implicazioni geografiche sulla natura dei beni comuni

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implicazioni geografiche sulla natura dei beni comuni
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 179-199
MARIATERESA GATTULLO
IMPLICAZIONI GEOGRAFICHE SULLA NATURA
DEI BENI COMUNI
ALCUNE RIFLESSIONI INDOTTE DALLA LETTURA
DI GOVERNING THE COMMONS DI ELINOR OSTROM
Introduzione. – Dalla fine degli anni Novanta del XX secolo l’attenzione della società civile si è focalizzata su alcune «battaglie» per i beni comuni (commons) esplose in varie parti del mondo. Si potrebbero citare moltissimi esempi:
primo fra tutti la «guerra dell’acqua» a Cochabamba (Bolivia) nel 2000; poi la lotta di milioni di contadini in India e in America Latina contro l’appropriazione
privata dei semi; la mobilitazione indigena in Ecuador contro lo sfruttamento
delle risorse minerarie e la rivolta contro la messa all’asta della foresta amazzonica; la lotta dei campesinos sem terra del Chiapas eccetera (Mattei, 2011).
Nel nostro paese i beni comuni hanno ottenuto una improvvisa notorietà all’interno del dibattito culturale e mediatico: nel 2008 la Commissione Ministeriale Rodotà, con il disegno di Legge Delega per la Riforma del Codice Civile, formula una definizione giuridico-legislativa di «beni comuni» e propone la salvaguardia e le modalità di fruizione collettiva. Nel 2011 la locuzione guadagna popolarità con il referendum sulla privatizzazione del servizio idrico e, grazie allo
slogan di successo «acqua bene comune», entra nel linguaggio corrente e diviene
di gran moda, anche in virtù della stampa e dei media digitali che fungono da
amplificatori (Antelmi, 2014). Dal 2011 in poi, oltre all’acqua, tutto o quasi sembra poter essere accompagnato dall’etichetta «bene comune» per dar vita a campagne tese a sensibilizzare l’opinione pubblica e a mobilitare la società civile: il
lavoro, la scuola, la cultura, l’università e il sapere, il trasporto pubblico, la musica e l’arte sono beni comuni, ma anche i beni demaniali, i servizi pubblici, la
sanità eccetera (Antelmi, 2014; Mattei, 2013).
La governance dei beni comuni acquista di conseguenza un ruolo cruciale
per assicurare e garantire l’ordine sociale democratico, la conservazione e salvaguardia di una serie di risorse naturali, materiali e immateriali. Tuttavia, l’uso del
lemma beni comuni in situazioni discorsive più disparate e la sua interpretazione plurima può tradursi in una modificazione e banalizzazione del suo significa-
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to che potrebbe ridurne il potenziale innovativo e far perdere al concetto il legame con le radici storiche e sociali (Antelmi, 2014; Rodotà, 2012).
I beni comuni non costituiscono una categoria economica nuova, ma «per
generazioni si è supposto che i commons fossero una specie estinta […] Dopo il
saggio di Hardin (1968) sono stati riscoperti», ma è Elinor Ostrom che ha trasformato questo campo di indagine (Berge e van Laerhoven, 2011, p. 161), ottenendo per questo il premio Nobel per l’economia nel 2009. Le riflessioni sui beni
comuni della politologa statunitense, e in particolare il suo libro Governing the
Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, pubblicato nel 1990
e tradotto in italiano solo nel 2006, «hanno cambiato completamente la prospettiva della ricerca e delle pratiche relative ai beni comuni» e «hanno schiuso nuovi orizzonti» per approfondire lo studio dei commons da parte di molte discipline (van Laerhoven e Berge, 2011, p. 1; si veda anche Zamagni, 2014). Governing the Commons «propone un paradigma analitico alternativo per studiare fenomeni che prima della sua pubblicazione erano difficili da comprendere» (van
Laerhoven e Berge, 2011, p. 3) e apre la via a un approccio interdisciplinare che
supera le teorie sui commons elaborate sino a quel momento.
