cinquantina, dai radi capelli rossi, labbra molto pronunciate e un grosso naso che contrastava con i piccoli occhi azzurri, infossati nelle orbite, rammentò a Picard il tempo restante all’intercettamento. Picard sollevò la testa dal display e sospirò. Non restava abbastanza tempo per attendere ulteriormente Q. Erano trascorsi tre giorni dalla sua imprevista visita a bordo dell’Enterprise. Come un fulmine a ciel sereno era comparso ed aveva offerto loro una via d’uscita e tanto rapidamente se ne era andato, lasciandoli tra mille interrogativi. Picard aveva rimandato l’attuazione del piano, preparato di concerto con i capitani dei principali vascelli da guerra, che componevano la carovana, in attesa di conoscere le vere intenzioni di Q. Aveva faticato non poco a convincere decine di comandanti a fidarsi di lui, prendendosi ogni responsabilità in caso di fallimento. La riunione, che era stata convocata proprio a bordo dell’Enterprise, era stata lunga e travagliata e Picard dovette fare appello a tutte le sue capacità di moderatore per impedire che si trasformasse in una rissa. Fianco a fianco, attorno ad un 29 grande tavolo, appositamente preparato per l’occasione, si erano seduti i comandanti di vascelli di ogni tipo e di ogni provenienza. Umani, Klingon, Romulani, Cardassiani, gli uni vicini agli altri, uniti di fronte al nemico almeno a parole, ma effettivamente ancora divisi da antichi odi razziali troppo marcati per essere messi da parte, seppur in una tale tragica occasione. Ben presto si erano venuti a creare degli schieramenti trasversali che si confrontarono sulle ipotesi messe in discussione. Fra i numerosi piani proposti, ne emersero un paio, che finirono col trovare l’appoggio, equamente diviso, dei partecipanti al summit. La prima, proposta da Picard e sostenuta dai Klingon e dalle altre razze della Federazione, di preparare una squadriglia suicida di navi che sarebbero andate incontro ai vascelli Borg, con lo scopo di distrarre e rallentare la loro marcia, era contrapposta alla seconda, sostenuta dai Romulani, i Ferengi e i Cardassiani, in altre parole di accelerare il convoglio a curvatura nove, velocità che avrebbe consentito di giungere al tunnel spaziale bajoriano con tre ore di anticipo rispetto all’intercettamento dei Borg. Solo che tale opzione avrebbe comportato l’abbandono della stragrande maggioranza dei vascelli a se stessi con tutto il loro carico di vite e speranze. Infatti, solo poche decine di navi avrebbero potuto permettersi una simile velocità. Picard aveva fermamente lottato contro tale opzione, ritenendola disumana, mentre i klingon avevano sposato la possibilità che era concessa loro di un ultimo scontro ove morire con onore. I Romulani e i Ferengi, più cinici e disillusi si preoccupavano solamente di preservare qualcuno della loro razza dall’assimilazione, anche a costo di sacrificare migliaia dei loro simili. Picard era riuscito a convincere la parte avversa della bontà della sua proposta, dovendo comunque concedere che, nel caso in cui il piano prestabilito fosse fallito, sarebbe stato 30 messo in atto il secondo. Non ci sarebbe stata nessuna battaglia finale. I Romulani si rifiutarono di fornire navi per la squadriglia suicida e così fecero anche i Ferengi, al contrario dei Klingon che smaniavano di partecipare alla battaglia. Picard si domandò come i klingon avessero evitato l’estinzione, viste le innumerevoli guerre che costellavano la lo storia e la folle smania con cui cercavano la morte, come se intimamente fossero coscienti di un inevitabile destino che li condannava alla distruzione. Questa sarebbe stata l’occasione che parevano cercare dagli albori della loro civiltà. Forse, da secoli, era solo il loro modo di ingannare la morte, andandogli incontro con la bat’leth in pugno, piuttosto che attenderla. In entrambi i casi, impotenti. «Signor Yan, comunichi alle navi che ora possono partire» Picard aveva deciso di non attendere oltre. Aveva dato fin troppa fiducia a Q e anche questa volta temette che avrebbe finito col pentirsene amaramente. «Si, signore, comunicazione inviata» Picard annuì ed andò ad accomodarsi alla sua postazione. Sedendosi sulla poltrona di comando, il suo sguardo incrociò quello di Deanna e notò che la betazoide aveva dei sottili rivoli di lacrime che le solcavano le guance. Picard comprendeva bene il motivo del pianto del consigliere Troi: il suo primo ufficiale Riker, al comando della USS Pioneer, stava ora guidando la squadriglia verso il destino senza ritorno che li attendeva. Era stato proprio Riker a richiedere a Picard il permesso di prendere parte alla missione il giorno precedente. Riker chiese di parlare in privato e i due andarono nella saletta privata del capitano. Picard acconsentì senza fare nessuna obiezione. Negli occhi del primo ufficiale aveva letto tutto l’odio che Will provava ora per i Borg. Egli stesso, 31 anni prima, aveva nutrito un sentimento molto simile, anche lui aveva avuto il corpo e l’anima duramente martoriati dai Borg e sapeva bene che l’unica cosa che avrebbe potuto aiutare Riker a superarlo era proprio affrontare tale dolore. Quando Riker fece per andarsene, Picard ebbe un ripensamento e lo fermò sull’uscio, ma non appena i loro sguardi tornarono ad incrociarsi, comprese che niente e nessuno lo avrebbe fermato dai suoi propositi. - Può andare - gli aveva detto e Will, prima di tornare sulla sua strada, fece un leggero sorriso, che Picard interpretò come un: - lo so signore cosa mi vuol dire, ma io devo andare -. Ormai fra i due l’intesa era tale che spesse volte le parole erano superflue e quando la porta si chiuse una lacrima scese dagli occhi del capitano, presentendo che quella, probabilmente sarebbe stata l’ultima volta in cui i due avrebbero comunicato in quel modo così speciale. Ora era Deanna a versare calde lacrime. I due erano legati da un rapporto speciale di lunga data. I due erano Imzadi, un termine betazoide, il cui significato profondo, Picard, non aveva mai ben compreso. «Signore, il comandante Riker ci informa che sono pronti» comunicò il tenente Yan, «si stanno muovendo ora signore!». Picard sospirò mentre osservava il piccolo gruppo di vascelli che si sganciava dal convoglio principale, riunendosi e mettendosi in formazione. A velocità curvatura la manovra durò solo pochi istanti poi le navi scomparvero, lanciate a tutta velocità nella direzione opposta alla loro. «Tempo all’intercettamento?» domandò Picard «Un ora e dodici minuti, signore» rispose il tenente Yan. A quel punto a Picard non restava che attendere. Preferì farlo in solitudine, nell’unico angolo rimasto ove avrebbe potuto riflettere in pace, ovvero la sua saletta privata. 32 Tentò di ottenere una tazza di te caldo dal replicatore, questa volta con più successo. Sorrise a sé stesso, vedendo materializzarsi la tazza con il liquido fumante, questa volta non gli sarebbe toccato vedere Q mascherato da cameriere, anche se in quel momento uno degli interrogativi che lo assillava maggiormente era proprio legato alla sorte di quel mascalzone. Si era ancora divertito a prendersi gioco di loro? Oppure, quanto stava accadendo faceva già parte di un qualche oscuro scenario, creato dalla mente contorta di Q? «Signore! La H’Kel’Hajh ci sta contattando. E’ un vascello klingon» la voce del signor Yan richiamò l’attenzione di Picard. «Sullo schermo» ordinò. Il volto di Picard si ornò di un largo sorriso alla vista dell’unico klingon che conoscesse come le sue tasche. «Ambasciatore Worf!» «Ex ambasciatore capitano. Ormai la Federazione non esiste più» lo corresse freddamente il Klingon. Dopo la distruzione dell’Enteprise D, il tenente Worf era stato assegnato alla stazione spaziale di Deep Space Nine dove aveva partecipato con successo alla guerra contro le forze del Dominio, guadagnadosi il ruolo di ambasciatore presso l’Impero Klingon. Salvo, in un paio di occasioni, riunirsi con il suo vecchio equipaggio. Picard storse il naso. Anche se era evidente, non voleva ammettere che per la Federazione Unita dei Pianeti fosse stata scritta l’ultima pagina. «E’ sempre un piacere rivederla signor, mi scusi, ambasciatore Worf» Picard sottolineò la parola ambasciatore a riaffermare che la Federazione era ancora viva. Ferita, ma viva. «Chiedo il permesso di salire a bordo capitano. E di essere reintregrato nella Flotta Stellare. Come ambasciatore non sono più utile a nessuno» Worf andò 33 subito al sodo, come era suo solito fare, senza lasciare troppo spazio ai convenevoli. «Se è quello che vuole, non le nascondo che avrei proprio bisogno di uno come lei in questo momento. In mezzo a tutto questo sembra esserci lo zampino di Q» lo informò Picard. «Q?» ringhiò Worf, che non aveva mai avuto un buon rapporto con l’entità. Picard si limitò ad annuire. «Pronto ad essere teletrasportato!» si affrettò Worf, togliendosi di dosso, con un gesto fulmineo, le insegne da ambasciatore. Nascosta dalla visuale dello schermo, fece la comparsa la sua vecchia fascia di guerriero con le insegne della sua casata. L’avere udito il nome di Q gli aveva procurato un travaso di bile e non vedeva l’ora di tornare a confrontarsi con lui. «Permesso accordato. Bentornato fra noi signor Worf. Per l’ennesima volta» lo accolse Picard, voltandosi verso Deanna che stava sorridendo. Lo schermo si spense e il silenzio tornò nella plancia. «Finalmente una buona notizia. Worf è vivo ed è qui con noi. Ora mi sento più tranquillo» disse il capitano sistemandosi l’uniforme e dirigendosi verso la saletta tattica. Sedendosi sulla poltrona del suo ufficio, Picard tornò a voltarsi verso il grande oblò che correva lungo tutta una parete della stanza, volgendo le spalle alla teca contenente le riproduzioni, in plastica dorata, di tutte le navi spaziali, che durante la storia della Federazione , avevano avuto l’onore di portare il nome Enterprise. Navi che si erano distinte, grazie ai loro capitani ed ai loro equipaggi. Con rammarico ed un pizzico d’orgoglio constatò che probabilmente la sua Enterprise sarebbe stata l’ultima della serie. E tutte le storie legate a queste 34 magnifiche navi sarebbero andate perdute per sempre, seppellite dalla sabbia del deserto dell’oblio. «A tutti voi!» brindò Picard, alzando la tazza di te al cielo. «Comandante Riker, tutte le navi sono in formazione» «Signor Vovelek, comunichi all’Enterprise che siamo pronti a partire» William, seduto alla poltrona di comando della USS Pioneer, una nave di classe Streamrunner, particolarmente adatta agli scontri ravvicinati, si massaggiava nervosamente quello che restava del suo avambraccio destro, ridotto ad un moncherino senza vita. La Pioneer aveva perso il suo comandante, il capitano Harris, nelle settimane precedenti, durante una terribile battaglia contro i vascelli Borg che avevano attaccato il pianeta Andoria. La Pioneer era riuscita a fuggire, portando con sé quanti più andoriani le fosse stato possibile ospitare e seppur gravemente danneggiata riuscì ad allontanarsi dall’orbita di Andoria. I Borg, trascurarono quella piccola nave, e si concentrarono sulle difese planetarie. Alla morte di Harris, fu il suo primo ufficiale, il comandante Vovelek, un vulcaniano di mezza età, a prendere il comando ed a portare la Pioneer ad unirsi alla carovana organizzata da Picard. Il vulcaniano, seppur dimostrando apertamente di non gradire tale imposizione, ritenendola priva di logica, aveva ceduto il comando a Riker, su ordine di Picard. Vovelek obiettò che il comandante Riker non conosceva a sufficienza né la nave né il suo equipaggio per condurla in battaglia in modo efficiente, ma Picard insistette in modo tale che il vulcaniano non seppe opporsi, anche perché comunque, Picard era di un grado superiore al suo e nonostante il clima di generale pessimismo che aveva portato molti 35 membri della Flotta ad ignorare apertamente i regolamenti, Vovelek credeva ancora nella forza della logica e della disciplina, l’unica capace di dare a quello sparuto gruppo di superstiti la forza e la lucidità necessaria a salvare le loro vite. In quei giorni aveva già visto troppi vascelli perdersi alla deriva, a causa di feroci ammutinamenti. E nonostante nutrisse un velato scetticismo sulle capacità del comandante Riker, avrebbe seguito i suoi ordini con lo stesso zelo e determinazione che avrebbe riservato al suo ex capitano. «Rotta tracciata ed inserita» avvisò il navigatore «Non ci resta che attendere che tutte la navi siano pronte» rispose Riker, scambiando una rapida occhiata con il suo primo ufficiale, il quale, da buon vulcaniano, non fece la benché minima piega e si limitò a comunicare: «Tutte la navi sono pronte signore» Riker prese il respiro, come se stesse per tuffarsi da un trampolino. Ed in effetti quello che stava per fare somigliava davvero ad un tuffo, da un trampolino così alto che non si poteva scorgere il fondo. Ci sarebbe stata l’acqua laggiù a frenare la caduta? O avrebbe finito con lo sfracellarsi? Scacciò dalla mente tutti i dubbi e gli interrogativi e con tono fermo e deciso diede l’ordine di partire. Il giovane Q, con lunghe e ritmiche bracciate, era impegnato in una lunga nuotata, deciso a raggiungere la riva di quel mare così azzurro e limpido, che vi si poteva scorgere il fondo come se fosse stato racchiuso in un cristallo purissimo. Varie forme di vita, dall’aspetto e fogge più svariate osservavano, ma senza badarci troppo, quello strano essere, che faticava a mantenersi a galla, a pelo della superficie. Uno dei due soli di quel pianeta, stava ormai tramontando dietro le colline che si intravedevano oltre la costa, mentre il suo gemello stava 36 sorgendo quasi esattamente dalla parte opposta, emergendo dall’orizzonte dell’oceano. Fra i due soli non vi era una corrispondenza assoluta, una manciata di gradi li separava dalla perfezione, ma il giovane Q si accontentava. Quello era l’unico pianeta della galassia ove si potesse godere dello spettacolo del tramonto, unito a quello dell’alba. Ma ora tutte le sue energie erano dirette verso un unico traguardo, ovvero la riva, che però distava ancora parecchie centinaia di metri e lui cominciava a sentirsi terribilmente stanco, le braccia e le gambe gli dolevano e lui non era avvezzo al dolore, a dire il vero era la prima volta che sperimentava tale stato e non lo stava trovando per nulla gradevole. Avrebbe potuto portarsi a riva con la sola forza del pensiero, ma la sua determinazione e il suo orgoglio gli stavano impedendo di barare. «Ragazzo, hai deciso di porre fine alla tua esistenza in modo davvero sciocco, lasciatelo dire!» Q comparve dal nulla, e camminando sul pelo dell’acqua si affiancò al giovane Q nuotatore. Il giovane Q alzò a fatica gli occhi, premurandosi di non ingoiare troppa di quell’acqua salata. Q indossava ancora l’uniforme degli umani. «Sto sperimentando» cercò di ribattere l’allievo, ma un onda gli riempì la bocca. «Stai sperimentando? E cosa? Il grado di salinità di quest’acqua? Modo davvero curioso quello che hai scelto!» commentò con una vena di sarcasmo Q. Il giovane Q si riprese e cercando di mantenere la concentrazione e di non andare a fondo, tentò di giustificarsi «Sto sperimentando la vita da essere umano» «E per quale motivo, di grazia?» domandò Q, stupito dell’affermazione del suo allievo. 37 «Ne sono rimasto affascinato, dopo che me ne hai parlato così a lungo, e sto mettendo alla prova il loro corpo, sai che hanno bisogno di respirare ossigeno costantem…» Il giovane Q perse la concentrazione ed il ritmo delle bracciate. La stanchezza aveva indolenzito parecchio i suoi muscoli non allenati adeguatamente. Annaspò qualche istante e poi scomparve sotto la cresta di un’onda. Q rimase in piedi sull’acqua, attendendo che tornasse in superficie, ma i secondi passarono e del suo allievo ora non vedeva più nemmeno il corpo. «Allievi… Capitano tutti a me quelli più, diciamo, estrosi!» sospirò volgendo gli occhi al cielo ed allargando le braccia, come per chiedere clemenza ad una qualche divinità che lo stesse osservando dalle nuvole. Q schioccò le dita della mano destra e scomparve dall’oceano per riapparire sulla riva, seduto su di un tronco di un albero morto, semi sommerso dalla sabbia bianca della spiaggia, mentre il suo allievo, pochi metri più in la, stava fra le alghe portate dalla marea a depositarsi sul bagnasciuga, vomitando acqua e tossendo. Con il volto paonazzo e gli occhi sgranati per lo spavento stava cercando di incamerare quanto più ossigeno possibile nei suoi polmoni, ricolmi di acqua salata. «Spero sia stato almeno divertente!» continuò con il tono sarcastico Q. «Non c’era bisogno che tu…» tentò ancora di giustificarsi l’allievo tossendo ripetutamente «me la sarei cavata da solo!» Q fece una smorfia di divertimento. L’allievo stava crescendo bene. Aveva già imparato a mentire. Il giovane Q, si levò dalla testa un’alga rossa che gli penzolava davanti al naso, gettandola lontano. 38 «Ma come faranno, con un corpo così fragile?» si domandò. «La fragilità dei loro corpi ed in generale delle loro esistenze, non pare sia mai stato per gli umani un motivo valido per rinunciare ad aspirare a orizzonti più vasti» rispose Q. «Io non potrei resistere in questo guscio per un giorno intero!» esclamò l’allievo, il cui orgoglio era rimasto ferito per non essere stato in grado di arrivare a riva con le proprie forze. «Ti capisco, credimi! A me è capitato, tempo fa e per più di un giorno,» rivelò Q, che rammentava ancora la terribile esperienza, quando il Q-Continuum lo aveva privato dei suoi poteri, relegandolo proprio sull’Enterprise di Picard. Quale umiliazione! «Davvero? Raccontami dai!» lo esortò il giovane Q, mentre con uno schiocco delle dita, imitando il suo maestro, scomparve dal bagnasciuga, ricomparendo, asciutto e pulito, accanto al suo tutore. Q fece una smorfia di disgusto. Non provava piacere a rammentare certi ricordi poco edificanti. Soprattutto di rivelare che in quell’occasione, egli era stato costretto a chiedere l’aiuto di Picard! «Un’altra volta semmai. Ora dobbiamo andare! Il Consiglio ha accettato la mia mozione. E mi serve il tuo aiuto per preparare il campo per la Sfida.» Il giovane Q, non insistette oltre e annuì. I due lasciarono la spiaggia scomparendo in una duplice luce bianca, mentre il sole nascente, ormai, era completamente emerso dalle acque e quello morente, definitivamente scomparso dietro alle colline. 39 CAPITOLO 5 Quando Picard uscì dal suo ufficio privato, mancavano una manciata di minuti al fatidico momento in cui i cubi Borg, alle loro calcagna, avrebbero intercettato il gruppo di navi che erano andate loro incontro. Nonostante i tanti anni passati al comando, poteva percepire la tensione crescere dentro di lui fino a soffocarlo. Era frustrante essere li, relativamente al sicuro, mentre il suo primo ufficiale stava rischiando la vita. Sentiva intimamente ingiusta la situazione. William era molto più giovane di lui e avrebbe meritato di vivere più a lungo. O più onestamente si vergognava di non essere in prima linea, a combattere. Constatò che la cultura klingon, con cui aveva avuto a che fare molto spesso in passato, lo aveva influenzato molto più di quello che credeva. Picard raggiunse il comandante Data, che stava operando alla consolle scientifica. «Novità signor Data?» L’androide, calmo e rilassato, si voltò verso di lui e notando la tensione sul volto del capitano si premurò di accertarsi della sua condizione: «Si sente bene signore?» Picard scosse la testa. «E’ tutto a posto, signor Data» si difese Picard sapendo di mentire Ma ammettere di essere al limite del collasso, in plancia, davanti ai suoi ufficiali migliori, i quali, a loro volta, non riposavano da ore, non avrebbe aiutato il morale. Data, seppur con esitazione, tornò ad occuparsi della sua consolle. 40 «Come può vedere, signore, le nostre navi sono a soli cinque minuti dai Borg» disse indicando il display animato in tempo reale. «I sensori ci indicano che uno dei cinque cubi è gravemente danneggiato, mentre un secondo presenta danni piuttosto consistenti nella parte inferiore» Picard analizzò i dati che, rapidamente, stavano scorrendo lungo lo schermo. Nonostante la situazione fosse migliore di quella preventivata, Riker avrebbe trovato pane per i suoi denti. «Tempo di intercettamento, tre minuti e dodici secondi!» Riker si grattò la folta barba con la mano sinistra e notò che non gli dava il solito piacere. - Brutto segno - pensò, ma forse era solo colpa della mano, che non era più la destra. «Siamo sufficientemente vicini, per una analisi approfondita con i sensori a corto raggio» informò il comandante Vovelek «Analisi!» esclamò Riker. Il signor Vovelek azionò rapidamente i controlli dei sensori e con voce piatta comunicò alla plancia la situazione: «due delle navi nemiche sono gravemente danneggiate, l’analisi combacia con quella dei sensori degli altri vascelli» Riker non commentò. Il fatto che la situazione paresse meno negativa, non modificava il suo piano. Il silenzio del suo superiore fu interpretato dal vulcaniano come una debolezza o, peggio ancora, una incresciosa mancanza di capacità di analisi, mancanza che lo autorizzava a tentare di sovrapporsi a Riker. Se ci fosse stato ancora il capitano Harris, al posto di quell’umano barbuto, Vovelek non si sarebbe mai permesso di prendere la parola per primo. Solitamente avrebbe atteso 41 di essere interpellato. Ma vista la scarsa fiducia che provava verso il comandante Riker, egli si sentiva ancora al comando della USS Pioneer, almeno sul piano morale. «Signore, consiglio di concentrare l’attacco sui vascelli più danneggiati. Potremmo rapidamente eliminarli. E abbiamo buone probabilità di distruggerne anche un terzo» Gli ufficiali di plancia della Pioneer, nonostante la gravità del momento e la loro certezza di andare incontro alla morte, ebbero un moto di stupore, vedendo, per la prima volta in anni di servizio passati fianco a fianco, il vulcaniano, compiere un gesto tanto inconsueto quanto sfrontato. Qualcuno di loro osò persino voltare il capo, distogliendo l’attenzione dai propri compiti. Riker non poté cogliere alcunché nella iniziativa presa dal suo secondo. Il rapporto esistente fra lui e il capitano Picard era ben diverso da quella che avevano costruito Harris e Vovelek. Per Riker era assolutamente normale proporre soluzioni o esprimere anche semplici opinioni, senza attendere di essere chiamato in causa e Picard aveva sempre gradito questo suo atteggiamento. Ma ogni nave, ogni plancia, faceva a sé, da sempre. Per cui, quel piccolo momento di tensione, nella plancia della Pioneer, non influenzò il giudizio di Riker, il che confermava, in parte, una delle obiezioni sollevata da Vovelek: la scarsa conoscenza dell’equipaggio. «La ringrazio del suggerimento, ma ho altro in mente. Comunichi al resto della flotta che ci limiteremo ad effettuare un passaggio radente come concordato. Voglio attirare la loro attenzione» rispose Riker, imperturbabile. Vovelek inarcò un sopracciglio quale segno di stupore. «Signore, ma così perderemo la possibilità di fare fuoco per primi e…» il vulcaniano non terminò la frase, bruscamente interrotto da Riker «Signor Vovelek! Ha 42 sentito quello che le ho detto? O non è in grado di svolgere il suo compito?» Il vulcaniano, lanciò un’occhiata carica di sfida al suo comandante. La sua logica stava venendo meno, mentre i suoi sentimenti stavano prendendo il sopravvento. La tensione del momento stava mettendo a dura prova la sua autodisciplina. Riker rispose allo sguardo con altrettanta fermezza e non lo abbassò finché non lo fece il suo secondo. Capiva cosa stava passando Vovelek. Anche lui a suo tempo aveva avuto difficoltà ad abituarsi ad un capitano, Jellico, molto diverso da Picard e quindi comprendeva a pieno la sua frustrazione, ma in quel momento non c’era il tempo per approfondire i rapporti e appianare le incomprensioni. Lo avrebbe fatto volentieri successivamente alla battaglia, sempre se ci sarebbe mai stato un dopo. «Si, signore» cedette Vovelek «comunicazione inviata. Due minuti e quindici secondi all’intercettamento» Riker cominciò a tenere il conto del tempo che passava mentalmente. Un pugno di secondi alla verità. Picard camminava nervosamente per la plancia dell’Enterprise, sotto gli occhi del suo equipaggio. Deanna stava ancora seduta alla sua poltrona. Aveva cessato di piangere e pareva concentrata, come se avesse avuto la mente tesa verso l’esterno. Probabilmente stava cercando di spingere oltre il loro limite i suoi poteri empatici, nell’intento di percepire quanto stava per accadere a parecchi parsec di distanza. Il navigatore Thompson, un umano dalla pelle scura, era intento a mantenere l’Enterprise sulla giusta rotta ed ad evitare pericolose collisioni con gli altri vascelli vicini. Sull’attenti, con un viso che non esprimeva alcuna emozione, il tenente Yan seguiva quanto stava per 43 accadere sul suo display tattico, così come stava facendo il comandante Data, alla consolle scientifica. «Data, quanto manca?» domandò Picard per spezzare il silenzio che regnava in plancia. «Un minuto e trentotto secondi signore, a questo punto il comandante Riker dovrebbe portare la flotta su di una rotta di apparente collisione» rispose prontamente l’androide, l’unico che non si trovasse sotto pressione. Prudentemente, Data aveva disattivato il suo chip emozionale, in previsione di questi momenti in cui sarebbe stato più utile all’equipaggio, senza l’influenza negativa di sentimenti quali la paura e l’angoscia. Possibilità che, apertamente, il capitano Picard, in più di un’occasione aveva dichiarato di invidiargli. «A questo punto dobbiamo sperare chi i Borg si comportino esattamente come ho previsto» commentò Picard, il quale si sentiva responsabile, visto che i presupposti della strategia studiata per lo scontro, erano frutto delle sue conoscenze sui Borg. A distanza di anni, egli poteva ancora percepire in sé, come il canto delle sirene, il richiamo della collettività Borg. Data si strinse nelle spalle, a significare che non conosceva la risposta a tale domanda. «Allarme rosso!» esclamò Riker, e le sirene cominciarono ad ululare, mentre i pannelli posti lungo il perimetro della plancia, cominciarono a lampeggiare, inondandola di luce rossastra intermittente. «Un minuto e cinque secondi, signore!» La voce di Vovelek emerse appena al di sopra delle sirene dell’allarme, ma Riker poté comunque udirla. «Gli altri vascelli ci comunicano che sono pronti per effettuare la manovra, signore» aggiunse il vulcaniano, sempre più sconcertato per quanto stava avvenendo, Ma Vovelek non era a conoscenza del piano che era stato 44 stabilito a priori, di concerto con gli altri capitani, non vi era stato il tempo di informarlo dei dettagli. Dai dati e dalle supposizioni che aveva avuto a malapena il tempo di raccogliere, pareva essere dettato da una illogica follia collettiva. E proprio per questo motivo si sentì autorizzato a muovere ancora una dura e critica osservazione a Riker: «Signore, se mi permette, vorrei farle notare che un passaggio radente, a velocità curvatura è una manovra alquanto rischiosa! Se sbagliassimo anche di pochi metri, potremmo schiantarci contro uno dei cubi Borg. A questa velocità lei dovrebbe sapere che non si può manovrare una nave stellare come se fosse una navetta. Non comprendo il motivo per cui non li affrontiamo. Non è logico!» Vovelek, sicuro delle sue parole e dei suoi pensieri, attese sereno la risposta del suo comandante, quell’umano, che non aveva mai visto fino ad oggi e che ora pretendeva di guidare la sua nave in una battaglia senza speranza. Riker era troppo intento a rileggere, nella sua mente, le varie fasi della strategia per dare troppo ascolto alle parole del vulcaniano, che giudicava un ottimo ufficiale, ma troppo pieno di sé come tutti i vulcaniano d’altronde. Vovelek interpretò il silenzio di William come un altro segno della sua debolezza e decise di sferrare l’attacco finale. Forse poteva ancora recuperare il comando della Pioneer ed impedire una disfatta totale. «Signore! Se ci schiantiamo contro di loro li danneggeremo, ma potremmo anche non riuscire a farlo in maniera sufficiente per impedire che proseguano il loro inseguimento! E a quel punto non vi sarebbero più navi in grado di fermarli! Ritengo che affrontarli porterebbe ad un risultato migliore. Signore! Mi sta ascoltando?» il vulcaniano alzò il tono della sua voce, affinché tutti membri dell’equipaggio della Pioneer potessero udirlo. 45 Voleva che fosse chiaro ed evidente a tutti quanto fosse inefficiente il piano suicida di Riker. Solo a quel punto Riker comprese che Vovelek stava cercando di mettere in discussione il suo comando. Non poteva permetterlo, non a cinquantaquattro secondi dall’intercettamento. Usando il tono più severo che gli riuscì di tirare fuori: «Signor Vovelek, per sua informazione non è mia intenzione lanciare la Pioneer in un attacco suicida! Quello che voglio ottenere è di attirare l’attenzione delle navi Borg e di obbligarle ad inseguirci, in direzione opposta al convoglio! E lo faremo a velocità curvatura proprio per evitare che abbiano il tempo di fare fuoco su di noi!» Il secondo non pareva convinto dalle parole di Riker e Will se ne rese conto. Ma proprio in quel momento doveva avere a che fare con un vulcaniano testardo e malfidente? Si domandò Riker che decise allora di far valere il suo grado per porre fine alla querelle: «e ora per favore la pianti di mettere in discussione ogni mio ordine! Capirà quando sarà il momento! Si fidi signor Vovelek, si fidi!» aggiunse Riker, cercando di trasmettere quanta più fiducia possibile in quell’ufficiale molto più anziano di lui, che probabilmente si stava domandando in che mani fosse stata affidata la sua nave. Vovelek si limitò a continuare a fissarlo, con quei suoi occhi addestrati all’inespressività. «Mi creda, non desidero morire più di quanto non lo desideri ognuno di voi» aggiunse Riker rivolgendosi a tutti i presenti in plancia. Riker non sapeva se aveva ottenuto il risultato voluto o meno, ma decise di ignorare ogni problema che non riguardasse strettamente i Borg, quindi il signor Vovelek poteva andare al diavolo. Venticinque secondi. 46 «Signor Vovelek, comunichi alla flotta di passare a curvatura uno» Il vulcaniano eseguì senza opporre resistenza. Aveva compreso? Si domandò Riker. «Curvatura uno, signore» comunicò il navigatore «Ottimo ed ora o la va o la spacca, signori!» fu il colorito commento ed augurio di William, mentre si stringeva, con la mano superstite, al bracciolo della sua poltrona. «Venti secondi al contatto… Diciannove… Diciotto… Diciassette…» comunicò Data con voce piatta. Picard chiuse per un istante gli occhi. Poté percepire la collettività Borg dentro di sé. I Borg avevano notato il convoglio e stavano valutando se costituisse per loro un pericolo. Riaprì gli occhi per incontrare quelli di Deanna. «Consigliere?» Deanna esitò a rispondere. Stava cercando di fare ordine nella sua mente. Di separare i suoi sentimenti personali da quelli che stava percependo. «Percepisco una grande tensione, terrore, ma anche furore ed entusiasmo» rispose lei, con la voce rotta per le forte emozione. Picard annuì. Sicuramente l’entusiasmo proveniva dalle menti dei klingon. Smise di camminare ed andò a sedersi alla sua poltrona in attesa che si compisse il fato. «Dodici secondi… Undici… Dieci... Nove…» la voce di Data era l’unica che si potesse udire in plancia. Tutti attendevano che il conteggio arrivasse a zero, per conoscere il loro destino. Se la squadriglia avesse fallito, erano tutti ben consapevoli che li attendeva una morte quasi certa. Picard non avrebbe mai accettato di fuggire con le poche navi in grado di raggiungere curvatura nove. «Sei… Cinque… Quattro… Tre…» 47 «Jean-Luc!» La voce inconfondibile di Q rimbombò in plancia, facendo sobbalzare sulla poltrona tutti gli ufficiali. Con la sua uniforme da ammiraglio, era apparso all’improvviso seduto alla destra di Picard, là dove solitamente prendeva posto William. Picard dovette fare appello a tutto il suo self-control per non saltare fino al soffitto e stringendo con forza i braccioli della sua poltrona, fulminò Q con lo sguardo. «Dicevo… Jean-Luc, eccomi qua! Non mi stavi aspettando?» domandò Q, sorpreso di vedere Picard tanto spaventato per il suo arrivo. Che aveva fatto di male, ancora? Picard decise di ignorare l’arrivo di Q. Non aveva tempo per le sue pagliacciate ora. Per un istante gli aveva fatto dimenticare la squadriglia e la sua missione. «Signor Data, che ne è stato della nostra squadriglia?» Data esitò a rispondere. Non poteva credere a ciò che i suoi occhi di androide gli stavano mostrando. «Signor Data! Risponda Che ne è stato delle nostre navi?» Domandò ancora Picard, intuendo che qualcosa non fosse andato per il verso giusto. E l’arrivo inaspettato di Q non migliorava di certo le cose. «Sono scomparse signore e anche i vascelli Borg! Io non capisco signore! Forse è un guasto dei sensori!» Le parole di Data scossero la plancia, ma le sorprese non erano finite. La voce allarmata del navigatore Thompson seguì quella di Data: «Capitano! Non ci troviamo più… Noi non, noi non siamo più dove eravamo prima! Tutto il convoglio!» «Cosa intende tenente?» Picard non aveva compreso bene le parole del suo navigatore. Thompson, allargando le braccia, mostrò la consolle di navigazione, quasi a tentare di giustificarsi, «signore, 48 guardi, siamo come stati sbalzati. Non so dove signore. Non ci sono stelle qui, nessuna boa spaziale, nessun riferimento. Siamo nel vuoto più assoluto!» Picard annuì. Aveva ben compreso che erano di nuovo nelle mani di Q. Solo lui poteva essere la causa di tutto ciò. «Q! Che cosa hai in mente questa volta?» Q, sorridente e raggiante prese per mano il capitano. «Ma come Jean-Luc? Hai già dimenticato? La Sfida!» Picard strinse gli occhi, tirando via la mano, con uno scatto repentino. Ma Q non sembrò aversene a male. Anzi allargò ulteriormente il sorriso. Picard poggiò le mani alle tempie massaggiandosele delicatamente e mormorò la prima parola che gli venne in mente: « merde!». 49 CAPITOLO 6 Strinse con forza la pelle sintetica del bracciolo della sua poltrona, tanto che i suoi polpastrelli gli dolsero, premuti con tale forza da percepire il rilievo dei bulloni fissati sull’anima metallica che formavano la struttura della poltrona. Istintivamente anche il suo avambraccio destro si contrasse, ma i suoi nervi recisi, non avevano più nessuna mano cui trasmettere gli impulsi nervosi. William aveva socchiuso gli occhi, senza però distogliere la sua attenzione dallo schermo principale della plancia della Pioneer. I sui timpani ancora vibravano per effetto del suono della voce del primo ufficiale Vovelek, mentre annunciava che il conto alla rovescia era arrivato al termine, quando la squadriglia di attacco, a velocità di curvatura, incrociò i cinque cubi Borg ancora all’inseguimento del convoglio di profughi guidati dall’Enterprise. Fu un istante brevissimo, che a Riker parve lungo a sufficienza per domandarsi se fosse arrivata la sua ora. In caso di impatto contro una delle navi Borg, non ci sarebbe stata nessuna speranza di salvezza. L’esplosione sarebbe stata così violenta che ogni suo atomo sarebbe stato sparpagliato per tutta la galassia e sorprese sé stesso avvertendo che la cosa non gli dava un grande dispiacere. Dopo la perdita del braccio ma soprattutto, dopo l’umiliazione subita, la consueta sicurezza di William era venuta meno. Ma così non fu. La USS Pioneer e la maggior parte dei vascelli che costituivano la squadriglia attraversò indenne la formazione nemica. Pochi istanti dopo erano già a milioni di chilometri, in direzione opposta. Ma la sorte non fu benevola con tutti. Due vascelli klingon, di piccole 50 dimensioni, due sparvieri da ricognizione di classe B’rel, forse per non avere ben calcolato la rotta, andarono a schiantarsi contro uno dei vascelli Borg. La sovrapposizione fra le bolle di curvatura dei cubi Borg e quella della Pioneer, mandarono in sovraccarico gli scudi e per alcuni istanti il sistema dei sensori esterni andò in tilt. Lo schermo principale si oscurò, nascondendo la vista di quanto stava accadendo ai presenti in plancia. La cosa mise in agitazione Riker, che non voleva perdere, nemmeno per un momento, il controllo della situazione. Voltò rapidamente il capo verso Vovelek, affinché ripristinasse i sensori, ma questi tornarono online prima che potesse aprire bocca. Tornò immediatamente a rivolgersi verso lo schermo principale, ma fece a tempo ad incrociare lo sguardo del suo primo ufficiale. Da buon vulcaniano nulla traspariva sul suo stato d’animo. Il visore principale tornò ad illuminarsi, rischiarando la plancia ed i visi degli ufficiali, mostrando uno dei cinque cubi in fiamme alla deriva, gravemente danneggiato dall’impatto con i vascelli martiri klingon. Riker, che ben conosceva la cultura klingon, era quasi certo che l’impatto non fosse stato un errore di rotta, ma un atto deliberato. Ed il loro sacrificio non si era dimostrato inutile. Il cubo danneggiato lasciò la formazione per andare ad esplodere, solitario, scomparendo in una nube di fuoco e gas incandescenti. Erano morti con onore, lo Sto-Vo-Kor li avrebbe accolti fra le schiere dei guerrieri morti in battaglia, con onore, molto onore. - Uno di meno! - esultò dentro di sé William, conscio che comunque, i restanti quattro cubi, costituivano una forza ancora inarrestabile. Era tempo di tornare alla realtà. Era tempo di scuotersi e di agire, per non restare ipnotizzati da quel primo successo. 51 «Rapporto danni!» «Danni al sistema primario dei sensori esterni, il sistema ausiliario sta compensando, leggere fluttuazioni nella rete di distribuzione dell’energia. Rapporto da tutti i ponti: nessuna vittima, nessun ferito.» Ancora una volta il primo ufficiale della Pioneer fu rapido e preciso e il tono della sua voce non tradiva alcuna emozione. «Rotta delle navi Borg?» Tutti gli uomini presenti in plancia attesero frementi la risposta. Se le navi nemiche avessero continuato la loro rotta ciò significava che la loro missione era stata un fallimento completo. Anche Riker trattenne il respiro e anche Vovelek, di solito pronto, esitò a dare la risposta, prolungando l’agonia. «Signor Vovelek?» «Ho difficoltà di lettura con i sensori ausiliari. Sto ricalibrando» si giustificò il vulcaniano, senza togliere gli occhi dalla consolle tattica su cui stava cercando di trovare una soluzione. Riker spazientito decise che sarebbe ricorso ai sensori altrui. «Signor Brett, contatti la Gagarin! Chieda loro dove diavolo stanno puntando ora i Borg!» Il giovane guardiamarina Brett Palmer si mise in contatto con l’incrociatore pesante USS Gagarin, di classe Norway, una delle molte navi della Federazione componenti la squadriglia d’intercettamento. L’immagine dei quattro cubi Borg, ormai fissa sullo schermo per la mancanza di dati dall’apparato dei sensori esterni, fu sostituita dal volto del Capitano Hulan, un Tellarita di mezz’età. «Sono il Capitano Hulan della Gagarin,» esordì «Comandante Riker! Le faccio i mie complimenti, la manovra ha funzionato» 52 «Capitano Hulan vuol forse dire che i Borg ci stanno seguendo?» Hulan rimase sorpreso di fronte alla domanda e un poco interdetto riprese a parlare «Comandante…» Riker comprese il motivo dell’incertezza del tellarita e tagliò corto fornendo una spiegazione rapida ed esauriente: «Abbiamo i sensori esterni fuori uso» Hulan annuì più volte, rimproverandosi di non aver compreso prima. «Oh! Si capisco comandante, le stiamo inviando ora i dati dei nostri sensori. Preparatevi ad interfacciarvi» Brett si voltò verso Riker «Stiamo ricevendo signore!» Riker fece cenno al guardiamarina che aveva sentito e riprese la conversazione con Hulan «A che distanza sono ora i Borg?» «Hanno accelerato a curvatura otto. Ci saranno addosso fra tre minuti, dobbiamo accelerare a nostra volta, come programmato. Tutte le navi del convoglio sono pronte, stavamo giusto aspettando la vostra conferma» «Bene capitano, prepari la sua nave ad accelerare a curvatura otto punto cinque, finché potremo li terremo a distanza. Riker chiudo» Il volto del tellarita scomparve dallo schermo e i cubi borg tornarono minacciosi ad incombere sulla plancia, questa volta lanciati verso la posizione della Pioneer grazie ai dati forniti dalla Gagarin. Riker fece un sospiro. Tutto era andato come previsto. Adesso cominciava il difficile. I Borg avevano ritenuto una minaccia maggiore la squadriglia composta dalle navi superstiti più efficienti, lanciata verso le loro retrovie, rispetto al malandato e lento convoglio dei profughi, diretto verso il Quadrante 53 Gamma. Ora era solo questione di tenerli a bada il più a lungo possibile, in maniera da permettere all’Enterprise di Picard di guidare i profughi verso il tunnel spaziale bajoriano, verso un nuovo futuro. «Signor Brett, prepararsi per curvatura otto punto cinque» ordinò Riker e poi rivolgendosi al comandate Vovelek: «Comandante, contatti le altre navi, pronti a passare a curvatura otto punto cinque a mio ordine» Il vulcaniano obbedì senza opporre resistenza. E a Riker la cosa sembrò insolita, quasi gli mancassero le obiezioni di Vovelek. «Signore, consiglierei di effettuare il salto in due fasi. Una prima fino a curvatura cinque e la successiva fino alla velocità stabilita, onde evitare di mettere eccessivamente sotto sforzo i nostri motori» Riker scosse leggermente il capo divertito - ho parlato troppo presto! – pensò, prima di acconsentire a quanto aveva proposto il primo ufficiale. «Rotta inserita e tracciata» confermò il navigatore. Riker si sistemò l’uniforme e cercò una posizione più comoda sulla poltrona e poi alzando la mano superstite, con l’indice puntato al cielo fece per dare l’ordine di attivazione ma per un brevissimo istante a Will parve che il tempo sulla plancia della Pioneer si fosse come magicamente arrestato e si sentì libero di librare nell’aria, come se il sistema per il mantenimento della gravità artificiale fosse stato disattivato. Ogni cosa intorno a lui pareva essersi fermata e come un fantasma, fluttuava fra i compagni della plancia, osservando i loro visi, le cui espressioni immobili ne fotografavano un preciso istante della loro esistenza. Ognuno di loro era ben conscio che quella sarebbe stata la loro ultima missione, l’ultima avventura, qualunque esito avesse mai avuto. Sia che fosse stata un grande successo, sia una disastrosa disfatta. E sarebbero morti senza poter nemmeno conoscere con 54 certezza tale esito. Will sentì un nodo alla gola e gli occhi gli si inumidirono. Era commosso da tanto coraggio, scaturire da esseri tanto fragili ed indifesi. Quale meravigliosa creazione la vita senziente, in una qualunque delle sue molteplici forme: gli umani, i klingon, i vulcaniani, i romulani e tutte le razze conosciute della galassia, dalla più affine a quella abitante pianeti dalla venefica atmosfera di metano. Ognuna con le sue infinite sfaccettature e diversità, spesso incompatibilità, sfociate altrettanto spesso in conflitti sanguinosi. Ma altre volte aveva trovato armonia, bellezza e stupore sapientemente amalgamati dal tempo e dal destino ma soprattutto dall’impegno quotidiano di miliardi di vite distribuite nel tempo, tese verso l’avanzante futuro, spinte dall’istintiva voglia di vivere, di crescere, di esistere anche solo e semplicemente. Tutto questo, questa specie di visione dell’universo, aveva trovato un suo spazio, una sua dimensione, nell’immaginario di William. Dopo tanti anni di esplorazione a bordo dell’Enterprise D. Ora, la sua visione, sarebbe stata cancellata, azzerata, uniformata dai Borg. Il tempo tornò a scorrere e il braccio di William si abbassò repentinamente e l’ordine di passare a curvatura cinque fu dato. Senza che potesse rendersene conto egli era nuovamente seduto alla poltrona di comando e non udì sé stesso pronunciare la parola attivazione. In compenso una lacrima solitaria rigava la sua guancia. Picard si alzò in piedi, stirandosi l’uniforme come suo solito, tirando verso il basso, con un colpo secco, l’orlo inferiore. 55 Da quanto erano li? Un’ora? Due? Era impossibile stabilirlo. Q aveva sottratto loro ogni dispositivo elettronico, a partire dal comunicatore. «Capitano, è inutile che si agiti. Q ci ha detto che sarebbe venuto a prenderci, quando fosse stato il momento.» La voce dolce e rassicurante del consigliere Troi, convinse Picard a tornare a sedersi sulla fredda lastra di marmo bianco, che costeggiava un muro a secco che si estendeva apparentemente all’infinito, a delimitare una landa desolata che somigliava molto al paesaggio desertico di Veridiano III, pianeta su cui aveva seppellito, sotto un cumulo di pietre il corpo del capitano J.T. Kirk. Una strada, ricoperta di uno spesso strato di asfalto nero, costeggiava il muro ed anch’essa pareva perdersi all’orizzonte in entrambe i sensi di marcia. Una linea gialla discontinua, ne segnava la mezzeria. Il significato di tale pittografia era sconosciuto a Picard. «Certo che fa un gran caldo qui però» si lamentò la dottoressa Crusher, asciugandosi il collo e la fronte con un fazzoletto bianco. Ripiegò il fazzoletto e se lo mise in testa per ripararsi dai cocenti raggi del sole mentre Deanna le rivolse un sorriso consolatorio. «Poteva almeno farci attendere in un luogo più confortevole! Poteva almeno lasciarci dell’acqua o delle provviste! Potremmo restare ad aspettarlo qui per giorni!» imprecò Picard, incapace di stare fermo, tanto che tornò a rialzarsi e portando la mano alla fronte per ripararsi dalla luce, cercò di scorgere a che punto fossero arrivati Worf e Data, partiti da ormai un bel pezzo, per un giro di perlustrazione. Nonostante fossero in cammino da parecchio, a Picard parevano sempre sostanzialmente fermi allo stesso punto. Miraggi del Q-Continuum? Era la prima volta che Q lo portava in quella che si sarebbe potuta definire come la dimora dei Q, il famigerato Q-Continuum. Q aveva spiegato loro che in 56 realtà quella che potevano vedere era una rappresentazione, creata ad arte per venire incontro alle loro limitate capacità, ma che, utilizzando una simbologia comune alle culture umanoidi, avrebbe dato loro, un’idea, seppur incompleta, di che luogo fosse il Q-Continuum. Onestamente, Picard, era rimasto un po’ deluso. Si sarebbe atteso qualcosa di più sfarzoso ed adeguato all’onnipotente razza dei Q. Ma tutto sommato proprio Q, gli aveva insegnato a non soffermarsi sulle apparenze e a guardare l’universo da un punto di vista differente da quello che la sua limitata natura umana lo costringeva e era sicuro che dietro a quella desolazione si nascondesse un significato recondito che al momento gli sfuggiva. Solo che il caldo era davvero opprimente, e tutte le sue brillanti analisi si perdevano nella sua gola secca e nel desiderio, sempre più impellente di bere qualcosa, qualsiasi cosa. «Niente da fare capitano. La porta è chiusa e non credo ci sia modo di aprirla. Non senza gli strumenti adatti.» «Non fa nulla Geordi, lasci perdere e si cerchi un po’ d’ombra. Immagino che stia soffrendo il caldo come tutti noi d’altronde» Il capo ingegnere, dagli occhi bionici, allargò le braccia a dichiarare la proprio impotenza e passò oltre Picard, ricevendo una pacca sulla spalla. Un gesto che lo rinfrancò; sapeva di avere ancora la fiducia del suo capitano, anche se non era riuscito ad aprire quella dannata porta. Picard si mise a fissare la porta. Si ergeva nel mezzo del deserto, a non più di una decina di metri dal ciglio della strada. Apparentemente non apriva nessun passaggio, era solo una porta di metallo sorretta da due pilastri di pietra, come se un costruttore decidesse di iniziare la costruzione di una casa dalla porta, senza poi terminare mai l’opera. Infatti gli si poteva girare attorno, ma da entrambi i lati si 57 presentava liscia, priva di qualunque appiglio. Eppure Picard aveva visto scomparire Q, proprio dietro a quella porta, dopo averli rassicurati che sarebbe tornato subito a riprenderli. Si era giustificato, adducendo una scusa banale: doveva rassettare! - Non avete nessuno per le pulizie nel Q-Continuum? aveva domandato Picard con tono ironico, sconcertato dal pensiero che Q avesse bisogno di tempo per dare una sistemata al Q-Continuum. Q aveva storto il labbro, ed era stato sul punto di replicare, ma aveva troppa fretta e lasciò correre scomparendo dietro alla porta di metallo. Per l’ennesima volta, Picard tornò ad avvicinarsi al portale. Voleva esaminarlo una volta ancora, sperando di riuscire a cogliere qualche dettaglio essenziale, magari sfuggito prima. Si fermò dapprima a guardarlo da quello che pareva il lato anteriore e poi, lentamente gli girò intorno, andando a riparasi alla sua ombra. Il lato posteriore era apparentemente identico all’altro se non fosse stato per un piccolo simbolo, una spirale a tre curve che stava nel centro della piastra metallica. Picard tornò a cercare Data e Worf. Erano ancora, apparentemente nello stesso punto di prima, eppure poteva vedere bene che i due stavano camminando. Improvvisamente, alle sue spalle udì il cigolio dei cardini della porta e un raggio di luce scottante lo raggiunse alla nuca. La porta si era finalmente aperta. Quando si voltò essa era già stata richiusa per cui si portò rapidamente dalla parte opposta . «Ah! Jean-Luc! Sei Qui ! Dove ti eri cacciato?» «Stavo per chiederti la stessa cosa Q!» «Su! Abbiamo già perso troppo tempo! Ma dove sono il tuo stupido ufficiale klingon e quell’imperfetto androide?» 58 «Abbiamo?» ironizzò Picard, continuando «comunque Worf e Data sono impegnati in un giro di perlustrazione. Giusto per ingannare l’attesa, visto che eri sparito». «Perlustrazione? Oh! Jean-Luc non vi riesce mai di smettere di comportarvi da ufficiali della Federazione, nemmeno per un minuto!» Con uno schiocco delle dita, Q riportò i due ufficiali accanto a Picard. Data e Worf, attoniti guardarono prima Q e poi il loro capitano. «E’ tutto sotto controllo signori» li tranquillizzò Picard e poi, rivolgendosi agli altri, « è ora di andare. Deanna, Geordi, Beverly, l’attesa è terminata» Q spinse la porta metallica, che apparentemente sembrava aprirsi sul deserto. «Su! Venite!» incitò Q, attraversando per primo la soglia e scomparendo nel nulla. Picard si rivolse ai suoi ufficiali e cercando di apparire sicuro di sé disse: «Andiamo!» E scomparve anche lui nel nulla. 59 CAPITOLO 7 «Q!» «Guarda chi si fa vedere! Il mio allievo preferito». Il giovane Q affiancò il suo mentore e adeguò il proprio passo a quello del suo simile più anziano. «Ho una domanda da farti» «Parla ragazzo, ma sbrigati. Come saprai fra poco dovrò parlare al Consiglio dei Q» «E’ proprio a proposito di questa tua ultima impresa, volevo domandarti cosa ti spingesse a perorare la causa di questi primitivi. Sai, sto approfondendo le mie conoscenze sulle razze umanoidi ed in particolare su quella terrestre.» «Si, ricordo il tuo ridicolo tentativo nel mare di Kantara!» lo punzecchiò Q. L’allievo fece finta di non avere sentito, ma era stato alquanto infastidito dal fatto di essere stato salvato dall’affogare. Si era sentito parecchio stupido. Era giovane ma era pure sempre un Q! «...e appunto dicevo, che hai suscitato in me una tale curiosità per questi primitivi che ho deciso di dedicarmi alla loro osservazione. Sono stato sul loro pianeta quando era ancora un ammasso di rocce e metalli fusi, ma non ho trovato nulla di interessante, allora ho fatto un passo di due miliardi di anni, ma la situazione non era cambiata granché, solo un poco più di acqua e nemmeno tanto pulita. Gli oceani erano infestati da miliardi di batteri, non mi ci è voluto molto per capire che non era ciò che stavo cercando.» «Gli umani sono una specie molto recente caro mio, sei andato troppo nel passato della Terra» osservò Q, girando la testa per vedere a che punto fosse il gruppetto degli 60 ufficiali della Flotta che lo stavano seguendo lungo quel ripido sentiero. Picard, da buon comandante stava in testa alla fila e camminava a testa bassa ansimando per lo sforzo e muovendo lo sguardo alla ricerca di un punto sicuro in cui poggiare la pianta dello stivale. «Si appunto, ci stavo arrivando!» riprese l’allievo «Sono rimasto davvero basito quando ho capito che questi umani esistono, come specie distinta, da poco più di un milione di anni e che praticamente solo negli ultimi diecimila hanno sviluppato qualcosa che si potrebbe a fatica definire civiltà!» «Si, sono molto giovani ed estremamente immaturi, eppure sono così orgogliosi ed ostinati!» commentò il maestro. «Esatto! Non ho potuto fare a meno di chiedermi il perché uno dei Q più famigerati del Q-Continuum stesse mettendo a rischio la propria reputazione per aiutare una razza tanto recente tutto sommato insignificante nella storia dell’Universo!» Il giovane Q era pervaso da un insolito entusiasmo che lo stava portando a gesticolare scompostamente e Q finì col notare l’insolito atteggiamento del ragazzo ingenerando in lui il sospetto che gli stesse nascondendo qualcosa o che comunque non gli stesse raccontando la verità fino in fondo. Q si arrestò senza preavviso afferrando per un braccio l’altro Q e fulminandolo con uno sguardo carico di minacce e promesse di probabili punizioni se avesse scoperto che gli aveva disubbidito: «Ti sei limitato ad osservare vero? Sai che non hai ancora il permesso di interagire con l’evoluzione delle specie!» L’allievo si ritrasse bruscamente e con una mossa repentina costrinse Q a mollare la presa sul suo avambraccio e decise che non sarebbe restato li a farsi trattare come un bamboccio. Aveva ormai ben 61 quattrocento e trecentoventisettemila anni, abbastanza da pretendere rispetto! «Certo che no!» esclamò con tanto vigore il giovane Q che Picard poté udirlo, anche se si trovava ad alcune decine di metri dai due esseri onnipotenti ed arrestò la marcia cercando di comprendere quale fosse il motivo del contendere. «Non c’è bisogno che sbraiti! Un Q non si scompone!» lo rimproverò Q per nulla convinto dalla reazione decisa dell’allievo. Il giovane Q, il cui viso era diventato paonazzo per lo sforzo di mantenere un’espressione la più accigliata possibile abbassò un poco lo sguardo, incapace di sostenere quello del Q più anziano, ma per nulla disposto a cedere. «Scusa, hai ragione. Il punto è che tu pensi sempre che io non perda occasione per disubbidirti. Invece io vorrei un poco più di…» «Devo forse ricordarti gli Xiloniani? Non sono stato certo io ad andare sul loro pianeta un miliardo prima della nascita della vita e a trasformare il loro brodo primordiale in un oceano di idrogeno liquido! E non sono nemmeno stato io a farmi passare per un crudele divinità su Zantar III e a causare una fatale deviazione sulla via dell’evoluzione degli Zantariani, che li ha portati all’estinzione in poche migliaia di anni! E dimentichi la stella Kreth? Quella con cui ti sei divertito per millenni a farla prima implodere e poi esplodere. Peccato ti fossi scordato delle conseguenze che la tua stoltezza avrebbe avuto sul secondo pianeta del sistema, dove un'innocente, quanto rozza, civiltà umanoide è stata abbrustolita dai tuoi esperimenti!» Q non staccò lo sguardo dal viso del suo allievo. Questa volta non avrebbe lasciato correre. Degli Xiloniani, degli 62 Zantariani non gli era importato un fico secco, ma gli umani no! Quelli non poteva toccarli nessuno. Tranne lui. «Sono stati incidenti,» si giustificò il giovane Q, con un filo di voce, tanto che anche Q fece fatica ad udirlo, ma immediatamente ebbe uno scatto di vero orgoglio Q e alzò nuovamente la testa e si assicurò che le sue pupille e quelle del suo tutore fossero sulla stessa linea e facendo appello alla sfrontatezza tipica dei giovani esclamò: «E poi parli proprio tu! Te li ricordi i Glosh?» Fra i due calò il silenzio e restarono a lungo a fissarsi, entrambi decisi a non essere il primo a cedere. Q stava ribollendo di rabbia per l’insolenza del giovane, se non fosse che era al momento impegnato in questioni ben più importanti, che richiedevano tutta la sua attenzione, avrebbe volentieri dato una lezione a quel giovane sbruffone, che non aveva un centesimo dei suoi anni, magari rinchiudendolo in una cometa per un paio di milioni di anni. Ma non c’era tempo, il Consiglio attendeva impaziente e il sentiero era ancora lungo, perciò decise che avrebbe lasciato cadere la questione, ma non l’avrebbe scordata. A tempo debito il giovane Q avrebbe meritatamente imparato a sue spese che nessuno può permettersi di fare l’insolente con un Q. E che Q. «Quella è una faccenda che non ti riguarda! Mi auguro solo che tu non abbia combinato guai! Sappi che comunque verrò a saperlo quindi sei fortunato che io ora non abbia tempo da dedicarti. Sei ancora a tempo per sistemare qualunque pasticcio tu abbia causato.» Il giovane Q cantò intimamente vittoria. Il suo tutore arretrava con la cavalleria e si sentì per la prima volta realmente onnipotente, tanto che si fece largo in lui un briciolo di comprensione per quel vecchio Q che cercava di instradarlo sulla retta via del Q-Continuum. «Fidati di me, vecchio mio! Mi sono limitato ad osservarli. Anche se da molto, molto vicino!» 