Formato libro tascabile

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Formato libro tascabile
Palazzani Riccardo
(Summer)
Star Trek
The Next Generation
THE LAST ENTERPRISE
2001
La diffusione di questo documento è autorizzata dall’autore nei limiti della correttezza e
cortesia dei lettori affinché ne citino sempre la fonte.
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CAPITOLO 1
Le stelle, come lacrime su un volto scuro, scorrevano
veloci, mentre l'USS Enterprise NCC 1701-E viaggiava a
curvatura cinque verso il tunnel spaziale bajoriano. Dietro
ad essa, a formare un enorme sciame, migliaia di navi
stellari, di vario genere e dimensione, della Federazione,
romulane, klingon, cardassiane, da guerra, cargo, yacht
privati.
La più imponente carovana di profughi che il quadrante
Alfa avesse mai visto dai tempi della caduta dell’Impero
T’Kon.
Il capitano Picard, seduto alla poltrona della saletta
tattica, contemplava, in solitudine, lo spazio profondo e le
stelle che fuggivano veloci, domandandosi con profonda
desolazione, quanto ancora sarebbe rimasto in vita per
godersi uno spettacolo così sublime.
Quello che aveva sempre temuto, era purtroppo accaduto.
Dopo solo due anni erano tornati. La prima volta furono
fermati ad un passo dalla Terra. La prima volta, divenne
parte di loro e quasi li condusse alla vittoria. La seconda
volta, fu proprio la sua esperienza, maturata nell’attacco
precedente a salvare la Terra, da un tentativo più
ingegnoso. Avevano tentato di modificare il passato
dell’umanità, per sottometterli più facilmente nel
presente. Anche allora erano stati sconfitti. Sempre grazie
a lui ed al suo equipaggio.
Alcuni anni erano trascorsi in una relativa tranquillità. La
guerra contro il Dominio aveva profondamente scosso
l’equilibrio del quadrante Alfa. Poi era terminata e
finalmente parve che un’era di pace fosse alle porte.
Invece, tre mesi addietro, prima un'unità isolata, che
seppure con qualche difficoltà fu annientata ben lontana
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dal settore zero-uno. Poi ne arrivarono due, e fu più
difficile fermarli. Ma furono annientati. Poi furono dieci.
Senza tregua, la Federazione dovette chiedere aiuto a
tutte le forze del quadrante Alfa. Per la prima volta,
Terrestri, Klingon, Romulani, Cardassiani, Vulcaniani,
Breen, Ferengi e decine di altre razze combatterono
fianco a fianco. La battaglia di Kaatana fu un successo,
ma ci furono molte perdite. La Flotta era ormai ridotta a
poche centinaia di vascelli, molti dei quali gravemente
danneggiati. Anche gli alleati non stavano meglio.
Ma proprio quando si pensava che fossero stati
definitivamente sconfitti, tornarono. Questa volta
dovevano avere deciso di chiudere la questione con il
quadrante Alfa.
Picard ricordava ancora quella tragica mattina, in cui fu
informato del ritorno dei Borg. Solo tre settimane dopo la
battaglia di Kaatana. Un moto di sconforto gli strinse il
cuore, la tanto agognata pace era ancora rimandata, ma
avrebbe combattuto ancora. L’Enterprise aveva quasi
ultimato le riparazioni ed era nuovamente pronta a
scontrarsi con i Borg. Ma il suo orgoglio e la sua
incrollabile fiducia, che l’avevano sorretto in quegli
ultimi terribili mesi, e che nulla all’universo avrebbe
potuto scalfire, trovarono un muro invalicabile, quando
l’Ammiraglio Summer gli comunicò il dispiegamento
delle forze nemiche. Questa volta, non erano né uno né
dieci né venti.
Più di cento cubi Borg viaggiavano a tutta velocità verso
il quadrante Alfa, diretti ai pianeti natale delle principali
forze del quadrante. Nulla di conosciuto avrebbe potuto
resistere ad una tale potenza. Nemmeno se la Federazione
e gli alleati fossero stati al massimo delle loro forze,
avrebbero potuto sconfiggere un'armata così numerosa.
Quel giorno, Picard si chiese se quello non fosse che
l’inizio della fine. Entro pochi mesi i Borg avrebbero
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devastato migliaia di pianeti, assimilato razze, popoli,
mondi interi. Era quello il destino dell’Homo Sapiens?
Dopo aver lottato per millenni contro le forze della
natura, evolvendosi lentamente, fino a riuscire ad elevarsi
al di sopra della sua bestialità, dopo aver imparato a
volare, a viaggiare nel cosmo, spinti da insaziabile
curiosità, tutto sarebbe finito così? Rinchiusi per
l’eternità in alveari Borg, con le carni straziate dagli
impianti cibernetici?
A quel punto scoppiò il panico e la Federazione andò
letteralmente in pezzi. Il terrore fu più forte di ogni altro
freno morale. Saccheggi, devastazioni, follia collettiva
trasformarono pacifici pianeti in fornaci di violenza e
morte.
In quei terribili giorni di puro caos, Picard cercò di
mantenere l’ordine, e cominciò a studiare un piano. Ma
non per sconfiggere i Borg, bensì per lasciarseli alle
spalle, conscio del fatto che non vi era speranza alcuna di
salvare l’universo che aveva conosciuto. Raccolse quante
più navi della Flotta possibile e iniziò il viaggio che li
avrebbe portati verso il tunnel spaziale bajoriano. Sempre
più navi si unirono al convoglio, che di giorno in giorno
cresceva. Su di esse decine di migliaia di profughi
avevano trovato posto, assiepati quasi come animali.
Picard poteva ancora udire le urla strazianti di coloro che
erano stati costretti, causa mancanza di spazio a rimanere
nelle colonie indifese, consci che mai sarebbero potuti
sfuggire ai Borg. Ogni angolo dell’Enterprise non
essenziale venne riadattato per essere utilizzato da
alloggiamento. Più di ventitremila persone avevano
trovato rifugio sulla nave. I sistemi di rigenerazione
dell’atmosfera interna erano al limite dell’operatività e
nei corridoi, affollati di profughi, il puzzo era quasi
insopportabile.
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Una volta raggiunto il Quadrante Gamma, era intenzione
di Picard richiudere definitivamente il tunnel spaziale,
Profeti o non Profeti. I Borg avrebbero potuto
raggiungerli ugualmente, prima o poi, ma Picard sperava
che tutto ciò sarebbe avvento in un futuro così lontano da
permettere ai loro discendenti di trovare una valida
difesa. La priorità ora era impedire che intere civiltà
venissero sterminate e che non restasse più nessuna
testimonianza della loro esistenza. Nel Quadrante
Gamma avrebbero dovuto affrontare i rimasugli del
Dominio, il quale sicuramente non avrebbe gradito tale
intrusione. Ma a quello ci avrebbe pensato dopo, meglio
affrontare i problemi uno per volta. Ed ora, la sua
principale preoccupazione erano quei cinque cubi che li
stavano inseguendo. Li avrebbero raggiunti in quattro
giorni. E al tunnel bajoriano ne mancavano ancora dieci.
Picard si alzò e si portò al replicatore della saletta «Te,
Earl Grey, caldo»
«Impossibile eseguire. Risorse insufficienti. Sistemi in
sovraccarico» Picard fece una smorfia di disappunto. Forse è proprio la fine - pensò amaramente Picard che,
sistemandosi l’uniforme, tornò alla sua poltrona,
voltandosi ancora verso le stelle, dando la schiena alla
scrivania.
«Prego signore! Ecco il suo te! Earl Grey, caldo!»
Picard si voltò di scatto, riconoscendo quella voce.
«Q!»
L’entità onnipotente e onnisciente, conosciuta come Q,
che negli anni passati aveva procurato parecchi grattacapi
a Picard e al suo equipaggio, stava in piedi, acconciato
come un cameriere. Con un tovagliolo sull’avambraccio
sinistro, una giacchetta bianca, con un curioso cravattino
nero, che pareva stringergli il collo, porgeva a Picard un
vassoio con una tazza fumante di te, accompagnata da un
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sorriso forzato.
«Jean-Luc! Che piacere rivederti!»
«Q! Ci sei tu dietro a tutto questo? Sappi che questa volta
hai esag…»
Q sgranò gli occhi, fintamente sorpreso dalla pessima
accoglienza, assumendo l’atteggiamento di chi è rimasto
davvero ferito nei sentimenti.
«Jean-Luc!» e fece comparire nuovamente il finto
sorrisetto «il tuo te, si fredda.»
Picard, con un gesto pieno di rabbia scagliò lontano il
vassoio, che andò assieme alla tazza a sbattere contro una
paratia. Il te si rovesciò sul pavimento, rilasciando il suo
aroma nell’aria. Quando raggiunse le narici di Picard, egli
fu colto, per un breve istante, dal rimpianto per non avere
accettato il dono di Q. Una tazza di te era proprio quello
di cui aveva bisogno.
Q osservò il vassoio e i cocci della tazza sparsi sul
pavimento «le buone maniere non sono mai state il tuo
forte Jean-Luc» commentò scuotendo il capo e con uno
schiocco delle dita il vassoio, la tazza e il te scomparvero.
Picard non si lasciò intimorire dal giochetto di Q. Era
ormai abituato a molto peggio. Ma ora, quello che
catturava la sua attenzione era il motivo della visita di Q.
In cuor suo, sperava che lui centrasse con tutta la
devastazione e la miseria di quegli ultimi giorni. Se non
altro, forse, ci sarebbe stato un modo per rimettere le cose
a posto. Parecchi anni prima, era stato proprio Q a fare
incontrare, per la prima volta, a Picard i Borg,
permettendo alla Federazione di prepararsi in anticipo
all’inevitabile incontro successivo, anche se non era
servito a nulla. Forse tutto era opera sua, forse era tutto
un lungo, terribile incubo.
Q, con un altro schiocco si cambiò d’abito, indossando
un'uniforme della Flotta, con i gradi di Ammiraglio.
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Picard noto con disgusto, che a Q, continuavano a piacere
le sceneggiate. Q era davvero l’ultimo gradino
dell’evoluzione? Se era così, augurò all’umanità di
estinguersi ben prima. E forse stava accadendo.
Q si accomodò sul divanetto della saletta, incrociando le
gambe.
«Allora Jean-Luc? Che mi racconti?» domandò con fare
confidenziale, come se stesso parlando ad un vecchio
caro amico.
«Ci sei tu dietro tutto questo?» Picard era furioso e non
tolse un attimo lo sguardo da quello dell’entità.
«Dietro a cosa?» chiese Q, allargando le braccia.
«Ai Borg! E’ opera tua quest'invasione? Ci stai ancora
mettendo alla prova? Non ti abbiamo dimostrato già più
di una volta che l’umanità merita rispetto?»
Q scosse nuovamente la testa «quanto siete presuntuosi,
cosa ti fa supporre che io, Q, l’essere supremo, stia
sprecando il mio tempo per una specie primitiva e rozza
come la vostra?» Una divertita risatina accompagnò le
ultime parole.
Picard fu preso da una rabbia incontrollabile. La
Federazione, il suo universo, la sua vita erano sull’orlo
del baratro e anziché lottare per impedire che accadesse
l’inevitabile, stava perdendo, lui si, il suo tempo, dietro
alle menzogne di Q.
Q si rese conto della rabbia di Picard e, quasi dispiaciuto
per averlo fatto infuriare, cambiò sia tono della voce che
espressione. Con finta umiltà si scusò: «scusami JeanLuc, questo forse non lo dovevo dire.»
Picard, si rilassò, udendo l’ammissione di Q, il quale non
tradendo il suo solito atteggiamento irriverente, non
rinunciò ad un’ultima stoccata «anche se devo ammettere
che voi umani non avete rappresentato, un grosso
stimolo!»
«Vieni al dunque! Perché sei qui questa volta? come
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saprai abbiamo ben altro di cui preoccuparci di questi
tempi!» inveì Picard.
«Ah! Si, certo. I Borg» con uno schiocco delle dita, Q si
trasformò in un drone Borg. Picard d’istinto voltò lo
sguardo, disgustato da quella visione. Quanti di quei
droni aveva visto massacrati negli ultimi mesi? Quanti
amici, compagni, ufficiali erano diventati droni?
«Ormai sarà questo l’aspetto che dovrò assumere.
Peccato. Le uniformi della Flotta, seppur poco eleganti e
notevolmente scomode, erano sicuramente meglio di
questi bio-impianti» Q azionò uno degli strumenti che
costituivano il prolungamento del suo avambraccio, e un
fascio sottile di luce rossa colpì il soffitto della saletta.
«Primitiva ma divertente, non trovi?» chiese Q, che
pareva affascinato dagli impianti.
A quel punto, Picard, sconsolato, decise di non opporsi
più alle provocazioni di Q. Si lasciò andare sulla
poltrona, afflosciandosi come un corpo morto, troppo
stanco per continuare a ribattere.
Per contro, Q, un po’ scocciato dall’aver perso l’unico
suo spettatore, tornò ad indossare l’uniforme della Flotta
scomparendo in un lampo di luce, per ricomparire, un
istante dopo, alle spalle di Picard, con lo sguardo rivolto
la dove, poco prima, il capitano aveva lasciato i suoi
pensieri. Il cielo stellato.
«E come accadde per l’impero T’Kon, anche per la
Federazione sembra siano arrivati i giorni dell’agonia che
precede la morte» esclamò un Q dall’espressione seria.
Quasi dispiaciuta. Possibile che Q potesse nutrire un
qualche tipo di affetto per l’umanità? Si domandò Picard.
«Così pare Q. Ma io spero che sia invece l’inizio di una
nuova era, nel Quadrante Gamma» rispose Picard,
mentendo spudoratamente anche a se stesso. Ma non
voleva che Q pensasse che lui si fosse arreso. Anche se
probabilmente era così.
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«Peccato. Mi mancherete. E credimi, fatto da un Q,
questo è davvero un apprezzamento notevole, Jean-Luc!»
«Vuoi anche che ti ringrazi?» chiese con tono sarcastico
Picard.
«No, figuriamoci. Non mi sono mai aspettato la
gratitudine da voi umani!»
Picard trovò persino la forza di sorridere. Era l’inizio
della follia? O era solo il fondo dell’esasperazione?
«Vuoi, dirmi, una volta per tutte, cosa vuoi questa volta?»
insistette Picard
Q fece una pausa, come se stesse raccogliendo le parole
da dire.
«Diciamo che il Q-Continuum, ha preso a cuore la vostra
causa, diciamo che io» e sottolineò l’io alzando il tono
della voce «li abbia convinti, che lasciare che la Galassia
diventi un unico alveare Borg, pieno di noiosissimi droni,
non sarebbe una cosa, come dire, divertente! E…»
«E? Continua!»
Q prese il respiro. Possibile che quanto stava per dire gli
pesasse così tanto? Picard attese fremente una luce nella
notte buia del suo futuro.
«E, in accordo con il Q-Continuum, abbiamo deciso di
darvi un'ulteriore possibilità, davvero immeritata
credimi!» concluse Q, che pareva davvero imbarazzato.
Picard meditò sulle parole di Q. Quella che gli stava
dando, seppur non conoscesse ancora i dettagli, era una
possibilità davvero unica. Ma Picard scosse la testa.
«Non posso accettare. Dobbiamo cavarcela con le nostre
gambe. E poi, l’idea di esserti debitore, per l’umanità
intera, mi disgusta!» fu la risposta tagliente di Picard.
«Sciocchi! Non lo capisci che quella che ti sto dando è
una possibilità irripetibile? Lo sai anche tu che siete
spacciati! Non arriverete mai al tunnel bajoriano! Le navi
Borg vi raggiungeranno prima e vi annienteranno!» urlò
con rabbia Q, perdendo il suo solito autocontrollo.
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«Se il destino dell’umanità è quello di venire assimilati,
io lotterò fino all’ultimo per impedirlo, ma non scenderò
mai a compromessi con te! Condannerei l’Universo
intero ad una piaga ben peggiore di quella dei Borg!»
«Ovvero?»
«A doverti riconoscenza» concluse amareggiato Picard.
Q era venuto sull’Enterprise solo per divertirsi,
probabilmente un’ultima volta, mettendo alla prova i suoi
principi. Cercando, fino all’ultimo, di imporsi
sull’umanità intera come salvatore. Cercando di umiliarli,
più di quanto il destino non stesse già facendo.
Q rimase a bocca aperta «Tu pensi che sia questo il mio
scopo? Salvarvi per farmi adorare come un dio? JeanLuc! Non ti facevo così meschino!» Rise divertito «anche
se devo dire che a volte ho pensato a questa possibilità!»
«Non ci trovo nulla di divertente Q e se hai finito, per
favore, torna da dove eri venuto!» Rispose stizzito Picard,
che fingendo di non badare più alla sua presenza, accese
il terminale e finse di esaminare i primi dati che gli
vennero sotto mano.
«Ignorarmi non ti servirà a nulla, Jean-Luc,» continuò Q
«medita solo su questo: chi sei tu per decidere, non solo
per te stesso, ma anche della vita dei tuoi compagni, del
tuo amato equipaggio, delle miliardi di vite che popolano
il Quadrante Alfa e che ora gettano nel terrore più cupo,
nella attesa di assimilazione certa?»
Picard non rispose. Le mani gli tremavano. La tentazione
di accettare la proposta di Q era grande. Qualunque essa
fosse. Q aveva ragione. Chi era lui per decidere della vita
di miliardi di esseri viventi? Parigi valeva bene una
messa?
«Pensaci Jean-Luc, pensaci!» Furono le ultime parole di
Q, prima di svanire.
Picard si voltò di scatto, ma ormai Q era sparito. Parole,
pensieri, tormenti, fluttuavano nella sua mente.
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CAPITOLO 2
«Comandante Riker, vorrei la sua opinione.»
Picard aveva riunito i suoi ufficiali superiori nella sala
d’osservazione dell’Enterprise, per illustrare loro il suo
incontro con Q, di poche ore prima. Aveva bisogno anche
del loro parere e in particolare di quella del suo primo
ufficiale.
«Signore, in tutta franchezza…» Will fece una pausa,
come se avesse avuto il timore di pronunciare qualcosa di
sgradito al suo capitano.
«Continui Numero Uno» insistette Picard
«credo che…» Will era in evidente imbarazzo e
continuava a massaggiarsi con la mano sinistra, quello
che restava del suo braccio destro, mutilato poche
settimane prima durante la battaglia di Kaatana in un
corpo a corpo con un drone Borg. La dottoressa Crusher
si era subito offerta di rimpiazzarlo con uno nuovo,
replicato dal suo DNA, ma Riker aveva rifiutato quando
aveva visto l’infermeria stracolma di feriti in condizioni
ben peggiori delle sue. Per un braccio nuovo ci sarebbe
sempre stato tempo, aveva risposto alla Crusher che
insisteva per operare immediatamente, fintanto che la
ferita era ancora fresca, anche se sapeva benissimo, che
più avrebbe rimandato nel tempo l’intervento, più
avrebbe rischiato un rigetto.
«Will, la prego» Picard era arrivato al punto di
supplicare.
Riker inspirò profondamente e lasciò da parte ogni
indugio. Fissando intensamente Picard, disse tutto quello
che aveva dentro «In tutta franchezza, signore, vista la
situazione disperata, credo che l’opportunità che ci vuole
offrire Q non sia da disprezzare. Comprendo il suo
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timore, di alterare il corso della Storia, di dovere, in
seguito, essere debitori verso di lui, ma qui si parla di
salvare un intero quadrante della galassia dalla
distruzione totale.»
Picard rivolse uno sguardo anche agli altri ufficiali. I loro
volti, che mostravano i segni dello stress enorme degli
ultimi tempi, esprimevano solidarietà per le parole del
comandante Riker. Nei loro occhi si poteva leggere la
rassegnazione per quello che pareva un destino ingiusto
ma inevitabile. Solo il comandante Data era sempre
uguale a se stesso. Ma Picard era sicuro, che come
androide, stesse soffrendo anche lui, a modo suo.
«Ma Will, la Prima Direttiva ci impedisce di interferire
con…»
«Al diavolo la Prima Direttiva!» lo interruppe Riker,
alzando il tono della voce «Capitano, la Flotta, la
Federazione, non esistono più. Tutto è perduto. Qui si
tratta di sopravvivenza, della nostra sopravvivenza, come
specie e di quella di altre centinaia di razze» Riker si
interruppe, comprendendo di essersi lasciato prendere dal
dolore e dalla rabbia che aveva in corpo «mi scusi
capitano.»
«Non occorre Numero Uno, siamo stati tutti messi sotto
pressione ultimamente» lo giustificò Picard.
«Quello che volevo dire signore, è che dovremmo dare
una possibilità a Q. Ascoltare quello che ha da proporci e
valutare se il rischio vale la candela.»
Picard chiuse per un attimo gli occhi, cercando la
maggiore concentrazione possibile. Le parole di Riker
erano arrivate dritte dove il suo primo ufficiale aveva
voluto ficcargliele. Ormai si conoscevano troppo bene e
non avevano più segreti l’uno per l’altro. A differenza di
Riker, Picard era restio ad accettare che tutto quello per
cui aveva lavorato, tutto quello in cui credeva stessero per
essere spazzati via. Fino all’ultimo aveva creduto che una
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soluzione sarebbe, forse magicamente, emersa, che i Borg
sarebbero stati ancora sconfitti. Riker aveva ragione. E lui
era solo un vecchio stupido, incapace di accettare la realtà
per quella che era. Schiavi dei Borg o schiavi di Q?
Questo era il dilemma. Anche se Picard non aveva ancora
idea di cosa in effetti, Q volesse proporgli.
Riaprì gli occhi. I suoi ufficiali erano ancora li ed
attendevano una sua decisione.
«Anche voi la pensate come il comandante Riker?»
chiese loro.
La Crusher, Troi, La Forge, il nuovo capo della sicurezza,
il signor Yan, annuirono.
«Signore, se permette, credo di parlare a nome di tutti,»
la voce di Data interruppe il silenzio seguito alla
domanda di Picard «vista la situazione, credo che ogni
possibile via d’uscita vada presa in considerazione,
indipendentemente dal prezzo da pagare. Siamo ben
consci di violare principi in cui noi tutti fermamente
crediamo, ma i cinque cubi a soli quattro giorni da noi
sono un motivo che ci giustifica ampiamente.»
«Ben detto!»
La voce di Q rimbombò nella sala d’osservazione
«Q! Ci stavi ascoltando?» domandò Picard
Q apparve dal nulla, sempre indossando l’uniforme da
ammiraglio, seduto la dove un istante prima stava Riker,
il quale ora, con sua sorpresa e fastidio si ritrovava in
fondo al lungo tavolo della saletta.
«Vedo che i tuoi ufficiali dimostrano di avere un po’ più
sale in zucca di te, Jean-Luc» continuò Q.
«Ti prego!» lo interruppe subito Picard «risparmiami il
tuo sarcasmo, e vieni subito al sodo. Siamo disposti a
darti una opportunità.»
Q strabuzzò gli occhi, prima di scoppiare in una risata
davvero sgangherata.
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Picard e i suoi ufficiali si guardarono interrogandosi sulle
vere intenzioni di Q.
«Jean-Luc! Erano eoni che non mi divertivo così! Tu dare
una opportunità a me? Questo si che è divertente!»
Q continuò a ridere, seppur in maniera più contenuta.
Picard, sentendosi deriso, cominciò a perdere la pazienza.
A dire il vero, con Q, non ne aveva mai avuta molta.
«Per favore» lo supplicò Picard
Q tentò di ricomporsi e riassumere un atteggiamento più
formale. «Ah! Si certo, Jean-Luc, scusami sono stato
poco educato»
- E quando lo sei mai stato? - commentò dentro di sé
Picard
«Dovresti fare il comico, Jean-Luc, avresti grande
successo sai? Tu dare una possibilità a me!»
«Ok! Ok! Forse le cose non stanno proprio così,
comunque, per favore, vieni al dunque. Prima mi hai
accennato che potresti salvarci dai Borg».
Q scosse la testa «ti sbagli. Io non ti ho detto che vi
salverò dai Borg. Io ho detto che il Q-Continuum ha
deciso di offrirvi una chance.»
«E in che cosa consiste questa chance?» domandò Riker
dal fondo del tavolo.
Q si voltò verso Riker «Will, sbaglio o ti manca
qualcosa? Lo ho notato solo ora.»
Riker sostenne lo sguardo, con aria di sfida.
«Q! Rispondi! Che hai architettato questa volta?»
intervenne Picard in difesa del suo primo ufficiale.
«Io? Vorresti forse insinuare che io vi abbia mai creato
qualche genere di grattacapo?» domandò fintamente
stupito Q
«Almeno una mezza dozzina di volte!» rispose Picard,
deciso ad impedire a Q di farsi beffe di lui
«Per la precisione, sono state…»
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«Non ora signor Data!» Picard interruppe bruscamente
l’androide
«Mi scusi signore» terminò il resosconto Data.
«D’accordo, lo ammetto! Qualche volta mi sono divertito
a punzecchiarvi. Oddio, non che voi siate degni della mia
ben che minima considerazione, diciamo che però avete
un certo fascino come specie. Primitivi, ma…» Q non
poté terminare, Picard, esasperato, non glielo permise.
«Basta! Questo discorso lo hai già fatto altre volte. Vieni
al sodo»
«D’accordo Picard, non indugerò oltre» Q si alzò in piedi
e mani dietro la schiena cominciò a camminare
nervosamente
«Dall’alto dello nostra posizione, di specie evoluta, il QContinuum non sta gradendo lo sviluppo che quei noiosi
Borg stanno avendo, ma non volendosi occupare
direttamente di una faccenda così infima, preferisce
relegare a voi umanoidi, così combattivi e caparbi, il
compito di ricacciarli indietro»
«Grazie per la fiducia!» fu caustico Picard.
«Jean-Luc! Non mi interrompere!» Q fece una pausa,
come se avesse perso il filo del discorso.
«Allora, dicevo, ecco! Come Q-Continuum ci è
normalmente fatto divieto di interferire così
drasticamente sullo sviluppo delle specie inferiori, ma
abbiamo deciso di comune accordo di fare uno strappo
alla regola»
Picard non riuscì a trattenersi e interruppe nuovamente il
discorso di Q.
«Davvero? E farete sparire i Borg con uno schiocco di
dita?»
«Jean-Luc!»
«Ora basta Q! Il tuo discorso non sta in piedi. Da quando
il Q-Continuum ha bisogno degli umani? Vi danno
fastidio i Borg? Bene, voi siete a conoscenza del passato
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e del futuro, potevate fermarli subito! Potevate impedire
che si sviluppasse la loro civiltà! Potreste andare nel
passato e schiacciare il primo drone e nessuno di noi
saprebbe mai dell’esistenza dei Borg! Q, raccontacene
un’altra! Qual è la verità?»
Le parole di Picard colsero Q impreparato, il quale parve
vacillare e per alcuni istanti perse la sua solita aurea di
superiorità.
Tutti gli sguardi degli ufficiali erano puntati su Q, in
attesa di una risposta alle domande del loro capitano.
Q, ripresosi, si ricompose e con un tono di voce
sommesso continuò:
«Il Q-Continuum non può intervenire. Normalmente lo
potrebbe fare! Oh! Si certo! Normalmente potremmo
ridurre i Borg all’impotenza in una manciata di
microsecondi. Se questa fosse una situazione normale»
«Cosa c’è di anormale?» Domandò Geordi, spalancando i
suoi nuovi occhi bio-meccanici.
Q parve imbarazzato a fornire una risposta e tentennò.
«Q? Vuoi spiegarci che sta succedendo?» domandò
Picard usando un tono rassicurante.
«Diciamo che all’interno del Q-Continuum, ultimamente,
ci sono state delle divergenze. Alcuni membri
sostenevano che lo sviluppo attuale della galassia fosse
troppo, come dire, caotico. Alcuni sostenevano la
necessità di eleggere una razza, che fosse meritevole,
quale dominatrice incontrastata, capace di portare ordine
e stabilità.»
«I Borg?» domandò Data
«Si esattamente. Naturalmente la maggioranza del QContinuum, tra cui il sottoscritto, era contraria ad una
simile ingerenza nelle faccende delle specie primitive, ma
la diatriba si è inasprita, fino a sfuggirci di mano.»
«Ci stai dicendo, che dietro agli attacchi dei Borg, ci sono
dei Q rinnegati?» domandò Riker inorridito all’idea di
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dover lottare, non solo contro droni senza anima, ma
anche contro entità onnipotenti altrettanto crudeli.
«In termini molto ridotti, si è così» confermò Q
Questa rivelazione cambiava completamente la visione
che Picard si era fatto sugli avvenimenti recenti. Tutto
quanto stava accadendo non era frutto della selezione
naturale, che porta il più forte a schiacciare il più debole.
Quello che era sembrato ineluttabile destino, in realtà era
manovrato da forze esterne, che avevano deciso
arbitrariamente delle vite di miliardi di persone.
Probabilmente non era la prima volta nell’intera storia
della galassia, che il Q-Continuum interveniva a favore di
quella specie piuttosto che di quell’altra, checché dicesse
Q a proposito dei loro principi etici di non interferenza. Q
stesso aveva violato tali principi più di una volta con gli
umani. Ora, se non altro, Picard si sentiva autorizzato ad
utilizzare qualunque mezzo per porre rimedio allo stato di
disparità delle forze in campo, compreso accettare l’aiuto
di Q.
Il brusio causato dai commenti degli occupanti la saletta
d’osservazione riempì l’atmosfera. Solo Picard e Q
tacevano.
Infine, proprio Picard richiamò l’attenzione dei suoi
ufficiali superiori e si mise in piedi.
«A questo punto, Q, ci devi ancora dire perché il QContinuum ha bisogno di noi, per sbrigare una faccenda,
che, anche se sta letteralmente sconvolgendo le nostre
esistenze, tutto sommato ...» Picard esitò «si, insomma,
cosa possiamo fare noi?»
Gli occhi di Q si illuminarono quasi attendesse con ansia
la domanda
«Vuol dire che accetti, Jean-Luc?» domandò.
«Non so ancora cosa tu voglia propormi, ma venuto a
conoscenza dei fatti, non posso tirarmi indietro,
qualunque sia la sfida» rispose sicuro Picard, convinto di
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parlare a nome di tutto il suo equipaggio. Forse a nome di
un intero quadrante galattico.
«Ottimo!» esclamò Q.
Nelle sue mani si materializzò una bottiglia di champagne
d’annata e sul tavolo della saletta apparve un vassoio
contenete una serie di calici di cristallo «dobbiamo
brindare!»
Felice come un bambino, Q iniziò a versare lo spumante
nei calici.
Il capitano e i suoi ufficiali si scambiarono occhiate
perplesse.
Q distribuì rapidamente un calice ad ognuno dei presenti,
lasciando gli ultimi due per sé e Picard.
Il capitano, preso in contropiede accettò con imbarazzo il
flute e rimase impalato senza sapere che fare. Non stava
ancora capendo. Semmai ci fosse stato qualcosa da
capire, quando c’era di mezzo Q.
«Su forza! Brindiamo!» incitò Q alzando il calice al cielo
«Ma, a cosa brindiamo?» domandò Data, mentre
analizzava il contenuto del calice, usando i suoi sensori
olfattivi.
«Ma alla Sfida!» esclamò Q «Prosit!» ed ingollò tutto
d’un fiato lo spumante.
Ma nessuno lo imitò. Solo Data fece per assaggiare il
fresco e frizzante vino francese, ma appena si rese conto
di essere l’unico, con fare imbarazzato, staccò il calice
dalle labbra e lo ripose sul tavolo.
«Di che sfida parli Q?» domandò Picard
«Ma di quella che dovrete sostenere! Se sarete voi a
vincere, la galassia tornerà ad essere dominata dal caos
Se vinceranno i Borg la galassia non sarà più divertente
come prima!»
«E in che consisterà la sfida?» domandò il nuovo capo
della sicurezza Yan, anticipando Picard
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«Oh! Lo vedrete presto! Ma ora devo lasciarvi! Devo
avvertire il Q-Continuum che avete accettato! Ne saranno
entusiasti! Dobbiamo disporre tutti i preparativi! Vi
chiamerò quando sarà il momento!»
Q svanì nel suo caratteristico lampo di luce.
Picard rimase in piedi, con ancora il calice in mano. A
quel punto ne sorseggiò giusto una punta. Non ne
riconobbe l’annata ma lo trovò davvero eccellente.
Poggiando il bicchiere sul tavolo, si sentì stanco e privo
di energie, svuotato dalla tensione accumulata nelle
ultime settimane. Ora, poi, anche quest’ultima incognita,
così carica di speranza e di mistero. Beverly si accorse
dello stato del capitano e gli si avvicinò.
«Jean-Luc, ti senti bene?»
Picard fissò negli occhi la Crusher, incapace di darle una
risposta precisa.
18
CAPITOLO 3
Ad un osservatore esterno, la carovana dei profughi
disperati, guidata dall’Enterprise, sarebbe potuta apparire
come una immensa nube, che a velocità elevata stava
attraversando il cosmo. Simili visioni richiamavano alla
memoria arcaiche figure di un passato remoto, ormai
dimenticato. Come insetti impazziti, i vascelli del
convoglio, stavano stretti fra loro, alcuni trascinando i più
lenti. Incroci di raggi traenti, sovrapposizioni di campi
energetici generati da scudi generati al loro volta, da
decine di diverse forme di creazione di energia. Tutto
formava un unico calderone, non vi era il tempo per
armonizzare, ordinare, razionalizzare. Gli incidenti, le
collisioni, le rotture meccaniche erano all’ordine del
giorno. Chi era costretto a fermarsi poteva dirsi perduto,
nessuno si sarebbe minimamente preoccupato di
soccorrere le navi in difficoltà. Ogni giorno molti
vascelli, soprattutto quelli più malridotti, si sganciavano
dalla nube, destinati a restare soli nello spazio, ma questo
nei casi migliori. Solitamente si limitavano ad esplodere,
spesso coinvolgendo anche le navi vicine, quando i loro
motori, sottoposti ad uno sforzo che non erano in gradi di
reggere, senza avvertire cedevano di schianto. Furiose
carambole di vascelli erano all’ordine del giorno. Chi non
aveva scudi più che efficienti era spacciato. Teletrasporti
di emergenza erano fuori discussione. Ogni nave era
carica di profughi fino all’orlo. Non vi era più spazio per
nessuno.
Picard aveva paragonato tale spettacolo ai biblici sciami
di locuste, che invasero l’antico Egitto, mandate dalla
furia divina. Solo che nell’attuale frangente, le locuste,
stavano fuggendo da predatori ben più voraci. Forse i
19
Borg erano una punizione mandata da dio? Adesso che
sapeva che dietro il loro massiccio attacco si celava la
mano di esseri onnipotenti, definibili come veri dei,
poteva rispondere affermativamente. Anche se, con tutta
la sua cultura laica a sostenerlo, il pensiero che, semmai
fosse esistito un dio, questi non fosse altro che un Q, lo
disgustava tremendamente. L’idea che Picard aveva di
dio, era lontana anni luce dal Q-Continuum. Il dio di
Picard non era necessariamente dotato di poteri simili a
quelli di un Q, ma di un cuore immenso, capace di amare
qualunque forma di vita dell’Universo. Per quel che ne
sapeva poteva nascondersi in uno qualsiasi dei membri
del suo equipaggio o in un sasso, scansato senza badarci
durante una delle tante esplorazioni effettuate negli anni
passati. L’opinione che Picard aveva del Q-Continuum e
dei suoi membri, invece, rasentava il disprezzo.
«E’ davvero possibile che i Q siano la massima
evoluzione di una specie senziente?» mormorò Picard,
senza accorgersi di avere pronunciato tali parole. Il
pensiero gli era uscito dalla bocca, come se avesse voluto
a tutti i costi non restare relegato nella mente del
capitano.
«Come signore?» domandò Deanna, che seduta alla sua
sinistra, nella plancia dell’Enterprise, aveva a malapena
udito le parole del Capitano, ma aveva percepito
chiaramente il suo pensiero.
Picard, comprendendo di essere stato udito, decise di fare
partecipe il consigliere dei suoi interrogativi.
«Anche noi umani, diventeremo come i membri del QContinuum? E’ questo il destino evolutivo di ogni specie
senziente?»
Deanna sorrise amabilmente, concentrandosi sulla
risposta più adatta per rinfrancare il capitano
«Forse, signore, i Q non sono il gradino ultimo, forse
sono il primo.»
20
Picard, rimase qualche secondo immobile, con lo sguardo
perso nel vuoto, come se le parole del consigliere
avessero aperto in lui nuovi orizzonti mai esplorati.
Sorridendo tornò a volgersi verso Deanna: «secondo lei,
consigliere, potrebbe essere che anche noi, millenni fa
fossimo come i Q?» Picard non trattenne una risatina poi
tornò a farsi serio e continuò «E se ciò fosse vero, perché
avremmo rinunciato a tutti i nostri poteri, per questa vita
da mortali, secondo lei?»
Deanna ci rifletté qualche istante prima di dare una
risposta, a quella che era solo una sua supposizione,
anche ridicola volendo, non suffragata da nessuna prova
scientifica, ma frutto di una ardita e originale
rivisitazione della realtà dei fatti o forse solo della loro
apparenza.
«In fondo, se ci si pensa bene, la vita da Q, deve essere
piuttosto noiosa, signore. La ricerca di qualcosa di più
stimolante, ecco a cosa porta l’evoluzione.»
Picard sorrise. Trovava l’analisi di Troi ironica e geniale
allo stesso tempo. Il consigliere fu felice di constatare che
le sue parole parevano avere, seppur in piccola parte,
sollevato l’umore del capitano. Lei era il consigliere di
bordo e in quel momento di grave crisi, ogni sorriso
regalato le infondeva gioia e speranza e le dava la forza
di continuare. Deanna, oltre al terrore portato dai Borg,
già tre anni prima aveva dovuto subire l’umiliazione di
vedere il proprio pianeta natale, Betazed, invaso e
violentato dalle forze del Dominio. Fu svegliata nel pieno
del turno di notte dal capitano Picard, il quale la convocò
nella sala riunioni. Assonnata ma al contempo stesso
ansiosa di conoscere il motivo di tanta urgenza, si era
messa l’uniforme in tutta fretta, senza però acconciarsi a
dovere. Nella sala riunioni, oltre al capitano e a Will, vi
erano anche tutti i betazoidi che erano in quel momento
in servizio sull’Enterprise. Poté percepire la loro
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preoccupazione per la convocazione e percepì anche una
profonda amarezza provenire da William quando i loro
sguardi si incrociarono fugacemente.
Dopo che Picard ebbe rivelato quanto era accaduto a
Betazed, la mente empatica di Deanna fu letteralmente
invasa dal dolore degli altri betazoidi presenti nella sala
che, come un urlo assordante e disumano crebbe nella sua
mente fino a farle quasi perdere i sensi. Nella sala
riunioni, in realtà, nessuno emise neppure il più flebile
sussurro. Era il modo betazoide di esprimere il dolore,
condividendolo con gli altri, affinché ognuno ne fosse
partecipe e potesse contribuire a lenirlo. Ma Deanna, solo
per metà empatica, aveva maggiori difficoltà a gestire
quel tipo di emozioni, così intense e coinvolgenti. La
prima cosa che fece fu cercare di accertarsi delle
condizioni delle persone che conosceva ed amava sul
pianeta. Dopo affannose ricerche pianse dalla gioia,
quando un messaggio subspaziale, la informò che sua
madre, Lwaxana Troi, era sana e salva. Il puro caso,
aveva voluto che Lwaxana non fosse su Betazed in quei
giorni. Almeno sua madre stava bene ed era al sicuro,
anche se non poté mettersi subito in contatto con lei. Per
gli altri, purtroppo, le forze del Dominio, i temibili
guerrieri creati geneticamente, i Jem’Hadar, avevano
posto un blocco interplanetario alle comunicazioni.
«Consigliere, c’è qualcosa che non va?» le domandò
Picard, che aveva notato che era scomparso d’improvviso
il sorriso dalla bocca del consigliere. Deanna, rendendosi
conto che stava sognando ad occhi aperti, scacciò dalla
mente i brutti ricordi e il sorriso, luminoso come i primi
raggi del sole all’alba, tornò a far capolino sul suo viso.
Q stava camminando nervosamente, ripetendo lo stesso
percorso, con le mani dietro la schiena, strette l’una
nell’altra. A capo chino, borbottava sommessamente.
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Pareva uscito da una classica vignetta umoristica sui
padri che attendono l’arrivo del primo figlio, in un sala
d’aspetto di una unità medica di ostetricia.
«Ma quanto ci mettono!» imprecò
«Io ho tutta l’eternità a disposizione, ma loro no! Se
fanno come l’ultima volta, avranno il tempo di
estinguersi un paio di volte!»
«Calmati Q! Non temere! Hanno ben presente che gli
umani hanno un ciclo temporale molto breve.»
«Davvero? Come sei ingenuo Q!» Q rivolse queste parole
con un tono duro all’altro membro del Q-Continuum che
assieme a lui stava attendendo l’esito della consultazione
del Consiglio dei Q.
«Si vede che hai quattro miliardi di anni meno di me!
Non li conosci davvero quei vecchi rincitrulliti! L’ultima
volta che ho avuto bisogno del loro giudizio, tu non eri
nemmeno ancora nato, si trattava della razza dei Glosh,
dispute da poco conto! Per farla breve, quando finalmente
avevano preso una decisione era passato così tanto
tempo, che il sole dei Glosh era diventato una supernova
già da un pezzo!»
Q ricordava quello spiacevole episodio. I Glosh avevano
avuto la sfortuna di fare la conoscenza di Q, durante uno
dei loro primi viaggi a curvatura. Il Q di allora, più
giovane e più dispettoso che mai, si era divertito a
stuzzicarli un poco. Si presentò come Jaart, il loro sommo
dio. Per duemila anni, si divertì a vestire i panni del dio
arrogante e oppressivo, umiliando il popolo Glosh in ogni
modo conosciuto, interrompendo la loro naturale
evoluzione. Fino al giorno in cui essi si ribellarono, e
decisero di rinunciare alla sua adorazione, sfidando il
potere di un dio. Q, di fronte a quello che riteneva un
atteggiamento sfrontato ed inammissibile da parte di una
specie primitiva, che semmai doveva a lui solo
riconoscenza, per punizione, gettò il pianeta in un era
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glaciale senza precedenti. Solo che accade tutto in un
giorno. Per la precisione in un istante. Il Q-Continuum, a
quel punto, solo a quel punto purtroppo, intervenne per
punire l’operato di Q. Ma Q, furbescamente, si appellò al
Consiglio dei Q, affinché fossero essi a prendere una
decisione, ben sapendo che sarebbero passati secoli prima
di arrivare ad emettere una sentenza. Infatti, quando
finalmente la meritata punizione arrivò, per i Glosh era
ormai troppo tardi. Il loro pianeta non orbitava più
attorno al suo sole, ma ne era stato inglobato quando
questo era diventato una supernova, con tutti i Glosh,
ancora congelati. La punizione per tale atrocità fu
incredibilmente lieve. Solo mille anni di isolamento nel
nucleo di una galassia in formazione. Nonostante tutto,
ancora adesso, Q provava un certo risentimento per i
Glosh.
«Stupidi bipedi…»
«Cosa?»
«Niente! Mi riferivo a… Ma quanto ci stanno mettendo!»
imprecò ancora Q.
«Pensi che accetteranno la nostra proposta?» domando il
Q più giovane, rinunciando a sapere cosa avesse detto il
suo tutore anziano.
«Lo spero bene! E’ ciò che di più sensato la mia
vulcanica mente abbia mai partorito!»
Q sapeva bene che il consiglio non avrebbe potuto
rifiutargli la richiesta. L’aveva pensata, progettata,
costruita, proprio seguendo i loro gusti ed inclinazioni.
Era fatta su misura per le menti dei membri del consiglio.
Q disprezzava il Consiglio, lo riteneva un circolo ristretto
di Q talmente vecchi, che probabilmente erano già
presenti ancora prima che nascesse l’universo intero. Si
mormorava che essi fossero gli ultimi Q che avevano
avuto l’opportunità di sperimentare la vita materiale,
prima che la loro specie compisse l’ultimo salto evolutivo
24
verso una forma di vita di pura energia e puro pensiero e
che essi custodissero gelosamente il segreto
sull’ubicazione di quello che era stato il pianeta natale dei
Q.
Erano rigidi ed inflessibili, poco inclini al gioco e
incapaci di provare stimoli verso qualunque tipo di
impresa. La condanna dell’onniscienza, conoscere il
risultato di una azione ancora prima di averla pensata. Q
invece aveva sempre cercato dei diversivi viaggiando per
l’universo. Il suo più grande spasso, che gli serviva ad
alleviare la noia di un’esistenza piatta e lineare, era
confrontarsi con le specie primitive, sottoponendole a
delle specie di test al fine di guidarne la loro evoluzione
verso orizzonti a loro sconosciuti, anche se gli altri
membri del Q-Continuum definivano tali azioni come
vere e proprie persecuzioni.
Q aveva sempre ignorato tali critiche e nonostante fosse
stato punito varie volte, per avere in effetti, un poco
esagerato in alcune occasioni, non aveva mai rinunciato a
tale pratica. Ora era il turno degli umani, la specie più
affascinante e complessa che avesse incontrato da almeno
dieci milioni di anni. Curiosi, caparbi e dotati di un
intelletto non disprezzabile, da soli trecento anni
solcavano la galassia in quei fragili gusci di noce di cui
loro andavano tanto fieri. Nonostante la brevità delle loro
esistenze avevano stabilito una posizione dominante sulle
altre razze, imparando a coesistere con esse. Erano ancora
fondamentalmente dei barbari incivili, ma promettevano
bene. Avevano già superato con successo alcuni dei suoi
test e una volta erano stati proprio loro a cavarlo dai guai,
dopo l’ennesima diatriba con il Q-Continuum. Li
ammirava e li invidiava, per la insaziabile curiosità che
spingeva le loro esistenze. Lui non aveva mai conosciuto
il significato vero di tale parola.
25
Ma ora tutto questo avrebbe potuto finire, sempre se non
fosse riuscito a portare a termine il suo piano. L’universo
si sarebbe popolato di droni Borg e la noia l’avrebbe fatta
da padrona fino a quando anche l’ultima stella non avesse
esaurito la sua risorsa di elio ed idrogeno.
Il giovane Q stava ancora osservando il Q più anziano
agitarsi e borbottare. Non capiva il perché di tanta
apprensione. Lui non provava come Q, il bisogno di
qualcosa di più, oltre alla sua sola esistenza. Ma da un
po’ di tempo cose strane agitavano il Q-Continuum,
soprattutto fra i Q più maturi. Una vento portatore di
nuove idee aveva forse irrimediabilmente sconvolto la
pacifica esistenza dei Q. Era ancora fresco l’increscioso
episodio di un Q che aveva desiderato morire, fino a
riuscirci. La morte, per un Q, è un concetto del tutto
estraneo, eppure uno di loro aveva voluto sperimentarla,
quale soluzione al tormento che provava. Tormento
causato dalla stessa esistenza quale Q, per lui divenuta
insopportabile. Dopo di allora, anche altri Q, avevano
trovato il coraggio di ammettere di provare una eguale
noia e di desiderare qualcosa di diverso da ciò che erano
sempre stati. Anche il Q che aveva di fronte, pareva
ardere dello stesso fuoco. Lui era ancora troppo giovane
per provare noia e non comprendeva i sentimenti di
ribellione che provavano i Q più anziani. Nelle specie
primitive, il vento di ribellione era sempre portato dalle
generazioni più giovani, decise a sottrarre il potere a
quelle che le avevano precedute. Nel Q-Continuum era
esattamente l’opposto. Più milioni di anni si
accumulavano sulle spalle di un Q, più questi sentiva
crescere in lui il bisogno di qualcosa di più. Ma nessun Q,
era ancora riuscito a trovare una risposta alla domanda
che li tormentava : cosa si può volere di più?
Il Q più maturo, che ancora non voleva accennare a
smettere di agitarsi tanto, aveva forse trovato una
26
possibile risposta? Si domandò. Ma era ormai stanco di
stare a fissare il suo tutore e decise di andare a vedere che
tempo facesse in un pianetino interessante nella galassia
di Andromeda. E svanì in un lampo di luce.
Q notò la partenza del suo allievo.
«I giovani- Alla sua età non mi sarei mai permesso di
andarmene senza salutare!»
«Alla sua età facevi anche di peggio!»
Q riconobbe la voce del suo avversario e si voltò
rapidamente verso di lui, ma con un certo stile. Non
voleva fargli capire che lo aveva colto di sorpresa.
«Ecco
qua
il
tutore
dell’ordine,
della
pianificazione…della noia!» rispose Q in tono
canzonatorio.
«Le tue parole non mi toccano, caro Q. Sono qui per
godermi la mia vittoria»
«Ma santo iddio! Ma come ti sei conciato? Ti sei
talmente compromesso nel perorare la loro causa che ora
sei addobbato come uno di loro?»
Q storse il naso di fronte agli impianti Borg del suo
avversario. Certo, anche lui ogni tanto si divertiva ad
imitare gli umani, ma sicuramente le loro uniformi erano
più comode ed eleganti.
«Non ti piacciono Q? Beh, sarà il caso che cominci a
farci l’abitudine. Tra poco saranno molto di moda, in
tutta la galassia»
Il Q-Borg si arrestò ad un palmo dal volto di Q e con la
voce resa roca dagli impianti lo minacciò:
«Arrenditi! Per te e le tue scimmie senza pelo non c’è
scampo. E’ finita l’era del caos indiscriminato»
«Questo è tutto da vedere, caro mio. Il consiglio sta
discutendo una mia mozione» rispose per nulla intimorito
Q.
«Lo so, lo so, ma sappi che questo è il tuo ultimo
trucchetto. Non funzionerà vedrai» sentenziò il Q-Borg.
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L’attenzione dei due contendenti fu attirata dal cigolio del
portone in marmo bianco oltre il quale il Consiglio del QContinuum era riunito.
Erano infine giunti ad una decisione.
«Staremo a vedere!» esclamò Q, certo che la sua proposta
fosse stata accettata e che Picard non lo avrebbe deluso.
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CAPITOLO 4
Picard stava riesaminando per l’ennesima volta il display
tattico, che mostrava cinque punti rossi in costante ed
inarrestabile avvicinamento alla loro posizione. Un
piccolo timer, posizionato nell’angolo destro dello
schermo, misurava il tempo che quei puntini avrebbero
impiegato a raggiungere il centro dello schermo.
Inarrestabile, il conto alla rovescia, incombeva sul
destino di migliaia di vite.
«Signore, ci restano solo dodici ore»
Il capo della sicurezza Yan, un umano sulla cinquantina,
dai radi capelli rossi, labbra molto pronunciate e un
grosso naso che contrastava con i piccoli occhi azzurri,
infossati nelle orbite, rammentò a Picard il tempo restante
all’intercettamento.
Picard sollevò la testa dal display e sospirò.
Non restava abbastanza tempo per attendere
ulteriormente Q. Erano trascorsi tre giorni dalla sua
imprevista visita a bordo dell’Enterprise. Come un
fulmine a ciel sereno era comparso ed aveva offerto loro
una via d’uscita e tanto rapidamente se ne era andato,
lasciandoli tra mille interrogativi. Picard aveva rimandato
l’attuazione del piano, preparato di concerto con i
capitani dei principali vascelli da guerra, che
componevano la carovana, in attesa di conoscere le vere
intenzioni di Q. Aveva faticato non poco a convincere
decine di comandanti a fidarsi di lui, prendendosi ogni
responsabilità in caso di fallimento. La riunione, che era
stata convocata proprio a bordo dell’Enterprise, era stata
lunga e travagliata e Picard dovette fare appello a tutte le
sue capacità di moderatore per impedire che si
trasformasse in una rissa. Fianco a fianco, attorno ad un
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grande tavolo, appositamente preparato per l’occasione,
si erano seduti i comandanti di vascelli di ogni tipo e di
ogni provenienza. Umani, Klingon, Romulani,
Cardassiani, gli uni vicini agli altri, uniti di fronte al
nemico almeno a parole, ma effettivamente ancora divisi
da antichi odi razziali troppo marcati per essere messi da
parte, seppur in una tale tragica occasione. Ben presto si
erano venuti a creare degli schieramenti trasversali che si
confrontarono sulle ipotesi messe in discussione. Fra i
numerosi piani proposti, ne emersero un paio, che
finirono col trovare l’appoggio, equamente diviso, dei
partecipanti al summit. La prima, proposta da Picard e
sostenuta dai Klingon e dalle altre razze della
Federazione, di preparare una squadriglia suicida di navi
che sarebbero andate incontro ai vascelli Borg, con lo
scopo di distrarre e rallentare la loro marcia, era
contrapposta alla seconda, sostenuta dai Romulani, i
Ferengi e i Cardassiani, in altre parole di accelerare il
convoglio a curvatura nove, velocità che avrebbe
consentito di giungere al tunnel spaziale bajoriano con tre
ore di anticipo rispetto all’intercettamento dei Borg. Solo
che tale opzione avrebbe comportato l’abbandono della
stragrande maggioranza dei vascelli a se stessi con tutto il
loro carico di vite e speranze. Infatti, solo poche decine di
navi avrebbero potuto permettersi una simile velocità.
Picard aveva fermamente lottato contro tale opzione,
ritenendola disumana, mentre i klingon avevano sposato
la possibilità che era concessa loro di un ultimo scontro
ove morire con onore. I Romulani e i Ferengi, più cinici
e disillusi si preoccupavano solamente di preservare
qualcuno della loro razza dall’assimilazione, anche a
costo di sacrificare migliaia dei loro simili. Picard era
riuscito a convincere la parte avversa della bontà della
sua proposta, dovendo comunque concedere che, nel caso
in cui il piano prestabilito fosse fallito, sarebbe stato
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messo in atto il secondo. Non ci sarebbe stata nessuna
battaglia finale.
I Romulani si rifiutarono di fornire navi per la squadriglia
suicida e così fecero anche i Ferengi, al contrario dei
Klingon che smaniavano di partecipare alla battaglia.
Picard si domandò come i klingon avessero evitato
l’estinzione, viste le innumerevoli guerre che
costellavano la lo storia e la folle smania con cui
cercavano la morte, come se intimamente fossero
coscienti di un inevitabile destino che li condannava alla
distruzione. Questa sarebbe stata l’occasione che
parevano cercare dagli albori della loro civiltà. Forse, da
secoli, era solo il loro modo di ingannare la morte,
andandogli incontro con la bat’leth in pugno, piuttosto
che attenderla. In entrambi i casi, impotenti.
«Signor Yan, comunichi alle navi che ora possono
partire»
Picard aveva deciso di non attendere oltre. Aveva dato fin
troppa fiducia a Q e anche questa volta temette che
avrebbe finito col pentirsene amaramente.
«Si, signore, comunicazione inviata»
Picard annuì ed andò ad accomodarsi alla sua postazione.
Sedendosi sulla poltrona di comando, il suo sguardo
incrociò quello di Deanna e notò che la betazoide aveva
dei sottili rivoli di lacrime che le solcavano le guance.
Picard comprendeva bene il motivo del pianto del
consigliere Troi: il suo primo ufficiale Riker, al comando
della USS Pioneer, stava ora guidando la squadriglia
verso il destino senza ritorno che li attendeva. Era stato
proprio Riker a richiedere a Picard il permesso di
prendere parte alla missione il giorno precedente. Riker
chiese di parlare in privato e i due andarono nella saletta
privata del capitano. Picard acconsentì senza fare nessuna
obiezione. Negli occhi del primo ufficiale aveva letto
tutto l’odio che Will provava ora per i Borg. Egli stesso,
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anni prima, aveva nutrito un sentimento molto simile,
anche lui aveva avuto il corpo e l’anima duramente
martoriati dai Borg e sapeva bene che l’unica cosa che
avrebbe potuto aiutare Riker a superarlo era proprio
affrontare tale dolore. Quando Riker fece per andarsene,
Picard ebbe un ripensamento e lo fermò sull’uscio, ma
non appena i loro sguardi tornarono ad incrociarsi,
comprese che niente e nessuno lo avrebbe fermato dai
suoi propositi. - Può andare - gli aveva detto e Will,
prima di tornare sulla sua strada, fece un leggero sorriso,
che Picard interpretò come un: - lo so signore cosa mi
vuol dire, ma io devo andare -. Ormai fra i due l’intesa
era tale che spesse volte le parole erano superflue e
quando la porta si chiuse una lacrima scese dagli occhi
del capitano, presentendo che quella, probabilmente
sarebbe stata l’ultima volta in cui i due avrebbero
comunicato in quel modo così speciale. Ora era Deanna a
versare calde lacrime. I due erano legati da un rapporto
speciale di lunga data. I due erano Imzadi, un termine
betazoide, il cui significato profondo, Picard, non aveva
mai ben compreso.
«Signore, il comandante Riker ci informa che sono
pronti» comunicò il tenente Yan, «si stanno muovendo
ora signore!».
Picard sospirò mentre osservava il piccolo gruppo di
vascelli che si sganciava dal convoglio principale,
riunendosi e mettendosi in formazione. A velocità
curvatura la manovra durò solo pochi istanti poi le navi
scomparvero, lanciate a tutta velocità nella direzione
opposta alla loro.
«Tempo all’intercettamento?» domandò Picard
«Un ora e dodici minuti, signore» rispose il tenente Yan.
A quel punto a Picard non restava che attendere. Preferì
farlo in solitudine, nell’unico angolo rimasto ove avrebbe
potuto riflettere in pace, ovvero la sua saletta privata.
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Tentò di ottenere una tazza di te caldo dal replicatore,
questa volta con più successo. Sorrise a sé stesso,
vedendo materializzarsi la tazza con il liquido fumante,
questa volta non gli sarebbe toccato vedere Q mascherato
da cameriere, anche se in quel momento uno degli
interrogativi che lo assillava maggiormente era proprio
legato alla sorte di quel mascalzone. Si era ancora
divertito a prendersi gioco di loro? Oppure, quanto stava
accadendo faceva già parte di un qualche oscuro scenario,
creato dalla mente contorta di Q?
«Signore! La H’Kel’Hajh ci sta contattando. E’ un
vascello klingon» la voce del signor Yan richiamò
l’attenzione di Picard.
«Sullo schermo» ordinò.
Il volto di Picard si ornò di un largo sorriso alla vista
dell’unico klingon che conoscesse come le sue tasche.
«Ambasciatore Worf!»
«Ex ambasciatore capitano. Ormai la Federazione non
esiste più» lo corresse freddamente il Klingon. Dopo la
distruzione dell’Enteprise D, il tenente Worf era stato
assegnato alla stazione spaziale di Deep Space Nine dove
aveva partecipato con successo alla guerra contro le forze
del Dominio, guadagnadosi il ruolo di ambasciatore
presso l’Impero Klingon. Salvo, in un paio di occasioni,
riunirsi con il suo vecchio equipaggio.
Picard storse il naso. Anche se era evidente, non voleva
ammettere che per la Federazione Unita dei Pianeti fosse
stata scritta l’ultima pagina.
«E’ sempre un piacere rivederla signor, mi scusi,
ambasciatore Worf» Picard sottolineò la parola
ambasciatore a riaffermare che la Federazione era ancora
viva. Ferita, ma viva.
«Chiedo il permesso di salire a bordo capitano. E di
essere reintregrato nella Flotta Stellare. Come
ambasciatore non sono più utile a nessuno» Worf andò
33
subito al sodo, come era suo solito fare, senza lasciare
troppo spazio ai convenevoli.
«Se è quello che vuole, non le nascondo che avrei proprio
bisogno di uno come lei in questo momento. In mezzo a
tutto questo sembra esserci lo zampino di Q» lo informò
Picard.
«Q?» ringhiò Worf, che non aveva mai avuto un buon
rapporto con l’entità.
Picard si limitò ad annuire.
«Pronto ad essere teletrasportato!» si affrettò Worf,
togliendosi di dosso, con un gesto fulmineo, le insegne da
ambasciatore. Nascosta dalla visuale dello schermo, fece
la comparsa la sua vecchia fascia di guerriero con le
insegne della sua casata. L’avere udito il nome di Q gli
aveva procurato un travaso di bile e non vedeva l’ora di
tornare a confrontarsi con lui.
«Permesso accordato. Bentornato fra noi signor Worf.
Per l’ennesima volta» lo accolse Picard, voltandosi verso
Deanna che stava sorridendo.
Lo schermo si spense e il silenzio tornò nella plancia.
«Finalmente una buona notizia. Worf è vivo ed è qui con
noi. Ora mi sento più tranquillo» disse il capitano
sistemandosi l’uniforme e dirigendosi verso la saletta
tattica.
Sedendosi sulla poltrona del suo ufficio, Picard tornò a
voltarsi verso il grande oblò che correva lungo tutta una
parete della stanza, volgendo le spalle alla teca
contenente le riproduzioni, in plastica dorata, di tutte le
navi spaziali, che durante la storia della Federazione ,
avevano avuto l’onore di portare il nome Enterprise. Navi
che si erano distinte, grazie ai loro capitani ed ai loro
equipaggi. Con rammarico ed un pizzico d’orgoglio
constatò che probabilmente la sua Enterprise sarebbe
stata l’ultima della serie. E tutte le storie legate a queste
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magnifiche navi sarebbero andate perdute per sempre,
seppellite dalla sabbia del deserto dell’oblio.
«A tutti voi!» brindò Picard, alzando la tazza di te al
cielo.
«Comandante Riker, tutte le navi sono in formazione»
«Signor Vovelek, comunichi all’Enterprise che siamo
pronti a partire»
William, seduto alla poltrona di comando della USS
Pioneer, una
nave di classe Streamrunner,
particolarmente adatta agli scontri ravvicinati, si
massaggiava nervosamente quello che restava del suo
avambraccio destro, ridotto ad un moncherino senza vita.
La Pioneer aveva perso il suo comandante, il capitano
Harris, nelle settimane precedenti, durante una terribile
battaglia contro i vascelli Borg che avevano attaccato il
pianeta Andoria. La Pioneer era riuscita a fuggire,
portando con sé quanti più andoriani le fosse stato
possibile ospitare e seppur gravemente danneggiata riuscì
ad allontanarsi dall’orbita di Andoria. I Borg,
trascurarono quella piccola nave, e si concentrarono sulle
difese planetarie.
Alla morte di Harris, fu il suo primo ufficiale, il
comandante Vovelek, un vulcaniano di mezza età, a
prendere il comando ed a portare la Pioneer ad unirsi alla
carovana organizzata da Picard. Il vulcaniano, seppur
dimostrando apertamente di non gradire tale imposizione,
ritenendola priva di logica, aveva ceduto il comando a
Riker, su ordine di Picard. Vovelek obiettò che il
comandante Riker non conosceva a sufficienza né la nave
né il suo equipaggio per condurla in battaglia in modo
efficiente, ma Picard insistette in modo tale che il
vulcaniano non seppe opporsi, anche perché comunque,
Picard era di un grado superiore al suo e nonostante il
clima di generale pessimismo che aveva portato molti
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membri della Flotta ad ignorare apertamente i
regolamenti, Vovelek credeva ancora nella forza della
logica e della disciplina, l’unica capace di dare a quello
sparuto gruppo di superstiti la forza e la lucidità
necessaria a salvare le loro vite. In quei giorni aveva già
visto troppi vascelli perdersi alla deriva, a causa di feroci
ammutinamenti. E nonostante nutrisse un velato
scetticismo sulle capacità del comandante Riker, avrebbe
seguito i suoi ordini con lo stesso zelo e determinazione
che avrebbe riservato al suo ex capitano.
«Rotta tracciata ed inserita» avvisò il navigatore
«Non ci resta che attendere che tutte la navi siano pronte»
rispose Riker, scambiando una rapida occhiata con il suo
primo ufficiale, il quale, da buon vulcaniano, non fece la
benché minima piega e si limitò a comunicare:
«Tutte la navi sono pronte signore»
Riker prese il respiro, come se stesse per tuffarsi da un
trampolino. Ed in effetti quello che stava per fare
somigliava davvero ad un tuffo, da un trampolino così
alto che non si poteva scorgere il fondo. Ci sarebbe stata
l’acqua laggiù a frenare la caduta? O avrebbe finito con
lo sfracellarsi? Scacciò dalla mente tutti i dubbi e gli
interrogativi e con tono fermo e deciso diede l’ordine di
partire.
Il giovane Q, con lunghe e ritmiche bracciate, era
impegnato in una lunga nuotata, deciso a raggiungere la
riva di quel mare così azzurro e limpido, che vi si poteva
scorgere il fondo come se fosse stato racchiuso in un
cristallo purissimo. Varie forme di vita, dall’aspetto e
fogge più svariate osservavano, ma senza badarci troppo,
quello strano essere, che faticava a mantenersi a galla, a
pelo della superficie. Uno dei due soli di quel pianeta,
stava ormai tramontando dietro le colline che si
intravedevano oltre la costa, mentre il suo gemello stava
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sorgendo quasi esattamente dalla parte opposta,
emergendo dall’orizzonte dell’oceano. Fra i due soli non
vi era una corrispondenza assoluta, una manciata di gradi
li separava dalla perfezione, ma il giovane Q si
accontentava. Quello era l’unico pianeta della galassia
ove si potesse godere dello spettacolo del tramonto, unito
a quello dell’alba. Ma ora tutte le sue energie erano
dirette verso un unico traguardo, ovvero la riva, che però
distava ancora parecchie centinaia di metri e lui
cominciava a sentirsi terribilmente stanco, le braccia e le
gambe gli dolevano e lui non era avvezzo al dolore, a dire
il vero era la prima volta che sperimentava tale stato e
non lo stava trovando per nulla gradevole. Avrebbe
potuto portarsi a riva con la sola forza del pensiero, ma la
sua determinazione e il suo orgoglio gli stavano
impedendo di barare.