Il presente contributo propone una lettura in chiave geografica del noto libro
Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action poiché nel governo dei beni comuni lo spazio e il territorio hanno la loro parte da
protagonisti. Talvolta, però, questo ruolo è lasciato in secondo piano, sacrificato, per lo più, all’attenzione verso quei processi socio-politico-economici che
sembrano considerare le categorie geografiche come soggetti neutri, come scenari all’interno dei quali ci si può muovere in maniera indifferenziata. L’obiettivo
è individuare quale contributo potrebbe essere dato dalla scienza geografica nel
definire le possibilità e i limiti connessi all’uso dei beni comuni. La geografia, infatti, ha «capacità di fornire rappresentazioni multiscalari della territorialità [legata ai beni comuni] e dei relativi processi, che [connettono] e fanno [interagire]
positivamente (cioè progettualmente) tra loro le visioni parziali, tipiche degli altri approcci disciplinari» (Governa, 2007, p. 335).
Da Hardin a Ostrom. – Le riflessioni sui commons acquistano rilievo in un
preciso momento storico che non può essere ignorato per capire a fondo perché Hardin nel 1968 parla di «tragedia dei beni comuni» (1) volendo descrivere,
come sostiene la Ostrom, «il degrado dell’ambiente che è lecito attendersi quan-
(1) Il saggio di Hardin ha portato alla riscoperta e al recente dibattito sui commons. Prima di
Hardin, altri economisti si erano interessati ai commons. Nel 1911 Coman pubblicava sull’«American
Economic Review» un articolo sui problemi legati alla gestione dell’acqua; nel 1954 usciva l’articolo
dell’economista Gordon The Economic Theory of a Common-Property Resource: The Fishery. Anteriori all’articolo di Hardin sono anche altri due importanti lavori: quello di Samuelson (1954) dedicato
ai beni pubblici e quello più corposo di Olson (1965) sulla logica dell’azione collettiva. Negli anni
Sessanta, intorno a questi lavori, si strutturano quattro filoni di ricerca economica sui commons, ma
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do molti individui utilizzano una risorsa scarsa» (2006, p. 13). Le sue valutazioni,
come quelle di altri studiosi, nascono in seno a una profonda crisi del rapporto
uomo-ambiente che induce a un sostanziale ripensamento sull’organizzazione
delle attività umane nello spazio finito del geosistema e che, alla fine degli anni
Sessanta del XX secolo, spinge verso la ricerca di nuovi paradigmi di sviluppo.
Il lavoro di Hardin si inserisce in questo contesto storico, nel quale prende
corpo un dibattito teorico-culturale ampio che va sotto il nome di ambientalismo (Cencini, 1999). La sua teoria pone in luce la sostanziale incapacità di
gruppi e/o comunità di darsi regole per usare in modo sostenibile le risorse comuni (2). Il porre l’accento da parte di Hardin sulla finitezza delle risorse naturali (egli parla di «risorse scarse») e sul degrado cui vanno incontro quando molti
individui le utilizzano in comune, richiama da vicino le istanze ambientaliste. Il
ritenere l’individuo tragicamente «non libero» nelle scelte di massimizzazione del
proprio interesse come singolo, poiché inserito in un contesto che fissa limiti alla sua azione a causa degli «stocks costanti», è invece il condizionamento derivante dalla definizione neoclassica di benessere in cui l’ottimizzazione dell’utilità individuale è l’obiettivo prioritario di ogni azione per la massimizzazione
del benessere collettivo.
La soluzione alla «tragedia» proposta da Hardin è riportata sul piano della dicotomia pubblico (Stato)/privato (mercato, privatizzazione). Tale soluzione,
però, da sola non è capace di rendere conto di un continuum di esperienze attuate per la conservazione delle risorse collettive naturali. Un continuum, in sostanza, di «forme di governo dei beni comuni» che emergerà grazie alla teoria
della Ostrom. Questa è formulata all’inizio degli anni Novanta nell’ambito di un
quadro epistemologico profondamente mutato.
In primis, Elinor Ostrom evidenzia come la «tragedia dei commons» non riguardi solo ed esclusivamente le risorse naturali di uso comune: «gran parte del
mondo dipende da risorse che sono soggette alla possibilità della tragedia dei
beni collettivi» (2006, p. 14). Con Governing the Commons, l’autrice coglie i limiti del pensiero di Hardin e propone un teoria alternativa che affonda le radici
nella contestazione della «rozza applicazione del modello dell’homo œconomicus – massimizzazione individualista delle utilità di breve periodo, slegato da
ogni relazione sociale capace di produrre un limite – al problema dei beni comuni» (Mattei, 2011, p. XI; si vedano anche Bruni 2012b e Turco, 2014b). In tal
è a partire dal 1985 che gli studi sui beni comuni e il dibattito scientifico, politico, economico e mediatico si fanno più intensi e operativi (per approfondimenti: Bruni, 2012b; Mattei, 2011; van Laerhoven e Ostrom, 2007; Zamagni, 2014).