63 Un'energica pacca raggiunse come un fulmine a ciel sereno la spalla sinistra di Q obbligandolo a mettere una gamba avanti per non perdere l’equilibrio. - Vecchio mio? - aveva udito bene? - Vecchio mio? Quel piccolo escremento più insignificante del pulviscolo spaziale aveva osato dargli del vecchio? E cos’era quel gesto confidenziale tipicamente terrestre, solitamente a significare comprensione e commiserazione? Q afferrò con una velocità inaspettata il suo giovane allievo per le spalle e stringendolo così forte da fargli del male lo costrinse a guardarlo negli occhi. Era pronto a riversare su di lui la sua immensa ira. «Piccolo microbo, prova ancora una sola volta a ripetere ciò che hai fatto e non dimenticherai mai più come va trattato un Q che è di eoni più vecch…» Q ebbe un'esitazione quando si rese conto che si stava imbrogliando da solo. Camuffò l’imbarazzo e riprese la sua predica «più maturo di te! E non so dove tu abbia imparato quel ridicolo quanto irrispettoso gesto, ma ti sconsiglio di ripeterlo in futuro! E ora vattene, ho faccende urgenti da sbrigare e mi hai già fatto perdere tempo a sufficienza!» Q lasciò lentamente la presa e il giovane Q, divertito nel vedere il suo maestro lasciarsi andare ad una reazione tanto scomposta scomparve in un lampo. Non gli sembrava il caso di infierire ulteriormente, per quel giorno si era preso già la sua bella soddisfazione. «Capitano, che sta succedendo?» chiese Geordi, che si era arrestato alle spalle di Picard «Non lo so, sembra che stiano discutendo, ma non riesco ad udire bene le parole» «Ma chi è il secondo individuo? Sembra un ragazzino all’incirca di non più di quindici anni» domandò Beverly 64 «Non so nemmeno quello. E’ apparso all’improvviso, forse è uscito dalla boscaglia, ma non l’ho mai visto prima. Credo si tratti di un membro del Q-Continuum» ipotizzò il capitano intento ad osservare Q ed il nuovo arrivato proseguire affiancati il cammino. «Signore, suggerisco cautela. Un Q è pericoloso. Due lo sono il doppio» avvertì Worf, il cui spirito guerriero si era subitamente infiammato all’arrivo di un potenziale pericolo. Data, che chiudeva la fila, giunse per ultimo. Distratto dalle letture del suo tricorder non aveva ancora notato l’arrivo di un secondo Q. «Capitano, Q non è più solo» fece notare l’androide. «Abbiamo visto Data» lo aggiornò prontamente Picard. «E’ altamente probabile che si tratti di un membro del QContin…» «Si lo immaginavamo» lo interruppe Geordi «Dall’aspetto pare essere più giovane del Q che conosciamo. Se fosse umano avrebbe un’età approssimativa di quindici virgola du…» «Abbiamo notato Data» lo interruppe Beverly stavolta. Data rimase un istante a bocca aperta, come se i suoi circuiti positronici stessero cercando di recuperare il filo perduto. Superata l’incertezza, la sua programmazione era passata all’informazione successiva. «Naturalmente, visto che non sappiamo con chi abbiamo a che fare, consiglio cautel…» I compagni di Data si voltarono verso di lui all’unisono fissandolo congiuntamente. «Si Data lo sappiamo!» risposero in coro facendo chiaramente intendere all’androide che le sue osservazioni erano giunte decisamente fuori tempo massimo. Ma nei loro occhi si poteva comunque leggere tutto l’affetto che provavano per quella meravigliosa 65 macchina senziente a cui tutti, almeno una volta, avevano dovuto la loro vita. Data rimase immobile, con un’espressione sorpresa e allo stesso tempo confusa. «Immagino che allora sappiate già che il trycorder non rileva nulla di insolito.» Picard e anche i suoi ufficiali si lasciarono scappare un sorrisetto ironico. «Data, credo che qui il trycorder sia inutile. Metta pure via quell’arnese.» «Come vuole capitano» Data richiuse lo strumento diagnostico e lo agganciò alla cintola. «Riprendiamo il cammino ora e speriamo che non ci sia ancora molto. Comincio ad essere stanco di questa rappresentazione del Q-Continuum. Prima un torrido deserto, ora una montagna che pare non avere una cima.» Picard riprese a marciare, facendo sempre attenzione a dove metteva i piedi. Il sentiero era limitato da un lato dal fianco della montagna, ma dall’altro cadeva a strapiombo. Sarebbe bastata una piccola distrazione per precipitare. Aveva cercato di comprendere il motivo che stava alla base di una simile rappresentazione del Q-Continuum. Prima un deserto e ora questo sentiero. Che fosse una specie di percorso necessario al raggiungimento di un qualche particolare stato spirituale? O di una maggiore consapevolezza necessaria a dialogare sullo stesso piano di un Q? O che altro? Perché Q non si era limitato a portarli con uno schiocco di dita davanti al Consiglio? Domande senza risposte. L’unico accrescimento di cui Picard era al momento certo, era quello dell’acido lattico nei suoi muscoli e il sudore che a piccole goccioline gli perlava la fronte. Ed era certo che il Consiglio del QContinuum non sarebbe stato benevolmente impressionato da un umanoide maleodorante. 66 Alzando gli occhi, Picard notò che Q e il nuovo arrivato si erano arrestati e pareva che il loro conversare fosse mutato in un alterco. Alzando la mano destra alla fronte per pararsi dai raggi del sole scrutò quello che stava accadendo fra i due. Spezzoni di parole, giunsero a fatica al suo orecchio, abbastanza da capire che non si trattava di una discussione amichevole. Picard accelerò il passo per cercare di accorciare la distanza che lo separava da Q, ma non quanto avrebbe voluto, il rischio di scivolare era ben presente nella mente del capitano. I suoi ufficiali, altrettanto incuriositi, seguirono l’esempio del loro capitano, restandogli saldamente alla calcagna. Quando furono ad una dozzina di metri dal loro obiettivo, videro dapprima il ragazzo dare una pacca sulla spalla di Q, così energica che quasi lo fece cadere a terra, e successivamente la veemente reazione di Q, che afferrava il ragazzino per le spalle e gridò cosi forte che poterono udire chiaramente ogni parola. Una risatina divertita non poté essere soffocata. Solo Data e Worf rimasero assolutamente impassibili. Il ragazzino scomparve nel consueto lampo di luce e Q rimase solo, intento a massaggiarsi le tempie, come se fosse afflitto da un’emicrania. «Coraggio Q, la prossima volta starà più attento con la palla!» «Jean-Luc! Ti è dato di volta il cervello?» domandò Q, voltandosi verso Picard. Non si era reso conto che gli umani lo avevano raggiunto e subito il suo viso riprese a mostrare il suo solito ghigno strafottente. «Non era tuo figlio quello? Di che lo rimproveravi? Ha usato un pianeta come palla da gioco ed ha rotto il vetro della finestra del tuo vicino di Q-Continuum?» continuò sarcastico Picard, felice di avere un’occasione per essere lui a prendersi gioco di Q per un volta. 67 «Figlio? Ti sbagli Jean-Luc! Non è mio figlio, per fortuna è solo un ragazzino presuntuoso e sfrontato cui ho avuto la sfortuna di fare da tutore» precisò Q. «Presuntuoso e sfrontato…» Picard si sfregò il mento con la mano destra, recitando la parte di colui che è immerso in una profonda riflessione «sei proprio sicuro non sia tuo figlio?» «Jean-Luc! Il tuo sarcasmo, in questo momento è davvero fuori luogo! Vorrei ricordarti che siamo qui perché io ho deciso di aiutarvi a non farvi spazzare via dai Borg!» La risposta di Q era piena di risentimento. Forse un po’ eccessivo per un'innocente battuta. In fondo, sia lui sia Picard giocavano a scambiarsi reciproci sfottò da parecchi anni. Il capitano comprese che quel ragazzino rappresentava per Q un problema piuttosto serio. Sotterrò l’ascia di guerra e cambiò tono quando riprese a parlare: «d’accordo, non è il momento per il sarcasmo, però noi siamo stanchi di camminare. Quanto manca ancora per arrivare al Consiglio del Q-Continuum?» domandò Picard. Q era ancora immerso nei suoi pensieri e dovette fare uno sforzo per prestare attenzione alle parole di Picard. «Si! Certo!» Q schioccò le dita e la montagna, il sentiero scomparvero per lasciare posto ad una specie di sala consiliare in marmo bianco che ricordava certe rappresentazioni del senato della Roma imperiale. Picard e sui ufficiali erano seduti al margine esterno sinistro del semicerchio a gradoni, mentre dalla parte opposta un gruppo di droni borg sedeva sulla loro stessa fila. «Dove siamo?» domandò Deanna «Davanti al Consiglio del Q-Continuum, ovviamente!» rispose Q 68 «Ma, la montagna, il sentiero, perché non ci hai portato qui subito?» «Ho avuto i miei motivi e comunque ora siete qui! Smettetela di farmi domande! Siete sempre così noiosamente curiosi!» «Oh! Si, ricordiamo, dovevi mettere in ordine!» lo punzecchiò Picard facendo riferimento alla scusa banale che Q aveva addotto loro durante la lunga attesa nel deserto, di fronte alla grande porta di metallo. «Jean-Luc, se fossi in te non farei tanto lo spiritoso. Tra poco arriveranno i membri del consiglio e ti suggerisco di risparmiare il tuo sarcasmo per loro. Non ti sarà facile dimostrare che la tua razza e migliaia di altre siete degni di abitare la galassia. Non so se li hai notati, ma laggiù ci sono i tuoi avversari e loro non si perdono in facezie come te!» disse Q, indicando il gruppo di droni Borg che sedevano immobili, per fortuna parecchio lontani, alla loro destra. Le parole di Q centrarono il bersaglio e Picard, ferito a morte arretrò. Il tratti del suo volto si fecero duri e tesi. Non aveva idea di cosa lo aspettasse, sapeva solo che non poteva fallire o la galassia sarebbe divenuta un immenso alveare Borg. 69 CAPITOLO 8 Picard, impaziente, trovava difficile restare seduto sul freddo marmo bianco del piccolo anfiteatro che sarebbe stata l’aula di quello che si avviava ad essere un processo in piena regola. Aveva ben presto intuito di essere uno degli imputati e che la causa, se così si poteva chiamare, vedeva coinvolti anche i Borg. I consiglieri del QContinuum non erano ancora giunti, ma ormai Picard si era rassegnato a quelle lunghe attese, comprensibili per una razza non costretta a combattere contro la voracità del tempo, per la quale, un ora od un millennio erano praticamente sullo stesso piano. Picard si augurò che in quell’occasione rammentassero quanto per gli umani, il fattore tempo, fosse determinante. Per un istante si immaginò vecchio e decrepito ancora seduto su quei gradoni di marmo in un’attesa infinita. Scacciò rapidamente il pensiero e dedicò la sua attenzione nell’osservazione del manipolo di droni Borg che impassibili stavano seduti come lui dalla parte opposta dell’anfiteatro. Erano in cinque seduti, più un sesto che però stava in piedi a braccia conserte e pareva avere una configurazione diversa dai compagni. I suoi impianti cibernetici erano color argento ed oro e parevano essere stati lucidati con un qualche prodotto di pulizia particolarmente efficace, visto che risplendevano quasi di luce propria mentre ciò che era rimasto di organico non presentava il solito colorito ceruleo che faceva somigliare i Borg a dei cadaveri viventi, era invece di un rosa pallido più adatto ad una bambina cresciuta sulle montagne. E soprattutto il ghigno di quel drone, tipicamente spettrale ed inespressivo, incuteva timore e rispetto e nei suoi 70 occhi ardeva un fuoco intenso. I restanti droni non presentavano, agli occhi esperti di Picard, niente che li rendesse degni di nota e inspiegabilmente non riusciva a percepire il richiamo della Collettività, come invece era spesso accaduto in passato, dopo la sua assimilazione avvenuta parecchi anni prima, ogni qual volta era nelle vicinanze dei Borg. Picard ne dedusse che quei droni erano completamente sganciati dalla Collettività, soggiogati dal potere immenso dei Q. Stanco di giocare all’investigatore, Picard decise che avrebbe probabilmente ottenuto un risultato migliore ponendo i suoi interrogativi direttamente a Q, che stava in piedi davanti a lui, anch’egli con le braccia conserte, la fronte corrucciata e gli occhi fissi su quel drone luccicante. L’intuito del capitano gli suggerì che quel drone e Q avessero un qualche conto in sospeso. «Posso farti una domanda?» disse Picard rompendo il silenzio della sala. Nonostante avesse parlato con un tono di voce discreto, le sue parole ritornarono sotto forma di eco, amplificandosi a tal punto che anche il drone argentato si voltò verso il capitano. Picard, resosi conto di avere attirato l’attenzione abbassò ancora di più la voce e ripeté la sua richiesta «Dimmi Jean-Luc» rispose Q, senza togliere lo sguardo dal suo avversario sul lato opposto. «Chi sono quei borg laggiù e soprattutto chi è quel drone in piedi, quello con gli impianti?» «In argento ed oro, ridicoli vero? Vuoi sapere davvero chi sia Picard? Ne sei certo?» Picard annuì col capo, domandandosi quale terribile verità potesse nascondersi dietro l’identità di quel drone. «Lui è la causa di tutti i vostri guai, Jean-Luc! Lui ha sostenuto e tuttora sostiene la causa dei Borg! Spera ardentemente che quei mostriciattoli cibernetici 71 conquistino tutta la galassia e chissà, forse un giorno, l’universo intero! Illuso! Lui è Q!» La voce di Q era carica di odio e disprezzo. E diede a Picard la certezza che i due non era sicuramente la prima volta che si scontravano ma che probabilmente quella era l’ultima di una lunga serie di diatribe. «Q?» «Si! Q! Sei diventato sordo? Che tristezza questi vostri fragili e difettosi corpi che col passare degli anni…» Picard alzò con un movimento repentino la mano destra intimando a Q di non proseguire. Non aveva proprio voglia di stare ad ascoltare le farneticanti critiche alla sua umanità, con cui Q li aveva deliziati per parecchi anni. E riprese il discorso interrotto. «Anche lui si chiama Q? Ma mi spieghi una benedetta volta come fate a districarvi in una comunità in cui ognuno di voi ha lo stesso identico nome?» «Jean-Luc, la tua primitiva quanto incolmabile ignoranza e il tuo spirito che ti spinge inutilmente a cercare di colmare tale oceano di conoscenze a volte mi commuovono» Q, da buon commediante, finse di asciugarsi con il dorso della mano delle lacrime che non c’erano e sempre recitando la parte del sinceramente commosso, continuò, con un Picard altrettanto sinceramente stizzito dalla sceneggiata e che si limitava a stare seduto con le mani poggiate sui bordi del gradone di marmo. «Quando anche voi umani avrete raggiunto, se mai vi riuscirete vista la vostra propensione per l’irrilevante, un livello evolutivo pari al nostro allora capirai che la necessità, tipica delle razze primitive, di assegnare un nome ad ogni cosa è assolutamente futile. Comunque per venire incontro alle vostre capacità mentali limitate vedrò di fare un’eccezione» Q si portò una mano al mento e simulò profonda concentrazione. 72 «Q-Borg! Che ne dici Jean-Luc? Mi pare carino ed appropriato, così eviterete ogni pericolo di fare confusione in quelle vostre piccole e inefficienti testoline.» Picard aveva smesso di ascoltarlo. Era l’unico modo che conosceva per non cedere alla tentazione di lasciare che tutti i suoi più bestiali istinti erompessero senza freno, scagliando contro Q tutta la violenta aggressività di cui era capace. Se fosse stato un klingon, Q non sarebbe arrivato alla quarta parola del suo irritante monologo, o meglio, non ci sarebbe arrivato intero. «Jean-Luc! Ma mi stai ascoltando? O hai veramente problemi di udito?! Beverly! Il tuo timido amante ha bisogno delle tue cure, credo che gli anni comincino ad essere davvero troppi per lui!» Beverly, che fino a quel momento era rimasta in disparte, sentendosi chiamata in causa si alzò portandosi verso il capitano. Le parole timido amante l’avevano un poco scossa. Lei sapeva dei sentimenti che il capitano provava per lei da parecchi anni e lui sapeva dei suoi, e tutti i membri dell’equipaggio dell’Enterprise, che avessero trascorso sufficiente tempo a bordo della nave, erano a conoscenza del legame, mai esplicitamente dichiarato, ma, ad occhi esperti, abbastanza evidente, tra il capitano e il primo ufficiale medico. Sentire Q sbraitare senza pudore quello che pareva destinato a restare, per sempre, un intimo segreto di pulcinella la infastidì non poco e incontrando lo sguardo di Picard capì che anche lui era rimasto altrettanto infastidito dalla mancanza di tatto e maleducazione di Q. «Capitano, qualcosa non va?» domandò la donna «No. No. Beverly, è tutto a posto, io e Q stavamo avendo uno dei nostri soliti confronti. Mi spiace» le ultime parole del capitano si riferivano proprio a quell’indiscreto accenno alla loro platonica relazione fatto poc’anzi da Q. 73 E la Crusher comprese, come sempre, senza che Picard dovesse aggiungere altro. L’intesa che esisteva fra i due permetteva loro di risparmiare molte parole senza perdere alcun significato. «Non fa nulla, Jean-Luc, non è colpa tua» lo tranquillizzò la dottoressa «Non fa nulla Jean-Luc!» li canzonò Q «Siete la coppia più melensa della galassia! Ma quando la finirete di fingere che…» «Q! Adesso basta! Non ti permetto di andare oltre!» Picard era scattato in piedi così rapidamente che Q aveva fatto un piccolo passò all’indietro per non cadere dal gradone e sul suo volto si dipinse un’espressione di reale spavento. Picard non era per nulla disposto a permettere a nessuno, nemmeno ad un super essere come Q, di prendersi gioco dei sentimenti che lo legavano a Beverly. Entrambi avevano avuto negli anni altre storie d’amore, dalle fortune davvero alterne, eppure, fra loro era rimasto solido ed indissolubile un legame speciale. E da anni Picard si era convinto che per restare tale, il loro rapporto non avrebbe mai dovuto concretizzarsi. Proprio Q, anni prima, gli aveva permesso di dare una sbirciata ad un suo futuro ipotetico e sindrome irumodica a parte, l’aveva colpito il fatto che lui e Beverly si erano sposati e separati. La storia non aveva funzionato, come tante altre storie che gli era capitato di vivere nella sua vita. Per non perderla avrebbe dovuto rinunciare ad averla. E Beverly aveva capito, lei lo capiva sempre. Lo sguardo di Picard non tradiva nessun'incertezza. E Q perse tutta la sua boria e con fare imbarazzato abbassò lo sguardo. «Jean-Luc…» sussurrò, agitando il dito indice della mano, come se stesse cercando di recuperare il filo perso del discorso. Ma Picard, spinto da quell’onda d'orgoglio e sentimento, non avvezzo ad attendere di ricevere ordini, 74 decise di giocarsi le sue carte. Voleva sapere che stava accadendo di preciso. La storia della Sfida, il Consiglio del Q-Continuum, l’invasione massiccia dei Borg negli ultimi mesi, quell’anfiteatro, il Q-Borg. Tutto pareva sempre meno credibile e reale. Voleva delle spiegazioni, ora, subito. «Q! Siamo stanchi dei tuoi giochetti! Ora voglio che tu mi dica tutto quello che sai!» I compagni si voltarono tutti verso Q. Il tono della voce del capitano aveva attirato le loro attenzioni ed attesero una risposta. «Altrimenti?» domandò un Q che si stava riprendendo dallo spavento. «Altrimenti noi ce ne andiamo. Preferisco restare a lottare con i Borg una battaglia persa che essere schiavi della tua ipocrisia e supponenza per altri cinque minuti!» Picard parlava seriamente e in cuor suo sperò di avere impressionato a sufficienza Q da indurlo a dire tutta la verità. «E rinunceresti alla Sfida? Alla possibilità di allontanare per sempre la minaccia dei Borg?» «Piuttosto che gettare l’intera galassia fra le tue amorevoli braccia si!» «Ma non puoi! Ormai sei qui! Ormai ho organizzato tutto! Se ve ne andate il Q-Borg avrà vinto e io… Io…» Q si morse la lingua. Era troppo tardi quando si rese conto di avere parlato troppo. «E tu cosa?» domandò Picard stringendo gli occhi. Che fra Q e il Q-Borg ci dovesse essere un qualche sorta d'attrito o rivalità lo aveva compreso già prima, ma ora comprese anche che la Sfida non era rivolta direttamente alle razze del Quadrante Alfa e i Borg. Un lontano ricordo della sua infanzia affiorò nella sua memoria, di lui e suo fratello, che fra i filari dei vigneti vicino a casa, tenevano interminabili gare di velocità fra lumache e si 75 ricordò anche della reazione di suo padre, che scoprendoli a tifare accanitamente per due lumache che si sfidavano sul metro lineare, li riprese duramente ricordando loro che ogni creatura vivente va rispettata e che avremmo dovuto vergognarci per la violenza che stavamo esercitando su quelle due lumache. In quel momento, Picard comprese veramente a fondo le parole pronunciate tanti anni fa da suo padre. Lui adesso era la lumaca. Q esitò a rispondere, quanto bastò a Picard per comprendere di avere colto nel segno. La Sfida in realtà era riservata a Q ed al suo antagonista del Q-Continuum. Loro e i cinque borg ancora seduti a pochi metri da loro erano niente altro che i loro campioni, come nelle antiche giostre medievali. O più semplicemente, ripensando ancora alla sua infanzia, erano le loro due lumache. E il campo di battaglia era la galassia stessa e probabilmente questa Sfida si stava protraendo da secoli o millenni e stava vedendo Q perdente, così suppose Picard. Una sfida mortale, almeno per una delle due lumache e la cosa non gli piacque per nulla. Mancava solo un dettaglio: il premio. Ma era un particolare assai poco rilevante, comunque non sarebbe stato assegnato certo alla lumaca vincente, ma solo al proprietario della stessa, così come nelle corse di cavalli, cui da ragazzo aveva partecipato, la coppa del vincitore è consegnata al fantino ed al proprietario, mentre all’animale solo un po’ di biada e gloria che non l’avrebbe ripagato certo delle sue fatiche. Picard sentì una profonda rabbia crescere dentro di lui. Si sentì usato. E ripensò ai momenti difficili di quegli ultimi mesi, sempre in battaglia, costretto a considerare la morte come un membro dell’equipaggio della sua nave, sempre pronto a reclutare sotto il suo comando altri membri, fino a formare una squadra infinita fatta di volti, di nomi che 76 non torneranno più dalla loro missione. Era stato tutto un gioco? Da quanto l’umanità era strumento della follia di Q? Quanto dei loro progressi era realmente dovuto agli sforzi di milioni di uomini e donne, ormai dimenticate ceneri, che nei secoli avevano lottato contro le forze della natura, contro le loro paure, contro l’ignoranza cercando di regalare ai proprio figli un futuro migliore e quanto invece opera della folle gara fra i Q? Improvvisamente sentì svanire il proprio orgoglio di appartenere alla razza umana e fu pervaso da un profondo senso di vuoto interiore che piegò anche la sua pur dura scorza e senza dire altro, senza attendere che Q parlasse ancora, si accasciò su se stesso, con Beverly che ne rallentò la caduta, cercando di sorreggerlo. Picard si ritrovò con la testa fra le mani, bagnate da calde lacrime, a singhiozzare come un bambino. Tutto ciò che l’aveva sorretto fino a quel momento era venuto meno. Tensioni represse, rabbia, dolore e un senso di profondo quanto inconsolabile sconforto lo assalì. Nulla aveva più senso. «Capitano…» dissero in coro Geordi e Data, sui cui volti si poteva leggere stupore e compassione. Deanna e Beverly lo affiancarono abbracciandolo, tentando di trasmettergli parte della loro comprensione. Worf, silente, fissava la scena impassibile. Il suo cuore klingon gli impediva di esplicitare la sua solidarietà al dolore del capitano, ma anch’egli era giunto alle stesse conclusioni del suo capitano e l’idea che l’intera storia dell’Impero klingon non fosse altro che un ordita trama intessuta dai Q l’aveva sfiorato. Q era rimasto in silenzio. E per la prima volta nella sua lunga esistenza riuscì, senza trasformarsi in esso, a provare la sensazioni tipiche di un piccolo invertebrato terrestre, dedito a scavare gallerie nel terriccio ed anticamente usato come esca per la pesca. 77 «Jean-Luc. Non è proprio come pensi. Io e il Q-Borg ci siamo sfidati tanti eoni fa, così tanti che non ricordo nemmeno più quanti e questo è solo l’ultimo capitolo di questa sfida. Fino ad ora ci eravamo limitati a confrontarci in prove di abilità come saltare in un buco nero, interrompere la fusione all’interno di stelle, spostare galassie, a volte farle sparire, giochetti insomma» Q fece una pausa, abbozzando un sorriso, sperando che la battuta servisse a Picard per riprendersi. Il capitano aveva cessato di singhiozzare e stava ascoltando le parole di Q, ma i suoi occhi, ancora bagnati, erano spenti, privati di quella luce chiamata speranza. Vedendo di non avere sortito effetti, Q riprese a parlare. «Solo ultimamente il mio avversario ha spostato il fulcro della sfida su un piano più complesso e stimolante. Si! Insomma! La gestione di una particolare forma di vita senziente, allo scopo di aiutarla ad evolversi fino a che non avesse preso il controllo dell’intera galassia. Fino a poco tempo fa ci eravamo limitati a creare a tali razze le condizioni favorevoli per il loro sviluppo, pianeti con la giusta gravità, il clima, acqua, ossigeno ed eravamo poi rimasti a guardare la vita evolversi lentamente, ma appunto era troppo lenta e Q-Borg decise di infrangere una delle regole del Q-Continuum e cominciò ad interferire direttamente con le prime forme di vita senzienti che si erano evolute sul pianeta da lui predisposto allo scopo di accelerarne il processo. Io protestai, ma siccome in passato ho avuto alcuni problemi con il Consiglio del Q-Continuum non mi diedero ascolto. E allora capisci, non sono potuto restare con le mani in mano e sono intervenuto anch’io! Insomma era una questione d’onore! Worf! Spiegagli tu cosa intendo per onore!» Il klingon si limitò a ringhiare, facendo chiaramente capire a Q che non lo avrebbe aiutato. 78 «Ma qualcosa è andato storto vero?» intervenne La Forge «Esatto! Il mio avversario ha fornito ai Borgoniani una quantità di tecnologia tale che in pochi secoli essi hanno radicalmente mutato la loro società, sviluppando una fame di tecnologia tale, oserei dire una dipendenza, che li ha spinti ad uscire dal loro sistema solare per ricercarne sempre di nuova, al punto che hanno perso il senso della vita biologica, che è diventata di secondaria importanza. Una razza intera schiava del bisogno di acquisire sempre nuova tecnologia! Capite?» «I Borgoniani erano i Borg prima che Q-Borg intervenisse pesantemente nella loro società esatto?» «Perspicace l’androide!» ironizzò Q Data non colse e rivolgendosi al capitano «A questo punto signore credo che sia nostro dovere approfondire la faccenda. Qui non si tratta più solo della nostra salvezza. In fondo anche i Borg sono delle vittime e anche se l’idea può essere singolare necessitano di aiuto forse anche più di noi.» Tutti si guardarono l’un l’altro, un poco scioccati dall’affermazione dell’androide, solo Picard mantenne la sua espressione vuota e dimostrando di avere ripreso il controllo delle sue emozioni si alzò nuovamente e stirandosi l’uniforme disse con voce pacata: «Ha ragione signor Data» e poi rivolgendosi a Q «Ti aiuteremo, ma in cambio tu ci prometti che sparirai per sempre da questa galassia e che non interferirai più con nessuna delle razze che la abitano?» Q incrociò gli indici baciandoseli ripetutamente «Giuro! Te lo prometto Jean-Luc!» poi fece una pausa e si voltò di scatto verso il centro dell’anfiteatro. Silenziosi, senza farsi notare, i membri del consiglio erano entrati e sedevano al lungo tavolo posto al vertice dell’anfiteatro. «Sempre se vinceremo» fu il commento laconico di Picard. 79 CAPITOLO 9 Da quanto tempo era li? Fu la prima cosa che Riker si domandò non appena si rese conto di essere sveglio. Era ancora seduto al posto di comando della USS Pioneer e poteva udire solo i sommessi ronzii degli strumenti intenti a monitorare le funzioni del vascello. William era crollato di sonno dopo il tremendo stress subito nel tentativo riuscito di ingannare i Borg, distogliendo la loro attenzione dal convoglio principale. Riker si immaginò l’Enterprise, in testa al gruppo, ormai a poche ore dal tunnel spaziale bajoriano e il pensiero gli risollevò un poco il morale. Massaggiandosi ripetutamente quello che restava del suo braccio destro si guardò intorno valutando rapidamente la situazione. Tutto pareva normale, se il termine normale avesse avuto un qualsiasi significato in quel momento. Lo schermo principale inquadrava i restanti quattro vascelli Borg lanciati all’inseguimento della Pioneer e dello sparuto gruppo di coraggiosi che si erano offerti di sacrificare le proprie vite nel tentativo di dare speranza ai profughi. - Capitani coraggiosi - pensò Riker, avendo però l’impressione di avere già avuto a che fare con quell’epiteto, da ragazzo, forse una canzone o un oloromanzo. Non vi dedicò altra attenzione e si alzò in piedi con uno scatto repentino. Il comandante Vovelek, stava esattamente dove Riker l’aveva lasciato, alla postazione tattica e nonostante fossero parecchie le ore che lo avevano visto impegnato, dava l’impressione di non essere benché minimamente provato. Will, al contrario, era a pezzi. «Rapporto, signor Vovelek» 80 Il vulcaniano alzò lentamente la testa dalla consolle, fissando l’umano, come se stesse meditando una risposta così complessa da richiedere qualche secondo supplementare. «I vascelli Borg si stanno avvicinando ad una velocità di dodicimila chilometri l’ora, mantenendo l’attuale velocità saremo a portata di tiro delle loro armi fra tredici ore e trentaquattro minuti.» Riker si grattò il mento con la mano superstite assumendo un atteggiamento preoccupato. La sua barba era terribilmente in disordine. Vovelek continuò: «comunque, la Pioneer e la maggior parte degli altri vascelli non potranno mantenere questa velocità ancora per molto. Fra sei ore e dodici minuti dovremo passare ad impulso o il nostro nucleo di curvatura andrà in sovraccarico.» «Volenti o nolenti i Borg ci saranno comunque addosso» commentò Riker. Vovelek non rispose limitandosi a fissare l’umano. Riker ricambiò lo sguardo, in cuor suo certo che il vulcaniano stesse in qualche modo godendo di quella situazione. In altre occasioni avrebbe tirato fuori uno dei suoi numeri, qualche idea spettacolare, una strategia impensabile, ma lui ormai non era più il William Riker di una volta ed era sinceramente stanco di lottare, tanto più che quella suonava come una battaglia persa in partenza. «Comunichi agli altri vascelli di continuare su questa rotta fino a che i loro motori reggeranno e poi ognun per sé.» Will fece una pausa, meditando le parole migliori per un commiato «e comunichi anche tutti i miei ringraziamenti per la riuscita della missione. E che Dio, qualunque Dio, ce la mandi buona.» Il vulcaniano eseguì rapidamente «Messaggio inviato signore» 81 Riker tornò a sedersi sulla poltrona di comando, lasciandosi cadere a peso morto, in preda ad un crescente sconforto che, nonostante i suoi sforzi, proprio non gli riusciva di mascherare. Lo intuì scrutando i volti spauriti degli ufficiali di plancia che si limitavano a fissarlo. Leggeva terrore, dolore, rabbia e consapevolezza, della fine vicina. I Borg avevano vinto, la Federazione si era arresa, la Flotta Stellare si era arresa, William Riker si era arreso. Il comandante Vovelek, invece, non si era ancora dato per vinto. «Signore, mentre lei schiacciava un pisolino ho preparato un piano che ci permetterà di mettere in salvo la nave e l’equipaggio se mi permette di esporlo» «Comandante Vovelek» disse Will con un fil di voce «Si signore?» «A rapporto» «Come signore?» «Ha sentito benissimo!» gridò improvvisamente Will, stupendosi di averne ancora la forza «o il suo super udito vulcaniano è andato a farsi sfottere?» Vovelek alzò un sopracciglio, sconcertato dalla reazione del neo capitano. «Signor Palmer a lei il comando!» «Palmas, signore» Riker ebbe un momento di imbarazzo ma cercò di mascherarlo indurendo ancor più il tono della voce. «Comunque diavolo si chiami si sieda su quella poltrona e qualunque cosa succeda mi avverta!» Il signor Palmas annuì andando a prendere il posto di Riker, mentre Vovelek seguì Riker nella saletta tattica. Non sapeva nemmeno lui perché si stesse apprestando a fare una bella ramanzina al signor Vovelek. Restavano si e no sei ore da vivere e lui si stava preoccupando della disciplina, su una nave di una flotta che non esisteva più, 82 di un confederazione di pianeti che non esisteva più. Era tutto così surreale. Avrebbe potuto fregarsene altamente dello stizzoso commentino del vulcaniano sul fatto che si fosse addormentato in plancia, ma qualcosa dentro di lui lo spinse a compiere fino in fondo il proprio dovere. «Comandante Vovelek, questa è l’ultima volta che le permetto di rivolgermi con quel tono. Sia chiaro che se insiste con questa condotta la solleverò dal suo incarico!» disse mettendosi il più composto e formale possibile. «Comprendo signore. Comunque se avesse un attimo vorrei sottoporle il mio piano per mettere in salvo la Pioneer…» «Comandante Vovelek! Mi ha sentito?» «Naturalmente signore. Non ricorda il super udito vulcaniano?» Vovelek era apparentemente impassibile, ma Riker poteva leggere un astio crescente nei suoi occhi. E Riker si scoprì a ricambiarlo totalmente. «Cos’è questo? Umorismo vulcaniano?» «No signore. Altrimenti non avrebbe capito la battuta» continuò Vovelek con il suo atteggiamento indisponente. Riker era sul punto di scoppiare. E si fece strada in lui la malsana idea di uno scontro corpo a corpo con il vulcaniano, che sicuramente l’avrebbe visto soccombere, vuoi perché notoriamente i vulcaniani sono notevolmente più forti dei terrestri, ma soprattutto perché senza il suo braccio destro non avrebbe potuto fare gran ché. Decise allora di spostare lo scontro su un altro piano, forse quello in cui Riker riusciva meglio e sfoderando il suo famoso sorriso: «dica la verità, lei mi odia, lei è geloso di me vero? Lei desiderava il comando di questa nave» Vovelek esitò, non aspettandosi un attacco così diretto. «A parte il fatto che come vulcaniano io non mento mai, le ricordo che sentimenti come l’astio e la gelosia non fanno parte del mio curriculum vitae signore» 83 «Signor Vovelek, lei è da molto tempo nella Flotta Stellare vero?» domandò Riker «Da ottantacinque anni signore» «L'immaginavo, a forza di frequentare gli umani ha imparato a mentire.» Riker sapeva di avere colto nel segno e si godette la piccola vittoria, probabilmente l’ultima prima della fine dei suoi giorni. Vovelek non rispose e si limitò a fissare il suo capitano e lo avrebbe fatto all’infinito se un improvviso scossone quasi non l’avesse gettato a terra. «Che diavolo succede?» gridò Riker tenendosi alla scrivania mentre l’allarme anticollisione si era messo ad urlare disperatamente. Dimenticando ogni attrito personale, Vovelek e Riker si aiutarono a rialzarsi e si lanciarono in plancia. «Signor Palmas che sta succedendo!» L’uomo si alzò immediatamente dalla poltrona di comando che fu occupata da Riker «Qualcosa ci ha colpiti signore! Stiamo perdendo velocità!» Vovelek era tornato anche lui alla sua postazione e rapidamente riprese il controllo della situazione. «Signor Vovelek!» gridò Riker mentre le sirene dell’allarme anticollisione risuonavano nella plancia. «Un vascello, la H’Toch, una nave Klingon. Il loro motore di curvatura ha ceduto e noi ci abbiamo sbattuto contro!» - Fantastico! - esclamò dentro di sé William - Ci mancava solo un tamponamento spaziale a complicare le cose! «I nostri scudi sono scesi del settantacinque percento! Danni allo scafo primario sui ponti ventuno, ventidue e ventitré! E soprattutto stiamo progressivamente perdendo velocità!» esclamò il vulcaniano «Plancia a Sala Macchine! Che succede là sotto?» 84 «Qui Sala Macchine,» l’uomo tossì «abbiamo avuto una perdita di refrigerante! Lo scontro ha danneggiato i giunti di contenimento dell’antimateria! Devo disattivare il nucleo o salteremo in aria in meno di tre minuti signore!» la voce del tenente Romaine, rotta dall’emozione, rimbombò dagli intercom della plancia. Riker guardò il suo secondo e senza pensarci troppo: «Signor Vovelek, quel suo piano è ancora valido?» «Si signore! Apporterò le dovute modifiche, ma mi deve concedere almeno due minuti!» Riker non aveva nemmeno idea di che avesse in mente il vulcaniano ma sapeva di potersi fidare di lui. I vulcaniani sono terribilmente noiosi ma altrettanto affidabili. «Gliene concedo uno e mezzo! Plancia a Sala Macchine, pronti a disattivare il nucleo fra tre minuti!» Il vulcaniano ebbe un incertezza e poi riprese a lavorare sulla sua consolle. I secondi passarono lentamente, poi Vovelek alzò la testa: «Signor Brett, inverta la rotta e inserisca le coordinate che ho inviato alla sua consolle» Brett si agitò alla sua postazione per bloccarsi sconcertato: «Ma ci poterà dritti verso i Borg!» A quella affermazione, Riker sobbalzò sulla sua poltrona, come anche il resto dei membri della plancia. Che aveva in mente il vulcaniano? «E’ impazzito?» domandò stupefatto Riker «Signor Brett! Esegua! Dobbiamo sfruttare la residua velocità di curvatura!» Il timoniere rimase interdetto, non avendo la certezza di essere autorizzato ad effettuare l’inversione. Riker se ne rese conto e fece un cenno di assenso a Brett che rapidamente impostò la nuova rotta e lanciò la Pioneer nelle fauci dei leoni. 85 «Signor Vovelek, d’accordo che ho deciso di fidarmi di lei, ma per favore mi spieghi che diamine ha in mente!» «Il mio piano, che avremmo dovuto applicare solo fra cinque ore e cinquantotto minuti, consiste nell’attraversare, per una seconda volta, la formazione di navi Borg a velocità curvatura.» Riker comprese quello che aveva escogitato il suo secondo e azzardò un’ipotesi concludendo la spiegazione. «Cosi da allontanarci in direzione opposta alla flotta, nella convinzione che anche questa volta ignoreranno il pesce piccolo per quello più grosso?» Vovelek alzò gli occhi al cielo, a comunicare di aver esaurito la pazienza. «Non avrei usato una metafora così rozza, ma sostanzialmente il concetto è quello. Ho calcolato che dovremo distanziarli di almeno tre virgola sei anni luce per garantirci un settantasette percento di possibilità di successo.» «Complimenti signor Vovelek, quanto manca all’incontro con i Borg?» «Dieci secondi signore!» «Mi chiami Will» aggiunse Riker, elettrizzato dall’essere ancora in gioco, in battaglia, dal sentirsi meravigliosamente vivo. Ancora un round in quell’incredibile match che si chiama vita. «Come preferisce signore, cinque secondi.» La plancia si mise a vibrare. I motori a curvatura erano al loro limite. «E qualcuno spenga quell’allarme» mormorò Riker mentre la Pioneer, come un freccia, attraverso la formazione dei quattro cubi Borg, sfiorandone pericolosamente uno. La plancia sussultò violentemente a causa dello scossone causato dall’incrocio del campo di curvatura della nave 86 Federale e quello del cubo Borg, sbalzando dalle loro poltrone gli occupanti. Riker faticò a rialzarsi, con un braccio soltanto non è una manovra semplice. Stavolta il suo secondo non attese che Will gli chiedesse di fare il resoconto della situazione e con voce calma: «Siamo passati indenni. Ma la nostra velocità non è sufficiente. Non riusciremo ad allontanarci più di un anno luce. C’è una probabilità del sessantaquattro percento che uno dei vascelli Borg lasci la formazione per venire a distruggerci.» Riker assimilò l’informazione e tornando a sedersi «Plancia a Sala Macchine! Che mi dice del nostro nucleo di curvatura? Il bambino per quanto continuerà a fare i capricci?» «Bambino? Capricci? Oh! Certo! Ancora venticinque secondi con potenza in calo costante e poi dovremo disattivare il tutto se non vogliamo che il bambino sputi la minestra!» Vovelek scosse il capo e si intromise «Signor Romaine, ci occorrono almeno altri cinquanta secondi di propulsione a curvatura!» «Non è possibile! I giunti non possono regg…» «Romaine! Ne abbiamo bisogno o comunque saremo fatti a pezzi dai Borg!» esclamò Riker Romaine meditò pochi istanti e riprese a parlare «d’accordo comandante, vedrò di dare una bella sculacciata al nostro bambino. Posso garantirvi trenta secondi supplementari e non ho la certezza che il nucleo reggerà!» «Ce li faremo bastare! Dovessimo scendere a spingere la carrozzina! Plancia chiudo!» Riker rivolse un’occhiata divertita al suo secondo e ne fu ripagato con l’espressione più fredda che avesse mai visto. 87 «Bambino che fa i capricci signore?» «Si! Signor Vovelek! E’ un linguaggio cifrato di ultima generazione. Si aggiorni!» ribatté William facendosi scappare una risatina ma il vulcaniano non raccolse la sfida e senza dare peso alle parole del suo comandante riprese a seguire la sua consolle. «Ancora dodici secondi e saremo fuori pericolo. I vascelli Borg continuano ad ignorarci ed ad inseguire il resto della flotta.» «Forse ce l’abbiamo fatta» «Romaine a Plancia! Devo espellere il nucleo entro cinque secondi ! I giunti sono collassati!» «Esegua!» urlò Riker Il motore curvatura della Pioneer sgusciò rapidamente dalla pancia della nave pochi secondi prima di esplodere, ma troppo pochi per allontanarsi a distanza sufficiente per esplodere senza fare danni. Riker vide sullo schermo principale il filamento che costitutiva il motore a curvatura, roteare ed allontanarsi e poi trasformarsi in una fontana di luce accecante. Poi, l’onda d’urto lo scaraventò contro la consolle del timoniere e l’ultima cosa che vide, prima di perdere i sensi, fu il fumo e le scintille che riempivano l’atmosfera della plancia. 88 CAPITOLO 10 I consiglieri erano cinque e all’apparenza di età più avanzata rispetto a Q ed al Q-Borg. Tre di loro erano quasi completamente calvi e i capelli di tutti erano di un bianco argenteo. Due erano femmine con delle acconciature molto essenziali e con sfumature tendenti al violetto. I Consiglieri erano i membri del Q-Continuum più anziani, così aveva detto Q, anche se lui stesso non era parso troppo convinto della sua stessa affermazione. I Q esistevano da sempre, almeno così aveva sempre asserito Q, solo che per una specie di tacita convenzione, i consiglieri esistevano da sempre più qualcosa. Fosse stato anche solo un nanosecondo. Una delle femmine, alta e slanciata, con la pelle rugosa e due occhi di un azzurro intenso, sedeva al centro, su di uno scranno in legno che la poneva leggermente più in alto rispetto ai suoi colleghi. Nella mano destra Picard parve di riconoscere una specie di bastone dorato, quasi uno scettro, solamente molto meno elaborato che gli ricordava la barra usata come testimone nella gare di atletica a cui aveva assistito durante una riedizione commemorativa delle Olimpiadi dell’antica Grecia. Improvvisamente la luce all’interno dell’anfiteatro si fece meno intensa intorno a Picard e ai suoi compagni, facendo risaltare le figure dei consiglieri. Indossavano delle tuniche bianche merlate d’oro, tranne la donna al centro, la cui merlatura era di color rosso porpora. Il capo del consiglio dedusse Picard. E fu proprio lei a rompere il silenzio che si era venuto a creare dopo l’entrata in scena dei consiglieri. «Signori, se il mio senso dell’umorismo fosse più sviluppato, probabilmente ci riderei sopra e vi liquiderei con qualche 89 battuta e forse vi inviterei anche a farci due sane risate insieme, ma l’unica cosa che mi sovviene ora è un senso di dejavù, che per quanto comprensibile per esseri immortali come noi, in questo momento mi sta facendo desiderare di essere da un’altra parte!» La voce della donna era fredda e profonda e il suoi occhi quasi grigi incutevano timore. A Picard venne immediato il paragone con certe figure mitologiche dei paesi scandinavi, che raccontavano di regine delle nevi, donne di ghiaccio e così via. «Ma,» e fece una breve pausa, volgendo una rapida occhiata ai suoi colleghi, con un’espressione di disgusto e noia «ma questa volta avete superato il limite e giuro su tutto il Q-Continuum che non permetterò che la vostra eterna sfida continui ancora per molto!» Le sue parole rimbombarono nell’anfiteatro e Picard per un istante si volse verso Q, il quale era intento ad ascoltare le parole della Q e notò in lui un fremito che lo scuoteva interamente, come se fosse stato sottoposto ad una tensione enorme. La Q agitò in aria la barra che teneva stretta nella mano destra e la picchiò con violenza sul bancone in legno. Ma inaspettatamente ne uscì un suono sordo e soffocato. «L’udienza è aperta. Esponete i fatti, anche se noi tutti qui già conosciamo ogni particolare, ma vista la presenza di esseri inferiori seguiremo una procedura per loro comprensibile.» Picard strinse i pugni. Il suo orgoglio era ferito ogni qualvolta lo si definiva appartenente ad una razza inferiore. Q prese la parola per primo e scendendo i gradoni a saltelli si portò a ridosso della corte. «O mio sommo giudice! Quale gioia rivederla e constatare che nonostante i secoli ella mantiene un aspetto soave e che la sua bellezza…» 90 «Q! Passano i secoli ma rimani sempre un essere spregevole!» «Troppa grazia, comunque eccomi qua, per la… Che volta è questa?» finse di domandare Q. «La ventiduesima, ma farò di tutto perché questa sia davvero l’ultima in cui riunirai il Consiglio del QContinuum per questa vostra noiosa sfida.» Q sogghignò, come se la situazione lo stesse divertendo. «Le prometto che questa sarà davvero l’ultima volta, perché finalmente entrambi» e indicò il Q-Borg «abbiamo trovato dei validi sfidanti! E le posso già anticipare che il vincitore sarò io!» si vantò Q. «Illuso!» intervenne il Q-Borg, portandosi rapidamente anche lui vicino al capo del Consiglio. «Questa volta sei tu che non hai alcuna possibilità. Fino ad ora ti sei sempre salvato facendo appello a degli sporchi trucchi da commerciante Ferengi. Ma ora finalmente ti schiaccerò!» «Ah! L’illuso sei tu, mio caro! Ricordi la volta con i Kelbani? Chi barò facendo esplodere uno dei loro satelliti?» lo accusò Q mettendosi le mani ai fianchi. «E invece quella volta con i Saruriati?» ribatte Q-Borg «chi incendiò la loro atmosfera sterminandoli tutti?» «Ma non è grave come quelle che hai fatto tu ai Brekiani! Se ben ricor…» Q fu interrotto dal tonfo sordo dello scettro che il capo del Consiglio stringeva ancora fra le mani. «Piantatela! Siete due incredibili scocciatori!» «Ma è colpa sua!» si accusarono a vicenda i due sfidanti. «Ho detto basta! Zitti!» La Q batté con violenza lo scettro altre tre volte, facendo tremare il tavolo. «Sapete entrambi come la penso della vostra sfida, fin dalla prima volta che siete venuti da me e avete convocato il Consiglio del Q-Continuum! Vi ricordate? Allora questo anfiteatro era gremito di Q curiosi di 91 conoscere il motivo del vostro contendere. Oggi, così come le ultime dieci volte, non è venuto nessuno, perché tutto il Q-Continuum sa bene che siete due attaccabrighe e che la vostra sfida non avrà mai un termine, perché entrambi avete, alternativamente, barato sulle regole, invalidando di volta in volta la gara!» I due Q chinarono il capo, fingendo indifferenza. «Ma questa volta, proprio perché avete passato il limite, il Consiglio del Q-Continuum ha deciso, che durante lo svolgimento della sfida sarete rigidamente controllati e se interferirete verrete adeguatamente puniti.» I due sfidanti si guardarono l’un l’altro, scambiandosi sguardi di reciproca sorpresa e subito dopo indignazione. «Ma tutto questo è irregolare!» gridò Q «Ha ragione! Non potete farlo! Noi dobbiamo poter seguire i nostri campioni!» aggiunse il Q-Borg sbattendo il braccio meccanico sul tavolo. «Basta! Silenzio! Così abbiamo deciso! Se volete portare avanti la vostra sfida queste sono le nuove regole, altrimenti chi crede di non poter vincere senza barare si ritiri, e dichiarerò l’altro vincitore.» L’anziana Q si mise a sedere lentamente ed incrociò le braccia, attendendo la risposta dei due contendenti, che nel frattempo si stavano guardando in cagnesco, valutando le loro possibilità reali di vittoria, calcolando la difficoltà di fornire aiuti di alcun genere ai loro protetti. «Io ci sto!» esclamò per primo il Q-Borg, mostrando sicurezza. Q invece esitò. Non era per nulla convinto che Picard avrebbe potuto superare i Borg. Contava, infatti, di aiutarlo in qualche modo, come aveva sempre fatto nelle disfide precedenti. L’idea di perdere per sempre la possibilità di interagire con gli umani lo sfiorò un istante. Erano primitivi ma estremamente interessanti, a volte persino istruttivi. Si voltò titubante verso Picard, che 92 stava seguendo attentamente il dialogo, attorniato dai suoi compagni. «In fondo mi eri simpatico» mormorò prima di accettare anch’egli la sfida. Il capo del Consiglio si alzò lentamente e batté un solo colpo sul tavolo. «Dichiaro la sfida aperta,» bofonchiò «sperando per il bene dell’universo intero che sia davvero l’ultima, e se non per il bene dell’Universo, almeno per il mio!» Poi poggiò lo scettro e dal nulla comparve un’urna dorata. Grande poco più di un vaso comune da giardino, aveva una forma ellittica con un coperchio di piccole dimensioni, sufficiente a malapena per farci passare una mano umana. Ed, infatti, la Q ve la infilò. E dopo un istante ne estrasse un piccolo parallelepipedo bianco. Q era fremente e Picard intuì che molto probabilmente il loro destino sarebbe dipeso da ciò che quel parallelepipedo significava. Pareva, infatti, di essere di fronte ad un'estrazione. E la Q aveva fra le sue mani il destino suo e forse della galassia, così come lui l’aveva conosciuta. La Q sollevò in alto l’oggetto che iniziò a brillare di luce propria, trasformandosi rapidamente in una sfera di energia. Picard e non solo lui, non stava capendo, ma a quanto pare sia Q che la femmina Q riuscivano chiaramente ad interpretarne il significato. «Le Tre Prove!» esclamò la Q e stringendo il pugno, la sfera di energia roteante scomparve nel nulla. Il Q-Borg esultò, mentre Q rimase a bocca aperta. «Coraggio Q! Poteva andarti peggio!» il Q-Borg rise sguaiatamente e aggiunse «finalmente! Finalmente capirai che il destino dell’Universo è l’Ordine!» 