«Ragazzo, hai deciso di porre fine alla tua esistenza in
modo davvero sciocco, lasciatelo dire!»
Q comparve dal nulla, e camminando sul pelo dell’acqua
si affiancò al giovane Q nuotatore.
Il giovane Q alzò a fatica gli occhi, premurandosi di non
ingoiare troppa di quell’acqua salata. Q indossava ancora
l’uniforme degli umani.
«Sto sperimentando» cercò di ribattere l’allievo, ma un
onda gli riempì la bocca.
«Stai sperimentando? E cosa? Il grado di salinità di
quest’acqua? Modo davvero curioso quello che hai
scelto!» commentò con una vena di sarcasmo Q.
Il giovane Q si riprese e cercando di mantenere la
concentrazione e di non andare a fondo, tentò di
giustificarsi
«Sto sperimentando la vita da essere umano»
«E per quale motivo, di grazia?» domandò Q, stupito
dell’affermazione del suo allievo.
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«Ne sono rimasto affascinato, dopo che me ne hai parlato
così a lungo, e sto mettendo alla prova il loro corpo, sai
che hanno bisogno di respirare ossigeno costantem…»
Il giovane Q perse la concentrazione ed il ritmo delle
bracciate. La stanchezza aveva indolenzito parecchio i
suoi muscoli non allenati adeguatamente. Annaspò
qualche istante e poi scomparve sotto la cresta di
un’onda.
Q rimase in piedi sull’acqua, attendendo che tornasse in
superficie, ma i secondi passarono e del suo allievo ora
non vedeva più nemmeno il corpo.
«Allievi… Capitano tutti a me quelli più, diciamo,
estrosi!» sospirò volgendo gli occhi al cielo ed allargando
le braccia, come per chiedere clemenza ad una qualche
divinità che lo stesse osservando dalle nuvole.
Q schioccò le dita della mano destra e scomparve
dall’oceano per riapparire sulla riva, seduto su di un
tronco di un albero morto, semi sommerso dalla sabbia
bianca della spiaggia, mentre il suo allievo, pochi metri
più in la, stava fra le alghe portate dalla marea a
depositarsi sul bagnasciuga, vomitando acqua e
tossendo. Con il volto paonazzo e gli occhi sgranati per lo
spavento stava cercando di incamerare quanto più
ossigeno possibile nei suoi polmoni, ricolmi di acqua
salata.
«Spero sia stato almeno divertente!» continuò con il tono
sarcastico Q.
«Non c’era bisogno che tu…» tentò ancora di giustificarsi
l’allievo tossendo ripetutamente «me la sarei cavata da
solo!»
Q fece una smorfia di divertimento. L’allievo stava
crescendo bene. Aveva già imparato a mentire.
Il giovane Q, si levò dalla testa un’alga rossa che gli
penzolava davanti al naso, gettandola lontano.
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«Ma come faranno, con un corpo così fragile?» si
domandò.
«La fragilità dei loro corpi ed in generale delle loro
esistenze, non pare sia mai stato per gli umani un motivo
valido per rinunciare ad aspirare a orizzonti più vasti»
rispose Q.
«Io non potrei resistere in questo guscio per un giorno
intero!» esclamò l’allievo, il cui orgoglio era rimasto
ferito per non essere stato in grado di arrivare a riva con
le proprie forze.
«Ti capisco, credimi! A me è capitato, tempo fa e per più
di un giorno,» rivelò Q, che rammentava ancora la
terribile esperienza, quando il Q-Continuum lo aveva
privato dei suoi poteri, relegandolo proprio
sull’Enterprise di Picard. Quale umiliazione!
«Davvero? Raccontami dai!» lo esortò il giovane Q,
mentre con uno schiocco delle dita, imitando il suo
maestro, scomparve dal bagnasciuga, ricomparendo,
asciutto e pulito, accanto al suo tutore.
Q fece una smorfia di disgusto. Non provava piacere a
rammentare certi ricordi poco edificanti. Soprattutto di
rivelare che in quell’occasione, egli era stato costretto a
chiedere l’aiuto di Picard!
«Un’altra volta semmai. Ora dobbiamo andare! Il
Consiglio ha accettato la mia mozione. E mi serve il tuo
aiuto per preparare il campo per la Sfida.»
Il giovane Q, non insistette oltre e annuì. I due lasciarono
la spiaggia scomparendo in una duplice luce bianca,
mentre il sole nascente, ormai, era completamente emerso
dalle acque e quello morente, definitivamente scomparso
dietro alle colline.
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CAPITOLO 5
Quando Picard uscì dal suo ufficio privato, mancavano
una manciata di minuti al fatidico momento in cui i cubi
Borg, alle loro calcagna, avrebbero intercettato il gruppo
di navi che erano andate loro incontro. Nonostante i tanti
anni passati al comando, poteva percepire la tensione
crescere dentro di lui fino a soffocarlo. Era frustrante
essere li, relativamente al sicuro, mentre il suo primo
ufficiale stava rischiando la vita. Sentiva intimamente
ingiusta la situazione. William era molto più giovane di
lui e avrebbe meritato di vivere più a lungo. O più
onestamente si vergognava di non essere in prima linea, a
combattere. Constatò che la cultura klingon, con cui
aveva avuto a che fare molto spesso in passato, lo aveva
influenzato molto più di quello che credeva.
Picard raggiunse il comandante Data, che stava operando
alla consolle scientifica.
«Novità signor Data?»
L’androide, calmo e rilassato, si voltò verso di lui e
notando la tensione sul volto del capitano si premurò di
accertarsi della sua condizione:
«Si sente bene signore?»
Picard scosse la testa.
«E’ tutto a posto, signor Data» si difese Picard sapendo di
mentire
Ma ammettere di essere al limite del collasso, in plancia,
davanti ai suoi ufficiali migliori, i quali, a loro volta, non
riposavano da ore, non avrebbe aiutato il morale.
Data, seppur con esitazione, tornò ad occuparsi della sua
consolle.
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«Come può vedere, signore, le nostre navi sono a soli
cinque minuti dai Borg» disse indicando il display
animato in tempo reale.
«I sensori ci indicano che uno dei cinque cubi è
gravemente danneggiato, mentre un secondo presenta
danni piuttosto consistenti nella parte inferiore»
Picard analizzò i dati che, rapidamente, stavano
scorrendo lungo lo schermo. Nonostante la situazione
fosse migliore di quella preventivata, Riker avrebbe
trovato pane per i suoi denti.
«Tempo di intercettamento, tre minuti e dodici secondi!»
Riker si grattò la folta barba con la mano sinistra e notò
che non gli dava il solito piacere. - Brutto segno - pensò,
ma forse era solo colpa della mano, che non era più la
destra.
«Siamo sufficientemente vicini, per una analisi
approfondita con i sensori a corto raggio» informò il
comandante Vovelek
«Analisi!» esclamò Riker.
Il signor Vovelek azionò rapidamente i controlli dei
sensori e con voce piatta comunicò alla plancia la
situazione:
«due delle navi nemiche sono gravemente danneggiate,
l’analisi combacia con quella dei sensori degli altri
vascelli»
Riker non commentò. Il fatto che la situazione paresse
meno negativa, non modificava il suo piano.
Il silenzio del suo superiore fu interpretato dal vulcaniano
come una debolezza o, peggio ancora, una incresciosa
mancanza di capacità di analisi, mancanza che lo
autorizzava a tentare di sovrapporsi a Riker. Se ci fosse
stato ancora il capitano Harris, al posto di quell’umano
barbuto, Vovelek non si sarebbe mai permesso di
prendere la parola per primo. Solitamente avrebbe atteso
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di essere interpellato. Ma vista la scarsa fiducia che
provava verso il comandante Riker, egli si sentiva ancora
al comando della USS Pioneer, almeno sul piano morale.
«Signore, consiglio di concentrare l’attacco sui vascelli
più danneggiati. Potremmo rapidamente eliminarli. E
abbiamo buone probabilità di distruggerne anche un
terzo»
Gli ufficiali di plancia della Pioneer, nonostante la gravità
del momento e la loro certezza di andare incontro alla
morte, ebbero un moto di stupore, vedendo, per la prima
volta in anni di servizio passati fianco a fianco, il
vulcaniano, compiere un gesto tanto inconsueto quanto
sfrontato. Qualcuno di loro osò persino voltare il capo,
distogliendo l’attenzione dai propri compiti.
Riker non poté cogliere alcunché nella iniziativa presa dal
suo secondo. Il rapporto esistente fra lui e il capitano
Picard era ben diverso da quella che avevano costruito
Harris e Vovelek. Per Riker era assolutamente normale
proporre soluzioni o esprimere anche semplici opinioni,
senza attendere di essere chiamato in causa e Picard
aveva sempre gradito questo suo atteggiamento. Ma ogni
nave, ogni plancia, faceva a sé, da sempre.
Per cui, quel piccolo momento di tensione, nella plancia
della Pioneer, non influenzò il giudizio di Riker, il che
confermava, in parte, una delle obiezioni sollevata da
Vovelek: la scarsa conoscenza dell’equipaggio.
«La ringrazio del suggerimento, ma ho altro in mente.
Comunichi al resto della flotta che ci limiteremo ad
effettuare un passaggio radente come concordato. Voglio
attirare la loro attenzione» rispose Riker, imperturbabile.
Vovelek inarcò un sopracciglio quale segno di stupore.
«Signore, ma così perderemo la possibilità di fare fuoco
per primi e…» il vulcaniano non terminò la frase,
bruscamente interrotto da Riker «Signor Vovelek! Ha
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sentito quello che le ho detto? O non è in grado di
svolgere il suo compito?»
Il vulcaniano, lanciò un’occhiata carica di sfida al suo
comandante. La sua logica stava venendo meno, mentre i
suoi sentimenti stavano prendendo il sopravvento. La
tensione del momento stava mettendo a dura prova la sua
autodisciplina. Riker rispose allo sguardo con altrettanta
fermezza e non lo abbassò finché non lo fece il suo
secondo. Capiva cosa stava passando Vovelek. Anche lui
a suo tempo aveva avuto difficoltà ad abituarsi ad un
capitano, Jellico, molto diverso da Picard e quindi
comprendeva a pieno la sua frustrazione, ma in quel
momento non c’era il tempo per approfondire i rapporti e
appianare le incomprensioni. Lo avrebbe fatto volentieri
successivamente alla battaglia, sempre se ci sarebbe mai
stato un dopo.
«Si, signore» cedette Vovelek «comunicazione inviata.
Due minuti e quindici secondi all’intercettamento»
Riker cominciò a tenere il conto del tempo che passava
mentalmente. Un pugno di secondi alla verità.
Picard camminava nervosamente per la plancia
dell’Enterprise, sotto gli occhi del suo equipaggio.
Deanna stava ancora seduta alla sua poltrona. Aveva
cessato di piangere e pareva concentrata, come se avesse
avuto la mente tesa verso l’esterno. Probabilmente stava
cercando di spingere oltre il loro limite i suoi poteri
empatici, nell’intento di percepire quanto stava per
accadere a parecchi parsec di distanza. Il navigatore
Thompson, un umano dalla pelle scura, era intento a
mantenere l’Enterprise sulla giusta rotta ed ad evitare
pericolose collisioni con gli altri vascelli vicini.
Sull’attenti, con un viso che non esprimeva alcuna
emozione, il tenente Yan seguiva quanto stava per
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accadere sul suo display tattico, così come stava facendo
il comandante Data, alla consolle scientifica.
«Data, quanto manca?» domandò Picard per spezzare il
silenzio che regnava in plancia.
«Un minuto e trentotto secondi signore, a questo punto il
comandante Riker dovrebbe portare la flotta su di una
rotta di apparente collisione» rispose prontamente
l’androide, l’unico che non si trovasse sotto pressione.
Prudentemente, Data aveva disattivato il suo chip
emozionale, in previsione di questi momenti in cui
sarebbe stato più utile all’equipaggio, senza l’influenza
negativa di sentimenti quali la paura e l’angoscia.
Possibilità che, apertamente, il capitano Picard, in più di
un’occasione aveva dichiarato di invidiargli.
«A questo punto dobbiamo sperare chi i Borg si
comportino esattamente come ho previsto» commentò
Picard, il quale si sentiva responsabile, visto che i
presupposti della strategia studiata per lo scontro, erano
frutto delle sue conoscenze sui Borg. A distanza di anni,
egli poteva ancora percepire in sé, come il canto delle
sirene, il richiamo della collettività Borg.
Data si strinse nelle spalle, a significare che non
conosceva la risposta a tale domanda.
«Allarme rosso!» esclamò Riker, e le sirene
cominciarono ad ululare, mentre i pannelli posti lungo il
perimetro della plancia, cominciarono a lampeggiare,
inondandola di luce rossastra intermittente.
«Un minuto e cinque secondi, signore!»
La voce di Vovelek emerse appena al di sopra delle
sirene dell’allarme, ma Riker poté comunque udirla.
«Gli altri vascelli ci comunicano che sono pronti per
effettuare la manovra, signore» aggiunse il vulcaniano,
sempre più sconcertato per quanto stava avvenendo, Ma
Vovelek non era a conoscenza del piano che era stato
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stabilito a priori, di concerto con gli altri capitani, non vi
era stato il tempo di informarlo dei dettagli. Dai dati e
dalle supposizioni che aveva avuto a malapena il tempo
di raccogliere, pareva essere dettato da una illogica follia
collettiva. E proprio per questo motivo si sentì
autorizzato a muovere ancora una dura e critica
osservazione a Riker:
«Signore, se mi permette, vorrei farle notare che un
passaggio radente, a velocità curvatura è una manovra
alquanto rischiosa! Se sbagliassimo anche di pochi metri,
potremmo schiantarci contro uno dei cubi Borg. A questa
velocità lei dovrebbe sapere che non si può manovrare
una nave stellare come se fosse una navetta. Non
comprendo il motivo per cui non li affrontiamo. Non è
logico!»
Vovelek, sicuro delle sue parole e dei suoi pensieri, attese
sereno la risposta del suo comandante, quell’umano, che
non aveva mai visto fino ad oggi e che ora pretendeva di
guidare la sua nave in una battaglia senza speranza.
Riker era troppo intento a rileggere, nella sua mente, le
varie fasi della strategia per dare troppo ascolto alle
parole del vulcaniano, che giudicava un ottimo ufficiale,
ma troppo pieno di sé come tutti i vulcaniano d’altronde.
Vovelek interpretò il silenzio di William come un altro
segno della sua debolezza e decise di sferrare l’attacco
finale. Forse poteva ancora recuperare il comando della
Pioneer ed impedire una disfatta totale.
«Signore! Se ci schiantiamo contro di loro li
danneggeremo, ma potremmo anche non riuscire a farlo
in maniera sufficiente per impedire che proseguano il loro
inseguimento! E a quel punto non vi sarebbero più navi in
grado di fermarli! Ritengo che affrontarli porterebbe ad
un risultato migliore. Signore! Mi sta ascoltando?» il
vulcaniano alzò il tono della sua voce, affinché tutti
membri dell’equipaggio della Pioneer potessero udirlo.
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Voleva che fosse chiaro ed evidente a tutti quanto fosse
inefficiente il piano suicida di Riker.
Solo a quel punto Riker comprese che Vovelek stava
cercando di mettere in discussione il suo comando. Non
poteva permetterlo, non a cinquantaquattro secondi
dall’intercettamento. Usando il tono più severo che gli
riuscì di tirare fuori:
«Signor Vovelek, per sua informazione non è mia
intenzione lanciare la Pioneer in un attacco suicida!
Quello che voglio ottenere è di attirare l’attenzione delle
navi Borg e di obbligarle ad inseguirci, in direzione
opposta al convoglio! E lo faremo a velocità curvatura
proprio per evitare che abbiano il tempo di fare fuoco su
di noi!»
Il secondo non pareva convinto dalle parole di Riker e
Will se ne rese conto. Ma proprio in quel momento
doveva avere a che fare con un vulcaniano testardo e
malfidente? Si domandò Riker che decise allora di far
valere il suo grado per porre fine alla querelle:
«e ora per favore la pianti di mettere in discussione ogni
mio ordine! Capirà quando sarà il momento! Si fidi
signor Vovelek, si fidi!» aggiunse Riker, cercando di
trasmettere quanta più fiducia possibile in quell’ufficiale
molto più anziano di lui, che probabilmente si stava
domandando in che mani fosse stata affidata la sua nave.
Vovelek si limitò a continuare a fissarlo, con quei suoi
occhi addestrati all’inespressività.
«Mi creda, non desidero morire più di quanto non lo
desideri ognuno di voi» aggiunse Riker rivolgendosi a
tutti i presenti in plancia. Riker non sapeva se aveva
ottenuto il risultato voluto o meno, ma decise di ignorare
ogni problema che non riguardasse strettamente i Borg,
quindi il signor Vovelek poteva andare al diavolo.
Venticinque secondi.
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«Signor Vovelek, comunichi alla flotta di passare a
curvatura uno»
Il vulcaniano eseguì senza opporre resistenza. Aveva
compreso? Si domandò Riker.
«Curvatura uno, signore» comunicò il navigatore
«Ottimo ed ora o la va o la spacca, signori!» fu il colorito
commento ed augurio di William, mentre si stringeva,
con la mano superstite, al bracciolo della sua poltrona.
«Venti secondi al contatto… Diciannove… Diciotto…
Diciassette…» comunicò Data con voce piatta.
Picard chiuse per un istante gli occhi. Poté percepire la
collettività Borg dentro di sé. I Borg avevano notato il
convoglio e stavano valutando se costituisse per loro un
pericolo.
Riaprì gli occhi per incontrare quelli di Deanna.
«Consigliere?»
Deanna esitò a rispondere. Stava cercando di fare ordine
nella sua mente. Di separare i suoi sentimenti personali
da quelli che stava percependo.
«Percepisco una grande tensione, terrore, ma anche
furore ed entusiasmo» rispose lei, con la voce rotta per le
forte emozione.
Picard annuì. Sicuramente l’entusiasmo proveniva dalle
menti dei klingon.
Smise di camminare ed andò a sedersi alla sua poltrona in
attesa che si compisse il fato.
«Dodici secondi… Undici… Dieci... Nove…» la voce di
Data era l’unica che si potesse udire in plancia. Tutti
attendevano che il conteggio arrivasse a zero, per
conoscere il loro destino. Se la squadriglia avesse fallito,
erano tutti ben consapevoli che li attendeva una morte
quasi certa. Picard non avrebbe mai accettato di fuggire
con le poche navi in grado di raggiungere curvatura nove.
«Sei… Cinque… Quattro… Tre…»
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«Jean-Luc!»
La voce inconfondibile di Q rimbombò in plancia,
facendo sobbalzare sulla poltrona tutti gli ufficiali. Con la
sua uniforme da ammiraglio, era apparso all’improvviso
seduto alla destra di Picard, là dove solitamente prendeva
posto William.
Picard dovette fare appello a tutto il suo self-control per
non saltare fino al soffitto e stringendo con forza i
braccioli della sua poltrona, fulminò Q con lo sguardo.
«Dicevo… Jean-Luc, eccomi qua! Non mi stavi
aspettando?» domandò Q, sorpreso di vedere Picard tanto
spaventato per il suo arrivo. Che aveva fatto di male,
ancora?
Picard decise di ignorare l’arrivo di Q. Non aveva tempo
per le sue pagliacciate ora. Per un istante gli aveva fatto
dimenticare la squadriglia e la sua missione.
«Signor Data, che ne è stato della nostra squadriglia?»
Data esitò a rispondere. Non poteva credere a ciò che i
suoi occhi di androide gli stavano mostrando.
«Signor Data! Risponda Che ne è stato delle nostre
navi?»
Domandò ancora Picard, intuendo che qualcosa non fosse
andato per il verso giusto. E l’arrivo inaspettato di Q non
migliorava di certo le cose.
«Sono scomparse signore e anche i vascelli Borg! Io non
capisco signore! Forse è un guasto dei sensori!»
Le parole di Data scossero la plancia, ma le sorprese non
erano finite. La voce allarmata del navigatore Thompson
seguì quella di Data: «Capitano! Non ci troviamo più…
Noi non, noi non siamo più dove eravamo prima! Tutto il
convoglio!»
«Cosa intende tenente?» Picard non aveva compreso bene
le parole del suo navigatore.
Thompson, allargando le braccia, mostrò la consolle di
navigazione, quasi a tentare di giustificarsi, «signore,
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guardi, siamo come stati sbalzati. Non so dove signore.
Non ci sono stelle qui, nessuna boa spaziale, nessun
riferimento. Siamo nel vuoto più assoluto!»
Picard annuì. Aveva ben compreso che erano di nuovo
nelle mani di Q. Solo lui poteva essere la causa di tutto
ciò.
«Q! Che cosa hai in mente questa volta?»
Q, sorridente e raggiante prese per mano il capitano.
«Ma come Jean-Luc? Hai già dimenticato? La Sfida!»
Picard strinse gli occhi, tirando via la mano, con uno
scatto repentino. Ma Q non sembrò aversene a male. Anzi
allargò ulteriormente il sorriso. Picard poggiò le mani alle
tempie massaggiandosele delicatamente e mormorò la
prima parola che gli venne in mente: « merde!».
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CAPITOLO 6
Strinse con forza la pelle sintetica del bracciolo della sua
poltrona, tanto che i suoi polpastrelli gli dolsero, premuti
con tale forza da percepire il rilievo dei bulloni fissati
sull’anima metallica che formavano la struttura della
poltrona. Istintivamente anche il suo avambraccio destro
si contrasse, ma i suoi nervi recisi, non avevano più
nessuna mano cui trasmettere gli impulsi nervosi.
William aveva socchiuso gli occhi, senza però distogliere
la sua attenzione dallo schermo principale della plancia
della Pioneer. I sui timpani ancora vibravano per effetto
del suono della voce del primo ufficiale Vovelek, mentre
annunciava che il conto alla rovescia era arrivato al
termine, quando la squadriglia di attacco, a velocità di
curvatura, incrociò i cinque cubi Borg ancora
all’inseguimento del convoglio di profughi guidati
dall’Enterprise. Fu un istante brevissimo, che a Riker
parve lungo a sufficienza per domandarsi se fosse arrivata
la sua ora. In caso di impatto contro una delle navi Borg,
non ci sarebbe stata nessuna speranza di salvezza.
L’esplosione sarebbe stata così violenta che ogni suo
atomo sarebbe stato sparpagliato per tutta la galassia e
sorprese sé stesso avvertendo che la cosa non gli dava un
grande dispiacere. Dopo la perdita del braccio ma
soprattutto, dopo l’umiliazione subita, la consueta
sicurezza di William era venuta meno.
Ma così non fu.
La USS Pioneer e la maggior parte dei vascelli che
costituivano la squadriglia attraversò indenne la
formazione nemica. Pochi istanti dopo erano già a milioni
di chilometri, in direzione opposta. Ma la sorte non fu
benevola con tutti. Due vascelli klingon, di piccole
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dimensioni, due sparvieri da ricognizione di classe B’rel,
forse per non avere ben calcolato la rotta, andarono a
schiantarsi contro uno dei vascelli Borg.
La sovrapposizione fra le bolle di curvatura dei cubi Borg
e quella della Pioneer, mandarono in sovraccarico gli
scudi e per alcuni istanti il sistema dei sensori esterni
andò in tilt. Lo schermo principale si oscurò,
nascondendo la vista di quanto stava accadendo ai
presenti in plancia. La cosa mise in agitazione Riker, che
non voleva perdere, nemmeno per un momento, il
controllo della situazione. Voltò rapidamente il capo
verso Vovelek, affinché ripristinasse i sensori, ma questi
tornarono online prima che potesse aprire bocca. Tornò
immediatamente a rivolgersi verso lo schermo principale,
ma fece a tempo ad incrociare lo sguardo del suo primo
ufficiale. Da buon vulcaniano nulla traspariva sul suo
stato d’animo.
Il visore principale tornò ad illuminarsi, rischiarando la
plancia ed i visi degli ufficiali, mostrando uno dei cinque
cubi in fiamme alla deriva, gravemente danneggiato
dall’impatto con i vascelli martiri klingon. Riker, che ben
conosceva la cultura klingon, era quasi certo che
l’impatto non fosse stato un errore di rotta, ma un atto
deliberato. Ed il loro sacrificio non si era dimostrato
inutile. Il cubo danneggiato lasciò la formazione per
andare ad esplodere, solitario, scomparendo in una nube
di fuoco e gas incandescenti. Erano morti con onore, lo
Sto-Vo-Kor li avrebbe accolti fra le schiere dei guerrieri
morti in battaglia, con onore, molto onore.
- Uno di meno! - esultò dentro di sé William, conscio che
comunque, i restanti quattro cubi, costituivano una forza
ancora inarrestabile.
Era tempo di tornare alla realtà. Era tempo di scuotersi e
di agire, per non restare ipnotizzati da quel primo
successo.
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«Rapporto danni!»
«Danni al sistema primario dei sensori esterni, il sistema
ausiliario sta compensando, leggere fluttuazioni nella rete
di distribuzione dell’energia. Rapporto da tutti i ponti:
nessuna vittima, nessun ferito.»
Ancora una volta il primo ufficiale della Pioneer fu
rapido e preciso e il tono della sua voce non tradiva
alcuna emozione.
«Rotta delle navi Borg?»
Tutti gli uomini presenti in plancia attesero frementi la
risposta. Se le navi nemiche avessero continuato la loro
rotta ciò significava che la loro missione era stata un
fallimento completo. Anche Riker trattenne il respiro e
anche Vovelek, di solito pronto, esitò a dare la risposta,
prolungando l’agonia.
«Signor Vovelek?»
«Ho difficoltà di lettura con i sensori ausiliari. Sto
ricalibrando» si giustificò il vulcaniano, senza togliere gli
occhi dalla consolle tattica su cui stava cercando di
trovare una soluzione.
Riker spazientito decise che sarebbe ricorso ai sensori
altrui.
«Signor Brett, contatti la Gagarin! Chieda loro dove
diavolo stanno puntando ora i Borg!»
Il giovane guardiamarina Brett Palmer si mise in contatto
con l’incrociatore pesante USS Gagarin, di classe
Norway, una delle molte navi della Federazione
componenti la squadriglia d’intercettamento.
L’immagine dei quattro cubi Borg, ormai fissa sullo
schermo per la mancanza di dati dall’apparato dei sensori
esterni, fu sostituita dal volto del Capitano Hulan, un
Tellarita di mezz’età.
«Sono il Capitano Hulan della Gagarin,» esordì
«Comandante Riker! Le faccio i mie complimenti, la
manovra ha funzionato»
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«Capitano Hulan vuol forse dire che i Borg ci stanno
seguendo?»
Hulan rimase sorpreso di fronte alla domanda e un poco
interdetto riprese a parlare
«Comandante…»
Riker comprese il motivo dell’incertezza del tellarita e
tagliò corto fornendo una spiegazione rapida ed
esauriente:
«Abbiamo i sensori esterni fuori uso»
Hulan annuì più volte, rimproverandosi di non aver
compreso prima.
«Oh! Si capisco comandante, le stiamo inviando ora i dati
dei nostri sensori. Preparatevi ad interfacciarvi»
Brett si voltò verso Riker
«Stiamo ricevendo signore!»
Riker fece cenno al guardiamarina che aveva sentito e
riprese la conversazione con Hulan
«A che distanza sono ora i Borg?»
«Hanno accelerato a curvatura otto. Ci saranno addosso
fra tre minuti, dobbiamo accelerare a nostra volta, come
programmato. Tutte le navi del convoglio sono pronte,
stavamo giusto aspettando la vostra conferma»
«Bene capitano, prepari la sua nave ad accelerare a
curvatura otto punto cinque, finché potremo li terremo a
distanza. Riker chiudo»
Il volto del tellarita scomparve dallo schermo e i cubi
borg tornarono minacciosi ad incombere sulla plancia,
questa volta lanciati verso la posizione della Pioneer
grazie ai dati forniti dalla Gagarin.
Riker fece un sospiro. Tutto era andato come previsto.
Adesso cominciava il difficile.
I Borg avevano ritenuto una minaccia maggiore la
squadriglia composta dalle navi superstiti più efficienti,
lanciata verso le loro retrovie, rispetto al malandato e
lento convoglio dei profughi, diretto verso il Quadrante
53
Gamma. Ora era solo questione di tenerli a bada il più a
lungo possibile, in maniera da permettere all’Enterprise
di Picard di guidare i profughi verso il tunnel spaziale
bajoriano, verso un nuovo futuro.
«Signor Brett, prepararsi per curvatura otto punto cinque»
ordinò Riker e poi rivolgendosi al comandate Vovelek:
«Comandante, contatti le altre navi, pronti a passare a
curvatura otto punto cinque a mio ordine»
Il vulcaniano obbedì senza opporre resistenza. E a Riker
la cosa sembrò insolita, quasi gli mancassero le obiezioni
di Vovelek.
«Signore, consiglierei di effettuare il salto in due fasi.
Una prima fino a curvatura cinque e la successiva fino
alla velocità stabilita, onde evitare di mettere
eccessivamente sotto sforzo i nostri motori»
Riker scosse leggermente il capo divertito - ho parlato
troppo presto! – pensò, prima di acconsentire a quanto
aveva proposto il primo ufficiale.
«Rotta inserita e tracciata» confermò il navigatore.
Riker si sistemò l’uniforme e cercò una posizione più
comoda sulla poltrona e poi alzando la mano superstite,
con l’indice puntato al cielo fece per dare l’ordine di
attivazione ma per un brevissimo istante a Will parve che
il tempo sulla plancia della Pioneer si fosse come
magicamente arrestato e si sentì libero di librare nell’aria,
come se il sistema per il mantenimento della gravità
artificiale fosse stato disattivato. Ogni cosa intorno a lui
pareva essersi fermata e come un fantasma, fluttuava fra i
compagni della plancia, osservando i loro visi, le cui
espressioni immobili ne fotografavano un preciso istante
della loro esistenza. Ognuno di loro era ben conscio che
quella sarebbe stata la loro ultima missione, l’ultima
avventura, qualunque esito avesse mai avuto. Sia che
fosse stata un grande successo, sia una disastrosa disfatta.
E sarebbero morti senza poter nemmeno conoscere con
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certezza tale esito. Will sentì un nodo alla gola e gli occhi
gli si inumidirono. Era commosso da tanto coraggio,
scaturire da esseri tanto fragili ed indifesi. Quale
meravigliosa creazione la vita senziente, in una
qualunque delle sue molteplici forme: gli umani, i
klingon, i vulcaniani, i romulani e tutte le razze
conosciute della galassia, dalla più affine a quella
abitante pianeti dalla venefica atmosfera di metano.
Ognuna con le sue infinite sfaccettature e diversità,
spesso incompatibilità, sfociate altrettanto spesso in
conflitti sanguinosi. Ma altre volte aveva trovato
armonia, bellezza e stupore sapientemente amalgamati
dal tempo e dal destino ma soprattutto dall’impegno
quotidiano di miliardi di vite distribuite nel tempo, tese
verso l’avanzante futuro, spinte dall’istintiva voglia di
vivere, di crescere, di esistere anche solo e
semplicemente.
Tutto questo, questa specie di visione dell’universo,
aveva trovato un suo spazio, una sua dimensione,
nell’immaginario di William. Dopo tanti anni di
esplorazione a bordo dell’Enterprise D. Ora, la sua
visione, sarebbe stata cancellata, azzerata, uniformata dai
Borg.
Il tempo tornò a scorrere e il braccio di William si
abbassò repentinamente e l’ordine di passare a curvatura
cinque fu dato. Senza che potesse rendersene conto egli
era nuovamente seduto alla poltrona di comando e non
udì sé stesso pronunciare la parola attivazione. In
compenso una lacrima solitaria rigava la sua guancia.
Picard si alzò in piedi, stirandosi l’uniforme come suo
solito, tirando verso il basso, con un colpo secco, l’orlo
inferiore.
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Da quanto erano li? Un’ora? Due? Era impossibile
stabilirlo. Q aveva sottratto loro ogni dispositivo
elettronico, a partire dal comunicatore.
«Capitano, è inutile che si agiti. Q ci ha detto che sarebbe
venuto a prenderci, quando fosse stato il momento.»
La voce dolce e rassicurante del consigliere Troi,
convinse Picard a tornare a sedersi sulla fredda lastra di
marmo bianco, che costeggiava un muro a secco che si
estendeva apparentemente all’infinito, a delimitare una
landa desolata che somigliava molto al paesaggio
desertico di Veridiano III, pianeta su cui aveva seppellito,
sotto un cumulo di pietre il corpo del capitano J.T. Kirk.
Una strada, ricoperta di uno spesso strato di asfalto nero,
costeggiava il muro ed anch’essa pareva perdersi
all’orizzonte in entrambe i sensi di marcia. Una linea
gialla discontinua, ne segnava la mezzeria. Il significato
di tale pittografia era sconosciuto a Picard.
«Certo che fa un gran caldo qui però» si lamentò la
dottoressa Crusher, asciugandosi il collo e la fronte con
un fazzoletto bianco. Ripiegò il fazzoletto e se lo mise in
testa per ripararsi dai cocenti raggi del sole mentre
Deanna le rivolse un sorriso consolatorio.
«Poteva almeno farci attendere in un luogo più
confortevole! Poteva almeno lasciarci dell’acqua o delle
provviste! Potremmo restare ad aspettarlo qui per
giorni!» imprecò Picard, incapace di stare fermo, tanto
che tornò a rialzarsi e portando la mano alla fronte per
ripararsi dalla luce, cercò di scorgere a che punto fossero
arrivati Worf e Data, partiti da ormai un bel pezzo, per un
giro di perlustrazione. Nonostante fossero in cammino da
parecchio, a Picard parevano sempre sostanzialmente
fermi allo stesso punto. Miraggi del Q-Continuum?
Era la prima volta che Q lo portava in quella che si
sarebbe potuta definire come la dimora dei Q, il
famigerato Q-Continuum. Q aveva spiegato loro che in
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realtà quella che potevano vedere era una
rappresentazione, creata ad arte per venire incontro alle
loro limitate capacità, ma che, utilizzando una simbologia
comune alle culture umanoidi, avrebbe dato loro, un’idea,
seppur incompleta, di che luogo fosse il Q-Continuum.
Onestamente, Picard, era rimasto un po’ deluso. Si
sarebbe atteso qualcosa di più sfarzoso ed adeguato
all’onnipotente razza dei Q. Ma tutto sommato proprio Q,
gli aveva insegnato a non soffermarsi sulle apparenze e a
guardare l’universo da un punto di vista differente da
quello che la sua limitata natura umana lo costringeva e
era sicuro che dietro a quella desolazione si nascondesse
un significato recondito che al momento gli sfuggiva.
Solo che il caldo era davvero opprimente, e tutte le sue
brillanti analisi si perdevano nella sua gola secca e nel
desiderio, sempre più impellente di bere qualcosa,
qualsiasi cosa.
«Niente da fare capitano. La porta è chiusa e non credo ci
sia modo di aprirla. Non senza gli strumenti adatti.»
«Non fa nulla Geordi, lasci perdere e si cerchi un po’
d’ombra. Immagino che stia soffrendo il caldo come tutti
noi d’altronde»
Il capo ingegnere, dagli occhi bionici, allargò le braccia a
dichiarare la proprio impotenza e passò oltre Picard,
ricevendo una pacca sulla spalla. Un gesto che lo
rinfrancò; sapeva di avere ancora la fiducia del suo
capitano, anche se non era riuscito ad aprire quella
dannata porta.
Picard si mise a fissare la porta. Si ergeva nel mezzo del
deserto, a non più di una decina di metri dal ciglio della
strada. Apparentemente non apriva nessun passaggio, era
solo una porta di metallo sorretta da due pilastri di pietra,
come se un costruttore decidesse di iniziare la costruzione
di una casa dalla porta, senza poi terminare mai l’opera.
Infatti gli si poteva girare attorno, ma da entrambi i lati si
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presentava liscia, priva di qualunque appiglio. Eppure
Picard aveva visto scomparire Q, proprio dietro a quella
porta, dopo averli rassicurati che sarebbe tornato subito a
riprenderli. Si era giustificato, adducendo una scusa
banale: doveva rassettare!
- Non avete nessuno per le pulizie nel Q-Continuum? aveva domandato Picard con tono ironico, sconcertato dal
pensiero che Q avesse bisogno di tempo per dare una
sistemata al Q-Continuum. Q aveva storto il labbro, ed
era stato sul punto di replicare, ma aveva troppa fretta e
lasciò correre scomparendo dietro alla porta di metallo.
Per l’ennesima volta, Picard tornò ad avvicinarsi al
portale. Voleva esaminarlo una volta ancora, sperando di
riuscire a cogliere qualche dettaglio essenziale, magari
sfuggito prima.
Si fermò dapprima a guardarlo da quello che pareva il
lato anteriore e poi, lentamente gli girò intorno, andando
a riparasi alla sua ombra. Il lato posteriore era
apparentemente identico all’altro se non fosse stato per
un piccolo simbolo, una spirale a tre curve che stava nel
centro della piastra metallica.
Picard tornò a cercare Data e Worf. Erano ancora,
apparentemente nello stesso punto di prima, eppure
poteva vedere bene che i due stavano camminando.
Improvvisamente, alle sue spalle udì il cigolio dei cardini
della porta e un raggio di luce scottante lo raggiunse alla
nuca. La porta si era finalmente aperta. Quando si voltò
essa era già stata richiusa per cui si portò rapidamente
dalla parte opposta .
«Ah! Jean-Luc! Sei Qui ! Dove ti eri cacciato?»
«Stavo per chiederti la stessa cosa Q!»
«Su! Abbiamo già perso troppo tempo! Ma dove sono il
tuo stupido ufficiale klingon e quell’imperfetto
androide?»
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«Abbiamo?» ironizzò Picard, continuando «comunque
Worf e Data sono impegnati in un giro di perlustrazione.
Giusto per ingannare l’attesa, visto che eri sparito».
«Perlustrazione? Oh! Jean-Luc non vi riesce mai di
smettere di comportarvi da ufficiali della Federazione,
nemmeno per un minuto!»
Con uno schiocco delle dita, Q riportò i due ufficiali
accanto a Picard. Data e Worf, attoniti guardarono prima
Q e poi il loro capitano.
«E’ tutto sotto controllo signori» li tranquillizzò Picard e
poi, rivolgendosi agli altri, « è ora di andare. Deanna,
Geordi, Beverly, l’attesa è terminata»
Q spinse la porta metallica, che apparentemente sembrava
aprirsi sul deserto.
«Su! Venite!» incitò Q, attraversando per primo la soglia
e scomparendo nel nulla.
Picard si rivolse ai suoi ufficiali e cercando di apparire
sicuro di sé disse:
«Andiamo!»
E scomparve anche lui nel nulla.
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CAPITOLO 7
«Q!»
«Guarda chi si fa vedere! Il mio allievo preferito».
Il giovane Q affiancò il suo mentore e adeguò il proprio
passo a quello del suo simile più anziano.
«Ho una domanda da farti»
«Parla ragazzo, ma sbrigati. Come saprai fra poco dovrò
parlare al Consiglio dei Q»
«E’ proprio a proposito di questa tua ultima impresa,
volevo domandarti cosa ti spingesse a perorare la causa di
questi primitivi. Sai, sto approfondendo le mie
conoscenze sulle razze umanoidi ed in particolare su
quella terrestre.»
«Si, ricordo il tuo ridicolo tentativo nel mare di Kantara!»
lo punzecchiò Q.
L’allievo fece finta di non avere sentito, ma era stato
alquanto infastidito dal fatto di essere stato salvato
dall’affogare. Si era sentito parecchio stupido. Era
giovane ma era pure sempre un Q!
«...e appunto dicevo, che hai suscitato in me una tale
curiosità per questi primitivi che ho deciso di dedicarmi
alla loro osservazione. Sono stato sul loro pianeta quando
era ancora un ammasso di rocce e metalli fusi, ma non ho
trovato nulla di interessante, allora ho fatto un passo di
due miliardi di anni, ma la situazione non era cambiata
granché, solo un poco più di acqua e nemmeno tanto
pulita. Gli oceani erano infestati da miliardi di batteri,
non mi ci è voluto molto per capire che non era ciò che
stavo cercando.»
«Gli umani sono una specie molto recente caro mio, sei
andato troppo nel passato della Terra» osservò Q, girando
la testa per vedere a che punto fosse il gruppetto degli
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ufficiali della Flotta che lo stavano seguendo lungo quel
ripido sentiero. Picard, da buon comandante stava in testa
alla fila e camminava a testa bassa ansimando per lo
sforzo e muovendo lo sguardo alla ricerca di un punto
sicuro in cui poggiare la pianta dello stivale.
«Si appunto, ci stavo arrivando!» riprese l’allievo «Sono
rimasto davvero basito quando ho capito che questi
umani esistono, come specie distinta, da poco più di un
milione di anni e che praticamente solo negli ultimi
diecimila hanno sviluppato qualcosa che si potrebbe a
fatica definire civiltà!»
«Si, sono molto giovani ed estremamente immaturi,
eppure sono così orgogliosi ed ostinati!» commentò il
maestro.
«Esatto! Non ho potuto fare a meno di chiedermi il
perché uno dei Q più famigerati del Q-Continuum stesse
mettendo a rischio la propria reputazione per aiutare una
razza tanto recente tutto sommato insignificante nella
storia dell’Universo!» Il giovane Q era pervaso da un
insolito entusiasmo che lo stava portando a gesticolare
scompostamente e Q finì col notare l’insolito
atteggiamento del ragazzo ingenerando in lui il sospetto
che gli stesse nascondendo qualcosa o che comunque non
gli stesse raccontando la verità fino in fondo. Q si arrestò
senza preavviso afferrando per un braccio l’altro Q e
fulminandolo con uno sguardo carico di minacce e
promesse di probabili punizioni se avesse scoperto che gli
aveva disubbidito:
«Ti sei limitato ad osservare vero? Sai che non hai ancora
il permesso di interagire con l’evoluzione delle specie!»
L’allievo si ritrasse bruscamente e con una mossa
repentina costrinse Q a mollare la presa sul suo
avambraccio e decise che non sarebbe restato li a farsi
trattare come un bamboccio. Aveva ormai ben
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quattrocento e trecentoventisettemila anni, abbastanza da
pretendere rispetto!
«Certo che no!» esclamò con tanto vigore il giovane Q
che Picard poté udirlo, anche se si trovava ad alcune
decine di metri dai due esseri onnipotenti ed arrestò la
marcia cercando di comprendere quale fosse il motivo del
contendere.
«Non c’è bisogno che sbraiti! Un Q non si scompone!» lo
rimproverò Q per nulla convinto dalla reazione decisa
dell’allievo.
Il giovane Q, il cui viso era diventato paonazzo per lo
sforzo di mantenere un’espressione la più accigliata
possibile abbassò un poco lo sguardo, incapace di
sostenere quello del Q più anziano, ma per nulla disposto
a cedere.
«Scusa, hai ragione. Il punto è che tu pensi sempre che io
non perda occasione per disubbidirti. Invece io vorrei un
poco più di…»
«Devo forse ricordarti gli Xiloniani? Non sono stato certo
io ad andare sul loro pianeta un miliardo prima della
nascita della vita e a trasformare il loro brodo primordiale
in un oceano di idrogeno liquido! E non sono nemmeno
stato io a farmi passare per un crudele divinità su Zantar
III e a causare una fatale deviazione sulla via
dell’evoluzione degli Zantariani, che li ha portati
all’estinzione in poche migliaia di anni! E dimentichi la
stella Kreth? Quella con cui ti sei divertito per millenni a
farla prima implodere e poi esplodere. Peccato ti fossi
scordato delle conseguenze che la tua stoltezza avrebbe
avuto sul secondo pianeta del sistema, dove un'innocente,
quanto rozza, civiltà umanoide è stata abbrustolita dai
tuoi esperimenti!»
Q non staccò lo sguardo dal viso del suo allievo. Questa
volta non avrebbe lasciato correre. Degli Xiloniani, degli
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Zantariani non gli era importato un fico secco, ma gli
umani no! Quelli non poteva toccarli nessuno. Tranne lui.
«Sono stati incidenti,» si giustificò il giovane Q, con un
filo di voce, tanto che anche Q fece fatica ad udirlo, ma
immediatamente ebbe uno scatto di vero orgoglio Q e
alzò nuovamente la testa e si assicurò che le sue pupille e
quelle del suo tutore fossero sulla stessa linea e facendo
appello alla sfrontatezza tipica dei giovani esclamò:
«E poi parli proprio tu! Te li ricordi i Glosh?»
Fra i due calò il silenzio e restarono a lungo a fissarsi,
entrambi decisi a non essere il primo a cedere.
Q stava ribollendo di rabbia per l’insolenza del giovane,
se non fosse che era al momento impegnato in questioni
ben più importanti, che richiedevano tutta la sua
attenzione, avrebbe volentieri dato una lezione a quel
giovane sbruffone, che non aveva un centesimo dei suoi
anni, magari rinchiudendolo in una cometa per un paio di
milioni di anni. Ma non c’era tempo, il Consiglio
attendeva impaziente e il sentiero era ancora lungo,
perciò decise che avrebbe lasciato cadere la questione,
ma non l’avrebbe scordata. A tempo debito il giovane Q
avrebbe meritatamente imparato a sue spese che nessuno
può permettersi di fare l’insolente con un Q. E che Q.
«Quella è una faccenda che non ti riguarda! Mi auguro
solo che tu non abbia combinato guai! Sappi che
comunque verrò a saperlo quindi sei fortunato che io ora
non abbia tempo da dedicarti. Sei ancora a tempo per
sistemare qualunque pasticcio tu abbia causato.»
Il giovane Q cantò intimamente vittoria. Il suo tutore
arretrava con la cavalleria e si sentì per la prima volta
realmente onnipotente, tanto che si fece largo in lui un
briciolo di comprensione per quel vecchio Q che cercava
di instradarlo sulla retta via del Q-Continuum.
«Fidati di me, vecchio mio! Mi sono limitato ad
osservarli. Anche se da molto, molto vicino!»
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Un'energica pacca raggiunse come un fulmine a ciel
sereno la spalla sinistra di Q obbligandolo a mettere una
gamba avanti per non perdere l’equilibrio.
- Vecchio mio? - aveva udito bene? - Vecchio mio? Quel piccolo escremento più insignificante del pulviscolo
spaziale aveva osato dargli del vecchio? E cos’era quel
gesto confidenziale tipicamente terrestre, solitamente a
significare comprensione e commiserazione? Q afferrò
con una velocità inaspettata il suo giovane allievo per le
spalle e stringendolo così forte da fargli del male lo
costrinse a guardarlo negli occhi. Era pronto a riversare
su di lui la sua immensa ira.
«Piccolo microbo, prova ancora una sola volta a ripetere
ciò che hai fatto e non dimenticherai mai più come va
trattato un Q che è di eoni più vecch…» Q ebbe
un'esitazione quando si rese conto che si stava
imbrogliando da solo. Camuffò l’imbarazzo e riprese la
sua predica «più maturo di te! E non so dove tu abbia
imparato quel ridicolo quanto irrispettoso gesto, ma ti
sconsiglio di ripeterlo in futuro! E ora vattene, ho
faccende urgenti da sbrigare e mi hai già fatto perdere
tempo a sufficienza!» Q lasciò lentamente la presa e il
giovane Q, divertito nel vedere il suo maestro lasciarsi
andare ad una reazione tanto scomposta scomparve in un
lampo. Non gli sembrava il caso di infierire
ulteriormente, per quel giorno si era preso già la sua bella
soddisfazione.
«Capitano, che sta succedendo?» chiese Geordi, che si
era arrestato alle spalle di Picard
«Non lo so, sembra che stiano discutendo, ma non riesco
ad udire bene le parole»
«Ma chi è il secondo individuo? Sembra un ragazzino
all’incirca di non più di quindici anni» domandò Beverly
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«Non so nemmeno quello. E’ apparso all’improvviso,
forse è uscito dalla boscaglia, ma non l’ho mai visto
prima. Credo si tratti di un membro del Q-Continuum»
ipotizzò il capitano intento ad osservare Q ed il nuovo
arrivato proseguire affiancati il cammino.
«Signore, suggerisco cautela. Un Q è pericoloso. Due lo
sono il doppio» avvertì Worf, il cui spirito guerriero si
era subitamente infiammato all’arrivo di un potenziale
pericolo.
Data, che chiudeva la fila, giunse per ultimo. Distratto
dalle letture del suo tricorder non aveva ancora notato
l’arrivo di un secondo Q.
«Capitano, Q non è più solo» fece notare l’androide.
«Abbiamo visto Data» lo aggiornò prontamente Picard.
«E’ altamente probabile che si tratti di un membro del QContin…»
«Si lo immaginavamo» lo interruppe Geordi
«Dall’aspetto pare essere più giovane del Q che
conosciamo. Se fosse umano avrebbe un’età
approssimativa di quindici virgola du…»
«Abbiamo notato Data» lo interruppe Beverly stavolta.
Data rimase un istante a bocca aperta, come se i suoi
circuiti positronici stessero cercando di recuperare il filo
perduto. Superata l’incertezza, la sua programmazione
era passata all’informazione successiva.
«Naturalmente, visto che non sappiamo con chi abbiamo
a che fare, consiglio cautel…»
I compagni di Data si voltarono verso di lui all’unisono
fissandolo congiuntamente.
«Si Data lo sappiamo!» risposero in coro facendo
chiaramente intendere all’androide che le sue
osservazioni erano giunte decisamente fuori tempo
massimo. Ma nei loro occhi si poteva comunque leggere
tutto l’affetto che provavano per quella meravigliosa
65
macchina senziente a cui tutti, almeno una volta, avevano
dovuto la loro vita.
Data rimase immobile, con un’espressione sorpresa e allo
stesso tempo confusa.
«Immagino che allora sappiate già che il trycorder non
rileva nulla di insolito.»
Picard e anche i suoi ufficiali si lasciarono scappare un
sorrisetto ironico.
«Data, credo che qui il trycorder sia inutile. Metta pure
via quell’arnese.»
«Come vuole capitano» Data richiuse lo strumento
diagnostico e lo agganciò alla cintola.
«Riprendiamo il cammino ora e speriamo che non ci sia
ancora molto. Comincio ad essere stanco di questa
rappresentazione del Q-Continuum. Prima un torrido
deserto, ora una montagna che pare non avere una cima.»
Picard riprese a marciare, facendo sempre attenzione a
dove metteva i piedi. Il sentiero era limitato da un lato dal
fianco della montagna, ma dall’altro cadeva a
strapiombo. Sarebbe bastata una piccola distrazione per
precipitare.
Aveva cercato di comprendere il motivo che stava alla
base di una simile rappresentazione del Q-Continuum.
Prima un deserto e ora questo sentiero. Che fosse una
specie di percorso necessario al raggiungimento di un
qualche particolare stato spirituale? O di una maggiore
consapevolezza necessaria a dialogare sullo stesso piano
di un Q? O che altro? Perché Q non si era limitato a
portarli con uno schiocco di dita davanti al Consiglio?
Domande senza risposte. L’unico accrescimento di cui
Picard era al momento certo, era quello dell’acido lattico
nei suoi muscoli e il sudore che a piccole goccioline gli
perlava la fronte. Ed era certo che il Consiglio del QContinuum
non
sarebbe
stato
benevolmente
impressionato da un umanoide maleodorante.
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Alzando gli occhi, Picard notò che Q e il nuovo arrivato
si erano arrestati e pareva che il loro conversare fosse
mutato in un alterco. Alzando la mano destra alla fronte
per pararsi dai raggi del sole scrutò quello che stava
accadendo fra i due. Spezzoni di parole, giunsero a fatica
al suo orecchio, abbastanza da capire che non si trattava
di una discussione amichevole. Picard accelerò il passo
per cercare di accorciare la distanza che lo separava da Q,
ma non quanto avrebbe voluto, il rischio di scivolare era
ben presente nella mente del capitano. I suoi ufficiali,
altrettanto incuriositi, seguirono l’esempio del loro
capitano, restandogli saldamente alla calcagna.
Quando furono ad una dozzina di metri dal loro obiettivo,
videro dapprima il ragazzo dare una pacca sulla spalla di
Q, così energica che quasi lo fece cadere a terra, e
successivamente la veemente reazione di Q, che afferrava
il ragazzino per le spalle e gridò cosi forte che poterono
udire chiaramente ogni parola. Una risatina divertita non
poté essere soffocata. Solo Data e Worf rimasero
assolutamente impassibili.
Il ragazzino scomparve nel consueto lampo di luce e Q
rimase solo, intento a massaggiarsi le tempie, come se
fosse afflitto da un’emicrania.
«Coraggio Q, la prossima volta starà più attento con la
palla!»
«Jean-Luc! Ti è dato di volta il cervello?» domandò Q,
voltandosi verso Picard. Non si era reso conto che gli
umani lo avevano raggiunto e subito il suo viso riprese a
mostrare il suo solito ghigno strafottente.
«Non era tuo figlio quello? Di che lo rimproveravi? Ha
usato un pianeta come palla da gioco ed ha rotto il vetro
della finestra del tuo vicino di Q-Continuum?» continuò
sarcastico Picard, felice di avere un’occasione per essere
lui a prendersi gioco di Q per un volta.
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«Figlio? Ti sbagli Jean-Luc! Non è mio figlio, per fortuna
è solo un ragazzino presuntuoso e sfrontato cui ho avuto
la sfortuna di fare da tutore» precisò Q.
«Presuntuoso e sfrontato…» Picard si sfregò il mento con
la mano destra, recitando la parte di colui che è immerso
in una profonda riflessione «sei proprio sicuro non sia tuo
figlio?»
«Jean-Luc! Il tuo sarcasmo, in questo momento è davvero
fuori luogo! Vorrei ricordarti che siamo qui perché io ho
deciso di aiutarvi a non farvi spazzare via dai Borg!»
La risposta di Q era piena di risentimento. Forse un po’
eccessivo per un'innocente battuta. In fondo, sia lui sia
Picard giocavano a scambiarsi reciproci sfottò da
parecchi anni. Il capitano comprese che quel ragazzino
rappresentava per Q un problema piuttosto serio. Sotterrò
l’ascia di guerra e cambiò tono quando riprese a parlare:
«d’accordo, non è il momento per il sarcasmo, però noi
siamo stanchi di camminare. Quanto manca ancora per
arrivare al Consiglio del Q-Continuum?» domandò
Picard.
Q era ancora immerso nei suoi pensieri e dovette fare uno
sforzo per prestare attenzione alle parole di Picard.
«Si! Certo!»
Q schioccò le dita e la montagna, il sentiero scomparvero
per lasciare posto ad una specie di sala consiliare in
marmo bianco che ricordava certe rappresentazioni del
senato della Roma imperiale.
Picard e sui ufficiali erano seduti al margine esterno
sinistro del semicerchio a gradoni, mentre dalla parte
opposta un gruppo di droni borg sedeva sulla loro stessa
fila.
«Dove siamo?» domandò Deanna
«Davanti al Consiglio del Q-Continuum, ovviamente!»
rispose Q
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«Ma, la montagna, il sentiero, perché non ci hai portato
qui subito?»
«Ho avuto i miei motivi e comunque ora siete qui!
Smettetela di farmi domande! Siete sempre così
noiosamente curiosi!»
«Oh! Si, ricordiamo, dovevi mettere in ordine!» lo
punzecchiò Picard facendo riferimento alla scusa banale
che Q aveva addotto loro durante la lunga attesa nel
deserto, di fronte alla grande porta di metallo.
«Jean-Luc, se fossi in te non farei tanto lo spiritoso. Tra
poco arriveranno i membri del consiglio e ti suggerisco di
risparmiare il tuo sarcasmo per loro. Non ti sarà facile
dimostrare che la tua razza e migliaia di altre siete degni
di abitare la galassia. Non so se li hai notati, ma laggiù ci
sono i tuoi avversari e loro non si perdono in facezie
come te!» disse Q, indicando il gruppo di droni Borg che
sedevano immobili, per fortuna parecchio lontani, alla
loro destra.
Le parole di Q centrarono il bersaglio e Picard, ferito a
morte arretrò. Il tratti del suo volto si fecero duri e tesi.
Non aveva idea di cosa lo aspettasse, sapeva solo che non
poteva fallire o la galassia sarebbe divenuta un immenso
alveare Borg.
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CAPITOLO 8
Picard, impaziente, trovava difficile restare seduto sul
freddo marmo bianco del piccolo anfiteatro che sarebbe
stata l’aula di quello che si avviava ad essere un processo
in piena regola. Aveva ben presto intuito di essere uno
degli imputati e che la causa, se così si poteva chiamare,
vedeva coinvolti anche i Borg. I consiglieri del QContinuum non erano ancora giunti, ma ormai Picard si
era rassegnato a quelle lunghe attese, comprensibili per
una razza non costretta a combattere contro la voracità
del tempo, per la quale, un ora od un millennio erano
praticamente sullo stesso piano. Picard si augurò che in
quell’occasione rammentassero quanto per gli umani, il
fattore tempo, fosse determinante. Per un istante si
immaginò vecchio e decrepito ancora seduto su quei
gradoni di marmo in un’attesa infinita. Scacciò
rapidamente il pensiero e dedicò la sua attenzione
nell’osservazione del manipolo di droni Borg che
impassibili stavano seduti come lui dalla parte opposta
dell’anfiteatro.
Erano in cinque seduti, più un sesto che però stava in
piedi a braccia conserte e pareva avere una
configurazione diversa dai compagni. I suoi impianti
cibernetici erano color argento ed oro e parevano essere
stati lucidati con un qualche prodotto di pulizia
particolarmente efficace, visto che risplendevano quasi di
luce propria mentre ciò che era rimasto di organico non
presentava il solito colorito ceruleo che faceva somigliare
i Borg a dei cadaveri viventi, era invece di un rosa pallido
più adatto ad una bambina cresciuta sulle montagne. E
soprattutto il ghigno di quel drone, tipicamente spettrale
ed inespressivo, incuteva timore e rispetto e nei suoi
70
occhi ardeva un fuoco intenso. I restanti droni non
presentavano, agli occhi esperti di Picard, niente che li
rendesse degni di nota e inspiegabilmente non riusciva a
percepire il richiamo della Collettività, come invece era
spesso accaduto in passato, dopo la sua assimilazione
avvenuta parecchi anni prima, ogni qual volta era nelle
vicinanze dei Borg. Picard ne dedusse che quei droni
erano completamente sganciati dalla Collettività,
soggiogati dal potere immenso dei Q.
Stanco di giocare all’investigatore, Picard decise che
avrebbe probabilmente ottenuto un risultato migliore
ponendo i suoi interrogativi direttamente a Q, che stava in
piedi davanti a lui, anch’egli con le braccia conserte, la
fronte corrucciata e gli occhi fissi su quel drone
luccicante. L’intuito del capitano gli suggerì che quel
drone e Q avessero un qualche conto in sospeso.
«Posso farti una domanda?» disse Picard rompendo il
silenzio della sala. Nonostante avesse parlato con un tono
di voce discreto, le sue parole ritornarono sotto forma di
eco, amplificandosi a tal punto che anche il drone
argentato si voltò verso il capitano.
Picard, resosi conto di avere attirato l’attenzione abbassò
ancora di più la voce e ripeté la sua richiesta
«Dimmi Jean-Luc» rispose Q, senza togliere lo sguardo
dal suo avversario sul lato opposto.
«Chi sono quei borg laggiù e soprattutto chi è quel drone
in piedi, quello con gli impianti?»
«In argento ed oro, ridicoli vero? Vuoi sapere davvero chi
sia Picard? Ne sei certo?»
Picard annuì col capo, domandandosi quale terribile
verità potesse nascondersi dietro l’identità di quel drone.
«Lui è la causa di tutti i vostri guai, Jean-Luc! Lui ha
sostenuto e tuttora sostiene la causa dei Borg! Spera
ardentemente che quei mostriciattoli cibernetici
71
conquistino tutta la galassia e chissà, forse un giorno,
l’universo intero! Illuso! Lui è Q!»
La voce di Q era carica di odio e disprezzo. E diede a
Picard la certezza che i due non era sicuramente la prima
volta che si scontravano ma che probabilmente quella era
l’ultima di una lunga serie di diatribe.
«Q?»
«Si! Q! Sei diventato sordo? Che tristezza questi vostri
fragili e difettosi corpi che col passare degli anni…»
Picard alzò con un movimento repentino la mano destra
intimando a Q di non proseguire. Non aveva proprio
voglia di stare ad ascoltare le farneticanti critiche alla sua
umanità, con cui Q li aveva deliziati per parecchi anni. E
riprese il discorso interrotto.
«Anche lui si chiama Q? Ma mi spieghi una benedetta
volta come fate a districarvi in una comunità in cui
ognuno di voi ha lo stesso identico nome?»
«Jean-Luc, la tua primitiva quanto incolmabile ignoranza
e il tuo spirito che ti spinge inutilmente a cercare di
colmare tale oceano di conoscenze a volte mi
commuovono»
Q, da buon commediante, finse di asciugarsi con il dorso
della mano delle lacrime che non c’erano e sempre
recitando la parte del sinceramente commosso, continuò,
con un Picard altrettanto sinceramente stizzito dalla
sceneggiata e che si limitava a stare seduto con le mani
poggiate sui bordi del gradone di marmo.
«Quando anche voi umani avrete raggiunto, se mai vi
riuscirete vista la vostra propensione per l’irrilevante, un
livello evolutivo pari al nostro allora capirai che la
necessità, tipica delle razze primitive, di assegnare un
nome ad ogni cosa è assolutamente futile. Comunque per
venire incontro alle vostre capacità mentali limitate vedrò
di fare un’eccezione» Q si portò una mano al mento e
simulò profonda concentrazione.
72
«Q-Borg! Che ne dici Jean-Luc? Mi pare carino ed
appropriato, così eviterete ogni pericolo di fare
confusione in quelle vostre piccole e inefficienti
testoline.»
Picard aveva smesso di ascoltarlo. Era l’unico modo che
conosceva per non cedere alla tentazione di lasciare che
tutti i suoi più bestiali istinti erompessero senza freno,
scagliando contro Q tutta la violenta aggressività di cui
era capace. Se fosse stato un klingon, Q non sarebbe
arrivato alla quarta parola del suo irritante monologo, o
meglio, non ci sarebbe arrivato intero.
«Jean-Luc! Ma mi stai ascoltando? O hai veramente
problemi di udito?! Beverly! Il tuo timido amante ha
bisogno delle tue cure, credo che gli anni comincino ad
essere davvero troppi per lui!»
Beverly, che fino a quel momento era rimasta in disparte,
sentendosi chiamata in causa si alzò portandosi verso il
capitano. Le parole timido amante l’avevano un poco
scossa. Lei sapeva dei sentimenti che il capitano provava
per lei da parecchi anni e lui sapeva dei suoi, e tutti i
membri dell’equipaggio dell’Enterprise, che avessero
trascorso sufficiente tempo a bordo della nave, erano a
conoscenza del legame, mai esplicitamente dichiarato,
ma, ad occhi esperti, abbastanza evidente, tra il capitano e
il primo ufficiale medico. Sentire Q sbraitare senza
pudore quello che pareva destinato a restare, per sempre,
un intimo segreto di pulcinella la infastidì non poco e
incontrando lo sguardo di Picard capì che anche lui era
rimasto altrettanto infastidito dalla mancanza di tatto e
maleducazione di Q.
«Capitano, qualcosa non va?» domandò la donna
«No. No. Beverly, è tutto a posto, io e Q stavamo avendo
uno dei nostri soliti confronti. Mi spiace» le ultime parole
del capitano si riferivano proprio a quell’indiscreto
accenno alla loro platonica relazione fatto poc’anzi da Q.
73
E la Crusher comprese, come sempre, senza che Picard
dovesse aggiungere altro. L’intesa che esisteva fra i due
permetteva loro di risparmiare molte parole senza perdere
alcun significato.
«Non fa nulla, Jean-Luc, non è colpa tua» lo tranquillizzò
la dottoressa
«Non fa nulla Jean-Luc!» li canzonò Q «Siete la coppia
più melensa della galassia! Ma quando la finirete di
fingere che…»
«Q! Adesso basta! Non ti permetto di andare oltre!»
Picard era scattato in piedi così rapidamente che Q aveva
fatto un piccolo passò all’indietro per non cadere dal
gradone e sul suo volto si dipinse un’espressione di reale
spavento. Picard non era per nulla disposto a permettere a
nessuno, nemmeno ad un super essere come Q, di
prendersi gioco dei sentimenti che lo legavano a Beverly.