(2) Nell’articolo pubblicato nel 1968 sulla rivista «Science», il biologo evoluzionista, per descrivere la «tragedia dei commons», espone il caso dell’uso del pascolo comune. La parola «tragedia» vuole
evidenziare che, in tale situazione, non esiste una soluzione che sia ottima per tutti quanti e, benché
non sia giusto limitare la libertà di accesso, o si affida la gestione al Leviatano o si segue la via della
privatizzazione per non deteriorare definitivamente la risorsa (Bruni, 2012a).
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senso, già il titolo del testo è chiaro: il governo dei beni comuni si oppone alla
tragedia e alla scelta obbligata Stato o mercato.
Osservando sia la scala globale che quella locale («from small neighborhoods
to the entire planet», Ostrom, 1990, p. 1), Elinor Ostrom comincia i suoi studi
sulle problematiche relative alla gestione dei commons e alle «azioni collettive» (3). Tali problematiche si presentano molto diffuse alla scala planetaria per
l’uso di aria, acqua e terra (intesa come somma di risorse rinnovabili e non rinnovabili) e sono caratterizzate da un forte «egoismo socio-spaziale» (Reynaud,
1984) che spesso si traduce in conflitto tra i vari soggetti che detengono il potere sulle risorse ubicate. Anche ai livelli più bassi della scala spaziale si pongono
problemi di gestione sostenibile dei commons, ma si osservano soluzioni che
permettono di formulare un nuovo paradigma. Ostrom, infatti, evidenzia come a
livello globale spesso si verifica che «né lo Stato, né il mercato sono in grado di
garantire sempre lo sfruttamento produttivo, nel lungo periodo, delle risorse naturali». Volgendo poi lo sguardo verso la scala locale aggiunge che «non meno
importante deve essere la consapevolezza dell’esistenza di istituzioni, non identificabili in modo netto in base alla dicotomia Stato-mercato, che sono state in
grado di amministrare a livello locale dei sistemi di risorse naturali, conseguendo successi significativi e per lunghi periodi di tempo» (Ostrom, 2006, p. 12).
In questa nuova cornice paradigmatica l’autrice considera fondamentale acquisire «informazioni tratte da numerosi contesti» (ibidem, p. 13). Avvia, così, un
significativo lavoro di ricerca bibliografica e di osservazione diretta di circa 5.000
casi di studio – raccolti in una banca dati – in cui comunità locali di differenti
aree geografiche plasmano sistemi per gestire le proprie risorse collettive di tipo
naturale (aree di pesca, aree di pascolo, bacini acquiferi). All’interno di tali siste-
(3) La trattazione delle azioni collettive non può essere affrontata in questa sede in maniera esaustiva, poiché molto ampia e complessa. Qui ci si limita a evidenziare che «l’espressione “azione
collettiva” possiede una connotazione polisemica, onde ogni concettualizzazione o teoria che si presenta sotto questa etichetta non potrà che fare riferimento ad un’ampia serie di riferimenti empirici
che si presentano con caratteristiche e meccanismi di aggregazione e/o organizzazione diversificati»
(Daher, 2002, p. 13). In economia «l’azione collettiva è qualsiasi azione che produce e consuma interdipendenze indivisibili […] Non basta dunque “fare qualcosa insieme”, affinché si possa parlare di
azione collettiva. Occorre di caso in caso verificare se quelle attività danno forma ad un’interdipendenza indivisibile che, in assenza dell’unione tra i soggetti nel gruppo, si realizzerebbe per nulla o in
modi assai carenti» (Bellanca, 2007, p. 213). Ostrom (2006, p. 63) afferma che quando si usano beni
comuni «ciascun individuo deve tener conto delle scelte degli altri in sede di valutazione delle scelte
personali» perché usando una risorsa collettiva tutti sono influenzati reciprocamente e sono legati da
essa in una rete di interdipendenze» (si vedano anche Ostrom, 1998 e 2000). Da un punto di vista
geografico ciò che interessa è la dimensione territoriale dell’azione collettiva. Come evidenziato da
Governa (2005a e 2007), ogni azione collettiva è senz’altro localizzata, ma non sempre territorializzata. Un’azione collettiva può dirsi territorializzata secondo due prospettive che si integrano fra loro:
una in cui i soggetti condividono obiettivi in base ai quali costruiscono azioni (i loro obiettivi possono essere disgiunti dalle specificità territoriali); l’altra in cui la condivisione che si stabilisce tra soggetti riguarda le specificità dei luoghi e punta alla valorizzazione delle risorse territoriali (compresi i
commons) (Turco, 2014b).