93 «Vedremo! Non sottovalutarli, gli umani hanno sorpreso più volte anche me!» ribatté Q, senza però essere troppo convinto di poterlo dimostrare. Dolore. Acuto. Alla schiena. Non riusciva a pensare ad altro. Il resto era come se fosse stato cancellato dalla sua memoria. Come se avesse perso di importanza. Solo una cosa era importante: il dolore. Acuto. Alla schiena. Avrebbe barattato il braccio superstite per lenire anche solo un poco il dolore. Azzardò un movimento, alla ricerca di una posizione più comoda, ma una fitta violenta partì dalla base della spina dorsale fino a quella del collo. Un gemito gli sfuggì dalla bocca. Si rese anche conto che aveva le labbra molto secche e le fauci impastate. E sete. Dove era? Che era accaduto? Cercò di ignorare il suo corpo ed i suoi insistenti avvisi. Cercò di fare mente locale. Prima cosa aprire gli occhi e capire dove si trovasse. Lentamente sollevò le palpebre, ma non notò alcuna differenza. Era diventato cieco? O si trovava al buio? Dopo pochi secondi cominciò ad intravedere qualcosa nell’oscurità. Ombre o poco più, illuminate debolmente da una luce intermittente rossastra. Non si udiva alcun rumore, se non il lento soffio del suo respiro. Seconda cosa, cercare di ricordare chi o cosa l’avessero condotto a quella situazione. E fu incredibilmente difficile. Poi finalmente la mente si fece lucida e rammentò: la Pioneer, i Borg, la perdita del motore a curvatura, l’evacuazione, la scialuppa di salvataggio che era stata catturata da una forza gravitazionale, la discesa verso un pianeta sconosciuto, lo schianto. Nonostante la scialuppa fosse dotata di piccoli motori gravitazionali, era stato impossibile evitare di precipitare 94 nell’atmosfera del pianeta. Ricordò il panico dei suoi uomini. Le probabilità che si trattasse di un pianeta di classe M erano minime. Se anche fossero sopravvissuti allo schianto, sarebbero stati uccisi molto probabilmente dall’atmosfera non respirabile o da una gravità di parecchi g superiore a quella tollerabile. L’ironia della vita e della morte. Sopravvivere ai Borg per morire poco dopo in un incidente spaziale. Nonostante il dolore alla schiena continuasse ad assillarlo, si ostinò a non assecondarlo e a riepilogare i fatti delle ultime ore ed ad ipotizzare quale fosse stata la sua sorte e quella dei suoi compagni. Di una cosa era certo: era ancora vivo e la sua schiena non accennava a smettere di rammentarglielo. Quasi sicuramente era ancora a bordo della scialuppa; la luce rossastra che debolmente lampeggiava era certamente una luce di emergenza. E la scialuppa non si era disintegrata al suolo. Ed infine, qualunque fosse il pianeta su cui si trovava, la gravità era accettabile. - Ho avuto fin troppa fortuna - pensò - quindi devo essermela guadagnata. Sarebbe un delitto sprecarla. Terza ed ultima cosa da fare: smetterla di pensare e cominciare ad agire. Un buon inizio sarebbe stato tentare di recuperare una posizione la più eretta possibile. Puntò la sua unica mano contro il pavimento e iniziò lentamente a fare leva. Il dolore proveniente dalla schiena si fece ancora più acuto e lo costrinse a desistere. Aveva la schiena spezzata? C’era solo un modo per saperlo: tentare di muovere le gambe anche se non riusciva a scorgerle. Però gli pareva di sentirsele ancora attaccate. Diede un leggero calcetto e con suo grande sollievo percepì la punta dei suo stivali urtare contro qualcosa producendo un rumore metallico. Bene, non aveva la spina dorsale spezzata, quindi avrebbe potuto alzarsi e 95 camminare, un volta superato il dolore alla schiena. Tentò quindi nuovamente a rimettersi in piedi. Questa volta strinse i denti e chiuse gli occhi, mentre il braccio faceva leva sul pavimento. Furono lunghi interminabili secondi in cui dovette fare appello a tutta la sua disciplina mentale per non desistere nuovamente. Finalmente riuscì a mettersi a sedere ed a poggiarsi contro qualcosa, forse una consolle, forse un rottame. Distese faticosamente le gambe di fronte a sé, riuscendo infine a trovare una posizione di equilibrio. Da quella posizione riuscì a migliorare la sua visuale. Ora poteva scorgere l’interno della scialuppa. In alto, l’unica luce d’emergenza funzionante, lampeggiava aritmicamente, segno che era in cattive condizioni. Presto sarebbe rimasto nell’oscurità. L’aria puzzava di bruciato, il classico odore di circuiti fusi e una leggera foschia causata dal fumo non più aspirato dai sistemi di ventilazione, gli impediva di scorgere cosa si trovasse a pochi metri da lui. Era l’unico sopravvissuto? Si guardò intorno fino al limite del suo campo visivo, sfidando il dolore per ruotare il collo. Era tutto dannatamente confuso. Inspirò profondamente prima dare forza ai suoi polmoni: «C’è nessuno?» gridò. Lo sforzo lo fece tossire ripetutamente. L’aria viziata gli aveva seccato la gola. Nessuno rispose. Possibile che dei venticinque membri dell’equipaggio della Pioneer imbarcati su quella scialuppa, lui fosse l’unico superstite? Poteva il destino essere stato così cinico con lui? Per un momento si vide abbandonato a se stesso, su di un pianeta ostile, naufrago spaziale in una galassia dominata dai Borg, impazzito di solitudine e disperazione. Poi un rumore, uno scricchiolio sottile, attirò la sua attenzione alla sua destra. E poi un gemito. 96 «C’è nessuno? Sono il comandante Riker!» Finalmente ci fu una risposta, sconnessa, disarticolata. Poco più di un lamento. Will decise che doveva cercare di raggiungere quel lamento, soccorrerlo, confortarlo. Faticosamente si trascinò, strisciando sul pavimento, in direzione di quello sconosciuto compagno di naufragio. Gli ci vollero parecchi minuti prima di potergli essere vicino, durante i quali dovette spostare o aggirare parecchi ostacoli, costituiti da frammenti e rottami della scialuppa. Oltre a frequenti pause per riprendere energie e lasciare riposare la sua schiena dolorante. Durante il tragitto, di forse una decina di metri, ma che gli era sembrato di una decina di chilometri, Will aveva dovuto anche constatare il decesso di due suoi compagni, trovati a terra senza vita. Uno di loro era Palmas, il navigatore. Aveva gli occhi spalancati in un'espressione di terrore. Tutto quello che poté fare fu coprirne il volto con un lembo della sua uniforme lacerata. Quando raggiunse l’altro superstite lo trovò a terra, accasciato in posizione fetale. Continuava a gemere e a pronunciare frasi sconnesse. Will non appena fu sufficientemente vicino gli posò una mano sulla spalla. «Stai tranquillo, non sei solo, ci sono qua io ora. Vedrai andrà tutto bene.» Erano parole di circostanza. Nemmeno lui ci credeva. «Come ti senti? Dove sei ferito?» fu la prima domanda. Ma non ebbe risposta se non altri gemiti. «Coraggio, come ti chiami?» insistette Riker. Nell’oscurità della scialuppa, non riusciva a scorgere il volto del ferito. Non riusciva nemmeno a determinarne il sesso o la razza. Fino a che, con uno scatto repentino, l’unico suo compagno sopravvissuto non si mise di schiena, con il volto rivolto verso l’alto. E con grande 97 sorpresa, William riconobbe immediatamente il volto di quel dannato vulcaniano di Vovelek. Riker sorrise, non riuscendo a fare a meno di scherzare: «Comincio a pensare seriamente che lei mi stia perseguitando!» Vovelek naturalmente non rispose. Era sotto shock, incapace di comprendere quanto gli stava accadendo intorno. O forse invece, come ricordava William, era entrato in una fase di meditazione profonda, che vulcaniani sono in grado di autoindursi quando sono feriti gravemente, in modo da sopportare meglio il dolore e concentrare tutte le risorse residue del fisico verso la guarigione. Comunque fosse, Riker rimase seduto accanto a lui, poggiandogli la mano sulla spalle tremanti, attendendo che riprendesse conoscenza. Ma la stanchezza prese il sopravvento e cadde in un sonno profondo. 98 CAPITOLO 11 Quante ore erano passate? Non importava. Quando William si svegliò, un raggio di luce bianca, caldo ed accecante gli stava riscaldando metà del suo viso. La luce stava penetrando attraverso l’unico oblò di cui era dotata la scialuppa, rischiarandone finalmente l’interno. William, aprendo gli occhi rimase accecato e dovette coprirsi gli occhi con l’unica mano. Gli ci volle qualche secondo per riuscire a focalizzare nuovamente. Ora poteva vedere abbastanza chiaramente intorno a sé. Vovelek era ancora sdraiato e pareva stare meglio. Non gemeva e non tremava più. Dormiva, respirando lentamente. William notò l’uniforme bruciacchiata ed una grossa macchia di sangue verde all’altezza della coscia. Poco sopra, con un lembo di uniforme, Vovelek aveva stretto un legaccio per bloccare l’emorragia, che ora pareva essersi arrestata. Anche Riker stava meglio. Il dolore alla schiena si era fatto meno acuto, divenendo sopportabile. Sicuramente si trattava di una forte contusione, ma per fortuna nessun danno grave. Solo qualche escoriazione ed innumerevoli lividi sparsi su tutto il corpo. D’istinto si massaggiò l’avambraccio monco, un gesto che aveva ormai assunto il connotato di un tic nervoso. Rimpianse di non avere voluto, per orgoglio, installare almeno una protesi biomeccanica, ricordando le recenti discussioni avute, alcune anche piuttosto violente, con la dottoressa Crusher, la quale insisteva sulla necessità di ricorrere alla protesi e sulla incredibile stupidità dell’orgoglio maschile. Una mano in più, ora, gli avrebbe fatto davvero comodo. 99 Si guardò intorno. Dove erano gli altri? Facendo un rapido calcolo mancavano all’appello ventuno persone. Dalla sua posizione, riusciva a scorge un buon numero di corpi straziati, forse una decina. Ancora legati ai seggiolini di sicurezza, due donne e un boliano, la testa reclinata in avanti, giacevano senza vita, con i corpi sorretti dalla cinture. Vi era ancora una grossa fetta della scialuppa che era ancora nella completa oscurità, laddove i raggi di luce provenienti dall’esterno non erano ancora giunti, nemmeno di riflesso. Decise di provare ad alzarsi e di tentare di individuare altri superstiti, oltre che recuperare il kit di pronto soccorso, che doveva essere ancora da qualche parte, per tentare di curare le ferite del comandante Vovelek. Faticò non poco per rimettersi sulle sue gambe, ma grazie alla sua tenacia ed ad una tempra davvero invidiabile, riuscì, poggiandosi alla parete della scialuppa, a ripristinare una posizione, che proprio eretta non era, ma in quel momento, con la schiena a pezzi era più che accettabile. Scivolando lentamente contro la parete, stando ben attento a non inciampare, iniziò a perlustrare la scialuppa. Intorno a lui solo morte e distruzione. A quanto pare, solo lui e il vulcaniano erano sopravvissuti allo schianto. A William tornarono alla mente i terribili momenti dello schianto della sezione a disco dell’Enterprise D sulla superficie di Veridiano III. Anche allora si salvò dal naufragio. Era destino che non dovesse morire precipitando. Sperò che il libro del suo destino avesse ancora molte pagine da narrare e che non terminasse su quel pianeta sconosciuto. Raggiunse il pannello contente uno dei kit di pronto soccorso di cui era dotata la scialuppa. Dovette fare ricorso all’apertura manuale, in quanto non vi era più un solo barlume di energia in tutti i circuiti della scialuppa. 100 Solo la luce di emergenza, alimentata da una batteria autonoma, continuava a lampeggiare. Fece il viaggio a ritroso e tornò a sedersi sul pavimento, accanto a Vovelek. Estrasse un dermorigeneratore dal kit e un Hypospray contente una soluzione polivalente contro le infezioni. Somministrò ad entrambi una dose, dopodiché si mise al lavoro sulla coscia del vulcaniano. Con delicatezza aprì i lembi dell’uniforme lacerati e controllò lo stato della ferita. Un pezzo metallico era ancora infilato nelle carni del comandante, circondato da sangue rappreso. «Devo toglierlo» mormorò Will, come se Vovelek potesse sentirlo «Ti farò un po’ male, stringi i denti.» Con una mossa rapida estrasse il metallo dalla coscia, gettandolo lontano. Vovelek reagì con un tremito e gemendo. Ma subito si riaquietò, grazie ad una dose di antidolorifico che prontamente Riker gli iniettò all’altezza della spalla, «Vedi? Ho già quasi finito. Ancora pochi minuti e starai meglio di me.» Will prese il dermo rigeneratore e cominciò a suturare la ferita alla gamba nel modo migliore possibile. Non era un medico, ma aveva visto usare decine di volte quello strumento in infermeria. Si ripromise di seguire un corso approfondito sull’uso degli strumenti medici di primo soccorso, una volta tornato sull’Enterprise. Solo dopo qualche istante si ricordò che non aveva nessuna possibilità di farvi ritorno. Se tutto era andato secondo i piani, ora, l’Enterprise e tutta la flotta in fuga dovevano essere al sicuro nel Quadrante Gamma. Oppure erano periti nel tentativo. Naturalmente era certo che il capitano Picard ce l’avesse fatta, ma comunque, per la sua situazione corrente non faceva alcuna differenza. Non avrebbe rivisto mai più né l’Enterprise né Picard. Ma per 101 ora gli sarebbe stato sufficiente riuscire a vedere almeno l’alba del giorno successivo. Scacciò dalla mente ogni pensiero che non fosse finalizzato alla sopravvivenza. Non c’era spazio per preoccupazioni di diversa natura. Quando ebbe finito con il dermorigeneratore, prese delle garze sterili e fasciò la gamba del vulcaniano, il quale, ignaro, continuava a non dare segni di voler riprendere conoscenza. Priorità numero due: acqua e cibo. Riker si rimise in piedi, sempre poggiandosi alla parete, stavolta si mosse nella direzione opposta, verso il punto in cui sapeva essere stivate le razioni di emergenza. E si trovavano la dove la luce non riusciva a rischiarare. Dovette quindi proseguire a tentoni, muovendo lentamente i piedi, scansando con attenzione gli ostacoli. Una volta che i suoi occhi si furono abituati all’oscurità, poté scorgere altri corpi senza vita, alcuni ancora legati ai seggiolini, altri a terra. Will si vergognò per la fortuna sfacciata di cui ancora una volta aveva goduto. Perché lui era sopravvissuto e questi altri membri dell’equipaggio erano invece periti? Spesso si era domandato perché non era morto, per esempio, alla sua prima missione, come invece era accaduto per molti altri membri della Flotta Stellare. Solo fortuna? Decise che avrebbe approfondito la questione in un altro momento. Continuò a strisciare lungo la parte fino a raggiungere la piccola stiva della scialuppa. Tastando nell’oscurità, raccolse due unità alimentari d’emergenza e cominciò il tragitto all’inverso. Il comandante Vovelek ancora non dava segni di ripresa. Immobile, respirava lentamente. Riker si sedette nuovamente accanto a lui, e consumò rapidamente la sua razione. Soprattutto stava patendo la 102 sete e fu un vero sollievo sentire il liquido dell’integratore bagnargli l’ugola e scendere giù fino allo stomaco. - Per oggi, non morirò di fame - pensò. Quando ebbe terminato decise che era ora di scoprire su che pianeta fossero precipitati. Sempre con cautela, e con la schiena dolorante si trascinò fino al portello di uscita. Era bloccato. Provò a fare forza sulla leva dello sblocco meccanico di sicurezza, ma nonostante i suoi sforzi non si mosse di un millimetro. - Sono troppo debole - concluse fra sé - forse con l’aiuto del comandante Vovelek riusciremo ad aprirla Essendo fallito il primo tentativo tornò ancora a vegliare il vulcaniano, sperando che si sarebbe risvegliato al più presto. L’idea di restare nella scialuppa, in compagnia di ventitré cadaveri non lo stuzzicava gran ché. Se non fossero usciti al più presto la situazione igienica sarebbe presto precipitata e il puzzo della decomposizione li avrebbe asfissiati. Per ora, a rischio, vi era solo la sua psiche. Vecchie storie di fantasmi riaffiorarono nella sua mente e un brivido gli percorse la schiena. Si rannicchiò in un angolo e cercò di dormire. Picard camminava nervosamente, con le mani dietro la schiena. Q li aveva ancora una volta lasciati soli, per un periodo di tempo considerevolmente lungo e senza fornire alcuna spiegazione. Quella specie di buffonata, così la vedeva Picard, di riunione del Consiglio del Q-Continuum era terminata. L’anfiteatro era improvvisamente scomparso, così come anche i membri del consiglio, i Borg e il Q-Borg. Si erano ritrovati ancora una volta all’ombra di quella muraglia senza fine costeggiata da una strada in asfalto, già dove una volta Q li aveva portati dopo una lunga 103 camminata. Il sole batteva sempre implacabile e la temperatura, Picard stimava, si aggirasse intorno ai trentanove, forse più di quaranta gradi centigradi. E la porta con gli strani simboli, che apparente mente non portava da nessuna parte, in quanto costruita in mezzo a deserto, era ancora li. Naturalmente chiusa. Picard si aspettava che Q, facesse di li la sua comparsa prima o poi. Chissà per annunciare cosa questa volta. E Picard detestava attendere. Detestava dover dipendere da Q e non avere nessuna carta da giocare a suo favore. Detestava non essere il padrone del proprio destino. Ma la posta in gioco era talmente alta che avrebbe potuto attendere per l’eternità senza battere ciglio. I suoi compagni stavano seduti all’ombra, cercando di ripararsi dall’arsura. Solo Data non soffriva le condizioni climatiche estreme, grazie alla sua natura di androide. Infatti se ne stava in piedi, sotto il sole cocente, come se nulla fosse. Picard lo osservò provando un moto d’invidia. Data era insensibile anche alle condizioni climatiche estreme, non necessitava di un’atmosfera carica di ossigeno per sopravvivere, possedeva una forza di mille uomini, era in grado di attivare e disattivare a piacimento il proprio chip emozionale, scegliendo di momento in momento se lasciarsi cullare dalle emozioni o tornare ad essere una fredda macchina. Ed in più sarebbe vissuto per sempre. Molti uomini e non solo avrebbero pagato qualsiasi prezzo per avere anche solo la metà di queste possibilità. Eppure Data, probabilmente, avrebbe pagato altrettanto per diventare più simile agli umani. Insoddisfazione, senso di incompletezza, aspirazione a livelli più alti di vita e il moto che spingeva ogni forma di vita a colmare questo vuoto parevano essere le vere forze motrici dell’Universo. Se Dio avesse permesso all’Uomo di restare nel Paradiso, quasi certamente sarebbe ancora là, nudo e beato a raccogliere 104 frutti e a godersi i raggi del sole, incurante del trascorrere del Tempo e del senso della Vita. Picard ringraziò Dio di avere cacciato l’umanità dal Paradiso, costringendola a combattere contro una Natura ostile. Ma anche a crescere, evolvere. Picard non era religioso, ma era certo, che se mai un dio o più dei li stessero osservando per giudicarli, non potessero che essere orgogliosi di quanto l’uomo aveva fatto, soprattutto negli ultimi trecento anni. E se così non fosse stato, che potessero andare al diavolo. Data si rese conto di essere osservato dal capitano, per cui si incamminò verso di lui. «Capitano, c’è qualcosa che non va?» Picard comprese di avere attirato l’attenzione dell’androide, avendolo scrutato a lungo e senza preoccuparsi di poterlo mettere in imbarazzo. Anche se pensare a Data in imbarazzo gli riusciva difficile. «Mi scusi signor Data, ero assorto in stupide riflessioni. Non volevo metterla in imbarazzo.» «Di nulla signore. Un penny per i suoi pensieri Capitano.» «Come?» «Un penny per i suoi pensieri. E’ un antico modo di dire, che trae origini dall’Inghilterra del diciottesimo secolo e…» Picard interruppe Data, prima che continuasse a snocciolare altre nozioni. Picard conosceva il significato delle parole di Data. Solo che ancora oggi, nonostante lo conoscesse ormai da molti anni, si sorprendeva di sentirlo utilizzare forme colloquiali. «So cosa significa Data!» «Oh! Mi scusi signore» Ci fu un momento di pausa e di silenzio fra i due, disturbato solo dal vento caldo che spazzava quella landa desertica. 105 «Stavo pensando proprio a lei» Picard ruppe il silenzio, incassando il penny di Data. «Al fatto che spesso, sempre più spesso mi sono trovato ad invidiarla. Soprattutto in questi ultimi mesi, così difficili, così terribili. Quante volte, di fronte alla morte ed alla distruzione portate dai Borg, avrei voluto sopprimere ogni mio sentimento, schiacciare il dolore, cacciarlo lontano da me. Ma io non ho un chip che posso disattivare a piacimento.» Picard fece un sospiro appena accennato. Ricordi dolori, di compagni persi in battaglia, di pianeti distrutti, di corpi straziati e di urla di bambini gli strinsero il cuore e lo stomaco. «Capisco signore. Ma le ricordo che anche il mio chip emozionale non è perfetto. In realtà quelle che io posso provare, sono solo emozioni simulate. Basterebbe modificare la programmazione ed i miei comportamenti potrebbero subire drastici cambiamenti. Potrei scoppiare a ridere ad un funerale, piangere per una barzelletta, essere orgoglioso di essere insultato. E mi sembrerebbe tutto rientrante nei normali parametri di funzionamento. Non sarei in grado di comprendere che le emozioni che sto provando non sono quelle corrette.» Picard si mise la mano sopra gli occhi per pararsi dalla luce solare e guardare bene in volto Data. Si chiese se Data fosse realmente in grado di provare insoddisfazione. Una macchina consapevole delle limitazioni della sua programmazione e che cerca di evolvere. Ma quella consapevolezza dove traeva origine e forza? Il dottor Soong aveva davvero fatto un lavoro straordinario con Data, riuscendo a ricreare in lui, quella scintilla vitale che sta alla base del desiderio umano di espandersi, crescere, migliorare, evolversi. Una tensione costante, presente nei geni della sua specie, rendendola per natura, irrequieta e temeraria. 106 «Nessuno è perfetto, signor Data,» rispose semplicemente e continuò «però io continuo ad invidiarla. Soprattutto ora che i giorni che mi restano da vivere sono sempre meno di quelli che ho vissuto. Lei esisterà e continuerà la sua vita anche quando io non ci sarò più. Anche fra mille anni.» «Lei continuerà ad esistere signore» rispose Data. «Davvero? Lei crede che ci sia qualche possibilità che io sia immortale quanto lei?» «No capitano. Lei continuerà a vivere qui,» e Data si indicò il cranio «nelle mie celle di memoria. Anche fra mille anni.» Picard sorrise divertito e diede una leggera pacca sulla schiena dell’androide il quale, goffamente ricambiò esclamando: «vecchio mio!» Dalla bocca di Picard scomparve il sorriso e la sua espressione si fece seria e corrucciata. «Un’altra espressione colloquiale signore!» si scusò immediatamente l’androide togliendo la mano dalla spalla di Picard. «Scuse accettate comandante» rispose il capitano. Data, come era possibile non volergli bene? Il colloquio fra i due fu interrotto dal sopraggiungere di un rumore simile al rombo di un tuono. Picard e Data, ma anche gli altri si voltarono verso la fonte del rumore. Dalla strada, appena visibile sotto l’orizzonte, si stava avvicinando qualcosa. «E’ un qualche tipo di veicolo» disse Geordi, il quale, grazie ai suoi impianti oculari, riusciva a scorgere oggetti ad una distanza considerevolmente maggiore rispetto ad un umano. Picard e Data si portarono vicino agli altri compagni. 107 «Geordi cos’altro riesce a vedere?» Picard riusciva solo a scorgere la scia di polvere e sabbia che il mezzo stava sollevando nell’atmosfera. «E’ un veicolo su ruote. Somiglia ai nostri antichi mezzi di locomozione del ventesimo, forse ventunesimo secolo. Sicuramente ha un motore con propulsione ad idrocarburi. Riesco a scorgere un scia di fumo nerastro fuoriuscirgli dal lato posteriore» Rapidamente il veicolo si fece sempre più vicino, tanto che anche Picard ora riuscì a scorgerlo con chiarezza. Era proprio un vecchio furgone telonato, di tipo militare, visto il colore verde scuro e il disegno in stile mimetico. Sul cofano portava le insegne della Coalizione Orientale, una delle due fazioni in cui la gente della Terra del ventunesimo secolo si divise, prima di dare inizio alla Terza Guerra Mondiale. Tale coalizione si era sciolta dieci anni dopo il primo volo a curvatura di Cochrane e l’incontro con il popolo Vulcaniano. Cosa ci faceva qui, nel Q-Continuum tale mezzo? Un altro dei giochetti di Q, sicuramente. In pochi minuti il mezzo li raggiunse e come si aspettava Picard alla guida di esso vi era proprio Q, in un altro dei suoi soliti travestimenti, di cui pareva non potesse fare a meno. Picard per un momento si chiese quale potesse essere il vero aspetto di Q. Ora indossava un’uniforme militare, tipica dei combattenti della Terza Guerra Mondiale, con le insegne della Coalizione Orientale. La sabbia sollevata dal camion, fu spinta verso di loro dal vento, costringendoli a proteggersi gli occhi e facendoli tossire. Q scese con agilità dal lato guida del mezzo e con fare scanzonato si presentò a Picard. «Soldato Q a rapporto signore!» accompagnando il tutto con l’antico saluto militare terrestre e battendo i tacchi. 108 Picard strinse gli occhi per cercare di non far entrare della sabbia. «Q! Un’altra delle tue mascherate! Si può sapere che sta succedendo? Prima eravamo davanti al Consiglio del QContinuum ed ora siamo qui! Vuoi spiegarci, almeno questa volta, che sta accadendo?» «Mon capitaine! Ma è semplice! Il consiglio ha deciso. E ora tocca finalmente a voi entrare in azione. Non era questo che attendevi con impazienza?» «Ma noi non abbiamo compreso che dobbiamo fare. Abbiamo sentito la Q parlare di tre prove. Di cosa si tratta?» «Lo scoprirete presto. La Sfida ha inizio. Il destino della Galassia è nelle vostre mani. L’esito di questa sfida sarà determinante per decidere se saranno i Borg o le razze umanoidi a controllare la Via Lattea.» Q era stranamente agitato, notò Picard. Non doveva essere per nulla sicuro dell’esito di questa Sfida. Maledetti Q e maledetto il loro potere che stava influenzando il corso dell’evoluzione di migliaia di mondi. «D’accordo. Siamo pronti. Cosa dobbiamo fare?» domandò Picard, deciso ad andare fino in fondo alla faccenda. «Per cominciare…» Q allungò la mano destra e iniziò a far roteare l’indice verso di loro, come se stesse cercando qualcuno in particolare da indicare. «Tu e tu! Venite con me!» disse rivolgendosi a Beverly e Deanna. Le due donne si guardarono spaventate. «Perché loro Q! Prendi me!» si intromise Picard «No me!» seguì Worf. «Le prove sono tre. Voi siete in sei. Due per volta. E ora è il loro turno. Così ha deciso il consiglio.» 109 Picard strinse i pungi di rabbia, mentre Q invitava, con fare gentile, la Crusher e la Troi a salire nel retro del camion ma le donne esitarono, attendendo l’ordine espresso del proprio capitano. «Forza! Su! Salite!» le esortò Q, vedendole titubare. Picard e la Crusher incrociarono lo sguardo, carico di sentimento e di apprensione, e senza dirsi una sola parola si scambiarono un caldo abbraccio, che soltanto i loro cuori poterono apprezzare. «Andate con Q» disse annuendo Picard e sia Beverly sia Deanna salirono aggrappandosi a delle maniglie. A quel punto Q tornò di fronte a Picard ripetendo l’antico saluto militare, «la Sfida ha inizio, mon capitaine! Vinca il migliore!» esclamò Q fingendo entusiasmo. Poi Q tornò alla guida del mezzo, il cui motore, rimasto acceso aveva continuato a rombare sommessamente. Con uno strappo violento, il mezzo ripartì continuando nella stessa direzione. In pochi minuti scomparve all’orizzonte, lasciando dietro s’è una lunga nuvola di polvere, che lentamente il vento stava disperdendo. «Capitano, crede che ce la faranno?» domandò sommessamente il klingon, evidentemente preoccupato delle sorti di Deanna, con la quale, anni addietro aveva avuto una breve ma intensa relazione. «Non lo so signor Worf. Proprio non lo so.» E Picard sentì crescere ulteriormente il senso di impotenza dentro di lui. 110 CAPITOLO 12 «Comandante! Comandante Vovelek!» Il vulcaniano aveva dato i primi segni di volersi risvegliare dal letargo in cui pareva essere caduto. Riker lo scosse delicatamente, sperando finalmente che l’attesa fosse finita. Era rinchiuso nella scialuppa da almeno due giorni. Tante volte era sorto e poi tramontato il sole di quel pianeta sconosciuto. L’aria era divenuta viziata e la notte, la temperatura scendeva di parecchi gradi, tanto che William aveva dovuto recuperare anche delle coperte, dalla stiva della scialuppa. «Si svegli! Dannato vulcan! Si svegli!» Riker passò alle maniere forti, scuotendo il capo del vulcaniano forse con troppa energia. Ma ottenne il risultato sperato. Vovelek aprì di scatto gli occhi fissando intensamente Riker, che cessò immediatamente ogni movimento. «Finalmente!» esclamò Riker «Come si sente?» Vovelek tentò di alzarsi, ma subito dovette tornare a sdraiarsi. «Comandante Riker. Cosa è successo?» furono le sue prime parole. «Ci siamo schiantati con la scialuppa. Ricorda? Io e lei siamo gli unici sopravvissuti». Vovelek annuì e tentò nuovamente di alzare almeno il busto. Riker lo aiutò a poggiare la schiena contro la parete della scialuppa. «Vuole da bere? Immagino avrà sete. Sono due giorni che la sto vegliando.» Il vulcaniano annuì accettando la busta argentata che conteneva il liquido arricchito di sostanze nutritive fornito con le razioni d’emergenza. Vovelek bevve il 111 contenuto avidamente e poi si guardò intorno. Si rammentò della ferita alla coscia e osservando la sua gamba notò che era stata curata. «E’ stato lei?» domandò «Si, con il kit d’emergenza. Forse non è il miglior lavoro del mondo, ma almeno l’emorragia si è arrestata» rispose prontamente Riker. «Grazie» fu tutto quello che disse Vovelek. Ci furono parecchi secondi di silenzio fra i due. Riker lo interpretò come imbarazzo da parte del vulcaniano. Vovelek lo disprezzava. Forse anche lui era uno di quei vulcaniani che temeva che la cultura Vulcaniana potesse essere inquinata dal contatto con altre culture. Ora Vovelek doveva la vita a Riker e forse riteneva la cosa inaccettabile. Forse erano solo fantasie di William, che in quei due giorni di solitudine, attorniato da tanti cadaveri, aveva trascorso riflettendo sul perché della sua vita. Vovelek ruppe il silenzio. «Dove ci troviamo?» «Non lo so. Gli strumenti della scialuppa sono fuori uso, Non abbiamo nemmeno l’energia di riserva. E la porta di uscita è bloccata. Da solo non sono riuscito ad aprirla. Per questo siamo ancora qui dentro. Contavo su di lei per tentare di sbloccarla.» «Decisione logica. Propongo di fare immediatamente un tentativo.» «Pensa di farcela? Se vuole riposare ancora un po’ non c’è nessun problema. A quanto pare abbiamo aria a sufficienza ancora per qualche ora» obiettò Riker. «Comandante. Se le propongo di tentare adesso è perché mi sento in gradi di farlo. Deve sempre mettere in dubbio la mia parola?» Il tono della voce di Vovelek fu sprezzante. Nonostante la situazione d’emergenza il vulcaniano non aveva intenzione di concedere nulla a Riker. Quanto è grande 112 l’orgoglio vulcaniano? Non basterebbe l’Universo a contenerlo, diceva un vecchio detto terrestre. «D’accordo. In piedi allora!» esclamò Riker, convinto che fosse inutile tentare un dialogo amichevole con Vovelek. William si rialzò rapidamente. Il dolore alla schiena era ormai molto leggero e finalmente non aveva più bisogno di reggersi per restare in piedi. Vovelek, lentamente fece il suo primo tentativo di mettersi in piedi. Ma non appena dovette fare forza sulla gamba ferita, ebbe un cedimento e se Riker non l’avesse sorretto al volo, sarebbe sicuramente caduto pesantemente a terra. «Mi lasci! Posso farcela da solo!» reagì malamente il vulcaniano. «Come vuole» disse Riker che per tutta risposta incrociò le braccia, deciso a godersi lo spettacolo di un vulcaniano testardo ed orgoglioso, che cade a terra. Invece, Vovelek, cambiò strategia ed evitò di sforzare la gamba ferita, riuscendo a mettersi in piedi, seppure barcollante. «Andiamo» disse. Riker fece strada raggiungendo per primo il portello d’uscita. «Come vede, la leva d’emergenza è bloccata» indicò Riker «Ha provato a tagliare il portello con un phaser?» «Sta scherzando spero! Se avessi usato un phaser ci sarebbero volute ore per tagliare quel metallo e avrei bruciato tutto l’ossigeno che c’è qui dentro.» «Giusta considerazione. Ma lei ha appurato che la fuori ci sia un’atmosfera respirabile?» domandò Vovelek. «No e non c’è modo di saperlo. Ma io credo che ci sia.» «Lei lo crede? In base a quali indizi?» 113 «Non lo so. Me lo sento» rispose William. Ed era vero. Non aveva elementi per accertarsi che sul pianeta fosse presente un’atmosfera respirabile. Aveva tentato di guardare fuori dall’oblò, ma tutto quello che si poteva scorgere, erano le vette di lontane e brulle montagne. Eppure lui sentiva che là fuori l’aria fosse respirabile. Aveva avuto la fortuna di sfuggire ai Borg, ad un schianto per poi morire soffocato? Non era logico, non era giusto. «E io dovrei fidarmi delle sue sensazioni?» domandò Vovelek alzando un sopracciglio. «Mi ascolti comandante. L’alternativa è restare qui dentro e morire di fame o di sete. Oppure soffocati dall’anidride carbonica che stiamo producendo. Nessuno verrà a soccorrerci e lei lo sa. Se c’è una speranza di sopravvivere si trova là fuori. E io voglio andare a prendermela» Riker era determinato a non permettere al vulcaniano di mettergli i piedi in testa o di ridicolizzarlo. «Signore, parlando liberamente, penso che aprire quel portello sia un azzardo ingiustificabile, che potrebbe condannarci entrambi a morte. Ma lei è il mio superiore. Se me lo ordinerà lo farò.» Vovelek anziché collaborare si ostinava a restare dalla sua parte del fossato. «Vovelek, diamine! Le sembra questo il momento di appellarsi alla disciplina?» Riker decise di provare a tendere una mano per primo. «Siamo gli unici sopravvissuti di tutta la scialuppa, non dovremmo essere qui a scannarci l’un l’altro. Dobbiamo collaborare se vogliamo sopravvivere. Là fuori potrebbero esserci altri nostri compagni che hanno bisogno di aiuto. Dobbiamo trovare cibo ed acqua in fretta. Abbiamo altre cose a cui pensare che far rispettare la gerarchia!» 114 Vovelek tacque per qualche istante, come se stesse soppesando accuratamente le parole con cui avrebbe composto la risposta. «Il fatto che io e lei siamo gli unici sopravvissuti non significa automaticamente che il nostro rapporto personale sia cambiato. Lei è e rimane il mio superiore. Se mi ordina di aiutarla ad aprire il portello lo farò. Così come il ruolo di comandante in seconda mi autorizza ad esporle il mio punto di vista riguardo le sue decisioni. E la mia opinione è, e rimane, che aprire quel portello senza avere la certezza di che atmosfera ci aspetti è un comportamento estremamente rischioso.» Vovelek aveva rifiutato la sua mano tesa. William scosse la testa. Se Vovelek voleva un ordine l’avrebbe avuto. «D’accordo, comandante, le ordino di aiutarmi ad aprire questo portello!» disse con tono formale Riker, come se gli stesse ordinando di preparare un rapporto qualsiasi. «Sissignore» rispose Vovelek, afferrando con le mani la leva dello sblocco meccanico. Nonostante fosse debilitato, la forza del vulcaniano era notevole ed infatti, dopo alcuni tentativi il portello si aprì, con uno scatto, di circa quindici centimetri. Al contatto, le due atmosfere, quella della scialuppa e quella del pianeta, compensarono la differenza di pressione. Un flusso leggero di aria fuoriuscì dalla scialuppa verso l’esterno. Non ci fu nessuna decompressione violenta. E l’aria che penetrò nell’interno della scialuppa era molto calda ma respirabile. Riker tirò un sospiro di sollievo. Anche questa volta il suo istinto aveva visto giusto. Facendo leva con un rottame fu facile spalancare l’uscita. E di fronte a Riker e Vovelek si presentò in tutta la sua terrificante maestosità un paesaggio desertico, simile al Sahara della Terra. 115 «Non sarà facile.» commentò laconicamente Riker. Impotente, Picard si era messo a sedere, con Geordi e Worf, all’ombra dell’infinita muraglia che tagliava in due quel deserto, sull’unico elemento presente, in altre parole il lastrone di marmo bianco, che costeggiava per qualche metro la muraglia. Erano passati pochi minuti dal momento in cui Beverly e Deanna erano state costrette a salire su di un mezzo militare con le insegne della Coalizione Orientale, guidato da Q, in uno dei suoi soliti travestimenti. Il capo del consiglio del Q-Continuum aveva parlato di tre prove e Q aveva confermato. Ma in che consistevano le tre prove? Chi sarebbero stati i loro avversari? Di fronte a quali difficoltà si sarebbero potuti trovare? Ma soprattutto, l’interrogativo che più assillava Picard riguardava le sorte delle due donne, abbandonate a se stesse. Picard mise la sua faccia fra le mani, massaggiandosi lentamente le tempie. La fronte era perlata di gocce di sudore, per l’afa crescente e una crescente sete gli attanagliava la gola. Anche Geordi stava patendo la temperatura, mentre Worf sembrava non dare alcun segno di cedimento. Data invece, ancora esposto ai cocenti raggi del sole si guardava intorno, osservando attentamente l’ambiente circostante. «Ci vorrebbe una bella bibita fresca» disse Geordi asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica dell’uniforme. Picard accennò di comprendere perfettamente il bisogno del suo ingegnere, mentre Worf rimase impassibile, suscitando la curiosità di Geordi. «Worf! Non hai sete tu? Questo caldo non ti sta uccidendo?» 116 «Sono un Klingon. Sono addestrato a sopravvivere in condizioni estreme» fu la sua laconica risposta. «Davvero? Beato te, io non so cosa darei per un solo sorso di acqua, purissima, semplicissima, acqua fresca!» esclamò Geordi. «Manchi di autocontrollo. Sei qui solo da poche ore e già ti lamenti come una donnicciola. Sei un ottimo ingegnere, ma come guerriero faresti davvero ridere!» commentò il klingon, emettendo un ringhio appena accennato di evidente soddisfazione per la propria superiorità fisica. «Ah! Si? Pensala come vuoi. Io invece mi sto ancora domandando perché ci abbiano lasciati qui, sotto questo sole, in un luogo tanto desolato. Siamo nel Q-Continuum, il regno degli esseri più potenti dell’Universo e non hanno nemmeno un po’ d’acqua da offrirci!» Geordi inveì contro tutto il Q-Continuum e tutti i Q, definendoli arroganti e accecati da loro stesso potere. «Puoi almeno smettere di lamentarti? Il tuo lagno mi sta infastidendo» sbottò Worf, stanco di sentire i lamenti del capo ingegnere «Se hai sete, puoi sempre andare a cercartela l’acqua!» Geordi, risentito per le parole del klingon si alzò in piedi, e petto in fuori, in un chiaro gesto di sfida, esclamò: «stupido d’un klingon! E dove credi che possa trovarla l’acqua qui? Ordinandola dal cielo?» Geordi aveva perso il controllo e la pazienza e cominciò a gridare proprio verso il cielo, come se sperasse così di comunicare i suoi desideri a qualche Q disposto ad ascoltarlo. «Dannazione! Lassù! C’è nessuno? Ho sete!» gridò a squarciagola. «Geordi per favore!» intervenne Picard, che aveva già troppi pensieri per la testa, e un ingegnere fuori di senno era l’ultimo problema di cui aveva bisogno. Ma Geordi lo ignorò. 117 «Vi siete dimenticati di noi? Ma che modi sono questi? Avete dimenticato cos’è la buona educazione? Sono un vostro ospite! Ho sete! Acqua fresca!» «Tenente La Forge! Si metta a sedere ed in silenzio!» ordinò Picard con tono autoritario. «Capitano! Ma le sembra possibile che…» Geordi non ebbe il tempo di terminare la frase, che un piccolo tavolo, imbandito riccamente con frutta esotica e soprattutto con svariate bottiglie di altrettanto svariate bevande, tutte rigorosamente infilate in un grosso recipiente ricolmo di ghiaccio fumante, comparve, come al solito, dal nulla. Geordi sbarrò gli occhi stupefatto e poi rivolgendoli ancora una volta al cielo ringraziò: «Uh! Grazie! Grazie! Troppa grazia!» e poi volgendosi verso Worf con tono a metà strada fra l’arrogante ed il pomposo: «allora guerriero? Cosa ne dici dei risultati che sa ottenere una donnicciola?» Il klingon grugnì sommessamente. Per questa volta avrebbe dovuto alzare bandiera bianca. Ma come dare torto a Geordi? I suoi lamenti dovevano avere scocciato anche qualche Q di passaggio. L’inaspettato regalo permise ai tre di dissetarsi e rifocillarsi. Data, che non aveva nessun bisogno né di bere né di mangiare, rimase in disparte ad osservarli, limitandosi a scambiare qualche commento sulla natura esotica dei cibi e delle bevande raccolte sul piccolo tavolo. Molti di essi, infatti, erano apparentemente sconosciuti, ma dall’aspetto gradevole ed invitante. Anche Picard bevve e mangiò a sazietà, senza farsi troppe domande su cosa stesse ingerendo. Se i Q avessero voluto eliminarli, non sarebbero di certo ricorsi all’avvelenamento. 118 Erano ancora intenti a pasteggiare, quando si udì chiaramente, per la seconda volta quel sommesso rombo, prodotto dall’automezzo guidato da Q, partito pochi minuti prima. Istintivamente Picard cercò di scorgere la sagoma del camion, guardando nella direzione in cui l’aveva visto scomparire. Aspettandosi che Q stesse facendo già ritorno. Ma Geordi, toccandogli la spalla, gli fece cenno che anche questa volta, il suono proveniva dalla parte opposta, quella da cui Q era comparso la prima volta. «E’ ancora un automezzo militare, con una configurazione molto simile al precedente» informò Geordi, sfruttando le capacità dei suoi nuovi occhi. «Riesce a vedere chi c’è alla guida? E’ ancora Q?» domandò Picard. «Aspetti. Un attimo. No! E’ l’avversario di Q. Intravedo chiaramente il luccicare dei suoi impianti Borg». Il Q-Borg si stava avvicinando rapidamente, sollevando con il suo mezzo, una nuvola di sabbia forse ancora maggiore di quella sollevata precedentemente da Q. Segno che stava viaggiando ad una velocità più elevata. Quando finalmente fu sufficientemente vicino per rientrare nel campo visivo di Picard, si poterono notare, sul cofano del mezzo e sui fianchi le insegne della Coalizione Occidentale. - Logico! - fu il commento di Picard, ma lo tenne per sé. Era certo che anche Worf, Data e Geordi avessero intuito che erano di fronte all’ennesima mascherata a metà strada fra il carnevale e il teatro che contraddistinguevano le comparsate di Q. E a quanto sembrava, il ventunesimo secolo terrestre, affascinava non poco Q. Anche in occasione del loro primo incontro, Q li accolse nella finta aula di un tribunale della fine di tale secolo. Il primo di una lunga serie di incontri, sicuramente uno dei meno piacevoli. 119 L’autocarro viaggiava a velocità sostenuta e i quattro si fecero da parte per non venire investiti. Il Q-Borg era alla guida del mezzo, indossando una divisa dell’epoca, naturalmente con le insegne della Coalizione Occidentale. Da sotto di essa si intravedevano chiaramente gli innesti Borg dorati, che lo distinguevano da un drone qualunque. Il Q-Borg, avvicinandosi a loro, non accennò a rallentare e sfrecciò a tutta velocità, investendo in pieno il banco con i dolci frutti e le bevande, spargendo il tutto sull’asfalto. Il Q-Borg li aveva naturalmente scorsi, ma non si fermò, limitandosi a suonare due volte il clacson dell’autocarro in segno di saluto. Una nuvola di sabbia investì in pieno i quattro. Picard fu costretto ancora una volta a proteggersi gli occhi con le mani ed ad evitare di inspirare aria nei polmoni, fino a che la nuvola non fu calata al suolo. «Pirata!» gli gridò Data, una volta che l’autocarro fu passato e la polvere allontanata dal vento. I suoi tre compagni si voltarono verso di lui, con sguardo interrogativo. «E’ un epiteto del ventunesimo secolo, adatto alla situazione» spiegò l’androide. Picard non diede seguito e domandò, «Li avete visti anche voi?» «Chi capitano?» domandò Geordi «Sul retro dell’autocarro, li ho visti, droni Borg!» «Quanti signore?» domandò questa volta Worf. «Ne ho contati almeno una mezza dozzina». «Se come penso sono i droni contro cui dovranno confrontarsi la dottoressa Crusher ed il consigliere Troi, le probabilità di successo sono del…» «Sono spacciate, Data, semplicemente spacciate». 120 Picard strinse rabbiosamente i pugni. Nuovamente, il senso d’impotenza, lo scosse nel profondo. 121 CAPITOLO 13 Seduto su una roccia sporgente, sospesa sopra uno strapiombo di una sessantina di metri standard, con le gambe a penzoloni, uno degli essere più potenti dell’intero universo, osservava un poco annoiato lo spettacolo, sempre che si potesse definire tale, che si stava svolgendo poco sotto. Il sole era alto e forniva un discreto calore. Sufficiente per riscaldare l’atmosfera di quel fragile pianeta di classe M, così lo avrebbero classificato gli umani, e fornirgli energia per sostenere la vita. E quel pianeta brulicava di vita. Ai piedi della rupe si estendeva una foresta verde e lussureggiante, una marea verde che terminava solo raggiunto il limite dell’orizzonte. «Avanti! Vieni avanti coraggio!» «Come hai fatto a…» «Sono il tuo maestro, te lo sei scordato? Hai ancora un mucchio di cose da imparare caro mio!» Il giovane allievo Q, apparve alle spalle del suo mentore. Sul suo volto si poteva ancora leggere il disappunto per essere stato scovato dal suo nascondiglio. «Non male l’idea di camuffarti con una frequenza di uno virgola quarantasette hertz, piuttosto comune in questo punto della Galassia. Ma avresti dovuto scegliere una radiazione meno insolita.» «Lo terrò a mente» «Mi spiavi?» chiese Q al suo allievo «No, facevo solo esercizio» rispose evasivamente il giovane Q. «Non c’è che dire,» commentò scuotendo il capo Q «stai proprio imparando a mentire!» «Ho un grande maestro!» ribatté il ragazzo. 122 «Insolente! Ora che sei qui, siediti accanto a me ed osserva. Sotto di noi c’è uno spettacolo davvero interessante: forme di vita a confronto. Forme di vita senzienti.» Il giovane si mise anch’egli seduto, con le gambe sospese nel vuoto, pericolosamente sul ciglio della sporgenza rocciosa. «Stavo vedendo. E’ la prima delle Tre Prove?» domandò l’allievo. «Si» «Che stanno facendo le due umane? Perché sono così ingrassate dall’ultima volta che le ho viste?» «Non sono entrambe umane. La mora, Deanna, è betazoide. Sai quei noiosi telepati,» Q fece una pausa per grattarsi la testa. Inconvenienti dell’avere assunto forma umana «e non sono ingrassate. Sono in attesa di un figlio. La maggior parte degli umanoidi cresce la propria progenie dentro il corpo delle femmine, per questo paiono più grasse.» «E che fanno sole in quella grotta?» continuò curioso il giovane Q. «Cercano di sopravvivere. E’ uno degli scopi della Prima Prova. La Prova della Vita.» «E dove sono gli avversari? I Borg? Non riesco a scorgerli.» «Guarda dalla parte opposta, sotto quel crinale. Li vedi?» disse Q indicando con l’indice della mano sinistra. «Si, ora li vedo. Ma non erano cinque? Ne vedo solo due.» «Gli altri tre sono li vicino» «Io vedo solo uno strano macchinario.» «E’ quello che resta degli altri Borg» rispose Q «Distrutti? Sono state le umane? Allora stai vincendo tu!» 123 Q scosse la testa. Il ragazzo aveva ancora molto da imparare. Pensava troppo in fretta, senza fare analisi accurate. «No! Non sono stati distrutti! Sono stati i loro due compagni a smontarli. Hanno utilizzato le parti cibernetiche per costruire un sistema di approvvigionamento e un replicatore perfettamente funzionanti. Ora stanno replicando una serie di utensili, credo per scavare minerali dal sottosuolo.» «Interessante! E tutto questo in un solo giorno? Efficienti non c’è che dire!» commentò l’allievo il quale però pareva essere maggiormente attratto dalle vicende delle due umanoidi. «Anche loro hanno fatto tutto in un giorno?» «Diciamo di si, diciamo di no» fu la risposta evasiva di Q. «Non credo di avere capito maestro.» Q sbuffò, come se rispondere alla domanda gli costasse uno sforzo particolare. Come se avesse, come al solito, qualcosa da nascondere. «Diciamo che ho cercato di aiutarle. Ho fatto in modo che il loro giorno durasse quasi come circa cinque mesi terrestri.» L’allievo fece un sobbalzo, tanto che alcuni sassi precipitarono dalla sporgenza, perdendosi nel vuoto. «Ma maestro! Il Consiglio del Q-Continuum aveva severamente vietato ogni tipo di aiuto! Tu hai imbrog…» Q si voltò di scatto verso il giovane fulminandolo con lo sguardo e con un gesto repentino gli tappò la bocca. «Taci! Vuoi che ti sentano? Lo sai che hanno orecchie dappertutto! Non ho fatto quello che dici. Ho solo cercato di equilibrare una sfida che era fin dall’inizio esageratamente impari! La Prima Prova misura la capacità delle due razze di evolversi e riprodursi in un ambiente ostile. Su questo pianeta c’era tutto il necessario 124 per quelle due, ma maledizione, hanno giocato a fare le ufficiali della Federazioni per mezza giornata, mentre i Borg già assemblavano un primo replicatore ad energia solare! Ho dovuto intervenire! Invece che familiarizzare con la comunità di umani e betazoidi che avevo preparato per la loro prova e cominciare subito a familiarizzare, costruire una città, figliare e quant’altro! Hanno insistito con le loro dannate procedure. Pensa! Si stavano preoccupando di un possibile primo contatto! Non avevano capito che quei maschi erano li solo per loro! E che il loro destino dipendeva da essi!» Q si grattò ancora il capo sconsolato. La prima delle tre prove stava avendo un esito alquanto infausto. In una arco di tre giorni i Borg avrebbero completato tutto il necessario per cominciare a riprodursi e quindi a creare ulteriori macchinari e a riprodursi ancora. Entro una settimana sarebbero stati decine. Per sperare di poter ricreare una forza di numero almeno eguale, sul fronte opposto, avrebbe dovuto trasformare i giorni in anni, ma sapeva che così l’inganno sarebbe ben presto stato scoperto. La Prova sospesa e il Q-Borg dichiarato vincitore. «Interessante!» commentò il ragazzo, che già comunque cominciava ad annoiarsi. Si era avvicinato di soppiatto nella speranza di assistere a qualcosa di epocale, di assoluto, di inimmaginabile. Invece, lo scenario gli pareva identico a quello di centinaia di altri pianeti colonizzati dalla vita. Anzi decisamente più noioso. «E come hai convinto le due umane a stringere rapporti con la comunità autoctona?» continuò il ragazzo. «Non le ho convinte. E non sono tutte e due umane!» «Si, Ok! Me l’ero scordato! Comunque sono in attesa di prole. Almeno un contatto deve esserci stato. Se non ricordo male, gli umanoidi per riprodursi necessitano di uno scambio di liquidi seminali, di un contatto fisico, di 125 una certa intimità. Hanno forse compreso la natura della Prova?» Q rimase in silenzio. Era imbarazzato dalla risposta che avrebbe dovuto fornire. Non avrebbe mai veramente voluto, ma ci era stato costretto dalle circostanze, dall’esigenza primaria di dare almeno una possibilità all’esito di quella maledetta Prima Prova. «No, non lo hanno compreso. Ho dovuto modificare l’indole della comunità autoctona, da pacifica in aggressiva. Sono stato costretto. Non mi hanno lasciato scelta.» Q terminò la frase con un filo di voce e il suono delle sue parole si perse rapidamente. L’allievo lo stava fissando, colmo di stupore. Oggi, il suo maestro, gli aveva impartito una nuova importante lezione sulla natura dei Q. Su quella parte nascosta e segreta, figlia di tempi remoti in cui anche i Q, lottavano contro le forze della natura per sopravvivere. Si limitò ad un commento breve ma esaustivo: «Sono state prese con la forza quindi.» Q non confermò apertamente, ma il suo silenzio valeva più di mille parole. E la vergogna, sentimento umiliante per un Q, gli avvampò il volto, come uno scolaretto colto dall’insegnante a copiare durante un compito in classe. Il giovane Q si alzò in piedi, pulendosi dal terriccio. La polvere, sollevata dal vento, si disperse sulla foresta verde. «Ho visto abbastanza. Ci rivedremo per la Seconda Prova. Questa ormai ha un esito scontato». Il giovane scomparve nel nulla, lasciando Q solo con se stesso. «Da che parte ci dirigiamo ora?» domandò Riker. «A sud-est, all’incirca di quindici gradi verso sud. Non posso essere più preciso senza un strumento adatto» rispose il comandante Vovelek. 