Entrambi avevano avuto negli anni altre storie d’amore,
dalle fortune davvero alterne, eppure, fra loro era rimasto
solido ed indissolubile un legame speciale. E da anni
Picard si era convinto che per restare tale, il loro rapporto
non avrebbe mai dovuto concretizzarsi. Proprio Q, anni
prima, gli aveva permesso di dare una sbirciata ad un suo
futuro ipotetico e sindrome irumodica a parte, l’aveva
colpito il fatto che lui e Beverly si erano sposati e
separati. La storia non aveva funzionato, come tante altre
storie che gli era capitato di vivere nella sua vita. Per non
perderla avrebbe dovuto rinunciare ad averla. E Beverly
aveva capito, lei lo capiva sempre.
Lo sguardo di Picard non tradiva nessun'incertezza. E Q
perse tutta la sua boria e con fare imbarazzato abbassò lo
sguardo.
«Jean-Luc…» sussurrò, agitando il dito indice della
mano, come se stesse cercando di recuperare il filo perso
del discorso. Ma Picard, spinto da quell’onda d'orgoglio e
sentimento, non avvezzo ad attendere di ricevere ordini,
74
decise di giocarsi le sue carte. Voleva sapere che stava
accadendo di preciso. La storia della Sfida, il Consiglio
del Q-Continuum, l’invasione massiccia dei Borg negli
ultimi mesi, quell’anfiteatro, il Q-Borg. Tutto pareva
sempre meno credibile e reale. Voleva delle spiegazioni,
ora, subito.
«Q! Siamo stanchi dei tuoi giochetti! Ora voglio che tu
mi dica tutto quello che sai!»
I compagni si voltarono tutti verso Q. Il tono della voce
del capitano aveva attirato le loro attenzioni ed attesero
una risposta.
«Altrimenti?» domandò un Q che si stava riprendendo
dallo spavento.
«Altrimenti noi ce ne andiamo. Preferisco restare a lottare
con i Borg una battaglia persa che essere schiavi della tua
ipocrisia e supponenza per altri cinque minuti!» Picard
parlava seriamente e in cuor suo sperò di avere
impressionato a sufficienza Q da indurlo a dire tutta la
verità.
«E rinunceresti alla Sfida? Alla possibilità di allontanare
per sempre la minaccia dei Borg?»
«Piuttosto che gettare l’intera galassia fra le tue
amorevoli braccia si!»
«Ma non puoi! Ormai sei qui! Ormai ho organizzato
tutto! Se ve ne andate il Q-Borg avrà vinto e io… Io…»
Q si morse la lingua. Era troppo tardi quando si rese
conto di avere parlato troppo.
«E tu cosa?» domandò Picard stringendo gli occhi. Che
fra Q e il Q-Borg ci dovesse essere un qualche sorta
d'attrito o rivalità lo aveva compreso già prima, ma ora
comprese anche che la Sfida non era rivolta direttamente
alle razze del Quadrante Alfa e i Borg. Un lontano
ricordo della sua infanzia affiorò nella sua memoria, di
lui e suo fratello, che fra i filari dei vigneti vicino a casa,
tenevano interminabili gare di velocità fra lumache e si
75
ricordò anche della reazione di suo padre, che
scoprendoli a tifare accanitamente per due lumache che si
sfidavano sul metro lineare, li riprese duramente
ricordando loro che ogni creatura vivente va rispettata e
che avremmo dovuto vergognarci per la violenza che
stavamo esercitando su quelle due lumache. In quel
momento, Picard comprese veramente a fondo le parole
pronunciate tanti anni fa da suo padre. Lui adesso era la
lumaca.
Q esitò a rispondere, quanto bastò a Picard per
comprendere di avere colto nel segno. La Sfida in realtà
era riservata a Q ed al suo antagonista del Q-Continuum.
Loro e i cinque borg ancora seduti a pochi metri da loro
erano niente altro che i loro campioni, come nelle antiche
giostre medievali. O più semplicemente, ripensando
ancora alla sua infanzia, erano le loro due lumache. E il
campo di battaglia era la galassia stessa e probabilmente
questa Sfida si stava protraendo da secoli o millenni e
stava vedendo Q perdente, così suppose Picard. Una sfida
mortale, almeno per una delle due lumache e la cosa non
gli piacque per nulla.
Mancava solo un dettaglio: il premio. Ma era un
particolare assai poco rilevante, comunque non sarebbe
stato assegnato certo alla lumaca vincente, ma solo al
proprietario della stessa, così come nelle corse di cavalli,
cui da ragazzo aveva partecipato, la coppa del vincitore è
consegnata al fantino ed al proprietario, mentre
all’animale solo un po’ di biada e gloria che non
l’avrebbe ripagato certo delle sue fatiche.
Picard sentì una profonda rabbia crescere dentro di lui. Si
sentì usato. E ripensò ai momenti difficili di quegli ultimi
mesi, sempre in battaglia, costretto a considerare la morte
come un membro dell’equipaggio della sua nave, sempre
pronto a reclutare sotto il suo comando altri membri, fino
a formare una squadra infinita fatta di volti, di nomi che
76
non torneranno più dalla loro missione. Era stato tutto un
gioco?
Da quanto l’umanità era strumento della follia di Q?
Quanto dei loro progressi era realmente dovuto agli sforzi
di milioni di uomini e donne, ormai dimenticate ceneri,
che nei secoli avevano lottato contro le forze della natura,
contro le loro paure, contro l’ignoranza cercando di
regalare ai proprio figli un futuro migliore e quanto
invece opera della folle gara fra i Q? Improvvisamente
sentì svanire il proprio orgoglio di appartenere alla razza
umana e fu pervaso da un profondo senso di vuoto
interiore che piegò anche la sua pur dura scorza e senza
dire altro, senza attendere che Q parlasse ancora, si
accasciò su se stesso, con Beverly che ne rallentò la
caduta, cercando di sorreggerlo. Picard si ritrovò con la
testa fra le mani, bagnate da calde lacrime, a singhiozzare
come un bambino. Tutto ciò che l’aveva sorretto fino a
quel momento era venuto meno. Tensioni represse,
rabbia, dolore e un senso di profondo quanto
inconsolabile sconforto lo assalì. Nulla aveva più senso.
«Capitano…» dissero in coro Geordi e Data, sui cui volti
si poteva leggere stupore e compassione. Deanna e
Beverly lo affiancarono abbracciandolo, tentando di
trasmettergli parte della loro comprensione. Worf, silente,
fissava la scena impassibile. Il suo cuore klingon gli
impediva di esplicitare la sua solidarietà al dolore del
capitano, ma anch’egli era giunto alle stesse conclusioni
del suo capitano e l’idea che l’intera storia dell’Impero
klingon non fosse altro che un ordita trama intessuta dai
Q l’aveva sfiorato.
Q era rimasto in silenzio. E per la prima volta nella sua
lunga esistenza riuscì, senza trasformarsi in esso, a
provare la sensazioni tipiche di un piccolo invertebrato
terrestre, dedito a scavare gallerie nel terriccio ed
anticamente usato come esca per la pesca.
77
«Jean-Luc. Non è proprio come pensi. Io e il Q-Borg ci
siamo sfidati tanti eoni fa, così tanti che non ricordo
nemmeno più quanti e questo è solo l’ultimo capitolo di
questa sfida. Fino ad ora ci eravamo limitati a
confrontarci in prove di abilità come saltare in un buco
nero, interrompere la fusione all’interno di stelle, spostare
galassie, a volte farle sparire, giochetti insomma»
Q fece una pausa, abbozzando un sorriso, sperando che la
battuta servisse a Picard per riprendersi. Il capitano aveva
cessato di singhiozzare e stava ascoltando le parole di Q,
ma i suoi occhi, ancora bagnati, erano spenti, privati di
quella luce chiamata speranza. Vedendo di non avere
sortito effetti, Q riprese a parlare.
«Solo ultimamente il mio avversario ha spostato il fulcro
della sfida su un piano più complesso e stimolante. Si!
Insomma! La gestione di una particolare forma di vita
senziente, allo scopo di aiutarla ad evolversi fino a che
non avesse preso il controllo dell’intera galassia. Fino a
poco tempo fa ci eravamo limitati a creare a tali razze le
condizioni favorevoli per il loro sviluppo, pianeti con la
giusta gravità, il clima, acqua, ossigeno ed eravamo poi
rimasti a guardare la vita evolversi lentamente, ma
appunto era troppo lenta e Q-Borg decise di infrangere
una delle regole del Q-Continuum e cominciò ad
interferire direttamente con le prime forme di vita
senzienti che si erano evolute sul pianeta da lui
predisposto allo scopo di accelerarne il processo. Io
protestai, ma siccome in passato ho avuto alcuni problemi
con il Consiglio del Q-Continuum non mi diedero
ascolto. E allora capisci, non sono potuto restare con le
mani in mano e sono intervenuto anch’io! Insomma era
una questione d’onore! Worf! Spiegagli tu cosa intendo
per onore!»
Il klingon si limitò a ringhiare, facendo chiaramente
capire a Q che non lo avrebbe aiutato.
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«Ma qualcosa è andato storto vero?» intervenne La Forge
«Esatto! Il mio avversario ha fornito ai Borgoniani una
quantità di tecnologia tale che in pochi secoli essi hanno
radicalmente mutato la loro società, sviluppando una
fame di tecnologia tale, oserei dire una dipendenza, che li
ha spinti ad uscire dal loro sistema solare per ricercarne
sempre di nuova, al punto che hanno perso il senso della
vita biologica, che è diventata di secondaria importanza.
Una razza intera schiava del bisogno di acquisire sempre
nuova tecnologia! Capite?»
«I Borgoniani erano i Borg prima che Q-Borg
intervenisse pesantemente nella loro società esatto?»
«Perspicace l’androide!» ironizzò Q
Data non colse e rivolgendosi al capitano
«A questo punto signore credo che sia nostro dovere
approfondire la faccenda. Qui non si tratta più solo della
nostra salvezza. In fondo anche i Borg sono delle vittime
e anche se l’idea può essere singolare necessitano di aiuto
forse anche più di noi.»
Tutti si guardarono l’un l’altro, un poco scioccati
dall’affermazione dell’androide, solo Picard mantenne la
sua espressione vuota e dimostrando di avere ripreso il
controllo delle sue emozioni si alzò nuovamente e
stirandosi l’uniforme disse con voce pacata:
«Ha ragione signor Data» e poi rivolgendosi a Q «Ti
aiuteremo, ma in cambio tu ci prometti che sparirai per
sempre da questa galassia e che non interferirai più con
nessuna delle razze che la abitano?»
Q incrociò gli indici baciandoseli ripetutamente «Giuro!
Te lo prometto Jean-Luc!» poi fece una pausa e si voltò
di scatto verso il centro dell’anfiteatro. Silenziosi, senza
farsi notare, i membri del consiglio erano entrati e
sedevano al lungo tavolo posto al vertice dell’anfiteatro.
«Sempre se vinceremo» fu il commento laconico di
Picard.
79
CAPITOLO 9
Da quanto tempo era li? Fu la prima cosa che Riker si
domandò non appena si rese conto di essere sveglio. Era
ancora seduto al posto di comando della USS Pioneer e
poteva udire solo i sommessi ronzii degli strumenti
intenti a monitorare le funzioni del vascello. William era
crollato di sonno dopo il tremendo stress subito nel
tentativo riuscito di ingannare i Borg, distogliendo la loro
attenzione dal convoglio principale. Riker si immaginò
l’Enterprise, in testa al gruppo, ormai a poche ore dal
tunnel spaziale bajoriano e il pensiero gli risollevò un
poco il morale. Massaggiandosi ripetutamente quello che
restava del suo braccio destro si guardò intorno valutando
rapidamente la situazione. Tutto pareva normale, se il
termine normale avesse avuto un qualsiasi significato in
quel momento. Lo schermo principale inquadrava i
restanti quattro vascelli Borg lanciati all’inseguimento
della Pioneer e dello sparuto gruppo di coraggiosi che si
erano offerti di sacrificare le proprie vite nel tentativo di
dare speranza ai profughi.
- Capitani coraggiosi - pensò Riker, avendo però
l’impressione di avere già avuto a che fare con
quell’epiteto, da ragazzo, forse una canzone o un
oloromanzo. Non vi dedicò altra attenzione e si alzò in
piedi con uno scatto repentino.
Il comandante Vovelek, stava esattamente dove Riker
l’aveva lasciato, alla postazione tattica e nonostante
fossero parecchie le ore che lo avevano visto impegnato,
dava l’impressione di non essere benché minimamente
provato. Will, al contrario, era a pezzi.
«Rapporto, signor Vovelek»
80
Il vulcaniano alzò lentamente la testa dalla consolle,
fissando l’umano, come se stesse meditando una risposta
così complessa da richiedere qualche secondo
supplementare.
«I vascelli Borg si stanno avvicinando ad una velocità di
dodicimila chilometri l’ora, mantenendo l’attuale velocità
saremo a portata di tiro delle loro armi fra tredici ore e
trentaquattro minuti.»
Riker si grattò il mento con la mano superstite assumendo
un atteggiamento preoccupato. La sua barba era
terribilmente in disordine.
Vovelek continuò: «comunque, la Pioneer e la maggior
parte degli altri vascelli non potranno mantenere questa
velocità ancora per molto. Fra sei ore e dodici minuti
dovremo passare ad impulso o il nostro nucleo di
curvatura andrà in sovraccarico.»
«Volenti o nolenti i Borg ci saranno comunque addosso»
commentò Riker.
Vovelek non rispose limitandosi a fissare l’umano. Riker
ricambiò lo sguardo, in cuor suo certo che il vulcaniano
stesse in qualche modo godendo di quella situazione. In
altre occasioni avrebbe tirato fuori uno dei suoi numeri,
qualche idea spettacolare, una strategia impensabile, ma
lui ormai non era più il William Riker di una volta ed era
sinceramente stanco di lottare, tanto più che quella
suonava come una battaglia persa in partenza.
«Comunichi agli altri vascelli di continuare su questa
rotta fino a che i loro motori reggeranno e poi ognun per
sé.» Will fece una pausa, meditando le parole migliori per
un commiato «e comunichi anche tutti i miei
ringraziamenti per la riuscita della missione. E che Dio,
qualunque Dio, ce la mandi buona.»
Il vulcaniano eseguì rapidamente
«Messaggio inviato signore»
81
Riker tornò a sedersi sulla poltrona di comando,
lasciandosi cadere a peso morto, in preda ad un crescente
sconforto che, nonostante i suoi sforzi, proprio non gli
riusciva di mascherare. Lo intuì scrutando i volti spauriti
degli ufficiali di plancia che si limitavano a fissarlo.
Leggeva terrore, dolore, rabbia e consapevolezza, della
fine vicina. I Borg avevano vinto, la Federazione si era
arresa, la Flotta Stellare si era arresa, William Riker si era
arreso.
Il comandante Vovelek, invece, non si era ancora dato
per vinto.
«Signore, mentre lei schiacciava un pisolino ho preparato
un piano che ci permetterà di mettere in salvo la nave e
l’equipaggio se mi permette di esporlo»
«Comandante Vovelek» disse Will con un fil di voce
«Si signore?»
«A rapporto»
«Come signore?»
«Ha sentito benissimo!» gridò improvvisamente Will,
stupendosi di averne ancora la forza «o il suo super udito
vulcaniano è andato a farsi sfottere?»
Vovelek alzò un sopracciglio, sconcertato dalla reazione
del neo capitano.
«Signor Palmer a lei il comando!»
«Palmas, signore»
Riker ebbe un momento di imbarazzo ma cercò di
mascherarlo indurendo ancor più il tono della voce.
«Comunque diavolo si chiami si sieda su quella poltrona
e qualunque cosa succeda mi avverta!»
Il signor Palmas annuì andando a prendere il posto di
Riker, mentre Vovelek seguì Riker nella saletta tattica.
Non sapeva nemmeno lui perché si stesse apprestando a
fare una bella ramanzina al signor Vovelek. Restavano si
e no sei ore da vivere e lui si stava preoccupando della
disciplina, su una nave di una flotta che non esisteva più,
82
di un confederazione di pianeti che non esisteva più. Era
tutto così surreale. Avrebbe potuto fregarsene altamente
dello stizzoso commentino del vulcaniano sul fatto che si
fosse addormentato in plancia, ma qualcosa dentro di lui
lo spinse a compiere fino in fondo il proprio dovere.
«Comandante Vovelek, questa è l’ultima volta che le
permetto di rivolgermi con quel tono. Sia chiaro che se
insiste con questa condotta la solleverò dal suo incarico!»
disse mettendosi il più composto e formale possibile.
«Comprendo signore. Comunque se avesse un attimo
vorrei sottoporle il mio piano per mettere in salvo la
Pioneer…»
«Comandante Vovelek! Mi ha sentito?»
«Naturalmente signore. Non ricorda il super udito
vulcaniano?»
Vovelek era apparentemente impassibile, ma Riker
poteva leggere un astio crescente nei suoi occhi. E Riker
si scoprì a ricambiarlo totalmente.
«Cos’è questo? Umorismo vulcaniano?»
«No signore. Altrimenti non avrebbe capito la battuta»
continuò Vovelek con il suo atteggiamento indisponente.
Riker era sul punto di scoppiare. E si fece strada in lui la
malsana idea di uno scontro corpo a corpo con il
vulcaniano, che sicuramente l’avrebbe visto soccombere,
vuoi perché notoriamente i vulcaniani sono notevolmente
più forti dei terrestri, ma soprattutto perché senza il suo
braccio destro non avrebbe potuto fare gran ché. Decise
allora di spostare lo scontro su un altro piano, forse
quello in cui Riker riusciva meglio e sfoderando il suo
famoso sorriso: «dica la verità, lei mi odia, lei è geloso di
me vero? Lei desiderava il comando di questa nave»
Vovelek esitò, non aspettandosi un attacco così diretto.
«A parte il fatto che come vulcaniano io non mento mai,
le ricordo che sentimenti come l’astio e la gelosia non
fanno parte del mio curriculum vitae signore»
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«Signor Vovelek, lei è da molto tempo nella Flotta
Stellare vero?» domandò Riker
«Da ottantacinque anni signore»
«L'immaginavo, a forza di frequentare gli umani ha
imparato a mentire.»
Riker sapeva di avere colto nel segno e si godette la
piccola vittoria, probabilmente l’ultima prima della fine
dei suoi giorni.
Vovelek non rispose e si limitò a fissare il suo capitano e
lo avrebbe fatto all’infinito se un improvviso scossone
quasi non l’avesse gettato a terra.
«Che diavolo succede?» gridò Riker tenendosi alla
scrivania mentre l’allarme anticollisione si era messo ad
urlare disperatamente.
Dimenticando ogni attrito personale, Vovelek e Riker si
aiutarono a rialzarsi e si lanciarono in plancia.
«Signor Palmas che sta succedendo!»
L’uomo si alzò immediatamente dalla poltrona di
comando che fu occupata da Riker
«Qualcosa ci ha colpiti signore! Stiamo perdendo
velocità!»
Vovelek era tornato anche lui alla sua postazione e
rapidamente riprese il controllo della situazione.
«Signor Vovelek!» gridò Riker mentre le sirene
dell’allarme anticollisione risuonavano nella plancia.
«Un vascello, la H’Toch, una nave Klingon. Il loro
motore di curvatura ha ceduto e noi ci abbiamo sbattuto
contro!»
- Fantastico! - esclamò dentro di sé William - Ci mancava
solo un tamponamento spaziale a complicare le cose! «I nostri scudi sono scesi del settantacinque percento!
Danni allo scafo primario sui ponti ventuno, ventidue e
ventitré! E soprattutto stiamo progressivamente perdendo
velocità!» esclamò il vulcaniano
«Plancia a Sala Macchine! Che succede là sotto?»
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«Qui Sala Macchine,» l’uomo tossì «abbiamo avuto una
perdita di refrigerante! Lo scontro ha danneggiato i giunti
di contenimento dell’antimateria! Devo disattivare il
nucleo o salteremo in aria in meno di tre minuti signore!»
la voce del tenente Romaine, rotta dall’emozione,
rimbombò dagli intercom della plancia.
Riker guardò il suo secondo e senza pensarci troppo:
«Signor Vovelek, quel suo piano è ancora valido?»
«Si signore! Apporterò le dovute modifiche, ma mi deve
concedere almeno due minuti!»
Riker non aveva nemmeno idea di che avesse in mente il
vulcaniano ma sapeva di potersi fidare di lui. I vulcaniani
sono terribilmente noiosi ma altrettanto affidabili.
«Gliene concedo uno e mezzo! Plancia a Sala Macchine,
pronti a disattivare il nucleo fra tre minuti!»
Il vulcaniano ebbe un incertezza e poi riprese a lavorare
sulla sua consolle.
I secondi passarono lentamente, poi Vovelek alzò la testa:
«Signor Brett, inverta la rotta e inserisca le coordinate
che ho inviato alla sua consolle»
Brett si agitò alla sua postazione per bloccarsi
sconcertato:
«Ma ci poterà dritti verso i Borg!»
A quella affermazione, Riker sobbalzò sulla sua poltrona,
come anche il resto dei membri della plancia. Che aveva
in mente il vulcaniano?
«E’ impazzito?» domandò stupefatto Riker
«Signor Brett! Esegua! Dobbiamo sfruttare la residua
velocità di curvatura!»
Il timoniere rimase interdetto, non avendo la certezza di
essere autorizzato ad effettuare l’inversione. Riker se ne
rese conto e fece un cenno di assenso a Brett che
rapidamente impostò la nuova rotta e lanciò la Pioneer
nelle fauci dei leoni.
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«Signor Vovelek, d’accordo che ho deciso di fidarmi di
lei, ma per favore mi spieghi che diamine ha in mente!»
«Il mio piano, che avremmo dovuto applicare solo fra
cinque
ore
e
cinquantotto
minuti,
consiste
nell’attraversare, per una seconda volta, la formazione di
navi Borg a velocità curvatura.»
Riker comprese quello che aveva escogitato il suo
secondo e azzardò un’ipotesi concludendo la spiegazione.
«Cosi da allontanarci in direzione opposta alla flotta,
nella convinzione che anche questa volta ignoreranno il
pesce piccolo per quello più grosso?»
Vovelek alzò gli occhi al cielo, a comunicare di aver
esaurito la pazienza.
«Non avrei usato una metafora così rozza, ma
sostanzialmente il concetto è quello. Ho calcolato che
dovremo distanziarli di almeno tre virgola sei anni luce
per garantirci un settantasette percento di possibilità di
successo.»
«Complimenti signor Vovelek, quanto manca all’incontro
con i Borg?»
«Dieci secondi signore!»
«Mi chiami Will» aggiunse Riker, elettrizzato dall’essere
ancora in gioco, in battaglia, dal sentirsi
meravigliosamente vivo. Ancora un round in
quell’incredibile match che si chiama vita.
«Come preferisce signore, cinque secondi.»
La plancia si mise a vibrare. I motori a curvatura erano al
loro limite.
«E qualcuno spenga quell’allarme» mormorò Riker
mentre la Pioneer, come un freccia, attraverso la
formazione dei quattro cubi Borg, sfiorandone
pericolosamente uno.
La plancia sussultò violentemente a causa dello scossone
causato dall’incrocio del campo di curvatura della nave
86
Federale e quello del cubo Borg, sbalzando dalle loro
poltrone gli occupanti.
Riker faticò a rialzarsi, con un braccio soltanto non è una
manovra semplice.
Stavolta il suo secondo non attese che Will gli chiedesse
di fare il resoconto della situazione e con voce calma:
«Siamo passati indenni. Ma la nostra velocità non è
sufficiente. Non riusciremo ad allontanarci più di un anno
luce. C’è una probabilità del sessantaquattro percento che
uno dei vascelli Borg lasci la formazione per venire a
distruggerci.»
Riker assimilò l’informazione e tornando a sedersi
«Plancia a Sala Macchine! Che mi dice del nostro nucleo
di curvatura? Il bambino per quanto continuerà a fare i
capricci?»
«Bambino? Capricci? Oh! Certo! Ancora venticinque
secondi con potenza in calo costante e poi dovremo
disattivare il tutto se non vogliamo che il bambino sputi
la minestra!»
Vovelek scosse il capo e si intromise «Signor Romaine,
ci occorrono almeno altri cinquanta secondi di
propulsione a curvatura!»
«Non è possibile! I giunti non possono regg…»
«Romaine! Ne abbiamo bisogno o comunque saremo fatti
a pezzi dai Borg!» esclamò Riker
Romaine meditò pochi istanti e riprese a parlare
«d’accordo comandante, vedrò di dare una bella
sculacciata al nostro bambino. Posso garantirvi trenta
secondi supplementari e non ho la certezza che il nucleo
reggerà!»
«Ce li faremo bastare! Dovessimo scendere a spingere la
carrozzina! Plancia chiudo!»
Riker rivolse un’occhiata divertita al suo secondo e ne fu
ripagato con l’espressione più fredda che avesse mai
visto.
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«Bambino che fa i capricci signore?»
«Si! Signor Vovelek! E’ un linguaggio cifrato di ultima
generazione. Si aggiorni!» ribatté William facendosi
scappare una risatina ma il vulcaniano non raccolse la
sfida e senza dare peso alle parole del suo comandante
riprese a seguire la sua consolle.
«Ancora dodici secondi e saremo fuori pericolo. I vascelli
Borg continuano ad ignorarci ed ad inseguire il resto
della flotta.»
«Forse ce l’abbiamo fatta»
«Romaine a Plancia! Devo espellere il nucleo entro
cinque secondi ! I giunti sono collassati!»
«Esegua!» urlò Riker
Il motore curvatura della Pioneer sgusciò rapidamente
dalla pancia della nave pochi secondi prima di esplodere,
ma troppo pochi per allontanarsi a distanza sufficiente per
esplodere senza fare danni.
Riker vide sullo schermo principale il filamento che
costitutiva il motore a curvatura, roteare ed allontanarsi e
poi trasformarsi in una fontana di luce accecante. Poi,
l’onda d’urto lo scaraventò contro la consolle del
timoniere e l’ultima cosa che vide, prima di perdere i
sensi, fu il fumo e le scintille che riempivano l’atmosfera
della plancia.
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CAPITOLO 10
I consiglieri erano cinque e all’apparenza di età più
avanzata rispetto a Q ed al Q-Borg. Tre di loro erano
quasi completamente calvi e i capelli di tutti erano di un
bianco argenteo. Due erano femmine con delle
acconciature molto essenziali e con sfumature tendenti al
violetto. I Consiglieri erano i membri del Q-Continuum
più anziani, così aveva detto Q, anche se lui stesso non
era parso troppo convinto della sua stessa affermazione. I
Q esistevano da sempre, almeno così aveva sempre
asserito Q, solo che per una specie di tacita convenzione,
i consiglieri esistevano da sempre più qualcosa. Fosse
stato anche solo un nanosecondo.
Una delle femmine, alta e slanciata, con la pelle rugosa e
due occhi di un azzurro intenso, sedeva al centro, su di
uno scranno in legno che la poneva leggermente più in
alto rispetto ai suoi colleghi. Nella mano destra Picard
parve di riconoscere una specie di bastone dorato, quasi
uno scettro, solamente molto meno elaborato che gli
ricordava la barra usata come testimone nella gare di
atletica a cui aveva assistito durante una riedizione
commemorativa delle Olimpiadi dell’antica Grecia.
Improvvisamente la luce all’interno dell’anfiteatro si fece
meno intensa intorno a Picard e ai suoi compagni,
facendo risaltare le figure dei consiglieri. Indossavano
delle tuniche bianche merlate d’oro, tranne la donna al
centro, la cui merlatura era di color rosso porpora. Il
capo del consiglio dedusse Picard.
E fu proprio lei a rompere il silenzio che si era venuto a
creare dopo l’entrata in scena dei consiglieri. «Signori, se
il mio senso dell’umorismo fosse più sviluppato,
probabilmente ci riderei sopra e vi liquiderei con qualche
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battuta e forse vi inviterei anche a farci due sane risate
insieme, ma l’unica cosa che mi sovviene ora è un senso
di dejavù, che per quanto comprensibile per esseri
immortali come noi, in questo momento mi sta facendo
desiderare di essere da un’altra parte!»
La voce della donna era fredda e profonda e il suoi occhi
quasi grigi incutevano timore. A Picard venne immediato
il paragone con certe figure mitologiche dei paesi
scandinavi, che raccontavano di regine delle nevi, donne
di ghiaccio e così via.
«Ma,» e fece una breve pausa, volgendo una rapida
occhiata ai suoi colleghi, con un’espressione di disgusto e
noia «ma questa volta avete superato il limite e giuro su
tutto il Q-Continuum che non permetterò che la vostra
eterna sfida continui ancora per molto!»
Le sue parole rimbombarono nell’anfiteatro e Picard per
un istante si volse verso Q, il quale era intento ad
ascoltare le parole della Q e notò in lui un fremito che lo
scuoteva interamente, come se fosse stato sottoposto ad
una tensione enorme.
La Q agitò in aria la barra che teneva stretta nella mano
destra e la picchiò con violenza sul bancone in legno. Ma
inaspettatamente ne uscì un suono sordo e soffocato.
«L’udienza è aperta. Esponete i fatti, anche se noi tutti
qui già conosciamo ogni particolare, ma vista la presenza
di esseri inferiori seguiremo una procedura per loro
comprensibile.»
Picard strinse i pugni. Il suo orgoglio era ferito ogni
qualvolta lo si definiva appartenente ad una razza
inferiore.
Q prese la parola per primo e scendendo i gradoni a
saltelli si portò a ridosso della corte.
«O mio sommo giudice! Quale gioia rivederla e
constatare che nonostante i secoli ella mantiene un
aspetto soave e che la sua bellezza…»
90
«Q! Passano i secoli ma rimani sempre un essere
spregevole!»
«Troppa grazia, comunque eccomi qua, per la… Che
volta è questa?» finse di domandare Q.
«La ventiduesima, ma farò di tutto perché questa sia
davvero l’ultima in cui riunirai il Consiglio del QContinuum per questa vostra noiosa sfida.»
Q sogghignò, come se la situazione lo stesse divertendo.
«Le prometto che questa sarà davvero l’ultima volta,
perché finalmente entrambi» e indicò il Q-Borg
«abbiamo trovato dei validi sfidanti! E le posso già
anticipare che il vincitore sarò io!» si vantò Q.
«Illuso!» intervenne il Q-Borg, portandosi rapidamente
anche lui vicino al capo del Consiglio.
«Questa volta sei tu che non hai alcuna possibilità. Fino
ad ora ti sei sempre salvato facendo appello a degli
sporchi trucchi da commerciante Ferengi. Ma ora
finalmente ti schiaccerò!»
«Ah! L’illuso sei tu, mio caro! Ricordi la volta con i
Kelbani? Chi barò facendo esplodere uno dei loro
satelliti?» lo accusò Q mettendosi le mani ai fianchi.
«E invece quella volta con i Saruriati?» ribatte Q-Borg
«chi incendiò la loro atmosfera sterminandoli tutti?»
«Ma non è grave come quelle che hai fatto tu ai Brekiani!
Se ben ricor…» Q fu interrotto dal tonfo sordo dello
scettro che il capo del Consiglio stringeva ancora fra le
mani.
«Piantatela! Siete due incredibili scocciatori!»
«Ma è colpa sua!» si accusarono a vicenda i due sfidanti.
«Ho detto basta! Zitti!» La Q batté con violenza lo scettro
altre tre volte, facendo tremare il tavolo.
«Sapete entrambi come la penso della vostra sfida, fin
dalla prima volta che siete venuti da me e avete
convocato il Consiglio del Q-Continuum! Vi ricordate?
Allora questo anfiteatro era gremito di Q curiosi di
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conoscere il motivo del vostro contendere. Oggi, così
come le ultime dieci volte, non è venuto nessuno, perché
tutto il Q-Continuum sa bene che siete due attaccabrighe
e che la vostra sfida non avrà mai un termine, perché
entrambi avete, alternativamente, barato sulle regole,
invalidando di volta in volta la gara!»
I due Q chinarono il capo, fingendo indifferenza.
«Ma questa volta, proprio perché avete passato il limite,
il Consiglio del Q-Continuum ha deciso, che durante lo
svolgimento della sfida sarete rigidamente controllati e se
interferirete verrete adeguatamente puniti.»
I due sfidanti si guardarono l’un l’altro, scambiandosi
sguardi di reciproca sorpresa e subito dopo indignazione.
«Ma tutto questo è irregolare!» gridò Q
«Ha ragione! Non potete farlo! Noi dobbiamo poter
seguire i nostri campioni!» aggiunse il Q-Borg sbattendo
il braccio meccanico sul tavolo.
«Basta! Silenzio! Così abbiamo deciso! Se volete portare
avanti la vostra sfida queste sono le nuove regole,
altrimenti chi crede di non poter vincere senza barare si
ritiri, e dichiarerò l’altro vincitore.»
L’anziana Q si mise a sedere lentamente ed incrociò le
braccia, attendendo la risposta dei due contendenti, che
nel frattempo si stavano guardando in cagnesco,
valutando le loro possibilità reali di vittoria, calcolando la
difficoltà di fornire aiuti di alcun genere ai loro protetti.
«Io ci sto!» esclamò per primo il Q-Borg, mostrando
sicurezza.
Q invece esitò. Non era per nulla convinto che Picard
avrebbe potuto superare i Borg. Contava, infatti, di
aiutarlo in qualche modo, come aveva sempre fatto nelle
disfide precedenti. L’idea di perdere per sempre la
possibilità di interagire con gli umani lo sfiorò un istante.
Erano primitivi ma estremamente interessanti, a volte
persino istruttivi. Si voltò titubante verso Picard, che
92
stava seguendo attentamente il dialogo, attorniato dai suoi
compagni.
«In fondo mi eri simpatico» mormorò prima di accettare
anch’egli la sfida.
Il capo del Consiglio si alzò lentamente e batté un solo
colpo sul tavolo.
«Dichiaro la sfida aperta,» bofonchiò «sperando per il
bene dell’universo intero che sia davvero l’ultima, e se
non per il bene dell’Universo, almeno per il mio!»
Poi poggiò lo scettro e dal nulla comparve un’urna
dorata. Grande poco più di un vaso comune da giardino,
aveva una forma ellittica con un coperchio di piccole
dimensioni, sufficiente a malapena per farci passare una
mano umana. Ed, infatti, la Q ve la infilò.
E dopo un istante ne estrasse un piccolo parallelepipedo
bianco.
Q era fremente e Picard intuì che molto probabilmente il
loro destino sarebbe dipeso da ciò che quel
parallelepipedo significava. Pareva, infatti, di essere di
fronte ad un'estrazione. E la Q aveva fra le sue mani il
destino suo e forse della galassia, così come lui l’aveva
conosciuta.
La Q sollevò in alto l’oggetto che iniziò a brillare di luce
propria, trasformandosi rapidamente in una sfera di
energia. Picard e non solo lui, non stava capendo, ma a
quanto pare sia Q che la femmina Q riuscivano
chiaramente ad interpretarne il significato.
«Le Tre Prove!» esclamò la Q e stringendo il pugno, la
sfera di energia roteante scomparve nel nulla.
Il Q-Borg esultò, mentre Q rimase a bocca aperta.
«Coraggio Q! Poteva andarti peggio!» il Q-Borg rise
sguaiatamente e aggiunse «finalmente! Finalmente
capirai che il destino dell’Universo è l’Ordine!»
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«Vedremo! Non sottovalutarli, gli umani hanno sorpreso
più volte anche me!» ribatté Q, senza però essere troppo
convinto di poterlo dimostrare.
Dolore. Acuto. Alla schiena.
Non riusciva a pensare ad altro. Il resto era come se fosse
stato cancellato dalla sua memoria. Come se avesse perso
di importanza. Solo una cosa era importante: il dolore.
Acuto. Alla schiena.
Avrebbe barattato il braccio superstite per lenire anche
solo un poco il dolore.
Azzardò un movimento, alla ricerca di una posizione più
comoda, ma una fitta violenta partì dalla base della spina
dorsale fino a quella del collo. Un gemito gli sfuggì dalla
bocca. Si rese anche conto che aveva le labbra molto
secche e le fauci impastate. E sete.
Dove era? Che era accaduto?
Cercò di ignorare il suo corpo ed i suoi insistenti avvisi.
Cercò di fare mente locale. Prima cosa aprire gli occhi e
capire dove si trovasse. Lentamente sollevò le palpebre,
ma non notò alcuna differenza. Era diventato cieco? O si
trovava al buio?
Dopo pochi secondi cominciò ad intravedere qualcosa
nell’oscurità. Ombre o poco più, illuminate debolmente
da una luce intermittente rossastra. Non si udiva alcun
rumore, se non il lento soffio del suo respiro.
Seconda cosa, cercare di ricordare chi o cosa l’avessero
condotto a quella situazione. E fu incredibilmente
difficile. Poi finalmente la mente si fece lucida e
rammentò: la Pioneer, i Borg, la perdita del motore a
curvatura, l’evacuazione, la scialuppa di salvataggio che
era stata catturata da una forza gravitazionale, la discesa
verso un pianeta sconosciuto, lo schianto.
Nonostante la scialuppa fosse dotata di piccoli motori
gravitazionali, era stato impossibile evitare di precipitare
94
nell’atmosfera del pianeta. Ricordò il panico dei suoi
uomini. Le probabilità che si trattasse di un pianeta di
classe M erano minime. Se anche fossero sopravvissuti
allo schianto, sarebbero stati uccisi molto probabilmente
dall’atmosfera non respirabile o da una gravità di
parecchi g superiore a quella tollerabile. L’ironia della
vita e della morte. Sopravvivere ai Borg per morire poco
dopo in un incidente spaziale.
Nonostante il dolore alla schiena continuasse ad
assillarlo, si ostinò a non assecondarlo e a riepilogare i
fatti delle ultime ore ed ad ipotizzare quale fosse stata la
sua sorte e quella dei suoi compagni. Di una cosa era
certo: era ancora vivo e la sua schiena non accennava a
smettere di rammentarglielo. Quasi sicuramente era
ancora a bordo della scialuppa; la luce rossastra che
debolmente lampeggiava era certamente una luce di
emergenza. E la scialuppa non si era disintegrata al suolo.
Ed infine, qualunque fosse il pianeta su cui si trovava, la
gravità era accettabile.
- Ho avuto fin troppa fortuna - pensò - quindi devo
essermela guadagnata. Sarebbe un delitto sprecarla. Terza ed ultima cosa da fare: smetterla di pensare e
cominciare ad agire. Un buon inizio sarebbe stato tentare
di recuperare una posizione la più eretta possibile.
Puntò la sua unica mano contro il pavimento e iniziò
lentamente a fare leva. Il dolore proveniente dalla schiena
si fece ancora più acuto e lo costrinse a desistere. Aveva
la schiena spezzata? C’era solo un modo per saperlo:
tentare di muovere le gambe anche se non riusciva a
scorgerle. Però gli pareva di sentirsele ancora attaccate.
Diede un leggero calcetto e con suo grande sollievo
percepì la punta dei suo stivali urtare contro qualcosa
producendo un rumore metallico. Bene, non aveva la
spina dorsale spezzata, quindi avrebbe potuto alzarsi e
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camminare, un volta superato il dolore alla schiena. Tentò
quindi nuovamente a rimettersi in piedi.
Questa volta strinse i denti e chiuse gli occhi, mentre il
braccio faceva leva sul pavimento. Furono lunghi
interminabili secondi in cui dovette fare appello a tutta la
sua disciplina mentale per non desistere nuovamente.
Finalmente riuscì a mettersi a sedere ed a poggiarsi
contro qualcosa, forse una consolle, forse un rottame.
Distese faticosamente le gambe di fronte a sé, riuscendo
infine a trovare una posizione di equilibrio.
Da quella posizione riuscì a migliorare la sua visuale. Ora
poteva scorgere l’interno della scialuppa. In alto, l’unica
luce
d’emergenza
funzionante,
lampeggiava
aritmicamente, segno che era in cattive condizioni. Presto
sarebbe rimasto nell’oscurità.
L’aria puzzava di bruciato, il classico odore di circuiti
fusi e una leggera foschia causata dal fumo non più
aspirato dai sistemi di ventilazione, gli impediva di
scorgere cosa si trovasse a pochi metri da lui. Era l’unico
sopravvissuto?
Si guardò intorno fino al limite del suo campo visivo,
sfidando il dolore per ruotare il collo. Era tutto
dannatamente confuso.
Inspirò profondamente prima dare forza ai suoi polmoni:
«C’è nessuno?» gridò. Lo sforzo lo fece tossire
ripetutamente. L’aria viziata gli aveva seccato la gola.
Nessuno rispose. Possibile che dei venticinque membri
dell’equipaggio della Pioneer imbarcati su quella
scialuppa, lui fosse l’unico superstite? Poteva il destino
essere stato così cinico con lui? Per un momento si vide
abbandonato a se stesso, su di un pianeta ostile, naufrago
spaziale in una galassia dominata dai Borg, impazzito di
solitudine e disperazione.
Poi un rumore, uno scricchiolio sottile, attirò la sua
attenzione alla sua destra. E poi un gemito.
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«C’è nessuno? Sono il comandante Riker!»
Finalmente ci fu una risposta, sconnessa, disarticolata.
Poco più di un lamento.
Will decise che doveva cercare di raggiungere quel
lamento, soccorrerlo, confortarlo.
Faticosamente si trascinò, strisciando sul pavimento, in
direzione di quello sconosciuto compagno di naufragio.
Gli ci vollero parecchi minuti prima di potergli essere
vicino, durante i quali dovette spostare o aggirare
parecchi ostacoli, costituiti da frammenti e rottami della
scialuppa. Oltre a frequenti pause per riprendere energie e
lasciare riposare la sua schiena dolorante.
Durante il tragitto, di forse una decina di metri, ma che
gli era sembrato di una decina di chilometri, Will aveva
dovuto anche constatare il decesso di due suoi compagni,
trovati a terra senza vita. Uno di loro era Palmas, il
navigatore. Aveva gli occhi spalancati in un'espressione
di terrore. Tutto quello che poté fare fu coprirne il volto
con un lembo della sua uniforme lacerata.
Quando raggiunse l’altro superstite lo trovò a terra,
accasciato in posizione fetale. Continuava a gemere e a
pronunciare frasi sconnesse.
Will non appena fu sufficientemente vicino gli posò una
mano sulla spalla.
«Stai tranquillo, non sei solo, ci sono qua io ora. Vedrai
andrà tutto bene.» Erano parole di circostanza. Nemmeno
lui ci credeva.
«Come ti senti? Dove sei ferito?» fu la prima domanda.
Ma non ebbe risposta se non altri gemiti.
«Coraggio, come ti chiami?» insistette Riker.
Nell’oscurità della scialuppa, non riusciva a scorgere il
volto del ferito. Non riusciva nemmeno a determinarne il
sesso o la razza. Fino a che, con uno scatto repentino,
l’unico suo compagno sopravvissuto non si mise di
schiena, con il volto rivolto verso l’alto. E con grande
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sorpresa, William riconobbe immediatamente il volto di
quel dannato vulcaniano di Vovelek. Riker sorrise, non
riuscendo a fare a meno di scherzare:
«Comincio a pensare seriamente che lei mi stia
perseguitando!»
Vovelek naturalmente non rispose. Era sotto shock,
incapace di comprendere quanto gli stava accadendo
intorno. O forse invece, come ricordava William, era
entrato in una fase di meditazione profonda, che
vulcaniani sono in grado di autoindursi quando sono feriti
gravemente, in modo da sopportare meglio il dolore e
concentrare tutte le risorse residue del fisico verso la
guarigione.
Comunque fosse, Riker rimase seduto accanto a lui,
poggiandogli la mano sulla spalle tremanti, attendendo
che riprendesse conoscenza. Ma la stanchezza prese il
sopravvento e cadde in un sonno profondo.
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CAPITOLO 11
Quante ore erano passate? Non importava. Quando
William si svegliò, un raggio di luce bianca, caldo ed
accecante gli stava riscaldando metà del suo viso. La luce
stava penetrando attraverso l’unico oblò di cui era dotata
la scialuppa, rischiarandone finalmente l’interno.
William, aprendo gli occhi rimase accecato e dovette
coprirsi gli occhi con l’unica mano. Gli ci volle qualche
secondo per riuscire a focalizzare nuovamente.
Ora poteva vedere abbastanza chiaramente intorno a sé.
Vovelek era ancora sdraiato e pareva stare meglio. Non
gemeva e non tremava più. Dormiva, respirando
lentamente. William notò l’uniforme bruciacchiata ed una
grossa macchia di sangue verde all’altezza della coscia.
Poco sopra, con un lembo di uniforme, Vovelek aveva
stretto un legaccio per bloccare l’emorragia, che ora
pareva essersi arrestata.
Anche Riker stava meglio. Il dolore alla schiena si era
fatto meno acuto, divenendo sopportabile. Sicuramente si
trattava di una forte contusione, ma per fortuna nessun
danno grave. Solo qualche escoriazione ed innumerevoli
lividi sparsi su tutto il corpo. D’istinto si massaggiò
l’avambraccio monco, un gesto che aveva ormai assunto
il connotato di un tic nervoso. Rimpianse di non avere
voluto, per orgoglio, installare almeno una protesi
biomeccanica, ricordando le recenti discussioni avute,
alcune anche piuttosto violente, con la dottoressa
Crusher, la quale insisteva sulla necessità di ricorrere alla
protesi e sulla incredibile stupidità dell’orgoglio
maschile. Una mano in più, ora, gli avrebbe fatto davvero
comodo.
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Si guardò intorno. Dove erano gli altri? Facendo un
rapido calcolo mancavano all’appello ventuno persone.
Dalla sua posizione, riusciva a scorge un buon numero di
corpi straziati, forse una decina. Ancora legati ai
seggiolini di sicurezza, due donne e un boliano, la testa
reclinata in avanti, giacevano senza vita, con i corpi
sorretti dalla cinture. Vi era ancora una grossa fetta della
scialuppa che era ancora nella completa oscurità, laddove
i raggi di luce provenienti dall’esterno non erano ancora
giunti, nemmeno di riflesso.
Decise di provare ad alzarsi e di tentare di individuare
altri superstiti, oltre che recuperare il kit di pronto
soccorso, che doveva essere ancora da qualche parte, per
tentare di curare le ferite del comandante Vovelek.
Faticò non poco per rimettersi sulle sue gambe, ma grazie
alla sua tenacia ed ad una tempra davvero invidiabile,
riuscì, poggiandosi alla parete della scialuppa, a
ripristinare una posizione, che proprio eretta non era, ma
in quel momento, con la schiena a pezzi era più che
accettabile. Scivolando lentamente contro la parete,
stando ben attento a non inciampare, iniziò a perlustrare
la scialuppa.
Intorno a lui solo morte e distruzione. A quanto pare, solo
lui e il vulcaniano erano sopravvissuti allo schianto. A
William tornarono alla mente i terribili momenti dello
schianto della sezione a disco dell’Enterprise D sulla
superficie di Veridiano III. Anche allora si salvò dal
naufragio. Era destino che non dovesse morire
precipitando. Sperò che il libro del suo destino avesse
ancora molte pagine da narrare e che non terminasse su
quel pianeta sconosciuto.
Raggiunse il pannello contente uno dei kit di pronto
soccorso di cui era dotata la scialuppa. Dovette fare
ricorso all’apertura manuale, in quanto non vi era più un
solo barlume di energia in tutti i circuiti della scialuppa.
100
Solo la luce di emergenza, alimentata da una batteria
autonoma, continuava a lampeggiare.
Fece il viaggio a ritroso e tornò a sedersi sul pavimento,
accanto a Vovelek. Estrasse un dermorigeneratore dal kit
e un Hypospray contente una soluzione polivalente
contro le infezioni. Somministrò ad entrambi una dose,
dopodiché si mise al lavoro sulla coscia del vulcaniano.
Con delicatezza aprì i lembi dell’uniforme lacerati e
controllò lo stato della ferita.
Un pezzo metallico era ancora infilato nelle carni del
comandante, circondato da sangue rappreso.
«Devo toglierlo» mormorò Will, come se Vovelek
potesse sentirlo
«Ti farò un po’ male, stringi i denti.»
Con una mossa rapida estrasse il metallo dalla coscia,
gettandolo lontano. Vovelek reagì con un tremito e
gemendo. Ma subito si riaquietò, grazie ad una dose di
antidolorifico che prontamente Riker gli iniettò
all’altezza della spalla,
«Vedi? Ho già quasi finito. Ancora pochi minuti e starai
meglio di me.»
Will prese il dermo rigeneratore e cominciò a suturare la
ferita alla gamba nel modo migliore possibile. Non era un
medico, ma aveva visto usare decine di volte quello
strumento in infermeria. Si ripromise di seguire un corso
approfondito sull’uso degli strumenti medici di primo
soccorso, una volta tornato sull’Enterprise. Solo dopo
qualche istante si ricordò che non aveva nessuna
possibilità di farvi ritorno. Se tutto era andato secondo i
piani, ora, l’Enterprise e tutta la flotta in fuga dovevano
essere al sicuro nel Quadrante Gamma. Oppure erano
periti nel tentativo. Naturalmente era certo che il capitano
Picard ce l’avesse fatta, ma comunque, per la sua
situazione corrente non faceva alcuna differenza. Non
avrebbe rivisto mai più né l’Enterprise né Picard. Ma per
101
ora gli sarebbe stato sufficiente riuscire a vedere almeno
l’alba del giorno successivo. Scacciò dalla mente ogni
pensiero che non fosse finalizzato alla sopravvivenza.
Non c’era spazio per preoccupazioni di diversa natura.
Quando ebbe finito con il dermorigeneratore, prese delle
garze sterili e fasciò la gamba del vulcaniano, il quale,
ignaro, continuava a non dare segni di voler riprendere
conoscenza.
Priorità numero due: acqua e cibo.
Riker si rimise in piedi, sempre poggiandosi alla parete,
stavolta si mosse nella direzione opposta, verso il punto
in cui sapeva essere stivate le razioni di emergenza. E si
trovavano la dove la luce non riusciva a rischiarare.
Dovette quindi proseguire a tentoni, muovendo
lentamente i piedi, scansando con attenzione gli ostacoli.
Una volta che i suoi occhi si furono abituati all’oscurità,
poté scorgere altri corpi senza vita, alcuni ancora legati ai
seggiolini, altri a terra.
Will si vergognò per la fortuna sfacciata di cui ancora una
volta aveva goduto. Perché lui era sopravvissuto e questi
altri membri dell’equipaggio erano invece periti? Spesso
si era domandato perché non era morto, per esempio, alla
sua prima missione, come invece era accaduto per molti
altri membri della Flotta Stellare.
Solo fortuna?
Decise che avrebbe approfondito la questione in un altro
momento.
Continuò a strisciare lungo la parte fino a raggiungere la
piccola stiva della scialuppa. Tastando nell’oscurità,
raccolse due unità alimentari d’emergenza e cominciò il
tragitto all’inverso.
Il comandante Vovelek ancora non dava segni di ripresa.
Immobile, respirava lentamente.
Riker si sedette nuovamente accanto a lui, e consumò
rapidamente la sua razione. Soprattutto stava patendo la
102
sete e fu un vero sollievo sentire il liquido
dell’integratore bagnargli l’ugola e scendere giù fino allo
stomaco.
- Per oggi, non morirò di fame - pensò.
Quando ebbe terminato decise che era ora di scoprire su
che pianeta fossero precipitati. Sempre con cautela, e con
la schiena dolorante si trascinò fino al portello di uscita.
Era bloccato.
Provò a fare forza sulla leva dello sblocco meccanico di
sicurezza, ma nonostante i suoi sforzi non si mosse di un
millimetro.
- Sono troppo debole - concluse fra sé - forse con l’aiuto
del comandante Vovelek riusciremo ad aprirla Essendo fallito il primo tentativo tornò ancora a vegliare
il vulcaniano, sperando che si sarebbe risvegliato al più
presto. L’idea di restare nella scialuppa, in compagnia di
ventitré cadaveri non lo stuzzicava gran ché. Se non
fossero usciti al più presto la situazione igienica sarebbe
presto precipitata e il puzzo della decomposizione li
avrebbe asfissiati. Per ora, a rischio, vi era solo la sua
psiche. Vecchie storie di fantasmi riaffiorarono nella sua
mente e un brivido gli percorse la schiena. Si rannicchiò
in un angolo e cercò di dormire.
Picard camminava nervosamente, con le mani dietro la
schiena. Q li aveva ancora una volta lasciati soli, per un
periodo di tempo considerevolmente lungo e senza
fornire alcuna spiegazione.
Quella specie di buffonata, così la vedeva Picard, di
riunione del Consiglio del Q-Continuum era terminata.
L’anfiteatro era improvvisamente scomparso, così come
anche i membri del consiglio, i Borg e il Q-Borg.
Si erano ritrovati ancora una volta all’ombra di quella
muraglia senza fine costeggiata da una strada in asfalto,
già dove una volta Q li aveva portati dopo una lunga
103
camminata. Il sole batteva sempre implacabile e la
temperatura, Picard stimava, si aggirasse intorno ai
trentanove, forse più di quaranta gradi centigradi. E la
porta con gli strani simboli, che apparente mente non
portava da nessuna parte, in quanto costruita in mezzo a
deserto, era ancora li. Naturalmente chiusa. Picard si
aspettava che Q, facesse di li la sua comparsa prima o
poi. Chissà per annunciare cosa questa volta. E Picard
detestava attendere. Detestava dover dipendere da Q e
non avere nessuna carta da giocare a suo favore.
Detestava non essere il padrone del proprio destino. Ma
la posta in gioco era talmente alta che avrebbe potuto
attendere per l’eternità senza battere ciglio.
I suoi compagni stavano seduti all’ombra, cercando di
ripararsi dall’arsura. Solo Data non soffriva le condizioni
climatiche estreme, grazie alla sua natura di androide.
Infatti se ne stava in piedi, sotto il sole cocente, come se
nulla fosse. Picard lo osservò provando un moto
d’invidia. Data era insensibile anche alle condizioni
climatiche estreme, non necessitava di un’atmosfera
carica di ossigeno per sopravvivere, possedeva una forza
di mille uomini, era in grado di attivare e disattivare a
piacimento il proprio chip emozionale, scegliendo di
momento in momento se lasciarsi cullare dalle emozioni
o tornare ad essere una fredda macchina. Ed in più
sarebbe vissuto per sempre. Molti uomini e non solo
avrebbero pagato qualsiasi prezzo per avere anche solo la
metà di queste possibilità. Eppure Data, probabilmente,
avrebbe pagato altrettanto per diventare più simile agli
umani. Insoddisfazione, senso di incompletezza,
aspirazione a livelli più alti di vita e il moto che spingeva
ogni forma di vita a colmare questo vuoto parevano
essere le vere forze motrici dell’Universo. Se Dio avesse
permesso all’Uomo di restare nel Paradiso, quasi
certamente sarebbe ancora là, nudo e beato a raccogliere
104
frutti e a godersi i raggi del sole, incurante del trascorrere
del Tempo e del senso della Vita. Picard ringraziò Dio di
avere cacciato l’umanità dal Paradiso, costringendola a
combattere contro una Natura ostile. Ma anche a crescere,
evolvere. Picard non era religioso, ma era certo, che se
mai un dio o più dei li stessero osservando per giudicarli,
non potessero che essere orgogliosi di quanto l’uomo
aveva fatto, soprattutto negli ultimi trecento anni. E se
così non fosse stato, che potessero andare al diavolo.
Data si rese conto di essere osservato dal capitano, per
cui si incamminò verso di lui.
«Capitano, c’è qualcosa che non va?»
Picard comprese di avere attirato l’attenzione
dell’androide, avendolo scrutato a lungo e senza
preoccuparsi di poterlo mettere in imbarazzo. Anche se
pensare a Data in imbarazzo gli riusciva difficile.
«Mi scusi signor Data, ero assorto in stupide riflessioni.
Non volevo metterla in imbarazzo.»
«Di nulla signore. Un penny per i suoi pensieri
Capitano.»
«Come?»
«Un penny per i suoi pensieri. E’ un antico modo di dire,
che trae origini dall’Inghilterra del diciottesimo secolo
e…»
Picard interruppe Data, prima che continuasse a
snocciolare altre nozioni. Picard conosceva il significato
delle parole di Data. Solo che ancora oggi, nonostante lo
conoscesse ormai da molti anni, si sorprendeva di sentirlo
utilizzare forme colloquiali.
«So cosa significa Data!»
«Oh! Mi scusi signore»
Ci fu un momento di pausa e di silenzio fra i due,
disturbato solo dal vento caldo che spazzava quella landa
desertica.
105
«Stavo pensando proprio a lei» Picard ruppe il silenzio,
incassando il penny di Data.
«Al fatto che spesso, sempre più spesso mi sono trovato
ad invidiarla. Soprattutto in questi ultimi mesi, così
difficili, così terribili. Quante volte, di fronte alla morte
ed alla distruzione portate dai Borg, avrei voluto
sopprimere ogni mio sentimento, schiacciare il dolore,
cacciarlo lontano da me. Ma io non ho un chip che posso
disattivare a piacimento.»
Picard fece un sospiro appena accennato. Ricordi dolori,
di compagni persi in battaglia, di pianeti distrutti, di corpi
straziati e di urla di bambini gli strinsero il cuore e lo
stomaco.
«Capisco signore. Ma le ricordo che anche il mio chip
emozionale non è perfetto. In realtà quelle che io posso
provare, sono solo emozioni simulate. Basterebbe
modificare la programmazione ed i miei comportamenti
potrebbero subire drastici cambiamenti. Potrei scoppiare
a ridere ad un funerale, piangere per una barzelletta,
essere orgoglioso di essere insultato. E mi sembrerebbe
tutto rientrante nei normali parametri di funzionamento.
Non sarei in grado di comprendere che le emozioni che
sto provando non sono quelle corrette.»
Picard si mise la mano sopra gli occhi per pararsi dalla
luce solare e guardare bene in volto Data. Si chiese se
Data fosse realmente in grado di provare insoddisfazione.
Una macchina consapevole delle limitazioni della sua
programmazione e che cerca di evolvere. Ma quella
consapevolezza dove traeva origine e forza? Il dottor
Soong aveva davvero fatto un lavoro straordinario con
Data, riuscendo a ricreare in lui, quella scintilla vitale che
sta alla base del desiderio umano di espandersi, crescere,
migliorare, evolversi. Una tensione costante, presente nei
geni della sua specie, rendendola per natura, irrequieta e
temeraria.
106
«Nessuno è perfetto, signor Data,» rispose semplicemente
e continuò «però io continuo ad invidiarla. Soprattutto
ora che i giorni che mi restano da vivere sono sempre
meno di quelli che ho vissuto. Lei esisterà e continuerà la
sua vita anche quando io non ci sarò più. Anche fra mille
anni.»
«Lei continuerà ad esistere signore» rispose Data.
«Davvero? Lei crede che ci sia qualche possibilità che io
sia immortale quanto lei?»
«No capitano. Lei continuerà a vivere qui,» e Data si
indicò il cranio «nelle mie celle di memoria. Anche fra
mille anni.»
Picard sorrise divertito e diede una leggera pacca sulla
schiena dell’androide il quale, goffamente ricambiò
esclamando:
«vecchio mio!»
Dalla bocca di Picard scomparve il sorriso e la sua
espressione si fece seria e corrucciata.
«Un’altra espressione colloquiale signore!» si scusò
immediatamente l’androide togliendo la mano dalla
spalla di Picard.
«Scuse accettate comandante» rispose il capitano. Data,
come era possibile non volergli bene?
Il colloquio fra i due fu interrotto dal sopraggiungere di
un rumore simile al rombo di un tuono.
Picard e Data, ma anche gli altri si voltarono verso la
fonte del rumore. Dalla strada, appena visibile sotto
l’orizzonte, si stava avvicinando qualcosa.
«E’ un qualche tipo di veicolo» disse Geordi, il quale,
grazie ai suoi impianti oculari, riusciva a scorgere oggetti
ad una distanza considerevolmente maggiore rispetto ad
un umano.
Picard e Data si portarono vicino agli altri compagni.
107
«Geordi cos’altro riesce a vedere?» Picard riusciva solo a
scorgere la scia di polvere e sabbia che il mezzo stava
sollevando nell’atmosfera.
«E’ un veicolo su ruote. Somiglia ai nostri antichi mezzi
di locomozione del ventesimo, forse ventunesimo secolo.
Sicuramente ha un motore con propulsione ad
idrocarburi. Riesco a scorgere un scia di fumo nerastro
fuoriuscirgli dal lato posteriore»
Rapidamente il veicolo si fece sempre più vicino, tanto
che anche Picard ora riuscì a scorgerlo con chiarezza. Era
proprio un vecchio furgone telonato, di tipo militare,
visto il colore verde scuro e il disegno in stile mimetico.
Sul cofano portava le insegne della Coalizione Orientale,
una delle due fazioni in cui la gente della Terra del
ventunesimo secolo si divise, prima di dare inizio alla
Terza Guerra Mondiale. Tale coalizione si era sciolta
dieci anni dopo il primo volo a curvatura di Cochrane e
l’incontro con il popolo Vulcaniano. Cosa ci faceva qui,
nel Q-Continuum tale mezzo? Un altro dei giochetti di Q,
sicuramente.
In pochi minuti il mezzo li raggiunse e come si aspettava
Picard alla guida di esso vi era proprio Q, in un altro dei
suoi soliti travestimenti, di cui pareva non potesse fare a
meno. Picard per un momento si chiese quale potesse
essere il vero aspetto di Q.
Ora indossava un’uniforme militare, tipica dei
combattenti della Terza Guerra Mondiale, con le insegne
della Coalizione Orientale.
La sabbia sollevata dal camion, fu spinta verso di loro dal
vento, costringendoli a proteggersi gli occhi e facendoli
tossire.
Q scese con agilità dal lato guida del mezzo e con fare
scanzonato si presentò a Picard.
«Soldato Q a rapporto signore!» accompagnando il tutto
con l’antico saluto militare terrestre e battendo i tacchi.
108
Picard strinse gli occhi per cercare di non far entrare della
sabbia.
«Q! Un’altra delle tue mascherate! Si può sapere che sta
succedendo? Prima eravamo davanti al Consiglio del QContinuum ed ora siamo qui! Vuoi spiegarci, almeno
questa volta, che sta accadendo?»
«Mon capitaine! Ma è semplice! Il consiglio ha deciso. E
ora tocca finalmente a voi entrare in azione. Non era
questo che attendevi con impazienza?»
«Ma noi non abbiamo compreso che dobbiamo fare.
Abbiamo sentito la Q parlare di tre prove. Di cosa si
tratta?»
«Lo scoprirete presto. La Sfida ha inizio. Il destino della
Galassia è nelle vostre mani. L’esito di questa sfida sarà
determinante per decidere se saranno i Borg o le razze
umanoidi
a
controllare
la
Via
Lattea.»
Q era stranamente agitato, notò Picard. Non doveva
essere per nulla sicuro dell’esito di questa Sfida.
Maledetti Q e maledetto il loro potere che stava
influenzando il corso dell’evoluzione di migliaia di
mondi.
«D’accordo. Siamo pronti. Cosa dobbiamo fare?»
domandò Picard, deciso ad andare fino in fondo alla
faccenda.
«Per cominciare…» Q allungò la mano destra e iniziò a
far roteare l’indice verso di loro, come se stesse cercando
qualcuno in particolare da indicare.
«Tu e tu! Venite con me!» disse rivolgendosi a Beverly e
Deanna.
Le due donne si guardarono spaventate.
«Perché loro Q! Prendi me!» si intromise Picard
«No me!» seguì Worf.
«Le prove sono tre. Voi siete in sei. Due per volta. E ora
è il loro turno. Così ha deciso il consiglio.»
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Picard strinse i pungi di rabbia, mentre Q invitava, con
fare gentile, la Crusher e la Troi a salire nel retro del
camion ma le donne esitarono, attendendo l’ordine
espresso del proprio capitano.
«Forza! Su! Salite!» le esortò Q, vedendole titubare.
Picard e la Crusher incrociarono lo sguardo, carico di
sentimento e di apprensione, e senza dirsi una sola parola
si scambiarono un caldo abbraccio, che soltanto i loro
cuori poterono apprezzare.
«Andate con Q» disse annuendo Picard e sia Beverly sia
Deanna salirono aggrappandosi a delle maniglie. A quel
punto Q tornò di fronte a Picard ripetendo l’antico saluto
militare, «la Sfida ha inizio, mon capitaine! Vinca il
migliore!» esclamò Q fingendo entusiasmo.
Poi Q tornò alla guida del mezzo, il cui motore, rimasto
acceso aveva continuato a rombare sommessamente. Con
uno strappo violento, il mezzo ripartì continuando nella
stessa direzione. In pochi minuti scomparve all’orizzonte,
lasciando dietro s’è una lunga nuvola di polvere, che
lentamente il vento stava disperdendo.
«Capitano, crede che ce la faranno?» domandò
sommessamente il klingon, evidentemente preoccupato
delle sorti di Deanna, con la quale, anni addietro aveva
avuto una breve ma intensa relazione.