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mi, assai diversi tra loro, è comunque possibile scorgere delle strategie ricorrenti (quelle che Ostrom definisce «le costanti») adottate dagli attori coinvolti sulla
base delle diverse finalità di uso delle risorse. Tali strategie sono individuate soffermando l’attenzione su «1) la struttura dei sistemi di risorse; 2) gli attributi e i
comportamenti degli appropriatori; 3) le regole adottate dagli appropriatori; 4) i
risultati derivanti dai comportamenti degli appropriatori» (ibidem, p. 6). I dati,
opportunamente codificati, hanno permesso di formulare una teoria dei commons che supera la «tragedia dei beni comuni» di Hardin (4).
In tutto il libro è esplicito il riconoscimento della Ostrom verso le «capacità di
auto-organizzazione e auto-governo delle comunità stanziate in un luogo» (local
empowerment), capacità che pur differenziandosi nello spazio sono accomunate
dal fatto di essere il frutto di quella interazione società-ambiente che avvia processi di territorializzazione (Raffestin, 1981). Nei casi descritti, infatti, gli attori
non creano solo istituzioni, ma si appropriano dello spazio, lo forgiano, producono e riproducono territorio al fine di assicurare la conservazione dei beni comuni a cui si attribuisce valore come comunità. L’attenzione è posta su una serie
di condizioni proprie dei rapporti delle classi socio-spaziali, caratteristiche delle
relazioni di potere tra spazi e collettività, che conducono a forme di territorializzazione in cui i portatori di interessi rientrano in un ventaglio molto ampio. La
capacità della comunità di mantenere e rivitalizzare le risorse collettive contribuisce allo sviluppo e alla crescita della comunità.
La progettualità proposta dal testo si configura come una progettualità propriamente geografica poiché contiene la «rappresentazione di ciò che di nuovo
sta emergendo dal territorio e su cui si può realisticamente intervenire in date
circostanze per imprimere eventualmente ai processi in atto una direzione piuttosto che un’altra» (Dematteis, 1995, p. 37). Le riflessioni si incentrano per lo più
sulla scala locale, su comunità medio-piccole e sul gioco di relazioni simmetriche e asimmetriche tra diversi attori, determinanti del successo e/o fallimento
nella gestione di beni collettivi.
Governing the Commons riconosce che la capacità degli individui di auto-organizzarsi e auto-governarsi per la soluzione di problematiche legate all’uso delle risorse collettive non segue un’unica via, ma varia fortemente nello spazio:
soluzioni troppo standardizzate non funzionano nel reale empirico come previsto dai modelli. Esistono entità intermedie, rappresentate da aggregati di soggetti che nella gestione dei beni comuni si comportano «di fatto come “un soggetto
collettivo”: un soggetto che anche se non è formalmente riconosciuto come tale
(4) La sistematizzazione in un archivio di questi studi e di altri provenienti da un’accurata ricerca
bibliografica, effettuata alla fine degli anni Ottanta secondo precisi criteri tassonomici di selezione
dei contributi, ha condotto alla definizione di un quadro concettuale applicabile alle ricerche empiriche sui sistemi di risorse collettive di differenti discipline (IAD framework, Istitutional Analysing
and Development framework; Kiser e Ostrom, 1982; Polski e Ostrom, 1999; Ostrom, 1986 e 2005) e
ha consentito di individuare una teoria alternativa a quelle convenzionali dei beni comuni.
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(cioè non è né un ente territoriale, né un’impresa, né altro tipo di istituzione),
[…] è consapevole della propria identità ed è capace di “comportamenti” collettivi autonomi che gli consentono di interagire con l’esterno seguendo “regole
proprie”, largamente informali, ma sufficienti a garantire la riproduzione» (Dematteis, 1994, pp. 14-15).