126 «Ma ne è proprio sicuro?» «Comandante Riker, questa è la terza volta che mi fa questa domanda. Deduco che proprio non si fida di me» rispose il vulcaniano. Riker si bagnò le labbra secche e prima di replicare portò la sua borraccia alla bocca, traendone un piccolo sorso. Il caldo di quel deserto lo stava facendo a pezzi, più di quanti l’impatto al suolo con la navicella, non avesse già sparpagliato. «Lei sta bevendo troppo, comandante» lo rimproverò Vovelek «Lei pensi alla sua scorta d’acqua che io penserò alla mia. Sono ore che camminiamo nel nulla più assoluto seguendo solo il suo istinto vulcaniano e che abbiamo trovato fino ad ora? Rocce, sassi, sabbia! E poi altre rocce, altri sassi. Sono stanco, facciamo un pausa!» Riker aveva alzato il tono della voce, era ricolmo di rabbia per la non certo gradevole situazione. Vovelek rimase impassibile, fermo nel deserto, e si limitò a replicare pacatamente «presto lei terminerà la sua scorta d’acqua. Se tenterà di impadronirsi della mia, sappia che io la ucciderò. Abbiamo ancora molto cammino da fare. Sento la presenza di acqua proprio in questa direzione,» e indicò un punto apparentemente qualsiasi dell’orizzonte infuocato «ma se non limiterà il suo consumo d’acqua, non ci arriverà mai». Riker era piegato, con l’unica mano superstite su una delle ginocchia. Era talmente fiacco che lo zaino che portava in spalle, gli sembrò lì lì per schiacciarlo. «Non si preoccupi! Non prenderò una sola goccia della sua riserva! Piuttosto me ne resterei a morire in questo maledetto deserto!» replicò Will mentre si rimetteva in posizione eretta. «Bene signore. E’ quello che constaterò molto presto se non intende limitare il suo consumo d’acqua,» rispose 127 freddamente Vovelek «ora, credo si sia riposato a sufficienza. Dobbiamo riprendere il cammino, c’è ancora molta strada da percorrere». Il vulcaniano riprese il cammino nella nuova direzione, senza attendere che William fosse pronto a fare altrettanto. E Riker non lo era ancora. Infatti gli ci vollero alcuni secondi per capire che era stato abbandonato dal suo compagno ed abbozzare quindi un qualsiasi tipo di reazione. Facendo appello alle energie residue obbligò il suo corpo a riprendere il cammino ed a seguire le orme nella sabbia della sua guida improvvisata. William cominciò seriamente a dubitare che avrebbero mai trovato acqua e che invece sarebbero morti entrambi sotto i colpi di quel sole cocente. Il primo a cadere sarebbe stato sicuramente lui e non poté fare a meno di immaginare se stesso abbandonato morente, mentre il comandante Vovelek, dal fisico più adatto a sopportare queste temperature, proseguiva il suo cammino senza curarsi della sua sorte. Aveva fatto bene a fidarsi di Vovelek e del suo intuito vulcaniano? Quando si erano ritrovati appena fuori della navicella di salvataggio, distrutta dallo schianto al suolo, unici superstiti fra gli occupanti della nave stella della Flotta USS Pioneer, e fu il momento di stabilire una strategia di salvezza, si trovarono immediatamente d’accordo sulla necessità di lasciare quel luogo alla ricerca di terre più ospitali e soprattutto di una fonte di acqua. Ma in quale direzione andare? Tutto intorno, a trecentosessanta gradi, non si scorgeva altro che il deserto e apparentemente una direzione qualsiasi, pareva godere delle stesse probabilità di portare alla meta. Riker, se fosse stato solo, avrebbe lasciato al caso il compito di decidere, visto che non aveva alcun elemento per potere prendere alcuna 128 decisione razionalmente, ma il comandante Vovelek pareva essere certo di sapere dove si trovasse la più vicina oasi. Istinto vulcaniano, fu la sua risposta. Vulcano è per due terzi desertico, spiegò, e per poter sopravvivere in un territorio tanto ostile la sua razza aveva imparato a sviluppare una particolare capacità sensitiva, di cui tutti i vulcaniani, in varia misura, erano dotati, ovvero percepire la presenza d’acqua anche a grandi distanze. L’evoluzione aveva preteso un grande tributo di vite vulcaniane, prima che tale capacità si sviluppasse nei primi individui, i quali, sopravvivendo, la trasmisero poi alle generazioni future. Tali individui, nel passato remoto di Vulcano, erano eletti alla guida delle carovane che attraversavano i deserti e considerati preziosi anche più dell’acqua stessa. Intere guerre erano state combattute, prima dell’avvento della disciplina di Surak, per il controllo di questi vulcaniani speciali, capaci di dirigere la carovana sempre nella direzione migliore, sempre verso la fonte d’acqua più vicina. Questo naturalmente millenni fa, precisò il vulcaniano, quando voi umani ancora non sapevate accendervi un fuoco, fu il suo commento, caustico e xenofobo, come al solito. William aveva sentito parlare di questa capacità dei vulcaniani, delle leggende che circolavano su di loro, di vecchi detti della Flotta Stellare di cui in quel momento ne ricordò uno in particolare, che non era altro che l’evoluzione di uno terrestre: se l’acqua non va dal vulcaniano, il vulcaniano va dall’acqua. Per cui decise che valeva la pena di fidarsi e che per quell’occasione poteva rinunciare a fare affidamento esclusivamente sulla sua buona sorte, la quale, fino ad allora, non lo aveva mai tradito. E visto come si stavano mettendo le cose, cominciò a temere che la sua buona 129 stella se la fosse presa a male per la mancata fiducia accordatagli e lo avesse improvvisamente abbandonato. Alzò la testa per controllare che i solchi nella sabbia che stava seguendo fossero proprio quelli del comandate Vovelek e vide il vulcaniano parecchi metri più avanti di lui, camminare ad un passo spedito, come se per lui, le ore passate sotto il sole fossero state un piacevole diversivo, una passeggiata di piacere, un gita fuori porta. Il vulcaniano si stava apprestando a scalare una duna sabbiosa, che nascondeva l’orizzonte, alta forse una trentina di metri, dalle pareti scoscese e prive di ogni appiglio. I suoi stivali affondarono nella sabbia, lasciando solchi profondi sul fianco della duna e spezzando la perfezione del declivio sabbioso, che il vento aveva scolpito, granello dopo granello. Quando Riker giunse alla base della duna, Vovelek aveva ormai quasi raggiunto la sommità. William ne approfittò per riposarsi ancora qualche minuto e cercare le energie per una scalata che in altro occasioni sarebbe anche stata divertente, ma che in quel momento si presentava come un ostacolo insormontabile. «Comandante Riker! Comandante Riker!» Era la voce del vulcaniano, che nel frattempo aveva raggiunto la sommità delle duna e faceva ampi gesti con il braccio destro. «Venga a vedere.» Il cuore di Riker si riempì di speranza. Acqua! Un’oasi! Sicuramente dietro quella duna si estendeva una meravigliosa oasi! Come se miracolosamente le energie fossero rifluite nel suo corpo, William partì di gran carriera, cercando di scalare il pendio sabbioso il più velocemente possibile, aiutandosi anche con la mano superstite. Gli stivali gli si riempirono di sabbia, ma non importava, pensò, avrebbe avuto tempo dopo di svuotarli e di immergere i piedi in 130 un fresco ruscello. Ne era sicuro, la sua buona stella lo aveva perdonato e stava venendo in suo soccorso. In pochi minuti raggiunse Vovelek. Aveva il cuore che batteva all’impazzata per lo sforzo e dovette aggrapparsi al compagno per non scivolare dalla parte opposta del crinale. Ma la sorpresa non fu per nulla piacevole. Davanti a lui si estendevano ancora chilometri di deserto e non vi era traccia alcuna di una qualsiasi fonte d’acqua. Nei suoi occhi si poté leggere la disperazione più cupa. Vovelek indicò un punto imprecisato sotto di loro «vede quella zona di colore più scuro?» «Dove? Credo di non riuscire più a guardare questo deserto!» domandò Riker, sorseggiando ancora un goccio d’acqua della sua ormai quasi vuota borraccia. «Poco oltre quella grande depressione. C’è una zona del deserto di colore più intenso. Laggiù troveremo dell’acqua. Forse non molta, ma ci permetterà di rifornire le nostre scorte. Soprattutto le sue» lo punzecchiò il vulcaniano. Riker non rispose alla provocazione e scosse il capo sconsolato. Non si sentiva certo di poter mai arrivare a quel puntino scuro e concluse che davvero, quel giorno, la sua buona stella lo aveva tradito. 131 CAPITOLO 14 «Come ti senti Deanna?» Beverly si chinò sulla betazoide, porgendole un recipiente fatto d’osso, forse quel che restava del cranio di qualche grosso animale, ricolmo d’acqua fresca. «Debole. Ogni giorno sempre più debole.» La betazoide era sdraiata su un pagliericcio improvvisato, con le mani conserte sulla pancia ingrossata per la gravidanza in corso. Pallida ed emaciata, rivoli di sudore le rigavano la fronte. Sintomi di una febbre crescente. La sua uniforme della Flotta era sporca e lacera. Macchie di sangue rappreso la costellavano qua e là. «E’ il bambino. Sta per arrivare. Vedrai, passerà presto» la rassicurò la dottoressa. «Non è vero!» singhiozzò Deanna «Ho già partorito una volta, sull’Enterprise D ricordi? Non mi venne una febbre così alta prima del parto!» Beverly le si sedette accanto, con un movimento lento ed impacciato. Anche l’umana era in attesa. Circa al sesto, forse settimo mese. Beverly aveva perso il conto dei giorni dopo che era rimasta priva di conoscenza per un periodo imprecisato, a causa delle violente percosse ricevuto da uno dei loro carcerieri. «Quella non fu una gravidanza naturale. Fu causata da una forma di vita aliena. Tu hai forse dimenticato che dal concepimento al parto passarono poche ore? Beh! Questa è una vera, reale, dolorosa gravidanza betazoide. Fidati del tuo dottore.» Beverly accompagnò le sue parole con un sorriso dolce ed il più rassicurante possibile. Deanna sbuffò e scosse le spalle. Poi tentò di bere l’acqua che l’amica di sventura le aveva procurato. L’acqua era 132 preziosa. Il torrente era distante più di venti minuti di cammino e Beverly avrebbe dovuto riposare anziché occuparsi di lei. «Eppure io non ricordo nessuna donna su Betazed nelle mie condizioni. Beverly dimmi la verità. C’è qualcosa che non va, percepisco che tu mi stai nascondendo qualcosa.» Deanna fissò la dottoressa dritta negli occhi, sperando così di farle crollare quel blocco. Da un paio di settimane, in altre parole da quando era comparsa la febbre, Beverly non era più la stessa e la sua mente, prima limpida e sincera, si era come oscurata, forse per un terribile segreto che la riguardava. Ma con il peggioramento delle sue condizioni, anche le capacità empatiche erano parzialmente venute meno. In fondo lei era solo per metà betazoide. Deanna riusciva ad avere solo percezioni confuse, ma anche facendo appello al solo intuito umano riusciva a comprendere che qualunque cosa le stesse tenendo nascosta Beverly, sicuramente la riguardava ed era legata allo stato della sua salute. Beverly sostenne lo sguardo, facendo appello a tutta la sua forza di volontà per non cedere. Era intimamente e fisicamente provata dagli avvenimenti di quegli ultimi terribili mesi. Q che le abbandonava su quel pianeta, dichiarando che stava per avere inizio la Prima Prova, ma senza spiegare minimamente in cosa consistesse. L’incontro con i primitivi Yeoman, l’unica popolazione umanoide e senziente della foresta, composta solo da membri di sesso maschile di evidente razza umana e betazoide. In tutto una tribù di un paio di dozzine di persone, all’apparenza pacifici e dediti all’agricoltura. La dottoressa ricordava bene il primo incontro. Gli Yeoman non avevano mai visto un essere di sesso femminile e restarono come abbagliati, affascinati da una diversità mai conosciuta. E soprattutto incredibilmente attratti. Furono accolte nelle loro capanne e per i primi 133 tempi tutto andò bene. Gli Yeoman procuravano loro il cibo e pareva non chiedessero nulla in cambio se non la loro compagnia. Intanto lei e Deanna avevano esplorato la foresta, nella speranza di trovare un’altra civiltà, più evoluta. O di ritrovare Q o Picard, chiunque insomma capace di portarle via da li. «Deanna, credimi. E’ tutto assolutamente normale. La tua febbre calerà presto. Tu continua con gli impacchi che ti ho preparato, mettili bene sulla fronte e sul petto. Non sono efficaci come i medicinali standard, ma credimi faranno lo stesso il loro effetto.» Beverly sorrise ancora e tentò di cambiare discorso. «Oggi è una splendida giornata, dovresti vedere come brilla il sole!» Deanna cercò di rispondere al sorriso con un altro sorriso. Ma ne uscì una smorfia appena abbozzata. «Beverly, credi che ce ne andremo mai da qui?» La domanda della betazoide riaprì una ferita profonda nell’animo della dottoressa. Da ormai qualche tempo, Beverly stava cercando di costringere se stessa a rassegnarsi all’idea di concludere la propria esistenza su quello sconosciuto pianeta, con la sola compagnia dei brutali Yeoman e forse di suo figlio, quello che portava ora nel grembo e di eventuali futuri altri, che qualche maschio sicuramente l’avrebbe con la forza costretta a concepire. Se almeno le fosse rimasta Deanna vicino, ma il destino aveva tragicamente complottato contro di loro. La creatura che Deanna portava in grembo era in posizione podalica. Ovvero con i piedi, anziché la testa, verso l’uscita, condizione che il novantacinque per cento delle volte impediva la corretta riuscita di un parto naturale e che poteva portare alla morte sia del nascituro sia della madre. Un problema abbastanza frequente, che la moderna medicina aveva risolto da un centinaio di anni, grazie ad un semplice intervento poche settimane 134 dopo il concepimento, o, in caso di diagnosi tardiva, con un altrettanto semplice e sicuro taglio cesareo. Ma non li, non con i pochi e scarsi attrezzi di pietra che possedevano gli Yeoman. Beverly stava ancora cercando di organizzare quanto necessario per l’intervento. Una pietre di selce abbastanza affilata per aprire il ventre della betazoide, un dente sufficientemente piccolo ed affilato come ago, delle budella di hochk, una specie di cinhgiale che pascolava nei dintorni, essiccate ed intrecciate, come filo per la sutura e qualcosa, ma ancora non sapeva cosa, per lenire il dolore e per disinfettare. Fossero state abbandonate sulla Terra o su uno dei principali pianeti della Federazione, avrebbe saputo ricavare un anestetico da qualche radice o erba medica. Ma li intorno, cresceva una vegetazione completamente differente. Le restavano circa due settimane per tentare qualche esperimento sui maschi della tribù. «Il capitano! Il capitano Picard! Perché non viene a salvarci?» continuò Deanna, con le lacrime agli occhi. «Non lo so. Non lo so. Noi dobbiamo restare qui. Questa è la Prima Prova e ne va del destino dell’intera galassia, di miliardi di persone. Se il prezzo che dobbiamo pagare per vincerla è questo, lo pagheremo senza lamentarci.» Beverly prese per mano la compagna, mentre con l’altra le asciugò le lacrime. «Scusami, sono uno sciocca egoista,» balbettò Deanna «è che ho tanta paura, paura di morire, paura di restare abbandonata qui per sempre, senza potere più rivedere i volti delle persone care. Dimenticate per l’eternità, senza nemmeno, alla fine, conoscere l’esito dei nostri sforzi.» «Anch’io ho paura Deanna. Ma dobbiamo farci forza. Sono convinta che presto riusciremo a capire la vera natura della Prova e finalmente potremo tentare qualcosa. Ora tu devi solo pensare a riposarti e a far calare la 135 febbre. Voglio che tu stia bene ed anche il tuo bambino. Altrimenti chi aiuterà me quando verrà il mio turno?» Deanna sorrise e il suo volto, per un istante, tornò a riempirsi della luce che aveva sempre emanato in quei lunghi anni di servizio assieme. «Ora dormi. Io vado a prendere altra acqua e qualcosa da mangiare.» Deanna annuì e chiuse gli occhi dolcemente. Beverly uscì dalla capanna, con la schiena dolorante per il peso del fagotto che portava dentro di se. Il sole era prossimo a tramontare. Un altro giorno, su quel pianeta abbandonato stava per terminare. Beverly si incamminò verso il torrente, seguita da uno degli Yeoman che le sorvegliava giorno e notte. Se voleva tornare dal torrente prima che fosse buio doveva accelerare il passo. Un grosso rapace emise il suo grido, scomparendo poi all’orizzonte e Beverly si fermò solo un istante ad osservarlo e provò invidia per quel paio d’ali che tanto lontano da quel luogo desolato, lo potevano portare. La stella di quello sconosciuto sistema solare era ormai prossima a completare l’arco giornaliero della sua sfera celeste Presto l’oscurità sarebbe scesa su di loro impedendo di continuare il cammino. La macchia, cosi ormai Riker chiamava quel punto scuro che Vovelek aveva indicato dalla sommità di una duna, quale luogo ricco di preziosa acqua, era ancora lontana, ma non oltre un’altra giornata di cammino. Anche perché William era consapevole che non avrebbe resistito oltre. Nell’ultima ora di cammino la morfologia del terreno era mutata, passando da sabbiosa a prevalentemente sassosa, il che aveva reso il cammino più facile, visto che gli stivali non affondavano più nella sabbia per almeno venti centimetri. 136 Vovelek aveva individuato un gruppo roccioso che secondo il suo giudizio era particolarmente adatto per trascorrere la notte, al riparo dal vento, che una volta calato il sole, diventava gelido. Tanto era infernale di giorno, tanto era gelido di notte. Questa era la doppia faccia del deserto, a quanto pare, in qualunque parte della Galassia. Passarono la notte stretti l’uno all’altro, nel tentativo di scaldarsi a vicenda, dividendosi l’unica coperta termica che avevano portato con se, sottraendola al kit d’emergenza della capsula di salvataggio. Riker notò come fosse particolarmente buia la notte su quel planetoide, privo, così almeno pareva, di satelliti capaci di riflettere un poco di luce solare. In compenso le stelle brillavano in maniera sorprendente. Avrebbe voluto restare a godersi lo spettacolo più a lungo, ma la stanchezza dovuta alla giornata di cammino si trasformò in torpore che lo avvolse rapidamente e cadde in un sonno profondo. Profondo ma breve. Il comandante Vovelek lo strappò bruscamente al mondo di Morfeo, scuotendolo ripetutamente. «Si svegli comandante! Il sole sta per sorgere. Dobbiamo muoverci prima che la temperatura torni ad alzarsi.» Riker aprì lentamente gli occhi e la prima cosa che vide fu il volto del vulcaniano, come sempre serio ed impettito. L’atmosfera era debolmente illuminata da degli sparuti raggi solari che provenivano dall’orizzonte, proprio di fronte a loro e un velo rossastro si stava lentamente espandendo nel cielo. William sbatté le palpebre ripetutamente e si mise su di un fianco. «Maledizione! Stavo facendo un sogno meraviglioso. I Borg non erano mai arrivati, avevo ancora il mio braccio e…» 137 «I sogni sono manifestazioni tipiche delle menti governate dal caos. I vulcaniani non sognano. Il nostro cervello non ha bisogno di riorganizzare le informazioni durante il riposo» lo interruppe Vovelek. Riker scosse il capo sorridendo di fronte all’ennesima punzecchiatura contro la sua specie. «Deve sapere che sognare è piacevole. E sa qual era l’aspetto migliore del mio sogno di questa notte?» Vovelek, che era intento a richiudere il suo zaino, lo fissò con un’espressione che Riker interpretò come curiosità per la risposta ma non aprì bocca e continuò imperterrito il suo lavoro. E allora Will decise che non gliela avrebbe data e si rimise in piedi senza finire il discorso, sicuro che entro dieci secondi il vulcaniano avrebbe apertamente manifestato il suo desiderio di conoscere la risposta. Il conteggio mentale era arrivato a nove quando la voce di Vovelek echeggiò nel deserto. «Dato di fatto che noi vulcaniani non sogniamo in maniera così disorganizzata come voi umani, era curioso di conoscere le dinamiche legate alle esperienze oniriche di altre specie e...» «Vuole sapere cosa mi è davvero piaciuto del sogno?» tagliò corto Riker cantando vittoria dentro di se. «Sintetizzando brutalmente, la risposta è si» Riker fece una pausa, si chinò e raccolse il suo zaino e se lo mise a spalle, poi si fece un lungo sospiro puntando i suoi occhi dritti in quelli del suo compagno di naufragio. «Non c’erano vulcaniani!» fu la sua risposta, laconica e tagliente. Vovelek alzò un sopracciglio in segno di sorpresa, ma da buon rappresentante della sua razza non lasciò che nessuna emozione trasparisse all’esterno e si limitò ad un breve commento. 138 «Come dite voi umani? Non tutte le ciambelle riescono con il buco?» - Touché! - Riker ammise che il suo avversario, sul piano dialettico, era davvero formidabile e per questa volta decise che avrebbe battuto la ritirata. «D’accordo signor Vovelek, lasciamo perdere i sogni e le ciambelle e veda di ricordarsi in che direzione dobbiamo muoverci.» «Io sono pronto. Se lei è pronto possiamo riprendere il cammino» «Prontissimo. Da che parte?» rispose Riker passando oltre il vulcaniano, accompagnando le parole ad un gesto di invito con un abbozzo di inchino. Vovelek non rispose e si limitò a riprendere il cammino a passo spedito, mentre il sole lentamente cominciava a fare capolino alle loro spalle. Poche ore dopo il sole era alto nel cielo e quella sconfinata pianura nuovamente un inferno, con temperature che superavano sicuramente i quaranta gradi centigradi. Riker aveva esaurito la sua riserva d’acqua almeno un’ora prima e il suo passo era diventato sempre meno spedito e già una volta era caduto a terra inciampandosi malamente in un sasso sporgente. E Vovelek, naturalmente, pareva non risentire dell’ambiente ostile, anzi, pareva proprio si sentisse a casa. Ora stava almeno una cinquantina di metri più avanti di lui e non accennava a rallentare per aspettarlo. Maledetto vulcaniano! Imprecò fra se Riker. Avrei fatto meglio a lasciarti morire sulla capsula! Almeno adesso starei morendo nel deserto sentendomi meno idiota! Aveva una sete terribile, ma proprio come gli aveva pronosticato Vovelek, era rimasto senza scorta e il suo orgoglio stava facendo il possibile per impedirgli di chiedere al vulcaniano che gliene concedesse un poco della sua. Tanto più che era certo che non gliela avrebbe 139 mai concessa, anzi, avrebbe sicuramente intimamente goduto nel vederlo dapprima soffrire e infine morire per disidratazione. E sarebbe stato pronto a scommettere che la ferrea logica del vulcaniano gli avrebbe consigliato di fare il suo corpo a pezzi per poi consumarlo. C’erano mai stati casi di antropofagia fra i vulcaniani? No! Sicuramente no! I vulcaniani sono perfetti! Non sbagliano mai! E poi, non correrebbero mai il rischio di nutrirsi di carne umana e ritrovarsi magari poi infettati dalle dannose ed inutili emozioni che affliggono gli abitanti della Terra! Riker si accorse che stava cominciando a vaneggiare. Forse sarebbe stato meglio impegnare il cervello in qualcosa di più utile, come costringere il proprio corpo, sempre più riluttante, a fare un passo dopo l’altro, possibilmente facendo attenzione a non inciampare nuovamente. Circa tre ore dopo William non riusciva più a vedere il suo compagno, sia perché era ormai troppo avanti a lui, sia perché la sua vista era completamente annebbiata. Facendo appello a tutta la sua forza di volontà, stava seguendo le orme lasciate da Vovelek, fissando come un pazzo fuori da un manicomio il terreno. Non sentiva nemmeno più il caldo, né la stanchezza, né la sete. Come un automa si limitava a portare una gamba davanti all’altra, con ritmo lento, respirando affannosamente. «Non ti chiederò l’acqua! Non ti chiederò l’acqua!» ripeteva all’infinito con voce impercettibile, come se si trattasse di una antica nenia. Poi sentì un improvvisa e lancinante fitta. Non avrebbe saputo indicare il punto esatto nel suo corpo, tutte le sue percezioni fisiche erano come attutite. Si sentì cadere, ma non percepì l’impatto, come se stesse vivendo l’accaduto in terza persona. Come un fantasma che osserva quello che prima era il suo corpo di vivente. 140 «E’ finita» mormorò. E poi fu il buio. 141 CAPITOLO 15 - Deanna Troi di Betazed - Figlio di Deanna Troi - Federazione Unita dei Pianeti Beverly rilesse ancora una volta quelle parole, incise su di una grossa pietra levigata, che egli stessa aveva raccolto e trasportato fin li dal torrente. Le ci erano voluti tre giorni di lavoro per incidere quelle poche lettere, e subire anche le ire degli Yeoman, che non volevano perdesse tempo in un’attività che non erano in grado di capire. Quei maledetti barbari la tenevano praticamente prigioniera e gli unici compiti a cui era costretta con la violenza, erano scuoiare e cucinare le prede della caccia e soddisfare le loro pressanti richieste sessuali. Erano ormai parecchi mesi. Sicuramente una dozzina. Di cui nove passati con in grembo il piccolo Jean-Luc, il figlio che ora teneva fra le braccia e che stava poppando beato dal suo seno. Un incubo. Un incubo che pareva non avere fine. Eppure Beverly continuava a sperare che prima o poi Picard sarebbe venuto a portarla via di li. Senza tale luce di speranza, probabilmente avrebbe già da tempo posto fine spontaneamente alla sua esistenza. E ora che Deanna se ne era andata, non aveva neppure più il conforto di una persona amica. Era rimasta sola ad affrontare quella terribile prova a cui Q l’aveva sottoposta. Prova di cui ancora non aveva compreso il significato. Avevano tentato, soprattutto i primi tempi, di fuggire, nella speranza che la risposta fosse nascosta da qualche parte li vicino. Ma ogni volta gli Yeoman erano riusciti a ritrovarle e le avevano duramente punite. Poi le 142 condizioni di Deanna erano peggiorate e ogni proposito era stato accantonato. Tenendo saldo il piccolo Jean-Luc si chinò delicatamente per poggiare un mazzo di fiori sulla improvvisata lapide. Li aveva raccolti nella mattinata, senza farsi scorgere da nessuno dei barbari. Gli Yeoman avevano accolto la morte di Deanna con indifferenza e era loro intenzione disfarsi del corpo della betazoide, gettandolo da una rupe lontana. Così, a quanto pare, celebravano i loro morti. Ma Beverly si oppose fermamente, cercando disperatamente un modo per comunicare con loro. Alla fine la lasciarono fare, forse scocciati dalla sua insistenza. Beverly allora scavò una fossa con i miseri utensili a disposizione e vi seppellì il corpo martoriato di Deanna. Ed accanto a lei, depose anche lo sfortunato bambino che era morto subito dopo il parto, a causa probabilmente di una semplice infezione. Quanto tempo era trascorso? Due mesi? Tre? La misura tempo sul quel pianeta non aveva più alcun senso logico. Il sole sorgeva e poi tramontava e questo bastava a distinguere le fasi del giorno e le stagioni, per altro appena accennate. Un pensiero andò a Deanna ed alle sue ultime parole: «Non lasciarmi morire qui! Ti prego! Non lasciarmi morire qui!» Alcune notti ancora, le compariva in terribili incubi, pronunciandole ripetutamente ed ossessivamente, facendola svegliare di soprassalto nel cuore della notte completamente madida di sudore. Solo Dio sapeva come e quanto lei ci avesse provato a salvarla, facendo appello a tutta la sua esperienza di medico, ma le condizioni troppo dure in cui Q le aveva gettate avevano impedito di evitare la terribile sciagura. 143 L’ultimo giorno, prima che morisse, Deanna era in preda a terribili spasmi. Erano arrivate le contrazioni ma il feto, essendo capovolto, non riusciva a trovare la via nel modo corretto. Il primo tentativo che fece fu di cercare di afferrare dall’interno i piedi del nascituro e di tirarlo con forza, come avveniva anticamente con i vitelli. Ma non riuscì nell’intento, in quanto la posizione del feto era realmente assai anomala, probabilmente quasi di traverso e le sempre più violente contrazioni che stavano scuotendo il corpo della betazoide, non lo stavano di certo aiutando. Era quasi calato il sole, che i gemiti di Deanna si erano trasformati in urla strazianti. E non vi era nulla per potere calmare il dolore. Gli Yeoman erano tutti all’esterno della capanna in cui Deanna tentava di partorire ed assistevano a quanto stava accadendo, come se fosse stata la prima volta. Alcuni trovarono la cosa persino divertente e cominciarono a scimmiottare i movimenti convulsi di Deanna. Mai come in quel momento Beverly sentì di odiare quegli ottusi neandertaliani. Ben più di quel giorno in cui sia lei che Deanna erano state brutalmente violentate. A quel punto Beverly decise il tutto per tutto. Deanna ormai non era più in grado di comprendere quello che le stava accadendo, tale era il dolore che le stava letteralmente divorando. «Deanna! Ascolta! Ora tenterò di estrarre il bambino, con un taglio cesareo. Vedrai, andrà tutto bene» le disse Beverly e Deanna si limitò ad annuire prima di emettere un altro urlo di dolore. La Crusher riuscì a farsi aiutare da uno degli uomini Yeoman, uno dei più giovani, l’unico che in quei mesi si era dimostrato un poco gentile con loro. Si fece mettere delle ciotole di acqua calda tutto intorno al giaciglio di Deanna, poi prese la pietra di selce più affilata che aveva 144 a disposizione e la sterilizzò facendola rosolare per qualche istante sulla fiamma del fuoco del campo. Prese la matassa di filo, fatto con gli scarti della lavorazione del pellame di hochk, che aveva preparato nei giorni precedenti, in previdenza di una simile eventualità e la infilò in un ago improvvisato: una lisca di pesce di fiume che si era presentata particolarmente adatta allo scopo. Il sole era ormai calato e scese l’oscurità sul piccolo villaggio. Mandò il giovane Yeoman a prendere una torcia e una volta di ritorno gli fece capire, con dei gesti sommari, di mettersi alle spalle di Deanna e di tenerla il quanto più possibile ferma. Prima di iniziare l’operazione, mise fra i denti di Deanna un grosso pezzo di radice, che, almeno le era parso facendo qualche prova, avesse un parziale potere lenitivo. In più le avrebbe impedito di mordersi la lingua. Il volto della betazoide era sconvolto. I suoi occhi, che solitamente infondevano dolcezza e amore, ora erano due palle impazzite che roteavano freneticamente. Beverly la guardò un istante prima di procedere, chiedendosi se stava facendo la cosa giusta e se sarebbe riuscita a salvare la vita della sua compagna. Poi, con fare deciso e sicuro, affondò la lama della selce nel ventre gonfio della betazoide, lacerandolo nettamente di almeno venticinque centimetri. Deanna emise un gemito altissimo e il giovane Yeoman faticò a tenerla ferma. Il sangue cominciò rapidamente a sgorgare dalla ferita ma Beverly si preoccupò di allargarla immediatamente e di individuare il nascituro per estrarlo. L’operazione non fu facile, ma Beverly non ci mise più di qualche minuto. Il bambino aveva sfortunatamente anche una parte del cordone ombelicale che gli avvolgeva il piccolo ed esile collo. E soprattutto non respirava. Prontamente Beverly lo liberò dal cappio e recise di netto 145 il cordone, facendo poi il classico nodo che crescendo, sarebbe diventato il suo ombelico. Subitamente cominciò delle pratiche manuali di rianimazione, risciacquandolo con acqua calda e incredibilmente, quel piccolo corpicino paonazzo emise finalmente un lamento che si trasformò poi in un fragoroso pianto. Deanna intanto era svenuta, per cui Beverly mise il bambino nelle mani del giovane Yeoman e presa la lisca di pesce e il filo di fortuna, e cucì le carni della betazoide alla meglio. Ma non aveva assolutamente nulla per sterilizzare la ferita ed era troppo estesa per poterla cauterizzare senza creare delle gravi ustioni. Più di così proprio non avrebbe potuto con quei pochi attrezzi. La notte la passò a vegliare Deanna ed il bambino. Ma Deanna, da quella notte, non riaprì più i suoi occhi. Le conseguenze del parto le avevano sfiancato il già debilitato fisico e una probabile infezione le fece salire la febbre. Dopo due giorni ed una notte di agonia, Deanna spirò fra le braccia di Beverly, mentre il suo bambino, che ancora non aveva un nome, era attaccato al seno della madre morente. La morte di Deanna segnò anche la fine di suo figlio. Senza la madre ad allattarlo, Beverly non aveva nulla con cui nutrirlo. Lei, infatti, era ancora senza latte, in quanto avrebbe partorito solo fra un mese circa. Il piccolo spirò tre giorni dopo di stenti e per una infezione, sotto gli occhi impotenti ed affranti della dottoressa. Beverly aveva ancora freschi nella mente i ricordi di quei giorni terribili. Era rimasta completamente sola, in balia degli Yeoman, prossima al parto. Per sua fortuna, il suo travaglio fu breve e relativamente meno doloroso rispetto al suo primo figlio, Wesley, e tutto andò relativamente liscio. E ora poteva felicemente tenere in braccio il piccolo Jean-Luc, figlio di chissà quale degli Yeoman. 146 Beverly si rimise in piedi, accarezzando per una volta ancor la lapide. «Tornerò domani, promesso!» disse, rivolta alla pietra scolpita. Si incamminò verso il villaggio, quando udì delle urla provenire da esso. «Che sta succedendo?» si domandò. Affrettò il passo e man mano che si avvicinava le urla aumentavano di intensità. Salvo poi cessare di colpo. Beverly arrivò al villaggio praticamente correndo e lo trovò devastato e soprattutto deserto. Chi o cosa aveva fatto questo? Che era successo? In più di un anno di prigionia non aveva mai visto né animali né altri esseri in grado di rappresentare una minaccia per gli Yeoman. Si incamminò fra le capanne rovesciate alla ricerca di risposte, tenendo ben stretto il suo bambino. Al centro del villaggio emise un grido, il richiamo convenzionale fra gli Yeoman. Ma nessuno di loro rispose all’appello. Alle sue spalle sentì un rumore metallico, familiare, ma che non udiva ormai da parecchio tempo. Voltandosi di scatto, la luce rossastra di un laser le segnò il volto. «Borg!» fu il suo ultimo grido. «Capitano lei non sente niente?» domandò Data Picard, seduto sul marmo bianco che costeggiava parte della infinita muraglia era profondamente immerso nei suoi pensieri. Stava riflettendo sulla situazione e sul da farsi. Oltre a domandarsi della sorte del consigliere Troi e della dottoressa Crusher. Erano passate più di tre ore da quando Q le aveva portate con se, con il compito di assolvere alla fantomatica Prima Prova, di cui né Q né il Q-Continuum avevano specificato la natura. La voce di Data lo raggiunse come se l’androide l’avesse chiamato da un profondo pozzo. 147 «Come ha detto signor Data?» «Dicevo signore, che sto percependo un rumore in avvicinamento. E’ molto simile al campione relativo al mezzo di trasporto utilizzato da Q». «E’ sicuro signor Data?» domandò Picard ingenuamente. Data non poteva certo essere vittima di allucinazioni. «Si signore. C’è una probabilità del novantasette virgola sedici percento che si tratti dello stesso identico mezzo a motore» specificò Data. Picard balzò in piedi attirando l’attenzione di Geordi e di Worf che a loro volta seguirono il capitano. Picard corse qualche metro nella direzione in cui aveva visto scomparire il camion da trasporto della Terza Guerra Mondiale e mano alla fronte cominciò a scrutare l’orizzonte, ma senza scorgere alcunché, eccetto la muraglia e la strada che si perdevano all’orizzonte. «Geordi! Riesci a vedere nulla?» domandò il capitano. L’ingegnere capo dell’Enterprise mise in funzione i suoi occhi bionici al massimo ingrandimento possibile. «No capitano, questa volta non vedo niente. Se sta arrivando qualcuno è ancora troppo lontano, anche per i miei bio-impianti oculari.» «Eppure Data sta percependo lo stesso identico rumore del camion di Q!» esclamò stizzito Picard, non dandosi per vinto. «Ne è certo signor Data?» domandò ancora Picard, voltandosi verso l’androide, che stava alle loro spalle, alcuni metri più lontano. «Certo capitano. Solo che…» ma Data fu bruscamente interrotto dal capitano. «Geordi prova ad allargare il campo anche ai margini della strada. Forse sta viaggiando nel deserto, parallelo alla strada principale» Geordi annuì e riprese a scandagliare l’orizzonte. «Nulla signore, nulla» fu l’esito del secondo tentativo. 148 «Capitano? Geordi? Worf?» esclamò Data. «Dica signor Data ci sono altre inf…» voltandosi Picard vide l’androide, che con la mano chiusa a pugno ed il pollice sollevato, indicava il deserto alle sue spalle. «Sta arrivando, ma da questa direzione capitano» aggiunse Data. «Ma come è possibile…» In un primo momento Picard provò confusione, non riuscendo a comprendere come Q stesse potendo ritornare dalla stessa direzione da cui era arrivato in precedenza. Secondo logica, avrebbe dovuto far ritorno da quella opposta, in altre parole dalla quella in cui era sparito con Deanna e Beverly a bordo. Logica umana, pensò Picard, probabilmente quella dei Q è un tantino diversa. «Vero! Lo vedo! E’ sempre lo stesso mezzo!» confermò Geordi, ma ormai tutti potevano distinguere ad occhio nudo la nuvola di polvere. In pochi minuti la sagoma del mezzo pesante si fece sempre più nitida e quando fu molto vicina, i quattro si spostarono a lato, tappandosi bocca e naso, per evitare che la nuvola di polvere e sabbia che stava sollevando li investisse una seconda volta. Con una frenata brusca, il camion da trasporto con i simboli della Coalizione Orientale e il telone verde militare si arrestò davanti a loro, portando con se la prevista nuvola di sabbia. Alla guida del mezzo sempre Q, sempre con la stessa antica divisa militare terrestre. «Mon capitaine! Ben felice di rivederti! Allora come ce la passiamo vecchio mio?» furono le prime parole di Q, una volta smontato dal posto di guida. «Dove sono Deanna e Beverly?» domandò immediatamente Picard. 149 «E non mi saluti nemmeno? Non siete felici di rivedermi?» insistette Q fingendosi dispiaciuto per la fredda accoglienza. «Q! Dove sono Deanna e Beverly?» il tono della voce di Picard era estremamente deciso. Era seriamente preoccupato per la sorte delle due donne e non si sarebbe mai perdonato se fosse loro accaduto qualcosa di terribile. «Qui dietro non ci sono!» intervenne Worf, che nel frattempo aveva controllato il retro del mezzo. Q parve per un istante imbarazzato, come se avesse qualcosa da nascondere e stesse cercando le parole migliori per inscenare una delle sue solite commediole. «Dove sono Q! Parla!» urlò Picard puntandogli un dito in mezzo alla fronte. «Sono dietro… Nel camion. Credimi Jean-Luc!» rispose Q balbettando. «Sta mentendo capitano! Qui non c’è traccia né di Deanna né di Beverly!» intervenne ancora Worf, poi però l’occhio gli cadde su qualcosa di insolito. «Un momento. Ci sono due oggetti. Sono sacchi neri, signore.» Il cuore di Picard ebbe un cedimento. Un terribile pensiero gli si insinuò nel cervello e come un elettroshock, gli causò un fremito lungo la spina dorsale. «Q! Tu! Non avrai…» Q chinò il capo e senza rispondere si portò vicino a Worf e lentamente sbloccò i fermi della sponda posteriore del camion. Picard lo seguì con il cuore che gli pulsava in gola. Poi si rivolse al klingon chiedendo aiuto per scaricare quei due inquietanti sacchi. I due faticarono a metterli a terra segno che erano piuttosto pesanti. E Picard capì, ma non solo lui, cosa contenessero quei sacchi, che solo ora denotavano una cerniera ermetica 150 lungo tutto l’asse longitudinale. Ma non voleva crederci. Con tutte le sue forze cercò di convincersi che si stava sbagliando. 151 CAPITOLO 16 Picard si chinò sulle due sagome scure, allineate sulla sabbia bollente. Aveva fatto allontanare sia Worf sia Geordi. Loro non avrebbero dovuto vedere. Lui era il capitano e solo a lui sarebbe toccato il terrificante spettacolo che si celava dietro quelle cerniere. Nonostante fosse evidente a chi appartenessero i corpi che si celavano nei sacchi, nonostante ogni logica fosse stata abbattuta dalla crudezza della realtà, Picard si accinse al riconoscimento con la più umana delle speranze, ovvero che in fondo, a volte, anche l’inevitabile potesse essere evitato. Per fortuna, per puro caso, per intervento divino. Lentamente fece scivolare la prima cerniera e non appena i primi raggi del sole illuminarono l’interno, lo stomaco di Picard si contrasse, come se fosse stato direttamente comandato dai suoi occhi e da quello che stavano vedendo. Beverly, sicuramente Beverly. Il suo volto diviso in due. Una metà ancora umana, seppur livida, con i colori che la morte ci dipinge addosso e il resto una tipica protesi oculare Borg. Era stata assimilata. Picard richiuse in fretta il sacco ed espirò profondamente. Rimase in ginocchio qualche istante cercando di riprendere il controllo. «Capitano» intervenne Geordi, vedendo il proprio capitano in evidente difficoltà. «E’ tutto a posto Geordi» rispose Picard, alzando una mano. Picard passò al secondo sacco. Era ormai una pura formalità. Nessuna speranza, nemmeno la più irrazionale 152 albergava nel suo animo. Il corpo che avrebbe trovato sarebbe stato sicuramente quello di Deanna. Aprì rapidamente la cerniera e questa volta lo spettacolo fu anche peggiore. Il corpo all’interno del sacco era in avanzato stato di decomposizione e un puzzo di morte si liberò nell’aria, sostando qualche istante nei pressi delle narici di Picard, prima di essere disperso lontano dall’incessante vento di quel deserto sconosciuto. Con un gesto rapido ma goffo, Picard richiuse rapidamente la cerniera, ma stordito dalla esalazione della carne putrefatta ricadde all’indietro, finendo col trovarsi seduto nella sabbia. Non aveva potuto stabilire con certezza che si trattasse di Deanna, ma per nessun motivo al mondo avrebbe riaperto quel sacco. Era comunque evidente che si trattava della betazoide. Di quel che ne restava. Perché? Si domandò. Per quale motivo? La Sfida. Per dare una speranza alla galassia intera. Due vite contro quelle di miliardi di esseri viventi. Per lui, però, il prezzo era già fin troppo alto. Si rialzò pulendosi l’uniforme dalla sabbia, poi si rivolse ai suoi ufficiali, i quali a loro volta erano costernati dal dolore per la perdita di due persone che erano state molto di più che compagne di equipaggio. Fu una pura formalità la conferma dell’identità dei due cadaveri fatta da Picard. Sia Worf sia Geordi si limitarono ad abbassare lo sguardo. Data invece parve restare impassibile. Il chip emozionale doveva essere disattivo, ma Picard era certo, che a modo suo, Data stesse soffrendo per la perdita. Q rimase in silenzio, appoggiato a braccia conserte alla sponda del camion militare senza fiatare. Pareva sinceramente dispiaciuto per l’accaduto. Ma era difficile 153 dire se Q, nonostante la vastità delle sue conoscenze, sapesse realmente cosa significasse il dolore. Quando Picard gli puntò addosso i suoi occhi ricolmi di pura rabbia, Q aggrottò la fronte, stupito dalla forza che emanava dallo sguardo del capitano. «Come è potuto succedere questo Q!» Q sciolse le braccia e le allargò a indicare che non conosceva la risposta. «Mon capitaine. C’est la vie!» rispose. Picard lo fissò per un breve istante. «Sei un assassino. E’ tua la responsabilità di queste morti innocenti.» Detto questo voltò le spalle a Q e si allontanò dal camion andandosi a sedere sul marmo, all’ombra della muraglia infinita. «No! Caro il mio capitano! Io non sono un assassino!» ribatté Q, staccandosi dalla sponda e seguendo Picard come un cagnolino. «Hai accettato la Sfida? Ecco, ora che fai? Ti ritiri? Siccome c’è da rischiare, il buon capitano Picard della Flotta Stellare se la fa sotto? Come un cadetto alle prime armi?» Q sapeva dove colpire e lo fece con durezza. Lui aveva il suo scopo. Vincere la Sfida una volta per tutte e per avere almeno una speranza avrebbe dovuto obbligare Picard a dare il meglio di se. E ci era sempre riuscito ogni volta che aveva spinto Picard a mettersi in competizione con lui. L’orgoglio di quell’umano era qualcosa di unico in tutto l’universo. E anche questa volta funzionò. Picard strinse i pugni e si rimise in piedi di scatto, mettendo il suo naso a non più di cinque centimetri da quello di Q. Un classico comportamento da maschio umano che vuole mostrare la sua forza al branco mentre 154 viene sfidato. Umani. Sorrise dentro se Q, in un milione di anni non sono cambiati poi molto. «Non me la sto facendo sotto! E’ che trovo tutto questo una barbarie ingiustificata! Io in fondo mi sono sempre fidato di te! Nonostante i guai che ci hai creato in passato, ho sempre creduto che comunque noi contassimo qualcosa per te e che quindi, ci avessi sempre nascostamente protetto.» Picard fece una pausa, giusto il tempo i bagnarsi le labbra, arse dalla calura. «Ora invece non sono più sicuro di nulla. Ora so che… Che tu questa volta non ci aiuterai. Non ci proteggerai.» Q sorrise. Picard, l’orgoglioso Picard stava ammettendo di avere in fondo, un’umana, comprensibile paura. «Jean-Luc mi deludi. Come hai potuto pensare tanto male di me? Io proteggervi? Ma se a malapena vi sopporto! Suvvia!» rispose Q con tono canzonatorio. Picard tornò a fissare Q negli occhi «Quindi è sempre stato merito nostro. Solo nostro» «E chi può dirlo?» rispose Q, decidendo che aveva già perso troppo tempo. «Allora Jean-Luc! Non abbiamo tutto il tempo di questo universo! Che decidi? Ti ritiri o continui la Sfida? Anche se ora sai che c’è il rischio reale di non tornare più a casa?» Picard cercò una risposta negli occhi dei suoi ufficiali, che avevano seguito lo scambio in silenzio. «Capitano, non potrei più vivere sapendo che abbiamo rinunciato alla possibilità di salvare la nostra galassia dai Borg signore!» disse Worf. «Lo stesso vale per me» aggiunse Geordi «Io non provo alcun sentimento di paura verso la mia possibile disattivazione, ma credo di poter dire, che sarebbe illogico non tentare di vincere la Sfida, signore. Anche a costo delle nostre vite» concluse Data. 155 Picard si sentì lusingato, per avere avuto la fortuna e la possibilità di lavorare con uomini, anzi con esseri tanto nobili di spirito. «D’accordo Q. Anche se il prezzo, questa volta sarà molto più alto delle altre, non ci tireremo indietro. Ce la siamo cavata in situazioni peggiori. Ce la faremo anche questa volta.» «Ottimo Jean-Luc! Adoro questa vostra retorica! E’ così inebriante! Ti riempie il cuore di orgoglio!» lo canzonò Q. Picard fece una smorfia di disapprovazione e si limitò a un laconico commento a malapena sussurrato «povero universo, in che mani...» Q non lo sentì, o probabilmente si limitò ad ignorarlo. Aveva fretta. «Bene! E’ tempo della seconda parte della Sfida! Worf, Geordi! E’ il vostro turno!» esclamò, facendo cenno di accomodarsi nel retro del camion militare. «Finalmente!» esclamò il klingon. «Lo sapevo che saresti stato entusiasta! Vedrai caro il mio klingon guerriero, troverai di che sfogare i tuoi brutali istinti!» ridacchiò Q. Picard si avvicinò ai due suoi ufficiali prescelti, «buona fortuna» disse loro dandogli una pacca d’incoraggiamento sulla spalla. «Sono certo che ci rivedremo presto» Worf e Geordi annuirono e dopo aver stretto la mano anche a Data salirono sul camion. Q chiuse la sponda e rapidamente tornò alla guida del mezzo. Picard rimase a guardare il mezzo che scompariva lentamente all’orizzonte. «Data, le confesso che questa volta non so se potremo farcela.» 156 «Le probabilità di un nostro successo, alla luce dei fatti più recenti sono scese al ventuno virgola trentaquat…» Picard non rimase ad ascoltare l’androide ed andò a sedersi all’ombra. E si sentì improvvisamente molto solo. Riaprì gli occhi. E improvvisamente la vita. Un’esperienza inspiegabile che ogni essere vivente prova quotidianamente. Vita. Un insieme di sensazioni non definibili. Uno stato. Ma per Riker fu come se la stesse provando per la prima volta. Come se fosse stato appena partorito una seconda volta. Inspirò aria fresca nei polmoni. Li sentì bruciare, come un fuoco acceso dentro di lui. La sputò letteralmente fuori, con un gemito sommesso. «Finalmente si è svegliato» Una voce. Fredda, senza alcuna inflessione. Will cercò di capire a chi appartenesse quella voce. Gli era familiare. Nella mente confusa cercò di passare in rassegna tutte le persone che gli venivano alla memoria. Ma arrivavano alla rinfusa, in un flusso indistinto e caotico. Voci lontane, voci amiche, voci nemiche. «Come si sente? E’ in grado di capire quello che dico?» Ancora la voce. Ecco, ora si stava restringendo il campo. Parla, parla ancora, incitò Riker. «Aspetti. Ecco un poco d’acqua. La sorseggi lentamente.» Will sentì sulle sue labbra un oggetto metallico che opponeva una lieve pressione. E del liquido fresco scivolò rapido nella sua bocca, quasi completamente secca. Ne seguì una immediata sensazione di sollievo, percependolo scendere lungo l’esofago, giù, sino allo stomaco. Lentamente mise a fuoco la mano che teneva la borraccia e con lo sguardo percorse tutta la linea del braccio fino al 157 volto di colui che lo stava soccorrendo. Il comandante Vovelek. E in un istante il ricordo di quanto era accaduto tornò al suo posto nelle sue celle di memoria. Doveva essere svenuto, mentre tentava di rincorrere il vulcaniano nel deserto di quello sconosciuto pianeta. Contrariamente a come aveva minacciato, Vovelek era tornato sui suoi passi alla sua ricerca probabilmente. Nonostante tutto non era stato così crudele da abbandonarlo a morte certa. «Comandante Riker, è in grado di capirmi? Come si sente?» Vovelek aveva notato che Riker lo stava fissando negli occhi, segno che era in fase di recupero della conoscenza. «Ho sete» fu la risposta di Riker. «Posso immaginare. Beva, beva pure quanta ne vuole» disse Vovelek aprendo la mano di Riker e obbligandola a stringere la borraccia, affinché si servisse da solo. «Quanta ne voglio? E’ impazzito anche lei?» domandò Riker confuso. «No comandante. Semplicemente al momento non abbiamo più bisogno di razionare l’acqua. Si guardi intorno.» Vovelek si tolse dalla visuale di Riker, alzandosi in piedi e facendosi di lato, scoprendo agli occhi dell’umano quella che somigliava alla più classica delle oasi da cartolina. Un puntino verde, ricolmo di piante lussureggianti nel mezzo di un assolato deserto. Quel dannato vulcaniano aveva avuto ragione delle sue percezioni e l’aveva portato dove aveva promesso. Acqua. «E quando ha finito di bere, qui ci sono questi frutti. Sono di un tipo sconosciuto, ma avendone trovati alcuni parzialmente rosicchiati, forse piccoli roditori, è logico dedurre che non siano tossici. Io ne ho mangiati alcune ore fa e non sto risentendo di nessun effetto collaterale.» 158 «E’ sicuro? Mi sembra diventato molto più umano dall’ultima volta che sono stato cosciente» disse piano Riker. «Vedo che si sta riprendendo. Non ha perso la sua predilezione per l’irrilevante» rispose caustico il vulcaniano. Riker decise di lasciar perdere per un momento la discussione e si concentrò sulla borraccia, godendosi fino all’ultima goccia in essa contenuta. E poggiatala a terra, una terra umida e compatta, raccolse alcuni frutti e iniziò lentamente a cibarsene. «Mentre lei riprendeva conoscenza ho perlustrato la zona. L’oasi è grande all’incirca un chilometro quadrato. Vi è un’unica sorgente d’acqua, la al centro,» Vovelek indicò un punto imprecisato fra la vegetazione «è da escludere la presenza di forme di vita potenzialmente pericolose, se si escludono piccoli insetti e come le ho già detto degli innocui roditori. Nessun segno di vita intelligente. Nessun pozzo o rifugio. Niente che lasci supporre il passaggio di carovane o altro.» Riker ascoltò distrattamente il resoconto del suo compagno di naufragio, troppo impegnato a cibarsi. «Ho calcolato che questa oasi è sufficientemente estesa per poterci sfamare entrambi per lungo tempo in attesa dei soccorsi. Non è da escludere la possibilità che si debba restare confinati quaggiù per il resto dei nostri giorni.» A quelle parole Riker alzò un sopracciglio alla maniera Vulcaniana e esclamò: «Io e lei, qui, per sempre?» «Non per sempre. Solo fino alla fine delle nostre vite. E tenendo conto del fatto che lei è umano e quindi ha un ciclo vitale che è circa la metà del mio, il sottoscritto resterà completamente solo fra all’incirca sessant’anni terrestri.» 159 «Non vede l’ora che passino vero?» ironizzò Riker. «Comandante Riker, non sarebbe stato logico tornare indietro nel deserto alla sua ricerca, se veramente desiderassi una sua prossima dipartita» rispose impassibile Vovelek. Ancora una volta il vulcaniano lo aveva zittito. Anzi, gli aveva ricordato che non lo aveva ancora ringraziato per avergli salvato la vita. «Mi scusi, era una pessima battuta,» si giustificò Will «io la devo ringraziare, mi ha salvato la vita.» «Non mi ringrazi. E’ stata la logica a suggerirmi di tornare indietro a recuperarla. In queste condizioni così estreme è più vantaggioso avere un compagno che restare soli. E poi lei ha salvato la mia in precedenza. Come dite voi terresti? Siamo in pari giusto?» Riker sorrise. Gli era tornata una punta di buonumore. «Si siamo pari. Il suo debito è pagato, la sua vita non è più mia.» «Come scusi?» Vovelek non stava comprendendo. «Lasci perdere, una antica usanza di uno dei popoli della Terra. Quando un uomo salva la vita ad un altro uomo, la vita di quest’ultimo diventa diciamo, proprietà spirituale del primo» «Interessante. Lei ne è un membro?» domandò incuriosito Vovelek «No, ma in passato ho avuto modo di entrare in contatto con la loro cultura. Parecchi anni fa. Un popolo di grandi tradizioni e spiritualità, che oggi ha trovato nuovi spazi su un pianeta che gli è stato assegnato dalla Federazione.» «Sulla Terra non vi erano più spazi?» «No. E’ stato un popolo grande quanto sfortunato, che ha subito ogni sorte di persecuzione e confinamento. Sulla Terra, da almeno trecento anni, non vi è più spazio per coloro che rifiutano la tecnologia e il progresso» 160 «Comprendo. Anticamente, anche su Vulcano problematiche simili hanno portato a dolorose separazioni» commentò Vovelek. Riker comprese chiaramente il riferimento allo scisma che migliaia di anni prima portò alla nascita dell’Impero Stellare Romulano. «Io credo che, se riusciremo a ricacciare i Borg indietro definitivamente, forse questa volta impareremo che l’universo è abbastanza grande per tutti e forse finalmente regnerà la pace.» disse Riker, andando con la mente ai giorni in cui le flotte di Klingon, Federazione e Romulani avevano combattuto insieme contro i Borg. «E’ improbabile, ma è auspicabile.» «A me basta che sia possibile. Tocca a tutti noi incrementare la percentuale di successo,» concluse Riker alzandosi in piedi «e per farlo, dobbiamo trovare un modo per andarcene da qui.» 161 CAPITOLO 17 «Dove siamo Worf?» «Non lo so Geordi. Ma il luogo mi è familiare» rispose il klingon. Geordi e Worf erano rimasti a bordo del camion militare per alcune ore ed erano stati scaricati davanti ad una porta metallica in tutto e per tutto identica a quella che avevano attraversato in precedenza. Alle loro spalle, sempre la muraglia che si estendeva fino all’orizzonte. Q li aveva invitati a sbrigarsi ed ad attraversare la soglia, una specie di passaggio dimensionale, li aveva portati in quello che pareva un sotterraneo di un antico palazzo di pietra. Delle torce illuminavano debolmente l’atmosfera ma Geordi, grazie ai suoi impianti oculari non necessitava della luce per esaminare l’ambiente. «Guarda Worf! Su quella parete! Mi sembrano armi klingon!» I due si avvicinarono al punto in questione e Worf emise un grugnito di soddisfazione. Appese al pesante muro in pietra, due antiche bat’leth, ricoperte da un pesante strato di polvere, riflettevano la luce opaca delle torce. Worf si avvicinò con uno scatto fulmineo, soffermandosi solo un istante quasi in adorazione, poi afferrò le due antiche lame, tipiche della tradizione militare klingon, e ne porse una a Geordi. «Prendi! Ora almeno non siamo più disarmati!» Geordi afferrò la pesante bat’leth e quasi la fece cadere a terra. Non si aspettava che pesasse così tanto. Worf invece la stava facendo roteare nell’aria eseguendo una serie di esercizi di riscaldamento, soppesando l’arma, calcolandone il punto d’equilibrio, tastandone l’impugnatura, sollevando una piccola nube di polvere. 162 Geordi rimase qualche secondo ad osservare il compagno in preda quasi ad un’estasi mistica poi decise che sarebbe stata cosa migliore continuare l’esplorazione della sala, facendo appello alla sua vista potenziata. Ma tranne un grande camino spento ed una tavola in legno, non vi era altro. Apparentemente la stanza non aveva nessuna entrata né uscita. Né finestre. «Worf» lo chiamò l’ingegnere umano. Ma il klingon era troppo intento a padroneggiare la bat’leth e non lo udì, costringendo Geordi ad alzare la voce. «Worf! Puoi mettere giù quell’affare ed ascoltarmi?» Worf si girò di scatto e compiendo un balzo verso di lui gli puntò una delle due punte dell’arma quasi all’altezza della gola. «Worf?» balbettò Geordi, con gli occhi fissi sulla lama tagliente che lo minacciava. Worf grugnì divertito e posò a terra la lama, che a contatto con la pietra dura del pavimento produsse un dolce suono metallico. «E’ una bat’leth formidabile!» esclamò. Geordi tirò un sospiro di sollievo. Per un nanosecondo aveva temuto che Worf lo avrebbe decollato in un colpo solo. Invece era solo in preda ad una tipica euforia klingon per le armi rituali, che li porta a comportarsi come bambinetti eccitati di fronte al loro giocattolo preferito. «Si ci credo Worf. Però evita di puntarmela così vicino la prossima volta d’accordo?» si lamentò Geordi «Piuttosto cerchiamo di capire come possiamo uscire da qui. Se si esclude quel camino laggiù, non vedo vie d’uscita convenzionali.» Worf si guardò intorno a sua volta e dopo una rapida occhiata sul suo volto si disegnò un ghigno soddisfatto. 