«Non lo so signor Worf. Proprio non lo so.»
E Picard sentì crescere ulteriormente il senso di
impotenza dentro di lui.
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CAPITOLO 12
«Comandante! Comandante Vovelek!»
Il vulcaniano aveva dato i primi segni di volersi
risvegliare dal letargo in cui pareva essere caduto. Riker
lo scosse delicatamente, sperando finalmente che l’attesa
fosse finita. Era rinchiuso nella scialuppa da almeno due
giorni. Tante volte era sorto e poi tramontato il sole di
quel pianeta sconosciuto. L’aria era divenuta viziata e la
notte, la temperatura scendeva di parecchi gradi, tanto
che William aveva dovuto recuperare anche delle coperte,
dalla stiva della scialuppa.
«Si svegli! Dannato vulcan! Si svegli!»
Riker passò alle maniere forti, scuotendo il capo del
vulcaniano forse con troppa energia. Ma ottenne il
risultato sperato. Vovelek aprì di scatto gli occhi fissando
intensamente Riker, che cessò immediatamente ogni
movimento.
«Finalmente!» esclamò Riker «Come si sente?»
Vovelek tentò di alzarsi, ma subito dovette tornare a
sdraiarsi.
«Comandante Riker. Cosa è successo?» furono le sue
prime parole.
«Ci siamo schiantati con la scialuppa. Ricorda? Io e lei
siamo gli unici sopravvissuti».
Vovelek annuì e tentò nuovamente di alzare almeno il
busto. Riker lo aiutò a poggiare la schiena contro la
parete della scialuppa.
«Vuole da bere? Immagino avrà sete. Sono due giorni che
la sto vegliando.»
Il vulcaniano annuì accettando la busta argentata che
conteneva il liquido arricchito di sostanze nutritive
fornito con le razioni d’emergenza. Vovelek bevve il
111
contenuto avidamente e poi si guardò intorno. Si
rammentò della ferita alla coscia e osservando la sua
gamba notò che era stata curata.
«E’ stato lei?» domandò
«Si, con il kit d’emergenza. Forse non è il miglior lavoro
del mondo, ma almeno l’emorragia si è arrestata» rispose
prontamente Riker.
«Grazie» fu tutto quello che disse Vovelek.
Ci furono parecchi secondi di silenzio fra i due. Riker lo
interpretò come imbarazzo da parte del vulcaniano.
Vovelek lo disprezzava. Forse anche lui era uno di quei
vulcaniani che temeva che la cultura Vulcaniana potesse
essere inquinata dal contatto con altre culture. Ora
Vovelek doveva la vita a Riker e forse riteneva la cosa
inaccettabile. Forse erano solo fantasie di William, che in
quei due giorni di solitudine, attorniato da tanti cadaveri,
aveva trascorso riflettendo sul perché della sua vita.
Vovelek ruppe il silenzio.
«Dove ci troviamo?»
«Non lo so. Gli strumenti della scialuppa sono fuori uso,
Non abbiamo nemmeno l’energia di riserva. E la porta di
uscita è bloccata. Da solo non sono riuscito ad aprirla. Per
questo siamo ancora qui dentro. Contavo su di lei per
tentare di sbloccarla.»
«Decisione logica. Propongo di fare immediatamente un
tentativo.»
«Pensa di farcela? Se vuole riposare ancora un po’ non
c’è nessun problema. A quanto pare abbiamo aria a
sufficienza ancora per qualche ora» obiettò Riker.
«Comandante. Se le propongo di tentare adesso è perché
mi sento in gradi di farlo. Deve sempre mettere in dubbio
la mia parola?»
Il tono della voce di Vovelek fu sprezzante. Nonostante la
situazione d’emergenza il vulcaniano non aveva
intenzione di concedere nulla a Riker. Quanto è grande
112
l’orgoglio vulcaniano? Non basterebbe l’Universo a
contenerlo, diceva un vecchio detto terrestre.
«D’accordo. In piedi allora!» esclamò Riker, convinto
che fosse inutile tentare un dialogo amichevole con
Vovelek.
William si rialzò rapidamente. Il dolore alla schiena era
ormai molto leggero e finalmente non aveva più bisogno
di reggersi per restare in piedi.
Vovelek, lentamente fece il suo primo tentativo di
mettersi in piedi. Ma non appena dovette fare forza sulla
gamba ferita, ebbe un cedimento e se Riker non l’avesse
sorretto al volo, sarebbe sicuramente caduto
pesantemente a terra.
«Mi lasci! Posso farcela da solo!» reagì malamente il
vulcaniano.
«Come vuole» disse Riker che per tutta risposta incrociò
le braccia, deciso a godersi lo spettacolo di un vulcaniano
testardo ed orgoglioso, che cade a terra.
Invece, Vovelek, cambiò strategia ed evitò di sforzare la
gamba ferita, riuscendo a mettersi in piedi, seppure
barcollante.
«Andiamo» disse.
Riker fece strada raggiungendo per primo il portello
d’uscita.
«Come vede, la leva d’emergenza è bloccata» indicò
Riker
«Ha provato a tagliare il portello con un phaser?»
«Sta scherzando spero! Se avessi usato un phaser ci
sarebbero volute ore per tagliare quel metallo e avrei
bruciato tutto l’ossigeno che c’è qui dentro.»
«Giusta considerazione. Ma lei ha appurato che la fuori ci
sia un’atmosfera respirabile?» domandò Vovelek.
«No e non c’è modo di saperlo. Ma io credo che ci sia.»
«Lei lo crede? In base a quali indizi?»
113
«Non lo so. Me lo sento» rispose William. Ed era vero.
Non aveva elementi per accertarsi che sul pianeta fosse
presente un’atmosfera respirabile. Aveva tentato di
guardare fuori dall’oblò, ma tutto quello che si poteva
scorgere, erano le vette di lontane e brulle montagne.
Eppure lui sentiva che là fuori l’aria fosse respirabile.
Aveva avuto la fortuna di sfuggire ai Borg, ad un
schianto per poi morire soffocato? Non era logico, non
era giusto.
«E io dovrei fidarmi delle sue sensazioni?» domandò
Vovelek alzando un sopracciglio.
«Mi ascolti comandante. L’alternativa è restare qui dentro
e morire di fame o di sete. Oppure soffocati dall’anidride
carbonica che stiamo producendo. Nessuno verrà a
soccorrerci e lei lo sa. Se c’è una speranza di
sopravvivere si trova là fuori. E io voglio andare a
prendermela» Riker era determinato a non permettere al
vulcaniano di mettergli i piedi in testa o di ridicolizzarlo.
«Signore, parlando liberamente, penso che aprire quel
portello sia un azzardo ingiustificabile, che potrebbe
condannarci entrambi a morte. Ma lei è il mio superiore.
Se me lo ordinerà lo farò.»
Vovelek anziché collaborare si ostinava a restare dalla
sua parte del fossato.
«Vovelek, diamine! Le sembra questo il momento di
appellarsi alla disciplina?» Riker decise di provare a
tendere una mano per primo.
«Siamo gli unici sopravvissuti di tutta la scialuppa, non
dovremmo essere qui a scannarci l’un l’altro. Dobbiamo
collaborare se vogliamo sopravvivere. Là fuori
potrebbero esserci altri nostri compagni che hanno
bisogno di aiuto. Dobbiamo trovare cibo ed acqua in
fretta. Abbiamo altre cose a cui pensare che far rispettare
la gerarchia!»
114
Vovelek tacque per qualche istante, come se stesse
soppesando accuratamente le parole con cui avrebbe
composto la risposta.
«Il fatto che io e lei siamo gli unici sopravvissuti non
significa automaticamente che il nostro rapporto
personale sia cambiato. Lei è e rimane il mio superiore.
Se mi ordina di aiutarla ad aprire il portello lo farò. Così
come il ruolo di comandante in seconda mi autorizza ad
esporle il mio punto di vista riguardo le sue decisioni. E
la mia opinione è, e rimane, che aprire quel portello senza
avere la certezza di che atmosfera ci aspetti è un
comportamento estremamente rischioso.»
Vovelek aveva rifiutato la sua mano tesa. William scosse
la testa.
Se Vovelek voleva un ordine l’avrebbe avuto.
«D’accordo, comandante, le ordino di aiutarmi ad aprire
questo portello!» disse con tono formale Riker, come se
gli stesse ordinando di preparare un rapporto qualsiasi.
«Sissignore» rispose Vovelek, afferrando con le mani la
leva dello sblocco meccanico. Nonostante fosse
debilitato, la forza del vulcaniano era notevole ed infatti,
dopo alcuni tentativi il portello si aprì, con uno scatto, di
circa quindici centimetri.
Al contatto, le due atmosfere, quella della scialuppa e
quella del pianeta, compensarono la differenza di
pressione. Un flusso leggero di aria fuoriuscì dalla
scialuppa verso l’esterno. Non ci fu nessuna
decompressione violenta. E l’aria che penetrò nell’interno
della scialuppa era molto calda ma respirabile.
Riker tirò un sospiro di sollievo. Anche questa volta il
suo istinto aveva visto giusto.
Facendo leva con un rottame fu facile spalancare l’uscita.
E di fronte a Riker e Vovelek si presentò in tutta la sua
terrificante maestosità un paesaggio desertico, simile al
Sahara della Terra.
115
«Non sarà facile.» commentò laconicamente Riker.
Impotente, Picard si era messo a sedere, con Geordi e
Worf, all’ombra dell’infinita muraglia che tagliava in due
quel deserto, sull’unico elemento presente, in altre parole
il lastrone di marmo bianco, che costeggiava per qualche
metro la muraglia.
Erano passati pochi minuti dal momento in cui Beverly e
Deanna erano state costrette a salire su di un mezzo
militare con le insegne della Coalizione Orientale,
guidato da Q, in uno dei suoi soliti travestimenti.
Il capo del consiglio del Q-Continuum aveva parlato di
tre prove e Q aveva confermato. Ma in che consistevano
le tre prove? Chi sarebbero stati i loro avversari? Di
fronte a quali difficoltà si sarebbero potuti trovare?
Ma soprattutto, l’interrogativo che più assillava Picard
riguardava le sorte delle due donne, abbandonate a se
stesse.
Picard mise la sua faccia fra le mani, massaggiandosi
lentamente le tempie. La fronte era perlata di gocce di
sudore, per l’afa crescente e una crescente sete gli
attanagliava la gola.
Anche Geordi stava patendo la temperatura, mentre Worf
sembrava non dare alcun segno di cedimento. Data
invece, ancora esposto ai cocenti raggi del sole si
guardava intorno, osservando attentamente l’ambiente
circostante.
«Ci vorrebbe una bella bibita fresca» disse Geordi
asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica
dell’uniforme.
Picard accennò di comprendere perfettamente il bisogno
del suo ingegnere, mentre Worf rimase impassibile,
suscitando la curiosità di Geordi.
«Worf! Non hai sete tu? Questo caldo non ti sta
uccidendo?»
116
«Sono un Klingon. Sono addestrato a sopravvivere in
condizioni estreme» fu la sua laconica risposta.
«Davvero? Beato te, io non so cosa darei per un solo
sorso di acqua, purissima, semplicissima, acqua fresca!»
esclamò Geordi.
«Manchi di autocontrollo. Sei qui solo da poche ore e già
ti lamenti come una donnicciola. Sei un ottimo ingegnere,
ma come guerriero faresti davvero ridere!» commentò il
klingon, emettendo un ringhio appena accennato di
evidente soddisfazione per la propria superiorità fisica.
«Ah! Si? Pensala come vuoi. Io invece mi sto ancora
domandando perché ci abbiano lasciati qui, sotto questo
sole, in un luogo tanto desolato. Siamo nel Q-Continuum,
il regno degli esseri più potenti dell’Universo e non
hanno nemmeno un po’ d’acqua da offrirci!»
Geordi inveì contro tutto il Q-Continuum e tutti i Q,
definendoli arroganti e accecati da loro stesso potere.
«Puoi almeno smettere di lamentarti? Il tuo lagno mi sta
infastidendo» sbottò Worf, stanco di sentire i lamenti del
capo ingegnere «Se hai sete, puoi sempre andare a
cercartela l’acqua!»
Geordi, risentito per le parole del klingon si alzò in piedi,
e petto in fuori, in un chiaro gesto di sfida, esclamò:
«stupido d’un klingon! E dove credi che possa trovarla
l’acqua qui? Ordinandola dal cielo?»
Geordi aveva perso il controllo e la pazienza e cominciò a
gridare proprio verso il cielo, come se sperasse così di
comunicare i suoi desideri a qualche Q disposto ad
ascoltarlo.
«Dannazione! Lassù! C’è nessuno? Ho sete!» gridò a
squarciagola.
«Geordi per favore!» intervenne Picard, che aveva già
troppi pensieri per la testa, e un ingegnere fuori di senno
era l’ultimo problema di cui aveva bisogno. Ma Geordi lo
ignorò.
117
«Vi siete dimenticati di noi? Ma che modi sono questi?
Avete dimenticato cos’è la buona educazione? Sono un
vostro ospite! Ho sete! Acqua fresca!»
«Tenente La Forge! Si metta a sedere ed in silenzio!»
ordinò Picard con tono autoritario.
«Capitano! Ma le sembra possibile che…»
Geordi non ebbe il tempo di terminare la frase, che un
piccolo tavolo, imbandito riccamente con frutta esotica e
soprattutto con svariate bottiglie di altrettanto svariate
bevande, tutte rigorosamente infilate in un grosso
recipiente ricolmo di ghiaccio fumante, comparve, come
al solito, dal nulla.
Geordi sbarrò gli occhi stupefatto e poi rivolgendoli
ancora una volta al cielo ringraziò:
«Uh! Grazie! Grazie! Troppa grazia!» e poi volgendosi
verso Worf con tono a metà strada fra l’arrogante ed il
pomposo:
«allora guerriero? Cosa ne dici dei risultati che sa
ottenere una donnicciola?»
Il klingon grugnì sommessamente. Per questa volta
avrebbe dovuto alzare bandiera bianca. Ma come dare
torto a Geordi? I suoi lamenti dovevano avere scocciato
anche qualche Q di passaggio.
L’inaspettato regalo permise ai tre di dissetarsi e
rifocillarsi.
Data, che non aveva nessun bisogno né di bere né di
mangiare, rimase in disparte ad osservarli, limitandosi a
scambiare qualche commento sulla natura esotica dei cibi
e delle bevande raccolte sul piccolo tavolo. Molti di essi,
infatti, erano apparentemente sconosciuti, ma dall’aspetto
gradevole ed invitante. Anche Picard bevve e mangiò a
sazietà, senza farsi troppe domande su cosa stesse
ingerendo. Se i Q avessero voluto eliminarli, non
sarebbero di certo ricorsi all’avvelenamento.
118
Erano ancora intenti a pasteggiare, quando si udì
chiaramente, per la seconda volta quel sommesso rombo,
prodotto dall’automezzo guidato da Q, partito pochi
minuti prima. Istintivamente Picard cercò di scorgere la
sagoma del camion, guardando nella direzione in cui
l’aveva visto scomparire. Aspettandosi che Q stesse
facendo già ritorno. Ma Geordi, toccandogli la spalla, gli
fece cenno che anche questa volta, il suono proveniva
dalla parte opposta, quella da cui Q era comparso la
prima volta.
«E’ ancora un automezzo militare, con una
configurazione molto simile al precedente» informò
Geordi, sfruttando le capacità dei suoi nuovi occhi.
«Riesce a vedere chi c’è alla guida? E’ ancora Q?»
domandò Picard.
«Aspetti. Un attimo. No! E’ l’avversario di Q. Intravedo
chiaramente il luccicare dei suoi impianti Borg».
Il Q-Borg si stava avvicinando rapidamente, sollevando
con il suo mezzo, una nuvola di sabbia forse ancora
maggiore di quella sollevata precedentemente da Q.
Segno che stava viaggiando ad una velocità più elevata.
Quando finalmente fu sufficientemente vicino per
rientrare nel campo visivo di Picard, si poterono notare,
sul cofano del mezzo e sui fianchi le insegne della
Coalizione Occidentale.
- Logico! - fu il commento di Picard, ma lo tenne per sé.
Era certo che anche Worf, Data e Geordi avessero intuito
che erano di fronte all’ennesima mascherata a metà strada
fra il carnevale e il teatro che contraddistinguevano le
comparsate di Q. E a quanto sembrava, il ventunesimo
secolo terrestre, affascinava non poco Q. Anche in
occasione del loro primo incontro, Q li accolse nella finta
aula di un tribunale della fine di tale secolo. Il primo di
una lunga serie di incontri, sicuramente uno dei meno
piacevoli.
119
L’autocarro viaggiava a velocità sostenuta e i quattro si
fecero da parte per non venire investiti.
Il Q-Borg era alla guida del mezzo, indossando una divisa
dell’epoca, naturalmente con le insegne della Coalizione
Occidentale. Da sotto di essa si intravedevano
chiaramente gli innesti Borg dorati, che lo distinguevano
da un drone qualunque.
Il Q-Borg, avvicinandosi a loro, non accennò a rallentare
e sfrecciò a tutta velocità, investendo in pieno il banco
con i dolci frutti e le bevande, spargendo il tutto
sull’asfalto.
Il Q-Borg li aveva naturalmente scorsi, ma non si fermò,
limitandosi a suonare due volte il clacson dell’autocarro
in segno di saluto.
Una nuvola di sabbia investì in pieno i quattro. Picard fu
costretto ancora una volta a proteggersi gli occhi con le
mani ed ad evitare di inspirare aria nei polmoni, fino a
che la nuvola non fu calata al suolo.
«Pirata!» gli gridò Data, una volta che l’autocarro fu
passato e la polvere allontanata dal vento.
I suoi tre compagni si voltarono verso di lui, con sguardo
interrogativo.
«E’ un epiteto del ventunesimo secolo, adatto alla
situazione» spiegò l’androide.
Picard non diede seguito e domandò,
«Li avete visti anche voi?»
«Chi capitano?» domandò Geordi
«Sul retro dell’autocarro, li ho visti, droni Borg!»
«Quanti signore?» domandò questa volta Worf.
«Ne ho contati almeno una mezza dozzina».
«Se come penso sono i droni contro cui dovranno
confrontarsi la dottoressa Crusher ed il consigliere Troi,
le probabilità di successo sono del…»
«Sono spacciate, Data, semplicemente spacciate».
120
Picard strinse rabbiosamente i pugni. Nuovamente, il
senso d’impotenza, lo scosse nel profondo.
121
CAPITOLO 13
Seduto su una roccia sporgente, sospesa sopra uno
strapiombo di una sessantina di metri standard, con le
gambe a penzoloni, uno degli essere più potenti
dell’intero universo, osservava un poco annoiato lo
spettacolo, sempre che si potesse definire tale, che si
stava svolgendo poco sotto.
Il sole era alto e forniva un discreto calore. Sufficiente
per riscaldare l’atmosfera di quel fragile pianeta di classe
M, così lo avrebbero classificato gli umani, e fornirgli
energia per sostenere la vita. E quel pianeta brulicava di
vita. Ai piedi della rupe si estendeva una foresta verde e
lussureggiante, una marea verde che terminava solo
raggiunto il limite dell’orizzonte.
«Avanti! Vieni avanti coraggio!»
«Come hai fatto a…»
«Sono il tuo maestro, te lo sei scordato? Hai ancora un
mucchio di cose da imparare caro mio!»
Il giovane allievo Q, apparve alle spalle del suo mentore.
Sul suo volto si poteva ancora leggere il disappunto per
essere stato scovato dal suo nascondiglio.
«Non male l’idea di camuffarti con una frequenza di uno
virgola quarantasette hertz, piuttosto comune in questo
punto della Galassia. Ma avresti dovuto scegliere una
radiazione meno insolita.»
«Lo terrò a mente»
«Mi spiavi?» chiese Q al suo allievo
«No, facevo solo esercizio» rispose evasivamente il
giovane Q.
«Non c’è che dire,» commentò scuotendo il capo Q «stai
proprio imparando a mentire!»
«Ho un grande maestro!» ribatté il ragazzo.
122
«Insolente! Ora che sei qui, siediti accanto a me ed
osserva. Sotto di noi c’è uno spettacolo davvero
interessante: forme di vita a confronto. Forme di vita
senzienti.»
Il giovane si mise anch’egli seduto, con le gambe sospese
nel vuoto, pericolosamente sul ciglio della sporgenza
rocciosa.
«Stavo vedendo. E’ la prima delle Tre Prove?» domandò
l’allievo.
«Si»
«Che stanno facendo le due umane? Perché sono così
ingrassate dall’ultima volta che le ho viste?»
«Non sono entrambe umane. La mora, Deanna, è
betazoide. Sai quei noiosi telepati,» Q fece una pausa per
grattarsi la testa. Inconvenienti dell’avere assunto forma
umana «e non sono ingrassate. Sono in attesa di un figlio.
La maggior parte degli umanoidi cresce la propria
progenie dentro il corpo delle femmine, per questo
paiono più grasse.»
«E che fanno sole in quella grotta?» continuò curioso il
giovane Q.
«Cercano di sopravvivere. E’ uno degli scopi della Prima
Prova. La Prova della Vita.»
«E dove sono gli avversari? I Borg? Non riesco a
scorgerli.»
«Guarda dalla parte opposta, sotto quel crinale. Li vedi?»
disse Q indicando con l’indice della mano sinistra.
«Si, ora li vedo. Ma non erano cinque? Ne vedo solo
due.»
«Gli altri tre sono li vicino»
«Io vedo solo uno strano macchinario.»
«E’ quello che resta degli altri Borg» rispose Q
«Distrutti? Sono state le umane? Allora stai vincendo tu!»
123
Q scosse la testa. Il ragazzo aveva ancora molto da
imparare. Pensava troppo in fretta, senza fare analisi
accurate.
«No! Non sono stati distrutti! Sono stati i loro due
compagni a smontarli. Hanno utilizzato le parti
cibernetiche
per
costruire
un
sistema
di
approvvigionamento e un replicatore perfettamente
funzionanti. Ora stanno replicando una serie di utensili,
credo per scavare minerali dal sottosuolo.»
«Interessante! E tutto questo in un solo giorno? Efficienti
non c’è che dire!» commentò l’allievo il quale però
pareva essere maggiormente attratto dalle vicende delle
due umanoidi.
«Anche loro hanno fatto tutto in un giorno?»
«Diciamo di si, diciamo di no» fu la risposta evasiva di
Q.
«Non credo di avere capito maestro.»
Q sbuffò, come se rispondere alla domanda gli costasse
uno sforzo particolare. Come se avesse, come al solito,
qualcosa da nascondere.
«Diciamo che ho cercato di aiutarle. Ho fatto in modo
che il loro giorno durasse quasi come circa cinque mesi
terrestri.»
L’allievo fece un sobbalzo, tanto che alcuni sassi
precipitarono dalla sporgenza, perdendosi nel vuoto. «Ma
maestro! Il Consiglio del Q-Continuum aveva
severamente vietato ogni tipo di aiuto! Tu hai imbrog…»
Q si voltò di scatto verso il giovane fulminandolo con lo
sguardo e con un gesto repentino gli tappò la bocca.
«Taci! Vuoi che ti sentano? Lo sai che hanno orecchie
dappertutto! Non ho fatto quello che dici. Ho solo cercato
di equilibrare una sfida che era fin dall’inizio
esageratamente impari! La Prima Prova misura la
capacità delle due razze di evolversi e riprodursi in un
ambiente ostile. Su questo pianeta c’era tutto il necessario
124
per quelle due, ma maledizione, hanno giocato a fare le
ufficiali della Federazioni per mezza giornata, mentre i
Borg già assemblavano un primo replicatore ad energia
solare! Ho dovuto intervenire! Invece che familiarizzare
con la comunità di umani e betazoidi che avevo preparato
per la loro prova e cominciare subito a familiarizzare,
costruire una città, figliare e quant’altro! Hanno insistito
con le loro dannate procedure. Pensa! Si stavano
preoccupando di un possibile primo contatto! Non
avevano capito che quei maschi erano li solo per loro! E
che il loro destino dipendeva da essi!» Q si grattò ancora
il capo sconsolato. La prima delle tre prove stava avendo
un esito alquanto infausto. In una arco di tre giorni i Borg
avrebbero completato tutto il necessario per cominciare a
riprodursi e quindi a creare ulteriori macchinari e a
riprodursi ancora. Entro una settimana sarebbero stati
decine. Per sperare di poter ricreare una forza di numero
almeno eguale, sul fronte opposto, avrebbe dovuto
trasformare i giorni in anni, ma sapeva che così l’inganno
sarebbe ben presto stato scoperto. La Prova sospesa e il
Q-Borg dichiarato vincitore.
«Interessante!» commentò il ragazzo, che già comunque
cominciava ad annoiarsi. Si era avvicinato di soppiatto
nella speranza di assistere a qualcosa di epocale, di
assoluto, di inimmaginabile. Invece, lo scenario gli
pareva identico a quello di centinaia di altri pianeti
colonizzati dalla vita. Anzi decisamente più noioso.
«E come hai convinto le due umane a stringere rapporti
con la comunità autoctona?» continuò il ragazzo.
«Non le ho convinte. E non sono tutte e due umane!»
«Si, Ok! Me l’ero scordato! Comunque sono in attesa di
prole. Almeno un contatto deve esserci stato. Se non
ricordo male, gli umanoidi per riprodursi necessitano di
uno scambio di liquidi seminali, di un contatto fisico, di
125
una certa intimità. Hanno forse compreso la natura della
Prova?»
Q rimase in silenzio. Era imbarazzato dalla risposta che
avrebbe dovuto fornire. Non avrebbe mai veramente
voluto, ma ci era stato costretto dalle circostanze,
dall’esigenza primaria di dare almeno una possibilità
all’esito di quella maledetta Prima Prova.
«No, non lo hanno compreso. Ho dovuto modificare
l’indole della comunità autoctona, da pacifica in
aggressiva. Sono stato costretto. Non mi hanno lasciato
scelta.»
Q terminò la frase con un filo di voce e il suono delle sue
parole si perse rapidamente.
L’allievo lo stava fissando, colmo di stupore. Oggi, il suo
maestro, gli aveva impartito una nuova importante
lezione sulla natura dei Q. Su quella parte nascosta e
segreta, figlia di tempi remoti in cui anche i Q, lottavano
contro le forze della natura per sopravvivere.
Si limitò ad un commento breve ma esaustivo:
«Sono state prese con la forza quindi.»
Q non confermò apertamente, ma il suo silenzio valeva
più di mille parole. E la vergogna, sentimento umiliante
per un Q, gli avvampò il volto, come uno scolaretto colto
dall’insegnante a copiare durante un compito in classe.
Il giovane Q si alzò in piedi, pulendosi dal terriccio. La
polvere, sollevata dal vento, si disperse sulla foresta
verde.
«Ho visto abbastanza. Ci rivedremo per la Seconda
Prova. Questa ormai ha un esito scontato». Il giovane
scomparve nel nulla, lasciando Q solo con se stesso.
«Da che parte ci dirigiamo ora?» domandò Riker.
«A sud-est, all’incirca di quindici gradi verso sud. Non
posso essere più preciso senza un strumento adatto»
rispose il comandante Vovelek.
126
«Ma ne è proprio sicuro?»
«Comandante Riker, questa è la terza volta che mi fa
questa domanda. Deduco che proprio non si fida di me»
rispose il vulcaniano.
Riker si bagnò le labbra secche e prima di replicare portò
la sua borraccia alla bocca, traendone un piccolo sorso. Il
caldo di quel deserto lo stava facendo a pezzi, più di
quanti l’impatto al suolo con la navicella, non avesse già
sparpagliato.
«Lei sta bevendo troppo, comandante» lo rimproverò
Vovelek
«Lei pensi alla sua scorta d’acqua che io penserò alla
mia. Sono ore che camminiamo nel nulla più assoluto
seguendo solo il suo istinto vulcaniano e che abbiamo
trovato fino ad ora? Rocce, sassi, sabbia! E poi altre
rocce, altri sassi. Sono stanco, facciamo un pausa!»
Riker aveva alzato il tono della voce, era ricolmo di
rabbia per la non certo gradevole situazione.
Vovelek rimase impassibile, fermo nel deserto, e si limitò
a replicare pacatamente «presto lei terminerà la sua scorta
d’acqua. Se tenterà di impadronirsi della mia, sappia che
io la ucciderò. Abbiamo ancora molto cammino da fare.
Sento la presenza di acqua proprio in questa direzione,» e
indicò un punto apparentemente qualsiasi dell’orizzonte
infuocato «ma se non limiterà il suo consumo d’acqua,
non ci arriverà mai».
Riker era piegato, con l’unica mano superstite su una
delle ginocchia. Era talmente fiacco che lo zaino che
portava in spalle, gli sembrò lì lì per schiacciarlo.
«Non si preoccupi! Non prenderò una sola goccia della
sua riserva! Piuttosto me ne resterei a morire in questo
maledetto deserto!» replicò Will mentre si rimetteva in
posizione eretta.
«Bene signore. E’ quello che constaterò molto presto se
non intende limitare il suo consumo d’acqua,» rispose
127
freddamente Vovelek «ora, credo si sia riposato a
sufficienza. Dobbiamo riprendere il cammino, c’è ancora
molta strada da percorrere».
Il vulcaniano riprese il cammino nella nuova direzione,
senza attendere che William fosse pronto a fare
altrettanto. E Riker non lo era ancora. Infatti gli ci vollero
alcuni secondi per capire che era stato abbandonato dal
suo compagno ed abbozzare quindi un qualsiasi tipo di
reazione.
Facendo appello alle energie residue obbligò il suo corpo
a riprendere il cammino ed a seguire le orme nella sabbia
della sua guida improvvisata.
William cominciò seriamente a dubitare che avrebbero
mai trovato acqua e che invece sarebbero morti entrambi
sotto i colpi di quel sole cocente. Il primo a cadere
sarebbe stato sicuramente lui e non poté fare a meno di
immaginare se stesso abbandonato morente, mentre il
comandante Vovelek, dal fisico più adatto a sopportare
queste temperature, proseguiva il suo cammino senza
curarsi della sua sorte.
Aveva fatto bene a fidarsi di Vovelek e del suo intuito
vulcaniano?
Quando si erano ritrovati appena fuori della navicella di
salvataggio, distrutta dallo schianto al suolo, unici
superstiti fra gli occupanti della nave stella della Flotta
USS Pioneer, e fu il momento di stabilire una strategia di
salvezza, si trovarono immediatamente d’accordo sulla
necessità di lasciare quel luogo alla ricerca di terre più
ospitali e soprattutto di una fonte di acqua. Ma in quale
direzione andare? Tutto intorno, a trecentosessanta gradi,
non si scorgeva altro che il deserto e apparentemente una
direzione qualsiasi, pareva godere delle stesse probabilità
di portare alla meta. Riker, se fosse stato solo, avrebbe
lasciato al caso il compito di decidere, visto che non
aveva alcun elemento per potere prendere alcuna
128
decisione razionalmente, ma il comandante Vovelek
pareva essere certo di sapere dove si trovasse la più
vicina oasi. Istinto vulcaniano, fu la sua risposta.
Vulcano è per due terzi desertico, spiegò, e per poter
sopravvivere in un territorio tanto ostile la sua razza
aveva imparato a sviluppare una particolare capacità
sensitiva, di cui tutti i vulcaniani, in varia misura, erano
dotati, ovvero percepire la presenza d’acqua anche a
grandi distanze. L’evoluzione aveva preteso un grande
tributo di vite vulcaniane, prima che tale capacità si
sviluppasse nei primi individui, i quali, sopravvivendo, la
trasmisero poi alle generazioni future. Tali individui, nel
passato remoto di Vulcano, erano eletti alla guida delle
carovane che attraversavano i deserti e considerati
preziosi anche più dell’acqua stessa. Intere guerre erano
state combattute, prima dell’avvento della disciplina di
Surak, per il controllo di questi vulcaniani speciali, capaci
di dirigere la carovana sempre nella direzione migliore,
sempre verso la fonte d’acqua più vicina.
Questo naturalmente millenni fa, precisò il vulcaniano,
quando voi umani ancora non sapevate accendervi un
fuoco, fu il suo commento, caustico e xenofobo, come al
solito.
William aveva sentito parlare di questa capacità dei
vulcaniani, delle leggende che circolavano su di loro, di
vecchi detti della Flotta Stellare di cui in quel momento
ne ricordò uno in particolare, che non era altro che
l’evoluzione di uno terrestre: se l’acqua non va dal
vulcaniano, il vulcaniano va dall’acqua.
Per cui decise che valeva la pena di fidarsi e che per
quell’occasione poteva rinunciare a fare affidamento
esclusivamente sulla sua buona sorte, la quale, fino ad
allora, non lo aveva mai tradito. E visto come si stavano
mettendo le cose, cominciò a temere che la sua buona
129
stella se la fosse presa a male per la mancata fiducia
accordatagli e lo avesse improvvisamente abbandonato.
Alzò la testa per controllare che i solchi nella sabbia che
stava seguendo fossero proprio quelli del comandate
Vovelek e vide il vulcaniano parecchi metri più avanti di
lui, camminare ad un passo spedito, come se per lui, le
ore passate sotto il sole fossero state un piacevole
diversivo, una passeggiata di piacere, un gita fuori porta.
Il vulcaniano si stava apprestando a scalare una duna
sabbiosa, che nascondeva l’orizzonte, alta forse una
trentina di metri, dalle pareti scoscese e prive di ogni
appiglio. I suoi stivali affondarono nella sabbia, lasciando
solchi profondi sul fianco della duna e spezzando la
perfezione del declivio sabbioso, che il vento aveva
scolpito, granello dopo granello.
Quando Riker giunse alla base della duna, Vovelek aveva
ormai quasi raggiunto la sommità. William ne approfittò
per riposarsi ancora qualche minuto e cercare le energie
per una scalata che in altro occasioni sarebbe anche stata
divertente, ma che in quel momento si presentava come
un ostacolo insormontabile.
«Comandante Riker! Comandante Riker!»
Era la voce del vulcaniano, che nel frattempo aveva
raggiunto la sommità delle duna e faceva ampi gesti con
il braccio destro.
«Venga a vedere.»
Il cuore di Riker si riempì di speranza. Acqua! Un’oasi!
Sicuramente dietro quella duna si estendeva una
meravigliosa oasi!
Come se miracolosamente le energie fossero rifluite nel
suo corpo, William partì di gran carriera, cercando di
scalare il pendio sabbioso il più velocemente possibile,
aiutandosi anche con la mano superstite. Gli stivali gli si
riempirono di sabbia, ma non importava, pensò, avrebbe
avuto tempo dopo di svuotarli e di immergere i piedi in
130
un fresco ruscello. Ne era sicuro, la sua buona stella lo
aveva perdonato e stava venendo in suo soccorso.
In pochi minuti raggiunse Vovelek. Aveva il cuore che
batteva all’impazzata per lo sforzo e dovette aggrapparsi
al compagno per non scivolare dalla parte opposta del
crinale.
Ma la sorpresa non fu per nulla piacevole. Davanti a lui si
estendevano ancora chilometri di deserto e non vi era
traccia alcuna di una qualsiasi fonte d’acqua.
Nei suoi occhi si poté leggere la disperazione più cupa.
Vovelek indicò un punto imprecisato sotto di loro «vede
quella zona di colore più scuro?»
«Dove? Credo di non riuscire più a guardare questo
deserto!» domandò Riker, sorseggiando ancora un goccio
d’acqua della sua ormai quasi vuota borraccia.
«Poco oltre quella grande depressione. C’è una zona del
deserto di colore più intenso. Laggiù troveremo
dell’acqua. Forse non molta, ma ci permetterà di rifornire
le nostre scorte. Soprattutto le sue» lo punzecchiò il
vulcaniano.
Riker non rispose alla provocazione e scosse il capo
sconsolato. Non si sentiva certo di poter mai arrivare a
quel puntino scuro e concluse che davvero, quel giorno,
la sua buona stella lo aveva tradito.
131
CAPITOLO 14
«Come ti senti Deanna?»
Beverly si chinò sulla betazoide, porgendole un recipiente
fatto d’osso, forse quel che restava del cranio di qualche
grosso animale, ricolmo d’acqua fresca.
«Debole. Ogni giorno sempre più debole.»
La betazoide era sdraiata su un pagliericcio improvvisato,
con le mani conserte sulla pancia ingrossata per la
gravidanza in corso. Pallida ed emaciata, rivoli di sudore
le rigavano la fronte. Sintomi di una febbre crescente. La
sua uniforme della Flotta era sporca e lacera. Macchie di
sangue rappreso la costellavano qua e là.
«E’ il bambino. Sta per arrivare. Vedrai, passerà presto»
la rassicurò la dottoressa.
«Non è vero!» singhiozzò Deanna «Ho già partorito una
volta, sull’Enterprise D ricordi? Non mi venne una febbre
così alta prima del parto!»
Beverly le si sedette accanto, con un movimento lento ed
impacciato. Anche l’umana era in attesa. Circa al sesto,
forse settimo mese. Beverly aveva perso il conto dei
giorni dopo che era rimasta priva di conoscenza per un
periodo imprecisato, a causa delle violente percosse
ricevuto da uno dei loro carcerieri.
«Quella non fu una gravidanza naturale. Fu causata da
una forma di vita aliena. Tu hai forse dimenticato che dal
concepimento al parto passarono poche ore? Beh! Questa
è una vera, reale, dolorosa gravidanza betazoide. Fidati
del tuo dottore.»
Beverly accompagnò le sue parole con un sorriso dolce
ed il più rassicurante possibile.
Deanna sbuffò e scosse le spalle. Poi tentò di bere l’acqua
che l’amica di sventura le aveva procurato. L’acqua era
132
preziosa. Il torrente era distante più di venti minuti di
cammino e Beverly avrebbe dovuto riposare anziché
occuparsi di lei.
«Eppure io non ricordo nessuna donna su Betazed nelle
mie condizioni. Beverly dimmi la verità. C’è qualcosa
che non va, percepisco che tu mi stai nascondendo
qualcosa.» Deanna fissò la dottoressa dritta negli occhi,
sperando così di farle crollare quel blocco. Da un paio di
settimane, in altre parole da quando era comparsa la
febbre, Beverly non era più la stessa e la sua mente,
prima limpida e sincera, si era come oscurata, forse per
un terribile segreto che la riguardava. Ma con il
peggioramento delle sue condizioni, anche le capacità
empatiche erano parzialmente venute meno. In fondo lei
era solo per metà betazoide. Deanna riusciva ad avere
solo percezioni confuse, ma anche facendo appello al
solo intuito umano riusciva a comprendere che qualunque
cosa le stesse tenendo nascosta Beverly, sicuramente la
riguardava ed era legata allo stato della sua salute.
Beverly sostenne lo sguardo, facendo appello a tutta la
sua forza di volontà per non cedere. Era intimamente e
fisicamente provata dagli avvenimenti di quegli ultimi
terribili mesi. Q che le abbandonava su quel pianeta,
dichiarando che stava per avere inizio la Prima Prova, ma
senza spiegare minimamente in cosa consistesse.
L’incontro con i primitivi Yeoman, l’unica popolazione
umanoide e senziente della foresta, composta solo da
membri di sesso maschile di evidente razza umana e
betazoide. In tutto una tribù di un paio di dozzine di
persone, all’apparenza pacifici e dediti all’agricoltura.
La dottoressa ricordava bene il primo incontro. Gli
Yeoman non avevano mai visto un essere di sesso
femminile e restarono come abbagliati, affascinati da una
diversità mai conosciuta. E soprattutto incredibilmente
attratti. Furono accolte nelle loro capanne e per i primi
133
tempi tutto andò bene. Gli Yeoman procuravano loro il
cibo e pareva non chiedessero nulla in cambio se non la
loro compagnia. Intanto lei e Deanna avevano esplorato
la foresta, nella speranza di trovare un’altra civiltà, più
evoluta. O di ritrovare Q o Picard, chiunque insomma
capace di portarle via da li.
«Deanna, credimi. E’ tutto assolutamente normale. La tua
febbre calerà presto. Tu continua con gli impacchi che ti
ho preparato, mettili bene sulla fronte e sul petto. Non
sono efficaci come i medicinali standard, ma credimi
faranno lo stesso il loro effetto.»
Beverly sorrise ancora e tentò di cambiare discorso.
«Oggi è una splendida giornata, dovresti vedere come
brilla il sole!»
Deanna cercò di rispondere al sorriso con un altro sorriso.
Ma ne uscì una smorfia appena abbozzata.
«Beverly, credi che ce ne andremo mai da qui?»
La domanda della betazoide riaprì una ferita profonda
nell’animo della dottoressa. Da ormai qualche tempo,
Beverly stava cercando di costringere se stessa a
rassegnarsi all’idea di concludere la propria esistenza su
quello sconosciuto pianeta, con la sola compagnia dei
brutali Yeoman e forse di suo figlio, quello che portava
ora nel grembo e di eventuali futuri altri, che qualche
maschio sicuramente l’avrebbe con la forza costretta a
concepire. Se almeno le fosse rimasta Deanna vicino, ma
il destino aveva tragicamente complottato contro di loro.
La creatura che Deanna portava in grembo era in
posizione podalica. Ovvero con i piedi, anziché la testa,
verso l’uscita, condizione che il novantacinque per cento
delle volte impediva la corretta riuscita di un parto
naturale e che poteva portare alla morte sia del nascituro
sia della madre. Un problema abbastanza frequente, che
la moderna medicina aveva risolto da un centinaio di
anni, grazie ad un semplice intervento poche settimane
134
dopo il concepimento, o, in caso di diagnosi tardiva, con
un altrettanto semplice e sicuro taglio cesareo. Ma non li,
non con i pochi e scarsi attrezzi di pietra che possedevano
gli Yeoman. Beverly stava ancora cercando di
organizzare quanto necessario per l’intervento. Una pietre
di selce abbastanza affilata per aprire il ventre della
betazoide, un dente sufficientemente piccolo ed affilato
come ago, delle budella di hochk, una specie di cinhgiale
che pascolava nei dintorni, essiccate ed intrecciate, come
filo per la sutura e qualcosa, ma ancora non sapeva cosa,
per lenire il dolore e per disinfettare. Fossero state
abbandonate sulla Terra o su uno dei principali pianeti
della Federazione, avrebbe saputo ricavare un anestetico
da qualche radice o erba medica. Ma li intorno, cresceva
una vegetazione completamente differente. Le restavano
circa due settimane per tentare qualche esperimento sui
maschi della tribù.
«Il capitano! Il capitano Picard! Perché non viene a
salvarci?» continuò Deanna, con le lacrime agli occhi.
«Non lo so. Non lo so. Noi dobbiamo restare qui. Questa
è la Prima Prova e ne va del destino dell’intera galassia,
di miliardi di persone. Se il prezzo che dobbiamo pagare
per vincerla è questo, lo pagheremo senza lamentarci.»
Beverly prese per mano la compagna, mentre con l’altra
le asciugò le lacrime.
«Scusami, sono uno sciocca egoista,» balbettò Deanna «è
che ho tanta paura, paura di morire, paura di restare
abbandonata qui per sempre, senza potere più rivedere i
volti delle persone care. Dimenticate per l’eternità, senza
nemmeno, alla fine, conoscere l’esito dei nostri sforzi.»
«Anch’io ho paura Deanna. Ma dobbiamo farci forza.
Sono convinta che presto riusciremo a capire la vera
natura della Prova e finalmente potremo tentare qualcosa.
Ora tu devi solo pensare a riposarti e a far calare la
135
febbre. Voglio che tu stia bene ed anche il tuo bambino.
Altrimenti chi aiuterà me quando verrà il mio turno?»
Deanna sorrise e il suo volto, per un istante, tornò a
riempirsi della luce che aveva sempre emanato in quei
lunghi anni di servizio assieme.
«Ora dormi. Io vado a prendere altra acqua e qualcosa da
mangiare.»
Deanna annuì e chiuse gli occhi dolcemente.
Beverly uscì dalla capanna, con la schiena dolorante per
il peso del fagotto che portava dentro di se. Il sole era
prossimo a tramontare. Un altro giorno, su quel pianeta
abbandonato stava per terminare. Beverly si incamminò
verso il torrente, seguita da uno degli Yeoman che le
sorvegliava giorno e notte. Se voleva tornare dal torrente
prima che fosse buio doveva accelerare il passo. Un
grosso rapace emise il suo grido, scomparendo poi
all’orizzonte e Beverly si fermò solo un istante ad
osservarlo e provò invidia per quel paio d’ali che tanto
lontano da quel luogo desolato, lo potevano portare.
La stella di quello sconosciuto sistema solare era ormai
prossima a completare l’arco giornaliero della sua sfera
celeste Presto l’oscurità sarebbe scesa su di loro
impedendo di continuare il cammino.
La macchia, cosi ormai Riker chiamava quel punto scuro
che Vovelek aveva indicato dalla sommità di una duna,
quale luogo ricco di preziosa acqua, era ancora lontana,
ma non oltre un’altra giornata di cammino. Anche perché
William era consapevole che non avrebbe resistito oltre.
Nell’ultima ora di cammino la morfologia del terreno era
mutata, passando da sabbiosa a prevalentemente sassosa,
il che aveva reso il cammino più facile, visto che gli
stivali non affondavano più nella sabbia per almeno venti
centimetri.
136
Vovelek aveva individuato un gruppo roccioso che
secondo il suo giudizio era particolarmente adatto per
trascorrere la notte, al riparo dal vento, che una volta
calato il sole, diventava gelido.
Tanto era infernale di giorno, tanto era gelido di notte.
Questa era la doppia faccia del deserto, a quanto pare, in
qualunque parte della Galassia.
Passarono la notte stretti l’uno all’altro, nel tentativo di
scaldarsi a vicenda, dividendosi l’unica coperta termica
che avevano portato con se, sottraendola al kit
d’emergenza della capsula di salvataggio. Riker notò
come fosse particolarmente buia la notte su quel
planetoide, privo, così almeno pareva, di satelliti capaci
di riflettere un poco di luce solare. In compenso le stelle
brillavano in maniera sorprendente. Avrebbe voluto
restare a godersi lo spettacolo più a lungo, ma la
stanchezza dovuta alla giornata di cammino si trasformò
in torpore che lo avvolse rapidamente e cadde in un
sonno profondo.
Profondo ma breve. Il comandante Vovelek lo strappò
bruscamente al mondo di Morfeo, scuotendolo
ripetutamente.
«Si svegli comandante! Il sole sta per sorgere. Dobbiamo
muoverci prima che la temperatura torni ad alzarsi.»
Riker aprì lentamente gli occhi e la prima cosa che vide
fu il volto del vulcaniano, come sempre serio ed
impettito. L’atmosfera era debolmente illuminata da degli
sparuti raggi solari che provenivano dall’orizzonte,
proprio di fronte a loro e un velo rossastro si stava
lentamente espandendo nel cielo.
William sbatté le palpebre ripetutamente e si mise su di
un fianco.
«Maledizione! Stavo facendo un sogno meraviglioso. I
Borg non erano mai arrivati, avevo ancora il mio braccio
e…»
137
«I sogni sono manifestazioni tipiche delle menti
governate dal caos. I vulcaniani non sognano. Il nostro
cervello non ha bisogno di riorganizzare le informazioni
durante il riposo» lo interruppe Vovelek.
Riker scosse il capo sorridendo di fronte all’ennesima
punzecchiatura contro la sua specie.
«Deve sapere che sognare è piacevole. E sa qual era
l’aspetto migliore del mio sogno di questa notte?»
Vovelek, che era intento a richiudere il suo zaino, lo fissò
con un’espressione che Riker interpretò come curiosità
per la risposta ma non aprì bocca e continuò imperterrito
il suo lavoro.
E allora Will decise che non gliela avrebbe data e si
rimise in piedi senza finire il discorso, sicuro che entro
dieci secondi il vulcaniano avrebbe apertamente
manifestato il suo desiderio di conoscere la risposta. Il
conteggio mentale era arrivato a nove quando la voce di
Vovelek echeggiò nel deserto.
«Dato di fatto che noi vulcaniani non sogniamo in
maniera così disorganizzata come voi umani, era curioso
di conoscere le dinamiche legate alle esperienze oniriche
di altre specie e...»
«Vuole sapere cosa mi è davvero piaciuto del sogno?»
tagliò corto Riker cantando vittoria dentro di se.
«Sintetizzando brutalmente, la risposta è si»
Riker fece una pausa, si chinò e raccolse il suo zaino e se
lo mise a spalle, poi si fece un lungo sospiro puntando i
suoi occhi dritti in quelli del suo compagno di naufragio.
«Non c’erano vulcaniani!» fu la sua risposta, laconica e
tagliente.
Vovelek alzò un sopracciglio in segno di sorpresa, ma da
buon rappresentante della sua razza non lasciò che
nessuna emozione trasparisse all’esterno e si limitò ad un
breve commento.
138
«Come dite voi umani? Non tutte le ciambelle riescono
con il buco?»
- Touché! - Riker ammise che il suo avversario, sul piano
dialettico, era davvero formidabile e per questa volta
decise che avrebbe battuto la ritirata.
«D’accordo signor Vovelek, lasciamo perdere i sogni e le
ciambelle e veda di ricordarsi in che direzione dobbiamo
muoverci.»
«Io sono pronto. Se lei è pronto possiamo riprendere il
cammino»
«Prontissimo. Da che parte?» rispose Riker passando
oltre il vulcaniano, accompagnando le parole ad un gesto
di invito con un abbozzo di inchino. Vovelek non rispose
e si limitò a riprendere il cammino a passo spedito,
mentre il sole lentamente cominciava a fare capolino alle
loro spalle.
Poche ore dopo il sole era alto nel cielo e quella
sconfinata pianura nuovamente un inferno, con
temperature che superavano sicuramente i quaranta gradi
centigradi. Riker aveva esaurito la sua riserva d’acqua
almeno un’ora prima e il suo passo era diventato sempre
meno spedito e già una volta era caduto a terra
inciampandosi malamente in un sasso sporgente. E
Vovelek,
naturalmente,
pareva
non
risentire
dell’ambiente ostile, anzi, pareva proprio si sentisse a
casa. Ora stava almeno una cinquantina di metri più
avanti di lui e non accennava a rallentare per aspettarlo.
Maledetto vulcaniano! Imprecò fra se Riker. Avrei fatto
meglio a lasciarti morire sulla capsula! Almeno adesso
starei morendo nel deserto sentendomi meno idiota!
Aveva una sete terribile, ma proprio come gli aveva
pronosticato Vovelek, era rimasto senza scorta e il suo
orgoglio stava facendo il possibile per impedirgli di
chiedere al vulcaniano che gliene concedesse un poco
della sua. Tanto più che era certo che non gliela avrebbe
139
mai concessa, anzi, avrebbe sicuramente intimamente
goduto nel vederlo dapprima soffrire e infine morire per
disidratazione. E sarebbe stato pronto a scommettere che
la ferrea logica del vulcaniano gli avrebbe consigliato di
fare il suo corpo a pezzi per poi consumarlo. C’erano mai
stati casi di antropofagia fra i vulcaniani? No!
Sicuramente no! I vulcaniani sono perfetti! Non
sbagliano mai! E poi, non correrebbero mai il rischio di
nutrirsi di carne umana e ritrovarsi magari poi infettati
dalle dannose ed inutili emozioni che affliggono gli
abitanti della Terra!
Riker si accorse che stava cominciando a vaneggiare.
Forse sarebbe stato meglio impegnare il cervello in
qualcosa di più utile, come costringere il proprio corpo,
sempre più riluttante, a fare un passo dopo l’altro,
possibilmente facendo attenzione a non inciampare
nuovamente.
Circa tre ore dopo William non riusciva più a vedere il
suo compagno, sia perché era ormai troppo avanti a lui,
sia perché la sua vista era completamente annebbiata.
Facendo appello a tutta la sua forza di volontà, stava
seguendo le orme lasciate da Vovelek, fissando come un
pazzo fuori da un manicomio il terreno. Non sentiva
nemmeno più il caldo, né la stanchezza, né la sete. Come
un automa si limitava a portare una gamba davanti
all’altra, con ritmo lento, respirando affannosamente.
«Non ti chiederò l’acqua! Non ti chiederò l’acqua!»
ripeteva all’infinito con voce impercettibile, come se si
trattasse di una antica nenia.
Poi sentì un improvvisa e lancinante fitta. Non avrebbe
saputo indicare il punto esatto nel suo corpo, tutte le sue
percezioni fisiche erano come attutite. Si sentì cadere, ma
non percepì l’impatto, come se stesse vivendo l’accaduto
in terza persona. Come un fantasma che osserva quello
che prima era il suo corpo di vivente.
140
«E’ finita» mormorò. E poi fu il buio.
141
CAPITOLO 15
- Deanna Troi di Betazed - Figlio di Deanna Troi - Federazione Unita dei Pianeti Beverly rilesse ancora una volta quelle parole, incise su
di una grossa pietra levigata, che egli stessa aveva
raccolto e trasportato fin li dal torrente. Le ci erano voluti
tre giorni di lavoro per incidere quelle poche lettere, e
subire anche le ire degli Yeoman, che non volevano
perdesse tempo in un’attività che non erano in grado di
capire. Quei maledetti barbari la tenevano praticamente
prigioniera e gli unici compiti a cui era costretta con la
violenza, erano scuoiare e cucinare le prede della caccia e
soddisfare le loro pressanti richieste sessuali. Erano ormai
parecchi mesi. Sicuramente una dozzina. Di cui nove
passati con in grembo il piccolo Jean-Luc, il figlio che
ora teneva fra le braccia e che stava poppando beato dal
suo seno. Un incubo. Un incubo che pareva non avere
fine. Eppure Beverly continuava a sperare che prima o
poi Picard sarebbe venuto a portarla via di li. Senza tale
luce di speranza, probabilmente avrebbe già da tempo
posto fine spontaneamente alla sua esistenza. E ora che
Deanna se ne era andata, non aveva neppure più il
conforto di una persona amica. Era rimasta sola ad
affrontare quella terribile prova a cui Q l’aveva
sottoposta. Prova di cui ancora non aveva compreso il
significato.
Avevano tentato, soprattutto i primi tempi, di fuggire,
nella speranza che la risposta fosse nascosta da qualche
parte li vicino. Ma ogni volta gli Yeoman erano riusciti a
ritrovarle e le avevano duramente punite. Poi le
142
condizioni di Deanna erano peggiorate e ogni proposito
era stato accantonato.
Tenendo saldo il piccolo Jean-Luc si chinò delicatamente
per poggiare un mazzo di fiori sulla improvvisata lapide.
Li aveva raccolti nella mattinata, senza farsi scorgere da
nessuno dei barbari.
Gli Yeoman avevano accolto la morte di Deanna con
indifferenza e era loro intenzione disfarsi del corpo della
betazoide, gettandolo da una rupe lontana. Così, a quanto
pare, celebravano i loro morti. Ma Beverly si oppose
fermamente, cercando disperatamente un modo per
comunicare con loro. Alla fine la lasciarono fare, forse
scocciati dalla sua insistenza.
Beverly allora scavò una fossa con i miseri utensili a
disposizione e vi seppellì il corpo martoriato di Deanna.
Ed accanto a lei, depose anche lo sfortunato bambino che
era morto subito dopo il parto, a causa probabilmente di
una semplice infezione.
Quanto tempo era trascorso? Due mesi? Tre?
La misura tempo sul quel pianeta non aveva più alcun
senso logico.
Il sole sorgeva e poi tramontava e questo bastava a
distinguere le fasi del giorno e le stagioni, per altro
appena accennate.
Un pensiero andò a Deanna ed alle sue ultime parole:
«Non lasciarmi morire qui! Ti prego! Non lasciarmi
morire qui!»
Alcune notti ancora, le compariva in terribili incubi,
pronunciandole ripetutamente ed ossessivamente,
facendola svegliare di soprassalto nel cuore della notte
completamente madida di sudore.
Solo Dio sapeva come e quanto lei ci avesse provato a
salvarla, facendo appello a tutta la sua esperienza di
medico, ma le condizioni troppo dure in cui Q le aveva
gettate avevano impedito di evitare la terribile sciagura.
143
L’ultimo giorno, prima che morisse, Deanna era in preda
a terribili spasmi. Erano arrivate le contrazioni ma il feto,
essendo capovolto, non riusciva a trovare la via nel modo
corretto. Il primo tentativo che fece fu di cercare di
afferrare dall’interno i piedi del nascituro e di tirarlo con
forza, come avveniva anticamente con i vitelli. Ma non
riuscì nell’intento, in quanto la posizione del feto era
realmente assai anomala, probabilmente quasi di traverso
e le sempre più violente contrazioni che stavano
scuotendo il corpo della betazoide, non lo stavano di
certo aiutando.
Era quasi calato il sole, che i gemiti di Deanna si erano
trasformati in urla strazianti. E non vi era nulla per potere
calmare il dolore.
Gli Yeoman erano tutti all’esterno della capanna in cui
Deanna tentava di partorire ed assistevano a quanto stava
accadendo, come se fosse stata la prima volta. Alcuni
trovarono la cosa persino divertente e cominciarono a
scimmiottare i movimenti convulsi di Deanna. Mai come
in quel momento Beverly sentì di odiare quegli ottusi
neandertaliani. Ben più di quel giorno in cui sia lei che
Deanna erano state brutalmente violentate.
A quel punto Beverly decise il tutto per tutto. Deanna
ormai non era più in grado di comprendere quello che le
stava accadendo, tale era il dolore che le stava
letteralmente divorando.
«Deanna! Ascolta! Ora tenterò di estrarre il bambino, con
un taglio cesareo. Vedrai, andrà tutto bene» le disse
Beverly e Deanna si limitò ad annuire prima di emettere
un altro urlo di dolore.
La Crusher riuscì a farsi aiutare da uno degli uomini
Yeoman, uno dei più giovani, l’unico che in quei mesi si
era dimostrato un poco gentile con loro. Si fece mettere
delle ciotole di acqua calda tutto intorno al giaciglio di
Deanna, poi prese la pietra di selce più affilata che aveva
144
a disposizione e la sterilizzò facendola rosolare per
qualche istante sulla fiamma del fuoco del campo. Prese
la matassa di filo, fatto con gli scarti della lavorazione del
pellame di hochk, che aveva preparato nei giorni
precedenti, in previdenza di una simile eventualità e la
infilò in un ago improvvisato: una lisca di pesce di fiume
che si era presentata particolarmente adatta allo scopo.
Il sole era ormai calato e scese l’oscurità sul piccolo
villaggio.
Mandò il giovane Yeoman a prendere una torcia e una
volta di ritorno gli fece capire, con dei gesti sommari, di
mettersi alle spalle di Deanna e di tenerla il quanto più
possibile ferma.
Prima di iniziare l’operazione, mise fra i denti di Deanna
un grosso pezzo di radice, che, almeno le era parso
facendo qualche prova, avesse un parziale potere lenitivo.
In più le avrebbe impedito di mordersi la lingua.
Il volto della betazoide era sconvolto. I suoi occhi, che
solitamente infondevano dolcezza e amore, ora erano due
palle impazzite che roteavano freneticamente. Beverly la
guardò un istante prima di procedere, chiedendosi se
stava facendo la cosa giusta e se sarebbe riuscita a salvare
la vita della sua compagna.
Poi, con fare deciso e sicuro, affondò la lama della selce
nel ventre gonfio della betazoide, lacerandolo nettamente
di almeno venticinque centimetri. Deanna emise un
gemito altissimo e il giovane Yeoman faticò a tenerla
ferma. Il sangue cominciò rapidamente a sgorgare dalla
ferita ma Beverly si preoccupò di allargarla
immediatamente e di individuare il nascituro per estrarlo.
L’operazione non fu facile, ma Beverly non ci mise più di
qualche minuto. Il bambino aveva sfortunatamente anche
una parte del cordone ombelicale che gli avvolgeva il
piccolo ed esile collo. E soprattutto non respirava.
Prontamente Beverly lo liberò dal cappio e recise di netto
145
il cordone, facendo poi il classico nodo che crescendo,
sarebbe diventato il suo ombelico. Subitamente cominciò
delle pratiche manuali di rianimazione, risciacquandolo
con acqua calda e incredibilmente, quel piccolo corpicino
paonazzo emise finalmente un lamento che si trasformò
poi in un fragoroso pianto.
Deanna intanto era svenuta, per cui Beverly mise il
bambino nelle mani del giovane Yeoman e presa la lisca
di pesce e il filo di fortuna, e cucì le carni della betazoide
alla meglio. Ma non aveva assolutamente nulla per
sterilizzare la ferita ed era troppo estesa per poterla
cauterizzare senza creare delle gravi ustioni. Più di così
proprio non avrebbe potuto con quei pochi attrezzi.
La notte la passò a vegliare Deanna ed il bambino.
Ma Deanna, da quella notte, non riaprì più i suoi occhi.
Le conseguenze del parto le avevano sfiancato il già
debilitato fisico e una probabile infezione le fece salire la
febbre. Dopo due giorni ed una notte di agonia, Deanna
spirò fra le braccia di Beverly, mentre il suo bambino,
che ancora non aveva un nome, era attaccato al seno della
madre morente.
La morte di Deanna segnò anche la fine di suo figlio.
Senza la madre ad allattarlo, Beverly non aveva nulla con
cui nutrirlo. Lei, infatti, era ancora senza latte, in quanto
avrebbe partorito solo fra un mese circa. Il piccolo spirò
tre giorni dopo di stenti e per una infezione, sotto gli
occhi impotenti ed affranti della dottoressa.
Beverly aveva ancora freschi nella mente i ricordi di quei
giorni terribili. Era rimasta completamente sola, in balia
degli Yeoman, prossima al parto.
Per sua fortuna, il suo travaglio fu breve e relativamente
meno doloroso rispetto al suo primo figlio, Wesley, e
tutto andò relativamente liscio. E ora poteva felicemente
tenere in braccio il piccolo Jean-Luc, figlio di chissà
quale degli Yeoman.
146
Beverly si rimise in piedi, accarezzando per una volta
ancor la lapide.
«Tornerò domani, promesso!» disse, rivolta alla pietra
scolpita.
Si incamminò verso il villaggio, quando udì delle urla
provenire da esso.
«Che sta succedendo?» si domandò.
Affrettò il passo e man mano che si avvicinava le urla
aumentavano di intensità. Salvo poi cessare di colpo.
Beverly arrivò al villaggio praticamente correndo e lo
trovò devastato e soprattutto deserto. Chi o cosa aveva
fatto questo? Che era successo? In più di un anno di
prigionia non aveva mai visto né animali né altri esseri in
grado di rappresentare una minaccia per gli Yeoman.
Si incamminò fra le capanne rovesciate alla ricerca di
risposte, tenendo ben stretto il suo bambino.
Al centro del villaggio emise un grido, il richiamo
convenzionale fra gli Yeoman. Ma nessuno di loro
rispose all’appello.
Alle sue spalle sentì un rumore metallico, familiare, ma
che non udiva ormai da parecchio tempo. Voltandosi di
scatto, la luce rossastra di un laser le segnò il volto.
«Borg!» fu il suo ultimo grido.
«Capitano lei non sente niente?» domandò Data
Picard, seduto sul marmo bianco che costeggiava parte
della infinita muraglia era profondamente immerso nei
suoi pensieri. Stava riflettendo sulla situazione e sul da
farsi. Oltre a domandarsi della sorte del consigliere Troi e
della dottoressa Crusher. Erano passate più di tre ore da
quando Q le aveva portate con se, con il compito di
assolvere alla fantomatica Prima Prova, di cui né Q né il
Q-Continuum avevano specificato la natura.
La voce di Data lo raggiunse come se l’androide l’avesse
chiamato da un profondo pozzo.
147
«Come ha detto signor Data?»
«Dicevo signore, che sto percependo un rumore in
avvicinamento. E’ molto simile al campione relativo al
mezzo di trasporto utilizzato da Q».
«E’ sicuro signor Data?» domandò Picard ingenuamente.
Data non poteva certo essere vittima di allucinazioni.
«Si signore. C’è una probabilità del novantasette virgola
sedici percento che si tratti dello stesso identico mezzo a
motore» specificò Data.
Picard balzò in piedi attirando l’attenzione di Geordi e di
Worf che a loro volta seguirono il capitano.
Picard corse qualche metro nella direzione in cui aveva
visto scomparire il camion da trasporto della Terza
Guerra Mondiale e mano alla fronte cominciò a scrutare
l’orizzonte, ma senza scorgere alcunché, eccetto la
muraglia e la strada che si perdevano all’orizzonte.
«Geordi! Riesci a vedere nulla?» domandò il capitano.
L’ingegnere capo dell’Enterprise mise in funzione i suoi
occhi bionici al massimo ingrandimento possibile.
«No capitano, questa volta non vedo niente. Se sta
arrivando qualcuno è ancora troppo lontano, anche per i
miei bio-impianti oculari.»
«Eppure Data sta percependo lo stesso identico rumore
del camion di Q!» esclamò stizzito Picard, non dandosi
per vinto.
«Ne è certo signor Data?» domandò ancora Picard,
voltandosi verso l’androide, che stava alle loro spalle,
alcuni metri più lontano.