Commons: una posta in gioco difficile da definire. – Beni comuni/collettivi,
risorse comuni/collettive: in una parola commons (5). Nel testo italiano queste
coppie di sostantivi e aggettivi sono combinate in maniera indifferenziata poiché, come spesso accade, la traduzione italiana di termini anglosassoni propone
come sinonime parole che nel nostro vocabolario non lo sono (6). Non si può
però ignorare la differenza tra risorse e beni (Dematteis, 2005; Toschi, 1959; Vidal de La Blache, 1911), così come va sottolineato che gli aggettivi «comune» e
«collettivo» non sono sinonimi. L’intenzione del traduttore, tuttavia, è di voler definire una particolare categoria di beni che va tenuta distinta da altre due cate-
(5) Le locuzioni citate, che nell’ultimo decennio hanno trovato ampia diffusione nella lingua italiana in campo economico, giuridico, sociologico e mass-mediatico, corrispondono all’inglese commons, parola che si diffuse nei paesi anglosassoni durate il XV secolo. Per approfondire la ricostruzione storica ed etimologica di «commons» e «beni comuni» si vedano Antelmi (2014); Mattei (2011);
Ricoveri (2010); Sachs (2006); Vocaboulary of Commons (2011).
(6) Nella traduzione italiana del testo ci si imbatte più volte nell’uso indifferenziato dei due sostantivi e aggettivi: il titolo è tradotto Governare i beni collettivi; il curatore dell’edizione italiana afferma che il libro si occupa di «risorse comuni»; la tragedia di Hardin è delle «risorse collettive» e dei
«beni collettivi» (pp. 12 e 18) e ancora la Ostrom dice che «cercherà di spiegare come alcune comunità di individui creino o sviluppino diversi modi di amministrare i beni collettivi» (p. 12), di «identificare le strutture di base delle istituzioni auto-organizzate dei beni comuni» (p. XLV). Zamagni
(2014) definisce «curiosa» la scelta di aver tradotto il titolo dell’opera più famosa della Ostrom Governare i beni collettivi considerando collettivo e comune come sinonimi; anche Mattei (2011) fa un
cenno alla poco felice traduzione. Come sottolinea Antelmi (2014), nel linguaggio comune vi è una
«sostanziale sinonimia» tra le locuzioni beni comuni, beni collettivi e beni pubblici. Talvolta, si usa
anche risorsa come sinonimo di bene. «L’uso indifferenziato e indiscriminato dei sintagmi è la conseguenza della loro “difficile collocazione e definizione” dovuta al diverso significato, “spesso non
equivalente”, attribuito loro all’interno di diversi campi del sapere – politico, economico, giuridico,
culturale» (ibidem, p. 46). Poi precisa: «non voglio asserire che la locuzione muti il proprio “significato” in queste diverse sfere dell’attività umana: gli elementi che la compongono […] appartengono
al lessico di base della lingua italiana. Ma nei dizionari specialistici quei lemmi assumono “sensi” differenti […] che si traducono in pratiche […] non necessariamente congruenti» (ibidem, p. 47). È dunque importante chiarire il senso dei termini poiché attorno alle parole beni comuni/collettivi e/o risorse comuni/collettive si organizzano pratiche economiche, politiche, sociali, culturali e territoriali
che possono differire significativamente tra loro. Senz’altro però i beni comuni non indicano tout
court la «proprietà collettiva», che costituisce infatti una categoria di beni che rientra all’interno dei
commons (Carestiato, 2008). Benché le differenze lessicali siano significative, i vocaboli «comune» e
«collettivo» nel libro italiano tendono a rilevare che vi è un gruppo di persone legate da un interesse
o da un fine comune rispetto al consumo/uso di una risorsa scarsa (Antelmi, 2014). Nel presente articolo si riscontra l’uso dei vari lemmi poiché si rispetta, di volta in volta, la traduzione riportata nel
testo consultato; tuttavia nelle parti che esprimono considerazioni proprie della scrivente si è preferita la locuzione «beni comuni».
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gorie, quella dei beni pubblici e dei beni privati. I beni comuni, infatti, sono
«beni consumati contemporaneamente da più persone (quella che in economia
si chiama la “non escludibilità” del consumo) e sono anche beni scarsi, rivali: il
consumo da parte dell’altro riduce le mie possibilità di consumo». Inoltre «le persone che usufruiscono di quei beni sono legate tra di esse, sono una comunità»
(Bruni, 2012b, p. 113) (7). Da un punto di vista geografico, sulla base stessa del
contenuto del testo, si può affermare che un bene comune è un bene a cui è attribuito un valore identitario (non di scambio e non solo d’uso) da parte di un
gruppo umano: nel momento in cui un gruppo umano dà valore identitario a
una risorsa collettiva si pone il problema di come usarla in comune.