163 «Conosco questo luogo. E’ il palazzo di K’tal D’ar Nek. Si trova su Qo’Nos nella Prima Città.» «Ne sei certo? Vuol dire che ora siamo su Qo’Nos?» replicò Geordi. «Si lo riconosco. Non vi sono mai stato personalmente, ma da ragazzo, quando studiavo la cultura del mio popolo, mi ero procurato un tour olografico del mitico palazzo dove si narra che Khaless L’Indimenticabile abbia soggiornato per ben cinque anni dopo avere sconfitto il malefico fratello Morath. Questa stanza è il rifugio segreto di Khaless in cui riuniva i sui generali durante la campagna di riunificazione del popolo klingon.» Worf alzò gli occhi estasiato verso il soffitto di pietra, offuscato dal fumo delle torce. «In questo luogo Geordi, è stata fatta la storia del mio popolo. Qui è stato concepito il seme dell’onore, che ha salvato i klingon dall’autodistruzione!» «Ok! Ok! Worf! Grazie della lezione di storia klingon, però ora che facciamo? Se siamo realmente su Qo’Nos, il Qo’Nos del nostro tempo e della nostra dimensione, siamo nei guai. I Borg hanno assimilato il pianeta sei mesi fa e se ci trovano, la tua bat’leth non ci potrà salvare dall’assimilazione.» «Usciamo da qui. Se non ricordo male vi è un passaggio segreto che porta ai piani superiori del palazzo» rispose Worf portandosi poi nelle vicinanze del camino. Cominciò nervosamente a tastare la fredda pietra che lo componeva, sporcandosi le mani della fuliggine, residuo di lontanissimi fuochi. «Eppure era qui!» ringhiò spazientito. Geordi lo aveva raggiunto e calibrò i suoi impianti per scandagliare la superficie del camino alla ricerca di un segno di un possibile meccanismo d’apertura. 164 «Aspetta Worf. Mi sembra di scorgere una imperfezione nel rivestimento. In questo punto!» Premendo un punto apparentemente privo di segni degno di nota, i due udirono distintamente lo scatto di un qualche tipo di meccanismo metallico e lentamente la parete interna del camino girò sul proprio asse, rivelando uno stretto corridoio, privo di illuminazione, che si perdeva nel buio. Il puzzo di aria vecchia di secoli raggiunse le narici di entrambi. «Ecco fatto!» commentò Geordi. «Andiamo! Questo passaggio porta direttamente nella Prima Sala del Consiglio.» Worf strinse fra le mani la sua bat’leth e si chinò per infilarsi nel cunicolo quando Geordi lo richiamò: «Che ne dici di usare una di queste?» disse, porgendo a Worf una delle torce che stavano appese al muro. Il klingon annuì e la afferrò. Una debole luce rischiarò l’oscurità del tunnel che pareva senza fine. Camminarono nel buio più completo per almeno dieci minuti buoni, durante i quali cercarono di orientarsi fra una serie di cunicoli che si intersecavano lateralmente e una serie di rudimentali trabocchetti, prontamente riconosciuti e resi inoffensivi da Worf. Il tour olografico, per loro fortuna, non aveva celato nemmeno i segreti più reconditi ai piccoli studenti klingon e seppur a fatica, Worf riuscì a rammentarli quasi tutti. «Dovremmo esserci. Quei gradini portano nella Sala del Consiglio» disse Worf cominciando a salire i gradini lentamente con la bat’leth saldamente in pugno. Geordi reggeva la torcia e lo seguiva pochi passi indietro. Una botola di legno chiudeva il passaggio. Lentamente Worf la sollevò fino a che non poté infilare la testa quanto bastava per scorgere l’interno della sala. «Sembra deserta» 165 Worf sollevò maggiormente la tavola di legno e poi la fece scorrere di lato e con un balzo felino si portò fuori dal tunnel assumendo una posizione difensiva, con la bat’leth pronta a colpire. «Puoi uscire Geordi» Worf fece cenno al compagno di emergere dal tunnel e di seguirlo. «Dove stiamo andando?» domandò il capo ingegnere, che stava sudando freddo per la tensione. «Verso le stanze della servitù. Sono più piccole e facilmente difendibili.» In quella che mille e cinquecento anni prima era stata la prima sala del Gran Consiglio klingon, regnava un silenzio irreale, disturbato solamente dal leggero tocco dei loro passi. Antichi drappi raffiguranti simboli di antiche casate klingon, pendevano dalle alte pareti, mentre poche torce disseminate qua e la rischiaravano malamente l’ambiente. Il soffitto della sala era a volta e si perdeva nell’oscurità. Una serie di vetusti scranni in legno di Qo’Nos, poveri di intagli, erano disposti a semicerchio e al vertice del ferro di cavallo, il trono del Consigliere, sul quale, il primo grande Cancelliere del nascente Impero Klingon, impartì le prime direttive. Worf intanto, radente le pareti, si muoveva agile e veloce, sempre impugnando la bat’leth, sua fida compagna. Si infilarono in una piccola porta laterale, seminascosta da un drappo color porpora. Un lungo corridoio secondario li portò in quelle che erano state le stanze della servitù. In pratica grandi cucine dotate di incavi nelle pareti, probabilmente utilizzati come giacigli e dispense. Doveva essere un inferno la vita per uno schiavo a quel tempo, concluse Geordi. Le cucine erano naturalmente spoglie. Solo poche suppellettili lasciate a ricordo dei tempi passati erano sparsamente disposte senza un senso logico, ed alcune targhette esplicative in klingon standard ne spiegavano 166 quello che anticamente ne era stato il loro uso. Infatti, nel XXIV secolo il palazzo di K’tal D’ar Nek era solamente un museo, meta di pellegrinaggio di ogni buon klingon che volesse toccare con mano le origini della sua cultura guerriera. «E’ completamente deserto» commentò Geordi «Strano. Non riesco a comprendere il senso di questa prova. Che dobbiamo fare? Perché Q non ci ha spiegato nulla?» si domandò Worf. «Forse dobbiamo esplorare il palazzo, trovare qualcosa di preciso.» Geordi non aveva idea del perché fossero li e tutto quello che gli veniva alla mente gli pareva o troppo stupido o troppo assurdo. «L’unica è continuare l’esplorazione. Setacceremo il palazzo per prima cosa. Poi ci dedicheremo ai giardini interni. Prima o poi ci imbatteremo in ciò che Q vuol farci trovare» concluse Worf. «Si. Sono d’accordo. Se ci dividiamo guadagneremo tempo.» «No Geordi. Questo palazzo è colmo di insidie. E solo io le conosco. Meglio se resti con me. E’ un metodo meno efficiente ma più sicuro.» «D’accordo, come vuoi. Da che parte cominciamo? Quante è grande questo palazzo?» «Sono mille e cinquecento stanze. E’ il palazzo più grande di tutto Qo’Nos.» Geordi alzò gli occhi al soffitto, in un gesto sconsolato e sbuffò: «Accidenti, fate proprio tutto in grande voi klingon. Ci vorrà un’eternità.» «Quello che conta è vincere la sfida Geordi. Ricordatelo.» «Certo Worf. Dobbiamo onorare la morte di Deanna e Beverly e sperare che Q non ci stia giocando uno dei suoi soliti scherzi.» 167 «Allora Q! I tuoi umani dove sono finiti? Quanto ci metteranno ad arrivare?» La voce che lo raggiunse alle spalle era quella maledettamente stridula ed insopportabile del suo avversario. Il Q-Borg se ne stava seduto su un pesante artefatto ligneo che dominava la piana dell’arena. I suoi impianti Borg, fatti d’oro e d’argento, rilucevano come cristalli, sotto il caldo sole del pianeta natale klingon. Con un ghigno divertito, stava osservando il panorama che si parava davanti ai suoi occhi. «Dagli tempo! Si stanno organizzando. Tra poco saranno qui!» gli rispose stizzito Q. «Ok! Nessun problema. Tanto credo che sarà solo una formalità. Non hanno nessuna speranza nemmeno in questa prova!» esclamò il Q-Borg. «Tu credi? Ti ricordo che nella prima prova hai avuto molta fortuna! Troppa fortuna!» Il Q-Borg comparve all’improvviso accanto a Q, sulla balconata d’onore, dove un tempo si sedevano i nobili della corte klingon per seguire gli antichi e spettacolari combattimenti fra guerrieri. «Fortuna? Tu, Q! Proprio tu tiri in ballo il Caos? Sai quanto me che il Caos non esiste. Ogni cosa segue il suo Ordine e nulla può sovvertirlo. Noi stessi siamo parte di esso. Non è stata fortuna. L’Ordine ha trionfato. E L’Ordine vede i Borg a capo di questa galassia e forse, in futuro, anche di tutte le altre.» Q strinse i pugni indispettito da tanta arroganza e si sedette su una antica poltrona. Il Q-Borg fece lo stesso su quella accanto. «Io credo invece che nemmeno noi Q possiamo sfuggire ad un minimo di indeterminatezza, che è insita nella natura stessa delle cose. Noi crediamo di controllare ogni 168 cosa ma in realtà esse ci sfuggono. La nostra presunta onniscienza ci sta rendendo ciechi.» Il Q-Borg si voltò verso Q, fissandolo un istante, salvo poi scoppiare in una fragorosa risata. «Q! Credo che tu abbia speso troppo del tuo tempo fra quegli esseri inferiori! Stai cominciando a parlare come loro! Ma ben ti sta! Perderai la sfida una volta per tutte e questa volta non riuscirai a mettere in atto nessuno dei tuoi trucchetti!» «Non cantare vittoria prima del tempo caro mio! E ricordati che nemmeno tu riuscirai ad aiutare i tuoi droni senz’anima. Il Consiglio del Q-Continuum ci sta osservando!» reagì Q. «Lo so. Infatti si sono accorti del tuo giochetto su Antarix. Cercare di rallentare il tempo dei miei droni per dare tempo ai tuoi umanoidi di riprodursi, che nobile intento. Peccato che tu sia stato miseramente scoperto. E ora, se ci proverai anche solo una volta, ti ricordi quale sarà la punizione?» Q chinò il capo. Purtroppo il suo tentativo di aiutare Deanna e Beverly non era passato inosservato e il Consiglio era intervenuto ristabilendo il giusto corso del tempo. E avevano minacciato Q dal riprovarci anche una sola volta. La pena era la cacciata dal Q-Continuum e con l’esilio, la perdita di tutte le sue facoltà. Era già accaduto in passato e non era stato per nulla gradevole. E in una galassia dominata dai Borg, senza Picard a tirarlo fuori dai guai, peggio che mai. «So bene cosa rischio. Comunque questa volta sono certo che sarò io a vincere. I tuoi droni Borg nulla possono contro il mio Worf!. La Prova della Forza sarà mia!» disse a gran voce Q. Le sue parole gli tornarono indietro sotto forma di eco, via via sempre più deboli. «Allora è cominciata la sfida?» 169 Improvvisamente, alle spalle dei due Q, fece la sua comparsa l’allievo di Q, il quale, tutto eccitato all’idea di assistere alla seconda delle tre prove, aveva scordato di salutare i due anziani. «Q! Quando ti deciderai a dare un po’ di educazione a questo ragazzo?» esclamò il Q-Borg scocciato dall’arrivo indesiderato del giovane. «Quante volte ti devo dire di non arrivarmi alle spalle? E non si salutano due Q più anziani?» lo rimproverò il maestro. Il giovane Q si mise una mano sul capo in segno di imbarazzo e prontamente si scusò per la sua intrusione, poi andò a sedersi alla sinistra del suo mentore e diede un’occhiata in giro. L’arena aveva come spettatori, oltre a loro tre, almeno un migliaio di droni Borg, che silenti ed immobili ricoprivano come un mantello scuro, le gradinate. E sullo sfondo gli sbuffi di fumo nerastro degli impianti industriali costruiti dai Borg dopo l’assimilazione di Qo’Nos, che lentamente, ma inesorabilmente, stavano immettendo metano ed ammoniaca nell’atmosfera del pianeta, al fine di renderlo più adatto alla vita dei droni. «Ai piani superiori non c’è nulla. Solo stanze semivuote e poco altro. Cosa ci resta ancora?» domandò Geordi, che per la stanchezza si era seduto a terra, con le braccia incrociate sulla sua bat’leth. «I giardini, la fureria e l’Arena dei Guerrieri.» «Arena dei Guerrieri?» ripeté Geordi stupito. «Anticamente si svolgevano spettacoli a base di combattimenti fra guerrieri klingon, o bestie feroci o schiavi alieni catturati durante le prime colonizzazioni. Da circa duecento anni, i combattimenti sono andati in disuso.» Worf arrestò la spiegazione di colpo. Nella sua 170 mente si fece largo un’intuizione tanto lampante che quasi gli sembrò impossibile non averci pensato prima. «Ma certo, l’arena! Andiamo Geordi! Credo di sapere dove troveremo le risposte che cerchiamo!» Worf trascinò Geordi lungo le stanze ed i corridoi del palazzo di K’tal D’ar Nek fino ad un grande portone in legno e bronzo, alto almeno tre metri. Le due metà del portone erano decorate con un bassorilievo raffigurante due guerrieri klingon pronti a scagliarsi uno sull’altro. E a Geordi sembrò che lo stessero avvertendo di non attraversare quella soglia. «L’Arena è oltre questo portone. Aiutami a spingere.» I due levarono la pesante asse di legno che fungeva da blocco e poi, facendo leva sulle gambe, cominciarono a spingere. Lentamente i cardini cominciarono a svolgere il loro dovere e i raggi luminosi di un sole caldo penetrarono l’oscurità dell’interno del palazzo. Worf dovette portare una mano agli occhi per non restare abbagliato, mentre Geordi non fece alcuno sforzo: i suoi impianti regolarono la luminosità in modo automatico. «Mio Dio!» esclamò Geordi con la voce strozzata dall’orrore. Quando anche gli occhi di Worf si furono abituati al cambio di luminosità, poté vedere il terrificante spettacolo dell’arena completamente ricolma di droni. Emise un grugnito insolito che Geordi interpretò come soddisfazione e poi, seccamente disse: «forse oggi è un buon giorno per morire.» 171 CAPITOLO 18 Picard si asciugò la fronte, madida di sudore, con la manica dell’uniforme. Ne approfittò per concedersi una piccola pausa. Il sole di quello strano luogo era sempre alto e non accennava a calare. Dubitò che sarebbe mai tramontato, concedendogli un poco di frescura. Lo scenario creato d Q, a quanto pareva, era stato concepito come statico. Gli sfuggiva comunque il significato di un luogo tanto inospitale. «Si sente bene capitano?» domandò Data, non appena si rese conto che il capitano aveva smesso di scavare. «Si Data. Fa solo un po’ troppo caldo per i miei gusti.» «Capisco signore. Se vuole andare a sedersi all’ombra, proseguirò io le operazioni di escavazione. Le ricordo che io non risento minimamente il calore, signore. Posso operare perfettamente fino ad una temperatura massima di…» «No Data, grazie,» lo interruppe Picard «voglio contribuire anch’io. E’ l’unico modo che ho ora per onorare la morte di Beverly e Deanna. Dare loro una degna sepoltura.» «Capisco signore» rispose freddamente Data riprendendo a scavare a mani nude. Grazie alla sua forza, l’androide riusciva ad incidere più efficacemente lo strato di terra più duro, a causa della siccità, che si trovava subito sotto pochi centimetri di sabbia. Picard invece si stava aiutando con delle pietre acuminate, sbriciolando la sabbia compatta. Avrebbero impiegato parecchio tempo, ma al momento era meglio che restarsene con le mani in mano ad attendere il ritorno di Q. 172 Un pensiero andò ancora a Geordi e Worf. Picard si domandò che situazione stessero affrontando i suoi due ufficiali. A quali prove li avrebbero sottoposti e se non avrebbe infine dovuto scavare altre due fosse per loro. Sentì ancora una volta crescere in lui la rabbia per lo stato di impotenza in cui si trovava. Completamente nelle mani di un essere come Q, capriccioso e volubile e senza una sola risposta alle sue mille domande. Aveva meditato molto su quanto stava accadendo. Lo sconcertava l’idea che ogni vita senziente della galassia, non fosse in realtà il frutto dei singoli sforzi di miliardi di esseri, spesi in miliardi di vite, caoticamente spinti verso il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita ed allargare gli orizzonti delle loro conoscenze, bensì un esperimento. Un gioco. Un divertimento di due entità superiori. Ecco cosa erano in realtà. Due entità che per millenni si erano preparate a questo scontro, di cui ora, le cavie, stavano pagando lo scotto. Picard aveva sempre considerato i Q ed il Q-Continuum come guardiani dell’universo stesso, capaci si di influenzare singoli avvenimenti della Storia, ma in fondo, essi stessi, parte del grande insieme che è il Creato. Ora la sua visione era radicalmente mutata. Ora li considerava un grande pericolo per l’integrità dello stesso Universo. Come potevano esseri che si presumesse avessero raggiunto l’onniscienza, disprezzare a quel punto la vita? Proprio loro che più di qualsiasi altra entità ne avrebbero dovuto conoscere il valore? Picard sbuffò di rabbia, affondando con maggior vigore la punta della sua roccia nel duro terriccio, che lentamente si sbriciolava. «Capitano, se permette un’osservazione, io la vedo molto inquieto. Un altro penny per i suoi pensieri» disse Data, senza interrompere le operazioni di escavazione. 173 «Come Data?» si accigliò Picard, di fronte all’insolita formulazione della domanda da parte dell’androide. «Un altro penny per i suoi pensieri, signore» ripeté subito Data. «E’ sicuro di poter pagare Data?» rispose Picard sorridendo «Intende realmente ricevere il penny capitano?» domandò ingenuamente Data. «No Data! No! Stavo soltanto scherzando» sospirò Picard battendosi agitando le mani in segno di diniego. Picard e Data rimasero in silenzio qualche istante. Entrambi smisero di scavare. E a far loro compagnia rimase solo il fruscio del vento. «Sa, signor Data, da quando ho accettato la sfida propostami da Q e abbiamo poi assistito alla seduta del Consiglio del Q-Continuum, ho un grande interrogativo che mi tormenta.» Data rimase impassibile, continuando a fissarlo. Picard lo interpretò come un assenso a continuare la conversazione. «Siamo noi veramente padroni delle nostre vite? O siamo solo dei burattini, manovrati da sapienti mani? Mi sono ritrovato a pensare che forse, tutto quello che facciamo, che abbiamo fatto e che faremo, in realtà, sarà tale solo perché così avrà voluto qualcun altro» Picard fece una pausa per inumidirsi le labbra arse dalla calura del deserto. «E se i Q hanno forse sempre controllato tutta la vita del Quadrante Alfa. Se tutto quello che abbiamo fatto nei secoli è solo il frutto di una competizione malsana fra due esseri sfaccendati» Picard volse lo sguardo a terra, scuotendo lentamente il capo. «Che senso hanno le nostre vite?» si domandò sconsolato. Data fece un leggero scatto col capo e rimase qualche istante a fissare l’orizzonte. 174 «Capitano, io credo che, per quanto i Q siano potenti, il loro controllo si fermi solo alla capacità di creare le condizioni affinché certi fatti accadano o prendano una determinata svolta. Ma credo anche che non abbiano nessun potere sulla nostra capacità di affrontare gli eventi e di, eventualmente, sovvertire il loro volere» disse senza fare una pausa. Poi riprese subito a scavare, senza attendere che il capitano accennasse una qualche risposta. «Parole di speranza, da un androide,» sussurrò Picard che poi continuò con un tono normale «forse non ha tutti i torti Data. Forse il controllo dei Q è meno invasivo di quello che sembrerebbe. Forse è per questo che li affasciniamo tanto. Per la nostra capacità di sfuggire alla logica di ogni controllo.» Le parole di Data avevano avuto la capacità di accendere una piccola fiammella d’orgoglio puramente umano nel suo cuore, e gli avevano infuso forza e determinazione. Riprese a scavare, deciso a non interrompersi più fino a che sia Deanna sia Beverly non fossero state degnamente sepolte. Forse il suo destino era già stato scritto in qualche grande libro, in un archivio del Q-Continuum, ma ora sentiva che avrebbe potuto obbligare qualche impiegato a recuperare la sua scheda ed ad apportargli delle sostanziali modifiche. Non esiste alcun destino preordinato. Noi siamo e saremo ciò che la nostra volontà, le nostre capacità, ci porteranno ad essere. E gli ostacoli che incontreremo sul cammino ci daranno forza e ci formeranno, man mano che li affronteremo. Successi ed insuccessi. Picard aggrappò tutto se stesso a questa fragile verità. «Eccoli! Sono arrivati!» esclamò il giovane Q saltando in piedi e sporgendosi dalla balaustra lignea che delimitava il palco d’onore dal resto dell’arena. 175 «Finalmente! Ora possiamo cominciare. E soprattutto finire.» «Fai preparare i tuoi sfidanti Borg! Adesso vedremo se l’Ordine batterà il Caos!» disse Q rivolto al suo sfidante. Stavolta era certo che per i droni di quello sbruffone non ci sarebbe stato scampo. La scelta di Qo’Nos come campo di battaglia apparentemente favoriva il suo avversario, ma Q aveva ben pensato di far trovare ai due tutto il necessario per abbattere degli stupidi quanto lenti droni: armi da taglio. I loro scudi, adatti solo a respingere attacchi di armi ad energia, nulla avrebbero potuto contro i colpi di bat’leth di Worf. Lo scontro sarebbe terminato presto. Ne era certo. «Ma quanti ce ne saranno?» domandò Geordi con voce tremante. L’idea di dover affrontare tutti quei droni con il solo ausilio di una vecchia lama lo stava terrorizzando. «Sono migliaia. Ma non credo siano per noi. Credo siano solo spettatori. E noi gli sfidanti» lo rassicurò il klingon poi gli fece cenno con la mano di guardare più in alto, verso quella che doveva essere una postazione privilegiata, in quanto si ergeva sopra gli altri posti a sedere, formando una quadrilatero, protetto dai raggi solari da un tendaggio color porpora e cinto da una ringhiera di legno sagomato. «E’ Q!» esclamò Worf. «Si! C’è anche il suo avversario e quel ragazzo che abbiamo visto mentre camminavamo su quel sentiero che ci ha portati fino al Q-Continuum» confermò Geordi facendo appello ad un paio di livelli di ingrandimento dei suoi impianti visivi. I due si portarono verso il centro dell’arena, sotto gli occhi assolutamente fissi nel vuoto dei droni Borg. Non si stavano minimamente curando di loro, come se fossero 176 stati collegati alle loro consolle all’interno di una comune nave cubo. «Questa atmosfera mi sta facendo venire la pelle d’oca!» mormorò Geordi, osservando preoccupato la massa informe di bioimpianti. I due si portarono fin sotto la balconata d’onore dove Q, che ora era abbigliato come un antico nobile klingon, sembrava attenderli smanioso. «Q! Si può sapere che farsa è questa? Perché ci hai fatto vagare nel palazzo?» urlò Worf per farsi sentire fin lassù. «Worf! Worf! Mio guerriero klingon prediletto!» rispose Q allargando le braccia al cielo, come un padre pronto ad abbracciare il figlio. Worf ringhiò rabbiosamente all’indirizzo di Q e strinse con maggior forza l’impugnatura della bat'leth. Se avesse potuto avrebbe piantato le sue lame fra le carni di quell’odioso essere. «Ma Worf! Non fare così. Tieni la tua rabbia da parte! Tra poco potrai dargli ampio sfogo!» replicò Q sorridente. «Che vuoi dire Q?» domandò Geordi. «Siete giunti alla seconda prova. La Prova della Forza. Dovrete dimostrare di essere fisicamente più forti e capaci dei Borg. Credo che sarà una formalità» ridacchiò soddisfatto voltandosi verso il Q-Borg. «Lo vedremo, vecchio mio! Lo vedremo presto!» rispose per nulla intimorito il suo millenario nemico. «Che dobbiamo fare Q?» le domande di Geordi non si erano ancora esaurite, visto che fino a quel momento non aveva avuto nessuna risposta. «Lo capirete presto!» esclamò il Q-Borg, il quale, subito dopo, schioccò le dita e due droni borg comparvero dal nulla, dalla parte opposta dell’arena. «Voltatevi ragazzi!» urlò come un isterico Q. Era nervoso. Nervoso come mai, né Worf né Geordi, 177 l’avevano visto. Il che, pensò Geordi, era assai poco rassicurante. «E ora?» continuò a domandarsi Geordi. «Non hai compreso Geordi? Prova della Forza. Queste bat’leth. Ecco perché Q ci ha fatto vagare nel palazzo. Per farci trovare queste. Sapeva che io le avrei portate con me. Abbiamo un grande vantaggio sui Borg» spiegò Worf, il cui respiro si era fatto più accelerato. I suoi occhi erano in fiamme e il sangue bollente. Il richiamo della battaglia era codificato nei suoi geni e tutti i muscoli del suo corpo, allenati da anni di esercizi e dai programmi olografici di callistenia, erano tesi e pronti allo sforzo. Geordi invece sentì solo l’adrenalina aumentargli in dosi insopportabili in tutto il corpo, mentre gocce di sudore freddo lentamente scendevano dalle tempie. «Dobbiamo batterci con quei due droni?» Geordi indicò i due rappresentanti dei Borg, che con il loro passo lento e ondeggiante, si muovevano verso di loro, mentre il puntatore ottico cercava di inquadrarli. «Non preoccuparti. Posso fare da solo» disse sommessamente Worf. Un istante dopo era scattato verso i due poveri droni che nulla avrebbero potuto contro i colpi delle lame klingon. Non ci vollero più di trenta secondi. Worf decapitò il primo con un colpo netto e finì il secondo con una serie di colpi al busto. Caddero a terra senza fiatare, da buoni droni, senza avere il tempo di abbozzare una minima reazione mentre Worf rimase sopra di loro con la bat’leth in pugno a contemplare la sua vittoria. «Abbiamo vinto!» esultò l’allievo di Q compiendo un primo balzo a braccia aperte, facendone seguire altri più contenuti sul posto. «Vittoria! Vittoria! Li abbiamo stracciati!» continuò il giovane, entusiasta per lo spettacolo a cui aveva appena 178 assistito. «Controllati!» lo rimproverò subito Q «Un minimo di comprensione per i perdenti!» Q fece seguire alla sua affermazione una grassa quanto assordante risata. Poi si rivolse al suo avversario di sempre con tutta l’intenzione di sbeffeggiarlo a dovere: «Allora amico mio? Che ne dici? Possiamo affermare che la Seconda Prova è terminata? Terminata come i tuoi irresistibili quanto ordinati droni borg?» Il Q-Borg era rimasto impassibile di fronte alla infausta sorte che era toccata ai suoi campioni. Come se, quanto era appena accaduto, non lo tangesse minimamente. «Direi di no Q» ribatté tranquillo. Q si accigliò. Il suo nemico era troppo sicuro. Si cominciò a chiedere se avesse trascurato qualche dettaglio, tale da permettere al Q-Borg di potersi appigliare all’esito della sfida. «Vedi Q,» continuò il Q-Borg «in cambio della tua scorrettezza durante la Prima Prova, ho fatto una piccola richiesta al Consiglio del Q-Continuum. Un piccolo risarcimento per il danno subito. E non hanno potuto fare a meno di considerare che era una più che lecita richiesta.» «E con questo?» lo interruppe Q, dalla cui bocca era scomparsa ogni traccia di sorriso. «E con questo, ho ottenuto, per questa prova, di utilizzare non solo quei due miseri droni, che il tuo prode klingon ha macellato, ma tutti quelli che erano riusciti a riprodursi durante la Prima Prova.» Sul volto del Q-Borg comparve un sorriso beffardo. «Guardali. Sono li, sulle tribune» concluse soddisfatto. «Ma! Ma! Ma!» Balbettò Q «Tutto questo non è possibile! E’ ingiusto! E’ irregolare! Farò ricorso!» sbraitò Q. 179 «Lamentati pure Q. Mentre tu vai a chiedere lumi, io resto qui a godermi la sconfitta dei tuoi umanoidi!». Q strinse rabbiosamente i braccioli dello scranno ligneo su cui sedeva. «Che tu sia maledetto!» imprecò poi chiamò a se il suo allievo e gli ordinò di recarsi presso il consiglio e di chiedere conferma di tale decisione di cui lui non era stato informato. Il fanciullo scomparve nel nulla. Quando Worf e Geordi si riportarono sotto la balconata videro il ragazzo ricomparire alle spalle di Q e mormoragli qualcosa nell’orecchio sinistro. E poi videro Q impallidire. «Allora Q! Abbiamo sconfitto i Borg! Abbiamo vinto la Prova!» esclamò Worf, reclamando la sua vittoria. Q si alzò in piedi e appoggiandosi alla balaustra si sporse verso i due federali. «C’è una piccola novità ragazzi. La prova non è ancora terminata. Resta ancora qualche dettaglio, minimo direi...» disse con voce tremante. «Ovvero?» domandò Geordi. «Ovvero questo!» si intromise il Q-Borg schioccando le dita. Improvvisamente il pubblico di droni borg che fino a quell’istante aveva assistito nella più completa indifferenza, si animò e l’aria si riempì del ronzio sinistro di un migliaio di meccanismi che entravano in funzione. E un migliaio di laser rossastri si concentrarono su Worf e Geordi, inondandoli di una luce infernale. 180 CAPITOLO 19 Erano trascorsi un paio di giorni da quando Riker e Vovelek erano giunti nella piccola oasi, situata nel mezzo di uno vasto deserto sabbioso, situato anch’esso nel mezzo di chissà quale continente di uno sconosciuto pianeta, su cui avevano avuto la sfortuna di precipitare con una delle capsule di salvataggio della Uss Pioneer. Riker si era quasi completamente ripreso, reidratandosi grazie alle preziose riserve d’acqua dell’oasi e ad esclusione di alcune fastidiose scottature sul viso, in particolare guance e labbra, si sentiva in perfetta forma. Naturalmente continuava ad essere limitato dalla perdita subita al braccio destro, dopo la terribile battaglia di Kaatana. Aveva comunque fatto il possibile per aiutare Vovelek nella costruzione di un riparo di fortuna, utilizzando rami secchi e le larghe foglie di una particolare forma vegetale che Riker mai aveva visto prima. Insieme avevano dedicato gran parte del loro tempo all’esplorazione dell’oasi, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse sembrare anche lontanamente utile. Verso nord, l’oasi abbondava di piante da frutto, una specie di piccola bacca di colore scuro, che a Riker ricordava l’acino dell’uva terrestre, la quale, per loro fortuna, si era rivelata commestibile ed anche sufficientemente nutriente. Vovelek però riteneva nocivo cibarsi sempre e solo dello stesso frutto, in quanto era assai improbabile che contenesse tutte le sostanze di cui necessitavano per sopravvivere, per cui ritenne logico tentare di trovare altre fonti di nutrimento. In particolare si dedicò alla ricerca di radici ed insetti e soprattutto questi ultimi furono motivo di una accesa discussione fra 181 i due naufraghi, circa il ribrezzo istintivo, provato da Riker, verso tali esseri. Naturalmente Vovelek giudicò illogico ed infantile tale pregiudizio, affermando che in una situazione di emergenza non poteva esserci spazio per l’irrazionalità, pena il mancato raggiungimento dello scopo della sopravvivenza. Riker, che si aspettava tali osservazioni, si era limitato ad ascoltare le parole del vulcaniano, senza mai interromperlo, salvo poi, quando ebbe finito, scuotere le spalle e come un bambino capriccioso, ribadire la sua assoluta intenzione di evitare di cibarsi di insetti, fino a che non si fosse rivelato strettamente necessario. Riker ricordava ancora la spiacevole sensazione che gli aveva lasciato il gagh klingon, assaporato a bordo dell’incrociatore klingon Pagh, durante una missione di scambio fra federazione ed impero Klingon. Vovelek aveva lasciato cadere la discussione, conscio del fatto che gli umani sanno essere testardi quanto emotivi. Già in passato, a bordo della Pioneer, aveva avuto occasione di imbattersi in questa deprecabile, in quanto legata esclusivamente a fattori emotivi, avversione per certe fonti di nutrimento. La convivenza si stava rivelando difficile. Entrambi dotati di un carattere forte e abituati al comando e divisi da una antica rivalità, che da quando era avvenuto il primo contatto, più di trecento anni prima, serpeggiava non dichiarata fra Vulcaniani e Terrestri. La Flotta Stellare prima e la Federazione successivamente, avevano contribuito a trasformare e contenere questa rivalità in spirito di collaborazione ed emulazione, che aveva portato gli umani a porre freno ai loro istinti più barbari ed a crescere sia sul piano tecnologico sia su quello sociale. I Vulcaniani, dal canto loro, nei secoli avevano perso quella iniziale diffidenza verso gli umani e le loro incontrollate emozioni e molti di 182 loro iniziarono a lavorare stabilmente a fianco dei terrestri, e grazie anche alla Flotta Stellare e i matrimoni misti diventarono meno infrequenti. Anche se nella maggior parte dei casi, erano sempre maschi vulcaniani a scegliere donne terrestri, affascinati dalla forza e dalla dolcezza di cui erano capaci. I maschi terrestri, invece, trovavano le donne vulcaniane troppo fredde e distaccate, anche se comunque, alcuni rari casi si erano verificati. Prima che i Borg arrivassero nel quadrante Alfa, esistevano, su entrambi i pianeti, Vulcano e la Terra, movimenti xenofobi, fortunatamente dallo scarso seguito, che proponevano entrambi, l’abbandono della Federazione Unita dei Pianeti e una maggiore restrizione degli scambi culturali fra le varie razze del quadrante. Nonostante tanta conoscenza e tecnologia, per alcuni, fortunatamente sempre meno, la paura del diverso era l’unico motore della vita. Riker faticava sempre più a sopportare l’arrogante spocchia con cui lo trattava Vovelek, nonostante stesse facendo appello alle sue riserve di umorismo, unica arma che aveva a disposizione contro la logica schiacciante dei pensieri del vulcaniano. Vovelek pareva appunto soffrire per l’acutezza e la sfrontatezza delle battute di Riker a cui non poteva opporre una difesa valida come quella di un umano: il riso. Le conversazioni fra i due spesso finivano con il precipitare nel surreale, con Vovelek intento a mantenere una rotta di pensiero uniforme e Riker ad interromperlo con osservazioni fuori luogo, battute e quanto altro, che sperava, avrebbero potuto indurre il vulcaniano ad una reazione emotiva di qualche tipo. E quella sera si ritrovarono entrambi vicini al piccolo fuoco, che faticosamente tenevano acceso, anche durante il giorno, dandosi il cambio. 183 Come in ogni buon deserto che si rispetti, di notte le temperature precipitavano bruscamente. E anche quella sera la loro cena consisteva di bacche. Solo Vovelek stava sperimentando alcune radici. «Domani servirà altra legna. Ho intravisto un arbusto privo di vita al confine est dell’oasi» «Bene, allora io andrò a prendere l’acqua» disse Riker. Vovelek alzò lo sguardo verso l’umano e proseguì «lei andrà a recuperare la legna e poi anche l’acqua. Io domani continuerò la mia ricerca di cibo. Sono a buon punto, credo che queste due in particolare siano commestibili e digeribili. Almeno per uno stomaco vulcaniano» disse indicando due radici dal colore violaceo che stavano avvolte in una foglia verde. «Capisco. Mi fa piacere vedere che come al solito ha preso ogni decisione senza consultarmi» commentò stizzito Will. «Lei domani ha di meglio da fare?» fu la reazione di Vovelek. «Si. Ho una appuntamento con la mia ragazza. Se vado a prendere la legna e poi anche l’acqua, arriverò tardi. E sa, le donne è sempre meglio non farle aspettare» ammiccò Riker. Vovelek lo guardò fisso solo un istante, poi riprese ad esaminare le radici e disse «è difficile dialogare con lei. Da quando siamo qui mi sto costringendo a seguire il senso dei suoi motti di spirito. Ma non ve ne trovo alcuno.» «E’ difficile anche per me. Non sono abituato a lavorare con chi si arroga il diritto di prendere decisioni anche per gli altri.» «Lei ha sempre avuto l’abitudine, in qualità di primo ufficiale, di discutere gli ordini del suo capitano?» domandò Vovelek. 184 «Quando l’ho ritenuto giusto, l’ho fatto. Ma questo non cambia le cose,» e qui Will fece una pausa, pronto a ricordare a Vovelek la loro parità di grado «lei non è il mio capitano.» «Questo corrisponde a verità. Ma sono l’ufficiale più anziano e il regolamento della Flotta conferisce a me il comando.» Riker rimase in silenzio qualche istante, meditando la risposta. «Lei è più anziano solamente perché è vulcaniano. Quello che contano sono gli anni di effettivo servizio. E i miei sono più dei suoi.» Vovelek era entrato nella Flotta soltanto da nove anni. Anche se in un lasso di tempo così breve, già aveva raggiunto il grado di comandante. «Non mi pare che il regolamento della Flotta parli di anzianità di servizio» chiuse subito la questione Vovelek. «Un errore nel regolamento. Non trova?» continuò sarcastico Riker «La logica suggerirebbe di dare priorità all’anzianità di servizio.» «E’ evidente che tale sezione del regolamento non è stato scritta da vulcaniani.» «E’ evidente!» ridacchiò Riker «Se il regolamento fosse stato scritto interamente da vulcaniani, come primo articolo avremmo il divieto assoluto ed imperativo per gli umani, di fare parte della Flotta Stellare!» Vovelek rimase impassibile e poi aggiunse: «Se mai riusciremo a lasciare questo pianeta, mi ricorderò di proporlo alla Commissione Regolamenti della Flotta.» Riker rimase di stucco. Vovelek stava dicendo sul serio, o stava assistendo ad una nuova nascita, il parto di un primo abbozzo di vero, sano autentico umorismo vulcaniano? Era troppo stanco per trovare una risposta. Si accucciò sul giaciglio di fortuna che si era costruito e chiuse gli occhi, 185 attendendo che il sonno e magari un bel sogno, venissero a portarlo via. Più di un migliaio di droni si stavano lentamente muovendo verso di loro, scavalcando il parapetto che separava le tribune dall’arena. In alcuni punti, causa la pressione esercitata dalla massa dei droni, lo sbarramento ligneo cedette di schianto. Ben presto sarebbero stati circondati e li avrebbero avuti addosso. Erano troppi per poter sperare di batterli, prima o poi uno di loro sarebbe riuscito ad iniettare nelle loro carni le temibili nanosonde che danno l’avvio al processo di assimilazione e non ci sarebbe stato più scampo. Worf e Geordi si misero con le spalle contrapposte e le rispettive bat’leth pronte a colpire. «Q! E questi sarebbero i piccoli dettagli? Un mucchio di piccoli dettagli!» urlò in direzione della balconata Geordi. Q, sinceramente costernato ed assolutamente impotente, non ebbe la forza di replicare. Inebetito si lasciò cadere mollemente sulla poltrona d’onore, certo ormai della sconfitta. Nemmeno il seppur valoroso Worf avrebbe potuto abbattere tutti quei droni. Non tutti insieme. Poggiò il capo ad una mano e chiuse gli occhi, augurandosi che lo strazio durasse il meno possibile. Il suo allievo, invece era ancora più eccitato. Affascinato dallo spettacolo si era spostato dalla balconata ad un punto imprecisato sopra le teste dei due umanoidi, sospeso nell’aria. «Che facciamo? Sono troppi per noi!» gridò Geordi. «Combattiamo! Fino alla morte! Moriremo con onore!» gli rispose un infervorato Worf, che vedeva avverarsi uno dei suoi sogni di morte proibiti. Affrontare da solo un’orda di nemici a colpi di bat’leth. 186 «Bella prospettiva! Non è che avresti una soluzione alternativa? Io non ci tengo così tanto a crepare!» «Non c’è alternativa migliore di morire in battaglia!» «Fantastico. Oggi avrei fatto meglio a restarmene nel mio alloggio!» ironizzò amaramente Geordi. Ma Worf già non lo stava più ascoltando. Facendo roteare la lama della sua bat’leth da sinistra verso destra fendeva l’aria pronto a colpire i droni che ormai erano a pochi metri da loro. Da quando era iniziata l’invasione, Worf non aveva aspettato altro che un momento come questo. Vendicare finalmente tutte quelle morti innocenti, assimilate al collettivo Borg. Vendicare la distruzione dell’unica istituzione in cui avesse mai veramente creduto: la Federazione Unita dei Pianeti. Vendicare il saccheggio che i Borg stavano compiendo a danno dei pianeti natali delle razze principali che un tempo componevano lo scacchiere politico del quadrante Alfa tra cui il suo amato Impero Klingon. Vendicare la fine dell’universo così come, fino ad allora, lui l’aveva conosciuto. Conscio che mai più sarebbe stato come prima. Sentiva dentro di sé una rabbia ed un desiderio di vendetta tale da sentirsi pronto ad affrontare tutti i Borg della Galassia uno ad uno. «Ci sono addosso!» urlò Geordi preparandosi a colpire. Worf si scagliò in preda ad una furia cieca contro la massa informe di carni assimilate e congegni biomeccanici che gli sbarravano la strada, affondando con tutta la sue energia le lame acuminate della sua bat’leth in tutto ciò che incontrò sulla sua strada. Parti di droni si staccarono di netto dal corpo del loro proprietario, volando in aria, seguite da fiotti di quello che poteva essere definito come il sangue dei Borg, ovvero una specie di linfa vitale di colore grigiastro. Continuò a colpire senza badare troppo né al bersaglio, né 187 alla sorte di esso. Doveva solo fare attenzione a tenerli alla debita distanza, evitando di entrare in contatto con i loro pericolosi uncini, da cui sarebbero fuoriuscite le nanosonde programmate per l’assimilazione. Ben presto si rese conto che stava faticando a reggersi in piedi, a causa dei droni caduti a terra che occupavano ormai buona parte della porzione di arena che era riuscito a guadagnarsi. In più, il fondo era diventato estremamente scivoloso a causa delle fuoriuscite copiose di liquido vitale borg. Fu quindi costretto ad arretrare lentamente cercando con le spalle e con la coda dell’occhio Geordi. Lo sapeva dietro di se a coprirgli le spalle. O almeno cosi credeva. Ma si rese conto presto di essere stato completamente circondato dai numerosi droni, che minacciosi continuavano a tendere i loro biomeccanismi contro di lui. - Dov’è finito Geordi? - Riuscì a trovare il tempo di domandarsi il klingon. Senza smettere di colpire tutto ciò che si avvicinava nel suo raggio d’azione, Worf cominciò a roteare su se stesso, cercando, oltre la massa di droni che gli si parava davanti, di individuare il suo compagno. «Geordi! Geordi!» urlò, sperando di udire una risposta. Ma non ne arrivò alcuna e di conseguenza continuò a sferrare pesantissimi e mortali fendenti, tentando di mantenere una posizione relativamente sicura, nel mezzo di quella confusa concitazione. Geordi era caduto? Assimilato? Worf decise che doveva trovarlo ed aiutarlo. Sicuramente meno forte ed allenato di lui, l’umano stava sicuramente avendo delle difficoltà a maneggiare l’antica ma pesante arma klingon. «Geordi! Dove sei!» urlò ancora Worf ansimante per lo sforzo, che stava cominciando ad intaccare le sue energie. 188 Una debole risposta emerse dalla confusione. «Worf! Aiutami! Worf!» Il klingon, come una furia, mise da parte la stanchezza e si lanciò in direzione di quel disperato grido d’aiuto e come un esploratore si apre la strada nella foresta a colpi di machete, così lui si fece strada fra i droni Borg, sferrando violentissimi colpi e squarciando decine di corpi. Finalmente riuscì a scorgere Geordi, in evidente affanno, sfinito dalla battaglia corpo a corpo. Ma era ancora troppo lontano e troppi borg si frapponevano fra lui e il suo compagno. E per quanti ne abbattesse, altri ancora venivano a sostituire le perdite ed il muro informe di droni, pareva essere diventato insuperabile. Worf, pur continuando a difendersi, continuava a tenere d’occhio il compagno, sempre più al limite delle sue forze, tentare di proteggersi dalla minaccia. Ma la sua tecnica di combattimento con la bat’leth era assolutamente inefficace. Si limitava ad usarla come se fosse stata un bastone o una semplice spada. Così i suoi colpi ottenevano solo l’effetto di stancarlo senza però riuscire a ferire mortalmente i droni. «Worf!» gridò ancora Geordi. E Worf, a pochi metri da lui, ma incapace di raggiungerlo, percepì tutta la disperazione del suo compagno. E comprese che non ce l’avrebbe fatta. Geordi, esausto lasciò cadere la bat’leth a terra. Rimase in piedi, inebetito ad osservare i droni che gli si avvicinavano, fino a che uno di loro non lo afferrò saldamente per il collo e sollevandolo da terra gli infilò sotto la pelle del collo un dispositivo addetto alle operazioni di assimilazione. Geordi ebbe la forza di rivolgere un ultimo sguardo al compagno, prima di essere assalito dalle convulsioni provocate dal processo di assimilazione. 189 «Geordi!» urlò Worf, impotente spettatore e come conseguenza dell’assimilazione del suo compagno, aumentarono in lui la rabbia e la determinazione. Intonò un antica canzone di guerra klingon per infondersi coraggio e con la forza di cento guerrieri e la rabbia di una vita intera, si gettò sui droni Borg in preda alla furia più cieca. Ma erano ancora centinaia e spingevano uno sull’altro, privi di una coscienza individuale, privi di paura o di pietà, come automi governati da un’unica mente, con l’unico scopo, l’unico di tutta una razza, di aggiungere le peculiarità di Worf a quelle del Collettivo. Dopo quasi un’ora a Worf cominciarono a mancare le forze e i droni si fecero sempre più vicini. Non aveva nemmeno più il fiato per urlare, stava centellinando gli sforzi, conscio di essere vicino al limite. L’arena si era trasformata in una pozzanghera di linfa borg e non ci si poteva più muovere liberamente, senza inciampare in qualche corpo mutilato dalle lame di Worf. «Ma non finiscono mai!» imprecò Worf, il cui valoroso cuore, stava cominciando a cedere alla desolazione. Vicini, sempre più vicini. Troppo. Il klingon avvertì un pizzico ad un avambraccio. Si voltò di scatto, facendo a pezzi il drone responsabile. Ma un istante dopo percepì dentro di sé una forza estranea, che si stava insinuando fra i sui visceri. Strinse i denti e continuò a combattere. Dopo aver sferrato pochi colpi ancora, privi di forza, il suo corpo fu scosso da violente contrazioni e la bat’leth gli sfuggì di mano. Tentò di raccoglierla, ma finì con lo sbilanciarsi ed il cadere a terra. E i droni gli furono addosso a decine. 190 CAPITOLO 20 Q era rimasto solo. Le palpebre serrate e il capo poggiato ad una mano, incapace di sostenersi. Con la mano rimasta libera, giocherellava con il bordo vellutato del manto di antica tessitura klingon. Nell’arena regnava un silenzio spettrale, rotto qua e la dal fremito di alcuni meccanismi, ormai privi del controllo del collettivo. A terra giacevano decine e decine di droni, privi di vita, pesantemente mutilati dai colpi della bat’leth di Worf, in parte affondati nell’impasto formatosi dall’unione della sabbia e il loro stesso fluido corporeo. I loro occhi erano vitrei, spenti, persi nel nulla. I servomeccanismi privi di energia e controllo emettevano flebili scariche, là dove le lame avevano causato dei corto circuito. Le tribune, prive di spettatori, facevano da contorno a quel macello e parevano partecipare alla desolazione, nascondendosi nell’ombra che l’antico palazzo di pietra, gettava su di loro. La giornata era al termine su Qo’Nos. Un altro giorno in cui una piccola parte del pianeta era stata privata di vita dagli impianti Borg. E l’acre odore dell’ammoniaca, prodotta da essi, invadeva lentamente la già povera atmosfera, sostituendosi all’ossigeno. Pochi mesi ancora e del pianeta natale di una delle forme di vita più gloriose e forti dell’Universo, non sarebbe rimasto che un pallido ricordo. Sempre che fosse rimasto ancora qualcuno per ricordare. Q scosse il capo lentamente. Poi aprì gli occhi e rimase ad osservare, per la centesima volta, quanto si presentava davanti a lui. E per la centesima volta soffermò la sua attenzione sui corpi privi 191 di vita del capo ingegnere dell’Enterprise, Geordi La Forge e sul klingon Worf. Entrambi giacevano a terra, confusi fra gli altri droni. Le uniformi stracciate ed intrise di fluido, i corpi contorti in un ultimo spasmo disperato, nell’inutile tentativo di contrastare il rapido operato delle nanosonde. La loro pelle, normalmente dalla pigmentazione scura, ora appariva grigiastra e sul volto erano comparsi i segni di un inizio di assimilazione. Meccanismi che dall’interno si erano aperti un varco, fuoriuscendo a ridosso della cute, come fiori in un prato. E a Q si strinse, per la centesima volta, lo stomaco. Avrebbe potuto far svanire quell’orribile sensazione di nausea all’istante, abbandonando la forma umana e magari trasformandosi in un uccello. Che lo potesse, con ampi colpi d’ala, portare via di li. Ma qualcosa che si avvicinava pericolosamente al senso di colpa, alla vergogna ed al desiderio di punirsi per quanto era accaduto, gli impediva di agire. Per la prima volta, da quando la sua infinita sfida era iniziata, si rese conto di avere paura di perderla. Per millenni aveva giocato le sue carte, libero di fare appello a tutte le sue capacità ed era sempre riuscito a contrastare le mosse del suo avversario, a volte con superbe trovate, altre volte con miseri trucchetti. Neppure per un istante, era sorto in lui il benché minimo dubbio relativamente a quello che sarebbe stato l’esito finale. Si rese conto che mai in vita sua, e la sua era stata una vita lunga visto che non ricordava che avesse mai avuto un inizio, aveva provato vera paura. Nemmeno quando, per un breve periodo, il Q-Continuum lo aveva privato delle sue capacità superiori, relegandolo stabilmente alla forma umana. Anche in quell’occasione funesta, era sostenuto dall’assoluta convinzione che in nessun caso, il Q192 Continuum l’avrebbe veramente lasciato in quelle misere condizioni di umano mortale, per più di qualche giorno terrestre. E soprattutto, per la prima volta, si trovò realmente a dipendere da qualcuno che non fosse il proprio capriccio. Tutte le sue possibilità erano riposte nella terza ed ultima prova. Tutto sarebbe dipeso dall’esito di quella che era la più complessa e difficile di tutte. La Prova della Conoscenza, così era chiamata e mai fino ad allora era stata disputata da alcun essere vivente. Tanto che nemmeno Q ne conosceva tutti i dettagli approfonditamente. Solo il Consiglio del Q-Continuum deteneva il segreto dell’ultima prova. E questo non faceva che aumentare la sua incertezza. Che ironia! Concluse dentro se quasi divertito. Il grande Q in balia del Caos. Costretto ad affidarsi alle misere capacità di un altrettanto misero essere vivente. Un limitato, fragile, sciocco umano di nome Jean-Luc Picard. E del suo amico androide Data, macchina imperfetta, creata da esseri ancora più imperfetti con la sua programmazione distorta, che lo aveva sempre spinto verso la ricerca dell’umanità, ne erano la prova lampante. Dove sarebbe finito l’Universo di questo passo, si domandò facendo appello a tutta la sua arroganza. Ma subito si pentì dei suoi pensieri e si sentì meschino ed irriconoscente, vero gli ufficiali dell’Enterprise che erano morti nel tentativo, in fondo, di aiutare anche lui. Riaprì nuovamente gli occhi. I corpi martoriati di Geordi e Worf erano ancora al loro posto, immobili, con gli sguardi persi nel nulla. Provò sincera ammirazione per come si erano battuti, per il coraggio e la determinazione, anche di fronte ad un nemico soverchiante. E invidia. Sottile, pungente ma innegabile invidia, per quel qualcosa di indefinibile che era insito in tutte le 193 specie di umanoidi della galassia, che fin dagli albori delle loro specie, sparse su decine di pianeti, lo aveva affascinato, portandolo a seguire, man mano nel corso di milioni di anni, sempre più da vicino, l’evolversi delle loro civiltà. All’inizio si era limitato all’osservazione pura e semplice. Ma poi, mano a mano che l’evoluzione procedeva, sentì il bisogno di confrontarsi con loro, più e più volte, mettendoli alla prova di fronte a fenomeni ignoti, cercando di costringerli a situazioni estreme, nel sempre più disperato tentativo di cogliere quel particolare che ancora a tutt’oggi non sapeva di preciso definire. Fino a che non aveva incontrato, per puro caso, l’Enterprise, nei pressi di Farpoint. E il suo capitano. Aveva compreso più sugli umani nei pochi incontri con il capitano dell’Enterprise che in millenni di osservazioni. Quell’uomo pareva essere la raffigurazione vivente di quell’inafferrabile quid, portatore sano del virus dell’umanità. Forse l’unico che avrebbe mai potuto svelargli il segreto che era divenuto ormai ossessione vera e propria. Il sole era ormai praticamente tramontato e le ombre dell’antico palazzo di K’tal D’ar Nek si erano impossessate dell’arena, delle sue tribune, del palco d’onore e delle anime di tutti coloro, che nei secoli erano periti in formidabili duelli, per il divertimento di re e regine klingon. Quello che si era svolto oggi, concluse Q, era stato l’ultimo duello che quell’arena avrebbe mai più visto. Forse il più glorioso di tutti, ma che, purtroppo, si era concluso con la vittoria dei Borg. Pessimo presagio. Le prime stelle apparvero nel cielo sempre più scuro di Qo’Nos e Q si perse ad osservarle, attendendo di trovare la forza di raccogliere i corpi di Worf e Geordi e di portarli a Picard. 