«Certo capitano. Solo che…» ma Data fu bruscamente
interrotto dal capitano.
«Geordi prova ad allargare il campo anche ai margini
della strada. Forse sta viaggiando nel deserto, parallelo
alla strada principale»
Geordi annuì e riprese a scandagliare l’orizzonte.
«Nulla signore, nulla» fu l’esito del secondo tentativo.
148
«Capitano? Geordi? Worf?» esclamò Data.
«Dica signor Data ci sono altre inf…» voltandosi Picard
vide l’androide, che con la mano chiusa a pugno ed il
pollice sollevato, indicava il deserto alle sue spalle.
«Sta arrivando, ma da questa direzione capitano»
aggiunse Data.
«Ma come è possibile…»
In un primo momento Picard provò confusione, non
riuscendo a comprendere come Q stesse potendo ritornare
dalla stessa direzione da cui era arrivato in precedenza.
Secondo logica, avrebbe dovuto far ritorno da quella
opposta, in altre parole dalla quella in cui era sparito con
Deanna e Beverly a bordo. Logica umana, pensò Picard,
probabilmente quella dei Q è un tantino diversa.
«Vero! Lo vedo! E’ sempre lo stesso mezzo!» confermò
Geordi, ma ormai tutti potevano distinguere ad occhio
nudo la nuvola di polvere.
In pochi minuti la sagoma del mezzo pesante si fece
sempre più nitida e quando fu molto vicina, i quattro si
spostarono a lato, tappandosi bocca e naso, per evitare
che la nuvola di polvere e sabbia che stava sollevando li
investisse una seconda volta.
Con una frenata brusca, il camion da trasporto con i
simboli della Coalizione Orientale e il telone verde
militare si arrestò davanti a loro, portando con se la
prevista nuvola di sabbia.
Alla guida del mezzo sempre Q, sempre con la stessa
antica divisa militare terrestre.
«Mon capitaine! Ben felice di rivederti! Allora come ce
la passiamo vecchio mio?» furono le prime parole di Q,
una volta smontato dal posto di guida.
«Dove sono Deanna e Beverly?» domandò
immediatamente Picard.
149
«E non mi saluti nemmeno? Non siete felici di
rivedermi?» insistette Q fingendosi dispiaciuto per la
fredda accoglienza.
«Q! Dove sono Deanna e Beverly?» il tono della voce di
Picard era estremamente deciso. Era seriamente
preoccupato per la sorte delle due donne e non si sarebbe
mai perdonato se fosse loro accaduto qualcosa di
terribile.
«Qui dietro non ci sono!» intervenne Worf, che nel
frattempo aveva controllato il retro del mezzo.
Q parve per un istante imbarazzato, come se avesse
qualcosa da nascondere e stesse cercando le parole
migliori per inscenare una delle sue solite commediole.
«Dove sono Q! Parla!» urlò Picard puntandogli un dito in
mezzo alla fronte.
«Sono dietro… Nel camion. Credimi Jean-Luc!» rispose
Q balbettando.
«Sta mentendo capitano! Qui non c’è traccia né di
Deanna né di Beverly!» intervenne ancora Worf, poi però
l’occhio gli cadde su qualcosa di insolito.
«Un momento. Ci sono due oggetti. Sono sacchi neri,
signore.»
Il cuore di Picard ebbe un cedimento. Un terribile
pensiero gli si insinuò nel cervello e come un
elettroshock, gli causò un fremito lungo la spina dorsale.
«Q! Tu! Non avrai…»
Q chinò il capo e senza rispondere si portò vicino a Worf
e lentamente sbloccò i fermi della sponda posteriore del
camion. Picard lo seguì con il cuore che gli pulsava in
gola.
Poi si rivolse al klingon chiedendo aiuto per scaricare
quei due inquietanti sacchi. I due faticarono a metterli a
terra segno che erano piuttosto pesanti.
E Picard capì, ma non solo lui, cosa contenessero quei
sacchi, che solo ora denotavano una cerniera ermetica
150
lungo tutto l’asse longitudinale. Ma non voleva crederci.
Con tutte le sue forze cercò di convincersi che si stava
sbagliando.
151
CAPITOLO 16
Picard si chinò sulle due sagome scure, allineate sulla
sabbia bollente.
Aveva fatto allontanare sia Worf sia Geordi. Loro non
avrebbero dovuto vedere. Lui era il capitano e solo a lui
sarebbe toccato il terrificante spettacolo che si celava
dietro quelle cerniere.
Nonostante fosse evidente a chi appartenessero i corpi
che si celavano nei sacchi, nonostante ogni logica fosse
stata abbattuta dalla crudezza della realtà, Picard si
accinse al riconoscimento con la più umana delle
speranze, ovvero che in fondo, a volte, anche l’inevitabile
potesse essere evitato. Per fortuna, per puro caso, per
intervento divino.
Lentamente fece scivolare la prima cerniera e non appena
i primi raggi del sole illuminarono l’interno, lo stomaco
di Picard si contrasse, come se fosse stato direttamente
comandato dai suoi occhi e da quello che stavano
vedendo. Beverly, sicuramente Beverly. Il suo volto
diviso in due. Una metà ancora umana, seppur livida, con
i colori che la morte ci dipinge addosso e il resto una
tipica protesi oculare Borg. Era stata assimilata. Picard
richiuse in fretta il sacco ed espirò profondamente.
Rimase in ginocchio qualche istante cercando di
riprendere il controllo.
«Capitano» intervenne Geordi, vedendo il proprio
capitano in evidente difficoltà.
«E’ tutto a posto Geordi» rispose Picard, alzando una
mano.
Picard passò al secondo sacco. Era ormai una pura
formalità. Nessuna speranza, nemmeno la più irrazionale
152
albergava nel suo animo. Il corpo che avrebbe trovato
sarebbe stato sicuramente quello di Deanna.
Aprì rapidamente la cerniera e questa volta lo spettacolo
fu anche peggiore.
Il corpo all’interno del sacco era in avanzato stato di
decomposizione e un puzzo di morte si liberò nell’aria,
sostando qualche istante nei pressi delle narici di Picard,
prima di essere disperso lontano dall’incessante vento di
quel deserto sconosciuto.
Con un gesto rapido ma goffo, Picard richiuse
rapidamente la cerniera, ma stordito dalla esalazione della
carne putrefatta ricadde all’indietro, finendo col trovarsi
seduto nella sabbia.
Non aveva potuto stabilire con certezza che si trattasse di
Deanna, ma per nessun motivo al mondo avrebbe riaperto
quel sacco. Era comunque evidente che si trattava della
betazoide. Di quel che ne restava.
Perché? Si domandò. Per quale motivo?
La Sfida. Per dare una speranza alla galassia intera. Due
vite contro quelle di miliardi di esseri viventi. Per lui,
però, il prezzo era già fin troppo alto.
Si rialzò pulendosi l’uniforme dalla sabbia, poi si rivolse
ai suoi ufficiali, i quali a loro volta erano costernati dal
dolore per la perdita di due persone che erano state molto
di più che compagne di equipaggio.
Fu una pura formalità la conferma dell’identità dei due
cadaveri fatta da Picard. Sia Worf sia Geordi si
limitarono ad abbassare lo sguardo. Data invece parve
restare impassibile. Il chip emozionale doveva essere
disattivo, ma Picard era certo, che a modo suo, Data
stesse soffrendo per la perdita.
Q rimase in silenzio, appoggiato a braccia conserte alla
sponda del camion militare senza fiatare. Pareva
sinceramente dispiaciuto per l’accaduto. Ma era difficile
153
dire se Q, nonostante la vastità delle sue conoscenze,
sapesse realmente cosa significasse il dolore.
Quando Picard gli puntò addosso i suoi occhi ricolmi di
pura rabbia, Q aggrottò la fronte, stupito dalla forza che
emanava dallo sguardo del capitano.
«Come è potuto succedere questo Q!»
Q sciolse le braccia e le allargò a indicare che non
conosceva la risposta.
«Mon capitaine. C’est la vie!» rispose.
Picard lo fissò per un breve istante.
«Sei un assassino. E’ tua la responsabilità di queste morti
innocenti.»
Detto questo voltò le spalle a Q e si allontanò dal camion
andandosi a sedere sul marmo, all’ombra della muraglia
infinita.
«No! Caro il mio capitano! Io non sono un assassino!»
ribatté Q, staccandosi dalla sponda e seguendo Picard
come un cagnolino.
«Hai accettato la Sfida? Ecco, ora che fai? Ti ritiri?
Siccome c’è da rischiare, il buon capitano Picard della
Flotta Stellare se la fa sotto? Come un cadetto alle prime
armi?»
Q sapeva dove colpire e lo fece con durezza. Lui aveva il
suo scopo. Vincere la Sfida una volta per tutte e per avere
almeno una speranza avrebbe dovuto obbligare Picard a
dare il meglio di se. E ci era sempre riuscito ogni volta
che aveva spinto Picard a mettersi in competizione con
lui. L’orgoglio di quell’umano era qualcosa di unico in
tutto l’universo.
E anche questa volta funzionò.
Picard strinse i pugni e si rimise in piedi di scatto,
mettendo il suo naso a non più di cinque centimetri da
quello di Q. Un classico comportamento da maschio
umano che vuole mostrare la sua forza al branco mentre
154
viene sfidato. Umani. Sorrise dentro se Q, in un milione
di anni non sono cambiati poi molto.
«Non me la sto facendo sotto! E’ che trovo tutto questo
una barbarie ingiustificata! Io in fondo mi sono sempre
fidato di te! Nonostante i guai che ci hai creato in passato,
ho sempre creduto che comunque noi contassimo
qualcosa per te e che quindi, ci avessi sempre
nascostamente protetto.»
Picard fece una pausa, giusto il tempo i bagnarsi le
labbra, arse dalla calura.
«Ora invece non sono più sicuro di nulla. Ora so che…
Che tu questa volta non ci aiuterai. Non ci proteggerai.»
Q sorrise. Picard, l’orgoglioso Picard stava ammettendo
di avere in fondo, un’umana, comprensibile paura.
«Jean-Luc mi deludi. Come hai potuto pensare tanto male
di me? Io proteggervi? Ma se a malapena vi sopporto!
Suvvia!» rispose Q con tono canzonatorio.
Picard tornò a fissare Q negli occhi
«Quindi è sempre stato merito nostro. Solo nostro»
«E chi può dirlo?» rispose Q, decidendo che aveva già
perso troppo tempo.
«Allora Jean-Luc! Non abbiamo tutto il tempo di questo
universo! Che decidi? Ti ritiri o continui la Sfida? Anche
se ora sai che c’è il rischio reale di non tornare più a
casa?»
Picard cercò una risposta negli occhi dei suoi ufficiali,
che avevano seguito lo scambio in silenzio.
«Capitano, non potrei più vivere sapendo che abbiamo
rinunciato alla possibilità di salvare la nostra galassia dai
Borg signore!» disse Worf.
«Lo stesso vale per me» aggiunse Geordi
«Io non provo alcun sentimento di paura verso la mia
possibile disattivazione, ma credo di poter dire, che
sarebbe illogico non tentare di vincere la Sfida, signore.
Anche a costo delle nostre vite» concluse Data.
155
Picard si sentì lusingato, per avere avuto la fortuna e la
possibilità di lavorare con uomini, anzi con esseri tanto
nobili di spirito.
«D’accordo Q. Anche se il prezzo, questa volta sarà
molto più alto delle altre, non ci tireremo indietro. Ce la
siamo cavata in situazioni peggiori. Ce la faremo anche
questa volta.»
«Ottimo Jean-Luc! Adoro questa vostra retorica! E’ così
inebriante! Ti riempie il cuore di orgoglio!» lo canzonò
Q.
Picard fece una smorfia di disapprovazione e si limitò a
un laconico commento a malapena sussurrato «povero
universo, in che mani...»
Q non lo sentì, o probabilmente si limitò ad ignorarlo.
Aveva fretta.
«Bene! E’ tempo della seconda parte della Sfida! Worf,
Geordi! E’ il vostro turno!» esclamò, facendo cenno di
accomodarsi nel retro del camion militare.
«Finalmente!» esclamò il klingon.
«Lo sapevo che saresti stato entusiasta! Vedrai caro il
mio klingon guerriero, troverai di che sfogare i tuoi
brutali istinti!» ridacchiò Q.
Picard si avvicinò ai due suoi ufficiali prescelti, «buona
fortuna»
disse
loro
dandogli
una
pacca
d’incoraggiamento sulla spalla. «Sono certo che ci
rivedremo presto»
Worf e Geordi annuirono e dopo aver stretto la mano
anche a Data salirono sul camion.
Q chiuse la sponda e rapidamente tornò alla guida del
mezzo.
Picard rimase a guardare il mezzo che scompariva
lentamente all’orizzonte.
«Data, le confesso che questa volta non so se potremo
farcela.»
156
«Le probabilità di un nostro successo, alla luce dei fatti
più recenti sono scese al ventuno virgola trentaquat…»
Picard non rimase ad ascoltare l’androide ed andò a
sedersi all’ombra. E si sentì improvvisamente molto solo.
Riaprì gli occhi.
E improvvisamente la vita. Un’esperienza inspiegabile
che ogni essere vivente prova quotidianamente. Vita. Un
insieme di sensazioni non definibili. Uno stato.
Ma per Riker fu come se la stesse provando per la prima
volta. Come se fosse stato appena partorito una seconda
volta. Inspirò aria fresca nei polmoni.
Li sentì bruciare, come un fuoco acceso dentro di lui.
La sputò letteralmente fuori, con un gemito sommesso.
«Finalmente si è svegliato»
Una voce. Fredda, senza alcuna inflessione.
Will cercò di capire a chi appartenesse quella voce. Gli
era familiare.
Nella mente confusa cercò di passare in rassegna tutte le
persone che gli venivano alla memoria. Ma arrivavano
alla rinfusa, in un flusso indistinto e caotico. Voci
lontane, voci amiche, voci nemiche.
«Come si sente? E’ in grado di capire quello che dico?»
Ancora la voce. Ecco, ora si stava restringendo il campo.
Parla, parla ancora, incitò Riker.
«Aspetti. Ecco un poco d’acqua. La sorseggi
lentamente.»
Will sentì sulle sue labbra un oggetto metallico che
opponeva una lieve pressione. E del liquido fresco
scivolò rapido nella sua bocca, quasi completamente
secca. Ne seguì una immediata sensazione di sollievo,
percependolo scendere lungo l’esofago, giù, sino allo
stomaco.
Lentamente mise a fuoco la mano che teneva la borraccia
e con lo sguardo percorse tutta la linea del braccio fino al
157
volto di colui che lo stava soccorrendo. Il comandante
Vovelek.
E in un istante il ricordo di quanto era accaduto tornò al
suo posto nelle sue celle di memoria. Doveva essere
svenuto, mentre tentava di rincorrere il vulcaniano nel
deserto di quello sconosciuto pianeta. Contrariamente a
come aveva minacciato, Vovelek era tornato sui suoi
passi alla sua ricerca probabilmente. Nonostante tutto non
era stato così crudele da abbandonarlo a morte certa.
«Comandante Riker, è in grado di capirmi? Come si
sente?»
Vovelek aveva notato che Riker lo stava fissando negli
occhi, segno che era in fase di recupero della conoscenza.
«Ho sete» fu la risposta di Riker.
«Posso immaginare. Beva, beva pure quanta ne vuole»
disse Vovelek aprendo la mano di Riker e obbligandola a
stringere la borraccia, affinché si servisse da solo.
«Quanta ne voglio? E’ impazzito anche lei?» domandò
Riker confuso.
«No comandante. Semplicemente al momento non
abbiamo più bisogno di razionare l’acqua. Si guardi
intorno.»
Vovelek si tolse dalla visuale di Riker, alzandosi in piedi
e facendosi di lato, scoprendo agli occhi dell’umano
quella che somigliava alla più classica delle oasi da
cartolina. Un puntino verde, ricolmo di piante
lussureggianti nel mezzo di un assolato deserto. Quel
dannato vulcaniano aveva avuto ragione delle sue
percezioni e l’aveva portato dove aveva promesso.
Acqua.
«E quando ha finito di bere, qui ci sono questi frutti.
Sono di un tipo sconosciuto, ma avendone trovati alcuni
parzialmente rosicchiati, forse piccoli roditori, è logico
dedurre che non siano tossici. Io ne ho mangiati alcune
ore fa e non sto risentendo di nessun effetto collaterale.»
158
«E’ sicuro? Mi sembra diventato molto più umano
dall’ultima volta che sono stato cosciente» disse piano
Riker.
«Vedo che si sta riprendendo. Non ha perso la sua
predilezione per l’irrilevante» rispose caustico il
vulcaniano.
Riker decise di lasciar perdere per un momento la
discussione e si concentrò sulla borraccia, godendosi fino
all’ultima goccia in essa contenuta. E poggiatala a terra,
una terra umida e compatta, raccolse alcuni frutti e iniziò
lentamente a cibarsene.
«Mentre lei riprendeva conoscenza ho perlustrato la zona.
L’oasi è grande all’incirca un chilometro quadrato. Vi è
un’unica sorgente d’acqua, la al centro,» Vovelek indicò
un punto imprecisato fra la vegetazione «è da escludere la
presenza di forme di vita potenzialmente pericolose, se si
escludono piccoli insetti e come le ho già detto degli
innocui roditori. Nessun segno di vita intelligente.
Nessun pozzo o rifugio. Niente che lasci supporre il
passaggio di carovane o altro.»
Riker ascoltò distrattamente il resoconto del suo
compagno di naufragio, troppo impegnato a cibarsi.
«Ho calcolato che questa oasi è sufficientemente estesa
per poterci sfamare entrambi per lungo tempo in attesa
dei soccorsi. Non è da escludere la possibilità che si
debba restare confinati quaggiù per il resto dei nostri
giorni.»
A quelle parole Riker alzò un sopracciglio alla maniera
Vulcaniana e esclamò:
«Io e lei, qui, per sempre?»
«Non per sempre. Solo fino alla fine delle nostre vite. E
tenendo conto del fatto che lei è umano e quindi ha un
ciclo vitale che è circa la metà del mio, il sottoscritto
resterà completamente solo fra all’incirca sessant’anni
terrestri.»
159
«Non vede l’ora che passino vero?» ironizzò Riker.
«Comandante Riker, non sarebbe stato logico tornare
indietro nel deserto alla sua ricerca, se veramente
desiderassi una sua prossima dipartita» rispose
impassibile Vovelek.
Ancora una volta il vulcaniano lo aveva zittito. Anzi, gli
aveva ricordato che non lo aveva ancora ringraziato per
avergli salvato la vita.
«Mi scusi, era una pessima battuta,» si giustificò Will «io
la devo ringraziare, mi ha salvato la vita.»
«Non mi ringrazi. E’ stata la logica a suggerirmi di
tornare indietro a recuperarla. In queste condizioni così
estreme è più vantaggioso avere un compagno che restare
soli. E poi lei ha salvato la mia in precedenza. Come dite
voi terresti? Siamo in pari giusto?»
Riker sorrise. Gli era tornata una punta di buonumore.
«Si siamo pari. Il suo debito è pagato, la sua vita non è
più mia.»
«Come scusi?» Vovelek non stava comprendendo.
«Lasci perdere, una antica usanza di uno dei popoli della
Terra. Quando un uomo salva la vita ad un altro uomo, la
vita di quest’ultimo diventa diciamo, proprietà spirituale
del primo»
«Interessante. Lei ne è un membro?» domandò
incuriosito Vovelek
«No, ma in passato ho avuto modo di entrare in contatto
con la loro cultura. Parecchi anni fa. Un popolo di grandi
tradizioni e spiritualità, che oggi ha trovato nuovi spazi su
un pianeta che gli è stato assegnato dalla Federazione.»
«Sulla Terra non vi erano più spazi?»
«No. E’ stato un popolo grande quanto sfortunato, che ha
subito ogni sorte di persecuzione e confinamento. Sulla
Terra, da almeno trecento anni, non vi è più spazio per
coloro che rifiutano la tecnologia e il progresso»
160
«Comprendo. Anticamente, anche su Vulcano
problematiche simili hanno portato a dolorose
separazioni» commentò Vovelek.
Riker comprese chiaramente il riferimento allo scisma
che migliaia di anni prima portò alla nascita dell’Impero
Stellare Romulano.
«Io credo che, se riusciremo a ricacciare i Borg indietro
definitivamente, forse questa volta impareremo che
l’universo è abbastanza grande per tutti e forse finalmente
regnerà la pace.» disse Riker, andando con la mente ai
giorni in cui le flotte di Klingon, Federazione e Romulani
avevano combattuto insieme contro i Borg.
«E’ improbabile, ma è auspicabile.»
«A me basta che sia possibile. Tocca a tutti noi
incrementare la percentuale di successo,» concluse Riker
alzandosi in piedi «e per farlo, dobbiamo trovare un
modo per andarcene da qui.»
161
CAPITOLO 17
«Dove siamo Worf?»
«Non lo so Geordi. Ma il luogo mi è familiare» rispose il
klingon.
Geordi e Worf erano rimasti a bordo del camion militare
per alcune ore ed erano stati scaricati davanti ad una porta
metallica in tutto e per tutto identica a quella che avevano
attraversato in precedenza. Alle loro spalle, sempre la
muraglia che si estendeva fino all’orizzonte. Q li aveva
invitati a sbrigarsi ed ad attraversare la soglia, una specie
di passaggio dimensionale, li aveva portati in quello che
pareva un sotterraneo di un antico palazzo di pietra.
Delle torce illuminavano debolmente l’atmosfera ma
Geordi, grazie ai suoi impianti oculari non necessitava
della luce per esaminare l’ambiente.
«Guarda Worf! Su quella parete! Mi sembrano armi
klingon!»
I due si avvicinarono al punto in questione e Worf emise
un grugnito di soddisfazione. Appese al pesante muro in
pietra, due antiche bat’leth, ricoperte da un pesante strato
di polvere, riflettevano la luce opaca delle torce.
Worf si avvicinò con uno scatto fulmineo, soffermandosi
solo un istante quasi in adorazione, poi afferrò le due
antiche lame, tipiche della tradizione militare klingon, e
ne porse una a Geordi.
«Prendi! Ora almeno non siamo più disarmati!»
Geordi afferrò la pesante bat’leth e quasi la fece cadere a
terra. Non si aspettava che pesasse così tanto. Worf
invece la stava facendo roteare nell’aria eseguendo una
serie di esercizi di riscaldamento, soppesando l’arma,
calcolandone il punto d’equilibrio, tastandone
l’impugnatura, sollevando una piccola nube di polvere.
162
Geordi rimase qualche secondo ad osservare il compagno
in preda quasi ad un’estasi mistica poi decise che sarebbe
stata cosa migliore continuare l’esplorazione della sala,
facendo appello alla sua vista potenziata.
Ma tranne un grande camino spento ed una tavola in
legno, non vi era altro.
Apparentemente la stanza non aveva nessuna entrata né
uscita. Né finestre.
«Worf» lo chiamò l’ingegnere umano. Ma il klingon era
troppo intento a padroneggiare la bat’leth e non lo udì,
costringendo Geordi ad alzare la voce.
«Worf! Puoi mettere giù quell’affare ed ascoltarmi?»
Worf si girò di scatto e compiendo un balzo verso di lui
gli puntò una delle due punte dell’arma quasi all’altezza
della gola.
«Worf?» balbettò Geordi, con gli occhi fissi sulla lama
tagliente che lo minacciava.
Worf grugnì divertito e posò a terra la lama, che a
contatto con la pietra dura del pavimento produsse un
dolce suono metallico.
«E’ una bat’leth formidabile!» esclamò.
Geordi tirò un sospiro di sollievo. Per un nanosecondo
aveva temuto che Worf lo avrebbe decollato in un colpo
solo. Invece era solo in preda ad una tipica euforia
klingon per le armi rituali, che li porta a comportarsi
come bambinetti eccitati di fronte al loro giocattolo
preferito.
«Si ci credo Worf. Però evita di puntarmela così vicino la
prossima volta d’accordo?» si lamentò Geordi «Piuttosto
cerchiamo di capire come possiamo uscire da qui. Se si
esclude quel camino laggiù, non vedo vie d’uscita
convenzionali.»
Worf si guardò intorno a sua volta e dopo una rapida
occhiata sul suo volto si disegnò un ghigno soddisfatto.
163
«Conosco questo luogo. E’ il palazzo di K’tal D’ar Nek.
Si trova su Qo’Nos nella Prima Città.»
«Ne sei certo? Vuol dire che ora siamo su Qo’Nos?»
replicò Geordi.
«Si lo riconosco. Non vi sono mai stato personalmente,
ma da ragazzo, quando studiavo la cultura del mio
popolo, mi ero procurato un tour olografico del mitico
palazzo dove si narra che Khaless L’Indimenticabile
abbia soggiornato per ben cinque anni dopo avere
sconfitto il malefico fratello Morath. Questa stanza è il
rifugio segreto di Khaless in cui riuniva i sui generali
durante la campagna di riunificazione del popolo
klingon.»
Worf alzò gli occhi estasiato verso il soffitto di pietra,
offuscato dal fumo delle torce.
«In questo luogo Geordi, è stata fatta la storia del mio
popolo. Qui è stato concepito il seme dell’onore, che ha
salvato i klingon dall’autodistruzione!»
«Ok! Ok! Worf! Grazie della lezione di storia klingon,
però ora che facciamo? Se siamo realmente su Qo’Nos, il
Qo’Nos del nostro tempo e della nostra dimensione,
siamo nei guai. I Borg hanno assimilato il pianeta sei
mesi fa e se ci trovano, la tua bat’leth non ci potrà salvare
dall’assimilazione.»
«Usciamo da qui. Se non ricordo male vi è un passaggio
segreto che porta ai piani superiori del palazzo» rispose
Worf portandosi poi nelle vicinanze del camino.
Cominciò nervosamente a tastare la fredda pietra che lo
componeva, sporcandosi le mani della fuliggine, residuo
di lontanissimi fuochi.
«Eppure era qui!» ringhiò spazientito.
Geordi lo aveva raggiunto e calibrò i suoi impianti per
scandagliare la superficie del camino alla ricerca di un
segno di un possibile meccanismo d’apertura.
164
«Aspetta Worf. Mi sembra di scorgere una imperfezione
nel rivestimento. In questo punto!»
Premendo un punto apparentemente privo di segni degno
di nota, i due udirono distintamente lo scatto di un
qualche tipo di meccanismo metallico e lentamente la
parete interna del camino girò sul proprio asse, rivelando
uno stretto corridoio, privo di illuminazione, che si
perdeva nel buio.
Il puzzo di aria vecchia di secoli raggiunse le narici di
entrambi.
«Ecco fatto!» commentò Geordi.
«Andiamo! Questo passaggio porta direttamente nella
Prima Sala del Consiglio.»
Worf strinse fra le mani la sua bat’leth e si chinò per
infilarsi nel cunicolo quando Geordi lo richiamò:
«Che ne dici di usare una di queste?» disse, porgendo a
Worf una delle torce che stavano appese al muro.
Il klingon annuì e la afferrò. Una debole luce rischiarò
l’oscurità del tunnel che pareva senza fine.
Camminarono nel buio più completo per almeno dieci
minuti buoni, durante i quali cercarono di orientarsi fra
una serie di cunicoli che si intersecavano lateralmente e
una serie di rudimentali trabocchetti, prontamente
riconosciuti e resi inoffensivi da Worf. Il tour olografico,
per loro fortuna, non aveva celato nemmeno i segreti più
reconditi ai piccoli studenti klingon e seppur a fatica,
Worf riuscì a rammentarli quasi tutti.
«Dovremmo esserci. Quei gradini portano nella Sala del
Consiglio» disse Worf cominciando a salire i gradini
lentamente con la bat’leth saldamente in pugno. Geordi
reggeva la torcia e lo seguiva pochi passi indietro.
Una botola di legno chiudeva il passaggio. Lentamente
Worf la sollevò fino a che non poté infilare la testa
quanto bastava per scorgere l’interno della sala.
«Sembra deserta»
165
Worf sollevò maggiormente la tavola di legno e poi la
fece scorrere di lato e con un balzo felino si portò fuori
dal tunnel assumendo una posizione difensiva, con la
bat’leth pronta a colpire.
«Puoi uscire Geordi» Worf fece cenno al compagno di
emergere dal tunnel e di seguirlo.
«Dove stiamo andando?» domandò il capo ingegnere, che
stava sudando freddo per la tensione.
«Verso le stanze della servitù. Sono più piccole e
facilmente difendibili.»
In quella che mille e cinquecento anni prima era stata la
prima sala del Gran Consiglio klingon, regnava un
silenzio irreale, disturbato solamente dal leggero tocco
dei loro passi. Antichi drappi raffiguranti simboli di
antiche casate klingon, pendevano dalle alte pareti,
mentre poche torce disseminate qua e la rischiaravano
malamente l’ambiente. Il soffitto della sala era a volta e si
perdeva nell’oscurità. Una serie di vetusti scranni in
legno di Qo’Nos, poveri di intagli, erano disposti a
semicerchio e al vertice del ferro di cavallo, il trono del
Consigliere, sul quale, il primo grande Cancelliere del
nascente Impero Klingon, impartì le prime direttive.
Worf intanto, radente le pareti, si muoveva agile e veloce,
sempre impugnando la bat’leth, sua fida compagna.
Si infilarono in una piccola porta laterale, seminascosta
da un drappo color porpora.
Un lungo corridoio secondario li portò in quelle che
erano state le stanze della servitù. In pratica grandi cucine
dotate di incavi nelle pareti, probabilmente utilizzati
come giacigli e dispense. Doveva essere un inferno la vita
per uno schiavo a quel tempo, concluse Geordi.
Le cucine erano naturalmente spoglie. Solo poche
suppellettili lasciate a ricordo dei tempi passati erano
sparsamente disposte senza un senso logico, ed alcune
targhette esplicative in klingon standard ne spiegavano
166
quello che anticamente ne era stato il loro uso. Infatti, nel
XXIV secolo il palazzo di K’tal D’ar Nek era solamente
un museo, meta di pellegrinaggio di ogni buon klingon
che volesse toccare con mano le origini della sua cultura
guerriera.
«E’ completamente deserto» commentò Geordi
«Strano. Non riesco a comprendere il senso di questa
prova. Che dobbiamo fare? Perché Q non ci ha spiegato
nulla?» si domandò Worf.
«Forse dobbiamo esplorare il palazzo, trovare qualcosa di
preciso.»
Geordi non aveva idea del perché fossero li e tutto quello
che gli veniva alla mente gli pareva o troppo stupido o
troppo assurdo.
«L’unica è continuare l’esplorazione. Setacceremo il
palazzo per prima cosa. Poi ci dedicheremo ai giardini
interni. Prima o poi ci imbatteremo in ciò che Q vuol
farci trovare» concluse Worf.
«Si. Sono d’accordo. Se ci dividiamo guadagneremo
tempo.»
«No Geordi. Questo palazzo è colmo di insidie. E solo io
le conosco. Meglio se resti con me. E’ un metodo meno
efficiente ma più sicuro.»
«D’accordo, come vuoi. Da che parte cominciamo?
Quante è grande questo palazzo?»
«Sono mille e cinquecento stanze. E’ il palazzo più
grande di tutto Qo’Nos.»
Geordi alzò gli occhi al soffitto, in un gesto sconsolato e
sbuffò: «Accidenti, fate proprio tutto in grande voi
klingon. Ci vorrà un’eternità.»
«Quello che conta è vincere la sfida Geordi.
Ricordatelo.»
«Certo Worf. Dobbiamo onorare la morte di Deanna e
Beverly e sperare che Q non ci stia giocando uno dei suoi
soliti scherzi.»
167
«Allora Q! I tuoi umani dove sono finiti? Quanto ci
metteranno ad arrivare?»
La voce che lo raggiunse alle spalle era quella
maledettamente stridula ed insopportabile del suo
avversario.
Il Q-Borg se ne stava seduto su un pesante artefatto
ligneo che dominava la piana dell’arena. I suoi impianti
Borg, fatti d’oro e d’argento, rilucevano come cristalli,
sotto il caldo sole del pianeta natale klingon. Con un
ghigno divertito, stava osservando il panorama che si
parava davanti ai suoi occhi.
«Dagli tempo! Si stanno organizzando. Tra poco saranno
qui!» gli rispose stizzito Q.
«Ok! Nessun problema. Tanto credo che sarà solo una
formalità. Non hanno nessuna speranza nemmeno in
questa prova!» esclamò il Q-Borg.
«Tu credi? Ti ricordo che nella prima prova hai avuto
molta fortuna! Troppa fortuna!»
Il Q-Borg comparve all’improvviso accanto a Q, sulla
balconata d’onore, dove un tempo si sedevano i nobili
della corte klingon per seguire gli antichi e spettacolari
combattimenti fra guerrieri.
«Fortuna? Tu, Q! Proprio tu tiri in ballo il Caos? Sai
quanto me che il Caos non esiste. Ogni cosa segue il suo
Ordine e nulla può sovvertirlo. Noi stessi siamo parte di
esso. Non è stata fortuna. L’Ordine ha trionfato. E
L’Ordine vede i Borg a capo di questa galassia e forse, in
futuro, anche di tutte le altre.»
Q strinse i pugni indispettito da tanta arroganza e si
sedette su una antica poltrona. Il Q-Borg fece lo stesso su
quella accanto.
«Io credo invece che nemmeno noi Q possiamo sfuggire
ad un minimo di indeterminatezza, che è insita nella
natura stessa delle cose. Noi crediamo di controllare ogni
168
cosa ma in realtà esse ci sfuggono. La nostra presunta
onniscienza ci sta rendendo ciechi.»
Il Q-Borg si voltò verso Q, fissandolo un istante, salvo
poi scoppiare in una fragorosa risata.
«Q! Credo che tu abbia speso troppo del tuo tempo fra
quegli esseri inferiori! Stai cominciando a parlare come
loro! Ma ben ti sta! Perderai la sfida una volta per tutte e
questa volta non riuscirai a mettere in atto nessuno dei
tuoi trucchetti!»
«Non cantare vittoria prima del tempo caro mio! E
ricordati che nemmeno tu riuscirai ad aiutare i tuoi droni
senz’anima. Il Consiglio del Q-Continuum ci sta
osservando!» reagì Q.
«Lo so. Infatti si sono accorti del tuo giochetto su
Antarix. Cercare di rallentare il tempo dei miei droni per
dare tempo ai tuoi umanoidi di riprodursi, che nobile
intento. Peccato che tu sia stato miseramente scoperto. E
ora, se ci proverai anche solo una volta, ti ricordi quale
sarà la punizione?»
Q chinò il capo. Purtroppo il suo tentativo di aiutare
Deanna e Beverly non era passato inosservato e il
Consiglio era intervenuto ristabilendo il giusto corso del
tempo. E avevano minacciato Q dal riprovarci anche una
sola volta. La pena era la cacciata dal Q-Continuum e con
l’esilio, la perdita di tutte le sue facoltà. Era già accaduto
in passato e non era stato per nulla gradevole. E in una
galassia dominata dai Borg, senza Picard a tirarlo fuori
dai guai, peggio che mai.
«So bene cosa rischio. Comunque questa volta sono certo
che sarò io a vincere. I tuoi droni Borg nulla possono
contro il mio Worf!. La Prova della Forza sarà mia!»
disse a gran voce Q. Le sue parole gli tornarono indietro
sotto forma di eco, via via sempre più deboli.
«Allora è cominciata la sfida?»
169
Improvvisamente, alle spalle dei due Q, fece la sua
comparsa l’allievo di Q, il quale, tutto eccitato all’idea di
assistere alla seconda delle tre prove, aveva scordato di
salutare i due anziani.
«Q! Quando ti deciderai a dare un po’ di educazione a
questo ragazzo?» esclamò il Q-Borg scocciato dall’arrivo
indesiderato del giovane.
«Quante volte ti devo dire di non arrivarmi alle spalle? E
non si salutano due Q più anziani?» lo rimproverò il
maestro.
Il giovane Q si mise una mano sul capo in segno di
imbarazzo e prontamente si scusò per la sua intrusione,
poi andò a sedersi alla sinistra del suo mentore e diede
un’occhiata in giro.
L’arena aveva come spettatori, oltre a loro tre, almeno un
migliaio di droni Borg, che silenti ed immobili
ricoprivano come un mantello scuro, le gradinate.
E sullo sfondo gli sbuffi di fumo nerastro degli impianti
industriali costruiti dai Borg dopo l’assimilazione di
Qo’Nos, che lentamente, ma inesorabilmente, stavano
immettendo metano ed ammoniaca nell’atmosfera del
pianeta, al fine di renderlo più adatto alla vita dei droni.
«Ai piani superiori non c’è nulla. Solo stanze semivuote e
poco altro. Cosa ci resta ancora?» domandò Geordi, che
per la stanchezza si era seduto a terra, con le braccia
incrociate sulla sua bat’leth.
«I giardini, la fureria e l’Arena dei Guerrieri.»
«Arena dei Guerrieri?» ripeté Geordi stupito.
«Anticamente si svolgevano spettacoli a base di
combattimenti fra guerrieri klingon, o bestie feroci o
schiavi alieni catturati durante le prime colonizzazioni.
Da circa duecento anni, i combattimenti sono andati in
disuso.» Worf arrestò la spiegazione di colpo. Nella sua
170
mente si fece largo un’intuizione tanto lampante che
quasi gli sembrò impossibile non averci pensato prima.
«Ma certo, l’arena! Andiamo Geordi! Credo di sapere
dove troveremo le risposte che cerchiamo!»
Worf trascinò Geordi lungo le stanze ed i corridoi del
palazzo di K’tal D’ar Nek fino ad un grande portone in
legno e bronzo, alto almeno tre metri. Le due metà del
portone erano decorate con un bassorilievo raffigurante
due guerrieri klingon pronti a scagliarsi uno sull’altro. E a
Geordi sembrò che lo stessero avvertendo di non
attraversare quella soglia.
«L’Arena è oltre questo portone. Aiutami a spingere.»
I due levarono la pesante asse di legno che fungeva da
blocco e poi, facendo leva sulle gambe, cominciarono a
spingere. Lentamente i cardini cominciarono a svolgere il
loro dovere e i raggi luminosi di un sole caldo
penetrarono l’oscurità dell’interno del palazzo. Worf
dovette portare una mano agli occhi per non restare
abbagliato, mentre Geordi non fece alcuno sforzo: i suoi
impianti regolarono la luminosità in modo automatico.
«Mio Dio!» esclamò Geordi con la voce strozzata
dall’orrore.
Quando anche gli occhi di Worf si furono abituati al
cambio di luminosità, poté vedere il terrificante
spettacolo dell’arena completamente ricolma di droni.
Emise un grugnito insolito che Geordi interpretò come
soddisfazione e poi, seccamente disse:
«forse oggi è un buon giorno per morire.»
171
CAPITOLO 18
Picard si asciugò la fronte, madida di sudore, con la
manica dell’uniforme.
Ne approfittò per concedersi una piccola pausa. Il sole di
quello strano luogo era sempre alto e non accennava a
calare. Dubitò che sarebbe mai tramontato,
concedendogli un poco di frescura. Lo scenario creato d
Q, a quanto pareva, era stato concepito come statico. Gli
sfuggiva comunque il significato di un luogo tanto
inospitale.
«Si sente bene capitano?» domandò Data, non appena si
rese conto che il capitano aveva smesso di scavare.
«Si Data. Fa solo un po’ troppo caldo per i miei gusti.»
«Capisco signore. Se vuole andare a sedersi all’ombra,
proseguirò io le operazioni di escavazione. Le ricordo che
io non risento minimamente il calore, signore. Posso
operare perfettamente fino ad una temperatura massima
di…»
«No Data, grazie,» lo interruppe Picard «voglio
contribuire anch’io. E’ l’unico modo che ho ora per
onorare la morte di Beverly e Deanna. Dare loro una
degna sepoltura.»
«Capisco signore» rispose freddamente Data riprendendo
a scavare a mani nude. Grazie alla sua forza, l’androide
riusciva ad incidere più efficacemente lo strato di terra
più duro, a causa della siccità, che si trovava subito sotto
pochi centimetri di sabbia.
Picard invece si stava aiutando con delle pietre
acuminate, sbriciolando la sabbia compatta. Avrebbero
impiegato parecchio tempo, ma al momento era meglio
che restarsene con le mani in mano ad attendere il ritorno
di Q.
172
Un pensiero andò ancora a Geordi e Worf. Picard si
domandò che situazione stessero affrontando i suoi due
ufficiali. A quali prove li avrebbero sottoposti e se non
avrebbe infine dovuto scavare altre due fosse per loro.
Sentì ancora una volta crescere in lui la rabbia per lo stato
di impotenza in cui si trovava. Completamente nelle mani
di un essere come Q, capriccioso e volubile e senza una
sola risposta alle sue mille domande.
Aveva meditato molto su quanto stava accadendo.
Lo sconcertava l’idea che ogni vita senziente della
galassia, non fosse in realtà il frutto dei singoli sforzi di
miliardi di esseri, spesi in miliardi di vite, caoticamente
spinti verso il desiderio di migliorare le proprie
condizioni di vita ed allargare gli orizzonti delle loro
conoscenze, bensì un esperimento. Un gioco. Un
divertimento di due entità superiori. Ecco cosa erano in
realtà.
Due entità che per millenni si erano preparate a questo
scontro, di cui ora, le cavie, stavano pagando lo scotto.
Picard aveva sempre considerato i Q ed il Q-Continuum
come
guardiani dell’universo stesso, capaci si di
influenzare singoli avvenimenti della Storia, ma in fondo,
essi stessi, parte del grande insieme che è il Creato.
Ora la sua visione era radicalmente mutata. Ora li
considerava un grande pericolo per l’integrità dello stesso
Universo. Come potevano esseri che si presumesse
avessero raggiunto l’onniscienza, disprezzare a quel
punto la vita? Proprio loro che più di qualsiasi altra entità
ne avrebbero dovuto conoscere il valore?
Picard sbuffò di rabbia, affondando con maggior vigore
la punta della sua roccia nel duro terriccio, che
lentamente si sbriciolava.
«Capitano, se permette un’osservazione, io la vedo molto
inquieto. Un altro penny per i suoi pensieri» disse Data,
senza interrompere le operazioni di escavazione.
173
«Come Data?» si accigliò Picard, di fronte all’insolita
formulazione della domanda da parte dell’androide.
«Un altro penny per i suoi pensieri, signore» ripeté subito
Data.
«E’ sicuro di poter pagare Data?» rispose Picard
sorridendo «Intende realmente ricevere il penny
capitano?» domandò ingenuamente Data.
«No Data! No! Stavo soltanto scherzando» sospirò Picard
battendosi agitando le mani in segno di diniego.
Picard e Data rimasero in silenzio qualche istante.
Entrambi smisero di scavare. E a far loro compagnia
rimase solo il fruscio del vento.
«Sa, signor Data, da quando ho accettato la sfida
propostami da Q e abbiamo poi assistito alla seduta del
Consiglio del Q-Continuum, ho un grande interrogativo
che mi tormenta.»
Data rimase impassibile, continuando a fissarlo. Picard lo
interpretò come un assenso a continuare la conversazione.
«Siamo noi veramente padroni delle nostre vite? O siamo
solo dei burattini, manovrati da sapienti mani? Mi sono
ritrovato a pensare che forse, tutto quello che facciamo,
che abbiamo fatto e che faremo, in realtà, sarà tale solo
perché così avrà voluto qualcun altro» Picard fece una
pausa per inumidirsi le labbra arse dalla calura del
deserto.
«E se i Q hanno forse sempre controllato tutta la vita del
Quadrante Alfa. Se tutto quello che abbiamo fatto nei
secoli è solo il frutto di una competizione malsana fra due
esseri sfaccendati» Picard volse lo sguardo a terra,
scuotendo lentamente il capo.
«Che senso hanno le nostre vite?» si domandò
sconsolato.
Data fece un leggero scatto col capo e rimase qualche
istante a fissare l’orizzonte.
174
«Capitano, io credo che, per quanto i Q siano potenti, il
loro controllo si fermi solo alla capacità di creare le
condizioni affinché certi fatti accadano o prendano una
determinata svolta. Ma credo anche che non abbiano
nessun potere sulla nostra capacità di affrontare gli eventi
e di, eventualmente, sovvertire il loro volere»
disse senza fare una pausa. Poi riprese subito a scavare,
senza attendere che il capitano accennasse una qualche
risposta.
«Parole di speranza, da un androide,» sussurrò Picard che
poi continuò con un tono normale «forse non ha tutti i
torti Data. Forse il controllo dei Q è meno invasivo di
quello che sembrerebbe. Forse è per questo che li
affasciniamo tanto. Per la nostra capacità di sfuggire alla
logica di ogni controllo.»
Le parole di Data avevano avuto la capacità di accendere
una piccola fiammella d’orgoglio puramente umano nel
suo cuore, e gli avevano infuso forza e determinazione.
Riprese a scavare, deciso a non interrompersi più fino a
che sia Deanna sia Beverly non fossero state degnamente
sepolte. Forse il suo destino era già stato scritto in
qualche grande libro, in un archivio del Q-Continuum,
ma ora sentiva che avrebbe potuto obbligare qualche
impiegato a recuperare la sua scheda ed ad apportargli
delle sostanziali modifiche. Non esiste alcun destino
preordinato. Noi siamo e saremo ciò che la nostra
volontà, le nostre capacità, ci porteranno ad essere. E gli
ostacoli che incontreremo sul cammino ci daranno forza e
ci formeranno, man mano che li affronteremo.
Successi ed insuccessi. Picard aggrappò tutto se stesso a
questa fragile verità.
«Eccoli! Sono arrivati!» esclamò il giovane Q saltando
in piedi e sporgendosi dalla balaustra lignea che
delimitava il palco d’onore dal resto dell’arena.
175
«Finalmente! Ora possiamo cominciare. E soprattutto
finire.»
«Fai preparare i tuoi sfidanti Borg! Adesso vedremo se
l’Ordine batterà il Caos!» disse Q rivolto al suo sfidante.
Stavolta era certo che per i droni di quello sbruffone non
ci sarebbe stato scampo. La scelta di Qo’Nos come
campo di battaglia apparentemente favoriva il suo
avversario, ma Q aveva ben pensato di far trovare ai due
tutto il necessario per abbattere degli stupidi quanto lenti
droni: armi da taglio. I loro scudi, adatti solo a respingere
attacchi di armi ad energia, nulla avrebbero potuto contro
i colpi di bat’leth di Worf. Lo scontro sarebbe terminato
presto. Ne era certo.
«Ma quanti ce ne saranno?» domandò Geordi con voce
tremante. L’idea di dover affrontare tutti quei droni con il
solo ausilio di una vecchia lama lo stava terrorizzando.
«Sono migliaia. Ma non credo siano per noi. Credo siano
solo spettatori. E noi gli sfidanti» lo rassicurò il klingon
poi gli fece cenno con la mano di guardare più in alto,
verso quella che doveva essere una postazione
privilegiata, in quanto si ergeva sopra gli altri posti a
sedere, formando una quadrilatero, protetto dai raggi
solari da un tendaggio color porpora e cinto da una
ringhiera di legno sagomato.
«E’ Q!» esclamò Worf.
«Si! C’è anche il suo avversario e quel ragazzo che
abbiamo visto mentre camminavamo su quel sentiero che
ci ha portati fino al Q-Continuum» confermò Geordi
facendo appello ad un paio di livelli di ingrandimento dei
suoi impianti visivi.
I due si portarono verso il centro dell’arena, sotto gli
occhi assolutamente fissi nel vuoto dei droni Borg. Non si
stavano minimamente curando di loro, come se fossero
176
stati collegati alle loro consolle all’interno di una comune
nave cubo.
«Questa atmosfera mi sta facendo venire la pelle d’oca!»
mormorò Geordi, osservando preoccupato la massa
informe di bioimpianti.
I due si portarono fin sotto la balconata d’onore dove Q,
che ora era abbigliato come un antico nobile klingon,
sembrava attenderli smanioso.
«Q! Si può sapere che farsa è questa? Perché ci hai fatto
vagare nel palazzo?» urlò Worf per farsi sentire fin lassù.
«Worf! Worf! Mio guerriero klingon prediletto!» rispose
Q allargando le braccia al cielo, come un padre pronto ad
abbracciare il figlio.
Worf ringhiò rabbiosamente all’indirizzo di Q e strinse
con maggior forza l’impugnatura della bat'leth. Se avesse
potuto avrebbe piantato le sue lame fra le carni di
quell’odioso essere.
«Ma Worf! Non fare così. Tieni la tua rabbia da parte!
Tra poco potrai dargli ampio sfogo!» replicò Q
sorridente.
«Che vuoi dire Q?» domandò Geordi.
«Siete giunti alla seconda prova. La Prova della Forza.
Dovrete dimostrare di essere fisicamente più forti e
capaci dei Borg. Credo che sarà una formalità» ridacchiò
soddisfatto voltandosi verso il Q-Borg.
«Lo vedremo, vecchio mio! Lo vedremo presto!» rispose
per nulla intimorito il suo millenario nemico.
«Che dobbiamo fare Q?» le domande di Geordi non si
erano ancora esaurite, visto che fino a quel momento non
aveva avuto nessuna risposta.
«Lo capirete presto!» esclamò il Q-Borg, il quale, subito
dopo, schioccò le dita e due droni borg comparvero dal
nulla, dalla parte opposta dell’arena.
«Voltatevi ragazzi!» urlò come un isterico Q. Era
nervoso. Nervoso come mai, né Worf né Geordi,
177
l’avevano visto. Il che, pensò Geordi, era assai poco
rassicurante.
«E ora?» continuò a domandarsi Geordi.
«Non hai compreso Geordi? Prova della Forza. Queste
bat’leth. Ecco perché Q ci ha fatto vagare nel palazzo. Per
farci trovare queste. Sapeva che io le avrei portate con
me. Abbiamo un grande vantaggio sui Borg» spiegò
Worf, il cui respiro si era fatto più accelerato. I suoi occhi
erano in fiamme e il sangue bollente. Il richiamo della
battaglia era codificato nei suoi geni e tutti i muscoli del
suo corpo, allenati da anni di esercizi e dai programmi
olografici di callistenia, erano tesi e pronti allo sforzo.
Geordi invece sentì solo l’adrenalina aumentargli in dosi
insopportabili in tutto il corpo, mentre gocce di sudore
freddo lentamente scendevano dalle tempie.
«Dobbiamo batterci con quei due droni?» Geordi indicò i
due rappresentanti dei Borg, che con il loro passo lento e
ondeggiante, si muovevano verso di loro, mentre il
puntatore ottico cercava di inquadrarli.
«Non preoccuparti. Posso fare da solo» disse
sommessamente Worf. Un istante dopo era scattato verso
i due poveri droni che nulla avrebbero potuto contro i
colpi delle lame klingon.
Non ci vollero più di trenta secondi. Worf decapitò il
primo con un colpo netto e finì il secondo con una serie
di colpi al busto.
Caddero a terra senza fiatare, da buoni droni, senza avere
il tempo di abbozzare una minima reazione mentre Worf
rimase sopra di loro con la bat’leth in pugno a
contemplare la sua vittoria.
«Abbiamo vinto!» esultò l’allievo di Q compiendo un
primo balzo a braccia aperte, facendone seguire altri più
contenuti sul posto.
«Vittoria! Vittoria! Li abbiamo stracciati!» continuò il
giovane, entusiasta per lo spettacolo a cui aveva appena
178
assistito.
«Controllati!» lo rimproverò subito Q «Un minimo di
comprensione per i perdenti!» Q fece seguire alla sua
affermazione una grassa quanto assordante risata. Poi si
rivolse al suo avversario di sempre con tutta l’intenzione
di sbeffeggiarlo a dovere:
«Allora amico mio? Che ne dici? Possiamo affermare che
la Seconda Prova è terminata? Terminata come i tuoi
irresistibili quanto ordinati droni borg?»
Il Q-Borg era rimasto impassibile di fronte alla infausta
sorte che era toccata ai suoi campioni. Come se, quanto
era appena accaduto, non lo tangesse minimamente.
«Direi di no Q» ribatté tranquillo.
Q si accigliò. Il suo nemico era troppo sicuro. Si
cominciò a chiedere se avesse trascurato qualche
dettaglio, tale da permettere al Q-Borg di potersi
appigliare all’esito della sfida.
«Vedi Q,» continuò il Q-Borg «in cambio della tua
scorrettezza durante la Prima Prova, ho fatto una piccola
richiesta al Consiglio del Q-Continuum. Un piccolo
risarcimento per il danno subito. E non hanno potuto fare
a meno di considerare che era una più che lecita
richiesta.»
«E con questo?» lo interruppe Q, dalla cui bocca era
scomparsa ogni traccia di sorriso.
«E con questo, ho ottenuto, per questa prova, di utilizzare
non solo quei due miseri droni, che il tuo prode klingon
ha macellato, ma tutti quelli che erano riusciti a
riprodursi durante la Prima Prova.»
Sul volto del Q-Borg comparve un sorriso beffardo.
«Guardali. Sono li, sulle tribune» concluse soddisfatto.
«Ma! Ma! Ma!» Balbettò Q «Tutto questo non è
possibile! E’ ingiusto! E’ irregolare! Farò ricorso!»
sbraitò Q.
179
«Lamentati pure Q. Mentre tu vai a chiedere lumi, io
resto qui a godermi la sconfitta dei tuoi umanoidi!».
Q strinse rabbiosamente i braccioli dello scranno ligneo
su cui sedeva.
«Che tu sia maledetto!» imprecò poi chiamò a se il suo
allievo e gli ordinò di recarsi presso il consiglio e di
chiedere conferma di tale decisione di cui lui non era
stato informato.
Il fanciullo scomparve nel nulla.
Quando Worf e Geordi si riportarono sotto la balconata
videro il ragazzo ricomparire alle spalle di Q e
mormoragli qualcosa nell’orecchio sinistro. E poi videro
Q impallidire.
«Allora Q! Abbiamo sconfitto i Borg! Abbiamo vinto la
Prova!» esclamò Worf, reclamando la sua vittoria.
Q si alzò in piedi e appoggiandosi alla balaustra si sporse
verso i due federali.
«C’è una piccola novità ragazzi. La prova non è ancora
terminata.
Resta ancora qualche dettaglio, minimo direi...» disse con
voce tremante.
«Ovvero?» domandò Geordi.
«Ovvero questo!» si intromise il Q-Borg schioccando le
dita.
Improvvisamente il pubblico di droni borg che fino a
quell’istante aveva assistito nella più completa
indifferenza, si animò e l’aria si riempì del ronzio sinistro
di un migliaio di meccanismi che entravano in funzione.
E un migliaio di laser rossastri si concentrarono su Worf
e Geordi, inondandoli di una luce infernale.
180
CAPITOLO 19
Erano trascorsi un paio di giorni da quando Riker e
Vovelek erano giunti nella piccola oasi, situata nel mezzo
di uno vasto deserto sabbioso, situato anch’esso nel
mezzo di chissà quale continente di uno sconosciuto
pianeta, su cui avevano avuto la sfortuna di precipitare
con una delle capsule di salvataggio della Uss Pioneer.
Riker si era quasi completamente ripreso, reidratandosi
grazie alle preziose riserve d’acqua dell’oasi e ad
esclusione di alcune fastidiose scottature sul viso, in
particolare guance e labbra, si sentiva in perfetta forma.
Naturalmente continuava ad essere limitato dalla perdita
subita al braccio destro, dopo la terribile battaglia di
Kaatana.
Aveva comunque fatto il possibile per aiutare Vovelek
nella costruzione di un riparo di fortuna, utilizzando rami
secchi e le larghe foglie di una particolare forma vegetale
che Riker mai aveva visto prima. Insieme avevano
dedicato gran parte del loro tempo all’esplorazione
dell’oasi, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse sembrare
anche lontanamente utile.
Verso nord, l’oasi abbondava di piante da frutto, una
specie di piccola bacca di colore scuro, che a Riker
ricordava l’acino dell’uva terrestre, la quale, per loro
fortuna, si era rivelata commestibile ed anche
sufficientemente nutriente. Vovelek però riteneva nocivo
cibarsi sempre e solo dello stesso frutto, in quanto era
assai improbabile che contenesse tutte le sostanze di cui
necessitavano per sopravvivere, per cui ritenne logico
tentare di trovare altre fonti di nutrimento. In particolare
si dedicò alla ricerca di radici ed insetti e soprattutto
questi ultimi furono motivo di una accesa discussione fra
181
i due naufraghi, circa il ribrezzo istintivo, provato da
Riker, verso tali esseri.
Naturalmente Vovelek giudicò illogico ed infantile tale
pregiudizio, affermando che in una situazione di
emergenza non poteva esserci spazio per l’irrazionalità,
pena il mancato raggiungimento dello scopo della
sopravvivenza. Riker, che si aspettava tali osservazioni, si
era limitato ad ascoltare le parole del vulcaniano, senza
mai interromperlo, salvo poi, quando ebbe finito, scuotere
le spalle e come un bambino capriccioso, ribadire la sua
assoluta intenzione di evitare di cibarsi di insetti, fino a
che non si fosse rivelato strettamente necessario.
Riker ricordava ancora la spiacevole sensazione che gli
aveva lasciato il gagh klingon, assaporato a bordo
dell’incrociatore klingon Pagh, durante una missione di
scambio fra federazione ed impero Klingon.
Vovelek aveva lasciato cadere la discussione, conscio del
fatto che gli umani sanno essere testardi quanto emotivi.
Già in passato, a bordo della Pioneer, aveva avuto
occasione di imbattersi in questa deprecabile, in quanto
legata esclusivamente a fattori emotivi, avversione per
certe fonti di nutrimento.
La convivenza si stava rivelando difficile. Entrambi
dotati di un carattere forte e abituati al comando e divisi
da una antica rivalità, che da quando era avvenuto il
primo contatto, più di trecento anni prima, serpeggiava
non dichiarata fra Vulcaniani e Terrestri.
La Flotta Stellare prima e la Federazione
successivamente, avevano contribuito a trasformare e
contenere questa rivalità in spirito di collaborazione ed
emulazione, che aveva portato gli umani a porre freno ai
loro istinti più barbari ed a crescere sia sul piano
tecnologico sia su quello sociale. I Vulcaniani, dal canto
loro, nei secoli avevano perso quella iniziale diffidenza
verso gli umani e le loro incontrollate emozioni e molti di
182
loro iniziarono a lavorare stabilmente a fianco dei
terrestri, e grazie anche alla Flotta Stellare e i matrimoni
misti diventarono meno infrequenti. Anche se nella
maggior parte dei casi, erano sempre maschi vulcaniani a
scegliere donne terrestri, affascinati dalla forza e dalla
dolcezza di cui erano capaci. I maschi terrestri, invece,
trovavano le donne vulcaniane troppo fredde e distaccate,
anche se comunque, alcuni rari casi si erano verificati.
Prima che i Borg arrivassero nel quadrante Alfa,
esistevano, su entrambi i pianeti, Vulcano e la Terra,
movimenti xenofobi, fortunatamente dallo scarso seguito,
che proponevano entrambi, l’abbandono della
Federazione Unita dei Pianeti e una maggiore restrizione
degli scambi culturali fra le varie razze del quadrante.
Nonostante tanta conoscenza e tecnologia, per alcuni,
fortunatamente sempre meno, la paura del diverso era
l’unico motore della vita.
Riker faticava sempre più a sopportare l’arrogante
spocchia con cui lo trattava Vovelek, nonostante stesse
facendo appello alle sue riserve di umorismo, unica arma
che aveva a disposizione contro la logica schiacciante dei
pensieri del vulcaniano.
Vovelek pareva appunto soffrire per l’acutezza e la
sfrontatezza delle battute di Riker a cui non poteva
opporre una difesa valida come quella di un umano: il
riso.
Le conversazioni fra i due spesso finivano con il
precipitare nel surreale, con Vovelek intento a mantenere
una rotta di pensiero uniforme e Riker ad interromperlo
con osservazioni fuori luogo, battute e quanto altro, che
sperava, avrebbero potuto indurre il vulcaniano ad una
reazione emotiva di qualche tipo.
E quella sera si ritrovarono entrambi vicini al piccolo
fuoco, che faticosamente tenevano acceso, anche durante
il giorno, dandosi il cambio.
183
Come in ogni buon deserto che si rispetti, di notte le
temperature precipitavano bruscamente. E anche quella
sera la loro cena consisteva di bacche. Solo Vovelek
stava sperimentando alcune radici.
«Domani servirà altra legna. Ho intravisto un arbusto
privo di vita al confine est dell’oasi»
«Bene, allora io andrò a prendere l’acqua» disse Riker.
Vovelek alzò lo sguardo verso l’umano e proseguì «lei
andrà a recuperare la legna e poi anche l’acqua. Io
domani continuerò la mia ricerca di cibo. Sono a buon
punto, credo che queste due in particolare siano
commestibili e digeribili. Almeno per uno stomaco
vulcaniano» disse indicando due radici dal colore
violaceo che stavano avvolte in una foglia verde.
«Capisco. Mi fa piacere vedere che come al solito ha
preso ogni decisione senza consultarmi» commentò
stizzito Will.
«Lei domani ha di meglio da fare?» fu la reazione di
Vovelek.
«Si. Ho una appuntamento con la mia ragazza. Se vado a
prendere la legna e poi anche l’acqua, arriverò tardi. E sa,
le donne è sempre meglio non farle aspettare» ammiccò
Riker.
Vovelek lo guardò fisso solo un istante, poi riprese ad
esaminare le radici e disse «è difficile dialogare con lei.
Da quando siamo qui mi sto costringendo a seguire il
senso dei suoi motti di spirito. Ma non ve ne trovo
alcuno.»
«E’ difficile anche per me. Non sono abituato a lavorare
con chi si arroga il diritto di prendere decisioni anche per
gli altri.»
«Lei ha sempre avuto l’abitudine, in qualità di primo
ufficiale, di discutere gli ordini del suo capitano?»
domandò Vovelek.
184
«Quando l’ho ritenuto giusto, l’ho fatto. Ma questo non
cambia le cose,» e qui Will fece una pausa, pronto a
ricordare a Vovelek la loro parità di grado «lei non è il
mio capitano.»
«Questo corrisponde a verità. Ma sono l’ufficiale più
anziano e il regolamento della Flotta conferisce a me il
comando.»
Riker rimase in silenzio qualche istante, meditando la
risposta.
«Lei è più anziano solamente perché è vulcaniano. Quello
che contano sono gli anni di effettivo servizio. E i miei
sono più dei suoi.» Vovelek era entrato nella Flotta
soltanto da nove anni. Anche se in un lasso di tempo così
breve, già aveva raggiunto il grado di comandante.
«Non mi pare che il regolamento della Flotta parli di
anzianità di servizio» chiuse subito la questione Vovelek.
«Un errore nel regolamento. Non trova?» continuò
sarcastico Riker «La logica suggerirebbe di dare priorità
all’anzianità di servizio.»
«E’ evidente che tale sezione del regolamento non è stato
scritta da vulcaniani.»
«E’ evidente!» ridacchiò Riker «Se il regolamento fosse
stato scritto interamente da vulcaniani, come primo
articolo avremmo il divieto assoluto ed imperativo per gli
umani, di fare parte della Flotta Stellare!»
Vovelek rimase impassibile e poi aggiunse:
«Se mai riusciremo a lasciare questo pianeta, mi
ricorderò di proporlo alla Commissione Regolamenti
della Flotta.»
Riker rimase di stucco. Vovelek stava dicendo sul serio, o
stava assistendo ad una nuova nascita, il parto di un
primo abbozzo di vero, sano autentico umorismo
vulcaniano?
Era troppo stanco per trovare una risposta. Si accucciò sul
giaciglio di fortuna che si era costruito e chiuse gli occhi,
185
attendendo che il sonno e magari un bel sogno, venissero
a portarlo via.
Più di un migliaio di droni si stavano lentamente
muovendo verso di loro, scavalcando il parapetto che
separava le tribune dall’arena.
In alcuni punti, causa la pressione esercitata dalla massa
dei droni, lo sbarramento ligneo cedette di schianto.
Ben presto sarebbero stati circondati e li avrebbero avuti
addosso. Erano troppi per poter sperare di batterli, prima
o poi uno di loro sarebbe riuscito ad iniettare nelle loro
carni le temibili nanosonde che danno l’avvio al processo
di assimilazione e non ci sarebbe stato più scampo.
Worf e Geordi si misero con le spalle contrapposte e le
rispettive bat’leth pronte a colpire.
«Q! E questi sarebbero i piccoli dettagli? Un mucchio di
piccoli dettagli!» urlò in direzione della balconata Geordi.
Q, sinceramente costernato ed assolutamente impotente,
non ebbe la forza di replicare. Inebetito si lasciò cadere
mollemente sulla poltrona d’onore, certo ormai della
sconfitta. Nemmeno il seppur valoroso Worf avrebbe
potuto abbattere tutti quei droni. Non tutti insieme.
Poggiò il capo ad una mano e chiuse gli occhi,
augurandosi che lo strazio durasse il meno possibile.
Il suo allievo, invece era ancora più eccitato. Affascinato
dallo spettacolo si era spostato dalla balconata ad un
punto imprecisato sopra le teste dei due umanoidi,
sospeso nell’aria.