La definizione della Ostrom di «risorsa collettiva» si riferisce a «un sistema di
produzione di risorse, naturale o artificiale, che sia sufficientemente grande da
rendere costosa (ma non impossibile) l’esclusione di potenziali beneficiari dal
suo utilizzo» (2006, p. 52) (8). Una risorsa collettiva, dunque, come e più di ogni
risorsa (Toschi, 1959), «non è una cosa, è una relazione che fa emergere alcune
proprietà necessarie alla soddisfazione di bisogni. Ma non si tratta di una relazione stabile; […] Ogni risorsa è in divenire; ogni risorsa è una posta dinamica»
(Raffestin, 1981, p. 22).
(7) L’uso degli aggettivi pubblico, privato e comune/collettivo «non hanno nulla (o molto poco e
in ogni caso indirettamente) a che fare, nel linguaggio della teoria economica, con la proprietà o
con la natura giuridica del bene» (Bruni, 2012b, p. 123). Secondo la teoria economica i beni comuni
si caratterizzano per la rivalità e non escludibilità e, per questo, si differenziano dai beni pubblici
(non escludibili e non rivali) e da quelli privati (escludibili e rivali grazie ai diritti di proprietà) (Bruni, 2012a; Franzini, 2012). La teoria dei commons classifica i beni in quattro categorie in funzione
della escludibilità e sottraibilità: beni pubblici, non escludibili e non rivali; beni privati, escludibili e
rivali; beni comuni non escludibili e rivali, beni di club (toll goods) escludibili e non rivali (Ostrom V.
e E. Ostrom, 1977); nel 2009 Hess e Ostrom propongono una definizione epistemologicamente più
ampia di beni comuni all’interno della teoria dei commons di cui si parla nella nota successiva.
(8) Nel testo in lingua originale Ostrom utilizza l’espressione «Common-Pool Resources (CPRs o
commons)». Come sottolinea Carestiato (2008), accanto alla definizione di Ostrom è possibile individuare diverse classificazioni dei beni comuni. Una li vede distinti in beni comuni immateriali (informazione, saperi, cultura) e beni comuni naturali e ambientali. Possono anche essere suddivisi in beni comuni tangibili e intangibili; beni comuni locali e globali, questi ultimi raggruppabili in rinnovabili, esauribili e inesauribili (Donolo, 2012). Tenendo conto di queste differenti classificazioni Carestiato (2008, p. 13) propone la seguente tassonomia: «A. beni comuni tradizionali, che una determinata comunità gode per diritto consuetudinario (prati, pascoli, boschi, aree di pesca, ecc.); B. beni
comuni globali quali aria, acqua e foreste, la biodiversità, gli oceani, lo spazio, le risorse non rinnovabili […]; C. i new commons, individuabili nella cultura, le conoscenze tradizionali, le vie di comunicazione (dalle autostrade alla rete internet), i parcheggi e le aree verdi in città, i servizi pubblici di
acqua, luce, trasporti, le case popolari, la sanità, la scuola, il diritto alla sicurezza e alla pace». Nel
2011 il Vocabulary of Commons ha proposto il seguente raggruppamento: Natural commons; Urban
commons; Social commons, Knowledge commons, Spiritual and sacred commons. Nel 2009 Hess e
Ostrom chiariscono cosa si intenda per «beni comuni» all’interno della teoria dei commons: «una risorsa condivisa da un gruppo di persone e soggetta a dilemmi (ossia interrogativi, controversie, dubbi, dispute ecc.) sociali» (p. 5). Tale definizione acquista particolare importanza alla luce dell’introduzione dei «beni della conoscenza» nel panorama dei beni comuni. Inoltre, si tratta di una definizione che sembra rispondere all’esigenza sollevata da Mattei (2011) circa il pericolo di mercificazione dei commons connesso a una tassonomia troppo stringente.
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Dove, da chi e come viene giocata tale «posta dinamica» quando è una risorsa collettiva? «Gli utenti delle risorse collettive [sviluppano] contratti eterogenei
che vengono fatti rispettare attraverso numerosi meccanismi» (Ostrom, 2006, p.