194 E in lontananza il ritmico pulsare degli impianti produttivi Borg, a ricordare che presto, quel cielo stellato, sarebbe stato coperto da nubi di metano ed ammoniaca. Quando Riker si svegliò, i primi raggi del sole, facevano capolino oltre le dune più lontane ad annunciare l’imminenza di un nuovo giorno. Era solo. Vovelek doveva già essersi alzato e ora era sicuramente da qualche parte nell’oasi, alla ricerca delle sue radici. Stava perdendo colpi, se un dannato vulcaniano riusciva ad allontanarsi senza che lui se ne accorgesse. Si ripromise, per i giorni successivi, di non permettersi più una simile leggerezza. Il sonno pesante era riservato ai periodi di pace. La pace. Un termine che per Riker pareva aver perso ogni significato, dopo avere visto gli orrori di una guerra contro un nemico che non si può sconfiggere. Il fuoco era ormai limitato a poche braci e se non si fosse sbrigato ad aggiungere qualche pezzo di legno, si sarebbe spento inesorabilmente. Will si preoccupò che ciò non avvenisse, dopodiché si recò presso il piccolo stagno, presente al centro esatto dell’oasi, ove si rinfrescò rapidamente. Una semplice operazione, come lavarsi il viso, diventava piuttosto complessa qualora si fosse stati dotati di un braccio solamente. Rimase qualche istante ad osservare la porzione di cielo, azzurro come quello delle favole, che si poteva intravedere attraverso il fitto fogliame della vegetazione dell’oasi. Ogni tanto lo faceva. Rivolgeva lo sguardo verso l’alto, sperando di intravedere la sagoma di una navetta della Flotta, venuta in loro soccorso. Ma purtroppo ogni logica era contro tale speranza. Se la squadra di navi che aveva il compito di dirottare i cubi Borg, attirando la loro attenzione, aveva avuto 195 successo, ora stava riunendosi al gruppo principale. Se invece la missione era fallita, erano sicuramente stati spazzati via. E ora Picard e L’Enterprise se la stavano vedendo con la piccola ma invincibile flotta Borg. Di sicuro non avrebbero perso del tempo prezioso alla ricerca dei possibili superstiti della Uss Pioneer. Tornò ad abbassare lo sguardo, cercando di scacciare anche i pensieri più tristi. Aveva un compito da svolgere e anche se non era di grande impegno, lo avrebbe svolto al massimo. D’altronde non aveva altro da fare di meglio. Si recò nella zona in cui Vovelek gli aveva indicato la presenza di un arbusto oramai privo di vita, che si prestava a fornire una piccola riserva di legna da ardere, che li avrebbe scaldati per la notte seguente. Prese la piccola accetta pieghevole che era parte della dotazione d’emergenza della capsula e si incamminò, verso il limite della vegetazione. Durante il breve tragitto si guardò intorno alla ricerca di Vovelek, ma evidentemente era in un punto distante. Riker se lo immaginò chinato a terra intento a scavare piccole buche nella sabbia umida, alla ricerca di radici e piccoli lombrichi. Ed ad assaggiarli, cercando con il solo aiuto del gusto, di comprendere quali sostanze nutritive potessero fornire. Lui preferiva spaccare legna, come spesso aveva fatto da ragazzo, in Alaska, quando suo padre Kyle lo mandava nei boschi, durante le brevissime estati artiche, a fare abbondante scorta per l’inverno, che invece sarebbe stato molto lungo e gelido. Riker rammentò l’assurda mania del padre, di scaldare la casa in cui vivevano, principalmente con l’uso di combustibili naturali. Tutte le altre famiglie facevano largo uso dei normali generatori per uso domestico, concedendosi la comodità di una casa calda anche quando le condizioni atmosferiche erano critiche, come a volte capitava in Alaska, dove tormente di neve potevano durare anche una 196 settimana. Invece, a casa Riker, lui e suo padre vivevano soli, facendo uso di quanta meno tecnologia possibile. Se sua madre non fosse morta così presto, forse avrebbe impedito a suo padre di sottoporre anche il piccolo William a certe privazioni. Ricordava ancora le notti passate sotto uno strato di spesse coperte di lana locale, con la pelle del viso che si screpolava per il freddo intenso, che il seppur grande camino e le stufe, di cui era dotata l’abitazione, non riuscivano a mitigare sufficientemente. Non era insolito, il mattino, trovare dei piccoli e luminescenti ghiaccioli, pendere dai serramenti in alluminio. A scuola era spesso deriso dai compagni di classe, che lo consideravano alla stregua di un abitante delle foreste, ovvero di quelle tribù di razza mongola che da millenni abitavano l’Alaska e le terre del Canada settentrionale, rifiutando la tecnologia, avendo scelto di preservare le loro antiche tradizioni nonché di sopravvivere facendo appello solamente alle risorse della natura. Ogni volta, che il piccolo William si era lamentato della loro condizione, Kyle lo aveva rimproverato per la sua debolezza, mostrandosi deluso per la sua incapacità di essere al suo livello, che invece amava quelle condizioni così dure, in un’epoca di comodità tecnologiche. Tutto questo non aveva fatto altro che acuire l’odio di William verso il padre, oltre alle decine di incontri di anbo-jytsu da cui era uscito sempre sconfitto. E ci sarebbero voluti anni, prima che i due tornassero a parlare e capirsi. Suo padre ora era morto. La colonia su cui si era stabilito, cessato il suo incarico di consigliere civile, era stata distrutta dai Borg, due mesi prima. Ora, probabilmente, era stato ridotto allo stato di misero drone senza 197 coscienza, oppure, se era stato più fortunato, era stato semplicemente ucciso. Così sperava Riker. Si rammaricò di non essere mai andato a trovarlo, nonostante Kyle lo avesse invitato più volte. Ora era troppo tardi e restava in lui una profonda amarezza, per tutto quell’amore che non aveva ricevuto e che non aveva saputo dare. Raggiunse il bordo ultimo dell’oasi, la dove la vegetazione, da fitta e lussureggiante, come se fosse stata tagliata da un invisibile coltello, si diradava bruscamente, lasciando spazio solo alla sabbia del deserto ed alle mutevoli dune. L’arbusto rinsecchito era li, che lo guardava, attendendo di essere fatto a piccoli pezzi, facili da trasportare. Riker si mise di buona lena, ma potendo fare affidamento solo su un braccio, si trovò in difficoltà nell’affondare i colpi d’accetta, tanto che dovette interrompere l’operazione per studiare un metodo più efficace. Si dovette aiutare con le gambe e riuscì lentamente ad incidere la dura corteccia. Dopo un paio d’ore aveva ridotto l’arbusto in piccoli pezzi, lasciando nella sabbia un moncherino a ricordo di quello che era stato, in un recente passato, un piccolo albero. Era intento a legare i piccoli ciocchi di legno con della corda, anch’essa parte del kit di sopravvivenza, quando con la coda dell’occhio vide il cielo striarsi di bianco e subito seguì un rumore simile ad un sibilo. Si voltò di scatto e vide una netta scia biancastra segnare l’azzurro e puntare verso il basso, fino a scomparire addietro le dune. Era il segno evidente degli scarichi di un mezzo di trasporto d’aria, che era rapidamente atterrato poco distante. 198 Purtroppo non aveva potuto identificare il tipo di velivolo, ma non si perse d’animo. Lasciò perdere le fascine di legna e cominciò a correre verso il centro dell’oasi, verso il campo di fortuna, per recuperare il comunicatore d’emergenza, che avrebbe segnalato la loro presenza, nel caso in cui si fosse tratta di una squadra di soccorso sulle loro tracce. Stava correndo a perdifiato, quando dal fogliame fece la sua apparizione improvvisa Vovelek, spaventando Riker che si arrestò di colpo. «Una navetta! Laggiù dietro le dune!» balbettò ansimando per lo sforzo l’umano. «Ho visto. Mi stavo recando a prendere il comunicatore d’emergenza» disse Vovelek, senza lasciar trasparire nessuna reazione per l’arrivo dei soccorsi. Riker annuì e riprese il cammino superando il vulcaniano. Raggiunse per primo il campo e mise a soqquadro il kit d’emergenza alla frenetica ricerca del comunicatore. Lo accese, e sul piccolo display si accese un punto rosso. La loro posizione. Pochi secondi dopo un punto blu, comparve a poca distanza. E il segnale fu riconosciuto come un transponder della Flotta. Era una navetta della Flotta, non vi erano dubbi. Il cuore di William si riempì di speranza. Contro ogni aspettativa erano tornati indietro a recuperarli. Quindi la missione era riuscita e le navi Borg erano state seminate. Prese con sé solo due borracce ricolme d’acqua e tornò sui suoi passi. Vovelek lo attendeva ai margini della vegetazione e stava osservando la scia di vapore, dissolversi lentamente nell’aria. «Sono a circa cinquecento metri da qui, oltre quella duna!» disse Riker in preda ad una comprensibile eccitazione, indicando con l’indice la cima della duna e poi il comunicatore. 199 «Ecco, ho preso due borracce. Andiamogli incontro» concluse porgendone una al vulcaniano, il quale l’accettò senza opporre resistenza. Riker iniziò a camminare speditamente, cercando di non lasciar affondare gli stivali nella sabbia e in pochi minuti divorò la distanza che lo separava dalla cima della duna, da cui poté finalmente vedere la sagoma familiare di una delle capsule di emergenza della Pioneer. Altri sopravvissuti forse. Era atterrata regolarmente, a differenza della loro che era andata in avaria, schiantandosi al suolo, e pareva perfettamente funzionante. Con quella, pensò Riker, avrebbero potuto riguadagnare l’orbita, se non altro, ed inviare un messaggio subspaziale alla flotta. Forse qualcuno sarebbe tornato a riprenderli. Vovelek era dietro di lui, quando Will cominciò a discendere il pendio scosceso della duna, sempre in preda ad una grande frenesia. Arrivò per primo e rimase ad osservare l’esterno della capsula. Le insegne erano proprio quelle della Pioneer. Non vi erano dubbi, si trattava di altri superstiti del vascello, che probabilmente avevano ricercato i loro segni vitali. «Siamo salvi!» esclamò soddisfatto. 200 CAPITOLO 21 «Capitano! Venga a vedere. Credo che Q stia facendo ritorno.» Picard sollevò il capo, poggiato contro il palmo delle mani e rivolse lo sguardo verso l’androide. Data stava in piedi, in mezzo alla strada asfaltata, proprio sulla linea di mezzeria e scrutava l’orizzonte. Picard si alzò in piedi. Sentì le ossa della schiena reclamare il loro tributo di dolore. L’essere rimasto chinato a terra per un paio d’ore, scavando a mani nude due misere fosse per le sfortunate ufficiali dell’Enterprise, lo aveva parecchio fiaccato. Era fortemente disidratato e da parecchie ore non beveva un goccio di liquido potabile. Cominciava a sentirsi vicino al limite fisico di sopportazione. Rimanere a riposare all’ombra, seduto sul fresco marmo, aveva solo peggiorato la condizione delle sue ossa. Ma nonostante tutto, si mise in piedi di scatto, si sistemò, come suo solito, l’uniforme impolverata, e si diresse verso Data. Quando gli giunse a fianco, poté scorgere anch’egli la nuvola di polvere sollevata dal pesante automezzo militare guidato da Q. «Sta tornando indietro» commentò il capitano. «La Seconda Prova è terminata» aggiunse Data. «A quanto pare si. Tra poco ne conosceremo anche l’esito» concluse Picard, poggiando la mano alla fronte per proteggersi dall’accecante luce solare. Rimasero entrambi li ad attendere che il minuscolo puntino comparso all’orizzonte, assumesse le dimensioni di un autocarro e infine furono costretti a scansarsi, tornando sul ciglio della strada, per non essere investiti. 201 Picard sentì un brivido percorrergli la schiena, ripensando a poche ore prima, quando la stessa scena si era svolta per la prima volta ed alle tragiche conseguenze di cui era stata portatrice. Il camion a chiazze verde militare si arrestò bruscamente, tra il fastidioso stridere dei freni e la nuvola di sabbia che limitò la visibilità per qualche secondo. Tanto che Picard non vide Q smontare dalla cabina. Tossendo seccamente a causa della polvere, Picard si incamminò verso l’automezzo, agitando le braccia, nel vano tentativo di allontanare la nube sabbiosa. E come un fantasma in mezzo alla nebbia, gli comparve dinanzi Q. Abbigliato come un klingon, ma non un klingon moderno, quanto piuttosto un antico guerriero, con una armatura possente e lucida. E un grande mantello nero a coprire le spalle. «Q!» esclamò Picard, arrestandosi di colpo, spaventato dall’inattesa apparizione. «Jean-Luc…» gli rispose Q. I due rimasero a fissarsi per qualche istante. Picard aveva un solo ed unico pensiero per la testa: la sorte di Worf e di Geordi. Il fatto che nessuno dei due avesse ancora fatto la sua comparsa, costituiva un indizio di sciagura imminente. E soprattutto lo sguardo di Q era quanto mai eloquente. Si poteva chiaramente intravedere una sincera prostrazione, un cupo dolore che lo stava lacerando internamente. L’espressione del viso di Picard mutò lentamente, la commozione prese il sopravvento, e i suoi occhi si inumidirono, riuscendo però a trattenere ogni lacrima. Avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto disperarsi, ma cercò di trattenersi, evitando di dare una qualsiasi tipo di soddisfazione a Q. 202 «Dove sono Worf e Geordi?» domandò con la voce che tremava, rotta dall’emozione. Q non rispose. Rimase in piedi senza aprire bocca, mentre la sabbia sollevata dal passaggio del camion, lentamente tornava a posarsi. «Capitano» si intromise Data, che nel frattempo si era portato verso la parte posteriore dell’automezzo militare. «Mi dica signor Data» rispose Picard, senza togliere gli occhi da Q. «Nel retro, ci sono altri due sacchi neri.» A quelle parole, il cuore di Picard fu sul punto di scoppiare per il dolore e la rabbia repressa in mesi e mesi di battaglie sanguinose e di morti innocenti. Si scagliò contro Q con tutta la sua forza, stringendogli le mani al collo e scaraventandolo a terra. Q non reagì e cadde pesantemente, senza nemmeno provare ad attutire la caduta. «Maledetto! Li hai ammazzati! Hai ammazzato anche loro!» urlò rabbiosamente Picard, i cui occhi erano iniettati di sangue, senza mollare la presa dal collo dell’essere che considerava la causa di tanto dolore. Data accorse rapidamente e afferrò il capitano per un braccio con una tale forza che Picard dovette mollare la presa a causa del dolore non sopportabile. «Capitano! Capitano!» esclamò l’androide, tirando a se Picard. Dovendo cedere alla maggior forza fisica di Data, Picard rilasciò i muscoli delle braccia e non oppose più alcuna resistenza, come se la rabbia si fosse esaurita e si rimise in posizione eretta. Si sistemò nuovamente l’uniforme e rimase silenzioso ad osservare Q, che stava a terra e tossiva violentemente a causa della presa del capitano. «Mi spiace Jean-Luc! Mi spiace!» balbettò Q, tossendo ripetutamente «Ho fatto il possibile per aiutarli, te lo posso giurare! Non volevo che finisse in questo modo.» 203 Le giustificazioni di Q non ebbero alcun effetto su Picard, che continuava a restare immobile, con gli occhi puntati sul superessere. «Ma non tutto è perduto Jean-Luc!» riprese Q, mettendosi a busto eretto «C’è ancora la Terza Prova! Ed è quella decisiva! Il fatto che abbiamo perduto le prime due non significa che siamo spacciati. Il Q-Continuum valuterà con maggiore attenzione proprio quest’ultima prova e sono certo che questa volta vinceremo!» «Vinceremo?» lo interruppe Picard «Che tu perda o vinca, continuerai la tua esistenza eterna e beata. Ma noi abbiamo una sola occasione. E a causa tua Geordi e Worf hanno sprecato la loro.» «Non l’hanno sprecata! Hanno combattuto fino alla fine! Avresti dovuto vederli! Saresti stato orgoglioso di loro Jean-Luc!» reagì Q. «E lo sono. Lo sono sempre stato. E avrei continuato ad esserlo per molto altro tempo se tu non fossi piombato nelle nostre vite!» Picard sentì di odiare profondamente Q e tutta la sua razza. I loro poteri illimitati li avevano resi incapaci di comprendere il vero valore della vita. Di ogni singola vita. Lasciò Q seduto a terra e si liberò della presa di Data che ancora lo tratteneva. Si diresse verso il retro del furgone militare, la cui sponda era stata abbassata precedentemente dall’androide. Con un balzo salì sul cassone telonato e si chinò sui due sacchi neri, con la cerniera longitudinale, per tutto identici a quelli in cui, precedentemente, Q aveva loro restituito i copri di Deanna e Beverly. Con un gesto brusco fece scorrere per pochi centimetri la cerniera del primo sacco. Un volto, orribilmente deturpato dagli impianti Borg fu rischiarato dalla luce riflessa. 204 «Geordi» sussurrò Picard, risollevando lentamente la cerniera. Passò al secondo involucro, dove constatò la presenza del corpo senza vita del klingon Worf, anch’esso deturpato dalle nanosonde di fabbricazione Borg. «Addio amici miei» si limitò a dire, richiudendo anche l’ultima cerniera. Con un balzo ridiscese dal mezzo e lentamente tornò verso Data e Q, che nel frattempo si era rimesso in piedi. Picard ora si sentiva furioso e al contempo determinato a concludere quella che ora non era altro che un’immensa farsa. Sentiva di avere la forza di affrontare l’Universo intero, in nome dell’affetto e dell’amicizia che lo legavano ai compagni, morti nel tentativo di dare all’umanità una speranza di sopravvivenza. Affrontò Q con durezza fissandolo dritto negli occhi esclamò: «In cosa consiste la Terza Prova?» Q, si rallegrò vedendo tanta determinazione in Picard e gonfiandosi il petto rispose: «La Prova della Conoscenza.» Picard e Data si guardarono preoccupati. La capsula di salvataggio della Pioneer era davanti a lui, i condotti di scarico dei razzi di manovra fumavano ancora, il suo scafo era striato di grigio, nei punti in cui l’attrito dell’atmosfera aveva intaccato il bianco rivestimento in duranio. In perfetto stato, apparentemente, era atterrata senza danni, poggiata su tre piedi metallici, praticamente scomparsi sotto le sabbie del deserto. Mentre Riker osservava estasiato quella che si poteva definire come una visione, Vovelek lo raggiunse alle spalle. 205 «E’ la capsula numero quattro. Ponte dodici, vicino alla sala macchine. Dovrebbe essere stata utilizzata dagli ingegneri. Verifichiamo le condizioni degli occupanti.» «Deve essere rimasta in orbita per almeno tre giorni» disse Riker voltandosi verso il vulcaniano. Sul suo viso era stampato un largo sorriso e i suoi occhi erano carichi di gioia. «Devono avere individuato il nostro segnale e sono venuti a prenderci!» «Possibile. Ma improbabile. Avrebbero avuto molte più possibilità di salvarsi restando in orbita e di essere intercettati da qualche nave di passaggio. Queste capsule non hanno potenza propulsiva sufficiente per permettere un decollo che ci porti nuovamente in orbita.» . L’analisi di Vovelek intaccò buona parte delle speranze di William. Ma dentro di se, Riker era convinto che se l’equipaggio della Pioneer aveva deciso di atterrare per recuperarli, l’aveva fatto sapendo poi, di poterli anche riportare nello spazio. - Sono tutti ingegneri li dentro, dannazione! - Imprecò fra sé. - Avranno sicuramente apportato delle modifiche al sistema di propulsione della capsula! «Forse sono incorsi in un’avaria. Comunque sempre meglio che restare qui solo noi due no?» provò a spiegare. «Su questo devo assolutamente convenire con lei» fu la laconica risposta di Vovelek. Riker rimase senza parole ad osservare il suo compagno di sventura, domandandosi nuovamente se il detto che i vulcaniani sono privi di senso dell’umorismo, non fosse che una leggenda da molo spaziale di periferia. «Perché non aprono il portello?» domandò impaziente Riker. «Staranno analizzando l’ambiente circostante, prima di avventurarsi all’esterno.» 206 «Hanno avuto tre giorni per farlo. Il sistema dei sensori della capsula è specificatamente progettato per questo scopo. Dubito che si siano limitati ad inviare S.O.S.» «Sono ingegneri. Non scienziati.» «Forse anche loro stanno avendo problemi con il portellone di uscita. Anche il nostro era bloccato. Una serie difettosa.» ipotizzò Riker, che non riusciva più a stare fermo senza fare nulla. «Opzione possibile. Esiste una maniglia per lo sblocco d’emergenza anche all’esterno delle capsule. Ma è attivabile solo con specifici codici di comando, al fine di evitare pericolose e non gradite intrusioni, in caso di atterraggio in territorio ostile» riferì il vulcaniano, indicando un punto poco accessibile, ad un paio di metri e poco più da terra, alla sinistra del portellone. Raggiungerlo non sarebbe stato facile, visto che la capsula era rialzata dal suolo di circa un metro e mezzo e non vi erano appigli. «E che aspettiamo allora?» «D’accordo. Anche se la situazione è poco chiara, secondo la mia opinione. Avrebbero dovuto seguire le procedure standard.» commentò Vovelek. I due si portarono verso la capsula, all’altezza del portellone, che stava sopra le loro teste. «Io le faccio da scala, lei si arrampichi fino a quella maniglia. Dovrà girarla verso destra di novanta gradi. Dopodiché dovrà inserire nella consolle che le comparirà i codici che io le darò. E’ chiaro?» domandò Vovelek, incrociando le dita delle mani, dando forma ad una improvvisata scala umanoide. Riker annuì e aggrappandosi col braccio superstite alla nuca di Vovelek, si diede una leggera spinta con la gamba destra, mentre con il piede sinistro fece appello alla forza fisica e alla tenuta dell’intreccio di dita del vulcaniano. 207 In un istante si trovò a circa trenta centimetri dalla maniglia. Gli sarebbe bastato avere a disposizione anche l’altro braccio e avrebbe potuto comodamente afferrarla. Purtroppo si rese conto che se voleva ottenere il suo scopo, avrebbe dovuto mollare l’appiglio con la mano sinistra e restare in equilibrio per qualche secondo. Riker esitò studiando la posizione migliore per evitare di cadere come un sacco di patate e Vovelek si rese conto della difficoltà che l’umano stava incontrando. «Crede di riuscire a farcela?» domandò Vovelek. «Naturalmente. Non sarà un braccio in meno a fermarmi. Mi lasci cercare una posizione d’equilibrio. Sempre che lei riesca a sopportare il mio peso ancora qualche istante!» ironizzò William. «I Vulcaniani possiedono una forza fisica notevolmente superiore a quella della razza umana. Potrei sostenerla per ore senza il minimo sforzo.» «Non ci vorrà così tanto, si fidi» ribatté Riker, che nel frattempo, poggiandosi con la nuca alla calda parete metallica della capsula, era riuscito a trovare un punto di equilibrio e lentamente a portare la mano sinistra verso la maniglia. «L’ho presa!» esclamò soddisfatto. «La giri di novanta gradi. In senso orario.» lo istruì Vovelek. «Fatto!» Riker sentì il ronzio di un servomeccanismo, provenire da sopra la sua testa. Una piccola consolle dal design tipicamente federale era comparsa a lato della maniglia. «Mi dia i codici ora.» Vovelek propinò a Riker una serie di dati alfanumerici dalla lunghezza notevole. Incredibile che riuscisse a ricordarli tutti a memoria. Su questo, realmente, i Vulcaniani erano imbattibili. 208 La consolle, al termine della digitazione, trillò brevemente. Riker sentì uno scatto metallico provenire da sotto il duranio e la maniglia compì da sola un ulteriore mezzo giro in senso orario. E poi lo sbuffo, tipico della decompressione, informò i due, del successo dell’operazione. Lentamente il portello d’accesso della capsula si sollevò dal fianco della stessa per poi arretrare verso l’interno ed infine scorrere lateralmente fino a quando fu completamente scomparso dietro alla parete. Una rampa metallica pieghevole, a svolgimento automatico, raggiunse dolcemente le sabbie di quel desertico pianeta. Riker si aggrappò nuovamente alla nuca del compagno, e con un balzo fu subito a terra, saldamente sulle sue gambe. Rimase li a fissare l’oscurità che si estendeva all’interno della capsula, in attesa che qualche viso amichevole venisse loro incontro. Ma dopo una manciata di secondi fu chiaro per entrambi che qualcosa era andato storto la dentro. Nessun segno di vita proveniva dall’interno della capsula. «Sono tutti morti anche loro?» domandò Riker. «E’ un’eventualità possibile. Spiegherebbe come mai non abbiano seguito le normali procedure» «C’è solo un modo per scoprirlo. Entriamo.» detto questo Riker si incamminò sopra la rampa e l’aria del deserto risuonò dell’eco metallico dei suoi stivali. Vovelek lo seguì subito dopo. L’interno della capsula era nella più completa oscurità. Nemmeno le luci di emergenza erano in funzione. Come potevano essere atterrati senza un graffio se, apparentemente, tutti i sistemi energetici erano fuori linea? Si domandò Riker, poggiandosi con l’unica mano alla parete interna e facendosi guidare da essa. «C’è nessuno?» urlò William. 209 «Sono il comandante Riker! C’è nessuno?» Vovelek lo raggiunse «Nessuna risposta. Dobbiamo cercare di riattivare l’energia ausiliaria e le luci d’emergenza.» «C’è nessuno! Nessuno vivo li dentro?» urlò ancora William. «La smetta di urlare. Se qualcuno fosse cosciente le avrebbe già chiesto di far cessare tutto questo baccano.» lo rimproverò Vovelek, il cui udito era particolarmente sensibile ai rumori forti «Aspetti! Ho sentito un rumore!» esclamò Riker. «Si. L’ho percepito anch’io» confermò Vovelek ed entrambi fissarono un punto apparentemente qualsiasi nell’oscurità. Un fascio di luce rossastra tagliò il buio, terminando contro la fronte di Riker. E poi un altro ed un altro ancora. «Mio Dio. Borg!» urlò Will, ma non riuscì a dire altro, la sua gola fu saldamente afferrata dalla gelida mano di un drone. 210 CAPITOLO 22 Percepì, nuovamente, il fetore delle carni di un drone Borg. Un odore che non avrebbe mai più potuto dimenticare e che risvegliò in lui emozioni di terrore. Nonostante fosse in imminente pericolo di vita, il primo pensiero di Riker andò ai terribili momenti della battaglia di Kaatana, quando la grande flotta di navi del Quadrante Alfa, respinse la prima ondata d’invasione dei Borg. Fu una grande vittoria, ma pagata a caro prezzo, con centinaia di migliaia di morti e la grande flotta decimata. Era sull’Enterprise, quando i Borg riuscirono a penetrarne gli scudi ed ad abbordarla. Il capitano Picard predispose la difesa corpo a corpo dell’ammiraglia della Flotta Stellare. Non avrebbe mai permesso che cadesse nelle mani dei Borg una seconda volta, dopo quanto era successo durante gli avvenimenti che portarono William sulla Terra del ventunesimo secolo ad incontrare Zefram Cochrane, inventore della propulsione a curvatura. Con una squadra della sicurezza si recò per primo alla sezione di Cartografia Stellare, dove una cinquantina di droni stavano già iniziando ad installare le loro apparecchiature, volte a prendere il controllo della nave. Riker escogitò uno stratagemma difensivo drastico, decidendo di sparare nello spazio tutti quei droni, a costo di aprire una falla nello scafo. Purtroppo i Borg in pochi istanti avevano preso il controllo dei sistemi principali e non fu possibile teletrasportare fuori dall’Enterprise gli intrusi, per cui William, con il permesso del capitano, fece irruzione nella sala di Cartografia con l’intento di piazzare una granata che avrebbe squarciato la parete esterna della 211 sala, risucchiando i droni nello spazio e facendo a pezzi gli eventuali superstiti. La missione fu un successo, ma purtroppo, durante l’irruzione, uno dei droni riuscì a colpirlo al braccio, iniettando le nanosonde nel suo corpo. Sentendosele risalire lungo il braccio, con un gesto di grande coraggio prese il proprio phaser e se lo puntò contro il gomito. Consapevole di avere solo pochi secondi a disposizione, lasciò da parte ogni ripensamento e sotto gli occhi esterrefatti degli altri ufficiali, si tranciò di netto l’avambraccio. Se doveva morire, non sarebbero stati i Borg ad ucciderlo. Svenne immediatamente per il dolore, ma si salvò dall’assimilazione. Quando si risvegliò si trovava nell’infermeria dell’Enterprise e la battaglia era ormai conclusa. E vinta. Il ricordo dell’intenso dolore provato lo riportò alla realtà. Una mano gelida gli stava spappolando la carotide e se non avesse fatto qualcosa al più presto, il suo sacrificio nella battaglia di Kaatana sarebbe stato solo un rimandare l’inevitabile. Tentò di opporre resistenza con la sola mano che gli restava, ma la presa era davvero ferrea e la vista cominciò ad annebbiarsi per la mancanza di ossigeno. Quando fu sul punto di svenire, finalmente la mano del drone mollò la presa e cadde a terra, staccata di netto da un preciso colpo di phaser, sparato dal suo vulcaniano preferito. Un braccio pari, trovò la forza di ironizzare Riker, cercando di riprendere fiato e allo stesso tempo di indietreggiare. E vide Vovelek, accanto a lui, con un phaser in mano, puntato verso i droni che lentamente avanzavano. «Come si sente? Può farcela?» domandò Vovelek. Riker si limitò ad annuire. La sua gola era talmente dolorante da non riuscire nemmeno a deglutire. 212 Vovelek fece fuoco una seconda volta ed un altro drone cadde a terra fulminato. «Muoviamoci, presto si adatteranno!» Riker tentò di correre, ma la vista era ancora annebbiata. Probabilmente stava barcollando. Sentì sotto i suoi stivali il rumore metallico della rampa, segno che era riuscito ad imbroccare il portellone d’uscita della capsula. La luce abbagliante del deserto lo disorientò ancora maggiormente e percepì chiaramente che stava cadendo. Per un istante come una sensazione di leggerezza, seguita subito dopo dal colpo per l’impatto con la sabbia del deserto, che per sua fortuna attutì il colpo. «Comandante!» urlò Vovelek da sopra la rampa. Riker cercò di rimettersi in piedi, ma una gamba si rifiutò di obbedire. Rotta? Slogata? Comunque fosse un acuto dolore proveniva da essa e gli stava impedendo di recuperare una posizione eretta. «Comandante Riker! Si alzi presto! Si sono adattati alle frequenze del mio phaser! Dobbiamo andarcene di qui!» La voce di Vovelek ora era molto più vicina, doveva essere sopra di lui, dedusse William, prima che il sole, eclissato dal capo del vulcaniano ed incorniciato dalle sue tipiche orecchie appuntite, venisse a confermare la sua supposizione. Si sforzò di mettere a fuoco l’immagine, mentre lentamente il sangue tornò a defluire normalmente verso il suo cervello e verso la sua retina. La morsa del drone era stata davvero micidiale. «Comandante Riker! Mi sente?» urlò nuovamente Vovelek. Appena Riker tentò di parlare e di spingere dell’aria dai suoi polmoni verso le corde vocali, un dolore acuto gli ricacciò indietro ogni parola. Ma si sforzò di sopportarlo. 213 Dapprima balbettò qualcosa di incomprensibile, che Vovelek non riuscì ad afferrare e che lo spinsero a prendere la decisione di caricarsi Will in spalle e di muoversi verso l’accampamento nell’oasi. I Borg si stavano avvicinando a loro due. Riker si sentì sollevato di peso e comprese che Vovelek lo stava portando via dai Borg. Gli stava ancora una volta salvando la vita. Ora non erano nuovamente più in parità. Con la testa poggiata sulla schiena di Vovelek, poté vedere, seppur non chiaramente, una dozzina di Borg incamminarsi lentamente fuori dalla capsula, avventurandosi nel deserto, al loro inseguimento. Per loro fortuna erano, come sempre, dannatamente lenti ed impacciati. Ma era consapevole anche del fatto che avrebbero potuto camminare nel deserto, senza rifornimenti, per molto più tempo di loro due. «Ci stanno inseguendo.» riuscì a dire flebilmente Riker. «Lo so. Dobbiamo tornare all’oasi. Prendere quante più scorte possibili e fuggire.» «Ma dove andremo?» «Lontano da loro. Sicuramente in questo deserto vi sono altre oasi» rispose il vulcaniano, il cui fiato si era fatto più corto a causa dello sforzo di dover camminare fra la sabbia delle dune, con il non indifferente peso di un umano adulto sulle spalle. «E’ inutile fuggire. Ci troverebbero facilmente. Questi Borg devono già essersi messi in contatto con la loro nave madre. Presto ne arriveranno qui altri, ed altri ancora. Non avremo scampo.» «Lei ha un’idea migliore da proporre comandante?» domandò Vovelek, senza interrompere il cammino. «Dobbiamo eliminarli. Recuperare la capsula e fuggire da qui. Abbandonare il pianeta. Prima che una loro nave arrivi!» 214 «Ottima idea comandante. Ma come al solito voi umani lavorate troppo con la fantasia. Io non vedo alcun modo per sconfiggere una dozzina o forse più di droni, ora che si sono adattati alla frequenza dei nostri phaser. Senza contare che non ho idea di come riportare la capsula in orbita.» «Sfruttiamo il terreno a nostro vantaggio. Loro sono lenti. Noi possiamo batterli in velocità. Dobbiamo fare allontanare dalla capsula il maggior numero di droni possibile. Dopodiché ci impossesseremo della capsula!» Riker stesso non era troppo convinto della sua idea, ma gli sembrava meglio che avventurarsi ancora nel deserto, con la quasi certezza di morire, se non per mano dei Borg, ucciso dalla sete. «E come pensa di ingannarli? Seguono i nostri segni vitali con i loro scanner. Possiamo anche essere più rapidi, ma comprenderanno subito il nostro piano.» obiettò Vovelek. «Modificando il trasmettitore di emergenza ed il trycorder, affinché emanino una finta traccia, che simuli la nostra presenza. Se ci muoveremo in fretta, saremo alla capsula prima che se ne rendano conto!» «Ma lei è infortunato. Non riuscirà a correre, sempre che i Borg cadano nel tranello.» «Ci cadranno! Non sono capaci di porsi domande. Seguiranno il segnale e basta. E io ce la farò, anzi mi metta pure giù ora. Penso di poter camminare!» esclamò Riker. Vovelek si arrestò improvvisamente e si tolse il peso di William di dosso in un istante. Non appena Will mise la gamba destra a terra, un dolore lancinante, all’altezza del ginocchio, lo costrinse a poggiarsi sulla gamba opposta. Strinse i denti e cercò di non cadere, né di inginocchiarsi. 215 Poteva, doveva farcela. Probabilmente non si era rotto nulla, sicuramente una forte contusione. Poteva sopravvivere. «Pensa di farcela?» gli domandò Vovelek, che stava notando l’espressione di dolore sul volto del compagno. «Si, è solo una brutta botta. Ma niente di irrimediabile. Andiamo!» rispose Riker, mettendosi in cammino verso l’oasi, al passo più veloce che gli riuscì di tenere. Erano ormai in vista dell’oasi, mentre i Borg erano ancora sulla cima della duna. Avevano circa dieci minuti di vantaggio. «Sono molto più veloce di lei. Vado avanti e inizio a modificare il trasmettitore ed il trycorder. Lei prenda le provviste.» gli ordinò Vovelek e senza attendere una risposta lo sorpassò scomparendo per primo nella fitta vegetazione dell’oasi e non notando il disappunto malcelato di Riker, per avere ancora una volta ricevuto ordini senza nessun tipo di consultazione. Nonostante fossero oramai dipendenti l’uno dall’altro, Vovelek si ostinava a non ritenere necessario interpellarlo e condividere con lui le scelte da fare. Pochi minuti dopo, zoppicando vistosamente, Riker raggiunse il vulcaniano, che, chino a terra, stava ancora apportando le dovute modifiche ai due dispositivi. «Ho quasi finito» disse Vovelek senza voltarsi, anticipando la probabile domanda di Riker. «Ottimo! Presto! Prendiamo le provviste e abbandoniamo l’oasi passando da est. Da li aggireremo la duna e arriveremo alla capsula mentre i Borg saranno qui a cercarci nella boscaglia!» Riker riempì lo zaino con le borracce dell’acqua e i frutti che avevano raccolto durante la giornata precedente e a fatica se lo mise in spalle. «Lo dia a me quello. Lei già zoppica.» lo interruppe Vovelek, che nel frattempo aveva terminato le modifiche. 216 Riker rimase un istante interdetto sul da farsi. Il suo orgoglio gli stava gridando di rifiutare l’aiuto, ma la logica del momento era dalla parte di Vovelek. Mise da parte la rivalità con il vulcaniano e porse lo zaino senza obiettare. «Ho attivato la finta traccia vitale. Muoviamoci» disse Vovelek, indicando la via verso est. «Aspetti!» lo bloccò Riker. «Che c’è ancora?» Riker raccolse da terra il suo phaser, ormai inutile contro gli scudi portatili Borg e ne modificò le impostazioni, mandandolo in sovraccarico. Un rumore simile ad un fischio, lentamente cominciò a crescere di potenza. «Con un po’ di fortuna esploderà al loro arrivo!» Vovelek annuì, senza commentare. E i due si incamminarono nella boscaglia, guardandosi bene intorno, alla ricerca dei droni. Sbucarono presto sul lato est dell’oasi. A poco meno di un chilometro da li, era atterrata la capsula di salvataggio della Pioneer. «Devono essere già arrivati all’oasi. Non vedo più droni sulla collina» disse Vovelek. «Stanno sicuramente seguendo il segnale.» «Ne è certo?» domandò dubbioso Vovelek. «Si fidi. Conosco molto bene i Borg» lo rassicurò Will. «Ora andiamo. Dobbiamo fare il più in fretta possibile. Non appena scopriranno l’inganno, i droni rimasti sulla capsula si metteranno in allarme» chiuse la conversazione Riker. Furono minuti di ansia e trepidazione, quelli che trascorsero subito dopo avere lasciato l’oasi. Vovelek in testa, allungava il passo quanto più possibile, mentre Riker, zoppicante, faticava a restargli ad una distanza accettabile. Ma non c’era tempo per fermarsi a recuperare. 217 Quando arrivarono in cima alla duna e poterono finalmente scorgere nuovamente la navicella di salvataggio, poggiata sulle sabbie infuocate del deserto, il boato provocato da uno scoppio, li raggiunse alle spalle. I due si voltarono e videro una nuvola di fumo, levarsi dal centro dell’oasi. Il phaser aveva fatto il suo dovere. «Ora sanno dell’inganno. Il nostro vantaggio tattico si è esaurito» commentò laconicamente Vovelek, iniziando la discesa della duna. Apparentemente la capsula pareva disabitata dai suoi inquilini cibernetici, anche se molto probabilmente, un numero imprecisato di droni era al suo interno, sicuramente ancorati alle tipiche celle da cui i droni si connettevano al Collettivo. Riker e Vovelek si avvicinarono cautamente alla rampa di salita, temendo che ne fuoriuscisse un’altra orda di droni. «Sembra tutto tranquillo.» mormorò Riker. «Le apparenze ingannano comandante» ribatté Vovelek iniziando a salire la rampa, misurando i passi, uno dopo l’altro. Stavolta Vovelek impugnava una delle tipiche luci d’emergenza della Flotta, con lo scopo di illuminare il buio interno della capsula di salvataggio. Un fascio ampio di luce bianca squarciò l’oscurità, mostrando uno spettacolo di morte e desolazione. A terra giacevano molti corpi senza vita di marinai della Pioneer, orrendamente deturpati dalle nanosonde Borg. Il pannello principale era stato già modificato con tecnologia Borg, più altre parti della navicella. Ma sorprendentemente, all’interno, non vi erano più droni in funzione. «Via libera» disse Vovelek portandosi verso il controllo delle luci. E le luci tornarono ad accendersi, illuminando uno spettacolo tragico. 218 «Devono avere lottato corpo a corpo.» commentò Riker, osservando lo sfacelo di corpi e carni, che ricoprivano il pavimento, macchiato di sangue, della navicella. «Sicuramente. Ora cerchiamo di riattivare l’energia, in modo da poter almeno utilizzare i razzi di manovra. Con quelli dovremmo almeno essere in grado di muoverci nell’atmosfera» disse Vovelek aprendo, con uno scatto, una paratia che nascondeva un sofisticato intreccio di circuiti. «Ma non riesce a provare pietà nemmeno per un istante? Erano sotto il suo comando!» lo rimproverò Riker. «I Borg non hanno avuto nessuna pietà per loro. Il meglio che posso fare per onorarli e salvare la mia e la sua vita» rispose il vulcaniano senza nemmeno rivolgere lo sguardo a Riker e poi continuò «mentre io mi occupo dell’energia principale, lei rimetta in funziona il sistema di navigazione. Dobbiamo andarcene di qui e in fretta.» Riker scosse il capo sconsolato per tanta freddezza e senza obiettare si mise al lavoro alla consolle di navigazione. Ci vollero pochi minuti a Vovelek, per ripristinare l’energia principale e i circuiti della capsula tornarono a risplendere per il fluire dell’energia. E Will poté finalmente operare sulla consolle di navigazione. «A che punto è comandante?» domandò Vovelek, che nel frattempo, alle sue spalle, stava operando una modifica ai circuiti dei propulsori, nel tentativo di renderli più adatti al volo atmosferico. «Ho quasi finito. Ho dovuto riconfigurare il programma di navigazione. Era stato infettato da un virus Borg. Per nostra fortuna nessun danno grave. Anche se dovremo rinunciare al sistema di guida automatico. Insomma, dovremo tornare come ai tempi dell’Accademia. Ricorda il corso di Volo Manuale?» 219 Domandò Riker, sorridendo al pensiero di quanto si era divertito, guidando piccole navette nei cieli di Saturno e di Marte. «Certamente. Io…» La voce di Vovelek fu spezzata da un gemito improvviso. Riker si voltò di scatto, giusto in tempo per vedere le gambe del comandate Vovelek scomparire da dietro il portellone d’accesso. «Vovelek!» urlò disperato, correndo verso l’uscita, dove vide il suo compagno di naufragio, trascinato a forza sulla rampa, da un drone Borg a cui mancava parte di un braccio e che presentava diversi danni da esplosione sul resto del corpo. E con lui altri droni, anch’essi pesantemente danneggiati, ma ancora dannatamente pericolosi, si stavano minacciosamente avvicinando alla capsula. Il phaser sovraccarico non aveva eliminato tutti i droni, fu la logica deduzione di Riker. 220 CAPITOLO 23 «Maestro!» Q sussultò, spaventato dall’improvviso arrivo del suo allievo, e il gomito gli scivolò lungo il cofano del camion militare a cui era poggiato da parecchi minuti. «Ragazzo! Quante volte ti ho detto di non comparire all’improvviso!» lo rimproverò il Q più anziano, riprendendo l’equilibrio e voltandosi verso di lui. «Chiedo perdono. Mi scordo sempre» si giustificò il più giovane, ma subito rese palese quale che fosse il motivo della sua visita. La sua attenzione era per Picard e Data. «Cosa stanno facendo adesso?» domandò a bruciapelo. Q, ancora abbigliato come un antico guerriero klingon, si voltò, alla ricerca del punto che gli occhi del suo allievo stavano fissando tanto intensamente. «Intendi quei due?» Q indicò Data e Picard, chini sulla sabbia del deserto, una decina di metri oltre il ciglio della strada asfaltata. L’allievo annuì trepidante, non appena il suo maestro tornò a voltarsi verso di lui. «Stanno seppellendo Worf e Geordi. Picard ha insistito fino a sfinirmi affinché gli lasciassi il tempo di scavare le due fosse. Non c’è stato verso di iniziare la Terza Prova. Un gesto molto umano da parte sua, anche se del tutto inutile.» «Avevano già fatto la stessa cosa con le due femmine vero?» domandò ancora l’allievo, notando a poca distanza dal luogo in cui Picard e Data stavano scavando, due cumuli di sabbia e rocce. «Si. Solo che prima avevano avuto tutto il tempo per farlo. Diamine! Adesso il tempo scarseggia! Dobbiamo muoverci! E’ almeno un’ora che s’arrabattano a mani 221 nude!» polemizzò Q, battendo il pugno sul cofano del mezzo e causando un tonfo sordo che attirò l’attenzione di Picard e dell’androide, i quali si voltarono verso Q ed il suo allievo. Comprendendo di essere stato notato, Q mise le mani attorno all bocca, al fine di concentrare le onde sonore prodotte dalle sue corde vocali nella direzione voluta ed esclamò: «Volete muovervi voi due?» Per tutta risposta, Picard compì con una mano, un gesto, che Q riconobbe essere un antico ma ancora in voga, insulto umano. Data, notando che il capitano aveva interrotto le operazioni di escavazione, dapprima osservò e successivamente, replicò goffamente il gesto e la cosa fece sorridere, seppur appena, Picard. Poi i due ripresero a scavare, ignorando del tutto le pretese di Q. Il volto di Q avvampò per l‘offesa e per la rabbia. Come si permettevano quei due sfrontati di insultarlo in modo tanto becero? Il giovane Q non seppe trattenersi di fronte alla scenetta che vedeva il suo maestre bellamente beffeggiato da due creature primitive, e ridacchiò sommessamente. «Credo ti abbiano mandato a quel paese, ma non ne sono sicuro. Sei tu l’esperto sugli umani» commentò sarcasticamente il giovane Q, il cui volto ricordava certe maschere del teatro greco-romano, tanto si era arcuata la linea delle labbra, fin quasi a raggiungere i lobi delle orecchie. Q tornò a voltarsi verso l’allievo. Decisamente furente. «Taci tu! Se non fosse che l’esito della mia sfida con il Q-Borg dipende da quei due, li avrei già trasformati in due meteoriti e costretti a viaggiare per eoni nello spazio! O chissà cos’altro di terribile potrebbe venirmi in mente!» 222 L’allievo tacque, ma il ghigno di divertito compiacimento rimase immutato, scolpito come marmo nel volto del ragazzo. «E se non ti togli quel sorriso, caro il mio giovane e inesperto allievo, farò in modo che tu debba pentirtene amaramente!» Il volto del Q si fece serio di colpo, ma il suo maestro poté giurare, di stare ancora sentendo delle poderose risate, provenire dalla mente del suo allievo. Lasciò perdere e tornò a seguire le operazioni di escavazione di Picard e del suo fidato androide. Ma il suo allievo non era sazio di risposte. Molte domande aveva ancora in serbo per il suo mentore. «Ma perché non gliel’hai scavata tu la fossa?» domandò alcuni minuti dopo, giusto il tempo di lasciar sbollire un poco la rabbia di Q. «Non hanno voluto che interferissi. Picard ci teneva ad essere egli stesso a compiere la tumulazione. Se avessi saputo che erano così dannatamente lenti non avrei mai acconsentito!» «Potresti almeno fornirgli una escavatrice. O delle semplici pale no?» Q scosse il capo in segno di diniego. «Non hanno voluto nulla. Picard ha insistito per scavare a mani nude, così come aveva fatto per Beverly e la betazoide.» «Un segno di rispetto estremo verso i suoi compagni,» commentò l’allievo «doveva essere molto affezionato a loro. Erano uniti da un grande legame.» Per tutta risposta, Q sbuffò spazientito «quanto sono lenti…» Il ragazzo continuò comunque la sua analisi. «Fossero stati Borg, avrebbero abbandonato i droni in mezzo a questo deserto, senza preoccuparsi d’altro. Oppure li avrebbero trasportati su una delle loro navi 223 alveare per essere riconvertiti in qualcosa di utile al Collettivo. Due culture davvero inconciliabili. Due mondi diametralmente opposti. Il singolo e il collettivo.» Q si limitò ad annuire senza intervenire. A lui importava solo che la prova finale avesse inizio. Era impaziente e nervoso. «Miliardi di singoli individui, dotati di un proprio arbitrio, coordinati da strutture sociali complesse contro un’unica volontà che coordina la struttura di miliardi di esseri. Un bel dilemma. A chi affidare la Galassia?» Il giovane Q esitò qualche istante, come se cercasse la risposta giusta al quesito, poi alzando le spalle «comunque vada preferisco gli umanoidi. Sono più divertenti. Un Borg non avrebbe mai mandato a quel paese un Q!» concluse sghignazzando. «Sparisci!» gli urlò esasperato il suo maestro, voltandosi di scatto, per l’ennesima volta. E l’allievo obbedì scomparendo all’istante, senza che nemmeno un granello di polvere si sollevasse da terra. «Giovani! Credono di potersi prendere beffa degli anziani sena pagarne le conseguenze! Non ci sono più i Q di una volta!» bofonchiò fra se, salvo poi tornare ad osservare Picard e Data e rimase in quella posizione per un'altra ora buona, fino a che i due non ebbero posato l’ultima pietra. Altri due cumuli paralleli, ora adornavano il piatto deserto attorno a loro. Picard, con le mani doloranti e piagate dal terreno secco e duro, si avvicinò a Q, asciugandosi il sudore copioso della fronte, con la manica, ormai sudicia e logora della sua uniforme da capitano. Data, al contrario, appariva sempre fresco come una rosa. «Avete finito finalmente! Cominciavo a temere che non sarebbe bastato tutto il tempo dell’universo!» sbottò Q, divorato dalla brama di dare inizio all’ultima prova. 224 «Non avevamo nessuna fretta Q. Worf e Geordi meritavano una degna sepoltura. Non servirà a cambiare le cose ormai, ma glielo dovevo. Non potevo lasciare i loro corpi in quei sacchi sotto il sole. Nonostante questa gigantesca farsa che avete organizzato, ho ancora dei principi in cui credere» gli rispose determinato Picard. «Ma come siamo diventati coraggiosi Jean-Luc! Ti senti pronto a sfidare tutto il Q-Continuum?» ironizzò Q, divertito ma al contempo soddisfatto che la sua ultima speranza di vittoria stesse reagendo come sperava. «Si sono pronto!» rispose Picard puntando le sue pupille dritte in quelle di Q. «Bene Jean-Luc! Tu e Data potrete da subito dare prova delle vostre capacità! Che abbia inizio la Terza ed ultima pro...» Q fu bruscamente interrotto dall’improvvisa comparsa del suo millenario avversario. «Fermi! La prova non può cominciare!» esclamò risoluto, mentre il sole del deserto si rifletteva contro i bioimpianti dorati di cui era adornato il suo corpo. «Che diamine vuoi adesso?» ribatté Q portandosi ad un palmo dal volto del Q-Borg, con le mani ai fianchi e le gambe divaricate, in segno di sfida. «Lui non può partecipare!» disse indicando Data, con un dito della mano. «Per quale motivo?» domandò Picard. «Non è un umanoide!» fu la risposta del Q-Borg. Si stavano avvicinando seppur lentamente. Riker ne contò rapidamente sei. Uno di essi teneva, con l’unico braccio rimasto, saldamente in pugno Vovelek. Gli altri cinque, altrettanto malconci, danneggiati pesantemente dall’esplosione del phaser sovraccarico, barcollando stavano portandosi verso la rampa di salita alla capsula di salvataggio. 225 Riker cercò rapidamente nella sua mente di fare una lista delle opzioni che gli rimanevano, fermo restando che salvare la vita a Vovelek era la sua priorità assoluta. Non avrebbe lasciato il vulcaniano in pasto ai Borg, non dopo tutto quello che avevano passato insieme, non dopo che Vovelek l’aveva salvato dalle sabbie del deserto. Corse rapidamente all’interno della capsula e recuperò l’unico phaser rimasto. Con un po’ di fortuna sarebbe riuscito ad abbatterne almeno un altro paio, prima che divenisse inutile causa l’adattamento degli scudi Borg alle frequenze dell’arma ad energia. Tornò rapidamente, seppur zoppicando verso il portello e subito punto il phaser verso il punto in cui si trovava Vovelek. Ma purtroppo sia lui che il drone che lo aveva catturato, erano scomparsi dal campo visivo. In compenso gli altri Borg erano ora ai piedi della pedana e si apprestavano a riprendere possesso della capsula di salvataggio. Riker decise che doveva fare in fretta se voleva salvare il vulcaniano, che ora probabilmente stava lottando contro il drone per impedire la sua assimilazione al collettivo. Glielo doveva, se non altro per tornare in parità. «Maledetti!» urlò al vento del deserto e fece fuoco con il phaser. Il primo drone della fila cadde a terra come fulminato ma nessuno dei suo simili prestò alla sua sorte la benché minima attenzione. Si preoccuparono solo di scavalcarlo al fine di non inciampare. Fece fuoco anche sul secondo e anch’esso cadde a terra senza vita. Ma il tentativo di abbattere il terzo fallì miseramente. I suoi scudi ad energia personali, si erano già adattati alle frequenze del phaser di Riker, grazie alle informazioni trasmesse alla Collettività dai due droni uccisi poco prima. 226 Riker gettò il phaser nel vuoto con un gesto di disappunto. L’arma ricadde nella sabbia del deserto rimanendo semi sommersa. Ora non aveva più alcuna arma a disposizione per fermare i tre borg che ancora si paravano di fronte a lui. Avrebbe dovuto affrontarli in un corpo a corpo e lo avrebbe fatto volentieri se fosse stato nelle condizioni di affrontarli. Ma con un braccio solo ed una caviglia dolorante sarebbe stato un vero suicidio. L’altra opzione era quella di chiudere il portello, accendere i motori e lasciare per sempre quel luogo. Ma avrebbe significato abbandonare Vovelek a morte certa e nonostante, per tutto il tempo in cui erano stati insieme, fra i due vi erano stati frequenti momenti di scontro anche acceso, William sentiva che non avrebbe mai potuto perdonarsi una simile vigliaccheria. Anche se probabilmente quella sarebbe stata l’opzione suggerita dalla impeccabile logica Vulcaniana del comandante Vovelek, che quindi non lo avrebbe certo biasimato vedendolo decollare verso la salvezza. Ma qualcosa, dentro di lui, gli stava dicendo che logica o non logica, anche Vovelek avrebbe fatto lo stesso per lui. Urgeva quindi una terza soluzione, per sconfiggere i tre droni che lentamente si stavano avvicinando. I droni Borg sono dotati di ampie difese contro le armi ad energia, rifletté rapidamente Riker, ma sono relativamente vulnerabili se attaccati con armi più primitive, come lame, punte, pallottole spinte da reazioni chimiche. Doveva procurarsi un’arma del genere e doveva farlo in fretta. Gli scudi Borg nulla avrebbero potuto contro una simile diavoleria del passato. Ma il piccolo replicatore della capsula di salvataggio era programmato per riprodurre una quantità limitata di oggetti e sarebbe stato necessario collegarsi al database del computer per 227 raccogliere le schematiche relative al tipo di arma richiesto. Sempre che il computer della navicella contenesse le informazioni necessarie. Decise che non c’era tempo per le supposizioni e che l’unico modo per esserne certi era fare un tentativo. Ignorando i droni che avanzavano a pochi metri da lui, Riker si portò alla consolle principale della navicella e iniziò una ricerca relativa alle armi non convenzionali, utilizzate da qualsiasi razza della Federazione, in grado di stecchire un drone Borg. Il computer gli fornì, come prima risposta, la scheda relativa ad un arco acturiano del tardo impero Jahf, con frecce imbevute nel veleno. Se la situazione non fosse stata così tragica avrebbe persino trovato il tempo per sorridere, per l’involontaria ironia della risposta del computer. Un arco era proprio quel genere di arma che non avrebbe potuto utilizzare a causa della sua menomazione al braccio. I droni erano alla porta e varcarono l’ingresso della navicella. Riker vide sulla consolle il riflesso di tre raggi di puntamento. - Devo sbrigarmi! - Pensò, immettendo nuovi parametri per la ricerca. Arma che possa essere utilizzata con una mano sola. Il computer gli propose una Magnum44 di fabbricazione terrestre, tardo ventesimo secolo. Riker non se ne intendeva minimamente di armi antiche e accettò senza indugio la proposta, anche perché ora i droni erano a meno di un metro da lui. Fece appena a tempo a scansarsi dalla consolle, prima che uno dei droni la mandasse in pezzi con il braccio meccanico. Non importava. Le informazioni erano giunte al replicatore e grazie al lavoro di Vovelek la navicella era carica di energia. 228 Con un piccolo balzo si portò al replicatore, guadagnando un metro ancora di vantaggio sui droni e digitò un controllo. «Programma Riker uno!» urlò al computer. Il replicatore si mise in funzione ed in meno di un secondo si materializzò davanti ai suoi occhi quello che per lui non era altro che un grosso pezzo di metallo nero, con una parte in legno. Una antica pistola. La afferrò al volo e subito ne avvertì il peso davvero notevole, se confrontato con una phaser standard della Flotta, tanto che temette di farla scivolare. Si voltò di scatto verso il primo drone davanti a lui, che stava a un passo dal raggiungerlo. Strinse il calcio e gli occhi e poi premette il grilletto. E un incredibile boato riempì la navicella. La testa del drone finì in mille pezzi. Il suo corpo rimase in piedi ancora qualche secondo, muovendosi in maniera scoordinata, prima di cadere a terra privo di vita. Riker però non rimase ad osservarlo. Preso in contropiede dal rinculo dell’esplosione, aveva lasciato cadere a terra la pistola che gli era letteralmente volata via dalla mano, finendo ad alcuni metri da lui. Avrebbe dovuto stringerla molto più forte. I due droni superstiti rimasero indifferenti e proseguirono la loro marcia verso William, il quale si lanciò a terra, strisciando qualche metro sul pavimento della scialuppa di salvataggio nell’intento di recuperare l’arma. Era riuscito a rimettere la mano sulla pistola, la cui canna scottava non poco, quando sentì una presa gelida stringersi intorno alla sua caviglia. «Prendi questo!» urlò in preda ad una euforia omicida e fece fuoco una seconda volta, facendo ben attenzione a stringere con tutte le sue forze il calcio della pistola. Il rinculo gli fece dolere il polso ma la pistola gli rimase 229 saldamente in mano, mentre il drone che lo aveva afferrato volava a terra, colpito in pieno petto. Ne restava solo uno. Riker rimase ad osservarlo mentre, indifferente per la sorte dei suoi due compagni, continuava la sua missione di assimilazione. «Vediamo se sai adattarti anche a questo! Coraggio! Fatti ammazzare!» Esclamò William puntando la canna della pistola vero la testa del drone. Fece fuoco ed un terzo cadavere andò ad aggiungersi alla collezione dei centri fatti da Riker. «Tre su tre! Niente male per un principiante!» commentò Riker da terra, espirando lentamente per la tensione. Poi il suo primo pensiero andò a Vovelek. Si rimise in piedi e raggiunse l'uscita della navetta alla sua ricerca. 