«Che facciamo? Sono troppi per noi!» gridò Geordi.
«Combattiamo! Fino alla morte! Moriremo con onore!»
gli rispose un infervorato Worf, che vedeva avverarsi uno
dei suoi sogni di morte proibiti. Affrontare da solo
un’orda di nemici a colpi di bat’leth.
186
«Bella prospettiva! Non è che avresti una soluzione
alternativa? Io non ci tengo così tanto a crepare!»
«Non c’è alternativa migliore di morire in battaglia!»
«Fantastico. Oggi avrei fatto meglio a restarmene nel mio
alloggio!» ironizzò amaramente Geordi.
Ma Worf già non lo stava più ascoltando. Facendo roteare
la lama della sua bat’leth da sinistra verso destra fendeva
l’aria pronto a colpire i droni che ormai erano a pochi
metri da loro.
Da quando era iniziata l’invasione, Worf non aveva
aspettato altro che un momento come questo. Vendicare
finalmente tutte quelle morti innocenti, assimilate al
collettivo Borg. Vendicare la distruzione dell’unica
istituzione in cui avesse mai veramente creduto: la
Federazione Unita dei Pianeti. Vendicare il saccheggio
che i Borg stavano compiendo a danno dei pianeti natali
delle razze principali che un tempo componevano lo
scacchiere politico del quadrante Alfa tra cui il suo amato
Impero Klingon. Vendicare la fine dell’universo così
come, fino ad allora, lui l’aveva conosciuto. Conscio che
mai più sarebbe stato come prima. Sentiva dentro di sé
una rabbia ed un desiderio di vendetta tale da sentirsi
pronto ad affrontare tutti i Borg della Galassia uno ad
uno. «Ci sono addosso!» urlò Geordi preparandosi a
colpire.
Worf si scagliò in preda ad una furia cieca contro la
massa informe di carni assimilate e congegni
biomeccanici che gli sbarravano la strada, affondando
con tutta la sue energia le lame acuminate della sua
bat’leth in tutto ciò che incontrò sulla sua strada. Parti di
droni si staccarono di netto dal corpo del loro
proprietario, volando in aria, seguite da fiotti di quello
che poteva essere definito come il sangue dei Borg,
ovvero una specie di linfa vitale di colore grigiastro.
Continuò a colpire senza badare troppo né al bersaglio, né
187
alla sorte di esso. Doveva solo fare attenzione a tenerli
alla debita distanza, evitando di entrare in contatto con i
loro pericolosi uncini, da cui sarebbero fuoriuscite le
nanosonde programmate per l’assimilazione.
Ben presto si rese conto che stava faticando a reggersi in
piedi, a causa dei droni caduti a terra che occupavano
ormai buona parte della porzione di arena che era riuscito
a guadagnarsi. In più, il fondo era diventato
estremamente scivoloso a causa delle fuoriuscite copiose
di liquido vitale borg. Fu quindi costretto ad arretrare
lentamente cercando con le spalle e con la coda
dell’occhio Geordi.
Lo sapeva dietro di se a coprirgli le spalle. O almeno cosi
credeva.
Ma si rese conto presto di essere stato completamente
circondato dai numerosi droni, che minacciosi
continuavano a tendere i loro biomeccanismi contro di
lui.
- Dov’è finito Geordi? - Riuscì a trovare il tempo di
domandarsi il klingon. Senza smettere di colpire tutto ciò
che si avvicinava nel suo raggio d’azione, Worf cominciò
a roteare su se stesso, cercando, oltre la massa di droni
che gli si parava davanti, di individuare il suo compagno.
«Geordi! Geordi!» urlò, sperando di udire una risposta.
Ma non ne arrivò alcuna e di conseguenza continuò a
sferrare pesantissimi e mortali fendenti, tentando di
mantenere una posizione relativamente sicura, nel mezzo
di quella confusa concitazione.
Geordi era caduto? Assimilato? Worf decise che doveva
trovarlo ed aiutarlo.
Sicuramente meno forte ed allenato di lui, l’umano stava
sicuramente avendo delle difficoltà a maneggiare l’antica
ma pesante arma klingon.
«Geordi! Dove sei!» urlò ancora Worf ansimante per lo
sforzo, che stava cominciando ad intaccare le sue energie.
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Una debole risposta emerse dalla confusione.
«Worf! Aiutami! Worf!»
Il klingon, come una furia, mise da parte la stanchezza e
si lanciò in direzione di quel disperato grido d’aiuto e
come un esploratore si apre la strada nella foresta a colpi
di machete, così lui si fece strada fra i droni Borg,
sferrando violentissimi colpi e squarciando decine di
corpi.
Finalmente riuscì a scorgere Geordi, in evidente affanno,
sfinito dalla battaglia corpo a corpo. Ma era ancora
troppo lontano e troppi borg si frapponevano fra lui e il
suo compagno. E per quanti ne abbattesse, altri ancora
venivano a sostituire le perdite ed il muro informe di
droni, pareva essere diventato insuperabile.
Worf, pur continuando a difendersi, continuava a tenere
d’occhio il compagno, sempre più al limite delle sue
forze, tentare di proteggersi dalla minaccia. Ma la sua
tecnica di combattimento con la bat’leth era
assolutamente inefficace. Si limitava ad usarla come se
fosse stata un bastone o una semplice spada. Così i suoi
colpi ottenevano solo l’effetto di stancarlo senza però
riuscire a ferire mortalmente i droni.
«Worf!» gridò ancora Geordi. E Worf, a pochi metri da
lui, ma incapace di raggiungerlo, percepì tutta la
disperazione del suo compagno. E comprese che non ce
l’avrebbe fatta.
Geordi, esausto lasciò cadere la bat’leth a terra. Rimase
in piedi, inebetito ad osservare i droni che gli si
avvicinavano, fino a che uno di loro non lo afferrò
saldamente per il collo e sollevandolo da terra gli infilò
sotto la pelle del collo un dispositivo addetto alle
operazioni di assimilazione. Geordi ebbe la forza di
rivolgere un ultimo sguardo al compagno, prima di essere
assalito dalle convulsioni provocate dal processo di
assimilazione.
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«Geordi!» urlò Worf, impotente spettatore e come
conseguenza dell’assimilazione del suo compagno,
aumentarono in lui la rabbia e la determinazione.
Intonò un antica canzone di guerra klingon per infondersi
coraggio e con la forza di cento guerrieri e la rabbia di
una vita intera, si gettò sui droni Borg in preda alla furia
più cieca.
Ma erano ancora centinaia e spingevano uno sull’altro,
privi di una coscienza individuale, privi di paura o di
pietà, come automi governati da un’unica mente, con
l’unico scopo, l’unico di tutta una razza, di aggiungere le
peculiarità di Worf a quelle del Collettivo.
Dopo quasi un’ora a Worf cominciarono a mancare le
forze e i droni si fecero sempre più vicini. Non aveva
nemmeno più il fiato per urlare, stava centellinando gli
sforzi, conscio di essere vicino al limite. L’arena si era
trasformata in una pozzanghera di linfa borg e non ci si
poteva più muovere liberamente, senza inciampare in
qualche corpo mutilato dalle lame di Worf.
«Ma non finiscono mai!» imprecò Worf, il cui valoroso
cuore, stava cominciando a cedere alla desolazione.
Vicini, sempre più vicini. Troppo.
Il klingon avvertì un pizzico ad un avambraccio. Si voltò
di scatto, facendo a pezzi il drone responsabile. Ma un
istante dopo percepì dentro di sé una forza estranea, che
si stava insinuando fra i sui visceri. Strinse i denti e
continuò a combattere.
Dopo aver sferrato pochi colpi ancora, privi di forza, il
suo corpo fu scosso da violente contrazioni e la bat’leth
gli sfuggì di mano. Tentò di raccoglierla, ma finì con lo
sbilanciarsi ed il cadere a terra. E i droni gli furono
addosso a decine.
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CAPITOLO 20
Q era rimasto solo.
Le palpebre serrate e il capo poggiato ad una mano,
incapace di sostenersi.
Con la mano rimasta libera, giocherellava con il bordo
vellutato del manto di antica tessitura klingon.
Nell’arena regnava un silenzio spettrale, rotto qua e la dal
fremito di alcuni meccanismi, ormai privi del controllo
del collettivo.
A terra giacevano decine e decine di droni, privi di vita,
pesantemente mutilati dai colpi della bat’leth di Worf, in
parte affondati nell’impasto formatosi dall’unione della
sabbia e il loro stesso fluido corporeo. I loro occhi erano
vitrei, spenti, persi nel nulla. I servomeccanismi privi di
energia e controllo emettevano flebili scariche, là dove le
lame avevano causato dei corto circuito.
Le tribune, prive di spettatori, facevano da contorno a
quel macello e parevano partecipare alla desolazione,
nascondendosi nell’ombra che l’antico palazzo di pietra,
gettava su di loro. La giornata era al termine su Qo’Nos.
Un altro giorno in cui una piccola parte del pianeta era
stata privata di vita dagli impianti Borg. E l’acre odore
dell’ammoniaca, prodotta da essi, invadeva lentamente la
già povera atmosfera, sostituendosi all’ossigeno.
Pochi mesi ancora e del pianeta natale di una delle forme
di vita più gloriose e forti dell’Universo, non sarebbe
rimasto che un pallido ricordo.
Sempre che fosse rimasto ancora qualcuno per ricordare.
Q scosse il capo lentamente.
Poi aprì gli occhi e rimase ad osservare, per la centesima
volta, quanto si presentava davanti a lui. E per la
centesima volta soffermò la sua attenzione sui corpi privi
191
di vita del capo ingegnere dell’Enterprise, Geordi La
Forge e sul klingon Worf.
Entrambi giacevano a terra, confusi fra gli altri droni.
Le uniformi stracciate ed intrise di fluido, i corpi contorti
in un ultimo spasmo disperato, nell’inutile tentativo di
contrastare il rapido operato delle nanosonde. La loro
pelle, normalmente dalla pigmentazione scura, ora
appariva grigiastra e sul volto erano comparsi i segni di
un inizio di assimilazione. Meccanismi che dall’interno si
erano aperti un varco, fuoriuscendo a ridosso della cute,
come fiori in un prato.
E a Q si strinse, per la centesima volta, lo stomaco.
Avrebbe potuto far svanire quell’orribile sensazione di
nausea all’istante, abbandonando la forma umana e
magari trasformandosi in un uccello. Che lo potesse, con
ampi colpi d’ala, portare via di li. Ma qualcosa che si
avvicinava pericolosamente al senso di colpa, alla
vergogna ed al desiderio di punirsi per quanto era
accaduto, gli impediva di agire.
Per la prima volta, da quando la sua infinita sfida era
iniziata, si rese conto di avere paura di perderla. Per
millenni aveva giocato le sue carte, libero di fare appello
a tutte le sue capacità ed era sempre riuscito a contrastare
le mosse del suo avversario, a volte con superbe trovate,
altre volte con miseri trucchetti. Neppure per un istante,
era sorto in lui il benché minimo dubbio relativamente a
quello che sarebbe stato l’esito finale. Si rese conto che
mai in vita sua, e la sua era stata una vita lunga visto che
non ricordava che avesse mai avuto un inizio, aveva
provato vera paura. Nemmeno quando, per un breve
periodo, il Q-Continuum lo aveva privato delle sue
capacità superiori, relegandolo stabilmente alla forma
umana.
Anche in quell’occasione funesta, era sostenuto
dall’assoluta convinzione che in nessun caso, il Q192
Continuum l’avrebbe veramente lasciato in quelle misere
condizioni di umano mortale, per più di qualche giorno
terrestre.
E soprattutto, per la prima volta, si trovò realmente a
dipendere da qualcuno che non fosse il proprio capriccio.
Tutte le sue possibilità erano riposte nella terza ed ultima
prova. Tutto sarebbe dipeso dall’esito di quella che era la
più complessa e difficile di tutte. La Prova della
Conoscenza, così era chiamata e mai fino ad allora era
stata disputata da alcun essere vivente. Tanto che
nemmeno Q ne conosceva tutti i dettagli
approfonditamente. Solo il Consiglio del Q-Continuum
deteneva il segreto dell’ultima prova. E questo non
faceva che aumentare la sua incertezza.
Che ironia! Concluse dentro se quasi divertito. Il grande
Q in balia del Caos. Costretto ad affidarsi alle misere
capacità di un altrettanto misero essere vivente. Un
limitato, fragile, sciocco umano di nome Jean-Luc Picard.
E del suo amico androide Data, macchina imperfetta,
creata da esseri ancora più imperfetti con la sua
programmazione distorta, che lo aveva sempre spinto
verso la ricerca dell’umanità, ne erano la prova lampante.
Dove sarebbe finito l’Universo di questo passo, si
domandò facendo appello a tutta la sua arroganza.
Ma subito si pentì dei suoi pensieri e si sentì meschino ed
irriconoscente, vero gli ufficiali dell’Enterprise che erano
morti nel tentativo, in fondo, di aiutare anche lui.
Riaprì nuovamente gli occhi.
I corpi martoriati di Geordi e Worf erano ancora al loro
posto, immobili, con gli sguardi persi nel nulla. Provò
sincera ammirazione per come si erano battuti, per il
coraggio e la determinazione, anche di fronte ad un
nemico soverchiante.
E invidia. Sottile, pungente ma innegabile invidia, per
quel qualcosa di indefinibile che era insito in tutte le
193
specie di umanoidi della galassia, che fin dagli albori
delle loro specie, sparse su decine di pianeti, lo aveva
affascinato, portandolo a seguire, man mano nel corso di
milioni di anni, sempre più da vicino, l’evolversi delle
loro civiltà.
All’inizio si era limitato all’osservazione pura e semplice.
Ma poi, mano a mano che l’evoluzione procedeva, sentì il
bisogno di confrontarsi con loro, più e più volte,
mettendoli alla prova di fronte a fenomeni ignoti,
cercando di costringerli a situazioni estreme, nel sempre
più disperato tentativo di cogliere quel particolare che
ancora a tutt’oggi non sapeva di preciso definire.
Fino a che non aveva incontrato, per puro caso,
l’Enterprise, nei pressi di Farpoint. E il suo capitano.
Aveva compreso più sugli umani nei pochi incontri con il
capitano dell’Enterprise che in millenni di osservazioni.
Quell’uomo pareva essere la raffigurazione vivente di
quell’inafferrabile quid, portatore sano del virus
dell’umanità. Forse l’unico che avrebbe mai potuto
svelargli il segreto che era divenuto ormai ossessione
vera e propria.
Il sole era ormai praticamente tramontato e le ombre
dell’antico palazzo di K’tal D’ar Nek si erano
impossessate dell’arena, delle sue tribune, del palco
d’onore e delle anime di tutti coloro, che nei secoli erano
periti in formidabili duelli, per il divertimento di re e
regine klingon.
Quello che si era svolto oggi, concluse Q, era stato
l’ultimo duello che quell’arena avrebbe mai più visto.
Forse il più glorioso di tutti, ma che, purtroppo, si era
concluso con la vittoria dei Borg. Pessimo presagio.
Le prime stelle apparvero nel cielo sempre più scuro di
Qo’Nos e Q si perse ad osservarle, attendendo di trovare
la forza di raccogliere i corpi di Worf e Geordi e di
portarli a Picard.
194
E in lontananza il ritmico pulsare degli impianti
produttivi Borg, a ricordare che presto, quel cielo stellato,
sarebbe stato coperto da nubi di metano ed ammoniaca.
Quando Riker si svegliò, i primi raggi del sole, facevano
capolino oltre le dune più lontane ad annunciare
l’imminenza di un nuovo giorno. Era solo.
Vovelek doveva già essersi alzato e ora era sicuramente
da qualche parte nell’oasi, alla ricerca delle sue radici.
Stava perdendo colpi, se un dannato vulcaniano riusciva
ad allontanarsi senza che lui se ne accorgesse. Si
ripromise, per i giorni successivi, di non permettersi più
una simile leggerezza. Il sonno pesante era riservato ai
periodi di pace.
La pace. Un termine che per Riker pareva aver perso ogni
significato, dopo avere visto gli orrori di una guerra
contro un nemico che non si può sconfiggere.
Il fuoco era ormai limitato a poche braci e se non si fosse
sbrigato ad aggiungere qualche pezzo di legno, si sarebbe
spento inesorabilmente.
Will si preoccupò che ciò non avvenisse, dopodiché si
recò presso il piccolo stagno, presente al centro esatto
dell’oasi, ove si rinfrescò rapidamente.
Una semplice operazione, come lavarsi il viso, diventava
piuttosto complessa qualora si fosse stati dotati di un
braccio solamente.
Rimase qualche istante ad osservare la porzione di cielo,
azzurro come quello delle favole, che si poteva
intravedere attraverso il fitto fogliame della vegetazione
dell’oasi. Ogni tanto lo faceva. Rivolgeva lo sguardo
verso l’alto, sperando di intravedere la sagoma di una
navetta della Flotta, venuta in loro soccorso. Ma
purtroppo ogni logica era contro tale speranza.
Se la squadra di navi che aveva il compito di dirottare i
cubi Borg, attirando la loro attenzione, aveva avuto
195
successo, ora stava riunendosi al gruppo principale. Se
invece la missione era fallita, erano sicuramente stati
spazzati via. E ora Picard e L’Enterprise se la stavano
vedendo con la piccola ma invincibile flotta Borg. Di
sicuro non avrebbero perso del tempo prezioso alla
ricerca dei possibili superstiti della Uss Pioneer.
Tornò ad abbassare lo sguardo, cercando di scacciare
anche i pensieri più tristi. Aveva un compito da svolgere
e anche se non era di grande impegno, lo avrebbe svolto
al massimo. D’altronde non aveva altro da fare di meglio.
Si recò nella zona in cui Vovelek gli aveva indicato la
presenza di un arbusto oramai privo di vita, che si
prestava a fornire una piccola riserva di legna da ardere,
che li avrebbe scaldati per la notte seguente.
Prese la piccola accetta pieghevole che era parte della
dotazione d’emergenza della capsula e si incamminò,
verso il limite della vegetazione.
Durante il breve tragitto si guardò intorno alla ricerca di
Vovelek, ma evidentemente era in un punto distante.
Riker se lo immaginò chinato a terra intento a scavare
piccole buche nella sabbia umida, alla ricerca di radici e
piccoli lombrichi. Ed ad assaggiarli, cercando con il solo
aiuto del gusto, di comprendere quali sostanze nutritive
potessero fornire. Lui preferiva spaccare legna, come
spesso aveva fatto da ragazzo, in Alaska, quando suo
padre Kyle lo mandava nei boschi, durante le brevissime
estati artiche, a fare abbondante scorta per l’inverno, che
invece sarebbe stato molto lungo e gelido. Riker
rammentò l’assurda mania del padre, di scaldare la casa
in cui vivevano, principalmente con l’uso di combustibili
naturali. Tutte le altre famiglie facevano largo uso dei
normali generatori per uso domestico, concedendosi la
comodità di una casa calda anche quando le condizioni
atmosferiche erano critiche, come a volte capitava in
Alaska, dove tormente di neve potevano durare anche una
196
settimana. Invece, a casa Riker, lui e suo padre vivevano
soli, facendo uso di quanta meno tecnologia possibile. Se
sua madre non fosse morta così presto, forse avrebbe
impedito a suo padre di sottoporre anche il piccolo
William a certe privazioni. Ricordava ancora le notti
passate sotto uno strato di spesse coperte di lana locale,
con la pelle del viso che si screpolava per il freddo
intenso, che il seppur grande camino e le stufe, di cui era
dotata l’abitazione, non riuscivano a mitigare
sufficientemente.
Non era insolito, il mattino, trovare dei piccoli e
luminescenti ghiaccioli, pendere dai serramenti in
alluminio.
A scuola era spesso deriso dai compagni di classe, che lo
consideravano alla stregua di un abitante delle foreste,
ovvero di quelle tribù di razza mongola che da millenni
abitavano l’Alaska e le terre del Canada settentrionale,
rifiutando la tecnologia, avendo scelto di preservare le
loro antiche tradizioni nonché di sopravvivere facendo
appello solamente alle risorse della natura.
Ogni volta, che il piccolo William si era lamentato della
loro condizione, Kyle lo aveva rimproverato per la sua
debolezza, mostrandosi deluso per la sua incapacità di
essere al suo livello, che invece amava quelle condizioni
così dure, in un’epoca di comodità tecnologiche.
Tutto questo non aveva fatto altro che acuire l’odio di
William verso il padre, oltre alle decine di incontri di
anbo-jytsu da cui era uscito sempre sconfitto. E ci
sarebbero voluti anni, prima che i due tornassero a parlare
e capirsi.
Suo padre ora era morto. La colonia su cui si era stabilito,
cessato il suo incarico di consigliere civile, era stata
distrutta dai Borg, due mesi prima. Ora, probabilmente,
era stato ridotto allo stato di misero drone senza
197
coscienza, oppure, se era stato più fortunato, era stato
semplicemente ucciso. Così sperava Riker.
Si rammaricò di non essere mai andato a trovarlo,
nonostante Kyle lo avesse invitato più volte. Ora era
troppo tardi e restava in lui una profonda amarezza, per
tutto quell’amore che non aveva ricevuto e che non aveva
saputo dare.
Raggiunse il bordo ultimo dell’oasi, la dove la
vegetazione, da fitta e lussureggiante, come se fosse stata
tagliata da un invisibile coltello, si diradava bruscamente,
lasciando spazio solo alla sabbia del deserto ed alle
mutevoli dune.
L’arbusto rinsecchito era li, che lo guardava, attendendo
di essere fatto a piccoli pezzi, facili da trasportare.
Riker si mise di buona lena, ma potendo fare affidamento
solo su un braccio, si trovò in difficoltà nell’affondare i
colpi d’accetta, tanto che dovette interrompere
l’operazione per studiare un metodo più efficace. Si
dovette aiutare con le gambe e riuscì lentamente ad
incidere la dura corteccia.
Dopo un paio d’ore aveva ridotto l’arbusto in piccoli
pezzi, lasciando nella sabbia un moncherino a ricordo di
quello che era stato, in un recente passato, un piccolo
albero.
Era intento a legare i piccoli ciocchi di legno con della
corda, anch’essa parte del kit di sopravvivenza, quando
con la coda dell’occhio vide il cielo striarsi di bianco e
subito seguì un rumore simile ad un sibilo.
Si voltò di scatto e vide una netta scia biancastra segnare
l’azzurro e puntare verso il basso, fino a scomparire
addietro le dune.
Era il segno evidente degli scarichi di un mezzo di
trasporto d’aria, che era rapidamente atterrato poco
distante.
198
Purtroppo non aveva potuto identificare il tipo di
velivolo, ma non si perse d’animo. Lasciò perdere le
fascine di legna e cominciò a correre verso il centro
dell’oasi, verso il campo di fortuna, per recuperare il
comunicatore d’emergenza, che avrebbe segnalato la loro
presenza, nel caso in cui si fosse tratta di una squadra di
soccorso sulle loro tracce.
Stava correndo a perdifiato, quando dal fogliame fece la
sua apparizione improvvisa Vovelek, spaventando Riker
che si arrestò di colpo.
«Una navetta! Laggiù dietro le dune!» balbettò
ansimando per lo sforzo l’umano.
«Ho visto. Mi stavo recando a prendere il comunicatore
d’emergenza» disse Vovelek, senza lasciar trasparire
nessuna reazione per l’arrivo dei soccorsi.
Riker annuì e riprese il cammino superando il vulcaniano.
Raggiunse per primo il campo e mise a soqquadro il kit
d’emergenza alla frenetica ricerca del comunicatore. Lo
accese, e sul piccolo display si accese un punto rosso.
La loro posizione. Pochi secondi dopo un punto blu,
comparve a poca distanza. E il segnale fu riconosciuto
come un transponder della Flotta. Era una navetta della
Flotta, non vi erano dubbi.
Il cuore di William si riempì di speranza. Contro ogni
aspettativa erano tornati indietro a recuperarli. Quindi la
missione era riuscita e le navi Borg erano state seminate.
Prese con sé solo due borracce ricolme d’acqua e tornò
sui suoi passi. Vovelek lo attendeva ai margini della
vegetazione e stava osservando la scia di vapore,
dissolversi lentamente nell’aria.
«Sono a circa cinquecento metri da qui, oltre quella
duna!» disse Riker in preda ad una comprensibile
eccitazione, indicando con l’indice la cima della duna e
poi il comunicatore.
199
«Ecco, ho preso due borracce. Andiamogli incontro»
concluse porgendone una al vulcaniano, il quale l’accettò
senza opporre resistenza.
Riker iniziò a camminare speditamente, cercando di non
lasciar affondare gli stivali nella sabbia e in pochi minuti
divorò la distanza che lo separava dalla cima della duna,
da cui poté finalmente vedere la sagoma familiare di una
delle capsule di emergenza della Pioneer. Altri
sopravvissuti forse.
Era atterrata regolarmente, a differenza della loro che era
andata in avaria, schiantandosi al suolo, e pareva
perfettamente funzionante. Con quella, pensò Riker,
avrebbero potuto riguadagnare l’orbita, se non altro, ed
inviare un messaggio subspaziale alla flotta. Forse
qualcuno sarebbe tornato a riprenderli.
Vovelek era dietro di lui, quando Will cominciò a
discendere il pendio scosceso della duna, sempre in preda
ad una grande frenesia. Arrivò per primo e rimase ad
osservare l’esterno della capsula. Le insegne erano
proprio quelle della Pioneer. Non vi erano dubbi, si
trattava di altri superstiti del vascello, che probabilmente
avevano ricercato i loro segni vitali.
«Siamo salvi!» esclamò soddisfatto.
200
CAPITOLO 21
«Capitano! Venga a vedere. Credo che Q stia facendo
ritorno.»
Picard sollevò il capo, poggiato contro il palmo delle
mani e rivolse lo sguardo verso l’androide.
Data stava in piedi, in mezzo alla strada asfaltata, proprio
sulla linea di mezzeria e scrutava l’orizzonte.
Picard si alzò in piedi. Sentì le ossa della schiena
reclamare il loro tributo di dolore. L’essere rimasto
chinato a terra per un paio d’ore, scavando a mani nude
due misere fosse per le sfortunate ufficiali
dell’Enterprise, lo aveva parecchio fiaccato. Era
fortemente disidratato e da parecchie ore non beveva un
goccio di liquido potabile. Cominciava a sentirsi vicino al
limite fisico di sopportazione.
Rimanere a riposare all’ombra, seduto sul fresco marmo,
aveva solo peggiorato la condizione delle sue ossa.
Ma nonostante tutto, si mise in piedi di scatto, si sistemò,
come suo solito, l’uniforme impolverata, e si diresse
verso Data.
Quando gli giunse a fianco, poté scorgere anch’egli la
nuvola di polvere sollevata dal pesante automezzo
militare guidato da Q.
«Sta tornando indietro» commentò il capitano.
«La Seconda Prova è terminata» aggiunse Data.
«A quanto pare si. Tra poco ne conosceremo anche
l’esito» concluse Picard, poggiando la mano alla fronte
per proteggersi dall’accecante luce solare.
Rimasero entrambi li ad attendere che il minuscolo
puntino comparso all’orizzonte, assumesse le dimensioni
di un autocarro e infine furono costretti a scansarsi,
tornando sul ciglio della strada, per non essere investiti.
201
Picard sentì un brivido percorrergli la schiena, ripensando
a poche ore prima, quando la stessa scena si era svolta per
la prima volta ed alle tragiche conseguenze di cui era
stata portatrice.
Il camion a chiazze verde militare si arrestò bruscamente,
tra il fastidioso stridere dei freni e la nuvola di sabbia che
limitò la visibilità per qualche secondo. Tanto che Picard
non vide Q smontare dalla cabina.
Tossendo seccamente a causa della polvere, Picard si
incamminò verso l’automezzo, agitando le braccia, nel
vano tentativo di allontanare la nube sabbiosa.
E come un fantasma in mezzo alla nebbia, gli comparve
dinanzi Q.
Abbigliato come un klingon, ma non un klingon
moderno, quanto piuttosto un antico guerriero, con una
armatura possente e lucida.
E un grande mantello nero a coprire le spalle.
«Q!» esclamò Picard, arrestandosi di colpo, spaventato
dall’inattesa apparizione.
«Jean-Luc…» gli rispose Q.
I due rimasero a fissarsi per qualche istante. Picard aveva
un solo ed unico pensiero per la testa: la sorte di Worf e
di Geordi. Il fatto che nessuno dei due avesse ancora fatto
la sua comparsa, costituiva un indizio di sciagura
imminente. E soprattutto lo sguardo di Q era quanto mai
eloquente.
Si poteva chiaramente intravedere una sincera
prostrazione, un cupo dolore che lo stava lacerando
internamente. L’espressione del viso di Picard mutò
lentamente, la commozione prese il sopravvento, e i suoi
occhi si inumidirono, riuscendo però a trattenere ogni
lacrima. Avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto
disperarsi, ma cercò di trattenersi, evitando di dare una
qualsiasi tipo di soddisfazione a Q.
202
«Dove sono Worf e Geordi?» domandò con la voce che
tremava, rotta dall’emozione.
Q non rispose. Rimase in piedi senza aprire bocca,
mentre la sabbia sollevata dal passaggio del camion,
lentamente tornava a posarsi.
«Capitano» si intromise Data, che nel frattempo si era
portato verso la parte posteriore dell’automezzo militare.
«Mi dica signor Data» rispose Picard, senza togliere gli
occhi da Q.
«Nel retro, ci sono altri due sacchi neri.»
A quelle parole, il cuore di Picard fu sul punto di
scoppiare per il dolore e la rabbia repressa in mesi e mesi
di battaglie sanguinose e di morti innocenti. Si scagliò
contro Q con tutta la sua forza, stringendogli le mani al
collo e scaraventandolo a terra. Q non reagì e cadde
pesantemente, senza nemmeno provare ad attutire la
caduta.
«Maledetto! Li hai ammazzati! Hai ammazzato anche
loro!» urlò rabbiosamente Picard, i cui occhi erano
iniettati di sangue, senza mollare la presa dal collo
dell’essere che considerava la causa di tanto dolore.
Data accorse rapidamente e afferrò il capitano per un
braccio con una tale forza che Picard dovette mollare la
presa a causa del dolore non sopportabile.
«Capitano! Capitano!» esclamò l’androide, tirando a se
Picard.
Dovendo cedere alla maggior forza fisica di Data, Picard
rilasciò i muscoli delle braccia e non oppose più alcuna
resistenza, come se la rabbia si fosse esaurita e si rimise
in posizione eretta. Si sistemò nuovamente l’uniforme e
rimase silenzioso ad osservare Q, che stava a terra e
tossiva violentemente a causa della presa del capitano.
«Mi spiace Jean-Luc! Mi spiace!» balbettò Q, tossendo
ripetutamente «Ho fatto il possibile per aiutarli, te lo
posso giurare! Non volevo che finisse in questo modo.»
203
Le giustificazioni di Q non ebbero alcun effetto su Picard,
che continuava a restare immobile, con gli occhi puntati
sul superessere.
«Ma non tutto è perduto Jean-Luc!» riprese Q,
mettendosi a busto eretto «C’è ancora la Terza Prova! Ed
è quella decisiva! Il fatto che abbiamo perduto le prime
due non significa che siamo spacciati. Il Q-Continuum
valuterà con maggiore attenzione proprio quest’ultima
prova e sono certo che questa volta vinceremo!»
«Vinceremo?» lo interruppe Picard «Che tu perda o
vinca, continuerai la tua esistenza eterna e beata. Ma noi
abbiamo una sola occasione. E a causa tua Geordi e Worf
hanno sprecato la loro.»
«Non l’hanno sprecata! Hanno combattuto fino alla fine!
Avresti dovuto vederli! Saresti stato orgoglioso di loro
Jean-Luc!» reagì Q.
«E lo sono. Lo sono sempre stato. E avrei continuato ad
esserlo per molto altro tempo se tu non fossi piombato
nelle nostre vite!»
Picard sentì di odiare profondamente Q e tutta la sua
razza. I loro poteri illimitati li avevano resi incapaci di
comprendere il vero valore della vita. Di ogni singola
vita.
Lasciò Q seduto a terra e si liberò della presa di Data che
ancora lo tratteneva. Si diresse verso il retro del furgone
militare, la cui sponda era stata abbassata
precedentemente dall’androide.
Con un balzo salì sul cassone telonato e si chinò sui due
sacchi neri, con la cerniera longitudinale, per tutto
identici a quelli in cui, precedentemente, Q aveva loro
restituito i copri di Deanna e Beverly. Con un gesto
brusco fece scorrere per pochi centimetri la cerniera del
primo sacco.
Un volto, orribilmente deturpato dagli impianti Borg fu
rischiarato dalla luce riflessa.
204
«Geordi» sussurrò Picard, risollevando lentamente la
cerniera.
Passò al secondo involucro, dove constatò la presenza del
corpo senza vita del klingon Worf, anch’esso deturpato
dalle nanosonde di fabbricazione Borg.
«Addio amici miei» si limitò a dire, richiudendo anche
l’ultima cerniera.
Con un balzo ridiscese dal mezzo e lentamente tornò
verso Data e Q, che nel frattempo si era rimesso in piedi.
Picard ora si sentiva furioso e al contempo determinato a
concludere quella che ora non era altro che un’immensa
farsa. Sentiva di avere la forza di affrontare l’Universo
intero, in nome dell’affetto e dell’amicizia che lo
legavano ai compagni, morti nel tentativo di dare
all’umanità una speranza di sopravvivenza.
Affrontò Q con durezza fissandolo dritto negli occhi
esclamò:
«In cosa consiste la Terza Prova?»
Q, si rallegrò vedendo tanta determinazione in Picard e
gonfiandosi il petto rispose:
«La Prova della Conoscenza.»
Picard e Data si guardarono preoccupati.
La capsula di salvataggio della Pioneer era davanti a lui, i
condotti di scarico dei razzi di manovra fumavano
ancora, il suo scafo era striato di grigio, nei punti in cui
l’attrito dell’atmosfera aveva intaccato il bianco
rivestimento in duranio.
In perfetto stato, apparentemente, era atterrata senza
danni, poggiata su tre piedi metallici, praticamente
scomparsi sotto le sabbie del deserto.
Mentre Riker osservava estasiato quella che si poteva
definire come una visione, Vovelek lo raggiunse alle
spalle.
205
«E’ la capsula numero quattro. Ponte dodici, vicino alla
sala macchine. Dovrebbe essere stata utilizzata dagli
ingegneri. Verifichiamo le condizioni degli occupanti.»
«Deve essere rimasta in orbita per almeno tre giorni»
disse Riker voltandosi verso il vulcaniano. Sul suo viso
era stampato un largo sorriso e i suoi occhi erano carichi
di gioia. «Devono avere individuato il nostro segnale e
sono venuti a prenderci!»
«Possibile. Ma improbabile. Avrebbero avuto molte più
possibilità di salvarsi restando in orbita e di essere
intercettati da qualche nave di passaggio. Queste capsule
non hanno potenza propulsiva sufficiente per permettere
un decollo che ci porti nuovamente in orbita.» . L’analisi
di Vovelek intaccò buona parte delle speranze di
William. Ma dentro di se, Riker era convinto che se
l’equipaggio della Pioneer aveva deciso di atterrare per
recuperarli, l’aveva fatto sapendo poi, di poterli anche
riportare nello spazio. - Sono tutti ingegneri li dentro,
dannazione! - Imprecò fra sé. - Avranno sicuramente
apportato delle modifiche al sistema di propulsione della
capsula! «Forse sono incorsi in un’avaria. Comunque sempre
meglio che restare qui solo noi due no?» provò a
spiegare.
«Su questo devo assolutamente convenire con lei» fu la
laconica risposta di Vovelek.
Riker rimase senza parole ad osservare il suo compagno
di sventura, domandandosi nuovamente se il detto che i
vulcaniani sono privi di senso dell’umorismo, non fosse
che una leggenda da molo spaziale di periferia.
«Perché non aprono il portello?» domandò impaziente
Riker.
«Staranno analizzando l’ambiente circostante, prima di
avventurarsi all’esterno.»
206
«Hanno avuto tre giorni per farlo. Il sistema dei sensori
della capsula è specificatamente progettato per questo
scopo. Dubito che si siano limitati ad inviare S.O.S.»
«Sono ingegneri. Non scienziati.»
«Forse anche loro stanno avendo problemi con il
portellone di uscita. Anche il nostro era bloccato. Una
serie difettosa.» ipotizzò Riker, che non riusciva più a
stare fermo senza fare nulla.
«Opzione possibile. Esiste una maniglia per lo sblocco
d’emergenza anche all’esterno delle capsule. Ma è
attivabile solo con specifici codici di comando, al fine di
evitare pericolose e non gradite intrusioni, in caso di
atterraggio in territorio ostile» riferì il vulcaniano,
indicando un punto poco accessibile, ad un paio di metri
e poco più da terra, alla sinistra del portellone.
Raggiungerlo non sarebbe stato facile, visto che la
capsula era rialzata dal suolo di circa un metro e mezzo e
non vi erano appigli.
«E che aspettiamo allora?»
«D’accordo. Anche se la situazione è poco chiara,
secondo la mia opinione. Avrebbero dovuto seguire le
procedure standard.» commentò Vovelek.
I due si portarono verso la capsula, all’altezza del
portellone, che stava sopra le loro teste.
«Io le faccio da scala, lei si arrampichi fino a quella
maniglia. Dovrà girarla verso destra di novanta gradi.
Dopodiché dovrà inserire nella consolle che le comparirà
i codici che io le darò. E’ chiaro?» domandò Vovelek,
incrociando le dita delle mani, dando forma ad una
improvvisata scala umanoide.
Riker annuì e aggrappandosi col braccio superstite alla
nuca di Vovelek, si diede una leggera spinta con la
gamba destra, mentre con il piede sinistro fece appello
alla forza fisica e alla tenuta dell’intreccio di dita del
vulcaniano.
207
In un istante si trovò a circa trenta centimetri dalla
maniglia. Gli sarebbe bastato avere a disposizione anche
l’altro braccio e avrebbe potuto comodamente afferrarla.
Purtroppo si rese conto che se voleva ottenere il suo
scopo, avrebbe dovuto mollare l’appiglio con la mano
sinistra e restare in equilibrio per qualche secondo.
Riker esitò studiando la posizione migliore per evitare di
cadere come un sacco di patate e Vovelek si rese conto
della difficoltà che l’umano stava incontrando.
«Crede di riuscire a farcela?» domandò Vovelek.
«Naturalmente. Non sarà un braccio in meno a fermarmi.
Mi lasci cercare una posizione d’equilibrio. Sempre che
lei riesca a sopportare il mio peso ancora qualche
istante!» ironizzò William.
«I Vulcaniani possiedono una forza fisica notevolmente
superiore a quella della razza umana. Potrei sostenerla
per ore senza il minimo sforzo.»
«Non ci vorrà così tanto, si fidi» ribatté Riker, che nel
frattempo, poggiandosi con la nuca alla calda parete
metallica della capsula, era riuscito a trovare un punto di
equilibrio e lentamente a portare la mano sinistra verso la
maniglia.
«L’ho presa!» esclamò soddisfatto.
«La giri di novanta gradi. In senso orario.» lo istruì
Vovelek.
«Fatto!»
Riker sentì il ronzio di un servomeccanismo, provenire da
sopra la sua testa. Una piccola consolle dal design
tipicamente federale era comparsa a lato della maniglia.
«Mi dia i codici ora.»
Vovelek propinò a Riker una serie di dati alfanumerici
dalla lunghezza notevole. Incredibile che riuscisse a
ricordarli tutti a memoria. Su questo, realmente, i
Vulcaniani erano imbattibili.
208
La consolle, al termine della digitazione, trillò
brevemente. Riker sentì uno scatto metallico provenire da
sotto il duranio e la maniglia compì da sola un ulteriore
mezzo giro in senso orario.
E poi lo sbuffo, tipico della decompressione, informò i
due, del successo dell’operazione.
Lentamente il portello d’accesso della capsula si sollevò
dal fianco della stessa per poi arretrare verso l’interno ed
infine scorrere lateralmente fino a quando fu
completamente scomparso dietro alla parete. Una rampa
metallica pieghevole, a svolgimento automatico,
raggiunse dolcemente le sabbie di quel desertico pianeta.
Riker si aggrappò nuovamente alla nuca del compagno, e
con un balzo fu subito a terra, saldamente sulle sue
gambe.
Rimase li a fissare l’oscurità che si estendeva all’interno
della capsula, in attesa che qualche viso amichevole
venisse loro incontro.
Ma dopo una manciata di secondi fu chiaro per entrambi
che qualcosa era andato storto la dentro. Nessun segno di
vita proveniva dall’interno della capsula.
«Sono tutti morti anche loro?» domandò Riker.
«E’ un’eventualità possibile. Spiegherebbe come mai non
abbiano seguito le normali procedure»
«C’è solo un modo per scoprirlo. Entriamo.» detto questo
Riker si incamminò sopra la rampa e l’aria del deserto
risuonò dell’eco metallico dei suoi stivali.
Vovelek lo seguì subito dopo.
L’interno della capsula era nella più completa oscurità.
Nemmeno le luci di emergenza erano in funzione. Come
potevano essere atterrati senza un graffio se,
apparentemente, tutti i sistemi energetici erano fuori
linea? Si domandò Riker, poggiandosi con l’unica mano
alla parete interna e facendosi guidare da essa.
«C’è nessuno?» urlò William.
209
«Sono il comandante Riker! C’è nessuno?»
Vovelek lo raggiunse «Nessuna risposta. Dobbiamo
cercare di riattivare l’energia ausiliaria e le luci
d’emergenza.»
«C’è nessuno! Nessuno vivo li dentro?» urlò ancora
William.
«La smetta di urlare. Se qualcuno fosse cosciente le
avrebbe già chiesto di far cessare tutto questo baccano.»
lo rimproverò Vovelek, il cui udito era particolarmente
sensibile ai rumori forti
«Aspetti! Ho sentito un rumore!» esclamò Riker.
«Si. L’ho percepito anch’io» confermò Vovelek ed
entrambi fissarono un punto apparentemente qualsiasi
nell’oscurità.
Un fascio di luce rossastra tagliò il buio, terminando
contro la fronte di Riker. E poi un altro ed un altro
ancora.
«Mio Dio. Borg!» urlò Will, ma non riuscì a dire altro, la
sua gola fu saldamente afferrata dalla gelida mano di un
drone.
210
CAPITOLO 22
Percepì, nuovamente, il fetore delle carni di un drone
Borg. Un odore che non avrebbe mai più potuto
dimenticare e che risvegliò in lui emozioni di terrore.
Nonostante fosse in imminente pericolo di vita, il primo
pensiero di Riker andò ai terribili momenti della battaglia
di Kaatana, quando la grande flotta di navi del Quadrante
Alfa, respinse la prima ondata d’invasione dei Borg. Fu
una grande vittoria, ma pagata a caro prezzo, con
centinaia di migliaia di morti e la grande flotta decimata.
Era sull’Enterprise, quando i Borg riuscirono a penetrarne
gli scudi ed ad abbordarla. Il capitano Picard predispose
la difesa corpo a corpo dell’ammiraglia della Flotta
Stellare. Non avrebbe mai permesso che cadesse nelle
mani dei Borg una seconda volta, dopo quanto era
successo durante gli avvenimenti che portarono William
sulla Terra del ventunesimo secolo ad incontrare Zefram
Cochrane, inventore della propulsione a curvatura.
Con una squadra della sicurezza si recò per primo alla
sezione di Cartografia Stellare, dove una cinquantina di
droni stavano già iniziando ad installare le loro
apparecchiature, volte a prendere il controllo della nave.
Riker escogitò uno stratagemma difensivo drastico,
decidendo di sparare nello spazio tutti quei droni, a costo
di aprire una falla nello scafo.
Purtroppo i Borg in pochi istanti avevano preso il
controllo dei sistemi principali e non fu possibile
teletrasportare fuori dall’Enterprise gli intrusi, per cui
William, con il permesso del capitano, fece irruzione
nella sala di Cartografia con l’intento di piazzare una
granata che avrebbe squarciato la parete esterna della
211
sala, risucchiando i droni nello spazio e facendo a pezzi
gli eventuali superstiti.
La missione fu un successo, ma purtroppo, durante
l’irruzione, uno dei droni riuscì a colpirlo al braccio,
iniettando le nanosonde nel suo corpo.
Sentendosele risalire lungo il braccio, con un gesto di
grande coraggio prese il proprio phaser e se lo puntò
contro il gomito. Consapevole di avere solo pochi
secondi a disposizione, lasciò da parte ogni ripensamento
e sotto gli occhi esterrefatti degli altri ufficiali, si tranciò
di netto l’avambraccio. Se doveva morire, non sarebbero
stati i Borg ad ucciderlo.
Svenne immediatamente per il dolore, ma si salvò
dall’assimilazione. Quando si risvegliò si trovava
nell’infermeria dell’Enterprise e la battaglia era ormai
conclusa. E vinta. Il ricordo dell’intenso dolore provato lo
riportò alla realtà.
Una mano gelida gli stava spappolando la carotide e se
non avesse fatto qualcosa al più presto, il suo sacrificio
nella battaglia di Kaatana sarebbe stato solo un rimandare
l’inevitabile.
Tentò di opporre resistenza con la sola mano che gli
restava, ma la presa era davvero ferrea e la vista cominciò
ad annebbiarsi per la mancanza di ossigeno.
Quando fu sul punto di svenire, finalmente la mano del
drone mollò la presa e cadde a terra, staccata di netto da
un preciso colpo di phaser, sparato dal suo vulcaniano
preferito. Un braccio pari, trovò la forza di ironizzare
Riker, cercando di riprendere fiato e allo stesso tempo di
indietreggiare. E vide Vovelek, accanto a lui, con un
phaser in mano, puntato verso i droni che lentamente
avanzavano.
«Come si sente? Può farcela?» domandò Vovelek.
Riker si limitò ad annuire. La sua gola era talmente
dolorante da non riuscire nemmeno a deglutire.
212
Vovelek fece fuoco una seconda volta ed un altro drone
cadde a terra fulminato.
«Muoviamoci, presto si adatteranno!»
Riker tentò di correre, ma la vista era ancora annebbiata.
Probabilmente stava barcollando.
Sentì sotto i suoi stivali il rumore metallico della rampa,
segno che era riuscito ad imbroccare il portellone d’uscita
della capsula.
La luce abbagliante del deserto lo disorientò ancora
maggiormente e percepì chiaramente che stava cadendo.
Per un istante come una sensazione di leggerezza, seguita
subito dopo dal colpo per l’impatto con la sabbia del
deserto, che per sua fortuna attutì il colpo.
«Comandante!» urlò Vovelek da sopra la rampa.
Riker cercò di rimettersi in piedi, ma una gamba si rifiutò
di obbedire.
Rotta? Slogata? Comunque fosse un acuto dolore
proveniva da essa e gli stava impedendo di recuperare
una posizione eretta.
«Comandante Riker! Si alzi presto! Si sono adattati alle
frequenze del mio phaser! Dobbiamo andarcene di qui!»
La voce di Vovelek ora era molto più vicina, doveva
essere sopra di lui, dedusse William, prima che il sole,
eclissato dal capo del vulcaniano ed incorniciato dalle sue
tipiche orecchie appuntite, venisse a confermare la sua
supposizione.
Si sforzò di mettere a fuoco l’immagine, mentre
lentamente il sangue tornò a defluire normalmente verso
il suo cervello e verso la sua retina. La morsa del drone
era stata davvero micidiale.
«Comandante Riker! Mi sente?» urlò nuovamente
Vovelek.
Appena Riker tentò di parlare e di spingere dell’aria dai
suoi polmoni verso le corde vocali, un dolore acuto gli
ricacciò indietro ogni parola. Ma si sforzò di sopportarlo.
213
Dapprima balbettò qualcosa di incomprensibile, che
Vovelek non riuscì ad afferrare e che lo spinsero a
prendere la decisione di caricarsi Will in spalle e di
muoversi verso l’accampamento nell’oasi. I Borg si
stavano avvicinando a loro due.
Riker si sentì sollevato di peso e comprese che Vovelek
lo stava portando via dai Borg. Gli stava ancora una volta
salvando la vita. Ora non erano nuovamente più in parità.
Con la testa poggiata sulla schiena di Vovelek, poté
vedere, seppur non chiaramente, una dozzina di Borg
incamminarsi
lentamente
fuori
dalla
capsula,
avventurandosi nel deserto, al loro inseguimento. Per loro
fortuna erano, come sempre, dannatamente lenti ed
impacciati. Ma era consapevole anche del fatto che
avrebbero potuto camminare nel deserto, senza
rifornimenti, per molto più tempo di loro due.
«Ci stanno inseguendo.» riuscì a dire flebilmente Riker.
«Lo so. Dobbiamo tornare all’oasi. Prendere quante più
scorte possibili e fuggire.»
«Ma dove andremo?»
«Lontano da loro. Sicuramente in questo deserto vi sono
altre oasi» rispose il vulcaniano, il cui fiato si era fatto
più corto a causa dello sforzo di dover camminare fra la
sabbia delle dune, con il non indifferente peso di un
umano adulto sulle spalle.
«E’ inutile fuggire. Ci troverebbero facilmente. Questi
Borg devono già essersi messi in contatto con la loro
nave madre. Presto ne arriveranno qui altri, ed altri
ancora. Non avremo scampo.»
«Lei ha un’idea migliore da proporre comandante?»
domandò Vovelek, senza interrompere il cammino.
«Dobbiamo eliminarli. Recuperare la capsula e fuggire da
qui. Abbandonare il pianeta. Prima che una loro nave
arrivi!»
214
«Ottima idea comandante. Ma come al solito voi umani
lavorate troppo con la fantasia. Io non vedo alcun modo
per sconfiggere una dozzina o forse più di droni, ora che
si sono adattati alla frequenza dei nostri phaser. Senza
contare che non ho idea di come riportare la capsula in
orbita.»
«Sfruttiamo il terreno a nostro vantaggio. Loro sono lenti.
Noi possiamo batterli in velocità. Dobbiamo fare
allontanare dalla capsula il maggior numero di droni
possibile. Dopodiché ci impossesseremo della capsula!»
Riker stesso non era troppo convinto della sua idea, ma
gli sembrava meglio che avventurarsi ancora nel deserto,
con la quasi certezza di morire, se non per mano dei
Borg, ucciso dalla sete.
«E come pensa di ingannarli? Seguono i nostri segni
vitali con i loro scanner. Possiamo anche essere più
rapidi, ma comprenderanno subito il nostro piano.»
obiettò Vovelek.
«Modificando il trasmettitore di emergenza ed il
trycorder, affinché emanino una finta traccia, che simuli
la nostra presenza. Se ci muoveremo in fretta, saremo alla
capsula prima che se ne rendano conto!»
«Ma lei è infortunato. Non riuscirà a correre, sempre che
i Borg cadano nel tranello.»
«Ci cadranno! Non sono capaci di porsi domande.
Seguiranno il segnale e basta. E io ce la farò, anzi mi
metta pure giù ora. Penso di poter camminare!» esclamò
Riker.
Vovelek si arrestò improvvisamente e si tolse il peso di
William di dosso in un istante. Non appena Will mise la
gamba destra a terra, un dolore lancinante, all’altezza del
ginocchio, lo costrinse a poggiarsi sulla gamba opposta.
Strinse i denti e cercò di non cadere, né di inginocchiarsi.
215
Poteva, doveva farcela. Probabilmente non si era rotto
nulla, sicuramente una forte contusione. Poteva
sopravvivere.
«Pensa di farcela?» gli domandò Vovelek, che stava
notando l’espressione di dolore sul volto del compagno.
«Si, è solo una brutta botta. Ma niente di irrimediabile.
Andiamo!» rispose Riker, mettendosi in cammino verso
l’oasi, al passo più veloce che gli riuscì di tenere.
Erano ormai in vista dell’oasi, mentre i Borg erano
ancora sulla cima della duna. Avevano circa dieci minuti
di vantaggio.
«Sono molto più veloce di lei. Vado avanti e inizio a
modificare il trasmettitore ed il trycorder. Lei prenda le
provviste.» gli ordinò Vovelek e senza attendere una
risposta lo sorpassò scomparendo per primo nella fitta
vegetazione dell’oasi e non notando il disappunto
malcelato di Riker, per avere ancora una volta ricevuto
ordini senza nessun tipo di consultazione.
Nonostante fossero oramai dipendenti l’uno dall’altro,
Vovelek si ostinava a non ritenere necessario interpellarlo
e condividere con lui le scelte da fare.
Pochi minuti dopo, zoppicando vistosamente, Riker
raggiunse il vulcaniano, che, chino a terra, stava ancora
apportando le dovute modifiche ai due dispositivi.
«Ho quasi finito» disse Vovelek senza voltarsi,
anticipando la probabile domanda di Riker.
«Ottimo! Presto! Prendiamo le provviste e abbandoniamo
l’oasi passando da est. Da li aggireremo la duna e
arriveremo alla capsula mentre i Borg saranno qui a
cercarci nella boscaglia!»
Riker riempì lo zaino con le borracce dell’acqua e i frutti
che avevano raccolto durante la giornata precedente e a
fatica se lo mise in spalle.
«Lo dia a me quello. Lei già zoppica.» lo interruppe
Vovelek, che nel frattempo aveva terminato le modifiche.
216
Riker rimase un istante interdetto sul da farsi. Il suo
orgoglio gli stava gridando di rifiutare l’aiuto, ma la
logica del momento era dalla parte di Vovelek. Mise da
parte la rivalità con il vulcaniano e porse lo zaino senza
obiettare.
«Ho attivato la finta traccia vitale. Muoviamoci» disse
Vovelek, indicando la via verso est.
«Aspetti!» lo bloccò Riker.
«Che c’è ancora?»
Riker raccolse da terra il suo phaser, ormai inutile contro
gli scudi portatili Borg e ne modificò le impostazioni,
mandandolo in sovraccarico. Un rumore simile ad un
fischio, lentamente cominciò a crescere di potenza.
«Con un po’ di fortuna esploderà al loro arrivo!»
Vovelek annuì, senza commentare.
E i due si incamminarono nella boscaglia, guardandosi
bene intorno, alla ricerca dei droni.
Sbucarono presto sul lato est dell’oasi. A poco meno di
un chilometro da li, era atterrata la capsula di salvataggio
della Pioneer.
«Devono essere già arrivati all’oasi. Non vedo più droni
sulla collina» disse Vovelek.
«Stanno sicuramente seguendo il segnale.»
«Ne è certo?» domandò dubbioso Vovelek.
«Si fidi. Conosco molto bene i Borg» lo rassicurò Will.
«Ora andiamo. Dobbiamo fare il più in fretta possibile.
Non appena scopriranno l’inganno, i droni rimasti sulla
capsula si metteranno in allarme» chiuse la conversazione
Riker.
Furono minuti di ansia e trepidazione, quelli che
trascorsero subito dopo avere lasciato l’oasi. Vovelek in
testa, allungava il passo quanto più possibile, mentre
Riker, zoppicante, faticava a restargli ad una distanza
accettabile. Ma non c’era tempo per fermarsi a
recuperare.
217
Quando arrivarono in cima alla duna e poterono
finalmente scorgere nuovamente la navicella di
salvataggio, poggiata sulle sabbie infuocate del deserto, il
boato provocato da uno scoppio, li raggiunse alle spalle. I
due si voltarono e videro una nuvola di fumo, levarsi dal
centro dell’oasi.
Il phaser aveva fatto il suo dovere.
«Ora sanno dell’inganno. Il nostro vantaggio tattico si è
esaurito» commentò laconicamente Vovelek, iniziando la
discesa della duna.
Apparentemente la capsula pareva disabitata dai suoi
inquilini cibernetici, anche se molto probabilmente, un
numero imprecisato di droni era al suo interno,
sicuramente ancorati alle tipiche celle da cui i droni si
connettevano al Collettivo. Riker e Vovelek si
avvicinarono cautamente alla rampa di salita, temendo
che ne fuoriuscisse un’altra orda di droni.
«Sembra tutto tranquillo.» mormorò Riker.
«Le apparenze ingannano comandante» ribatté Vovelek
iniziando a salire la rampa, misurando i passi, uno dopo
l’altro.
Stavolta Vovelek impugnava una delle tipiche luci
d’emergenza della Flotta, con lo scopo di illuminare il
buio interno della capsula di salvataggio.
Un fascio ampio di luce bianca squarciò l’oscurità,
mostrando uno spettacolo di morte e desolazione. A terra
giacevano molti corpi senza vita di marinai della Pioneer,
orrendamente deturpati dalle nanosonde Borg. Il pannello
principale era stato già modificato con tecnologia Borg,
più altre parti della navicella. Ma sorprendentemente,
all’interno, non vi erano più droni in funzione.
«Via libera» disse Vovelek portandosi verso il controllo
delle luci.
E le luci tornarono ad accendersi, illuminando uno
spettacolo tragico.
218
«Devono avere lottato corpo a corpo.» commentò Riker,
osservando lo sfacelo di corpi e carni, che ricoprivano il
pavimento, macchiato di sangue, della navicella.
«Sicuramente. Ora cerchiamo di riattivare l’energia, in
modo da poter almeno utilizzare i razzi di manovra. Con
quelli dovremmo almeno essere in grado di muoverci
nell’atmosfera» disse Vovelek aprendo, con uno scatto,
una paratia che nascondeva un sofisticato intreccio di
circuiti.
«Ma non riesce a provare pietà nemmeno per un istante?
Erano sotto il suo comando!» lo rimproverò Riker.
«I Borg non hanno avuto nessuna pietà per loro. Il meglio
che posso fare per onorarli e salvare la mia e la sua vita»
rispose il vulcaniano senza nemmeno rivolgere lo
sguardo a Riker e poi continuò «mentre io mi occupo
dell’energia principale, lei rimetta in funziona il sistema
di navigazione. Dobbiamo andarcene di qui e in fretta.»
Riker scosse il capo sconsolato per tanta freddezza e
senza obiettare si mise al lavoro alla consolle di
navigazione.
Ci vollero pochi minuti a Vovelek, per ripristinare
l’energia principale e i circuiti della capsula tornarono a
risplendere per il fluire dell’energia. E Will poté
finalmente operare sulla consolle di navigazione.
«A che punto è comandante?» domandò Vovelek, che nel
frattempo, alle sue spalle, stava operando una modifica ai
circuiti dei propulsori, nel tentativo di renderli più adatti
al volo atmosferico.
«Ho quasi finito. Ho dovuto riconfigurare il programma
di navigazione. Era stato infettato da un virus Borg. Per
nostra fortuna nessun danno grave. Anche se dovremo
rinunciare al sistema di guida automatico. Insomma,
dovremo tornare come ai tempi dell’Accademia. Ricorda
il corso di Volo Manuale?»
219
Domandò Riker, sorridendo al pensiero di quanto si era
divertito, guidando piccole navette nei cieli di Saturno e
di Marte.
«Certamente. Io…» La voce di Vovelek fu spezzata da un
gemito improvviso.
Riker si voltò di scatto, giusto in tempo per vedere le
gambe del comandate Vovelek scomparire da dietro il
portellone d’accesso.
«Vovelek!» urlò disperato, correndo verso l’uscita, dove
vide il suo compagno di naufragio, trascinato a forza sulla
rampa, da un drone Borg a cui mancava parte di un
braccio e che presentava diversi danni da esplosione sul
resto del corpo. E con lui altri droni, anch’essi
pesantemente danneggiati, ma ancora dannatamente
pericolosi, si stavano minacciosamente avvicinando alla
capsula.
Il phaser sovraccarico non aveva eliminato tutti i droni, fu
la logica deduzione di Riker.
220
CAPITOLO 23
«Maestro!»
Q sussultò, spaventato dall’improvviso arrivo del suo
allievo, e il gomito gli scivolò lungo il cofano del camion
militare a cui era poggiato da parecchi minuti.
«Ragazzo! Quante volte ti ho detto di non comparire
all’improvviso!» lo rimproverò il Q più anziano,
riprendendo l’equilibrio e voltandosi verso di lui.
«Chiedo perdono. Mi scordo sempre» si giustificò il più
giovane, ma subito rese palese quale che fosse il motivo
della sua visita. La sua attenzione era per Picard e Data.
«Cosa stanno facendo adesso?» domandò a bruciapelo.
Q, ancora abbigliato come un antico guerriero klingon, si
voltò, alla ricerca del punto che gli occhi del suo allievo
stavano fissando tanto intensamente.
«Intendi quei due?» Q indicò Data e Picard, chini sulla
sabbia del deserto, una decina di metri oltre il ciglio della
strada asfaltata.
L’allievo annuì trepidante, non appena il suo maestro
tornò a voltarsi verso di lui.
«Stanno seppellendo Worf e Geordi. Picard ha insistito
fino a sfinirmi affinché gli lasciassi il tempo di scavare le
due fosse. Non c’è stato verso di iniziare la Terza Prova.
Un gesto molto umano da parte sua, anche se del tutto
inutile.»
«Avevano già fatto la stessa cosa con le due femmine
vero?» domandò ancora l’allievo, notando a poca
distanza dal luogo in cui Picard e Data stavano scavando,
due cumuli di sabbia e rocce.
«Si. Solo che prima avevano avuto tutto il tempo per
farlo. Diamine! Adesso il tempo scarseggia! Dobbiamo
muoverci! E’ almeno un’ora che s’arrabattano a mani
221
nude!» polemizzò Q, battendo il pugno sul cofano del
mezzo e causando un tonfo sordo che attirò l’attenzione
di Picard e dell’androide, i quali si voltarono verso Q ed
il suo allievo.
Comprendendo di essere stato notato, Q mise le mani
attorno all bocca, al fine di concentrare le onde sonore
prodotte dalle sue corde vocali nella direzione voluta ed
esclamò:
«Volete muovervi voi due?»
Per tutta risposta, Picard compì con una mano, un gesto,
che Q riconobbe essere un antico ma ancora in voga,
insulto umano. Data, notando che il capitano aveva
interrotto le operazioni di escavazione, dapprima osservò
e successivamente, replicò goffamente il gesto e la cosa
fece sorridere, seppur appena, Picard. Poi i due ripresero
a scavare, ignorando del tutto le pretese di Q.
Il volto di Q avvampò per l‘offesa e per la rabbia. Come
si permettevano quei due sfrontati di insultarlo in modo
tanto becero?
Il giovane Q non seppe trattenersi di fronte alla scenetta
che vedeva il suo maestre bellamente beffeggiato da due
creature primitive, e ridacchiò sommessamente.
«Credo ti abbiano mandato a quel paese, ma non ne sono
sicuro. Sei tu l’esperto sugli umani» commentò
sarcasticamente il giovane Q, il cui volto ricordava certe
maschere del teatro greco-romano, tanto si era arcuata la
linea delle labbra, fin quasi a raggiungere i lobi delle
orecchie.
Q tornò a voltarsi verso l’allievo. Decisamente furente.
«Taci tu! Se non fosse che l’esito della mia sfida con il
Q-Borg dipende da quei due, li avrei già trasformati in
due meteoriti e costretti a viaggiare per eoni nello spazio!
O chissà cos’altro di terribile potrebbe venirmi in
mente!»
222
L’allievo tacque, ma il ghigno di divertito compiacimento
rimase immutato, scolpito come marmo nel volto del
ragazzo.
«E se non ti togli quel sorriso, caro il mio giovane e
inesperto allievo, farò in modo che tu debba pentirtene
amaramente!»
Il volto del Q si fece serio di colpo, ma il suo maestro
poté giurare, di stare ancora sentendo delle poderose
risate, provenire dalla mente del suo allievo.
Lasciò perdere e tornò a seguire le operazioni di
escavazione di Picard e del suo fidato androide.
Ma il suo allievo non era sazio di risposte. Molte
domande aveva ancora in serbo per il suo mentore.
«Ma perché non gliel’hai scavata tu la fossa?» domandò
alcuni minuti dopo, giusto il tempo di lasciar sbollire un
poco la rabbia di Q.
«Non hanno voluto che interferissi. Picard ci teneva ad
essere egli stesso a compiere la tumulazione. Se avessi
saputo che erano così dannatamente lenti non avrei mai
acconsentito!»
«Potresti almeno fornirgli una escavatrice. O delle
semplici pale no?»
Q scosse il capo in segno di diniego.
«Non hanno voluto nulla. Picard ha insistito per scavare a
mani nude, così come aveva fatto per Beverly e la
betazoide.»
«Un segno di rispetto estremo verso i suoi compagni,»
commentò l’allievo «doveva essere molto affezionato a
loro. Erano uniti da un grande legame.»
Per tutta risposta, Q sbuffò spazientito «quanto sono
lenti…»
Il ragazzo continuò comunque la sua analisi.
«Fossero stati Borg, avrebbero abbandonato i droni in
mezzo a questo deserto, senza preoccuparsi d’altro.
Oppure li avrebbero trasportati su una delle loro navi
223
alveare per essere riconvertiti in qualcosa di utile al
Collettivo. Due culture davvero inconciliabili. Due mondi
diametralmente opposti. Il singolo e il collettivo.»