33). L’intento del libro «è proporre spunti di riflessione sui meccanismi che gli
individui possono usare per districarsi nei problemi legati all’uso delle risorse
collettive, immaginando modalità diverse da quelle che possono trovarsi nei testi di politica economica» (ibidem, p. 34). Tali modalità, infatti, si strutturano sulla base di relazioni verticali e orizzontali complesse tra comunità e ambiente i
cui effetti si traducono in segni territoriali non riassumibili solo attraverso letture
economico-politiche, ma attraverso un approccio interpretativo multidiscliplinare (van Laerhoven e Berge, 2011) in cui la geografia dovrebbe avere un ruolo
primario, anche se, come evidenzia Moss (2014), la dimensione geografica e
spaziale dei commons è, a oggi, poco indagata (9). La Ostrom, invece, si pone
subito un problema di natura geografica per avviare le sue riflessioni sull’uso
delle risorse comuni: la scelta della scala, cioè dello spazio geografico al quale
vuole limitare la ricerca (Pagnini Alberti, 1974; Reynaud, 1984). Poiché i beni comuni comportano problematiche di gestione di tipo transcalare, sceglie di concentrarsi sulla scala locale dove sono più facili da osservare i processi di autoorganizzazione e di auto-governo finalizzati a ottenere vantaggi collettivi permanenti da parte di gruppi di soggetti economici. Il locale rappresenta quella scala
geografica «che permette le interazioni tipiche della prossimità fisica: relazioni
face-to-face, fiducia, reciprocità…» (Dematteis, 2001, p. 17).
Il concetto di «locale», cui ci si riferisce nel testo, non fa tanto riferimento alla
dimensione o alla gerarchia ma «è più un nostro modo di concepire il territorio,
di guardare alle specificità ed alle differenze che lo caratterizzano come strumenti rilevanti delle analisi. Il locale si configura come uno specifico “sguardo”
alle problematiche territoriali» delle risorse collettive (Governa, 1997, p. 15); l’auto-organizzazione e l’auto-governo si configurano come espressione «di un progetto in cui le componenti economiche hanno pur sempre un ruolo importante,
ma secondario rispetto a quelle culturali» (Dematteis, 1994, p. 13).
Per il governo di un bene collettivo possono essere costituite anche «istituzioni collettive» che risentiranno di una serie di attriti posti dalla differenziazione
spaziale dell’ambiente naturale, dalla possibilità di reperire informazioni ma anche dalla cultura e dalla struttura sociale. Le loro azioni, oltre ad avere funzioni di
governo del bene, avvieranno processi di territorializzazione il cui successo/insuccesso va analizzato molto attentamente per cogliere il ruolo che i commons
hanno rispetto allo sviluppo locale e globale. Nei casi di studio presentati appare
(9) L’articolo di Moss, pubblicato nel 2014 sulla rivista «International Journal of the Commons», si
sofferma sull’importanza della geografia per i commons e per la loro governance. Moss sottolinea
come «problemi di spazio, luogo, territorio o scala siano onnipresenti negli studi dedicati ai commons, ma raramente nei lavori di ricerca hanno avuto attenzione prioritaria» (2014, p. 459); inoltre evidenzia quanto sia esiguo il numero di ricerche in campo geografico dedicate ai commons.
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chiara l’intenzione di sottolineare l’esistenza di variabili che si ripetono ma che si
combinano diversamente, producendo risultati con esiti molto differenti sulle risorse e sulle comunità locali. Inoltre, prima di presentare i casi di studio, il testo
evidenzia come sia necessario pensare la realtà in maniera transcalare, considerare l’interazione tra classi socio-spaziali come un elemento strategico soprattutto
per gestire in modo corretto le informazioni temporali e spaziali relative all’uso
delle risorse collettive che «sono quasi impossibili da identificare sulle mappe,
senza un’approfondita conoscenza del luogo» (Ostrom, 2006, p. 36).
Il ruolo della comunità. – Fissate queste premesse, in cui si può riconoscere
il ruolo decisivo attribuito al territorio come spazio trasformato e organizzato
dall’azione sociale (Tinacci Mossello, 1990), il tema centrale dello studio è costituito dal «modo in cui un gruppo di soggetti economici che si trovano in situazione di interdipendenza possono auto-organizzarsi e auto-governarsi per ottenere vantaggi collettivi permanenti, pur essendo tutti tentati di sfruttare le risorse
gratuitamente, di evadere i contribuiti o comunque di agire in modo opportunistico» (Ostrom, 2006, p. 51). E poiché alcuni gruppi umani riescono in questo intento e altri no, il lavoro approfondisce taluni tentativi riusciti e altri falliti.