230 CAPITOLO 24 Picard passeggiava nervosamente avanti indietro, con le mani dietro la schiena, passando a fianco di Data, che al contrario, era immobile, intento a seguire il battibecco che da alcuni minuti, stava avendo luogo fra Q ed il suo avversario. Il Q-Borg aveva sollevato una questione di non poca rilevanza, affermando che Data, in quanto androide, quindi una macchina, non avesse alcun diritto a prendere parte alla terza prova. Lo scontro era tra i Borg e gli umanoidi in generale. E non erano comprese le macchine costruite da questi ultimi. Q, dal canto suo, stava asserendo che Data fosse praticamente da considerarsi umano, nonostante la sua composizione artificiale. Possedeva un chip emozionale in grado di fargli provare le stesse emozioni degli umanoidi, nonché un cervello positronico molto sofisticato, al punto che Data era in assoluto la prima macchina costruita da umani, consapevole di se stessa e quindi senziente. «Assolutamente no! Quella cosa è solo una macchina! Una specie di trycorder evoluto! Sarebbe scorretto che partecipasse! Io protesto!» urlava il Q-Borg. «Data è molto più di un trycorder! Ha delle emozioni sue! Genuine! Anzi, è sicuramente più umano di Picard!» ribatté Q e lanciando un’occhiata verso il capitano, lo punzecchiò «Sicuramente è più di compagnia!» Picard arrestò per un istante il suo passo, per rivolgere a Q un finto sorriso di cortesia per l’ironica graffiatura non richiesta. «Non sono disposto a cedere! La sfida è fra umanoidi e Borg! I burattini meccanici non sono stati invitati! 231 Potrebbe essere un interessante spunto per una prossima sfida, ma in questa è escluso» continuò la sua arringa il Q-Borg. «Tu hai paura di perdere! Questa è la verità! E ti stai attaccando ad ogni cavillo! Proprio come con i Sekoniani! Quando obiettasti che non era leale deviare una meteora affinché distruggesse il loro primo tentativo di conquistare lo spazio, mentre cercavo di convincerli che non avrebbero dovuto avventurarsi per la galassia.» «Io paura di perdere?» sbottò il Q-Borg, spingendo indietro di mezzo metro Q, con la forza del braccio meccanico di concezione Borg. «Io non ho paura di perdere! Anzi! Ho praticamente vinto! Quello che cerca scuse sei tu! E quella volta con i Sekoniani il tuo sporco trucco fu lasciato correre solo perché alcuni nel Consiglio del Q-Continuum ti dovevano un favore!» «Menzogna! Sei un incredibile bugiardo! E tu hai paura di perdere! Hai paura di una macchina pensante!» urlò fuori di se Q. «Ma guarda che bello spettacolo. Esseri superiori vero?» intervenne Picard, che non sapeva dove stesse trovando la forza per fare dello spirito. «Tu taci!» gli risposero all’unisono Q ed il suo sfidante, fulminandolo con lo sguardo. Picard, per tutta risposta, alzò una mano in segno di resa e riprese a trotterellare sui suoi passi, voltando ai due le spalle, affinché non notassero il suo divertimento. La situazione gli pareva tanto assurda da poter essere accettata solo facendo appello ad una dose massiccia di sano umorismo. I due Q ripresero il loro battibecco da dove l’avevano lasciato. «Invoco il Consiglio del Q-Continuum! Devono prendere loro la decisione!» propose infine il Q-Borg. 232 Q rimase qualche istante senza fiatare, meditando il da farsi e poi accettò la proposta. Senza però avere alcuna certezza che il Consiglio avrebbe deciso in suo favore. I tempi in cui alcuni suoi membri erano stati in debito con lui erano ormai lontani e non aveva, al momento, carte da giocare. «D’accordo! Chiamiamoli qui! Accetterò la loro decisione senza obiettare!» Sulla bocca del Q-Borg si disegnò un sorriso che aveva un qualcosa di malvagio e schioccò le dita dell’unica mano umana che possedeva. Come sempre dal nulla, comparvero i cinque membri del Consiglio del Q-Continuum. Tre uomini e due donne in età avanzata e una delle due donne reggeva sempre quella specie di scettro che Picard aveva catalogato come simbolo di potere. I cinque, uno accanto all’altro non aprirono bocca ed attesero che Q e il Q-Borg si fossero avvicinati loro. «Cosa volete, questa volta?» disse l’anziana che reggeva lo scettro. «E’ è a causa della Terza Prova!» esordì il Q-Borg. «Abbiamo una controversia procedurale che solo il Consiglio può dirimere!» continuò Q ossequioso. «Mai che voi due abbiate qualcosa di più interessante da comunicarci» sbuffò tristemente la Q, scambiando un’occhiata di biasimo con gli altri consiglieri, i quali restituirono espressioni altrettanto straziate. Poi la donna fece una passo avanti e prendendo lo scettro con entrambe le mani, accarezzandolo lentamente si arrese, «avanti! Esponeteci la nuova questione.» In pochi minuti il Q-Borg espresse la sua lamentela e le ragioni a suo sostegno e tanto fece anche Q opponendo una lunga sequela di obiezioni, mentre Picard e Data assistevano impotenti a quello che pareva essere un secondo processo a carico di Data dopo quello in cui, 233 anni prima, l’androide era stato parte in causa ed aveva dovuto difendersi dal comandante Bruce Maddox, il quale riteneva Data solamente una macchina non senziente, incapace di emozioni e reali sentimenti, e quindi come tale a disposizione della Flotta Stellare, per un processo di replicazione. Allora fu Picard a toglierlo dai guai, convincendo il giudice circa l’unicità di Data e come tale, essere dotato degli stessi diritti di ogni cittadino della Federazione. Quando il Q-Borg ebbe terminato la Q fece un passo indietro e richiamò a se gli altri consiglieri, che si strinsero intorno a lei a formare un cerchio. «La corte si è riunita in camera di consiglio» commentò sarcasticamente Picard, sempre più infastidito dalla situazione che lo vedeva come una semplice comparsa, in uno spettacolo dove le parti principali erano state assegnate a delle entità capricciose e volubili. «Speriamo che il giudice non sia corrotto» replicò Data, apparentemente non turbato dalla situazione. «Io temo per lei signor Data. Ha visto cosa è accaduto a Beverly, Deanna, Geordi e Worf. Questa volta temo che non ne usciremo tanto facilmente. Siamo totalmente in balia dei Q. E non serve che le dica che la cosa non mi piace affatto!» replicò Picard. Proprio mentre Picard terminava di parlare la Q a capo del Consiglio alzò lo scettro al cielo e il piccolo cerchio si aprì lentamente. «Il Consiglio ha deciso.» disse con voce calma e profonda. Q e il suo avversario si avvicinarono alla donna anziana, impazienti di conoscere il verdetto. Anche Picard si avvicinò e fece cenno a Data di fare altrettanto. Voleva udire per bene ogni parola pronunciata dalla donna. 234 «L’androide, per quanto sia una apprezzabile creazione, seppur primitiva, degli umanoidi, con lo scopo di riprodurre meccanicamente una forma di vita biologica e per quanto essa sia stata dotata della capacità di percepire delle sensazioni e dei sentimenti, non può considerarsi una forma di vita umanoide. Per tanto il Consiglio accoglie la richiesta avanzata del Q-Borg. L’androide non può partecipare alla Terza Prova. Quindi è eliminato dalla Sfida.» Appena la donna ebbe finito, Q aprì subito bocca per protestare ma l’anziana donna lo zittì con lo sguardo e puntandogli contro lo scettro esclamò, «il Consiglio ha deciso! E come ben sai le nostre decisioni sono inappellabili!» Q rimase senza parole e sul suo volto comparve un velo di disperazione cupa. Senza l’androide le sue possibilità di vittoria scemavano ancora di più. Picard, che era rimasto fino a quel momento in disparte si fece avanti e si rivolse alla donna e con fare risoluto porse una domanda a cui il verdetto del consiglio non dava risposta. «E ora che ne sarà di Data?» Il Q-Borg, raggiante per il favorevole verdetto, si avvicinò al capitano posandogli una mano sulla spalla disse freddamente: «L’androide se ne deve andare!» E fece schioccare le dita. Un istante dopo Picard udì un’esplosione provenire alle sue spalle, a poco distanza. Si voltò di scatto e la dove poco prima stava Data ora vi era una chiazza nerastra e una nuvola di fumo si stava disperdendo nel vento, mentre migliaia di piccoli frammenti, lentamente ricadevano al suolo. 235 Picard atterrito si voltò verso il Q-Borg alla ricerca di una spiegazione logica per un gesto tanto crudele. «Sentenza eseguita!» fu la laconica risposta del Q-Borg. Si asciugò la fronte con un rapido gesto. Il caldo di quel deserto era opprimente. Con cautela sporse la testa oltre il limite del portellone della navicella. La fuori, da qualche parte vi era ancora un drone e Vovelek. Forse ancora vivo. Stringendo con forza la Magnum, Riker fece un balzo sulla rampa, puntando l’arma davanti a se e compiendo un giro di centottanta gradi sul suo asse, a coprire tutto l’orizzonte. Nessuna traccia del vulcaniano. Lentamente cominciò a percorrere la rampa metallica che portava alla sabbia del deserto, facendo attenzione a scansare i corpi dei due droni abbattuti a colpi di phaser, pochi minuti prima. Vide luccicare qualcosa dalla sabbia. Il suo phaser affiorava, conficcato con la punta verso il basso. Riker fece una piccola riflessione su quanto fosse paradossale il fatto che un arma di ben quattro secoli prima si stesse rivelando molto più efficace dell’ultimo ritrovato in fatto di tecnologia. Sicuramente, i Borg avrebbero trovato un sistema rapido ed efficiente per difendersi dalle armi da fuoco, rimodulando i loro scudi. Ma non oggi, pensò. Poggiò un piede sulla sabbia cocente e decise di aggirare la navicella, portandosi nella sua ombra. Le orme erano confuse e Will non riusciva a capire che direzione potesse aver preso il drone. Decise di lasciare al suo istinto la scelta. La cosa migliore su cui fare affidamento in quel momento, ad eccezione della sua sputafuoco. A piccoli passi aggirò la navetta. Arrivato al bordo estremo, espirò profondamente, preparandosi all’azione. 236 Così come aveva fatto altre decine di volte in passato. Strinse forte l’arma e si preparò a puntarla. Forza Vovelek, sto arrivando! Gridò dentro di se Riker, sperando che il vulcaniano potesse sentirlo grazie alle sue capacità telepatiche. Poi decise di uscire allo scoperto e con un balzo si mise in posizione, con l’arma pronta a fare fuoco. Ma con sua sorpresa non vi era traccia del drone. Vovelek era solo, seduto a terra con le spalle rivolte verso William, ad una decina di metri da lui, protetto dai raggi del sole, grazie all’ombra della navicella di salvataggio. «Comandante Vovelek!» esclamò Riker, ma il vulcaniano parve non udirlo. «Comandante Vovelek! Sta bene?» urlò ancora William. Vovelek non accennò alcuna reazione. Riker iniziò rapidamente ad avvicinarsi, cercando di capire che fosse successo. Probabilmente Vovelek era riuscito a mettere fuori combattimento il drone ma forse era rimasto in qualche modo ferito. Lo raggiunse in pochi secondi, guardandosi sempre bene intorno, temendo di veder spuntare da qualche parte l’ultimo drone. «Vovelek! Si sente bene? E’ ferito?» domandò nuovamente Riker poggiandogli una mano sulla spalla e scuotendolo leggermente. E in quel momento, notò delle profonde ferite sul collo del vulcaniano da cui era colato del sangue dal tipico color verdastro. Solo a quel punto il vulcaniano parve rendersi conto della presenza del compagno di naufragio e iniziò lentamente a voltare il capo. Ma prima che potesse incontrare lo sguardo di Riker, qualcosa o meglio qualcuno, sferrò un colpo violento alla scapola di Riker, piegandolo a terra, in ginocchio. Un 237 successivo colpo, all’altezza della mascella, lo spinse lontano, facendolo volare con il volto nella sabbia. Riker sentì il sapore del suo stesso sangue riempirgli la bocca. Chi diavolo lo aveva colpito? Fu il suo primo pensiero. Il secondo fu di evitare altri colpi e di rimettersi in piedi. Si voltò rapidamente, ignorando i forti dolori causati dai colpi e vide finalmente chi doveva ringraziare per i nuovi lividi. Il drone Borg superstite lo aveva raggiunto alle spalle, senza che lui se ne accorgesse. Stava davvero invecchiando, pensò fra se. E ora troneggiava su di lui, con il suo unico braccio superstite. - Che ironia! - pensò Riker - i Borg hanno tolto un braccio a me ed io ho causato la perdita di un braccio ad uno di loro Ma il pensiero durò una frazione di secondo. Il Borg si avvicinava minaccioso e Riker era ancora a terra. Con la mano raspò la sabbia, nel tentativo di recuperare la Magnum, ma con disappunto, si rese conto che non era li vicino a lui. Doveva averla lasciata cadere a causa dei colpi subiti. E al momento era fuori dalla sua visuale. - Maledizione! - Imprecò fra se. Oggi davvero non era la sua giornata fortunata. Cominciò a scalciare per indietreggiare, ma gli stivali gli affondavano nella sabbia. «Vovelek! Mi aiuti! Prenda la pistola!» gridò all’indirizzo del vulcaniano, sperando che potesse venire in suo soccorso. Ma Vovelek non accennò alcuna reazione. Rimase immobile, con il volto chino sul petto, come intento ad osservare i granelli di sabbia. 238 «Vovelek! Dannato vulcaniano! Mi aiuti! Non voglio morire per avere avuto la pessima idea di venire a salvarla!» Riker trovò ancora la forza di fare dell’ironia, nonostante fosse ad un passo dalla morte. Il drone gli era ormai addosso e puntò il suo braccio meccanico verso la sua gola. Il braccio era parzialmente danneggiato per fortuna di Riker, e i normali tubicini metallici, che avevano il compito di iniettare nel corpo degli essere viventi le terribili nanosonde, erano in buona parte recisi. Il che avrebbe costretto il drone a doversi avvicinare molto di più del solito. Quasi a contatto diretto con la pelle. Riker afferrò il braccio del drone con il suo e iniziò una specie di gara di braccio di ferro, con in palio la sua vita. Strinse i denti ed oppose tutta la resistenza possibile, ma il drone sembrava possedere una forza incredibile. Riker osservò il tubo reciso avvicinarsi sempre di più alla sua gola, presagendo l’imminente arrivo della sua fine. Sarebbe morto su un pianeta sconosciuto e probabilmente avrebbe finito col servire la Collettività per anni, fino a che, troppo vechio, sarebbe stato espulso nello spazio come rifiuto o riciclato. Chiuse gli occhi, incapace di guardare la sua fine, quando, all’improvviso, sentì il volto bagnarsi di una sostanza calda, mentre un forte boato echeggiò nel deserto. Riaprì gli occhi e vide che la testa del drone Borg era parzialmente esplosa e parte del suo contenuto, ora, si trovava sparso sulla sua uniforme e sulla sua faccia. Il braccio meccanico allentò lentamente la presa e Riker riuscì ad allontanarlo dalla gola, mentre il resto del drone stramazzava al suolo. 239 Riker alzò lo sguardo oltre il drone e il cuore gli si riempì di gioia. «Vovelek!» gridò, senza preoccuparsi di non far notare al vulcaniano di quanto fosse felice di vederlo in piedi e con la sua Magnum ben stretta in mano. Riker si alzò in piedi, pulendosi il volto dai resti organici del drone e gli si avvicinò. «Mio Dio Vovelek! Io le devo la vita per l’ennesima volta.» Riker si interruppe bruscamente. Non appena fu vicino al vulcaniano si rese conto che metà del suo viso era ormai parzialmente assimilato. Le nanosonde affioravano in vari punti ed erano alacremente al lavoro. «Oh! No!» esclamò costernato Riker. E Vovelek continuava ad impugnare la pistola, puntandola proprio verso l’umano. A quel punto Riker temette che il vulcaniano avrebbe aperto il fuoco anche su di lui, ma fortunatamente non fu così e Vovelek gli porse la pistola, che prontamente Riker afferrò. «Vovelek» balbettò William. «Comandante,» iniziò a parlare il vulcaniano «la mia mente sta per soccombere al potere delle nanosonde. Se ne vada da qui.» Vovelek fu percorso da un tremito. Chiuse gli occhi e strinse i denti. Stava combattendo una battaglia impossibile contro la tecnologia Borg. Riaprì le palpebre e riprese a parlare. «Prenda la navicella e lasci il pianeta. Ma prima di questo, deve uccidermi.» Riker rimase senza parole ad osservare il suo compagno di naufragio. 240 «Mi uccida adesso, che ho ancora il controllo delle mie facoltà mentali. Non lasci che i Borg entrino in possesso di tutte le informazioni contenute nel mio cervello.» «Non potrei mai. Io non potrei mai…» rispose Riker atterrito dalla prospettiva di assassinare il vulcaniano. «La prego. Sarebbe molto umiliante per me essere assimilato. La prego. Mi uccida ora.» Vovelek fu percorso da un altro fremito, questa volta più intenso e doloroso del precedente. «Io non posso! Non posso…» balbettò ancora William. «La prego!» urlò Vovelek stringendogli con forza la mano e trascinandola verso di se, puntandosi la canna della pistola al cuore. Riker era pietrificato, incapace di premere il grilletto ed allo stesso tempo incapace di abbandonare il vulcaniano alla assimilazione. Alla fine la paura prese il sopravvento. Si sganciò dalla presa del vulcaniano ed indietreggiò. «Mi dispiace! Mi dispiace! Non posso!» urlò al vento. Poi si girò di scatto abbassando gli occhi e si mise a correre verso il portello della navicella. E mentre correva, sentì l’eco mentale di Vovelek che ancora gli lo pregava di ucciderlo. 241 CAPITOLO 25 Picard era immobile, con il vento caldo del deserto ad asciugargli le labbra. Stava fissando gli ultimi frammenti di Data depositarsi al suolo, mentre la nuvola di fumo biancastro, lentamente si disperdeva nell’aria, incapace di accennare una qualunque reazione. Uno dopo l’altro i suoi migliori ufficiali, i suoi migliori compagni di viaggio, i suoi migliori amici, erano assurdamente morti nel tentativo di dare ancora una speranza alla galassia intera. Si sentì solo come mai prima in vita sua. Ed impotente. Ed un pensiero maligno attraversò la sua mente, come un fulmine in una giornata di sole. Arrendersi di fronte ad un destino perdente a cui, a quanto pareva, ogni ribellione pareva spegnersi nel sangue. Avrebbe, se non altro, accelerato il processo e si sarebbe risparmiato forse ulteriori sofferenze. Se la Galassia era destinata ad essere assimilata dai Borg, mentre il Q-Continuum osservava indifferente, cosa avrebbe potuto fare lui, semplice e misero umano, contro tanta potenza? Una lacrima tentò di trovare la sua strada lungo il viso di Picard, ma il soffio caldo del deserto l’asciugò prima che potesse scavarsi il suo solco. E poi rabbia frustrante. Come una diga che cede per l’eccessiva pressione dell’acqua. Strinse i pugni fino a sentire il dolore provocato dalle proprie unghie che iniziavano ad infilarsi nelle carni del palmo. Percepì la pressione di un tocco sulla spalla. Era la mano di Q, proteso in un gesto di conforto. «Jean-Luc» mormorò, incapace di trovare le parole adatte. Anche per lui si trattava di una grossa perdita. La 242 sconfitta era ormai davvero vicina. Per quanto Picard fosse un essere davvero speciale e sorprendente, difficilmente avrebbe potuto superare la Terza Prova completamente da solo. «Era necessario tutto questo?» domandò Picard, senza voltarsi. «Non tutto è perduto Jean-Luc! C’è ancora una prova da affrontare! Possiamo ancora salvare la Galassia dai Borg!» «Possiamo?» il fatto che Q stesse parlando al plurale non sorprese più di tanto Picard. Gli sembrò logico e comprensibile che Q restasse fedele a se stesso fino all’ultimo. «D’accordo. Hai ragione. Io ho soltanto creato problemi in questa faccenda.» «Problemi? La morte di Beverly, Deanna, Worf… Tu questi li chiami problemi?» lo interruppe Picard. «Io le definisco tragedie! Ingiustificabili tragedie! Se fossero periti in missione od in battaglia sarebbe stato ugualmente difficile accettarne la perdita. Ma fa parte dei rischi di chi entra a fare parte della Flotta Stellare. Loro ne erano consapevoli, io lo sono tutt’ora. Ma così… Morire per il divertimento di due entità sfaccendate, che hanno scambiato la Galassia per un tavolo da gioco e gli esseri che la abitano per pedine. No! Così non è accettabile!» Lo sfogo di Picard non sembrò avere una grande effetto su Q, il quale non batté minimamente ciglio. «Tu non capisci vero?» domandò Picard, che per la prima volta si rese conto di quanto in realtà fosse limitata la natura dei Q. Avevano perso cognizione per il senso della vita. Di ogni singola vita. Sterminarne a milioni o condannarne uno soltanto, per loro era la medesima cosa. Un gioco, un passatempo, un divertimento. 243 Q fece un passo indietro. Gli occhi di Picard emanavano una luce sinistra, gelida che lo turbò. Mollò la presa dalla spalla del capitano e abbassò lo sguardo, incapace di sostenerlo. Che Picard fosse dotato di inaspettate capacità telepatiche mai rivelatisi fino ad ora? Un brivido gli percorse la schiena, mentre un senso di angoscia profonda, misto a rabbia e dolore lo invase lentamente. Ma anche un grande orgoglio, dignità e fierezza. E la fonte era Picard. Picard continuò a fissarlo qualche secondo, poi riprese con tono pacato. «Che succede Q? Il tuo giocattolo non ti diverte più?» e con un gesto delle mani indicò se stesso. «Allora! Voi due! Volete muovervi!» urlò il Q-Borg, che nel frattempo era rimasto ad osservarli in compagnia dei membri del Consiglio, interrompendo così il loro dialogo. «Arriviamo!» rispose sgarbatamente Q. «Coraggio! Poniamo fine a questa farsa. Il tuo giocattolo è pronto ad entrare in azione!» ironizzò Picard. Q non replicò e si limitò a tornare verso i membri del consiglio, seguito dal capitano. «Siamo pronti» disse semplicemente. «Bene. Che la Terza Prova abbia inizio» disse la donna Q a capo del Consiglio. E alzò lo scettro dorato al cielo. «Ottimo! Non vedo l’ora che sia conclusa! La vittoria è già nelle mie tasche!» esclamò borioso il Q-Borg «Ci vediamo fra poco Q!» e scomparve in un lampo di luce bianca. Un istante dopo scomparvero anche tutti i membri del consiglio. Q si voltò verso Picard e fece per indicargli la via per il retro del furgone militare, che aveva trasportato anche gli altri suoi compagni, ma il capitano, con sua sorpresa, non aveva atteso il suo invito e spontaneamente stava 244 apprestandosi ad accomodarsi sulle scomode panche pensate per il trasporto di truppe su terra. Q raggiunse il retro del mezzo e sollevò la sponda metallica, bloccandola con gli appositi fermi. Poi si fermò un istante ad osservare Picard, che stava seduto con il busto eretto e pareva fissare il vuoto davanti a se. «Ce la farem... farai Jean-Luc. Ne sono convinto.» Picard non rispose. Era stanco delle rassicurazioni di Q, che fino a quel momento non erano servite ad un bel nulla. Q fece per aggiungere qualche altra parola, ma vi rinunciò e si mise rapidamente alla guida del pesante mezzo. Picard rimase immerso nei propri pensieri, senza domandarsi né quanto sarebbe durato il viaggio né dove Q l’avrebbe portato. Non gli interessava nemmeno provare ad immaginare la natura della terza prova. Si sentiva vuoto e sconfitto. E con la netta sensazione che qualunque cosa avrebbe fatto, non ci sarebbe stato modo di uscire da quella situazione. - E’ la mia Kobayashi-Maru - ridacchiò fra se, ricordando un vecchio test a cui erano sottoposti i cadetti all’Accademia. Una classica situazione senza via d’uscita, dove qualunque strategia si adotti si va incontro alla sconfitta. «Qualunque strategia…» mormorò, mentre era sballottato dalle vibrazioni del mezzo, che correva veloce su quell'unica lingua di asfalto nero, sempre radente il muro a secco. Ricordò anche di come l’unico ad essere riuscito a superare la prova fu James Kirk, con uno stratagemma davvero originale. Non si mosse all’interno della simulazione, non ne accettò le regole e le condizioni. 245 Uscì da essa e modificò la situazione a suo favore. Con un piccolo intervento sul computer del simulatore. Per un istante balenò nella sua mente un’idea. «Cambiare le condizioni…» disse con tono più convinto. Perché no? Si domandò. Non aveva ormai più nulla da perdere. Se fosse andato incontro alla terza prova era certo che avrebbe perso. La simulazione era programmata contro di lui. Forse una soluzione era tentare di uscire dal simulatore. Sfuggire alla regole imposte dai Q. Si guardò intorno e subito gli fu chiaro cosa doveva fare. Si mise a cavalcioni della sponda metallica e tenendosi faticosamente in equilibrio, cercò di valutare quante possibilità avrebbe avuto di saltare dal mezzo senza rompersi l’osso del collo. E senza che Q lo notasse dagli specchietti retrovisori. Approfittò di un piccolo dosso che fece rallentare un poco l’andatura del mezzo. In più, non appena il mezzo avesse imboccato la discesa, sarebbe sfuggito alla vista degli specchietti. Fece un profondo respiro ed attese l’attimo migliore. Poggiò i piedi su una barra di protezione che stava poco sotto la sponda, con la schiena poggiata ad essa e le mani pronte a sostenerlo. Il mezzo rallentò. Q cambiò la marcia per affrontare la salita e durante l’operazione la velocità diminuì notevolmente. «Adesso!» esclamò Picard per incitarsi e si lanciò. Ruzzolò pesantemente sull’asfalto, finendo la corsa nella sabbia del deserto. Ma era intero e con tutte le ossa a posto. Alzò lo sguardo, giusto per vedere il camion militare scomparire dietro la cunetta. Restò in ascolto, per verificare se Q avesse o meno notato la sua defezione. Ma il rombo del mezzo ben presto scomparve. Ce l’aveva fatta. 246 Almeno a fuggire. Ora pero’ non aveva la minima idea di quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Chiuse il portello dietro di se. Il cuore gli pulsava a mille, tanto che se lo poteva sentire in gola. Nonostante fosse più che certo che era frutto della sua immaginazione, poteva ancora sentire le suppliche del comandante Vovelek. Si sentì un verme. Un vigliacco. Ma non aveva avuto il coraggio di fare fuoco. Comunque il vulcaniano era spacciato. Anche se lo aveva costretto ad una morte più lenta e dolorosa. Un vulcaniano non avrebbe esitato a fare fuoco, ma lui era umano ed uccidere a sangue freddo un amico andava contro i suoi principi. - Se ho sbagliato, pagherò! - Si disse per farsi forza. Cercando di convincersi di avere preso la decisione giusta. Ma una parte di se urlava di vergogna per l’atrocità di cui si era reso responsabile. Cercò di scacciare ogni pensiero e decise che era giunto il momento di darsi una possibilità di sopravvivenza e di lasciare quel pianeta maledetto. Scavalcò i corpi senza vita dei droni che aveva abbattuto a colpi di pistola e si mise alla consolle principale di navigazione. Attivò la procedura di preriscaldamento dei motori di manovra. Ancora pochi minuti ed avrebbe potuto lasciare quell’arido pianeta. Anche se per andare non molto lontano. Al massimo avrebbe raggiunto l’orbita, ma da li avrebbe potuto tentare di inviare un segnale di soccorso non disturbato dall’atmosfera e quindi molto più potente. Sempre che nella Galassia fosse rimasto ancora qualcuno in grado di raccoglierlo. Attivò l’energia principale e la scialuppa iniziò a vibrare violentemente, tanto che Riker temette che sarebbe esplosa di li a poco. Forse Vovelek non era riuscito ad 247 interfacciare correttamente la cella d’energia con il sistema dei propulsori di manovra. Poco male, si disse, forse in fondo era la fine che meritava. Ma dopo pochi secondi i valori rientrarono nella norma e la scialuppa cessò di vibrare. La consolle gli diede il via libera al decollo. «Ottimo lavoro Vovelek» mormorò fra se, sentendo di essere, per l’ennesima volta, in debito col vulcaniano. «Peccato che non potrò mai sdebitarmi» concluse la riflessione ad alta voce. Come se il vulcaniano fosse li per poterlo ascoltare. Impostò una rotta ellittica, che lo avrebbe portato fuori dall’atmosfera del pianeta in meno di dieci minuti. Quella era la fase più critica. I razzi di manovra erano scarsamente potenti ed inadatti al volo atmosferico. Ed in più il sistema di guida automatico era fuori uso. «Forza William, vediamo se te la cavi ancora con il volo manuale» Premette il controllo di attivazione dei propulsori laterali e frontali e la navicella lentamente iniziò a sollevarsi dalla sabbia del deserto, creando un vortice di sabbia e pietre che la avvolse completamente. Aumentò gradualmente la potenza, osservando l’altimetro, per verificare che si stesse realmente muovendo. In una qualsiasi direzione. Lentamente la scialuppa prese quota, lasciando dietro di se una scia biancastra, causata dalla reazione del propellente dei razzi di manovra con l’atmosfera. A causa dei forti venti la scialuppa oscillava violentemente, costringendo Riker ad aggrapparsi di tanto in tanto. Operazione rischiosa, visto che lo costringeva ad abbandonare i controlli manuali. 248 «Per quanto dovrò rimpiangerti?» domandò a se stesso ed al suo braccio mancante. Se si fosse salvato, giurò, avrebbe finalmente compiuto un intervento di ripristino. O con un braccio clonato o meccanico. Anche un semplice uncino. Purché fosse stato di nuovo in grado di essere utile a se stesso. Mille metri. Cinquemila metri. Diecimila metri. La scialuppa stava salendo di altitudine, anche se molto lentamente, e lungo una rotta estremamente ellittica. Ma questo era il massimo che Riker poteva ottenere dalle scarse possibilità offerte dalla scialuppa, progettata per effettuare un atterraggio di emergenza, ma non per un decollo. Lavorò costantemente ai controlli di navigazione, cercando di anticipare le oscillazioni causate dalle turbolenze, via via meno intense, man mano che saliva di quota. «Ancora uno sforzo. Cinquantottomilaseicento metri» presto avrebbe raggiunto la ionosfera dove la resistenza dell’atmosfera sarebbe stata minore e i propulsori di manovra avrebbero operato con maggiore efficienza. Lo schermo principale gli mostrava la superficie del pianeta. Una sfera di sabbia nell’universo. Non vi era una sola fascia di vegetazione, nemmeno nei pressi dei poli. Il che incuriosì Riker. Era alquanto inusuale una simile conformazione. Cercò di azionare i sensori esterni della scialuppa, ma erano apparentemente fuori uso, inglobati nella tecnologia Borg che infestava ancora le apparecchiature della capsula. Sperava così di tentare una ricerca di altri sopravvissuti della Uss Pioneer e magari di mettersi in contatto con loro. 249 Ma il tentativo di penetrare nei sistemi Borg causò una specie di reazione difensiva dei sistemi stessi. Alle sue spalle udì il crepitio di circuiti, che saltavano e prendevano fuoco. Da una paratia uscirono lingue di fuoco, che Riker cercò prontamente di spegnere con un estintore. Ma l’operazione gli fu fatale. Allontanandosi dalla consolle principale non si rese conto che l’energia principale stava cedendo a causa dell’interferenza della tecnologia Borg. Improvvisamente fu il buio più completo all’interno della scialuppa. E un istante dopo, Riker fu letteralmente sbattuto contro una delle pareti. La scialuppa aveva perso l’assetto e stava entrando in una pericolosa cavitazione. L’energia d’emergenza entrò in funzione, riportando una flebile luce nell’abitacolo. Riker scosse il capo frastornato da quanto era accaduto. Un rivolo di sangue gli colava dalla fronte. Ma non sentiva nessun particolare dolore. Nulla di grave, si rassicurò. Si rimise faticosamente in piedi e tentò di raggiungere la consolle di navigazione per tentare di riprendere il controllo della capsula. Ma il pavimento oscillava sotto di lui e gli smorzatori inerziali faticavano a correggere il continuo cambio di senso della gravità, causato dalla cavitazione. Quando riuscì a rimettere le mani alla consolle e constatò l’entità dei danni, comprese che non c’era più nessuna speranza di riprendere l’orbita. L’energia principale era fuori servizio. Al contrario stava precipitando senza controllo. Avrebbe dovuto cercare di tentare un atterraggio di fortuna, facendo leva sui propulsori di manovra e l’energia di riserva. 250 Per prima cosa cercò di annullare la rotazione, dando potenza nel senso opposto. La capsula vacillò ma riprese un assetto accettabile. Ora, valutò Riker, era il caso di portare il muso di quell’affare il più possibile parallelo alla superficie del pianeta e tentare di strisciarvici sopra, anziché infilarsi come un sasso in essa. Un pensiero andò a Vovelek. «Non riesce a stare senza di me» mormorò, fissando lo schermo principale, che, tremolante, gli mostrava la superficie del pianeta in costante avvicinamento. Attese con animo sereno l’impatto col suolo. Il suo destino era ormai compiuto. Se non fosse morto nell’impatto lo sarebbe comunque, pochi giorni dopo, o per le ferite o per l’esaurirsi delle scorte. La capsula sfiorò le sabbie del deserto, poi, come un sasso lanciato sull’acqua rimbalzò alcune volte, senza perdere l’assetto, fino ad arrestarsi definitivamente contro una duna. 251 CAPITOLO 26 «Pensi che ce la farà?» domandò il giovane allievo di Q. «Deve farcela. Non ho più scelta. Farò il possibile per aiutarlo.» Il ragazzo distolse lo sguardo dalla strada, che rapidamente scompariva sotto i pneumatici del pesante automezzo, per osservare meglio l’espressione dipinta sul volto del suo maestro. Q era teso. I muscoli facciali erano contratti, la mascella serrata. Lo sguardo fisso sulla strada. Le mani saldamente sul volante. «Ma se lo aiuterai, il Consiglio darà la vittoria al QBorg.» gli ricordò il più giovane Q. «Lo so» rispose seccamente Q. «Non capisco. Se lo aiuterai a vincere la prova, perderai comunque. O forse hai in serbo qualche sorpresa speciale? A me lo puoi dire. Sai che terrei la bocca chiusa!» «No. Nessuna sorpresa, nessun trucco. Picard vincerà.» «Ma tu così perderai. Io non capisco maestro!» Il giovane Q cominciò ad intuire la verità. Forse al proprio maestro interessava più la vita dell’umano che la vittoria nella sfida. «Si perderò. Ma Picard non morirà. Non lo posso permettere.» Come pensavo, si disse fra se il ragazzo, tornando a osservare il paesaggio oltre il parabrezza. «Quindi avremo una Galassia dominata dai Borg e un singolo umano. Jean-Luc Picard.» commentò l’allievo. Q sorrise per una frazione di secondo. 252 «Non è detto ragazzo mio. Picard potrebbe anche farcela a vincere la prova. Io interverrò solo ed unicamente se dovesse trovarsi in difficoltà. Non tutto è perduto.» «Capisco. Sarà uno spettacolo interessante ed istruttivo.» «Lo sarà.» rispose Q, chiudendo la conversazione e tornando a concentrasi su quanto lo stava attendendo. Picard si rialzò, scuotendosi l’uniforme per togliersi di dosso almeno una parte della sabbia. Una buona quantità della stessa era arrivata sul fondo dei suoi stivali d’ordinanza. Uno alla volta se li levò, svuotandone il contenuto, che si disperse nel vento. «Ora va meglio» si disse soddisfatto, non percependo più il fastidioso scricchiolio dei granelli di sabbia sotto la sua pianta dei piedi. Si guardò intorno. Deserto. Per miglia e miglia. In lontananza delle alture. Ma dovevano trovarsi parecchio lontano dalla sua posizione. Poi la strada, che si perdeva all’orizzonte in entrambe i sensi e il muro, di pietre, che la seguiva. - Bene, - si disse - adesso quale sarà la mia prossima mossa? Fece una rapido riassunto della sua situazione: si trovava in un deserto, senza né acqua né cibo. Per di più non un deserto reale, ma una creazione appositamente pensata per lui, quale rappresentazione di non si sapeva quale luogo del Q-Continuum. Per similitudine, paragonò il luogo ad un moderno ponte ologrammi. Senza conoscere i comandi per far apparire l’uscita, avrebbe potuto camminare in qualunque direzione per l’eternità, senza mai trovarne il confine estremo. 253 Il sole scottava, per cui decise che sarebbe stato più saggio continuare la riflessione all’ombra del muro a secco. Si sedette sulla sabbia, poggiando la schiena contro le pietre della muraglia, che, con la loro relativa frescura, gli diedero un parziale sollievo. Si rese conto che fino a quel momento non aveva badato grande attenzione alla muraglia. Alzò il capo per osservarla meglio. Era un semplice muro, alto all’incirca due metri e mezzo o poco più, di pietre e una qualche sostanza che faceva da collante. Provò a graffiarne la superficie per verificare la qualità del cemento. Era fango. Banalissimo fango, che si sgretolò rapidamente fra le sue mani. Si pulì i palmi della mani strusciandoli rapidamente fra di loro. «Alta tecnologia Q» disse commentando la qualità della realizzazione. Improvvisamente, come una specie di illuminazione divina, una possibilità gli balenò nella mente. Con uno scatto del collo, tornò a guardare in alto, verso la cima del muro. «Infrangere le regole. E le convenzioni..» si disse, alzandosi in piedi e cominciando a guardarsi intorno, alla ricerca di qualcosa di utile per costruirsi un gradino, sufficiente per tentare di scoprire cosa si trovasse al di là della muraglia. «Vivo» mormorò nell’oscurità. «Sono ancora dannatamente vivo» si ripeté quasi incredulo. Era a terra, con la guancia contro il freddo pavimento metallico della capsula. Era stato sballottato più volte durante l’atterraggio d’emergenza, ma ancora una volta, la sua dea della 254 fortuna personale lo aveva protetto. Ad eccezione di qualche contusione, stava bene. L’interno della capsula era nell’oscurità più completa. I due piccoli oblò di cui era dotata, erano rivolti verso il terreno. La capsula era completamente sottosopra. Riker se ne rese conto tentando di rialzarsi, quando con la nuca, batté violentemente contro una consolle, che parzialmente distrutta, pendeva dal soffitto. Brancolando nel buio, tentò di orizzontarsi, alla ricerca del portello di uscita. Sperando che questa volta non fosse rimasto bloccato, così come gli era accaduto dopo il primo atterraggio fortunoso. Questa volta non ci sarebbe stato nessun dannato vulcaniano ad aiutarlo. Anche se in fondo, una volta trovata una via d’uscita, si sarebbe nuovamente trovato di fronte il desolante spettacolo di un deserto arido e senza vita. E nessun dannato vulcaniano capace di trovare un oasi sperduta in mezzo ad esso. L’aria all’interno della navicella si stava facendo sempre più calda ed irrespirabile. I corpi senza vita dei droni emanavano un puzzo nauseabondo. Muovendosi a tentoni, Will riuscì a trovare il portello d’uscita e il relativo pannello di controllo. Ma mancando l’energia, come previsto, non servì a nulla azionarne i controlli. Riker, passò quindi alla ricerca dello sblocco manuale, che era celato da un pannello rimovibile. Tirando la leva, udì lo schiocco delle morse magnetiche che rilasciavano il portello, il quale fece un leggero scatto laterale ma si arrestò, mancando l’energia, ma lasciando filtrare una flebile linea di luce, sufficiente a rischiarare il volto di Riker. Con il suo unico braccio, Will, spinse manualmente di lato il portello, quanto bastò per poterci passare con le spalle. 255 La rampa metallica si era automaticamente distesa, ma essendo la capsula rovesciata, si stagliava ora verso il cielo. L’aria secca e calda sferzò il volto di Riker. «Rieccomi a casa» disse ironizzando sulla sua situazione. Approfittando della luce che penetrava l’interno della capsula, ritrovò le poche provviste che lui e Vovelek avevano messo da parte. Si mise lo zaino in spalla e si apprestò ad effettuare un salto di circa un metro, per raggiungere le sabbie del deserto. Alto, ma non troppo, anche con una caviglia ancora dolorante. Era protetto dall’ombra della scialuppa. Ed appena messi gli stivali sulle dune del deserto, iniziò a guardarsi intorno. «Sabbia, sabbia ed ancora sabbia.» esclamò sconsolato. Per scrupolo decise di effettuare una ricognizione completa e si apprestò ad aggirare la navetta, salendo sulla cima della duna contro cui aveva arrestato la sua caduta. E giunto alla sommità rimase sorpreso da quanto si parò davanti ai suoi occhi: una linea perfettamente retta tagliava in due il deserto, perdendosi all’infinito. Un muro di pietre. «Come sarebbe a dire che non c’è?» L’allievo allargò le braccia senza sapere che dire, se non ribadire quanto era sotto i suoi occhi. «Non c’è! Picard non è nel retro del camion!» «Ma non è possibile! L’ho visto io stesso sistemarsi sulla panca!» Q accorse a verificare di persona quanto il ragazzo stesse affermando. Raggiunse il retro del camion, parcheggiato a fianco di quello guidato dal Q-Borg. 256 Il ragazzo diceva il vero. Non vi era traccia del capitano. «Ma dove diavolo è andato!» Q iniziò ad urlare il suo nome a squarciagola ed ad ispezionare il camion. Forse Picard era in vena di scherzi e si era nascosto. Prima controllò al di sopra del telone verde militare, poi diede una rapida occhiata sotto il mezzo e lo circumnavigò due volte, agitandosi ed imprecando. Si fermò solamente quando inavvertitamente andò a sbattere contro il suo avversario, il quale stava intuendo quanto era accaduto. «Ti sei perso il tuo fantastico capitano, Q?» «Non l’ho perso! E’ qui da qualche parte!» rispose balbettando Q, tornando poi a chinarsi, per controllare se per caso fosse nascosto al di sotto del mezzo. «Beh! Ti conviene ritrovarlo al più presto, se ti interessa ancora giocarti la Terza Prova. Oppure è uno dei tuoi soliti mezzucci?» «Mezzucci? Che diavolo stai dicendo?» ribatté Q, continuando a scandagliare ogni possibile nascondiglio. «Coraggio Q! Ho capito il tuo gioco. Sai di avere perso e stai cercando una scusa per ritirarti. Ma non funzionerà. Se il tuo capitano non salta fuori entro cinque minuti, la Sfida sarà conclusa a mio favore.» «Scordatelo! Tu non decidi un bel nulla! Gli unici che possono farlo sono i membri del consiglio!» Sul volto del Q-Borg comparve un ghigno divertito. «Come vuoi» e schioccò le dita. Un istante dopo tutto il consiglio del Q-Continuum ricomparve al gran completo. Solo a quel punto Q arrestò la sua ricerca, comprendendo la pericolosità della situazione. La anziana Q a capo del consiglio fece un passo avanti e con un tono di voce, che nulla faceva per nascondere quanto fosse scocciata di essere stata nuovamente interpellata, disse seccamente: 257 «Stavo cominciando a sentire la vostra mancanza. Di cosa si tratta questa volta?» Q le corse incontro e con il suo solito fare ossequioso spiegò rapidamente quanto era accaduto. «Ma non si preoccupi! Lo troverò quanto prima. Forse è caduto fuori dal camion durante il viaggio!» La donna scosse il capo lentamente. «Q. Come puoi non sapere dove si trova l’umano. Come hai potuto lasciartelo sfuggire. I poteri dei Q…» «Ero distratto! Ero talmente concentrato sulla Sfida che ho lasciato che i miei pensieri si prendessero tutta la mia attenzione!» Lo donna sospirò. Stava per perdere la pazienza. «D’accordo. Ora vuoi cortesemente riportalo qui?» Q rimase qualche secondo a bocca aperta, incapace di dire la verità. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse Picard. E per un essere onnisciente era una condizione più unica che rara. L’eccessiva tensione aveva indebolito i suoi poteri? «Io non so dove si trovi. Altrimenti l’avrei già fatto. Non può farlo lei per me? Le prometto che questa sarà l’ultima volta che disturberò il Consiglio, per i prossimi dieci, anzi no! Quindici eoni!» L’anziana Q scambiò un’occhiata con gli altri membri del Consiglio e poi tornò a parlare: «L’offerta è decisamente allettante. Ma non è accettabile! O il tuo umano prende parte alla Terza Prova entro cinque minuti o la vittoria sarà data al tuo avversario per abbandono. E avrai perso anche questa ridicola Sfida!» Q rimase senza parole, mentre l’eco della grassa risata del Q-Borg lo raggiunse alle spalle. Aveva raccolto quante più pietre era stato in grado di trovare, purtroppo tutte di piccole dimensioni. Per cui ne 258 erano occorse parecchie, prima di riuscire a formare un cumulo sufficientemente alto e consistente da permettergli di raggiungere la sommità della muraglia con le mani. Facendo attenzione a non scivolare, Picard si apprestò a scalare la piccola quanto friabile montagnola che aveva creato. Con gli stivali, che tendevano a scivolare verso l’esterno, riuscì, non senza fatica a raggiungerne la sommità ed a trovare una posizione di equilibrio. Poggiandosi contro il muro, lentamente fece scorrere i palmi verso l’alto, fino a che le braccia non furono completamente distese. Mancavano pochi centimetri all’obbiettivo. Ansimò per lo sforzo di distendersi quanto più possibile, ma senza esito. Doveva effettuare solo un piccolo balzo. Caricò le gambe per effettuarlo, sperando che i sassi sotto le sue suole non cedessero di schianto sotto la pressione. Con un piccolo slancio riuscì a portare le mani oltre il limite estremo del muro ed ad aggrapparsi saldamente. E le sue dita percepirono qualcosa di inaspettato. Raggiunse la muraglia in pochi secondi. Era proprio un lungo, infinito muro a secco. Pietre e fango più o meno, valutò Riker. «Allora il pianeta è abitato.» ne dedusse, essendo da escludere che si trattasse di un fenomeno naturale. Non si vedeva alcun tipo di passaggio in nessuna delle due direzioni per cui si estendeva la muraglia. Se avesse voluto scoprire cosa si celava dietro di essa, l’unica soluzione era scavalcarla. Ma era alta ben più di due metri e con un braccio solo non sarebbe mai riuscito ad aggrapparsi a sufficienza, per tentare di mettersi a cavalcioni di essa. Tornò nei pressi 259 della capsula alla ricerca di qualcosa di utile, che potesse fargli da gradino. Raccolse alcuni rottami, che stavano sparsi intorno alla capsula e li trascinò faticosamente fino al muro. Gli occorsero più viaggi per raccogliere tutto il necessario. Ammucchiandoli diligentemente, si costruì uno scalino sufficientemente affidabile. Si strinse lo zainetto in spalla e lentamente testò la tenuta statica dello scalino. Dondolava leggermente ma resse il suo non indifferente peso. Rimase con le ginocchia piegate, dondolando su se stesso. Poggiò una mano sulla cima del muro per non perdere l’equilibrio e improvvisamente percepì una sensazione di contatto familiare. Alzò il capo di scatto, che, da poco sopra il collo, sovrastava la muraglia. E rimase di stucco. «Capitano!» «Will!» «Che diavolo ci fa lei qui?» «Stavo per farle la stessa domanda!» rispose Picard, stupito ma felice di ritrovare un volto amico. 260 CAPITOLO 27 «Cinque minuti? Non sono assolutamente sufficienti cinque minuti!» protestò Q, agitando le braccia davanti al capo del consiglio del Q-Continuum. «Così ho deciso. Siamo tutti stanchi di questa vostra diatriba. A me non importa chi sarà il vincitore. Importa solo che cessi quanto prima!» rispose con tono autoritario l’anziana Q, agitando a sua volta lo scettro, simbolo di potere. «Ma non può finire così! Non è regolare!» protestò ancora Q. «Non è colpa mia se il tuo capitano se l’è data a gambe levate. Probabilmente ara conscio di essere spacciato» intervenne il Q-Borg. Era decisamente soddisfatto per l’inattesa evoluzione della situazione. La vittoria era praticamente in suo pugno. Q si voltò verso l’avversario, puntandogli contro l’indice. «Sei stato tu! E’ opera tua! Tu hai fatto sparire Picard! Ammettilo! Lo sapevo che non avresti resistito dal commettere qualche scorrettezza! Sei un codardo!» «Calmati Q! Io non ho toccato il tuo umano. Il Consiglio vigilava su entrambi. Se fossi stato io, loro l’avrebbero subito scoperto. Mi spiace Q. Stavolta è proprio finita. Hai perso!» rispose il Q-Borg. Q tornò a rivolgersi al capo del Consiglio «ha imbrogliato! Io lo so che è stato lui! Deve essere riuscito a farvela in barba! Ma è sicuramente opera sua!» La donna lo guardò dall’alto in basso, con un’espressione di disgusto. «Le tue parole offendono tutto il Consiglio del QContinuum. Osi mettere in dubbio la nostra lealtà?» 261 Q si rese conto che stava rischiando di avventurarsi in un discorso controproducente ma cercò ugualmente di riparare. «Non mi permetterei mai. Io intendo solo affermare che può esserci la possibilità che il mio avversario sia riuscito ad eludere la vostra sorveglianza ed a rapire Picard, nascondendolo anche al sottoscritto.» La donna mutò espressione, da disgusto ad ira. «Nessuno può eludere lo stretto controllo del Consiglio!» esclamò, puntando lo scettro verso Q. «Non starò ad ascoltare le tue accuse un momento di più! Sono a dir poco scioccata dalla tua irriverenza! I cinque minuti che ti sono stati concessi sono scaduti. E il tuo campione non è presente. Dichiaro la Terza Prova conclusa e la vittoria è assegnata al Q-Borg, per abbandono dello sfidante. E...» Q tentò di interromperla, pur rendendosi conto che il gesto avrebbe fatto accrescere l’ira della donna. Non poteva permettere che finisse così. Le conseguenze di quella decisione avrebbero per sempre sconvolto la vita dell’Universo. «Mi oppongo a questa decisione!» esclamò facendosi coraggio. La donna rimase stupefatta. Nessuno mai si era permesso un simile affronto. Interromperla mentre deliberava. «Q! Apri la bocca ancora una volta e sarai espulso dal QContinuum un’altra volta. E ti posso assicurare che per nessun motivo ti reintegreremo fra le nostre fila! Già mi sto pentendo di averti accordato una seconda possibilità!» Q stavolta tacque. Non gli restavano più carte da giocare. L’ora della sconfitta era infine giunta. Tutto per colpa di Picard. Alla fine, il buon vecchio capitano era riuscito a ripagarlo con la sua stessa moneta. Dopo anni in cui si era, per sua stessa ammissione, divertito a stuzzicare 262 l’umano ed il suo equipaggio, ora era lui a trovarsi vittima di uno scherzetto del capitano. Ma Picard avrebbe rimpianto per sempre la sua mossa. La sconfitta nella terza ed ultima prova, sanciva la fine della Sfida. E le conseguenze di tale conclusione, a favore del suo avversario, sarebbero state devastanti. «Bene! Così ti preferisco. Silente» aggiunse l’anziana Q, osservando con piacere che Q non aveva più osato replicare e poi continuò. «Comunque, opposizione respinta. La Terza Prova è conclusa. La Sfida è conclusa. Finalmente, dopo secoli, siamo arrivati al termine di questa triste vicenda, che ha tanto infangato il nome del Q-Continuum. Entrambi ci avete disonorato, approfittando della vostra superiorità a danno di esseri primitivi. Ma ora basta.» La donna si avvicinò al Q-Borg e puntandogli al capo lo scettro, disse con tono solenne: «Ti dichiaro vincitore.» Picard e Riker erano faccia a faccia, aggrappati alla bell’e meglio al ciglio della muraglia di pietre. Ancora increduli di trovarsi l’uno in compagnia dell’altro. «Ma lei non dovrebbe trovarsi sull’Enterprise, a guidare il convoglio verso il tunnel bajoriano?» domandò il primo ufficiale. «Si, vero. E’ una lunga storia Will.» sbuffò Picard. «Non me lo dica. Q!» intuì Riker. «Ogni volta che finiamo col trovarci in una situazione assurda, c’è sempre il suo zampino» ammise Picard che poi continuò «lei non dovrebbe trovarsi a bordo della Pioneer?» «La nave è stata fatta a pezzi. Mi sono salvato precipitando su questo pianeta con una capsula di 263 salvataggio» rispose Riker, facendo cenno a Picard, con un gesto del capo, di guardare oltre le sue spalle. «Oh! Vedo. Bell’atterraggio.» ironizzò Picard, constatando lo stato della capsula. «Allora non è solo. In quanti siete? Ci sono feriti?» domandò Picard tornando serio. «Sono l’unico. Anche la mia è una lunga storia. Questo in realtà è il mio secondo atterraggio di fortuna su questo pianeta.» Picard decise che non occorrevano altre domande. Anche perché non riusciva più a sostenersi con la sola forza delle braccia. «Capisco. Che ne dice di raggiungermi da questa parte. Potremo parlare al riparo dalla calura almeno» propose al suo primo ufficiale. «Arrivo» A fatica, Riker riuscì a scavalcare la muraglia, aiutato da Picard e facendo affidamento al mucchio di rocce che il capitano aveva preparato. «E’ una strada quella?» domandò Riker, notando la presenza della lingua di asfalto «il pianeta è abitato?» «Comandante, ora le spiego, anche se mi è sempre più difficile comprendere come e perché lei si trovi qui.» I due trascorsero una buona ora a scambiarsi le relative esperienze. Riker apprese della morte dei suoi amici più cari e soprattutto di Deanna, la betazoide, la donna che aveva amato di più in tutta la sua vita. «Imzadi» sussurrò al vento, mentre Picard gli indicava quale fosse la sua tomba. E apprese anche della fuga di Picard e del fatto che non avesse ora la più pallida idea sul da farsi. Picard, invece, venne a conoscenza della tragica avventura dei sopravvissuti della Uss Pioneer, delle gesta 264 del comandante Vovelek e della terribile scelta che Riker si era trovato ad operare. E del rimorso che ancora lo accompagnava, per non avere trovato il coraggio di sparare al vulcaniano. «Si faccia coraggio Will. La sua non era una scelta facile. Anch’io esiterei se ad essere assimilata, fosse una persona a me cara» lo confortò Picard, ben consapevole che in passato, non aveva invece esitato ad uccidere un membro del suo equipaggio, ormai preda del processo di assimilazione. Ma non stava mentendo, ne cadendo in contraddizione. Semplicemente non poteva sapere se avrebbe avuto lo stesso sangue freddo se, al posto di uno sconosciuto, vi fosse stato uno dei suoi amici più cari. «Comunque sia, sono felice di rivederla comandante.» Riker sorrise. «Lo stesso vale per me capitano. Anche se, come giustamente ha fatto notare, nemmeno io ho la più pallida idea di cosa fare ora.» Picard si sentì rinfrancato dall’aver ritrovato il suo primo ufficiale. Qualunque fosse il destino che li attendeva, avrebbe potuto contare su un vero amico, nonché un uomo dalle capacità straordinarie, di cui era sempre stato fiero, in qualità di suo ufficiale superiore e di semplice uomo. «Proposte Numero Uno?» domandò Picard. «Una capitano. Rifocillarci.» Riker afferrò il suo zainetto e ne estrasse il contenuto. Acqua e le bacche raccolte nell’oasi. E le offrì al capitano. Non appena l’anziana Q, a capo del Consiglio del QContinuum, ebbe terminato di dichiarare la vittoria nella Sfida del Q-Borg, quest’ultimo alzò le braccia, costituite da impianti Borg in oro e argento, verso il cielo ed emise un urlo di vittoria. 