Q si limitò ad annuire senza intervenire. A lui importava
solo che la prova finale avesse inizio. Era impaziente e
nervoso.
«Miliardi di singoli individui, dotati di un proprio
arbitrio, coordinati da strutture sociali complesse contro
un’unica volontà che coordina la struttura di miliardi di
esseri. Un bel dilemma. A chi affidare la Galassia?»
Il giovane Q esitò qualche istante, come se cercasse la
risposta giusta al quesito, poi alzando le spalle
«comunque vada preferisco gli umanoidi. Sono più
divertenti. Un Borg non avrebbe mai mandato a quel
paese un Q!» concluse sghignazzando.
«Sparisci!» gli urlò esasperato il suo maestro, voltandosi
di scatto, per l’ennesima volta.
E l’allievo obbedì scomparendo all’istante, senza che
nemmeno un granello di polvere si sollevasse da terra.
«Giovani! Credono di potersi prendere beffa degli anziani
sena pagarne le conseguenze! Non ci sono più i Q di una
volta!» bofonchiò fra se, salvo poi tornare ad osservare
Picard e Data e rimase in quella posizione per un'altra ora
buona, fino a che i due non ebbero posato l’ultima pietra.
Altri due cumuli paralleli, ora adornavano il piatto
deserto attorno a loro.
Picard, con le mani doloranti e piagate dal terreno secco e
duro, si avvicinò a Q, asciugandosi il sudore copioso
della fronte, con la manica, ormai sudicia e logora della
sua uniforme da capitano.
Data, al contrario, appariva sempre fresco come una rosa.
«Avete finito finalmente! Cominciavo a temere che non
sarebbe bastato tutto il tempo dell’universo!» sbottò Q,
divorato dalla brama di dare inizio all’ultima prova.
224
«Non avevamo nessuna fretta Q. Worf e Geordi
meritavano una degna sepoltura. Non servirà a cambiare
le cose ormai, ma glielo dovevo. Non potevo lasciare i
loro corpi in quei sacchi sotto il sole. Nonostante questa
gigantesca farsa che avete organizzato, ho ancora dei
principi in cui credere» gli rispose determinato Picard.
«Ma come siamo diventati coraggiosi Jean-Luc! Ti senti
pronto a sfidare tutto il Q-Continuum?» ironizzò Q,
divertito ma al contempo soddisfatto che la sua ultima
speranza di vittoria stesse reagendo come sperava.
«Si sono pronto!» rispose Picard puntando le sue pupille
dritte in quelle di Q.
«Bene Jean-Luc! Tu e Data potrete da subito dare prova
delle vostre capacità! Che abbia inizio la Terza ed ultima
pro...»
Q fu bruscamente interrotto dall’improvvisa comparsa del
suo millenario avversario.
«Fermi! La prova non può cominciare!» esclamò risoluto,
mentre il sole del deserto si rifletteva contro i bioimpianti
dorati di cui era adornato il suo corpo.
«Che diamine vuoi adesso?» ribatté Q portandosi ad un
palmo dal volto del Q-Borg, con le mani ai fianchi e le
gambe divaricate, in segno di sfida.
«Lui non può partecipare!» disse indicando Data, con un
dito della mano.
«Per quale motivo?» domandò Picard.
«Non è un umanoide!» fu la risposta del Q-Borg.
Si stavano avvicinando seppur lentamente. Riker ne contò
rapidamente sei.
Uno di essi teneva, con l’unico braccio rimasto,
saldamente in pugno Vovelek. Gli altri cinque, altrettanto
malconci, danneggiati pesantemente dall’esplosione del
phaser sovraccarico, barcollando stavano portandosi
verso la rampa di salita alla capsula di salvataggio.
225
Riker cercò rapidamente nella sua mente di fare una lista
delle opzioni che gli rimanevano, fermo restando che
salvare la vita a Vovelek era la sua priorità assoluta. Non
avrebbe lasciato il vulcaniano in pasto ai Borg, non dopo
tutto quello che avevano passato insieme, non dopo che
Vovelek l’aveva salvato dalle sabbie del deserto.
Corse rapidamente all’interno della capsula e recuperò
l’unico phaser rimasto. Con un po’ di fortuna sarebbe
riuscito ad abbatterne almeno un altro paio, prima che
divenisse inutile causa l’adattamento degli scudi Borg
alle frequenze dell’arma ad energia.
Tornò rapidamente, seppur zoppicando verso il portello e
subito punto il phaser verso il punto in cui si trovava
Vovelek. Ma purtroppo sia lui che il drone che lo aveva
catturato, erano scomparsi dal campo visivo. In
compenso gli altri Borg erano ora ai piedi della pedana e
si apprestavano a riprendere possesso della capsula di
salvataggio.
Riker decise che doveva fare in fretta se voleva salvare il
vulcaniano, che ora probabilmente stava lottando contro
il drone per impedire la sua assimilazione al collettivo.
Glielo doveva, se non altro per tornare in parità.
«Maledetti!» urlò al vento del deserto e fece fuoco con il
phaser.
Il primo drone della fila cadde a terra come fulminato ma
nessuno dei suo simili prestò alla sua sorte la benché
minima attenzione. Si preoccuparono solo di scavalcarlo
al fine di non inciampare.
Fece fuoco anche sul secondo e anch’esso cadde a terra
senza vita.
Ma il tentativo di abbattere il terzo fallì miseramente. I
suoi scudi ad energia personali, si erano già adattati alle
frequenze del phaser di Riker, grazie alle informazioni
trasmesse alla Collettività dai due droni uccisi poco
prima.
226
Riker gettò il phaser nel vuoto con un gesto di
disappunto. L’arma ricadde nella sabbia del deserto
rimanendo semi sommersa.
Ora non aveva più alcuna arma a disposizione per
fermare i tre borg che ancora si paravano di fronte a lui.
Avrebbe dovuto affrontarli in un corpo a corpo e lo
avrebbe fatto volentieri se fosse stato nelle condizioni di
affrontarli. Ma con un braccio solo ed una caviglia
dolorante sarebbe stato un vero suicidio.
L’altra opzione era quella di chiudere il portello,
accendere i motori e lasciare per sempre quel luogo. Ma
avrebbe significato abbandonare Vovelek a morte certa e
nonostante, per tutto il tempo in cui erano stati insieme,
fra i due vi erano stati frequenti momenti di scontro anche
acceso, William sentiva che non avrebbe mai potuto
perdonarsi una simile vigliaccheria.
Anche se probabilmente quella sarebbe stata l’opzione
suggerita dalla impeccabile logica Vulcaniana del
comandante Vovelek, che quindi non lo avrebbe certo
biasimato vedendolo decollare verso la salvezza. Ma
qualcosa, dentro di lui, gli stava dicendo che logica o non
logica, anche Vovelek avrebbe fatto lo stesso per lui.
Urgeva quindi una terza soluzione, per sconfiggere i tre
droni che lentamente si stavano avvicinando.
I droni Borg sono dotati di ampie difese contro le armi ad
energia, rifletté rapidamente Riker, ma sono
relativamente vulnerabili se attaccati con armi più
primitive, come lame, punte, pallottole spinte da reazioni
chimiche.
Doveva procurarsi un’arma del genere e doveva farlo in
fretta. Gli scudi Borg nulla avrebbero potuto contro una
simile diavoleria del passato. Ma il piccolo replicatore
della capsula di salvataggio era programmato per
riprodurre una quantità limitata di oggetti e sarebbe stato
necessario collegarsi al database del computer per
227
raccogliere le schematiche relative al tipo di arma
richiesto. Sempre che il computer della navicella
contenesse le informazioni necessarie.
Decise che non c’era tempo per le supposizioni e che
l’unico modo per esserne certi era fare un tentativo.
Ignorando i droni che avanzavano a pochi metri da lui,
Riker si portò alla consolle principale della navicella e
iniziò una ricerca relativa alle armi non convenzionali,
utilizzate da qualsiasi razza della Federazione, in grado di
stecchire un drone Borg.
Il computer gli fornì, come prima risposta, la scheda
relativa ad un arco acturiano del tardo impero Jahf, con
frecce imbevute nel veleno. Se la situazione non fosse
stata così tragica avrebbe persino trovato il tempo per
sorridere, per l’involontaria ironia della risposta del
computer. Un arco era proprio quel genere di arma che
non avrebbe potuto utilizzare a causa della sua
menomazione al braccio.
I droni erano alla porta e varcarono l’ingresso della
navicella. Riker vide sulla consolle il riflesso di tre raggi
di puntamento.
- Devo sbrigarmi! - Pensò, immettendo nuovi parametri
per la ricerca. Arma che possa essere utilizzata con una
mano sola.
Il computer gli propose una Magnum44 di fabbricazione
terrestre, tardo ventesimo secolo. Riker non se ne
intendeva minimamente di armi antiche e accettò senza
indugio la proposta, anche perché ora i droni erano a
meno di un metro da lui.
Fece appena a tempo a scansarsi dalla consolle, prima che
uno dei droni la mandasse in pezzi con il braccio
meccanico.
Non importava. Le informazioni erano giunte al
replicatore e grazie al lavoro di Vovelek la navicella era
carica di energia.
228
Con un piccolo balzo si portò al replicatore, guadagnando
un metro ancora di vantaggio sui droni e digitò un
controllo.
«Programma Riker uno!» urlò al computer.
Il replicatore si mise in funzione ed in meno di un
secondo si materializzò davanti ai suoi occhi quello che
per lui non era altro che un grosso pezzo di metallo nero,
con una parte in legno. Una antica pistola.
La afferrò al volo e subito ne avvertì il peso davvero
notevole, se confrontato con una phaser standard della
Flotta, tanto che temette di farla scivolare.
Si voltò di scatto verso il primo drone davanti a lui, che
stava a un passo dal raggiungerlo. Strinse il calcio e gli
occhi e poi premette il grilletto.
E un incredibile boato riempì la navicella. La testa del
drone finì in mille pezzi. Il suo corpo rimase in piedi
ancora qualche secondo, muovendosi in maniera
scoordinata, prima di cadere a terra privo di vita.
Riker però non rimase ad osservarlo. Preso in contropiede
dal rinculo dell’esplosione, aveva lasciato cadere a terra
la pistola che gli era letteralmente volata via dalla mano,
finendo ad alcuni metri da lui. Avrebbe dovuto stringerla
molto più forte.
I due droni superstiti rimasero indifferenti e proseguirono
la loro marcia verso William, il quale si lanciò a terra,
strisciando qualche metro sul pavimento della scialuppa
di salvataggio nell’intento di recuperare l’arma.
Era riuscito a rimettere la mano sulla pistola, la cui canna
scottava non poco, quando sentì una presa gelida
stringersi intorno alla sua caviglia.
«Prendi questo!» urlò in preda ad una euforia omicida e
fece fuoco una seconda volta, facendo ben attenzione a
stringere con tutte le sue forze il calcio della pistola. Il
rinculo gli fece dolere il polso ma la pistola gli rimase
229
saldamente in mano, mentre il drone che lo aveva
afferrato volava a terra, colpito in pieno petto.
Ne restava solo uno.
Riker rimase ad osservarlo mentre, indifferente per la
sorte dei suoi due compagni, continuava la sua missione
di assimilazione.
«Vediamo se sai adattarti anche a questo! Coraggio! Fatti
ammazzare!»
Esclamò William puntando la canna della pistola vero la
testa del drone.
Fece fuoco ed un terzo cadavere andò ad aggiungersi alla
collezione dei centri fatti da Riker.
«Tre su tre! Niente male per un principiante!» commentò
Riker da terra, espirando lentamente per la tensione.
Poi il suo primo pensiero andò a Vovelek. Si rimise in
piedi e raggiunse l'uscita della navetta alla sua ricerca.
230
CAPITOLO 24
Picard passeggiava nervosamente avanti indietro, con le
mani dietro la schiena, passando a fianco di Data, che al
contrario, era immobile, intento a seguire il battibecco
che da alcuni minuti, stava avendo luogo fra Q ed il suo
avversario.
Il Q-Borg aveva sollevato una questione di non poca
rilevanza, affermando che Data, in quanto androide,
quindi una macchina, non avesse alcun diritto a prendere
parte alla terza prova. Lo scontro era tra i Borg e gli
umanoidi in generale. E non erano comprese le macchine
costruite da questi ultimi.
Q, dal canto suo, stava asserendo che Data fosse
praticamente da considerarsi umano, nonostante la sua
composizione artificiale. Possedeva un chip emozionale
in grado di fargli provare le stesse emozioni degli
umanoidi, nonché un cervello positronico molto
sofisticato, al punto che Data era in assoluto la prima
macchina costruita da umani, consapevole di se stessa e
quindi senziente.
«Assolutamente no! Quella cosa è solo una macchina!
Una specie di trycorder evoluto! Sarebbe scorretto che
partecipasse! Io protesto!» urlava il Q-Borg.
«Data è molto più di un trycorder! Ha delle emozioni sue!
Genuine! Anzi, è sicuramente più umano di Picard!»
ribatté Q e lanciando un’occhiata verso il capitano, lo
punzecchiò «Sicuramente è più di compagnia!»
Picard arrestò per un istante il suo passo, per rivolgere a
Q un finto sorriso di cortesia per l’ironica graffiatura non
richiesta.
«Non sono disposto a cedere! La sfida è fra umanoidi e
Borg! I burattini meccanici non sono stati invitati!
231
Potrebbe essere un interessante spunto per una prossima
sfida, ma in questa è escluso» continuò la sua arringa il
Q-Borg.
«Tu hai paura di perdere! Questa è la verità! E ti stai
attaccando ad ogni cavillo! Proprio come con i
Sekoniani! Quando obiettasti che non era leale deviare
una meteora affinché distruggesse il loro primo tentativo
di conquistare lo spazio, mentre cercavo di convincerli
che non avrebbero dovuto avventurarsi per la galassia.»
«Io paura di perdere?» sbottò il Q-Borg, spingendo
indietro di mezzo metro Q, con la forza del braccio
meccanico di concezione Borg.
«Io non ho paura di perdere! Anzi! Ho praticamente
vinto! Quello che cerca scuse sei tu! E quella volta con i
Sekoniani il tuo sporco trucco fu lasciato correre solo
perché alcuni nel Consiglio del Q-Continuum ti dovevano
un favore!»
«Menzogna! Sei un incredibile bugiardo! E tu hai paura
di perdere! Hai paura di una macchina pensante!» urlò
fuori di se Q.
«Ma guarda che bello spettacolo. Esseri superiori vero?»
intervenne Picard, che non sapeva dove stesse trovando la
forza per fare dello spirito.
«Tu taci!» gli risposero all’unisono Q ed il suo sfidante,
fulminandolo con lo sguardo.
Picard, per tutta risposta, alzò una mano in segno di resa
e riprese a trotterellare sui suoi passi, voltando ai due le
spalle, affinché non notassero il suo divertimento. La
situazione gli pareva tanto assurda da poter essere
accettata solo facendo appello ad una dose massiccia di
sano umorismo.
I due Q ripresero il loro battibecco da dove l’avevano
lasciato.
«Invoco il Consiglio del Q-Continuum! Devono prendere
loro la decisione!» propose infine il Q-Borg.
232
Q rimase qualche istante senza fiatare, meditando il da
farsi e poi accettò la proposta. Senza però avere alcuna
certezza che il Consiglio avrebbe deciso in suo favore. I
tempi in cui alcuni suoi membri erano stati in debito con
lui erano ormai lontani e non aveva, al momento, carte da
giocare.
«D’accordo! Chiamiamoli qui! Accetterò la loro
decisione senza obiettare!»
Sulla bocca del Q-Borg si disegnò un sorriso che aveva
un qualcosa di malvagio e schioccò le dita dell’unica
mano umana che possedeva.
Come sempre dal nulla, comparvero i cinque membri del
Consiglio del Q-Continuum. Tre uomini e due donne in
età avanzata e una delle due donne reggeva sempre quella
specie di scettro che Picard aveva catalogato come
simbolo di potere.
I cinque, uno accanto all’altro non aprirono bocca ed
attesero che Q e il Q-Borg si fossero avvicinati loro.
«Cosa volete, questa volta?» disse l’anziana che reggeva
lo scettro.
«E’ è a causa della Terza Prova!» esordì il Q-Borg.
«Abbiamo una controversia procedurale che solo il
Consiglio può dirimere!» continuò Q ossequioso.
«Mai che voi due abbiate qualcosa di più interessante da
comunicarci» sbuffò tristemente la Q, scambiando
un’occhiata di biasimo con gli altri consiglieri, i quali
restituirono espressioni altrettanto straziate.
Poi la donna fece una passo avanti e prendendo lo scettro
con entrambe le mani, accarezzandolo lentamente si
arrese, «avanti! Esponeteci la nuova questione.»
In pochi minuti il Q-Borg espresse la sua lamentela e le
ragioni a suo sostegno e tanto fece anche Q opponendo
una lunga sequela di obiezioni, mentre Picard e Data
assistevano impotenti a quello che pareva essere un
secondo processo a carico di Data dopo quello in cui,
233
anni prima, l’androide era stato parte in causa ed aveva
dovuto difendersi dal comandante Bruce Maddox, il
quale riteneva Data solamente una macchina non
senziente, incapace di emozioni e reali sentimenti, e
quindi come tale a disposizione della Flotta Stellare, per
un processo di replicazione. Allora fu Picard a toglierlo
dai guai, convincendo il giudice circa l’unicità di Data e
come tale, essere dotato degli stessi diritti di ogni
cittadino della Federazione.
Quando il Q-Borg ebbe terminato la Q fece un passo
indietro e richiamò a se gli altri consiglieri, che si
strinsero intorno a lei a formare un cerchio.
«La corte si è riunita in camera di consiglio» commentò
sarcasticamente Picard, sempre più infastidito dalla
situazione che lo vedeva come una semplice comparsa, in
uno spettacolo dove le parti principali erano state
assegnate a delle entità capricciose e volubili.
«Speriamo che il giudice non sia corrotto» replicò Data,
apparentemente non turbato dalla situazione.
«Io temo per lei signor Data. Ha visto cosa è accaduto a
Beverly, Deanna, Geordi e Worf. Questa volta temo che
non ne usciremo tanto facilmente. Siamo totalmente in
balia dei Q. E non serve che le dica che la cosa non mi
piace affatto!» replicò Picard.
Proprio mentre Picard terminava di parlare la Q a capo
del Consiglio alzò lo scettro al cielo e il piccolo cerchio si
aprì lentamente.
«Il Consiglio ha deciso.» disse con voce calma e
profonda.
Q e il suo avversario si avvicinarono alla donna anziana,
impazienti di conoscere il verdetto.
Anche Picard si avvicinò e fece cenno a Data di fare
altrettanto. Voleva udire per bene ogni parola pronunciata
dalla donna.
234
«L’androide, per quanto sia una apprezzabile creazione,
seppur primitiva, degli umanoidi, con lo scopo di
riprodurre meccanicamente una forma di vita biologica e
per quanto essa sia stata dotata della capacità di percepire
delle sensazioni e dei sentimenti, non può considerarsi
una forma di vita umanoide. Per tanto il Consiglio
accoglie la richiesta avanzata del Q-Borg. L’androide non
può partecipare alla Terza Prova. Quindi è eliminato dalla
Sfida.»
Appena la donna ebbe finito, Q aprì subito bocca per
protestare ma l’anziana donna lo zittì con lo sguardo e
puntandogli contro lo scettro esclamò, «il Consiglio ha
deciso! E come ben sai le nostre decisioni sono
inappellabili!»
Q rimase senza parole e sul suo volto comparve un velo
di disperazione cupa.
Senza l’androide le sue possibilità di vittoria scemavano
ancora di più.
Picard, che era rimasto fino a quel momento in disparte si
fece avanti e si rivolse alla donna e con fare risoluto
porse una domanda a cui il verdetto del consiglio non
dava risposta.
«E ora che ne sarà di Data?»
Il Q-Borg, raggiante per il favorevole verdetto, si
avvicinò al capitano posandogli una mano sulla spalla
disse freddamente:
«L’androide se ne deve andare!»
E fece schioccare le dita.
Un istante dopo Picard udì un’esplosione provenire alle
sue spalle, a poco distanza. Si voltò di scatto e la dove
poco prima stava Data ora vi era una chiazza nerastra e
una nuvola di fumo si stava disperdendo nel vento,
mentre migliaia di piccoli frammenti, lentamente
ricadevano al suolo.
235
Picard atterrito si voltò verso il Q-Borg alla ricerca di una
spiegazione logica per un gesto tanto crudele.
«Sentenza eseguita!» fu la laconica risposta del Q-Borg.
Si asciugò la fronte con un rapido gesto. Il caldo di quel
deserto era opprimente. Con cautela sporse la testa oltre il
limite del portellone della navicella. La fuori, da qualche
parte vi era ancora un drone e Vovelek.
Forse ancora vivo.
Stringendo con forza la Magnum, Riker fece un balzo
sulla rampa, puntando l’arma davanti a se e compiendo
un giro di centottanta gradi sul suo asse, a coprire tutto
l’orizzonte.
Nessuna traccia del vulcaniano. Lentamente cominciò a
percorrere la rampa metallica che portava alla sabbia del
deserto, facendo attenzione a scansare i corpi dei due
droni abbattuti a colpi di phaser, pochi minuti prima.
Vide luccicare qualcosa dalla sabbia. Il suo phaser
affiorava, conficcato con la punta verso il basso. Riker
fece una piccola riflessione su quanto fosse paradossale il
fatto che un arma di ben quattro secoli prima si stesse
rivelando molto più efficace dell’ultimo ritrovato in fatto
di tecnologia.
Sicuramente, i Borg avrebbero trovato un sistema rapido
ed efficiente per difendersi dalle armi da fuoco,
rimodulando i loro scudi. Ma non oggi, pensò.
Poggiò un piede sulla sabbia cocente e decise di aggirare
la navicella, portandosi nella sua ombra. Le orme erano
confuse e Will non riusciva a capire che direzione potesse
aver preso il drone. Decise di lasciare al suo istinto la
scelta. La cosa migliore su cui fare affidamento in quel
momento, ad eccezione della sua sputafuoco.
A piccoli passi aggirò la navetta.
Arrivato al bordo estremo, espirò profondamente,
preparandosi all’azione.
236
Così come aveva fatto altre decine di volte in passato.
Strinse forte l’arma e si preparò a puntarla.
Forza Vovelek, sto arrivando! Gridò dentro di se Riker,
sperando che il vulcaniano potesse sentirlo grazie alle sue
capacità telepatiche.
Poi decise di uscire allo scoperto e con un balzo si mise
in posizione, con l’arma pronta a fare fuoco. Ma con sua
sorpresa non vi era traccia del drone.
Vovelek era solo, seduto a terra con le spalle rivolte verso
William, ad una decina di metri da lui, protetto dai raggi
del sole, grazie all’ombra della navicella di salvataggio.
«Comandante Vovelek!» esclamò Riker, ma il vulcaniano
parve non udirlo.
«Comandante Vovelek! Sta bene?» urlò ancora William.
Vovelek non accennò alcuna reazione.
Riker iniziò rapidamente ad avvicinarsi, cercando di
capire che fosse successo. Probabilmente Vovelek era
riuscito a mettere fuori combattimento il drone ma forse
era rimasto in qualche modo ferito.
Lo raggiunse in pochi secondi, guardandosi sempre bene
intorno, temendo di veder spuntare da qualche parte
l’ultimo drone.
«Vovelek! Si sente bene? E’ ferito?» domandò
nuovamente Riker poggiandogli una mano sulla spalla e
scuotendolo leggermente.
E in quel momento, notò delle profonde ferite sul collo
del vulcaniano da cui era colato del sangue dal tipico
color verdastro.
Solo a quel punto il vulcaniano parve rendersi conto della
presenza del compagno di naufragio e iniziò lentamente a
voltare il capo.
Ma prima che potesse incontrare lo sguardo di Riker,
qualcosa o meglio qualcuno, sferrò un colpo violento alla
scapola di Riker, piegandolo a terra, in ginocchio. Un
237
successivo colpo, all’altezza della mascella, lo spinse
lontano, facendolo volare con il volto nella sabbia.
Riker sentì il sapore del suo stesso sangue riempirgli la
bocca.
Chi diavolo lo aveva colpito? Fu il suo primo pensiero. Il
secondo fu di evitare altri colpi e di rimettersi in piedi.
Si voltò rapidamente, ignorando i forti dolori causati dai
colpi e vide finalmente chi doveva ringraziare per i nuovi
lividi.
Il drone Borg superstite lo aveva raggiunto alle spalle,
senza che lui se ne accorgesse. Stava davvero
invecchiando, pensò fra se.
E ora troneggiava su di lui, con il suo unico braccio
superstite.
- Che ironia! - pensò Riker - i Borg hanno tolto un
braccio a me ed io ho causato la perdita di un braccio ad
uno di loro Ma il pensiero durò una frazione di secondo. Il Borg si
avvicinava minaccioso e Riker era ancora a terra.
Con la mano raspò la sabbia, nel tentativo di recuperare
la Magnum, ma con disappunto, si rese conto che non era
li vicino a lui. Doveva averla lasciata cadere a causa dei
colpi subiti. E al momento era fuori dalla sua visuale.
- Maledizione! - Imprecò fra se. Oggi davvero non era la
sua giornata fortunata.
Cominciò a scalciare per indietreggiare, ma gli stivali gli
affondavano nella sabbia.
«Vovelek! Mi aiuti! Prenda la pistola!» gridò
all’indirizzo del vulcaniano, sperando che potesse venire
in suo soccorso.
Ma Vovelek non accennò alcuna reazione. Rimase
immobile, con il volto chino sul petto, come intento ad
osservare i granelli di sabbia.
238
«Vovelek! Dannato vulcaniano! Mi aiuti! Non voglio
morire per avere avuto la pessima idea di venire a
salvarla!»
Riker trovò ancora la forza di fare dell’ironia, nonostante
fosse ad un passo dalla morte.
Il drone gli era ormai addosso e puntò il suo braccio
meccanico verso la sua gola.
Il braccio era parzialmente danneggiato per fortuna di
Riker, e i normali tubicini metallici, che avevano il
compito di iniettare nel corpo degli essere viventi le
terribili nanosonde, erano in buona parte recisi. Il che
avrebbe costretto il drone a doversi avvicinare molto di
più del solito.
Quasi a contatto diretto con la pelle.
Riker afferrò il braccio del drone con il suo e iniziò una
specie di gara di braccio di ferro, con in palio la sua vita.
Strinse i denti ed oppose tutta la resistenza possibile, ma
il drone sembrava possedere una forza incredibile.
Riker osservò il tubo reciso avvicinarsi sempre di più alla
sua gola, presagendo l’imminente arrivo della sua fine.
Sarebbe morto su un pianeta sconosciuto e probabilmente
avrebbe finito col servire la Collettività per anni, fino a
che, troppo vechio, sarebbe stato espulso nello spazio
come rifiuto o riciclato.
Chiuse gli occhi, incapace di guardare la sua fine,
quando, all’improvviso, sentì il volto bagnarsi di una
sostanza calda, mentre un forte boato echeggiò nel
deserto.
Riaprì gli occhi e vide che la testa del drone Borg era
parzialmente esplosa e parte del suo contenuto, ora, si
trovava sparso sulla sua uniforme e sulla sua faccia. Il
braccio meccanico allentò lentamente la presa e Riker
riuscì ad allontanarlo dalla gola, mentre il resto del drone
stramazzava al suolo.
239
Riker alzò lo sguardo oltre il drone e il cuore gli si riempì
di gioia.
«Vovelek!» gridò, senza preoccuparsi di non far notare al
vulcaniano di quanto fosse felice di vederlo in piedi e con
la sua Magnum ben stretta in mano.
Riker si alzò in piedi, pulendosi il volto dai resti organici
del drone e gli si avvicinò.
«Mio Dio Vovelek! Io le devo la vita per l’ennesima
volta.»
Riker si interruppe bruscamente. Non appena fu vicino al
vulcaniano si rese conto che metà del suo viso era ormai
parzialmente assimilato. Le nanosonde affioravano in
vari punti ed erano alacremente al lavoro.
«Oh! No!» esclamò costernato Riker. E Vovelek
continuava ad impugnare la pistola, puntandola proprio
verso l’umano.
A quel punto Riker temette che il vulcaniano avrebbe
aperto il fuoco anche su di lui, ma fortunatamente non fu
così e Vovelek gli porse la pistola, che prontamente Riker
afferrò.
«Vovelek» balbettò William.
«Comandante,» iniziò a parlare il vulcaniano «la mia
mente sta per soccombere al potere delle nanosonde. Se
ne vada da qui.»
Vovelek fu percorso da un tremito. Chiuse gli occhi e
strinse i denti.
Stava combattendo una battaglia impossibile contro la
tecnologia Borg.
Riaprì le palpebre e riprese a parlare.
«Prenda la navicella e lasci il pianeta. Ma prima di
questo, deve uccidermi.»
Riker rimase senza parole ad osservare il suo compagno
di naufragio.
240
«Mi uccida adesso, che ho ancora il controllo delle mie
facoltà mentali. Non lasci che i Borg entrino in possesso
di tutte le informazioni contenute nel mio cervello.»
«Non potrei mai. Io non potrei mai…» rispose Riker
atterrito dalla prospettiva di assassinare il vulcaniano.
«La prego. Sarebbe molto umiliante per me essere
assimilato. La prego. Mi uccida ora.» Vovelek fu
percorso da un altro fremito, questa volta più intenso e
doloroso del precedente.
«Io non posso! Non posso…» balbettò ancora William.
«La prego!» urlò Vovelek stringendogli con forza la
mano e trascinandola verso di se, puntandosi la canna
della pistola al cuore.
Riker era pietrificato, incapace di premere il grilletto ed
allo stesso tempo incapace di abbandonare il vulcaniano
alla assimilazione.
Alla fine la paura prese il sopravvento. Si sganciò dalla
presa del vulcaniano ed indietreggiò.
«Mi dispiace! Mi dispiace! Non posso!» urlò al vento.
Poi si girò di scatto abbassando gli occhi e si mise a
correre verso il portello della navicella. E mentre correva,
sentì l’eco mentale di Vovelek che ancora gli lo pregava
di ucciderlo.
241
CAPITOLO 25
Picard era immobile, con il vento caldo del deserto ad
asciugargli le labbra. Stava fissando gli ultimi frammenti
di Data depositarsi al suolo, mentre la nuvola di fumo
biancastro, lentamente si disperdeva nell’aria, incapace di
accennare una qualunque reazione.
Uno dopo l’altro i suoi migliori ufficiali, i suoi migliori
compagni di viaggio, i suoi migliori amici, erano
assurdamente morti nel tentativo di dare ancora una
speranza alla galassia intera.
Si sentì solo come mai prima in vita sua. Ed impotente.
Ed un pensiero maligno attraversò la sua mente, come un
fulmine in una giornata di sole. Arrendersi di fronte ad un
destino perdente a cui, a quanto pareva, ogni ribellione
pareva spegnersi nel sangue. Avrebbe, se non altro,
accelerato il processo e si sarebbe risparmiato forse
ulteriori sofferenze. Se la Galassia era destinata ad essere
assimilata dai Borg, mentre il Q-Continuum osservava
indifferente, cosa avrebbe potuto fare lui, semplice e
misero umano, contro tanta potenza?
Una lacrima tentò di trovare la sua strada lungo il viso di
Picard, ma il soffio caldo del deserto l’asciugò prima che
potesse scavarsi il suo solco.
E poi rabbia frustrante. Come una diga che cede per
l’eccessiva pressione dell’acqua.
Strinse i pugni fino a sentire il dolore provocato dalle
proprie unghie che iniziavano ad infilarsi nelle carni del
palmo.
Percepì la pressione di un tocco sulla spalla. Era la mano
di Q, proteso in un gesto di conforto.
«Jean-Luc» mormorò, incapace di trovare le parole
adatte. Anche per lui si trattava di una grossa perdita. La
242
sconfitta era ormai davvero vicina. Per quanto Picard
fosse un essere davvero speciale e sorprendente,
difficilmente avrebbe potuto superare la Terza Prova
completamente da solo.
«Era necessario tutto questo?» domandò Picard, senza
voltarsi.
«Non tutto è perduto Jean-Luc! C’è ancora una prova da
affrontare! Possiamo ancora salvare la Galassia dai
Borg!»
«Possiamo?» il fatto che Q stesse parlando al plurale non
sorprese più di tanto Picard. Gli sembrò logico e
comprensibile che Q restasse fedele a se stesso fino
all’ultimo.
«D’accordo. Hai ragione. Io ho soltanto creato problemi
in questa faccenda.»
«Problemi? La morte di Beverly, Deanna, Worf… Tu
questi li chiami problemi?» lo interruppe Picard.
«Io le definisco tragedie! Ingiustificabili tragedie! Se
fossero periti in missione od in battaglia sarebbe stato
ugualmente difficile accettarne la perdita. Ma fa parte dei
rischi di chi entra a fare parte della Flotta Stellare. Loro
ne erano consapevoli, io lo sono tutt’ora. Ma così…
Morire per il divertimento di due entità sfaccendate, che
hanno scambiato la Galassia per un tavolo da gioco e gli
esseri che la abitano per pedine. No! Così non è
accettabile!»
Lo sfogo di Picard non sembrò avere una grande effetto
su Q, il quale non batté minimamente ciglio.
«Tu non capisci vero?» domandò Picard, che per la prima
volta si rese conto di quanto in realtà fosse limitata la
natura dei Q. Avevano perso cognizione per il senso della
vita. Di ogni singola vita. Sterminarne a milioni o
condannarne uno soltanto, per loro era la medesima cosa.
Un gioco, un passatempo, un divertimento.
243
Q fece un passo indietro. Gli occhi di Picard emanavano
una luce sinistra, gelida che lo turbò. Mollò la presa dalla
spalla del capitano e abbassò lo sguardo, incapace di
sostenerlo. Che Picard fosse dotato di inaspettate capacità
telepatiche
mai
rivelatisi
fino
ad
ora?
Un brivido gli percorse la schiena, mentre un senso di
angoscia profonda, misto a rabbia e dolore lo invase
lentamente. Ma anche un grande orgoglio, dignità e
fierezza. E la fonte era Picard.
Picard continuò a fissarlo qualche secondo, poi riprese
con tono pacato.
«Che succede Q? Il tuo giocattolo non ti diverte più?» e
con un gesto delle mani indicò se stesso.
«Allora! Voi due! Volete muovervi!» urlò il Q-Borg, che
nel frattempo era rimasto ad osservarli in compagnia dei
membri del Consiglio, interrompendo così il loro
dialogo.
«Arriviamo!» rispose sgarbatamente Q.
«Coraggio! Poniamo fine a questa farsa. Il tuo giocattolo
è pronto ad entrare in azione!» ironizzò Picard.
Q non replicò e si limitò a tornare verso i membri del
consiglio, seguito dal capitano.
«Siamo pronti» disse semplicemente.
«Bene. Che la Terza Prova abbia inizio» disse la donna Q
a capo del Consiglio. E alzò lo scettro dorato al cielo.
«Ottimo! Non vedo l’ora che sia conclusa! La vittoria è
già nelle mie tasche!» esclamò borioso il Q-Borg «Ci
vediamo fra poco Q!» e scomparve in un lampo di luce
bianca. Un istante dopo scomparvero anche tutti i
membri del consiglio.
Q si voltò verso Picard e fece per indicargli la via per il
retro del furgone militare, che aveva trasportato anche gli
altri suoi compagni, ma il capitano, con sua sorpresa, non
aveva atteso il suo invito e spontaneamente stava
244
apprestandosi ad accomodarsi sulle scomode panche
pensate per il trasporto di truppe su terra.
Q raggiunse il retro del mezzo e sollevò la sponda
metallica, bloccandola con gli appositi fermi.
Poi si fermò un istante ad osservare Picard, che stava
seduto con il busto eretto e pareva fissare il vuoto davanti
a se.
«Ce la farem... farai Jean-Luc. Ne sono convinto.»
Picard non rispose. Era stanco delle rassicurazioni di Q,
che fino a quel momento non erano servite ad un bel
nulla.
Q fece per aggiungere qualche altra parola, ma vi
rinunciò e si mise rapidamente alla guida del pesante
mezzo.
Picard rimase immerso nei propri pensieri, senza
domandarsi né quanto sarebbe durato il viaggio né dove
Q l’avrebbe portato. Non gli interessava nemmeno
provare ad immaginare la natura della terza prova.
Si sentiva vuoto e sconfitto. E con la netta sensazione che
qualunque cosa avrebbe fatto, non ci sarebbe stato modo
di uscire da quella situazione.
- E’ la mia Kobayashi-Maru - ridacchiò fra se, ricordando
un vecchio test a cui erano sottoposti i cadetti
all’Accademia. Una classica situazione senza via
d’uscita, dove qualunque strategia si adotti si va incontro
alla sconfitta.
«Qualunque strategia…» mormorò, mentre era sballottato
dalle vibrazioni del mezzo, che correva veloce su
quell'unica lingua di asfalto nero, sempre radente il muro
a secco.
Ricordò anche di come l’unico ad essere riuscito a
superare la prova fu James Kirk, con uno stratagemma
davvero originale. Non si mosse all’interno della
simulazione, non ne accettò le regole e le condizioni.
245
Uscì da essa e modificò la situazione a suo favore. Con
un piccolo intervento sul computer del simulatore.
Per un istante balenò nella sua mente un’idea.
«Cambiare le condizioni…» disse con tono più convinto.
Perché no? Si domandò. Non aveva ormai più nulla da
perdere. Se fosse andato incontro alla terza prova era
certo che avrebbe perso. La simulazione era programmata
contro di lui. Forse una soluzione era tentare di uscire dal
simulatore. Sfuggire alla regole imposte dai Q.
Si guardò intorno e subito gli fu chiaro cosa doveva fare.
Si mise a cavalcioni della sponda metallica e tenendosi
faticosamente in equilibrio, cercò di valutare quante
possibilità avrebbe avuto di saltare dal mezzo senza
rompersi l’osso del collo. E senza che Q lo notasse dagli
specchietti retrovisori.
Approfittò di un piccolo dosso che fece rallentare un
poco l’andatura del mezzo. In più, non appena il mezzo
avesse imboccato la discesa, sarebbe sfuggito alla vista
degli specchietti.
Fece un profondo respiro ed attese l’attimo migliore.
Poggiò i piedi su una barra di protezione che stava poco
sotto la sponda, con la schiena poggiata ad essa e le mani
pronte a sostenerlo.
Il mezzo rallentò. Q cambiò la marcia per affrontare la
salita e durante l’operazione la velocità diminuì
notevolmente.
«Adesso!» esclamò Picard per incitarsi e si lanciò.
Ruzzolò pesantemente sull’asfalto, finendo la corsa nella
sabbia del deserto. Ma era intero e con tutte le ossa a
posto.
Alzò lo sguardo, giusto per vedere il camion militare
scomparire dietro la cunetta. Restò in ascolto, per
verificare se Q avesse o meno notato la sua defezione.
Ma il rombo del mezzo ben presto scomparve. Ce l’aveva
fatta.
246
Almeno a fuggire. Ora pero’ non aveva la minima idea di
quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
Chiuse il portello dietro di se. Il cuore gli pulsava a mille,
tanto che se lo poteva sentire in gola. Nonostante fosse
più che certo che era frutto della sua immaginazione,
poteva ancora sentire le suppliche del comandante
Vovelek.
Si sentì un verme. Un vigliacco. Ma non aveva avuto il
coraggio di fare fuoco. Comunque il vulcaniano era
spacciato. Anche se lo aveva costretto ad una morte più
lenta e dolorosa. Un vulcaniano non avrebbe esitato a fare
fuoco, ma lui era umano ed uccidere a sangue freddo un
amico andava contro i suoi principi.
- Se ho sbagliato, pagherò! - Si disse per farsi forza.
Cercando di convincersi di avere preso la decisione
giusta. Ma una parte di se urlava di vergogna per
l’atrocità di cui si era reso responsabile.
Cercò di scacciare ogni pensiero e decise che era giunto il
momento di darsi una possibilità di sopravvivenza e di
lasciare quel pianeta maledetto.
Scavalcò i corpi senza vita dei droni che aveva abbattuto
a colpi di pistola e si mise alla consolle principale di
navigazione.
Attivò la procedura di preriscaldamento dei motori di
manovra. Ancora pochi minuti ed avrebbe potuto lasciare
quell’arido pianeta. Anche se per andare non molto
lontano. Al massimo avrebbe raggiunto l’orbita, ma da li
avrebbe potuto tentare di inviare un segnale di soccorso
non disturbato dall’atmosfera e quindi molto più potente.
Sempre che nella Galassia fosse rimasto ancora qualcuno
in grado di raccoglierlo.
Attivò l’energia principale e la scialuppa iniziò a vibrare
violentemente, tanto che Riker temette che sarebbe
esplosa di li a poco. Forse Vovelek non era riuscito ad
247
interfacciare correttamente la cella d’energia con il
sistema dei propulsori di manovra.
Poco male, si disse, forse in fondo era la fine che
meritava.
Ma dopo pochi secondi i valori rientrarono nella norma e
la scialuppa cessò di vibrare. La consolle gli diede il via
libera al decollo.
«Ottimo lavoro Vovelek» mormorò fra se, sentendo di
essere, per l’ennesima volta, in debito col vulcaniano.
«Peccato che non potrò mai sdebitarmi» concluse la
riflessione ad alta voce. Come se il vulcaniano fosse li
per poterlo ascoltare.
Impostò una rotta ellittica, che lo avrebbe portato fuori
dall’atmosfera del pianeta in meno di dieci minuti. Quella
era la fase più critica. I razzi di manovra erano
scarsamente potenti ed inadatti al volo atmosferico. Ed in
più il sistema di guida automatico era fuori uso.
«Forza William, vediamo se te la cavi ancora con il volo
manuale»
Premette il controllo di attivazione dei propulsori laterali
e frontali e la navicella lentamente iniziò a sollevarsi
dalla sabbia del deserto, creando un vortice di sabbia e
pietre che la avvolse completamente.
Aumentò gradualmente la potenza, osservando
l’altimetro, per verificare che si stesse realmente
muovendo. In una qualsiasi direzione.
Lentamente la scialuppa prese quota, lasciando dietro di
se una scia biancastra, causata dalla reazione del
propellente dei razzi di manovra con l’atmosfera.
A causa dei forti venti la scialuppa oscillava
violentemente, costringendo Riker ad aggrapparsi di tanto
in tanto.
Operazione rischiosa, visto che lo costringeva ad
abbandonare i controlli manuali.
248
«Per quanto dovrò rimpiangerti?» domandò a se stesso ed
al suo braccio mancante. Se si fosse salvato, giurò,
avrebbe finalmente compiuto un intervento di ripristino.
O con un braccio clonato o meccanico. Anche un
semplice uncino. Purché fosse stato di nuovo in grado di
essere utile a se stesso.
Mille metri.
Cinquemila metri.
Diecimila metri.
La scialuppa stava salendo di altitudine, anche se molto
lentamente, e lungo una rotta estremamente ellittica. Ma
questo era il massimo che Riker poteva ottenere dalle
scarse possibilità offerte dalla scialuppa, progettata per
effettuare un atterraggio di emergenza, ma non per un
decollo.
Lavorò costantemente ai controlli di navigazione,
cercando di anticipare le oscillazioni causate dalle
turbolenze, via via meno intense, man mano che saliva di
quota.
«Ancora uno sforzo. Cinquantottomilaseicento metri»
presto avrebbe raggiunto la ionosfera dove la resistenza
dell’atmosfera sarebbe stata minore e i propulsori di
manovra avrebbero operato con maggiore efficienza.
Lo schermo principale gli mostrava la superficie del
pianeta. Una sfera di sabbia nell’universo. Non vi era una
sola fascia di vegetazione, nemmeno nei pressi dei poli. Il
che incuriosì Riker. Era alquanto inusuale una simile
conformazione.
Cercò di azionare i sensori esterni della scialuppa, ma
erano apparentemente fuori uso, inglobati nella
tecnologia Borg che infestava ancora le apparecchiature
della capsula.
Sperava così di tentare una ricerca di altri sopravvissuti
della Uss Pioneer e magari di mettersi in contatto con
loro.
249
Ma il tentativo di penetrare nei sistemi Borg causò una
specie di reazione difensiva dei sistemi stessi.
Alle sue spalle udì il crepitio di circuiti, che saltavano e
prendevano fuoco. Da una paratia uscirono lingue di
fuoco, che Riker cercò prontamente di spegnere con un
estintore. Ma l’operazione gli fu fatale. Allontanandosi
dalla consolle principale non si rese conto che l’energia
principale stava cedendo a causa dell’interferenza della
tecnologia Borg.
Improvvisamente fu il buio più completo all’interno della
scialuppa.
E un istante dopo, Riker fu letteralmente sbattuto contro
una delle pareti.
La scialuppa aveva perso l’assetto e stava entrando in una
pericolosa cavitazione.
L’energia d’emergenza entrò in funzione, riportando una
flebile luce nell’abitacolo.
Riker scosse il capo frastornato da quanto era accaduto.
Un rivolo di sangue gli colava dalla fronte. Ma non
sentiva nessun particolare dolore. Nulla di grave, si
rassicurò.
Si rimise faticosamente in piedi e tentò di raggiungere la
consolle di navigazione per tentare di riprendere il
controllo della capsula.
Ma il pavimento oscillava sotto di lui e gli smorzatori
inerziali faticavano a correggere il continuo cambio di
senso della gravità, causato dalla cavitazione.
Quando riuscì a rimettere le mani alla consolle e constatò
l’entità dei danni, comprese che non c’era più nessuna
speranza di riprendere l’orbita. L’energia principale era
fuori servizio. Al contrario stava precipitando senza
controllo.
Avrebbe dovuto cercare di tentare un atterraggio di
fortuna, facendo leva sui propulsori di manovra e
l’energia di riserva.
250
Per prima cosa cercò di annullare la rotazione, dando
potenza nel senso opposto. La capsula vacillò ma riprese
un assetto accettabile. Ora, valutò Riker, era il caso di
portare il muso di quell’affare il più possibile parallelo
alla superficie del pianeta e tentare di strisciarvici sopra,
anziché infilarsi come un sasso in essa.
Un pensiero andò a Vovelek.
«Non riesce a stare senza di me» mormorò, fissando lo
schermo principale, che, tremolante, gli mostrava la
superficie del pianeta in costante avvicinamento.
Attese con animo sereno l’impatto col suolo.
Il suo destino era ormai compiuto. Se non fosse morto
nell’impatto lo sarebbe comunque, pochi giorni dopo, o
per le ferite o per l’esaurirsi delle scorte.
La capsula sfiorò le sabbie del deserto, poi, come un
sasso lanciato sull’acqua rimbalzò alcune volte, senza
perdere l’assetto, fino ad arrestarsi definitivamente contro
una duna.
251
CAPITOLO 26
«Pensi che ce la farà?» domandò il giovane allievo di Q.
«Deve farcela. Non ho più scelta. Farò il possibile per
aiutarlo.»
Il ragazzo distolse lo sguardo dalla strada, che
rapidamente scompariva sotto i pneumatici del pesante
automezzo, per osservare meglio l’espressione dipinta sul
volto del suo maestro.
Q era teso. I muscoli facciali erano contratti, la mascella
serrata. Lo sguardo fisso sulla strada. Le mani saldamente
sul volante.
«Ma se lo aiuterai, il Consiglio darà la vittoria al QBorg.» gli ricordò il più giovane Q.
«Lo so» rispose seccamente Q.
«Non capisco. Se lo aiuterai a vincere la prova, perderai
comunque. O forse hai in serbo qualche sorpresa
speciale? A me lo puoi dire. Sai che terrei la bocca
chiusa!»
«No. Nessuna sorpresa, nessun trucco. Picard vincerà.»
«Ma tu così perderai. Io non capisco maestro!»
Il giovane Q cominciò ad intuire la verità. Forse al
proprio maestro interessava più la vita dell’umano che la
vittoria nella sfida.
«Si perderò. Ma Picard non morirà. Non lo posso
permettere.»
Come pensavo, si disse fra se il ragazzo, tornando a
osservare il paesaggio oltre il parabrezza.
«Quindi avremo una Galassia dominata dai Borg e un
singolo umano. Jean-Luc Picard.» commentò l’allievo.
Q sorrise per una frazione di secondo.
252
«Non è detto ragazzo mio. Picard potrebbe anche farcela
a vincere la prova. Io interverrò solo ed unicamente se
dovesse trovarsi in difficoltà. Non tutto è perduto.»
«Capisco. Sarà uno spettacolo interessante ed istruttivo.»
«Lo sarà.» rispose Q, chiudendo la conversazione e
tornando a concentrasi su quanto lo stava attendendo.
Picard si rialzò, scuotendosi l’uniforme per togliersi di
dosso almeno una parte della sabbia. Una buona quantità
della stessa era arrivata sul fondo dei suoi stivali
d’ordinanza. Uno alla volta se li levò, svuotandone il
contenuto, che si disperse nel vento.
«Ora va meglio» si disse soddisfatto, non percependo più
il fastidioso scricchiolio dei granelli di sabbia sotto la sua
pianta dei piedi.
Si guardò intorno. Deserto. Per miglia e miglia. In
lontananza delle alture.
Ma dovevano trovarsi parecchio lontano dalla sua
posizione.
Poi la strada, che si perdeva all’orizzonte in entrambe i
sensi e il muro, di pietre, che la seguiva.
- Bene, - si disse - adesso quale sarà la mia prossima
mossa? Fece una rapido riassunto della sua situazione: si trovava
in un deserto, senza né acqua né cibo. Per di più non un
deserto reale, ma una creazione appositamente pensata
per lui, quale rappresentazione di non si sapeva quale
luogo del Q-Continuum.
Per similitudine, paragonò il luogo ad un moderno ponte
ologrammi. Senza conoscere i comandi per far apparire
l’uscita, avrebbe potuto camminare in qualunque
direzione per l’eternità, senza mai trovarne il confine
estremo.
253
Il sole scottava, per cui decise che sarebbe stato più
saggio continuare la riflessione all’ombra del muro a
secco.
Si sedette sulla sabbia, poggiando la schiena contro le
pietre della muraglia, che, con la loro relativa frescura, gli
diedero un parziale sollievo.
Si rese conto che fino a quel momento non aveva badato
grande attenzione alla muraglia. Alzò il capo per
osservarla meglio. Era un semplice muro, alto all’incirca
due metri e mezzo o poco più, di pietre e una qualche
sostanza che faceva da collante. Provò a graffiarne la
superficie per verificare la qualità del cemento. Era
fango. Banalissimo fango, che si sgretolò rapidamente fra
le sue mani.
Si pulì i palmi della mani strusciandoli rapidamente fra di
loro.
«Alta tecnologia Q» disse commentando la qualità della
realizzazione.
Improvvisamente, come una specie di illuminazione
divina, una possibilità gli balenò nella mente. Con uno
scatto del collo, tornò a guardare in alto, verso la cima del
muro.
«Infrangere le regole. E le convenzioni..» si disse,
alzandosi in piedi e cominciando a guardarsi intorno, alla
ricerca di qualcosa di utile per costruirsi un gradino,
sufficiente per tentare di scoprire cosa si trovasse al di là
della muraglia.
«Vivo» mormorò nell’oscurità.
«Sono ancora dannatamente vivo» si ripeté quasi
incredulo.
Era a terra, con la guancia contro il freddo pavimento
metallico della capsula.
Era stato sballottato più volte durante l’atterraggio
d’emergenza, ma ancora una volta, la sua dea della
254
fortuna personale lo aveva protetto. Ad eccezione di
qualche contusione, stava bene.
L’interno della capsula era nell’oscurità più completa. I
due piccoli oblò di cui era dotata, erano rivolti verso il
terreno. La capsula era completamente sottosopra.
Riker se ne rese conto tentando di rialzarsi, quando con la
nuca, batté violentemente contro una consolle, che
parzialmente distrutta, pendeva dal soffitto.
Brancolando nel buio, tentò di orizzontarsi, alla ricerca
del portello di uscita. Sperando che questa volta non fosse
rimasto bloccato, così come gli era accaduto dopo il
primo atterraggio fortunoso. Questa volta non ci sarebbe
stato nessun dannato vulcaniano ad aiutarlo.
Anche se in fondo, una volta trovata una via d’uscita, si
sarebbe nuovamente trovato di fronte il desolante
spettacolo di un deserto arido e senza vita.
E nessun dannato vulcaniano capace di trovare un oasi
sperduta in mezzo ad esso.
L’aria all’interno della navicella si stava facendo sempre
più calda ed irrespirabile. I corpi senza vita dei droni
emanavano un puzzo nauseabondo.
Muovendosi a tentoni, Will riuscì a trovare il portello
d’uscita e il relativo pannello di controllo. Ma mancando
l’energia, come previsto, non servì a nulla azionarne i
controlli. Riker, passò quindi alla ricerca dello sblocco
manuale, che era celato da un pannello rimovibile.
Tirando la leva, udì lo schiocco delle morse magnetiche
che rilasciavano il portello, il quale fece un leggero scatto
laterale ma si arrestò, mancando l’energia, ma lasciando
filtrare una flebile linea di luce, sufficiente a rischiarare il
volto di Riker.
Con il suo unico braccio, Will, spinse manualmente di
lato il portello, quanto bastò per poterci passare con le
spalle.
255
La rampa metallica si era automaticamente distesa, ma
essendo la capsula rovesciata, si stagliava ora verso il
cielo.
L’aria secca e calda sferzò il volto di Riker.
«Rieccomi a casa» disse ironizzando sulla sua situazione.
Approfittando della luce che penetrava l’interno della
capsula, ritrovò le poche provviste che lui e Vovelek
avevano messo da parte. Si mise lo zaino in spalla e si
apprestò ad effettuare un salto di circa un metro, per
raggiungere le sabbie del deserto.
Alto, ma non troppo, anche con una caviglia ancora
dolorante.
Era protetto dall’ombra della scialuppa. Ed appena messi
gli stivali sulle dune del deserto, iniziò a guardarsi
intorno.
«Sabbia, sabbia ed ancora sabbia.» esclamò sconsolato.
Per scrupolo decise di effettuare una ricognizione
completa e si apprestò ad aggirare la navetta, salendo
sulla cima della duna contro cui aveva arrestato la sua
caduta.
E giunto alla sommità rimase sorpreso da quanto si parò
davanti ai suoi occhi: una linea perfettamente retta
tagliava in due il deserto, perdendosi all’infinito. Un
muro di pietre.
«Come sarebbe a dire che non c’è?»
L’allievo allargò le braccia senza sapere che dire, se non
ribadire quanto era sotto i suoi occhi.
«Non c’è! Picard non è nel retro del camion!»
«Ma non è possibile! L’ho visto io stesso sistemarsi sulla
panca!»
Q accorse a verificare di persona quanto il ragazzo stesse
affermando.
Raggiunse il retro del camion, parcheggiato a fianco di
quello guidato dal Q-Borg.
256
Il ragazzo diceva il vero. Non vi era traccia del capitano.
«Ma dove diavolo è andato!» Q iniziò ad urlare il suo
nome a squarciagola ed ad ispezionare il camion. Forse
Picard era in vena di scherzi e si era nascosto. Prima
controllò al di sopra del telone verde militare, poi diede
una rapida occhiata sotto il mezzo e lo circumnavigò due
volte, agitandosi ed imprecando.
Si fermò solamente quando inavvertitamente andò a
sbattere contro il suo avversario, il quale stava intuendo
quanto era accaduto.
«Ti sei perso il tuo fantastico capitano, Q?»
«Non l’ho perso! E’ qui da qualche parte!» rispose
balbettando Q, tornando poi a chinarsi, per controllare se
per caso fosse nascosto al di sotto del mezzo.
«Beh! Ti conviene ritrovarlo al più presto, se ti interessa
ancora giocarti la Terza Prova. Oppure è uno dei tuoi
soliti mezzucci?»
«Mezzucci? Che diavolo stai dicendo?» ribatté Q,
continuando a scandagliare ogni possibile nascondiglio.
«Coraggio Q! Ho capito il tuo gioco. Sai di avere perso e
stai cercando una scusa per ritirarti. Ma non funzionerà.
Se il tuo capitano non salta fuori entro cinque minuti, la
Sfida sarà conclusa a mio favore.»
«Scordatelo! Tu non decidi un bel nulla! Gli unici che
possono farlo sono i membri del consiglio!»
Sul volto del Q-Borg comparve un ghigno divertito.
«Come vuoi» e schioccò le dita.
Un istante dopo tutto il consiglio del Q-Continuum
ricomparve al gran completo.
Solo a quel punto Q arrestò la sua ricerca, comprendendo
la pericolosità della situazione.
La anziana Q a capo del consiglio fece un passo avanti e
con un tono di voce, che nulla faceva per nascondere
quanto fosse scocciata di essere stata nuovamente
interpellata, disse seccamente:
257
«Stavo cominciando a sentire la vostra mancanza. Di
cosa si tratta questa volta?»
Q le corse incontro e con il suo solito fare ossequioso
spiegò rapidamente quanto era accaduto.
«Ma non si preoccupi! Lo troverò quanto prima. Forse è
caduto fuori dal camion durante il viaggio!»
La donna scosse il capo lentamente.
«Q. Come puoi non sapere dove si trova l’umano. Come
hai potuto lasciartelo sfuggire. I poteri dei Q…»
«Ero distratto! Ero talmente concentrato sulla Sfida che
ho lasciato che i miei pensieri si prendessero tutta la mia
attenzione!»
Lo donna sospirò. Stava per perdere la pazienza.
«D’accordo. Ora vuoi cortesemente riportalo qui?»
Q rimase qualche secondo a bocca aperta, incapace di
dire la verità.
Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse Picard.
E per un essere onnisciente era una condizione più unica
che rara. L’eccessiva tensione aveva indebolito i suoi
poteri?
«Io non so dove si trovi. Altrimenti l’avrei già fatto. Non
può farlo lei per me? Le prometto che questa sarà l’ultima
volta che disturberò il Consiglio, per i prossimi dieci,
anzi no! Quindici eoni!»
L’anziana Q scambiò un’occhiata con gli altri membri del
Consiglio e poi tornò a parlare:
«L’offerta è decisamente allettante. Ma non è accettabile!
O il tuo umano prende parte alla Terza Prova entro
cinque minuti o la vittoria sarà data al tuo avversario per
abbandono. E avrai perso anche questa ridicola Sfida!»
Q rimase senza parole, mentre l’eco della grassa risata del
Q-Borg lo raggiunse alle spalle.
Aveva raccolto quante più pietre era stato in grado di
trovare, purtroppo tutte di piccole dimensioni. Per cui ne
258
erano occorse parecchie, prima di riuscire a formare un
cumulo sufficientemente alto e consistente da
permettergli di raggiungere la sommità della muraglia
con le mani.
Facendo attenzione a non scivolare, Picard si apprestò a
scalare la piccola quanto friabile montagnola che aveva
creato. Con gli stivali, che tendevano a scivolare verso
l’esterno, riuscì, non senza fatica a raggiungerne la
sommità ed a trovare una posizione di equilibrio.
Poggiandosi contro il muro, lentamente fece scorrere i
palmi verso l’alto, fino a che le braccia non furono
completamente distese.
Mancavano pochi centimetri all’obbiettivo. Ansimò per
lo sforzo di distendersi quanto più possibile, ma senza
esito.
Doveva effettuare solo un piccolo balzo.
Caricò le gambe per effettuarlo, sperando che i sassi sotto
le sue suole non cedessero di schianto sotto la pressione.
Con un piccolo slancio riuscì a portare le mani oltre il
limite estremo del muro ed ad aggrapparsi saldamente. E
le sue dita percepirono qualcosa di inaspettato.
Raggiunse la muraglia in pochi secondi.
Era proprio un lungo, infinito muro a secco. Pietre e
fango più o meno, valutò Riker.
«Allora il pianeta è abitato.» ne dedusse, essendo da
escludere che si trattasse di un fenomeno naturale.
Non si vedeva alcun tipo di passaggio in nessuna delle
due direzioni per cui si estendeva la muraglia. Se avesse
voluto scoprire cosa si celava dietro di essa, l’unica
soluzione era scavalcarla.
Ma era alta ben più di due metri e con un braccio solo
non sarebbe mai riuscito ad aggrapparsi a sufficienza, per
tentare di mettersi a cavalcioni di essa. Tornò nei pressi
259
della capsula alla ricerca di qualcosa di utile, che potesse
fargli da gradino.
Raccolse alcuni rottami, che stavano sparsi intorno alla
capsula e li trascinò faticosamente fino al muro. Gli
occorsero più viaggi per raccogliere tutto il necessario.
Ammucchiandoli diligentemente, si costruì uno scalino
sufficientemente affidabile.
Si strinse lo zainetto in spalla e lentamente testò la tenuta
statica dello scalino. Dondolava leggermente ma resse il
suo non indifferente peso. Rimase con le ginocchia
piegate, dondolando su se stesso. Poggiò una mano sulla
cima del muro per non perdere l’equilibrio e
improvvisamente percepì una sensazione di contatto
familiare.
Alzò il capo di scatto, che, da poco sopra il collo,
sovrastava la muraglia.
E rimase di stucco.
«Capitano!»
«Will!»
«Che diavolo ci fa lei qui?»
«Stavo per farle la stessa domanda!» rispose Picard,
stupito ma felice di ritrovare un volto amico.
260
CAPITOLO 27
«Cinque minuti? Non sono assolutamente sufficienti
cinque minuti!» protestò Q, agitando le braccia davanti al
capo del consiglio del Q-Continuum.
«Così ho deciso. Siamo tutti stanchi di questa vostra
diatriba. A me non importa chi sarà il vincitore. Importa
solo che cessi quanto prima!» rispose con tono autoritario
l’anziana Q, agitando a sua volta lo scettro, simbolo di
potere.
«Ma non può finire così! Non è regolare!» protestò
ancora Q.
«Non è colpa mia se il tuo capitano se l’è data a gambe
levate. Probabilmente ara conscio di essere spacciato»
intervenne il Q-Borg. Era decisamente soddisfatto per
l’inattesa evoluzione della situazione. La vittoria era
praticamente in suo pugno.
Q si voltò verso l’avversario, puntandogli contro l’indice.
«Sei stato tu! E’ opera tua! Tu hai fatto sparire Picard!
Ammettilo! Lo sapevo che non avresti resistito dal
commettere qualche scorrettezza! Sei un codardo!»
«Calmati Q! Io non ho toccato il tuo umano. Il Consiglio
vigilava su entrambi. Se fossi stato io, loro l’avrebbero
subito scoperto. Mi spiace Q. Stavolta è proprio finita.
Hai perso!» rispose il Q-Borg.
Q tornò a rivolgersi al capo del Consiglio «ha
imbrogliato! Io lo so che è stato lui! Deve essere riuscito
a farvela in barba! Ma è sicuramente opera sua!»
La donna lo guardò dall’alto in basso, con un’espressione
di disgusto.
«Le tue parole offendono tutto il Consiglio del QContinuum. Osi mettere in dubbio la nostra lealtà?»
261
Q si rese conto che stava rischiando di avventurarsi in un
discorso controproducente ma cercò ugualmente di
riparare.
«Non mi permetterei mai. Io intendo solo affermare che
può esserci la possibilità che il mio avversario sia riuscito
ad eludere la vostra sorveglianza ed a rapire Picard,
nascondendolo anche al sottoscritto.»
La donna mutò espressione, da disgusto ad ira.
«Nessuno può eludere lo stretto controllo del Consiglio!»
esclamò, puntando lo scettro verso Q.
«Non starò ad ascoltare le tue accuse un momento di più!
Sono a dir poco scioccata dalla tua irriverenza! I cinque
minuti che ti sono stati concessi sono scaduti. E il tuo
campione non è presente.
Dichiaro la Terza Prova conclusa e la vittoria è assegnata
al Q-Borg, per abbandono dello sfidante. E...»
Q tentò di interromperla, pur rendendosi conto che il
gesto avrebbe fatto accrescere l’ira della donna. Non
poteva permettere che finisse così. Le conseguenze di
quella decisione avrebbero per sempre sconvolto la vita
dell’Universo.
«Mi oppongo a questa decisione!» esclamò facendosi
coraggio.
La donna rimase stupefatta. Nessuno mai si era permesso
un simile affronto.
Interromperla mentre deliberava.
«Q! Apri la bocca ancora una volta e sarai espulso dal QContinuum un’altra volta. E ti posso assicurare che per
nessun motivo ti reintegreremo fra le nostre fila! Già mi
sto pentendo di averti accordato una seconda possibilità!»
Q stavolta tacque. Non gli restavano più carte da giocare.
L’ora della sconfitta era infine giunta. Tutto per colpa di
Picard. Alla fine, il buon vecchio capitano era riuscito a
ripagarlo con la sua stessa moneta. Dopo anni in cui si
era, per sua stessa ammissione, divertito a stuzzicare
262
l’umano ed il suo equipaggio, ora era lui a trovarsi
vittima di uno scherzetto del capitano. Ma Picard avrebbe
rimpianto per sempre la sua mossa. La sconfitta nella
terza ed ultima prova, sanciva la fine della Sfida. E le
conseguenze di tale conclusione, a favore del suo
avversario,
sarebbero
state
devastanti.
«Bene! Così ti preferisco. Silente» aggiunse l’anziana Q,
osservando con piacere che Q non aveva più osato
replicare e poi continuò.
«Comunque, opposizione respinta. La Terza Prova è
conclusa. La Sfida è conclusa. Finalmente, dopo secoli,
siamo arrivati al termine di questa triste vicenda, che ha
tanto infangato il nome del Q-Continuum. Entrambi ci
avete disonorato, approfittando della vostra superiorità a
danno di esseri primitivi. Ma ora basta.»
La donna si avvicinò al Q-Borg e puntandogli al capo lo
scettro, disse con tono solenne:
«Ti dichiaro vincitore.»
Picard e Riker erano faccia a faccia, aggrappati alla bell’e
meglio al ciglio della muraglia di pietre.
Ancora increduli di trovarsi l’uno in compagnia
dell’altro.
«Ma lei non dovrebbe trovarsi sull’Enterprise, a guidare
il convoglio verso il tunnel bajoriano?» domandò il primo
ufficiale.
«Si, vero. E’ una lunga storia Will.» sbuffò Picard.
«Non me lo dica. Q!» intuì Riker.
«Ogni volta che finiamo col trovarci in una situazione
assurda, c’è sempre il suo zampino» ammise Picard che
poi continuò «lei non dovrebbe trovarsi a bordo della
Pioneer?»
«La nave è stata fatta a pezzi. Mi sono salvato
precipitando su questo pianeta con una capsula di
263
salvataggio» rispose Riker, facendo cenno a Picard, con
un gesto del capo, di guardare oltre le sue spalle.
«Oh! Vedo. Bell’atterraggio.» ironizzò Picard,
constatando lo stato della capsula.
«Allora non è solo. In quanti siete? Ci sono feriti?»
domandò Picard tornando serio.
«Sono l’unico. Anche la mia è una lunga storia. Questo in
realtà è il mio secondo atterraggio di fortuna su questo
pianeta.»
Picard decise che non occorrevano altre domande. Anche
perché non riusciva più a sostenersi con la sola forza
delle braccia.
«Capisco. Che ne dice di raggiungermi da questa parte.
Potremo parlare al riparo dalla calura almeno» propose al
suo primo ufficiale.
«Arrivo»
A fatica, Riker riuscì a scavalcare la muraglia, aiutato da
Picard e facendo affidamento al mucchio di rocce che il
capitano aveva preparato.
«E’ una strada quella?» domandò Riker, notando la
presenza della lingua di asfalto «il pianeta è abitato?»
«Comandante, ora le spiego, anche se mi è sempre più
difficile comprendere come e perché lei si trovi qui.»
I due trascorsero una buona ora a scambiarsi le relative
esperienze.
Riker apprese della morte dei suoi amici più cari e
soprattutto di Deanna, la betazoide, la donna che aveva
amato di più in tutta la sua vita.
«Imzadi» sussurrò al vento, mentre Picard gli indicava
quale fosse la sua tomba.
E apprese anche della fuga di Picard e del fatto che non
avesse ora la più pallida idea sul da farsi.
Picard, invece, venne a conoscenza della tragica
avventura dei sopravvissuti della Uss Pioneer, delle gesta
264
del comandante Vovelek e della terribile scelta che Riker
si era trovato ad operare.
E del rimorso che ancora lo accompagnava, per non avere
trovato il coraggio di sparare al vulcaniano.
«Si faccia coraggio Will. La sua non era una scelta facile.
Anch’io esiterei se ad essere assimilata, fosse una
persona a me cara» lo confortò Picard, ben consapevole
che in passato, non aveva invece esitato ad uccidere un
membro del suo equipaggio, ormai preda del processo di
assimilazione. Ma non stava mentendo, ne cadendo in
contraddizione.
Semplicemente non poteva sapere se avrebbe avuto lo
stesso sangue freddo se, al posto di uno sconosciuto, vi
fosse stato uno dei suoi amici più cari.
«Comunque sia, sono felice di rivederla comandante.»
Riker sorrise.
«Lo stesso vale per me capitano. Anche se, come
giustamente ha fatto notare, nemmeno io ho la più pallida
idea di cosa fare ora.»
Picard si sentì rinfrancato dall’aver ritrovato il suo primo
ufficiale.
Qualunque fosse il destino che li attendeva, avrebbe
potuto contare su un vero amico, nonché un uomo dalle
capacità straordinarie, di cui era sempre stato fiero, in
qualità di suo ufficiale superiore e di semplice uomo.
«Proposte Numero Uno?» domandò Picard.
«Una capitano. Rifocillarci.» Riker afferrò il suo zainetto
e ne estrasse il contenuto. Acqua e le bacche raccolte
nell’oasi. E le offrì al capitano.
Non appena l’anziana Q, a capo del Consiglio del QContinuum, ebbe terminato di dichiarare la vittoria nella
Sfida del Q-Borg, quest’ultimo alzò le braccia, costituite
da impianti Borg in oro e argento, verso il cielo ed emise
un urlo di vittoria.
265
Un urlo trattenuto per millenni, tanto era durata la sfida
fra i due esseri dotati di poteri quasi infiniti.
Il suo urlo sembrava non avere fine ed era talmente
poderoso che l’atmosfera sopra le loro teste si addensò,
andando a formare una specie di turbine, che si fece man
mano più grande e minaccioso.
Un vento di insostenibile potenza sollevò tonnellate di
sabbia, che formarono un circolo attorno al Q-Borg.
Tutto nell’area fu spazzato via, compresi i due camion
militari, che scomparirono in cielo. Q, il suo allievo e il
consiglio intero, osservavano la scena, al sicuro da quanto
stava accadendo.
L’urlo del Q-Borg non si esaurì, anzi si amplificò,
trasformandosi in un’onda che si espanse rapidamente per
tutta la Galassia, scuotendola come un lenzuolo.
E il tempo prese a scorrere rapidamente. In pochi istanti
trascorsero, decenni, secoli e poi millenni. E quello che Q
ed il suo allievo videro, fu terribile.
I Borg, inesorabilmente, settore dopo settore, quadrante
dopo quadrante, colonizzarono l’intera galassia,
spazzando via ogni forma di vita senziente all’infuori di
loro.
La Federazione, i Klingon, I Romulani, il Dominio. Ogni
civiltà cadde sotto i colpi dell’avanzata dei cubi Borg,
fino a che ogni singolo pianeta, fino all’ultimo planetoide
non fu assimilato.
Il Caos era stato domato. L’Ordine totale ed assoluto
regnava, illuminato dalla luce di miliardi di stelle su
miliardi di miliardi di pianeti, la cui superficie era
popolata solo ed esclusivamente da Borg.
I Borg diedero la caccia fino all’ultima forma di vita
presente nella galassia, in qualunque luogo essa fosse
riuscita a nascondersi e la assimilarono al Collettivo. Il
grigiore del freddo metallo e dell’atmosfera a base di
ammoniaca ricoprirono ogni superficie disponibile, tanto
266
che, osservando quella Galassia da lontano, si poté notare
che la sua luminosità era sensibilmente diminuita.
«E’ terribile!» esclamò il giovane allievo di Q, sgomento
per quella mutazione informe ed innaturale di una
galassia.
Anche i membri del Consiglio del Q-Continuum
sembrarono restare impressionati da quanto stava
avvenendo sotto i loro occhi,
non si attendevano una conseguenza di tali proporzioni.
L’anziana Q dovette ammettere che, aver attribuito la
vittoria al Q-Borg, forse era stata una scelta avventata.
«La colpa è solo mia» disse Q, i cui occhi si stavano
inumidendo per uno stato di commozione crescente, di
fronte allo spettacolo di morte e distruzione a cui stava
assistendo.
L’allievo gli si avvicinò, cingendogli un braccio attorno
alla spalla, in un gesto consolatorio.
«Coraggio maestro. In fondo di galassie ne restano molte
altre. Troverai altre razze con cui interagire.»
«Lo sfacelo non si arresterà a questa galassia. I Borg
raggiungeranno anche quelle vicine» intervenne la donna
Q, che osservava impietrita.
Q non diede peso alle parole dell’allievo né a quelle della
donna. Non potevano capire lo strazio che lo stava
lacerando.
«Ma gli umani erano unici. E ora non esistono più. Non
vi è più un umano in tutta la Galassia. In tutto l’Universo.
E non vi sarà mai più. Per l’Eternità.» rispose
laconicamente Q. Con gli occhi fissi sullo spettacolo di
una galassia grigia e triste.
«Ti sbagli maestro. Un umano superstite esiste.»
Q si voltò verso il proprio allievo, con aria stupita.
«Cosa cavolo stai dicendo? Guarda! La Terra! Miliardi di
droni Borg. Non c’è più nemmeno un filo d’erba!»
267
«Ti sei scordato di Picard. E’ ancora qui da qualche
parte.» gli ricordò il ragazzo.
«Picard…» mormorò Q, incapace ancora di percepirne la
presenza
«E non è solo» aggiunse, intromettendosi fra Q e il suo
allievo, l’anziana donna a capo del consiglio.
Q fissò sbalordito la donna, senza comprendere il
significato delle sue parole.
«Ah! Q! Stai davvero perdendo colpi! Possibile che tu
non li percepisca?»
La donna e il ragazzo si scambiarono un’occhiata di
compatimento per il povero Q, che li osservava senza
capire.
La donna schioccò le dita e i tre comparvero di fronte a
due stupiti umani.
Vedendo comparire Q, con il suo allievo e l’anziana
donna, Picard scattò in piedi, lasciando cadere a terra le
bacche che aveva in grembo.
Riker, invece, rimase perplesso dall’apparizione. Ad
esclusione di Q, le altre due figure erano a lui
sconosciute.
«Q!» esclamò Riker, rompendo per primo il silenzio.
Q, che aveva puntato subito tutta la sua attenzione su
Picard, distolse un attimo lo sguardo, riconoscendo la
figura del menomato primo ufficiale dell’Enterprise.
«Riker! Che ci fai tu qui!» sbraitò.
Riker e Picard si scambiarono un’occhiata interrogativa.
«Veramente pensavo facesse parte del tuo disegno
portarmi qui.»
«Non ci sto capendo più nulla!» esclamò Q, grattandosi il
capo.
«Mi sorprende che tu l’abbia capito solo ora.» intervenne
Picard, con una piccola frecciata, che pero’ riportò
l’attenzione di Q su di lui.
268
«Picard! Eccoti! Cosa diavolo ti è venuto in mente di
scendere dal camion! Tu non ti rendi conto di cosa hai
causato!»
«Non mi importa. Tutta questa commedia non ha alcun
senso. Non intendo più sottopormi alla Terza Prova. A
nessuna prova. Non sarò più strumento per il tuo
divertimento.»
«Stai pure tranquillo, mon capitaine. Ormai è tardi» disse
con voce calante Q.
«Cosa intendi per tardi? Tardi per cosa?» domandò
Picard avvicinandosi ai tre superesseri.
«Tardi per evitare questo!» tornò ad animarsi Q e con un
ampio gesto del braccio, aprì come una finestra, nel vento
del deserto, da cui sia Picard che Riker assistettero
all’assimilazione della Galassia da parte di Borg.
Videro la Terra selvaggiamente saccheggiata e
trasformata in un centro di produzione del Collettivo.
Videro scomparire ogni forma di vita in tutta la Galassia.
E poi, come un virus, i Borg raggiunsero le galassie
vicine, e poi via via anche quelle più lontane.
«Mio Dio!» esclamò Riker «Tutto questo sta accadendo
realmente?»
«In questo preciso istante» confermò la donna Q.
«E’ la fine dell’Universo!» esclamò Picard scioccato da
quanto stava vedendo.
La macchia grigia, che rappresentava l’espansione della
Collettività, si stava diffondendo sempre più
velocemente, tanto che in pochi minuti ricoprì l’intero
Universo, tranne un minuscolo punto. Un singolo sistema
solare. Dove parve arrestarsi.
«Si è arrestata. L’espansione si è arrestata. Perché?»
domandò Picard.
«Non si è arrestata. E’ il tempo che ha cessato di scorrere
ad una velocità per voi umani impensabile. In questi
269
pochi, per voi, minuti, in realtà sono trascorsi milioni di
anni» spiegò l’anziana Q.
Picard non stava capendo.
«Che significa? Perché il tempo si è rallentato?»
domandò stavolta Riker.
«Perché è giunto il vostro momento di affrontare i Borg.
Quel puntino, quel piccolo sistema solare, ha solo un
pianeta. Arido e desertico. Il pianeta su cui vi trovate ora
voi due.»
Fu Q a svelare l’ultimo tassello, che avrebbe sancito la
totale assimilazione dell’Universo ai Borg.
Picard e Riker si avvicinarono l’un l’altro, non
comprendendo a pieno le parole di Q, in cerca di
sostegno reciproco.
«Addio Picard» disse mestamente Q, prima di
scomparire, seguito dal suo allievo e dalla anziana donna,
in un lampo di luce.
E quando furono soli, Picard notò, le alture diventare
improvvisamente di colore scuro, il sole offuscarsi, l’aria
farsi densa di ammoniaca. Una nuvola di sabbia si sollevò
in lontananza, coprendo tutto l’orizzonte.
«Che succede ora?» si domandò Riker.
«I Borg.» rispose mestamente Picard.
270
CAPITOLO 28
Quanto stava accadendo oltrepassava i peggiori incubi di
Picard.
Una schiera compatta, formata da migliaia, milioni, forse
miliardi di droni Borg, rapidamente avanzava verso di
loro, come una marea nera, inarrestabile e minacciosa.
L’intera superficie del pianeta stava venendo rapidamente
ricoperta dalla massa informe di droni, teletrasportati a
frotte da altrettanti cubi, che in orbita formavano una
cortina talmente spessa, da non lasciar filtrare la luce
solare.
Una sottile penombra andò a sostituirsi alla luce
accecante che aveva arroventato le sabbie del deserto fino
a poco prima. E la temperatura calò bruscamente. Un
vento gelido, carico di vapori di ammoniaca e metano
raggiunse Picard ed il suo primo ufficiale, che, attoniti,
osservavano impotenti quanto stava accadendo.
«Stanno venendo verso di noi!» esclamò Riker.
Picard non replicò. Era evidente quanto stava accadendo.
Presto sarebbero stati travolti da quella specie di onda,
costituita da droni.
E le loro esistenze sarebbero terminate, ultimi esemplari,
in tutto l’Universo, di forme di vita non assimilate.
Picard sentì sull’avambraccio la presa di Riker che
tentava di trascinarlo con se.
«Capitano! Muoviamoci. Scavalchiamo la muraglia!
Possiamo guadagnare del tempo!»
Riker non aveva nessuna intenzione di arrendersi al
destino. Avrebbe lottato fino all’ultimo respiro, anche di
fronte ad un nemico soverchiante.
Per primo Riker, salì sul cumulo di detriti
precedentemente preparato da Picard e facendo leva sul
271
suo braccio superstite riuscì a mettere la parte della
gamba destra oltre il limite verticale della muraglia.
Dandosi lo slancio con la gamba sinistra, ancora poggiata
a terra, si mise a cavalcioni della muraglia, con le gambe
penzolanti a fianco di essa.
Picard lo seguì rapidamente, scalando anch’egli la
montagnola di sassi.
Con un balzo atletico, aiutandosi con le braccia, come se
la cima della muraglia fosse stata un attrezzo ginnico, si
mise di fronte a Riker, nella medesima posizione.
Picard fece per rivolgersi al suo primo ufficiale, non
comprendendo perché stesse indugiando a scendere dalla
parte opposta a quella da cui erano saliti ma vide Riker
con lo sguardo fisso di lato, verso l’orizzonte ed un
espressione di terrore a riempirgli il volto.
«Comandante…» balbettò Picard.
Ma Riker non rispose. Come se quanto stava osservando
stesse assorbendo tutti i suoi pensieri. Picard si voltò alla
sua sinistra e lo stesso terrore dipinto sul volto di Riker si
appropriò del suo.
La stessa onda nera, che li stava per inghiottire dalla parte
della muraglia in cui si trovavano prima, giungeva eguale
anche da quella opposta, circondandoli senza scampo. E
il cielo sopra le loro teste, rapidamente, iniziò a
richiudersi e l’oscurità ad avanzare.
«Maestro!» urlò inorridito il giovane allievo di Q.
I Q osservavano da lontano quanto stava accadendo sul
piccolo planetoide, unico rimanente in tutto l’universo
che non fosse stato assimilato dal Collettivo Borg.
«Maestro! Stanno per essere inghiottiti!»
Q non rispose. Stava semplicemente osservando il pianeta
diventare di colore scuro, con l’attenzione rivolta su
Picard e Riker, che stavano venendo velocemente
272
circondati. E lo spazio attorno a loro si stava riducendo
sempre più velocemente. Presto sarebbe tutto finito.
Q sentì dolore. Un dolore naturalmente non fisico, ma
interiore. Anche i Q avevano un cuore? Si domandò. In
teoria no. Non che lui sapesse. E allora per quale motivo
stava soffrendo per la perdita di Picard e del suo
equipaggio? E della razza umana intera? E per quale altro
maledetto motivo, sentiva che non avrebbe avuto mai più
pace fino alla fine dei suoi giorni che, tenuto conto della
sua immortalità, avrebbe significato un’esistenza, da quel
momento in poi, contaminata dalla sofferenza?
Forse perché sapeva di essere stato lui la causa di quel
disastro? Era senso di colpa? Era semplicemente
vergogna per quanto era accaduto? Orgoglio ferito?
«E’ la fine del Caos!» intervenne il Q-Borg, che
visibilmente soddisfatto, osservava compiaciuto il
compimento del suo progetto per il futuro dell’Universo.
«L’Ordine viene a prendersi la sua rivincita dopo milioni
di anni di caos senza senso! E regnerà fino alla fine
dell’Universo stesso. E tutto questo grazie a me» disse
battendosi la mano sul petto e poi, avvicinandosi a Q e
poggiandogli la punta metallica del suo avambraccio borg
sulla spalla aggiunse:
«E grazie anche alla tua incompetenza! Te l’avevo detto
fin dall’inizio che gli umani non avrebbero mai potuto
vincere la Sfida. Sono esseri così fragili, primitivi.»
«Ma che stavano fronteggiando l’attacco dei Borg
completamente da soli e con successo,» lo interruppe Q,
«naturalmente prima che tu intervenissi a modificare il
corso degli eventi!»
«Ho solo accelerato i tempi dell’inevitabile» rispose il QBorg.
«Questo non puoi saperlo. Nessuno di noi può dirlo.
Abbiamo sconvolto il naturale corso dell’evoluzione
273
dell’Universo e tutto solamente per soddisfare un nostro
capriccio.»
il Q-Borg fece un passo indietro, corrucciando la fronte.
«Che vuoi dire? Sei pentito della Sfida? Tu Q?! Proprio
tu che per primo la lanciasti? Lo dici solamente perché
l’hai persa. Tu non sei in grado di provare compassione
per nessuno. Non cercare ora di farmi sentire colpevole!
Pensa a te stesso!»
Q si voltò verso il Q-Borg.
«Hai ragione. Forse è giunto il momento di smettere di
pensare solo a me stesso. E fare finalmente qualcosa di
buono.»
E scomparve in un lampo di luce.
Picard e Riker stavano ancora uno di fronte all’altro, con
lo sguardo perso verso l’onda nera, che da entrambe i lati
si avvicinava senza tregua.
Entro pochi minuti sarebbero stati raggiunti, calcolò
Picard. Non avevano alcuna possibilità di opporsi ad essa.
E nessuno sarebbe venuto di certo a salvarli. Ad
esclusione di lui e di William, non vi erano rimaste altre
forme di vita senzienti in tutto l’universo.
«Credo che questa volta non riusciremo ad ingannare la
morte»
disse Riker, tornando a volgere lo sguardo verso il suo
capitano.
I due si fissarono alcuni istanti senza proferire parola.
«Mi delude Numero Uno. Lei un tempo affermò che
contava di vivere per sempre» disse Picard, ricordando le
parole pronunciate dal suo primo ufficiale durante
l’evacuazione dell’Enterprise D su Veridiano III.
Il sorriso che comparve sulle labbra di Riker gli indicò
che aveva ottenuto il risultato voluto.
274
«Ha ragione signore. Ma credo che cause di forza
maggiore, mi stiano obbligando a rivedere le mie scelte
per il futuro.»
Picard sorrise e non disse altro.
Il vento del deserto stava diventando sempre più freddo e
l’aria sempre più irrespirabile.
Picard e Riker si guardarono intorno. La fine era davvero
imminente. L’onda mortale costituita da droni Borg, che
ordinatamente marciavano verso di loro, era ormai a
meno di un chilometro da loro.
Picard si strinse nelle spalle, il freddo era diventato
davvero pungente, e decise che era davvero giunto il
momento di salutarsi.
Allungò la mano destra verso Riker e con un’espressione
seria ma al contempo serena si preparò a salutare
degnamente il proprio ufficiale ed amico, prima che la
morte li separasse per l’eternità.
«William, è stato un vero onore averla sotto il mio
comando. Lei è uno degli uomini migliori che abbia mai
incontrato.»
Riker, con il suo braccio sinistro afferrò saldamente la
mano di Picard, mentre una commozione crescente stava
prendendo il sopravvento dentro di lui.
«Anche per me è stato un onore capitano. Se è questo il
modo in cui doveva finire, sono felice che il destino mi
abbia permesso di morire al suo fianco.»
I due uomini rinnovarono, per l’ultima volta, il loro patto
di amicizia ormai quasi ventennale, orgogliosi entrambi
l’uno dell’altro. Ma il commiato venne bruscamente
interrotto da un lampo di luce alla loro sinistra, che attirò
la loro attenzione ed entrambi voltarono il capo di scatto,
senza però mollare la presa.
«Q!» esclamarono all’unisono.
Q fluttuava nell’aria, proprio di fronte a loro.
275
«Q!» ripeté Picard, sorpreso dalla sua apparizione. Anche
se la cosa gli riempì il cuore di speranza. Forse Q era
venuto a tirarli fuori dai guai ed aveva scelto, come in
altre occasioni, proprio l’ultimo minuto per farlo.
Q li stava osservando, ma non disse una parola. Allorché
Picard continuò a parlare.
«Ebbene? Se venuto a goderti la nostra fine? O sei venuto
ad aiutarci?» domandò Picard.
«Non so se te ne rendi conto, ma fra pochi secondi noi
saremo spacciati!» aggiunse Riker, sottolineando ciò che
era ovvio. I Borg ora erano ancora più vicini. Forse cento
metri, ma in rapido avvicinamento.
Q finalmente parlò, con tono greve e il capo chino:
«Sono venuto per dirvi che mi dispiace. Mi dispiace per
tutto quanto. Chiedo il vostro perdono»
Picard e Riker si scambiarono un’occhiata di perplessità e
poi il capitano rispose per entrambi «è tardi per le scuse
Q! La tua follia ha portato alla distruzione dell’Universo
intero. Come possiamo perdonarti? Non possiamo
prenderci la responsabilità di concederti un perdono che
dovrebbe valere per le vite di miliardi di miliardi di esseri
viventi. Mi dispiace Q. Non sarò io a liberarti la
coscienza, sempre se mai ne hai avuta una!»
Q alzò il capo e disse semplicemente: «me l’aspettavo.
Credo che sia giusto così. Quindi non mi resta che una
cosa da fare. Non riparerà tutti i danni che ho causato, ma
almeno voi due vivrete.»
Picard e Riker tornarono a guardarsi. Nessuno dei due
aveva compreso il significato delle parole di Q.
«Che intendi Q? Che intendi fare?» domandò Riker.
«Lo vedrete!» esclamò.
Q si portò le mani alle tempie e chiuse gli occhi, mentre il
suo corpo, lentamente iniziò a farsi sempre meno definito
e luminoso.
276
Una voce di ragazzo li raggiunse da sopra le loro teste.
Picard e Riker alzarono lo sguardo per identificare da chi
provenisse.
«No! Non farlo maestro! Non farlo! Morirai!»
Era il giovane fanciullo che Picard aveva più volte visto
in compagnia di Q.
Galleggiava nell’atmosfera, pochi metri sopra di loro.
Accanto aveva il Q-Borg e l’anziana a capo del Consiglio
del Q-Continuum.
«Q! Che intendi fare! Non ci provare nemmeno!» urlò il
Q-Borg.
Ma Q non rispose. Aprì gli occhi e li alzò al cielo. E
sorrise semplicemente, mentre, lentamente, ma
inesorabilmente, il suo corpo si stava trasformando in una
fonte di luce bianca e molto intensa, tanto che sia Riker
che Picard dovettero portarsi la mano agli occhi per
proteggersi.
«Che stai facendo Q!» urlò Picard.
«Sta sacrificando la sua esistenza per le vostre» rispose
l’anziana Q, l’unica che stava osservando quanto stava
accadendo, apparentemente senza mostrare alcun tipo di
reazione emotiva.
La rivelazione scosse profondamente Picard. Non capiva
cosa di preciso avesse in mente Q, ma se veramente egli
si stava sacrificando per salvare le loro esistenza, allora
avrebbe dovuto rivedere il suo giudizio su di lui.
«Non lo devi fare! Maestro! Morirai! Non farlo!» urlò
ancora il ragazzino.
«Q! Stupido idiota! Non sai proprio accettare le sconfitte!
Probabilmente questa è la fine che ti meriti!» inveì ancora
il Q-Borg.
Ma Q ormai non poteva più sentirli.
Aveva accettato la sua decisione, come la migliore che
avesse mai preso durante la sua lunghissima esistenza.
Certo, non riusciva ad immaginare un Universo senza di
277
lui, ma pensò che probabilmente se la sarebbe cavata
anche senza il suo apporto.
Si sentì pronto a ripagare il su debito con l’Universo.
Raccolse i suoi ultimi pensieri e le sue ultime energie per
concentrarsi sul compito che lo attendeva. Era la fine, ma
una fine che nessuno avrebbe mai dimenticato, fu il suo
ultimo pensiero.
Picard e Riker videro Q scomparire, trasformandosi in un
globo di luce pulsante, mentre i Borg erano ormai a pochi
metri da loro.
«Q!» gridò ancora Picard, con gli occhi socchiusi a causa
dell’intensa luce che il globo emanava e proprio mentre
sentì la sua gamba venire afferrata da un drone, pronto a
trascinarlo verso la morte, la luce del globo si fece
accecante e come in una esplosione, riempì rapidamente
l’atmosfera del pianeta allargandosi poi al suo sistema
solare e poi la galassia che lo ospitava e via via, la luce si
espanse fino a
raggiungere i confini estremi
dell’Universo,
avvolgendo
galassie,
nebulose,
rischiarando i buchi neri, avvolgendo ogni cosa
incontrasse sulla sua strada.
Il tutto durò pochi istanti, durante i quali i pensieri di
Picard fluttuarono, attendendosi di venire trascinato a
terra dal drone che gli aveva afferrato la gamba.
Ma si rese conto che ciò non era avvenuto. E non
percepiva più alcuna presa sul polpaccio.
Lentamente riaprì gli occhi, sbattendo le palpebre
ripetutamente. Una luce intensa lo costrinse a
socchiuderli nuovamente e gli ci volle qualche secondo
prima che la sua retina si abituasse alla luminosità
fastidiosa.
Non era più la luce emanata dal globo ad accecarlo, ma
quella del sole. Il cielo era tornato terso, l’aria era
nuovamente calda e ossigenata.
278
Si guardò intorno. I Borg erano scomparsi. Non vi era più
traccia di loro.
Davanti a lui, Riker, aveva ancora gli occhi chiusi ed il
capo chino.
«William…» sussurrò.
Riker aprì lentamente le palpebre, ed anche lui venne
accecato dalla luce solare.
«Capitano,» balbettò «siamo ancora vivi?»
«Si. A quanto sembra si. I Borg sono scomparsi. Ed
anche Q.»
Picard non poteva sapere che la scomparsa dei Borg non
si era limitata solo a quel planetoide, ma a tutto
l’Universo intero.
L’energia sprigionata da Q aveva cancellato per sempre
l’intera razza dei Borg, liberando i pianeti che essi
avevano assimilato. Ma lo sforzo gli era costato
l’esistenza.
Ora l’Universo era vuoto, spoglio di ogni forma di vita,
ad eccezione di Picard e Riker. Ma ora che i Borg erano
stati sradicati, la vita, lentamente, sarebbe tornata. E in
pochi milioni di anni nuove creature senzienti sarebbero
tornate a solcare lo spazio con navi stellari. Lo scopo che
si era prefissato Q, con il suo sacrificio, era stato
raggiunto. Ridare nuova speranza, nuova vita. Lasciare il
Caos quale unico, vero padrone di ogni esistenza.
Picard udì dei singhiozzi.
Era il giovane Q, che piangeva. Piangeva la morte del suo
maestro.
Al suo fianco l’anziana donna Q, con il suo scettro,
sempre stretto in mano e il Q-Borg.
«Ci ha salvato la vita» disse Riker guardandosi intorno
incredulo.
«Ha distrutto tutti i Borg sul pianeta» replicò Picard.
«E non solo» aggiunse l’anziana Q, che fece un ampio
gesto con la mano, aprendo come una finestra nel cielo e
279
mostrando a Picard e Riker che l’intero Universo era
stato ripulito dal Collettivo. E la donna mostrò loro
l’immediato futuro di esso, con nuovo forme di vita che,
velocemente, nascevano su decine di mondi differenti in
decine di galassie. Era il ritorno della Vita.
280
CAPITOLO 29
Picard e Riker erano tornati con i piedi per terra,
scendendo dalla cima della muraglia infinita. Intorno a
loro il deserto e la lunga lingua di asfalto nero, che
scorreva sempre parallela al muro di pietre e fango.
Il vento caldo del deserto era tornato a sferzare i loro
volti.
Tutto era apparentemente tornato come quando Picard era
arrivato in quel luogo la prima volta.
«Ora che faremo capitano?» domandò Riker «Su questo
pianeta non possiamo sopravvivere a lungo e non
possiamo andarcene di qui»
«Non lo so Will. Non lo so.» rispose Picard guardandosi
intorno.
«Senza ne cibo né acqua il sacrificio di Q sarà del tutto
inutile» commentò William.
«Lo sarà forse per noi due. Ma non lo è stato per
l’universo. Nuova linfa vitale ora lo sta percorrendo e
questo è tutto ciò che conta».
Poi Picard si voltò verso Riker, puntandogli il dito indice
«io e lei siamo rappresentanti di un universo ormai morto.
Non c’è spazio per noi qui. Probabilmente è giusto che
tutto si concluda in questo modo. Abbiamo contribuito,
seppur in piccola parte, a far si che i Borg non
assumessero il controllo dell’Universo. E’ giunto il
momento di farci da parte».
Riker scosse il capo, non troppo convinto dalle parole del
suo capitano, ma comprendendone appieno il significato.
«Comprendo signore. Ma non condivido. Ho sempre
lottato fino all’ultimo per restare vivo. E lo farò anche
questa volta».
281
«Non mi aspetterei niente di meno da lei, comandante» lo
interruppe Picard, aggiungendo un sorriso.
«Appunto signore. Da qualche parte, laggiù nel deserto,
sono sicuro dell’esistenza di un’oasi. Ci sono stato per
alcuni giorni con il comandante Vovelek. Sarà
estremamente improbabile che riesca a ritrovarne la
strada, ma preferisco fare un tentativo che restarmene qui
a morire, comunque, disidratato.»
«Crede che un po’ di compagnia potrebbe farle piacere?»
domandò Picard.
«Certo signore. Sarà un vero piacere averla al mio fianco.
E poi, nel caso riuscissimo a raggiungere l’oasi, avrei
qualcuno con cui conversare fino alla fine dei mie
giorni.»
I due risero sommessamente, seppur consci di avere ben
poche possibilità di sopravvivere.
«Forse io potrei aiutarvi!»
La voce del giovane Q interruppe la loro conversazione.
Era ricomparso alle loro spalle, sempre in compagnia
della donna a capo del Consiglio del Q-Continuum e del
Q-Borg, il quale, nonostante la sua razza protetta fosse
stata spazzata via dall’universo, si ostinava a presentarsi
con i soliti impianti borg in argento ed oro.
Picard si voltò verso i tre esseri.
«Se volete posso aiutarvi. Posso procurarvi cibo, acqua,
trasformare questo pianeta in un eden!»
Il ragazzo parlava animosamente e sembrava realmente
interessato ad aiutare i due umani. Come se stesse
cercando di sostituirsi a Q, continuando la sua opera. Q si
era sacrificato per salvare quei due esseri, essi perciò
dovevano rappresentare un bene assai prezioso, che non
poteva essere perduto. Avrebbe fatto qualunque cosa per
tenerli in vita per l’eternità.
L’anziana Q e il Q-Borg non intervennero, lasciando che
il ragazzo parlasse a lungo e si sfogasse.
282
«Posso darvi tutto quello che mi chiederete!» concluse
infine il ragazzo.
Picard esitò.
L’offerta del giovane Q era davvero allettante e anche se
Picard, in passato, si era sempre rifiutato di usufruire
dell’aiuto offerto da entità superiori, non riuscì a
trattenere la sua lingua.
«Potresti riportare indietro il tempo?» domandò con la
voce che gli tremava, come se si fosse trovato di fronte al
mitico genio della lampada, protagonista di antiche storie
terrestri.
«Potresti riportare tutto a come era prima dell’arrivo dei
Borg? Tu potresti?»
Il ragazzo rimase con la bocca spalancata. Tra tutti
desideri che Picard gli avrebbe potuto chiedere di
esaudire, quello era proprio l’unico che non avrebbe
potuto soddisfare. Solo il Consiglio del Q-Continuum,
unendo le forze di tutti i Q, avrebbe potuto compiere una
tale impresa.
«No,» balbettò incerto il giovane Q «quello non posso
farlo. Solo il Consiglio del Q-Continuum ha un simile
potere. Ma posso trasformare questo pianeta in un
paradiso! Creare dei vostri simili! Case! Piazze! Città!»
riprese deciso con la sua offerta.
Picard chinò il capo sconsolato, rialzandolo subito dopo e
scuotendolo lentamente la rifiutò.
«No, grazie. Sarebbe come vivere dentro ad una illusione.
Non ci interessa. Vero Numero Uno?» domandò Picard
all’indirizzo di Riker.
«Assolutamente capitano. Già inorridisco pensando alla
giovane e bella, ma irreale compagna che mi verrebbe
affibbiata.»
La battuta scherzosa di Riker servì a far calare la tensione
del momento.
«Numero Uno, vogliamo andare?»
283
«Capitano, forse c’è qualcosa che il ragazzo potrebbe fare
per noi»
Picard guardò Riker stupito.
«Cosa Numero Uno?»
«Potrebbe almeno portarci all’oasi. Un piccolo aiuto ce lo
siamo meritato o no?»
Picard si strinse nelle spalle. In fondo un piccolo aiuto era
anche accettabile, disse a se stesso.
«D’accordo. Perché no? Questo lo puoi fare?» domandò
Picard rivolgendosi al ragazzo, il quale non fiatò e per
tutta risposta, semplicemente, schioccò le dita ed in un
istante furono trasportati fra le verdi palme della piccola
oasi in cui, pochi giorni prima, Riker e Vovelek si erano
rifugiati.
«Grazie» disse Picard guardandosi intorno incredulo.
Riker, a poca distanza da lui, sorrise soddisfatto.
«E’ giunto il momento di salutarci» disse l’anziana Q,
che fino a quel momento aveva sempre taciuto.
«Credo di si» disse Picard
Il ragazzo gli si avvicinò e gli prese la mano, imitando il
tipico gesto di pace terrestre.
«E’ così che vi salutate sulla Terra vero?»
«Ora non più. Sulla Terra non vi è più nessun umano.»
rispose amaramente Picard.
Il ragazzo, mortificato lasciò la presa e aggiunse:
«Q vi stimava molto. E credo che la sua fiducia in voi
fosse ben riposta.»
Picard sospirò.
«Avrei preferito che non avesse giocato con i nostri
destini. Ma ora che se ne è andato, lo devo ammettere: mi
mancherà. Avrei voluto che le cose fossero andate
diversamente.»
Picard guardò il ragazzo indietreggiare lentamente e
tornare verso l’anziana Q e il Q-Borg.
284
«Addio!» esclamò ancora il ragazzo agitando il braccio in
aria, con gli occhi lucidi per la commozione.
Picard fece per alzare il braccio destro per rispondere al
saluto quando, improvvisamente, il fogliame alle sue
spalle si animò e qualcosa con una forza straordinaria gli
afferrò l’avambraccio, trascinandolo all’indietro.
Picard non ebbe il tempo di rendersi conto di quanto
stava accadendo, che già si trovava con le spalle sulla
sabbia, mentre veniva violentemente trascinato attraverso
il fogliame della piccola jungla.
Riuscì solo a sentire Riker che urlava un nome a lui
sconosciuto: Vovelek.
«Vovelek!» urlò Riker incredulo. Il vulcaniano, o meglio,
ciò che ne restava, quasi irriconoscibile a causa degli
impianti di fabbricazione Borg, era comparso dal
fogliame e con uno scatto fulmineo aveva afferrato il
capitano, trascinandolo con se.
«Ma non è possibile! Tutti i Borg sono stati distrutti!»
esclamò Riker rivolgendosi vero i tre Q, sicuro che loro
gli avrebbero fornito una risposta.
Il giovane Q, tanto sorpreso quanto il comandante, si
voltò verso il Q-Borg lanciandogli la sua accusa.
«Tu! Sei stato tu!»
«E chi altri?» rispose il Q-Borg, scoppiando in una
fragorosa, quanto odiosa risata.
«Non potevo certo lasciare che Q eliminasse tutte le mie
creature facendo l’eroe. Ho voluto conservarne un
esemplare. Diciamo come ricordo della Sfida. O se
preferisci come un trofeo. In fondo è soltanto un
esemplare, che male vuoi che faccia a questo nuovo e
meraviglioso universo che sta nascendo?»
Il ragazzo strinse i pugni di rabbia, ferito dall’ironia
assolutamente fuori luogo del suo simile. Nonostante
quanto era accaduto, il Q-Borg non aveva appreso
285
alcunché dalla lezione. E continuava a giocare la sua
partita, indifferente delle sorti degli esseri viventi che ne
erano involontarie pedine.
«Non guardarmi a quel modo ragazzo! Se qualcuno qui
presente avesse avuto il coraggio di fare ciò che gli era
stato implorato, quel drone non sarebbe stato qui!» si
difese il Q-Borg, scaricando la colpa su Riker.
William non riuscì a trovare le parole per controbattere
all’accusa. Da qualche parte dentro di lui, una piccola
voce, condivideva appieno le accuse del Q-Borg. Se
avesse avuto il coraggio di togliere la vita a Vovelek,
quando egli stesso glielo aveva supplicato, mentre
combatteva una battaglia disperata contro le nanosonde
che brulicavano nel suo corpo, ora il capitano non
sarebbe stato in pericolo.
Ma non vi era spazio per le recriminazioni. Doveva agire
ed in fretta. E si lanciò all’inseguimento attraverso la
vegetazione fitta e rigogliosa.
Corse a perdifiato, guardandosi intorno in cerca di segni
della presenza di Vovelek e del capitano. Per sua fortuna,
le tracce lasciate nella vegetazione erano piuttosto
evidenti e lo condussero alla sorgente d’acqua che
sorgeva al centro dell’oasi.
«No! Fermo!»
Picard era ancora a terra, mentre il Borg, chino su di lui,
si apprestava ad avvicinare il suo pericoloso braccio
meccanico al volto di Picard, il quale, dal canto suo, stava
opponendo tutta la resistenza possibile contro di esso.
Riker si lanciò, facendosi scudo con la spalla e spinse
nell’acqua il drone, poco prima che riuscisse ad iniettare
le nanosonde nel corpo del capitano.
Riker sentì la sua scapola cedere di schianto per la
violenza dell’impatto.
Un dolore lancinante lo paralizzò a terra.
«William!»
286
Picard si era rialzato ed accorse verso Riker, ferito a terra.
«Attento capitano!» lo avvertì Riker.
Il drone si era già rimesso in piedi, gocciolante d’acqua
era alle spalle di Picard, il quale fece un rapido passo
all’indietro, ruotando sulla gamba destra e chinandosi col
busto in modo da evitare ogni contatto con i pericolosi
bracci meccanici del drone.
Con quella mossa riuscì a portarsi alle sue spalle e gli
saltò in groppa, stringendogli le braccia intorno al collo.
Il suo scopo era riuscire ad estrarre il chip principale che
governa ogni singolo drone, contenente tutte le
conoscenze del Collettivo, estratto il quale, avrebbe reso
inoffensivo il suo avversario.
Grazie alla sua precedente esperienza personale con i
Borg, egli sapeva esattamente dove si trovasse, all’incirca
la dove normalmente si trovava il cuore di un umano.
Con le mani cercò, da quella scomoda posizione, di
raggiungere il petto del drone, che nel frattempo,
dondolava su se stesso, incapace di scrollarsi di dosso il
capitano.
«William! Aiutami ad estrarre il chip!» chiese soccorso
Picard.
Riker cercò di rimettersi in piedi, ma il suo unico braccio
rimasto era inutilizzabile a causa della rottura della
clavicola. Ogni tentativo di muoverlo gli causava un
dolore insopportabile.
«Ci proverò capitano! Dove si trova esattamente?»
«Il cuore! Dove c’è il cuore! Si trova in quel punto!»
Riker si mise in fronte al drone, che non stava
minimamente badando a lui, in quanto la sua attenzione
era concentrata su Picard. Muovendosi rapidamente,
cercò di anticipare i movimenti del drone e quando si
sentì quasi sicuro fece appello a tutte le sue forze residue
e ignorando il dolore sollevò il braccio ed infilò la mano
all’altezza del petto del drone. Riker non si aspettava che
287
le carni Borg fossero tanto inconsistenti e calde. La sua
mano penetrò facilmente nelle fibre del drone,
arrestandosi contro un dispositivo meccanico.
Iniziò a muovere freneticamente le dita, alla ricerca di
quello che potesse somigliare ad un chip di qualunque
genere, ma niente sembrava corrispondere alla
descrizione.
«Non riesco a trovarlo!» urlò Riker, che stava per cedere
sopraffatto dal dolore.
«Continua a cercare! Non riuscirò a distrarlo ancora per
molto!» lo incitò Picard.
Finalmente Riker afferrò qualcosa e provando a tirarla
verso di se, la sentì sfilarsi parzialmente.
«Forse l’ho trovato!» avvertì.
Fece un altro tentativo di estrarre il chip, ma il liquido
linfatico Borg gli stava facendo perdere la presa.
«Ci sono quasi…»
Il drone si arrestò all’istante. Riker pensò di avercela
fatta.
Ma purtroppo si sbagliava. Il cervello del drone,
percependo come pericolo primario l’intervento di Riker,
diede l’ordine di dedicare la propria esclusiva attenzione
al comandante.
Riker sentì del calore sul viso e alzando il capo, fu
accecato dal fascio di luce rossastra originato dagli
impianti ottici del drone, che una volta era stato il
comandante Vovelek, primo ufficiale della Uss Pioneer.
Non riuscì ad abbozzare alcuna reazione.
Gli arti superiori del drone gli si strinsero contro la gola,
sollevandolo di forza da terra. Suo malgrado dovette
mollare la presa dal chip, senza riuscire nell’intento di
sganciarlo. Il drone fece ruotare con uno scatto il suo
collo, spezzandoglielo.
Riker cadde a terra privo di vita.
288
Picard lanciò un urlo disperato e lasciò la presa,
rimettendo i piedi a terra.
«Maledetto bastardo! L’hai ammazzato!» gridò tutta la
sua disperazione contro il drone, che incurante, si stava
lentamente voltando verso di lui. Inesorabile, proseguiva
la sua missione.
Picard indietreggiò lentamente barcollando, incapace di
fuggire, scioccato per la morte di William, senza
avvedersi che dietro le sue spalle vi era un piccolo
ammasso di pietre e sabbia in cui finì con l’inciampare.
Cadde malamente di schiena, senza riuscire a frenare la
caduta con le mani.
Il drone era ormai sopra di lui e si arrestò un istante,
chinando il capo e puntandogli contro il laser di
puntamento ottico.
«Che siate maledetti!» urlò Picard prossimo alla fine.
«La resistenza è inutile» rispose freddamente il drone
chinandosi verso il capitano.
Picard afferrò una pietra con la mano destra e la scagliò
con tutte le sue forze contro il drone, in un ultimo
disperato gesto di lotta.
La pietra andò a colpire, il gruppo dei sensori ottici che
ricoprivano parte del volto del drone, mandandoli
parzialmente fuori uso. Il drone si arrestò di colpo, ancora
proteso verso Picard, disorientato dalla mossa del
capitano.
Picard non attendeva occasione migliore. La fortuna stava
girando dalla sua parte. Con uno scatto fulmineo infilò
l’avambraccio nel petto del drone.
Avrebbe estratto quel chip anche ad occhi chiusi.
Si udì il rumore di uno scatto metallico. Picard ritrasse il
braccio, stringendo nella mano il piccolo chip.
Il laser rossastro si spense progressivamente ed il drone
cadde a terra, privo di vita, lasciando a Picard giusto il
tempo di scansarsi.
289
Rialzatosi in piedi, corse immediatamente verso il corpo
di Riker.
«William!»
Ma Will non rispose. Nel suo corpo non scorreva più
alcun alito di vita.
Accecato dal dolore e dalla rabbia, Picard prese il chip, e
lo poggiò su di un sasso. Ne raccolse un secondo, di
grandi dimensioni e lo sollevò sopra la propria testa.
Avrebbe fatto a pezzi quel maledetto chip. Era tutto ciò
che gli restava per sfogare la sua rabbia.
«Andate all’inferno!» gridò prendendo lo slancio per
scagliare la pietra e sbriciolare tutto ciò che restava della
razza Borg.
Ma il sasso volò lontano.
Picard cominciò a singhiozzare, con il cuore rigonfio di
dolore e disperazione.
Il suo Universo, così come lui l’aveva conosciuto e
navigato
a
bordo
dell’Enterprise,
era
stato
irrimediabilmente distrutto. I suoi migliori amici erano
periti. La Federazione, la Terra, la razza umana e migliaia
di altre razze sparse in miliardi di galassie, spazzate via.
Persino Q se ne era andato. Era rimasto solo. O meglio, si
corresse, lui, con la sua fragile memoria umana e quel
drone, con le informazioni contenute nel chip, erano tutto
ciò che restava di un universo intero.
Distruggendo il chip, avrebbe distrutto metà di quanto
rimaneva, compiendo l’ultimo omicidio, l’ultima
barbarie, prima dell’estinzione.
No. Tutto l’odio che provava non avrebbe mai
giustificato un simile atto, anche se nessun tribunale
avrebbe mai potuto più giudicarlo e condannarlo.
- Ora che tutto è giunto alla fine, - si disse, - che sia un
gesto di tolleranza ed umanità a chiudere lo spettacolo. -
290
Trascorse più di tre ore scavando nella sabbia del deserto,
a mani nude, fino a che non ebbe dato una sepoltura al
comandante Riker.
Esausto tornò al centro dell’oasi, si rinfrescò con le
fresche acque della sorgente e andò a sedersi su una
grossa pietra
addormentandosi profondamente,
stringendo fra le mani il chip Borg, mentre il sole, per la
prima volta da quando Picard era giunto su quel pianeta,
tramontava dietro l’orizzonte, riempiendo il cielo di
sfumature rossastre, mentre alcune stelle iniziavano a fare
timidamente capolino. Scorgendole, Picard si consolò
pensando alla nuova vita che lentamente stava tornando a
ripopolare l’universo. Poi cadde in un sonno profondo. Il
sole tramontava sull’ultimo giorno per un intero universo,
e allo stesso tempo il primo di uno completamente nuovo.
L’anziana donna Q, capo del Consiglio del Q-Continuum,
apparve silenziosamente davanti al capitano dormiente e
agitando nell’aria il suo scettro, sussurrò:
«Complimenti capitano. Hai vinto la tua sfida.»
291
CAPITOLO 30
Picard era seduto nella saletta tattica dell’Enterprise NCC
1701 - E.
La nave era ferma nello spazio, appena oltre il limite
della Macchia di Rovi, in attesa di essere raggiunta da
una nave di soccorso. Nell’ultima missione, la nave,
aveva riportato danni seri al sistema di propulsione a
curvatura. Il nucleo stesso era stato espulso al fine di
neutralizzare gli effetti di un’esplosione di un’arma
isolitica.
Con la sola potenza d’impulso il più vicino bacino
spaziale si trovava a parecchi mesi di navigazione, per
tale motivo era necessario che l’Enterprise venisse
trainata fino ad esso da una nave d’appoggio.
Spense il terminale che si trovava sulla sua scrivania.
Non riusciva a trovare la necessaria concentrazione per
esaminare i rapporti dei danni, provenienti dalle varie
sezioni.
Quella mattina, non appena aveva aperto gli occhi, era
stato pervaso da una strana sensazione. Tutto era
apparentemente al suo posto, esattamente come e dove
avrebbe dovuto essere, eppure, allo stesso tempo,
percepiva un senso di straniamento rispetto all’ambiente
circostante. Aveva incolpato le radiazioni metafasiche, al
cui benefico effetto, era rimasto sottoposto per alcuni
giorni e senza indugiare oltre, era uscito dall’alloggio per
dedicarsi alle sue normali attività di capitano di una nave
della Flotta Stellare.
Ma la percezione non lo aveva abbandonato.
Camminando nei corridoi della grande nave stellare si
guardò intorno più volte, tutto ciò che gli si parava
davanti agli occhi era assolutamente familiare, ma si
292
sentiva come se fosse stato lontano da quei luoghi lunghi
anni e solo ora vi avesse fatto ritorno.
Infastidito, aveva preferito tenere per se la cosa e non
appena aveva raggiunto la plancia, aveva preferito
ritirarsi nella saletta tattica.
«Té, Earl Grey, Caldo.»
Picard prese la sua tazza e tornò a sedersi con lo sguardo
perso sul té fumante e la mente alla ricerca di una
risposta. Anche quella tazza, solitamente così familiare,
gli pareva provenire da un remoto passato.
«Avanti!» esclamò sentendo il trillo del campanello, che
lo avvertiva, che qualcuno attendeva di incontrarlo.
«William, buongiorno.»
Riker entrò con il suo solito passo, stringendo nella mano
destra un DiPadd.
«Buongiorno a lei Capitano. La disturbo solamente per
consegnarle questo,» e allungò il DiPadd verso Picard
«contiene il rapporto con le stime sui tempi per la
riparazione del nucleo di curvatura, che Geordi ha
stilato».
Picard afferrò il DiPadd, ma si arrestò un istante, con il
braccio teso e la mano stretta sul dispositivo.
«Capitano? C’è qualcosa che non va?» domandò Riker,
che stava attendendo che Picard gli sfilasse di mano il
DiPadd per ritirare il braccio.
«William, il suo braccio, la sua mano...» balbettò Picard
senza però comprendere lui stesso il senso di tali parole,
afferrando finalmente il dispositivo e poggiandolo sulla
scrivania.
«Il mio braccio? Oh! Certo! Sta molto meglio. La
dottoressa Crusher gli ha dato un’occhiata. Comincio a
non avere più l’età per il Parissis Square.»
Riker si massaggiò il braccio destro, senza comprendere
il motivo per il quale il capitano si stesse preoccupando
293
delle conseguenze del suo incidente di gioco avvenuto
ben più di un mese prima.
«Ah! Bene. Ne sono felice. Può andare Numero Uno» lo
liquidò un sempre più confuso Picard eppure
inspiegabilmente felice di vedere William in perfetta
forma.
Riker fece per uscire dalla saletta, ma quando le porte si
aprirono si arrestò repentinamente «dimenticavo
capitano. Il comandante Vovelek della Pioneer ha inviato
un messaggio subspaziale pochi minuti fa. Purtroppo
hanno un ritardo di quattro punto sei ore. Ci porge le sue
scuse.»
Picard fece cenno col capo di avere afferrato e Riker,
senza attendere oltre, raggiunse la plancia sussurrando:
«Vovelek. E’ un nome che non mi è nuovo…»
«Maestro, io non credo di avere capito.
Il giovane Q era in piedi, ad osservare le stelle immobili
nell’oscurità dello spazio profondo.
«Lo so ragazzo. Quanto è accaduto è difficile da spiegare
anche per me» rispose Q, che stava seduto su una
sporgenza della sezione a disco in duranio
dell’Enterprise.
«Tu eri morto. I Borg sconfitti. L’Universo stava
rinascendo. E poi…» cercò di spiegare il ragazzo,
camminando nervosamente avanti ed indietro.
«E’ stato il Consiglio. E’ stato sicuramente il Consiglio.
Solo loro hanno un potere così grande».
Q era sorpreso quanto il suo allievo.
Aveva accettato la morte, sacrificandosi per dare una
nuova possibilità all’universo intero e si era risvegliato
vivo e vegeto, in un universo che sembrava avere
dimenticato gli ultimi tre anni e le devastanti
conseguenze che avrebbe portato con se.
294
Una seconda possibilità. Il Consiglio gli aveva dato, ma
non solo a lui, ma a tutte le forme di vita, a partire da
quelle di questa galassia, una seconda opportunità.
«Avanti!»
Riker era uscito forse da venti secondi, che il campanello
trillò nuovamente.
Le dolci figure della dottoressa Crusher e del Consigliere
Troi, troneggiarono davanti alla sua scrivania.
«Buongiorno capitano» esclamò Deanna con la sua solita
verve.
«Capitano» disse più timidamente Beverly.
Picard fece per rispondere al saluto quando, nuovamente,
fu assalito dall’incertezza. Stava fissando le due donne,
che erano esattamente le stesse del giorno precedente. Le
stesse di sempre, eppure sentiva che qualcosa non era
come avrebbe dovuto essere.
«Beverly. Deanna. State bene?» gli venne istintivo
domandare, senza però avere una spiegazione razionale
per le sue parole.
Deanna e Beverly prima si guardarono fra di loro,
cercando di capire cosa non andasse l’una nell’altra, ma
constatando che erano entrambe in piena forma, anche
grazie ai benefici effetti delle radiazioni metafasiche,
tornarono a focalizzare l’attenzione sul capitano.
Picard si trovò in imbarazzo, incapace di fornire una
spiegazione per quella domanda e rimase a bocca aperta,
cercando di trovare le parole.
«Stiamo bene Jean-Luc, intervenne Beverly «tu piuttosto
mi sembri sotto stress. Come medico di bordo ti ordino di
recarti in infermeria al più presto, per un controllo
accurato.
«E dopo che la dottoressa l’avrà esaminata per bene, io la
aspetto nel mio studio per una seduta. A dire la verità sia
io che Beverly siamo curiose di conoscere ogni dettaglio
295
della sua storia con Anja» aggiunse la Troi con fare
scherzoso.
Picard arrossì visibilmente, deglutendo rumorosamente e
suscitando una spontanea risata delle due donne. Picard
sorrise con loro.
Non ne conosceva il motivo, ma era felice,
semplicemente felice di vederle. Come se fosse stata la
prima volta dopo anni di separazione.
Consegnati i loro rapporti sullo stato dei feriti e su quello
psicologico di ogni singolo membro dell’equipaggio,
Deanna e Beverly abbandonarono la saletta, lasciando
nuovamente solo Picard.
«Quindi in questo momento ci troviamo in una linea
temporale alternativa?»
Il giovane ed inesperto Q bramava di trovare al più presto
tutte le risposte alle domande che gli vorticavano nel
cervello. Ciò cui aveva potuto assistere, superava la
soglia della sua comprensione.
«No. Nessun universo alternativo. E’ lo stesso di sempre.
Solo che il consiglio ha letteralmente cancellato gli
avvenimenti degli ultimi tempi. Prima che io e il Q-Borg
iniziassimo a servirci degli umani e dei Borg per la nostra
sfida».
Q si alzò in piedi, prendendo il ragazzo e mettendolo
sotto la sua ala protettiva. Gli cinse un braccio sulle
spalle.
«Il consiglio non è stato così indifferente, come ci ha
voluto far credere, all’esito della Sfida. In realtà hanno
seguito con grande interesse il suo sviluppo. Hanno
analizzato minuziosamente questi ultimi avvenimenti e
soprattutto l’esito delle Tre Prove. E sono rimasti molto
sorpresi ed affascinati da ciò che hanno veduto.»
296
Il ragazzo si scrollò di dosso il braccio del suo maestro.
Era troppo eccitato per stare fermo. Sentiva il bisogno di
camminare, di muoversi e di fare domande.
«Sorpresi? In che senso sorpresi?»
«Sorpresi dalle forme di vita umanoide. E dagli umani
soprattutto» rispose Q.
«Dagli umani?» ripeté il ragazzo che non riusciva a
placare la sua sete di sapere.
«Da un umano, in particolare» disse Q e con uno
schiocco di dita i due scomparvero nel nulla per
ricomparire sospesi nel vuoto, di fronte ad un oblò di
alluminio trasparente, illuminato dall’interno.
Q indicò la figura che si poteva intravedere attraverso
l’alluminio.
«Il capitano Picard?» esclamò il ragazzo.
«Avanti!» chiamò, uno scocciato Picard a cui non era
ancora riuscito di sorseggiare il suo te.
Beverly e Deanna avevano abbandonato la saletta da
pochi secondi e già il campanello trillava nuovamente.
L’androide Data e Geordi, l’ingegnere capo
dell’Enterprise entrarono nella saletta.
«Capitano buongiorno. Ecco il rapporto completo sulle
riparazioni necessarie. Non appena saremo alla stazione
Bradbury, io e i miei uomini inizieremo immediatamente
le operazioni per l’installazione di un nuovo nucleo di
curvatura» esordì Geordi, porgendo al capitano
l’ennesimo DiPadd, che si andò ad aggiungere agli altri
che affollavano la scrivania.
«Capitano,» continuò Data senza dare tempo a Picard di
replicare «questo è il rapporto relativo a…»
Data si arrestò. Il capitano lo stava fissando con
un’espressione di sorpresa e meraviglia a cui non sapeva
dare una spiegazione.
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«Capitano? Si sente bene?» domandò Geordi, avendo
notato la stessa cosa.
«Come? Geordi, lei è…» balbettò Picard, incapace di
continuare. La parola che sentiva dentro, non aveva alcun
senso. Eppure qualcosa lo stava spingendo a credere che
il suo capo ingegnere non avrebbe dovuto essere li.
«Sono cosa capitano?» domandò Geordi alzando le
sopracciglia.
«Nulla» sussurrò Picard.
«E’ sicuro di sentirsi bene capitano?» intervenne Data.
«No. A questo punto non ne sono più sicuro» rispose
Picard, rendendosi conto che la strana sensazione provata
appena sveglio, si stava come amplificando.
«Forse si tratta di un qualche genere di effetto collaterale,
dovuto all’esposizione alle radiazione metafasiche»
provò ad ipotizzare Data.
«Si è possibile» tagliò corto Picard, che non desiderava
altro che restare solo e allontanare quella sensazione di
smarrimento.
«Appena avrò un minuto mi recherò in infermeria. Ora
potete andare» ordinò Picard, chinando il capo sul primo
rapporto che gli venne sotto mano.
Data e Geordi esitarono, incerti sul da farsi, restando
immobili nella saletta.
«Che ci fate ancora qui? Potete andare!» esclamò Picard
visibilmente infastidito, non appena si rese conto che i
due non avevano lasciato la stanza.
«Sissignore» risposero entrambi all’unisono e
rapidamente guadagnarono la via della plancia.
- Finalmente. - Sbuffò fra se Picard tornando a dedicarsi
alla propria tazza di te, ormai tiepido, eppure intimamente
sollevato dall’incontro, proprio come era accaduto poco
prima con Beverly, Deanna e Riker.
Ma cantò vittoria troppo presto. Il campanello trillò
nuovamente.
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«Avanti!» urlò.
«Disturbo capitano?» domandò Worf, facendo capolino
nella saletta, avendo intuito dal tono della voce di Picard,
che qualcosa non andava.
«No, no, signor Worf. La prego si accomodi e mi scusi.
Credo di sentirmi poco bene»
Il Klingon si avvicinò alla scrivania e porse al capitano
un altro DiPadd.
«Richiedo di fare ritorno al più presto su Deep Space
Nine. La crisi con il Dominio richiede che io ritorni sulla
stazione al più presto» disse freddamente, come suo
solito.
«Certo. Naturalmente» rispose Picard, esaminando la
richiesta ed approvandola all’istante.
Restituì il dispositivo al klingon e si alzò in piedi per
accomiatarsi da lui.
Ma quando gli fu vicino venne nuovamente assalito dalle
sensazioni che dal mattino lo perseguitavano.
«Signor Worf…» ed esitò. Avrebbe voluto confidare al
klingon quanto stava percependo, ma decise di lasciare
perdere. Non avrebbe fatto la differenza comunicare a
Worf quanto fosse incredibilmente felice di vederlo. Sano
e salvo. E di non sapere assolutamente il motivo di quella
sensazione.
«Signor Worf, » riprese Picard «è stato un piacere
riaverla con noi. Come sempre lei non finisce mai di
stupirmi. A volte mi pento di avere lasciato che venisse
assegnato su Deep Space Nine. Ma sono sicuro che anche
laggiù, lei saprà dare il meglio di se.»
«Naturalmente capitano, spero che ci rincontreremo
presto» rispose Worf stringendo con forza la mano del
capitano.
«Lo spero anch’io. Buon viaggio Worf.»
Worf fece un passo indietro ed uscì dalla saletta a passo
deciso.
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«Perché il capitano?»
Il giovane allievo di Q aveva il viso premuto contro la
lastra di alluminio trasparente ed osservava interessato
quanto stava avvenendo all’interno della saletta tattica.
«Ricordi la Terza Prova? La Prova della Conoscenza?»
«Si maestro. Quella che hai perso, proprio perché Picard
è fuggito» rammentò il ragazzo.
«Non l’ho persa» corresse Q.
«Eppure il consiglio aveva detto il contrario! Ero presente
anche io quando la Q ha sancito la vittoria del tuo
avversario! Io non capisco maestro» piagnucolò il
ragazzo.
«Faceva tutto parte della prova stessa. E Picard l’ha
vinta» spiegò Q.
«E in quale modo? Ricordo che era rimasto solo, che
l’altro umano, suo amico, era morto e che anche l’ultimo
drone era morto.»
«Ti sbagli. L’ultimo drone non era morto. Era stato solo
reso inoffensivo. Disattivato. E Picard l’ha risparmiato.
Nonostante tutto l’odio che provava in quel momento, per
il male che, sia in passato che nel presente, i Borg gli
avevano fatto, l’ha risparmiato. Non ha distrutto il chip
che conteneva l’intera essenza del Collettivo Borg, pur
avendone la possibilità» spiegò Q.
«E questo gesto ha fatto pendere la bilancia dalla sua
parte?»
«Ancora non capisci ragazzo mio? Mi deludi» disse,
scuotendo il capo, Q.
«Ti prego maestro! Spiegami» lo implorò il ragazzo.
«La Prova della Conoscenza, ricordi?»
Il ragazzo agitò il capo affermativamente.
«Picard ha dimostrato, risparmiando la vita al drone, di
conoscere ciò che c’è di più importante in tutto
l’universo. Qualcosa, che io stesso e il mio avversario
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avevamo dimenticato. Il valore della vita. Di ogni singola
vita. Qualunque essa sia».
«Avanti!»
Picard poggiò la tazza di te, dicendole addio. Per quella
mattina avrebbe rinunciato a qualsiasi altro tentativo, ed
alzò il capo per vedere chi fosse, questa volta, venuto a
consegnargli l’ennesimo rapporto.
«Q!» esclamò sbarrando gli occhi.
«Jean-Luc! Che piacere rivederti!» replicò Q, come suo
solito abbigliato con una uniforme da ammiraglio della
Flotta Stellare.
Picard scattò in piedi e gli andò immediatamente
incontro.
«Q! Cosa diavolo ci fai qui questa volta?»
Picard fu come sempre scortese. Ogni qual volta Q era
arrivato sull’Enterprise aveva portato con se sempre e
solo guai.
«Mon capitaine! E’ un piacere vedere che nulla è
cambiato» disse allargando la mano in un gesto che
sembrava volere indicare l’ambiente circostante.
«Comunque stai tranquillo. Sono passato solo per un
veloce saluto» continuò Q, avvicinandosi a Picard ed
abbracciandolo.
Picard sentì sulle spalle la potente e calorosa stretta di Q.
Era sorpreso e sentì subito il desiderio di scrollarselo di
dosso anche se, allo stesso tempo, percepì che l’abbraccio
di Q era realmente sincero e commosso.
Q fece un passo indietro, lasciando la presa.
«Grazie Jean-Luc.»
E senza aggiungere altro scomparve in un lampo di luce,
lasciando Picard senza parole, solo nella saletta.
Picard si voltò verso la grande finestra che dava
sull’immensità dello spazio e rimase a contemplare le
stelle con una gioia inarrestabile che sentiva provenirgli
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dal cuore. Per avere ritrovato ciò che credeva perduto per
sempre.
Fine
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