265 Un urlo trattenuto per millenni, tanto era durata la sfida fra i due esseri dotati di poteri quasi infiniti. Il suo urlo sembrava non avere fine ed era talmente poderoso che l’atmosfera sopra le loro teste si addensò, andando a formare una specie di turbine, che si fece man mano più grande e minaccioso. Un vento di insostenibile potenza sollevò tonnellate di sabbia, che formarono un circolo attorno al Q-Borg. Tutto nell’area fu spazzato via, compresi i due camion militari, che scomparirono in cielo. Q, il suo allievo e il consiglio intero, osservavano la scena, al sicuro da quanto stava accadendo. L’urlo del Q-Borg non si esaurì, anzi si amplificò, trasformandosi in un’onda che si espanse rapidamente per tutta la Galassia, scuotendola come un lenzuolo. E il tempo prese a scorrere rapidamente. In pochi istanti trascorsero, decenni, secoli e poi millenni. E quello che Q ed il suo allievo videro, fu terribile. I Borg, inesorabilmente, settore dopo settore, quadrante dopo quadrante, colonizzarono l’intera galassia, spazzando via ogni forma di vita senziente all’infuori di loro. La Federazione, i Klingon, I Romulani, il Dominio. Ogni civiltà cadde sotto i colpi dell’avanzata dei cubi Borg, fino a che ogni singolo pianeta, fino all’ultimo planetoide non fu assimilato. Il Caos era stato domato. L’Ordine totale ed assoluto regnava, illuminato dalla luce di miliardi di stelle su miliardi di miliardi di pianeti, la cui superficie era popolata solo ed esclusivamente da Borg. I Borg diedero la caccia fino all’ultima forma di vita presente nella galassia, in qualunque luogo essa fosse riuscita a nascondersi e la assimilarono al Collettivo. Il grigiore del freddo metallo e dell’atmosfera a base di ammoniaca ricoprirono ogni superficie disponibile, tanto 266 che, osservando quella Galassia da lontano, si poté notare che la sua luminosità era sensibilmente diminuita. «E’ terribile!» esclamò il giovane allievo di Q, sgomento per quella mutazione informe ed innaturale di una galassia. Anche i membri del Consiglio del Q-Continuum sembrarono restare impressionati da quanto stava avvenendo sotto i loro occhi, non si attendevano una conseguenza di tali proporzioni. L’anziana Q dovette ammettere che, aver attribuito la vittoria al Q-Borg, forse era stata una scelta avventata. «La colpa è solo mia» disse Q, i cui occhi si stavano inumidendo per uno stato di commozione crescente, di fronte allo spettacolo di morte e distruzione a cui stava assistendo. L’allievo gli si avvicinò, cingendogli un braccio attorno alla spalla, in un gesto consolatorio. «Coraggio maestro. In fondo di galassie ne restano molte altre. Troverai altre razze con cui interagire.» «Lo sfacelo non si arresterà a questa galassia. I Borg raggiungeranno anche quelle vicine» intervenne la donna Q, che osservava impietrita. Q non diede peso alle parole dell’allievo né a quelle della donna. Non potevano capire lo strazio che lo stava lacerando. «Ma gli umani erano unici. E ora non esistono più. Non vi è più un umano in tutta la Galassia. In tutto l’Universo. E non vi sarà mai più. Per l’Eternità.» rispose laconicamente Q. Con gli occhi fissi sullo spettacolo di una galassia grigia e triste. «Ti sbagli maestro. Un umano superstite esiste.» Q si voltò verso il proprio allievo, con aria stupita. «Cosa cavolo stai dicendo? Guarda! La Terra! Miliardi di droni Borg. Non c’è più nemmeno un filo d’erba!» 267 «Ti sei scordato di Picard. E’ ancora qui da qualche parte.» gli ricordò il ragazzo. «Picard…» mormorò Q, incapace ancora di percepirne la presenza «E non è solo» aggiunse, intromettendosi fra Q e il suo allievo, l’anziana donna a capo del consiglio. Q fissò sbalordito la donna, senza comprendere il significato delle sue parole. «Ah! Q! Stai davvero perdendo colpi! Possibile che tu non li percepisca?» La donna e il ragazzo si scambiarono un’occhiata di compatimento per il povero Q, che li osservava senza capire. La donna schioccò le dita e i tre comparvero di fronte a due stupiti umani. Vedendo comparire Q, con il suo allievo e l’anziana donna, Picard scattò in piedi, lasciando cadere a terra le bacche che aveva in grembo. Riker, invece, rimase perplesso dall’apparizione. Ad esclusione di Q, le altre due figure erano a lui sconosciute. «Q!» esclamò Riker, rompendo per primo il silenzio. Q, che aveva puntato subito tutta la sua attenzione su Picard, distolse un attimo lo sguardo, riconoscendo la figura del menomato primo ufficiale dell’Enterprise. «Riker! Che ci fai tu qui!» sbraitò. Riker e Picard si scambiarono un’occhiata interrogativa. «Veramente pensavo facesse parte del tuo disegno portarmi qui.» «Non ci sto capendo più nulla!» esclamò Q, grattandosi il capo. «Mi sorprende che tu l’abbia capito solo ora.» intervenne Picard, con una piccola frecciata, che pero’ riportò l’attenzione di Q su di lui. 268 «Picard! Eccoti! Cosa diavolo ti è venuto in mente di scendere dal camion! Tu non ti rendi conto di cosa hai causato!» «Non mi importa. Tutta questa commedia non ha alcun senso. Non intendo più sottopormi alla Terza Prova. A nessuna prova. Non sarò più strumento per il tuo divertimento.» «Stai pure tranquillo, mon capitaine. Ormai è tardi» disse con voce calante Q. «Cosa intendi per tardi? Tardi per cosa?» domandò Picard avvicinandosi ai tre superesseri. «Tardi per evitare questo!» tornò ad animarsi Q e con un ampio gesto del braccio, aprì come una finestra, nel vento del deserto, da cui sia Picard che Riker assistettero all’assimilazione della Galassia da parte di Borg. Videro la Terra selvaggiamente saccheggiata e trasformata in un centro di produzione del Collettivo. Videro scomparire ogni forma di vita in tutta la Galassia. E poi, come un virus, i Borg raggiunsero le galassie vicine, e poi via via anche quelle più lontane. «Mio Dio!» esclamò Riker «Tutto questo sta accadendo realmente?» «In questo preciso istante» confermò la donna Q. «E’ la fine dell’Universo!» esclamò Picard scioccato da quanto stava vedendo. La macchia grigia, che rappresentava l’espansione della Collettività, si stava diffondendo sempre più velocemente, tanto che in pochi minuti ricoprì l’intero Universo, tranne un minuscolo punto. Un singolo sistema solare. Dove parve arrestarsi. «Si è arrestata. L’espansione si è arrestata. Perché?» domandò Picard. «Non si è arrestata. E’ il tempo che ha cessato di scorrere ad una velocità per voi umani impensabile. In questi 269 pochi, per voi, minuti, in realtà sono trascorsi milioni di anni» spiegò l’anziana Q. Picard non stava capendo. «Che significa? Perché il tempo si è rallentato?» domandò stavolta Riker. «Perché è giunto il vostro momento di affrontare i Borg. Quel puntino, quel piccolo sistema solare, ha solo un pianeta. Arido e desertico. Il pianeta su cui vi trovate ora voi due.» Fu Q a svelare l’ultimo tassello, che avrebbe sancito la totale assimilazione dell’Universo ai Borg. Picard e Riker si avvicinarono l’un l’altro, non comprendendo a pieno le parole di Q, in cerca di sostegno reciproco. «Addio Picard» disse mestamente Q, prima di scomparire, seguito dal suo allievo e dalla anziana donna, in un lampo di luce. E quando furono soli, Picard notò, le alture diventare improvvisamente di colore scuro, il sole offuscarsi, l’aria farsi densa di ammoniaca. Una nuvola di sabbia si sollevò in lontananza, coprendo tutto l’orizzonte. «Che succede ora?» si domandò Riker. «I Borg.» rispose mestamente Picard. 270 CAPITOLO 28 Quanto stava accadendo oltrepassava i peggiori incubi di Picard. Una schiera compatta, formata da migliaia, milioni, forse miliardi di droni Borg, rapidamente avanzava verso di loro, come una marea nera, inarrestabile e minacciosa. L’intera superficie del pianeta stava venendo rapidamente ricoperta dalla massa informe di droni, teletrasportati a frotte da altrettanti cubi, che in orbita formavano una cortina talmente spessa, da non lasciar filtrare la luce solare. Una sottile penombra andò a sostituirsi alla luce accecante che aveva arroventato le sabbie del deserto fino a poco prima. E la temperatura calò bruscamente. Un vento gelido, carico di vapori di ammoniaca e metano raggiunse Picard ed il suo primo ufficiale, che, attoniti, osservavano impotenti quanto stava accadendo. «Stanno venendo verso di noi!» esclamò Riker. Picard non replicò. Era evidente quanto stava accadendo. Presto sarebbero stati travolti da quella specie di onda, costituita da droni. E le loro esistenze sarebbero terminate, ultimi esemplari, in tutto l’Universo, di forme di vita non assimilate. Picard sentì sull’avambraccio la presa di Riker che tentava di trascinarlo con se. «Capitano! Muoviamoci. Scavalchiamo la muraglia! Possiamo guadagnare del tempo!» Riker non aveva nessuna intenzione di arrendersi al destino. Avrebbe lottato fino all’ultimo respiro, anche di fronte ad un nemico soverchiante. Per primo Riker, salì sul cumulo di detriti precedentemente preparato da Picard e facendo leva sul 271 suo braccio superstite riuscì a mettere la parte della gamba destra oltre il limite verticale della muraglia. Dandosi lo slancio con la gamba sinistra, ancora poggiata a terra, si mise a cavalcioni della muraglia, con le gambe penzolanti a fianco di essa. Picard lo seguì rapidamente, scalando anch’egli la montagnola di sassi. Con un balzo atletico, aiutandosi con le braccia, come se la cima della muraglia fosse stata un attrezzo ginnico, si mise di fronte a Riker, nella medesima posizione. Picard fece per rivolgersi al suo primo ufficiale, non comprendendo perché stesse indugiando a scendere dalla parte opposta a quella da cui erano saliti ma vide Riker con lo sguardo fisso di lato, verso l’orizzonte ed un espressione di terrore a riempirgli il volto. «Comandante…» balbettò Picard. Ma Riker non rispose. Come se quanto stava osservando stesse assorbendo tutti i suoi pensieri. Picard si voltò alla sua sinistra e lo stesso terrore dipinto sul volto di Riker si appropriò del suo. La stessa onda nera, che li stava per inghiottire dalla parte della muraglia in cui si trovavano prima, giungeva eguale anche da quella opposta, circondandoli senza scampo. E il cielo sopra le loro teste, rapidamente, iniziò a richiudersi e l’oscurità ad avanzare. «Maestro!» urlò inorridito il giovane allievo di Q. I Q osservavano da lontano quanto stava accadendo sul piccolo planetoide, unico rimanente in tutto l’universo che non fosse stato assimilato dal Collettivo Borg. «Maestro! Stanno per essere inghiottiti!» Q non rispose. Stava semplicemente osservando il pianeta diventare di colore scuro, con l’attenzione rivolta su Picard e Riker, che stavano venendo velocemente 272 circondati. E lo spazio attorno a loro si stava riducendo sempre più velocemente. Presto sarebbe tutto finito. Q sentì dolore. Un dolore naturalmente non fisico, ma interiore. Anche i Q avevano un cuore? Si domandò. In teoria no. Non che lui sapesse. E allora per quale motivo stava soffrendo per la perdita di Picard e del suo equipaggio? E della razza umana intera? E per quale altro maledetto motivo, sentiva che non avrebbe avuto mai più pace fino alla fine dei suoi giorni che, tenuto conto della sua immortalità, avrebbe significato un’esistenza, da quel momento in poi, contaminata dalla sofferenza? Forse perché sapeva di essere stato lui la causa di quel disastro? Era senso di colpa? Era semplicemente vergogna per quanto era accaduto? Orgoglio ferito? «E’ la fine del Caos!» intervenne il Q-Borg, che visibilmente soddisfatto, osservava compiaciuto il compimento del suo progetto per il futuro dell’Universo. «L’Ordine viene a prendersi la sua rivincita dopo milioni di anni di caos senza senso! E regnerà fino alla fine dell’Universo stesso. E tutto questo grazie a me» disse battendosi la mano sul petto e poi, avvicinandosi a Q e poggiandogli la punta metallica del suo avambraccio borg sulla spalla aggiunse: «E grazie anche alla tua incompetenza! Te l’avevo detto fin dall’inizio che gli umani non avrebbero mai potuto vincere la Sfida. Sono esseri così fragili, primitivi.» «Ma che stavano fronteggiando l’attacco dei Borg completamente da soli e con successo,» lo interruppe Q, «naturalmente prima che tu intervenissi a modificare il corso degli eventi!» «Ho solo accelerato i tempi dell’inevitabile» rispose il QBorg. «Questo non puoi saperlo. Nessuno di noi può dirlo. Abbiamo sconvolto il naturale corso dell’evoluzione 273 dell’Universo e tutto solamente per soddisfare un nostro capriccio.» il Q-Borg fece un passo indietro, corrucciando la fronte. «Che vuoi dire? Sei pentito della Sfida? Tu Q?! Proprio tu che per primo la lanciasti? Lo dici solamente perché l’hai persa. Tu non sei in grado di provare compassione per nessuno. Non cercare ora di farmi sentire colpevole! Pensa a te stesso!» Q si voltò verso il Q-Borg. «Hai ragione. Forse è giunto il momento di smettere di pensare solo a me stesso. E fare finalmente qualcosa di buono.» E scomparve in un lampo di luce. Picard e Riker stavano ancora uno di fronte all’altro, con lo sguardo perso verso l’onda nera, che da entrambe i lati si avvicinava senza tregua. Entro pochi minuti sarebbero stati raggiunti, calcolò Picard. Non avevano alcuna possibilità di opporsi ad essa. E nessuno sarebbe venuto di certo a salvarli. Ad esclusione di lui e di William, non vi erano rimaste altre forme di vita senzienti in tutto l’universo. «Credo che questa volta non riusciremo ad ingannare la morte» disse Riker, tornando a volgere lo sguardo verso il suo capitano. I due si fissarono alcuni istanti senza proferire parola. «Mi delude Numero Uno. Lei un tempo affermò che contava di vivere per sempre» disse Picard, ricordando le parole pronunciate dal suo primo ufficiale durante l’evacuazione dell’Enterprise D su Veridiano III. Il sorriso che comparve sulle labbra di Riker gli indicò che aveva ottenuto il risultato voluto. 274 «Ha ragione signore. Ma credo che cause di forza maggiore, mi stiano obbligando a rivedere le mie scelte per il futuro.» Picard sorrise e non disse altro. Il vento del deserto stava diventando sempre più freddo e l’aria sempre più irrespirabile. Picard e Riker si guardarono intorno. La fine era davvero imminente. L’onda mortale costituita da droni Borg, che ordinatamente marciavano verso di loro, era ormai a meno di un chilometro da loro. Picard si strinse nelle spalle, il freddo era diventato davvero pungente, e decise che era davvero giunto il momento di salutarsi. Allungò la mano destra verso Riker e con un’espressione seria ma al contempo serena si preparò a salutare degnamente il proprio ufficiale ed amico, prima che la morte li separasse per l’eternità. «William, è stato un vero onore averla sotto il mio comando. Lei è uno degli uomini migliori che abbia mai incontrato.» Riker, con il suo braccio sinistro afferrò saldamente la mano di Picard, mentre una commozione crescente stava prendendo il sopravvento dentro di lui. «Anche per me è stato un onore capitano. Se è questo il modo in cui doveva finire, sono felice che il destino mi abbia permesso di morire al suo fianco.» I due uomini rinnovarono, per l’ultima volta, il loro patto di amicizia ormai quasi ventennale, orgogliosi entrambi l’uno dell’altro. Ma il commiato venne bruscamente interrotto da un lampo di luce alla loro sinistra, che attirò la loro attenzione ed entrambi voltarono il capo di scatto, senza però mollare la presa. «Q!» esclamarono all’unisono. Q fluttuava nell’aria, proprio di fronte a loro. 275 «Q!» ripeté Picard, sorpreso dalla sua apparizione. Anche se la cosa gli riempì il cuore di speranza. Forse Q era venuto a tirarli fuori dai guai ed aveva scelto, come in altre occasioni, proprio l’ultimo minuto per farlo. Q li stava osservando, ma non disse una parola. Allorché Picard continuò a parlare. «Ebbene? Se venuto a goderti la nostra fine? O sei venuto ad aiutarci?» domandò Picard. «Non so se te ne rendi conto, ma fra pochi secondi noi saremo spacciati!» aggiunse Riker, sottolineando ciò che era ovvio. I Borg ora erano ancora più vicini. Forse cento metri, ma in rapido avvicinamento. Q finalmente parlò, con tono greve e il capo chino: «Sono venuto per dirvi che mi dispiace. Mi dispiace per tutto quanto. Chiedo il vostro perdono» Picard e Riker si scambiarono un’occhiata di perplessità e poi il capitano rispose per entrambi «è tardi per le scuse Q! La tua follia ha portato alla distruzione dell’Universo intero. Come possiamo perdonarti? Non possiamo prenderci la responsabilità di concederti un perdono che dovrebbe valere per le vite di miliardi di miliardi di esseri viventi. Mi dispiace Q. Non sarò io a liberarti la coscienza, sempre se mai ne hai avuta una!» Q alzò il capo e disse semplicemente: «me l’aspettavo. Credo che sia giusto così. Quindi non mi resta che una cosa da fare. Non riparerà tutti i danni che ho causato, ma almeno voi due vivrete.» Picard e Riker tornarono a guardarsi. Nessuno dei due aveva compreso il significato delle parole di Q. «Che intendi Q? Che intendi fare?» domandò Riker. «Lo vedrete!» esclamò. Q si portò le mani alle tempie e chiuse gli occhi, mentre il suo corpo, lentamente iniziò a farsi sempre meno definito e luminoso. 276 Una voce di ragazzo li raggiunse da sopra le loro teste. Picard e Riker alzarono lo sguardo per identificare da chi provenisse. «No! Non farlo maestro! Non farlo! Morirai!» Era il giovane fanciullo che Picard aveva più volte visto in compagnia di Q. Galleggiava nell’atmosfera, pochi metri sopra di loro. Accanto aveva il Q-Borg e l’anziana a capo del Consiglio del Q-Continuum. «Q! Che intendi fare! Non ci provare nemmeno!» urlò il Q-Borg. Ma Q non rispose. Aprì gli occhi e li alzò al cielo. E sorrise semplicemente, mentre, lentamente, ma inesorabilmente, il suo corpo si stava trasformando in una fonte di luce bianca e molto intensa, tanto che sia Riker che Picard dovettero portarsi la mano agli occhi per proteggersi. «Che stai facendo Q!» urlò Picard. «Sta sacrificando la sua esistenza per le vostre» rispose l’anziana Q, l’unica che stava osservando quanto stava accadendo, apparentemente senza mostrare alcun tipo di reazione emotiva. La rivelazione scosse profondamente Picard. Non capiva cosa di preciso avesse in mente Q, ma se veramente egli si stava sacrificando per salvare le loro esistenza, allora avrebbe dovuto rivedere il suo giudizio su di lui. «Non lo devi fare! Maestro! Morirai! Non farlo!» urlò ancora il ragazzino. «Q! Stupido idiota! Non sai proprio accettare le sconfitte! Probabilmente questa è la fine che ti meriti!» inveì ancora il Q-Borg. Ma Q ormai non poteva più sentirli. Aveva accettato la sua decisione, come la migliore che avesse mai preso durante la sua lunghissima esistenza. Certo, non riusciva ad immaginare un Universo senza di 277 lui, ma pensò che probabilmente se la sarebbe cavata anche senza il suo apporto. Si sentì pronto a ripagare il su debito con l’Universo. Raccolse i suoi ultimi pensieri e le sue ultime energie per concentrarsi sul compito che lo attendeva. Era la fine, ma una fine che nessuno avrebbe mai dimenticato, fu il suo ultimo pensiero. Picard e Riker videro Q scomparire, trasformandosi in un globo di luce pulsante, mentre i Borg erano ormai a pochi metri da loro. «Q!» gridò ancora Picard, con gli occhi socchiusi a causa dell’intensa luce che il globo emanava e proprio mentre sentì la sua gamba venire afferrata da un drone, pronto a trascinarlo verso la morte, la luce del globo si fece accecante e come in una esplosione, riempì rapidamente l’atmosfera del pianeta allargandosi poi al suo sistema solare e poi la galassia che lo ospitava e via via, la luce si espanse fino a raggiungere i confini estremi dell’Universo, avvolgendo galassie, nebulose, rischiarando i buchi neri, avvolgendo ogni cosa incontrasse sulla sua strada. Il tutto durò pochi istanti, durante i quali i pensieri di Picard fluttuarono, attendendosi di venire trascinato a terra dal drone che gli aveva afferrato la gamba. Ma si rese conto che ciò non era avvenuto. E non percepiva più alcuna presa sul polpaccio. Lentamente riaprì gli occhi, sbattendo le palpebre ripetutamente. Una luce intensa lo costrinse a socchiuderli nuovamente e gli ci volle qualche secondo prima che la sua retina si abituasse alla luminosità fastidiosa. Non era più la luce emanata dal globo ad accecarlo, ma quella del sole. Il cielo era tornato terso, l’aria era nuovamente calda e ossigenata. 278 Si guardò intorno. I Borg erano scomparsi. Non vi era più traccia di loro. Davanti a lui, Riker, aveva ancora gli occhi chiusi ed il capo chino. «William…» sussurrò. Riker aprì lentamente le palpebre, ed anche lui venne accecato dalla luce solare. «Capitano,» balbettò «siamo ancora vivi?» «Si. A quanto sembra si. I Borg sono scomparsi. Ed anche Q.» Picard non poteva sapere che la scomparsa dei Borg non si era limitata solo a quel planetoide, ma a tutto l’Universo intero. L’energia sprigionata da Q aveva cancellato per sempre l’intera razza dei Borg, liberando i pianeti che essi avevano assimilato. Ma lo sforzo gli era costato l’esistenza. Ora l’Universo era vuoto, spoglio di ogni forma di vita, ad eccezione di Picard e Riker. Ma ora che i Borg erano stati sradicati, la vita, lentamente, sarebbe tornata. E in pochi milioni di anni nuove creature senzienti sarebbero tornate a solcare lo spazio con navi stellari. Lo scopo che si era prefissato Q, con il suo sacrificio, era stato raggiunto. Ridare nuova speranza, nuova vita. Lasciare il Caos quale unico, vero padrone di ogni esistenza. Picard udì dei singhiozzi. Era il giovane Q, che piangeva. Piangeva la morte del suo maestro. Al suo fianco l’anziana donna Q, con il suo scettro, sempre stretto in mano e il Q-Borg. «Ci ha salvato la vita» disse Riker guardandosi intorno incredulo. «Ha distrutto tutti i Borg sul pianeta» replicò Picard. «E non solo» aggiunse l’anziana Q, che fece un ampio gesto con la mano, aprendo come una finestra nel cielo e 279 mostrando a Picard e Riker che l’intero Universo era stato ripulito dal Collettivo. E la donna mostrò loro l’immediato futuro di esso, con nuovo forme di vita che, velocemente, nascevano su decine di mondi differenti in decine di galassie. Era il ritorno della Vita. 280 CAPITOLO 29 Picard e Riker erano tornati con i piedi per terra, scendendo dalla cima della muraglia infinita. Intorno a loro il deserto e la lunga lingua di asfalto nero, che scorreva sempre parallela al muro di pietre e fango. Il vento caldo del deserto era tornato a sferzare i loro volti. Tutto era apparentemente tornato come quando Picard era arrivato in quel luogo la prima volta. «Ora che faremo capitano?» domandò Riker «Su questo pianeta non possiamo sopravvivere a lungo e non possiamo andarcene di qui» «Non lo so Will. Non lo so.» rispose Picard guardandosi intorno. «Senza ne cibo né acqua il sacrificio di Q sarà del tutto inutile» commentò William. «Lo sarà forse per noi due. Ma non lo è stato per l’universo. Nuova linfa vitale ora lo sta percorrendo e questo è tutto ciò che conta». Poi Picard si voltò verso Riker, puntandogli il dito indice «io e lei siamo rappresentanti di un universo ormai morto. Non c’è spazio per noi qui. Probabilmente è giusto che tutto si concluda in questo modo. Abbiamo contribuito, seppur in piccola parte, a far si che i Borg non assumessero il controllo dell’Universo. E’ giunto il momento di farci da parte». Riker scosse il capo, non troppo convinto dalle parole del suo capitano, ma comprendendone appieno il significato. «Comprendo signore. Ma non condivido. Ho sempre lottato fino all’ultimo per restare vivo. E lo farò anche questa volta». 281 «Non mi aspetterei niente di meno da lei, comandante» lo interruppe Picard, aggiungendo un sorriso. «Appunto signore. Da qualche parte, laggiù nel deserto, sono sicuro dell’esistenza di un’oasi. Ci sono stato per alcuni giorni con il comandante Vovelek. Sarà estremamente improbabile che riesca a ritrovarne la strada, ma preferisco fare un tentativo che restarmene qui a morire, comunque, disidratato.» «Crede che un po’ di compagnia potrebbe farle piacere?» domandò Picard. «Certo signore. Sarà un vero piacere averla al mio fianco. E poi, nel caso riuscissimo a raggiungere l’oasi, avrei qualcuno con cui conversare fino alla fine dei mie giorni.» I due risero sommessamente, seppur consci di avere ben poche possibilità di sopravvivere. «Forse io potrei aiutarvi!» La voce del giovane Q interruppe la loro conversazione. Era ricomparso alle loro spalle, sempre in compagnia della donna a capo del Consiglio del Q-Continuum e del Q-Borg, il quale, nonostante la sua razza protetta fosse stata spazzata via dall’universo, si ostinava a presentarsi con i soliti impianti borg in argento ed oro. Picard si voltò verso i tre esseri. «Se volete posso aiutarvi. Posso procurarvi cibo, acqua, trasformare questo pianeta in un eden!» Il ragazzo parlava animosamente e sembrava realmente interessato ad aiutare i due umani. Come se stesse cercando di sostituirsi a Q, continuando la sua opera. Q si era sacrificato per salvare quei due esseri, essi perciò dovevano rappresentare un bene assai prezioso, che non poteva essere perduto. Avrebbe fatto qualunque cosa per tenerli in vita per l’eternità. L’anziana Q e il Q-Borg non intervennero, lasciando che il ragazzo parlasse a lungo e si sfogasse. 282 «Posso darvi tutto quello che mi chiederete!» concluse infine il ragazzo. Picard esitò. L’offerta del giovane Q era davvero allettante e anche se Picard, in passato, si era sempre rifiutato di usufruire dell’aiuto offerto da entità superiori, non riuscì a trattenere la sua lingua. «Potresti riportare indietro il tempo?» domandò con la voce che gli tremava, come se si fosse trovato di fronte al mitico genio della lampada, protagonista di antiche storie terrestri. «Potresti riportare tutto a come era prima dell’arrivo dei Borg? Tu potresti?» Il ragazzo rimase con la bocca spalancata. Tra tutti desideri che Picard gli avrebbe potuto chiedere di esaudire, quello era proprio l’unico che non avrebbe potuto soddisfare. Solo il Consiglio del Q-Continuum, unendo le forze di tutti i Q, avrebbe potuto compiere una tale impresa. «No,» balbettò incerto il giovane Q «quello non posso farlo. Solo il Consiglio del Q-Continuum ha un simile potere. Ma posso trasformare questo pianeta in un paradiso! Creare dei vostri simili! Case! Piazze! Città!» riprese deciso con la sua offerta. Picard chinò il capo sconsolato, rialzandolo subito dopo e scuotendolo lentamente la rifiutò. «No, grazie. Sarebbe come vivere dentro ad una illusione. Non ci interessa. Vero Numero Uno?» domandò Picard all’indirizzo di Riker. «Assolutamente capitano. Già inorridisco pensando alla giovane e bella, ma irreale compagna che mi verrebbe affibbiata.» La battuta scherzosa di Riker servì a far calare la tensione del momento. «Numero Uno, vogliamo andare?» 283 «Capitano, forse c’è qualcosa che il ragazzo potrebbe fare per noi» Picard guardò Riker stupito. «Cosa Numero Uno?» «Potrebbe almeno portarci all’oasi. Un piccolo aiuto ce lo siamo meritato o no?» Picard si strinse nelle spalle. In fondo un piccolo aiuto era anche accettabile, disse a se stesso. «D’accordo. Perché no? Questo lo puoi fare?» domandò Picard rivolgendosi al ragazzo, il quale non fiatò e per tutta risposta, semplicemente, schioccò le dita ed in un istante furono trasportati fra le verdi palme della piccola oasi in cui, pochi giorni prima, Riker e Vovelek si erano rifugiati. «Grazie» disse Picard guardandosi intorno incredulo. Riker, a poca distanza da lui, sorrise soddisfatto. «E’ giunto il momento di salutarci» disse l’anziana Q, che fino a quel momento aveva sempre taciuto. «Credo di si» disse Picard Il ragazzo gli si avvicinò e gli prese la mano, imitando il tipico gesto di pace terrestre. «E’ così che vi salutate sulla Terra vero?» «Ora non più. Sulla Terra non vi è più nessun umano.» rispose amaramente Picard. Il ragazzo, mortificato lasciò la presa e aggiunse: «Q vi stimava molto. E credo che la sua fiducia in voi fosse ben riposta.» Picard sospirò. «Avrei preferito che non avesse giocato con i nostri destini. Ma ora che se ne è andato, lo devo ammettere: mi mancherà. Avrei voluto che le cose fossero andate diversamente.» Picard guardò il ragazzo indietreggiare lentamente e tornare verso l’anziana Q e il Q-Borg. 284 «Addio!» esclamò ancora il ragazzo agitando il braccio in aria, con gli occhi lucidi per la commozione. Picard fece per alzare il braccio destro per rispondere al saluto quando, improvvisamente, il fogliame alle sue spalle si animò e qualcosa con una forza straordinaria gli afferrò l’avambraccio, trascinandolo all’indietro. Picard non ebbe il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo, che già si trovava con le spalle sulla sabbia, mentre veniva violentemente trascinato attraverso il fogliame della piccola jungla. Riuscì solo a sentire Riker che urlava un nome a lui sconosciuto: Vovelek. «Vovelek!» urlò Riker incredulo. Il vulcaniano, o meglio, ciò che ne restava, quasi irriconoscibile a causa degli impianti di fabbricazione Borg, era comparso dal fogliame e con uno scatto fulmineo aveva afferrato il capitano, trascinandolo con se. «Ma non è possibile! Tutti i Borg sono stati distrutti!» esclamò Riker rivolgendosi vero i tre Q, sicuro che loro gli avrebbero fornito una risposta. Il giovane Q, tanto sorpreso quanto il comandante, si voltò verso il Q-Borg lanciandogli la sua accusa. «Tu! Sei stato tu!» «E chi altri?» rispose il Q-Borg, scoppiando in una fragorosa, quanto odiosa risata. «Non potevo certo lasciare che Q eliminasse tutte le mie creature facendo l’eroe. Ho voluto conservarne un esemplare. Diciamo come ricordo della Sfida. O se preferisci come un trofeo. In fondo è soltanto un esemplare, che male vuoi che faccia a questo nuovo e meraviglioso universo che sta nascendo?» Il ragazzo strinse i pugni di rabbia, ferito dall’ironia assolutamente fuori luogo del suo simile. Nonostante quanto era accaduto, il Q-Borg non aveva appreso 285 alcunché dalla lezione. E continuava a giocare la sua partita, indifferente delle sorti degli esseri viventi che ne erano involontarie pedine. «Non guardarmi a quel modo ragazzo! Se qualcuno qui presente avesse avuto il coraggio di fare ciò che gli era stato implorato, quel drone non sarebbe stato qui!» si difese il Q-Borg, scaricando la colpa su Riker. William non riuscì a trovare le parole per controbattere all’accusa. Da qualche parte dentro di lui, una piccola voce, condivideva appieno le accuse del Q-Borg. Se avesse avuto il coraggio di togliere la vita a Vovelek, quando egli stesso glielo aveva supplicato, mentre combatteva una battaglia disperata contro le nanosonde che brulicavano nel suo corpo, ora il capitano non sarebbe stato in pericolo. Ma non vi era spazio per le recriminazioni. Doveva agire ed in fretta. E si lanciò all’inseguimento attraverso la vegetazione fitta e rigogliosa. Corse a perdifiato, guardandosi intorno in cerca di segni della presenza di Vovelek e del capitano. Per sua fortuna, le tracce lasciate nella vegetazione erano piuttosto evidenti e lo condussero alla sorgente d’acqua che sorgeva al centro dell’oasi. «No! Fermo!» Picard era ancora a terra, mentre il Borg, chino su di lui, si apprestava ad avvicinare il suo pericoloso braccio meccanico al volto di Picard, il quale, dal canto suo, stava opponendo tutta la resistenza possibile contro di esso. Riker si lanciò, facendosi scudo con la spalla e spinse nell’acqua il drone, poco prima che riuscisse ad iniettare le nanosonde nel corpo del capitano. Riker sentì la sua scapola cedere di schianto per la violenza dell’impatto. Un dolore lancinante lo paralizzò a terra. «William!» 286 Picard si era rialzato ed accorse verso Riker, ferito a terra. «Attento capitano!» lo avvertì Riker. Il drone si era già rimesso in piedi, gocciolante d’acqua era alle spalle di Picard, il quale fece un rapido passo all’indietro, ruotando sulla gamba destra e chinandosi col busto in modo da evitare ogni contatto con i pericolosi bracci meccanici del drone. Con quella mossa riuscì a portarsi alle sue spalle e gli saltò in groppa, stringendogli le braccia intorno al collo. Il suo scopo era riuscire ad estrarre il chip principale che governa ogni singolo drone, contenente tutte le conoscenze del Collettivo, estratto il quale, avrebbe reso inoffensivo il suo avversario. Grazie alla sua precedente esperienza personale con i Borg, egli sapeva esattamente dove si trovasse, all’incirca la dove normalmente si trovava il cuore di un umano. Con le mani cercò, da quella scomoda posizione, di raggiungere il petto del drone, che nel frattempo, dondolava su se stesso, incapace di scrollarsi di dosso il capitano. «William! Aiutami ad estrarre il chip!» chiese soccorso Picard. Riker cercò di rimettersi in piedi, ma il suo unico braccio rimasto era inutilizzabile a causa della rottura della clavicola. Ogni tentativo di muoverlo gli causava un dolore insopportabile. «Ci proverò capitano! Dove si trova esattamente?» «Il cuore! Dove c’è il cuore! Si trova in quel punto!» Riker si mise in fronte al drone, che non stava minimamente badando a lui, in quanto la sua attenzione era concentrata su Picard. Muovendosi rapidamente, cercò di anticipare i movimenti del drone e quando si sentì quasi sicuro fece appello a tutte le sue forze residue e ignorando il dolore sollevò il braccio ed infilò la mano all’altezza del petto del drone. Riker non si aspettava che 287 le carni Borg fossero tanto inconsistenti e calde. La sua mano penetrò facilmente nelle fibre del drone, arrestandosi contro un dispositivo meccanico. Iniziò a muovere freneticamente le dita, alla ricerca di quello che potesse somigliare ad un chip di qualunque genere, ma niente sembrava corrispondere alla descrizione. «Non riesco a trovarlo!» urlò Riker, che stava per cedere sopraffatto dal dolore. «Continua a cercare! Non riuscirò a distrarlo ancora per molto!» lo incitò Picard. Finalmente Riker afferrò qualcosa e provando a tirarla verso di se, la sentì sfilarsi parzialmente. «Forse l’ho trovato!» avvertì. Fece un altro tentativo di estrarre il chip, ma il liquido linfatico Borg gli stava facendo perdere la presa. «Ci sono quasi…» Il drone si arrestò all’istante. Riker pensò di avercela fatta. Ma purtroppo si sbagliava. Il cervello del drone, percependo come pericolo primario l’intervento di Riker, diede l’ordine di dedicare la propria esclusiva attenzione al comandante. Riker sentì del calore sul viso e alzando il capo, fu accecato dal fascio di luce rossastra originato dagli impianti ottici del drone, che una volta era stato il comandante Vovelek, primo ufficiale della Uss Pioneer. Non riuscì ad abbozzare alcuna reazione. Gli arti superiori del drone gli si strinsero contro la gola, sollevandolo di forza da terra. Suo malgrado dovette mollare la presa dal chip, senza riuscire nell’intento di sganciarlo. Il drone fece ruotare con uno scatto il suo collo, spezzandoglielo. Riker cadde a terra privo di vita. 288 Picard lanciò un urlo disperato e lasciò la presa, rimettendo i piedi a terra. «Maledetto bastardo! L’hai ammazzato!» gridò tutta la sua disperazione contro il drone, che incurante, si stava lentamente voltando verso di lui. Inesorabile, proseguiva la sua missione. Picard indietreggiò lentamente barcollando, incapace di fuggire, scioccato per la morte di William, senza avvedersi che dietro le sue spalle vi era un piccolo ammasso di pietre e sabbia in cui finì con l’inciampare. Cadde malamente di schiena, senza riuscire a frenare la caduta con le mani. Il drone era ormai sopra di lui e si arrestò un istante, chinando il capo e puntandogli contro il laser di puntamento ottico. «Che siate maledetti!» urlò Picard prossimo alla fine. «La resistenza è inutile» rispose freddamente il drone chinandosi verso il capitano. Picard afferrò una pietra con la mano destra e la scagliò con tutte le sue forze contro il drone, in un ultimo disperato gesto di lotta. La pietra andò a colpire, il gruppo dei sensori ottici che ricoprivano parte del volto del drone, mandandoli parzialmente fuori uso. Il drone si arrestò di colpo, ancora proteso verso Picard, disorientato dalla mossa del capitano. Picard non attendeva occasione migliore. La fortuna stava girando dalla sua parte. Con uno scatto fulmineo infilò l’avambraccio nel petto del drone. Avrebbe estratto quel chip anche ad occhi chiusi. Si udì il rumore di uno scatto metallico. Picard ritrasse il braccio, stringendo nella mano il piccolo chip. Il laser rossastro si spense progressivamente ed il drone cadde a terra, privo di vita, lasciando a Picard giusto il tempo di scansarsi. 289 Rialzatosi in piedi, corse immediatamente verso il corpo di Riker. «William!» Ma Will non rispose. Nel suo corpo non scorreva più alcun alito di vita. Accecato dal dolore e dalla rabbia, Picard prese il chip, e lo poggiò su di un sasso. Ne raccolse un secondo, di grandi dimensioni e lo sollevò sopra la propria testa. Avrebbe fatto a pezzi quel maledetto chip. Era tutto ciò che gli restava per sfogare la sua rabbia. «Andate all’inferno!» gridò prendendo lo slancio per scagliare la pietra e sbriciolare tutto ciò che restava della razza Borg. Ma il sasso volò lontano. Picard cominciò a singhiozzare, con il cuore rigonfio di dolore e disperazione. Il suo Universo, così come lui l’aveva conosciuto e navigato a bordo dell’Enterprise, era stato irrimediabilmente distrutto. I suoi migliori amici erano periti. La Federazione, la Terra, la razza umana e migliaia di altre razze sparse in miliardi di galassie, spazzate via. Persino Q se ne era andato. Era rimasto solo. O meglio, si corresse, lui, con la sua fragile memoria umana e quel drone, con le informazioni contenute nel chip, erano tutto ciò che restava di un universo intero. Distruggendo il chip, avrebbe distrutto metà di quanto rimaneva, compiendo l’ultimo omicidio, l’ultima barbarie, prima dell’estinzione. No. Tutto l’odio che provava non avrebbe mai giustificato un simile atto, anche se nessun tribunale avrebbe mai potuto più giudicarlo e condannarlo. - Ora che tutto è giunto alla fine, - si disse, - che sia un gesto di tolleranza ed umanità a chiudere lo spettacolo. - 290 Trascorse più di tre ore scavando nella sabbia del deserto, a mani nude, fino a che non ebbe dato una sepoltura al comandante Riker. Esausto tornò al centro dell’oasi, si rinfrescò con le fresche acque della sorgente e andò a sedersi su una grossa pietra addormentandosi profondamente, stringendo fra le mani il chip Borg, mentre il sole, per la prima volta da quando Picard era giunto su quel pianeta, tramontava dietro l’orizzonte, riempiendo il cielo di sfumature rossastre, mentre alcune stelle iniziavano a fare timidamente capolino. Scorgendole, Picard si consolò pensando alla nuova vita che lentamente stava tornando a ripopolare l’universo. Poi cadde in un sonno profondo. Il sole tramontava sull’ultimo giorno per un intero universo, e allo stesso tempo il primo di uno completamente nuovo. L’anziana donna Q, capo del Consiglio del Q-Continuum, apparve silenziosamente davanti al capitano dormiente e agitando nell’aria il suo scettro, sussurrò: «Complimenti capitano. Hai vinto la tua sfida.» 291 CAPITOLO 30 Picard era seduto nella saletta tattica dell’Enterprise NCC 1701 - E. La nave era ferma nello spazio, appena oltre il limite della Macchia di Rovi, in attesa di essere raggiunta da una nave di soccorso. Nell’ultima missione, la nave, aveva riportato danni seri al sistema di propulsione a curvatura. Il nucleo stesso era stato espulso al fine di neutralizzare gli effetti di un’esplosione di un’arma isolitica. Con la sola potenza d’impulso il più vicino bacino spaziale si trovava a parecchi mesi di navigazione, per tale motivo era necessario che l’Enterprise venisse trainata fino ad esso da una nave d’appoggio. Spense il terminale che si trovava sulla sua scrivania. Non riusciva a trovare la necessaria concentrazione per esaminare i rapporti dei danni, provenienti dalle varie sezioni. Quella mattina, non appena aveva aperto gli occhi, era stato pervaso da una strana sensazione. Tutto era apparentemente al suo posto, esattamente come e dove avrebbe dovuto essere, eppure, allo stesso tempo, percepiva un senso di straniamento rispetto all’ambiente circostante. Aveva incolpato le radiazioni metafasiche, al cui benefico effetto, era rimasto sottoposto per alcuni giorni e senza indugiare oltre, era uscito dall’alloggio per dedicarsi alle sue normali attività di capitano di una nave della Flotta Stellare. Ma la percezione non lo aveva abbandonato. Camminando nei corridoi della grande nave stellare si guardò intorno più volte, tutto ciò che gli si parava davanti agli occhi era assolutamente familiare, ma si 292 sentiva come se fosse stato lontano da quei luoghi lunghi anni e solo ora vi avesse fatto ritorno. Infastidito, aveva preferito tenere per se la cosa e non appena aveva raggiunto la plancia, aveva preferito ritirarsi nella saletta tattica. «Té, Earl Grey, Caldo.» Picard prese la sua tazza e tornò a sedersi con lo sguardo perso sul té fumante e la mente alla ricerca di una risposta. Anche quella tazza, solitamente così familiare, gli pareva provenire da un remoto passato. «Avanti!» esclamò sentendo il trillo del campanello, che lo avvertiva, che qualcuno attendeva di incontrarlo. «William, buongiorno.» Riker entrò con il suo solito passo, stringendo nella mano destra un DiPadd. «Buongiorno a lei Capitano. La disturbo solamente per consegnarle questo,» e allungò il DiPadd verso Picard «contiene il rapporto con le stime sui tempi per la riparazione del nucleo di curvatura, che Geordi ha stilato». Picard afferrò il DiPadd, ma si arrestò un istante, con il braccio teso e la mano stretta sul dispositivo. «Capitano? C’è qualcosa che non va?» domandò Riker, che stava attendendo che Picard gli sfilasse di mano il DiPadd per ritirare il braccio. «William, il suo braccio, la sua mano...» balbettò Picard senza però comprendere lui stesso il senso di tali parole, afferrando finalmente il dispositivo e poggiandolo sulla scrivania. «Il mio braccio? Oh! Certo! Sta molto meglio. La dottoressa Crusher gli ha dato un’occhiata. Comincio a non avere più l’età per il Parissis Square.» Riker si massaggiò il braccio destro, senza comprendere il motivo per il quale il capitano si stesse preoccupando 293 delle conseguenze del suo incidente di gioco avvenuto ben più di un mese prima. «Ah! Bene. Ne sono felice. Può andare Numero Uno» lo liquidò un sempre più confuso Picard eppure inspiegabilmente felice di vedere William in perfetta forma. Riker fece per uscire dalla saletta, ma quando le porte si aprirono si arrestò repentinamente «dimenticavo capitano. Il comandante Vovelek della Pioneer ha inviato un messaggio subspaziale pochi minuti fa. Purtroppo hanno un ritardo di quattro punto sei ore. Ci porge le sue scuse.» Picard fece cenno col capo di avere afferrato e Riker, senza attendere oltre, raggiunse la plancia sussurrando: «Vovelek. E’ un nome che non mi è nuovo…» «Maestro, io non credo di avere capito. Il giovane Q era in piedi, ad osservare le stelle immobili nell’oscurità dello spazio profondo. «Lo so ragazzo. Quanto è accaduto è difficile da spiegare anche per me» rispose Q, che stava seduto su una sporgenza della sezione a disco in duranio dell’Enterprise. «Tu eri morto. I Borg sconfitti. L’Universo stava rinascendo. E poi…» cercò di spiegare il ragazzo, camminando nervosamente avanti ed indietro. «E’ stato il Consiglio. E’ stato sicuramente il Consiglio. Solo loro hanno un potere così grande». Q era sorpreso quanto il suo allievo. Aveva accettato la morte, sacrificandosi per dare una nuova possibilità all’universo intero e si era risvegliato vivo e vegeto, in un universo che sembrava avere dimenticato gli ultimi tre anni e le devastanti conseguenze che avrebbe portato con se. 294 Una seconda possibilità. Il Consiglio gli aveva dato, ma non solo a lui, ma a tutte le forme di vita, a partire da quelle di questa galassia, una seconda opportunità. «Avanti!» Riker era uscito forse da venti secondi, che il campanello trillò nuovamente. Le dolci figure della dottoressa Crusher e del Consigliere Troi, troneggiarono davanti alla sua scrivania. «Buongiorno capitano» esclamò Deanna con la sua solita verve. «Capitano» disse più timidamente Beverly. Picard fece per rispondere al saluto quando, nuovamente, fu assalito dall’incertezza. Stava fissando le due donne, che erano esattamente le stesse del giorno precedente. Le stesse di sempre, eppure sentiva che qualcosa non era come avrebbe dovuto essere. «Beverly. Deanna. State bene?» gli venne istintivo domandare, senza però avere una spiegazione razionale per le sue parole. Deanna e Beverly prima si guardarono fra di loro, cercando di capire cosa non andasse l’una nell’altra, ma constatando che erano entrambe in piena forma, anche grazie ai benefici effetti delle radiazioni metafasiche, tornarono a focalizzare l’attenzione sul capitano. Picard si trovò in imbarazzo, incapace di fornire una spiegazione per quella domanda e rimase a bocca aperta, cercando di trovare le parole. «Stiamo bene Jean-Luc, intervenne Beverly «tu piuttosto mi sembri sotto stress. Come medico di bordo ti ordino di recarti in infermeria al più presto, per un controllo accurato. «E dopo che la dottoressa l’avrà esaminata per bene, io la aspetto nel mio studio per una seduta. A dire la verità sia io che Beverly siamo curiose di conoscere ogni dettaglio 295 della sua storia con Anja» aggiunse la Troi con fare scherzoso. Picard arrossì visibilmente, deglutendo rumorosamente e suscitando una spontanea risata delle due donne. Picard sorrise con loro. Non ne conosceva il motivo, ma era felice, semplicemente felice di vederle. Come se fosse stata la prima volta dopo anni di separazione. Consegnati i loro rapporti sullo stato dei feriti e su quello psicologico di ogni singolo membro dell’equipaggio, Deanna e Beverly abbandonarono la saletta, lasciando nuovamente solo Picard. «Quindi in questo momento ci troviamo in una linea temporale alternativa?» Il giovane ed inesperto Q bramava di trovare al più presto tutte le risposte alle domande che gli vorticavano nel cervello. Ciò cui aveva potuto assistere, superava la soglia della sua comprensione. «No. Nessun universo alternativo. E’ lo stesso di sempre. Solo che il consiglio ha letteralmente cancellato gli avvenimenti degli ultimi tempi. Prima che io e il Q-Borg iniziassimo a servirci degli umani e dei Borg per la nostra sfida». Q si alzò in piedi, prendendo il ragazzo e mettendolo sotto la sua ala protettiva. Gli cinse un braccio sulle spalle. «Il consiglio non è stato così indifferente, come ci ha voluto far credere, all’esito della Sfida. In realtà hanno seguito con grande interesse il suo sviluppo. Hanno analizzato minuziosamente questi ultimi avvenimenti e soprattutto l’esito delle Tre Prove. E sono rimasti molto sorpresi ed affascinati da ciò che hanno veduto.» 296 Il ragazzo si scrollò di dosso il braccio del suo maestro. Era troppo eccitato per stare fermo. Sentiva il bisogno di camminare, di muoversi e di fare domande. «Sorpresi? In che senso sorpresi?» «Sorpresi dalle forme di vita umanoide. E dagli umani soprattutto» rispose Q. «Dagli umani?» ripeté il ragazzo che non riusciva a placare la sua sete di sapere. «Da un umano, in particolare» disse Q e con uno schiocco di dita i due scomparvero nel nulla per ricomparire sospesi nel vuoto, di fronte ad un oblò di alluminio trasparente, illuminato dall’interno. Q indicò la figura che si poteva intravedere attraverso l’alluminio. «Il capitano Picard?» esclamò il ragazzo. «Avanti!» chiamò, uno scocciato Picard a cui non era ancora riuscito di sorseggiare il suo te. Beverly e Deanna avevano abbandonato la saletta da pochi secondi e già il campanello trillava nuovamente. L’androide Data e Geordi, l’ingegnere capo dell’Enterprise entrarono nella saletta. «Capitano buongiorno. Ecco il rapporto completo sulle riparazioni necessarie. Non appena saremo alla stazione Bradbury, io e i miei uomini inizieremo immediatamente le operazioni per l’installazione di un nuovo nucleo di curvatura» esordì Geordi, porgendo al capitano l’ennesimo DiPadd, che si andò ad aggiungere agli altri che affollavano la scrivania. «Capitano,» continuò Data senza dare tempo a Picard di replicare «questo è il rapporto relativo a…» Data si arrestò. Il capitano lo stava fissando con un’espressione di sorpresa e meraviglia a cui non sapeva dare una spiegazione. 297 «Capitano? Si sente bene?» domandò Geordi, avendo notato la stessa cosa. «Come? Geordi, lei è…» balbettò Picard, incapace di continuare. La parola che sentiva dentro, non aveva alcun senso. Eppure qualcosa lo stava spingendo a credere che il suo capo ingegnere non avrebbe dovuto essere li. «Sono cosa capitano?» domandò Geordi alzando le sopracciglia. «Nulla» sussurrò Picard. «E’ sicuro di sentirsi bene capitano?» intervenne Data. «No. A questo punto non ne sono più sicuro» rispose Picard, rendendosi conto che la strana sensazione provata appena sveglio, si stava come amplificando. «Forse si tratta di un qualche genere di effetto collaterale, dovuto all’esposizione alle radiazione metafasiche» provò ad ipotizzare Data. «Si è possibile» tagliò corto Picard, che non desiderava altro che restare solo e allontanare quella sensazione di smarrimento. «Appena avrò un minuto mi recherò in infermeria. Ora potete andare» ordinò Picard, chinando il capo sul primo rapporto che gli venne sotto mano. Data e Geordi esitarono, incerti sul da farsi, restando immobili nella saletta. «Che ci fate ancora qui? Potete andare!» esclamò Picard visibilmente infastidito, non appena si rese conto che i due non avevano lasciato la stanza. «Sissignore» risposero entrambi all’unisono e rapidamente guadagnarono la via della plancia. - Finalmente. - Sbuffò fra se Picard tornando a dedicarsi alla propria tazza di te, ormai tiepido, eppure intimamente sollevato dall’incontro, proprio come era accaduto poco prima con Beverly, Deanna e Riker. Ma cantò vittoria troppo presto. Il campanello trillò nuovamente. 298 «Avanti!» urlò. «Disturbo capitano?» domandò Worf, facendo capolino nella saletta, avendo intuito dal tono della voce di Picard, che qualcosa non andava. «No, no, signor Worf. La prego si accomodi e mi scusi. Credo di sentirmi poco bene» Il Klingon si avvicinò alla scrivania e porse al capitano un altro DiPadd. «Richiedo di fare ritorno al più presto su Deep Space Nine. La crisi con il Dominio richiede che io ritorni sulla stazione al più presto» disse freddamente, come suo solito. «Certo. Naturalmente» rispose Picard, esaminando la richiesta ed approvandola all’istante. Restituì il dispositivo al klingon e si alzò in piedi per accomiatarsi da lui. Ma quando gli fu vicino venne nuovamente assalito dalle sensazioni che dal mattino lo perseguitavano. «Signor Worf…» ed esitò. Avrebbe voluto confidare al klingon quanto stava percependo, ma decise di lasciare perdere. Non avrebbe fatto la differenza comunicare a Worf quanto fosse incredibilmente felice di vederlo. Sano e salvo. E di non sapere assolutamente il motivo di quella sensazione. «Signor Worf, » riprese Picard «è stato un piacere riaverla con noi. Come sempre lei non finisce mai di stupirmi. A volte mi pento di avere lasciato che venisse assegnato su Deep Space Nine. Ma sono sicuro che anche laggiù, lei saprà dare il meglio di se.» «Naturalmente capitano, spero che ci rincontreremo presto» rispose Worf stringendo con forza la mano del capitano. «Lo spero anch’io. Buon viaggio Worf.» Worf fece un passo indietro ed uscì dalla saletta a passo deciso. 299 «Perché il capitano?» Il giovane allievo di Q aveva il viso premuto contro la lastra di alluminio trasparente ed osservava interessato quanto stava avvenendo all’interno della saletta tattica. «Ricordi la Terza Prova? La Prova della Conoscenza?» «Si maestro. Quella che hai perso, proprio perché Picard è fuggito» rammentò il ragazzo. «Non l’ho persa» corresse Q. «Eppure il consiglio aveva detto il contrario! Ero presente anche io quando la Q ha sancito la vittoria del tuo avversario! Io non capisco maestro» piagnucolò il ragazzo. «Faceva tutto parte della prova stessa. E Picard l’ha vinta» spiegò Q. «E in quale modo? Ricordo che era rimasto solo, che l’altro umano, suo amico, era morto e che anche l’ultimo drone era morto.» «Ti sbagli. L’ultimo drone non era morto. Era stato solo reso inoffensivo. Disattivato. E Picard l’ha risparmiato. Nonostante tutto l’odio che provava in quel momento, per il male che, sia in passato che nel presente, i Borg gli avevano fatto, l’ha risparmiato. Non ha distrutto il chip che conteneva l’intera essenza del Collettivo Borg, pur avendone la possibilità» spiegò Q. «E questo gesto ha fatto pendere la bilancia dalla sua parte?» «Ancora non capisci ragazzo mio? Mi deludi» disse, scuotendo il capo, Q. «Ti prego maestro! Spiegami» lo implorò il ragazzo. «La Prova della Conoscenza, ricordi?» Il ragazzo agitò il capo affermativamente. «Picard ha dimostrato, risparmiando la vita al drone, di conoscere ciò che c’è di più importante in tutto l’universo. Qualcosa, che io stesso e il mio avversario 300 avevamo dimenticato. Il valore della vita. Di ogni singola vita. Qualunque essa sia». «Avanti!» Picard poggiò la tazza di te, dicendole addio. Per quella mattina avrebbe rinunciato a qualsiasi altro tentativo, ed alzò il capo per vedere chi fosse, questa volta, venuto a consegnargli l’ennesimo rapporto. «Q!» esclamò sbarrando gli occhi. «Jean-Luc! Che piacere rivederti!» replicò Q, come suo solito abbigliato con una uniforme da ammiraglio della Flotta Stellare. Picard scattò in piedi e gli andò immediatamente incontro. «Q! Cosa diavolo ci fai qui questa volta?» Picard fu come sempre scortese. Ogni qual volta Q era arrivato sull’Enterprise aveva portato con se sempre e solo guai. «Mon capitaine! E’ un piacere vedere che nulla è cambiato» disse allargando la mano in un gesto che sembrava volere indicare l’ambiente circostante. «Comunque stai tranquillo. Sono passato solo per un veloce saluto» continuò Q, avvicinandosi a Picard ed abbracciandolo. Picard sentì sulle spalle la potente e calorosa stretta di Q. Era sorpreso e sentì subito il desiderio di scrollarselo di dosso anche se, allo stesso tempo, percepì che l’abbraccio di Q era realmente sincero e commosso. Q fece un passo indietro, lasciando la presa. «Grazie Jean-Luc.» E senza aggiungere altro scomparve in un lampo di luce, lasciando Picard senza parole, solo nella saletta. Picard si voltò verso la grande finestra che dava sull’immensità dello spazio e rimase a contemplare le stelle con una gioia inarrestabile che sentiva provenirgli 301 dal cuore. Per avere ritrovato ciò che credeva perduto per sempre. Fine 302