La ricerca ruota attorno ad alcuni concetti chiave che si rivelano essenziali per
individuare il complesso di attori che gravita intorno alle risorse collettive ubicate
in un luogo. Posta la definizione di risorsa collettiva come «sistema di produzione
di risorse naturale o artificiale» (ibidem, p. 52) (10), la Ostrom distingue tra: 1) il sistema di produzione di risorse, definito come stock di capitale (aggiungerei territoriale) che in condizioni favorevoli garantisce un flusso di risorse che non deteriora
e non pregiudica il sistema stesso; 2) il flusso delle unità di risorse prodotte dal sistema, ciò di cui si appropriano o fanno uso gli individui. «Il processo di prelievo
di unità di risorse da un sistema di produzione» è chiamato appropriazione (ibidem, p. 53). Da tale definizione ne segue una relativa agli attori che intessono relazioni orizzontali e verticali con le risorse collettive come flusso e/o come sistema. Un primo gruppo è rappresentato dagli appropriatori: attori che acquisiscono
unità di risorse dal sistema con fini differenti rappresentati dal consumo diretto
(autoconsumo), dal loro uso come inputs in processi di produzione, dal trasferimento della proprietà ad altri; possono essere soggetti singoli (impresa, individuo)
oppure gruppi che usano contemporaneamente lo stock.
(10) Il testo specifica che nei beni collettivi le unità di risorse prelevate da un sistema non sono
soggette all’uso congiunto o all’appropriazione congiunta; mentre il sistema di produzione di risorse
è utilizzato congiuntamente e non si può escludere alcuno dall’uso congiunto. L’autrice precisa che
la distinzione delle risorse collettive come stock e come flusso è particolarmente importante quando
ci troviamo di fronte a risorse rinnovabili per le quali è possibile calcolare un tasso di reintegro. Inoltre sottolinea che gli appropriatori cui ci si riferisce «non hanno poteri sui mercati dei prodotti finali»
e le loro azioni non generano «significative conseguenze al di fuori del contesto ambientale in cui
avviene l’uso della risorsa collettiva» (Ostrom, 2006, p. 43).
188 Mariateresa Gattullo
Vi sono poi i fornitori e i produttori, soggetti che con le loro attività rendono
possibile e assicurano l’uso di una risorsa collettiva: 1) i fornitori organizzano il
sistema di utilizzo di una risorsa collettiva; 2) i produttori costruiscono, oppure
rimettono in funzione, il sistema di produzione delle risorse o pongono in essere azioni per garantire la sostenibilità del sistema nel lungo periodo. I problemi
da affrontare nella gestione dei commons sono prevalentemente legati all’appropriazione e alla fornitura (Ostrom, Gardner e Walker, 1994).
Prima di presentare i casi di studio, è opportuno evidenziare alcuni aspetti
relativi alle scelte degli appropriatori che devono adattarsi a un ambiente in continuo mutamento, incerto e instabile, mettendo in essere scelte razionali fortemente influenzate dallo spazio geografico. Tra le fonti di incertezza un ruolo
fondamentale è attribuito dall’autrice alla differenziazione spaziale delle conoscenze/informazioni relative alle caratteristiche e all’uso delle risorse collettive
che pongono in gioco il delicato equilibrio tra ambiente oggettivo e ambiente di
comportamento (Lloyd e Dicken, 1988). Le risorse collettive, inoltre, hanno la
peculiarità di legare tra loro i co-appropriatori; essi sono congiunti da una rete
di interdipendenze (anche se non vi è un’esplicita volontà) fino a che utilizzano
la stessa risorsa collettiva; se operassero in maniera slegata potrebbero determinare la distruzione della risorsa collettiva. Quest’ultima richiede, dunque, che gli
appropriatori si organizzino e agiscano come attori «collettivi sintagmatici», attori
collettivi che realizzano un programma condiviso di uso del commons, che «si
integrano o sono integrati in un processo programmato» e non come attori paradigmatici «che si rifanno ad una classificazione, una spartizione senza integrazione in un processo programmato» (Raffestin, 1981, p. 52). Tuttavia, sottolinea
Ostrom, «passare dall’azione indipendente a quella coordinata e collettiva non è
un problema da poco» (2006, p. 65). Oltre a un problema di costi, si pongono
questioni di legittimità, di responsabilizzazione e di controllo reciproco in cui
entrano in gioco i conflitti tra attori e classi socio-spaziali.
L’autrice rivolge poi l’attenzione su altri due aspetti relativi alle scelte che richiamano implicitamente il territorio e la comunità in cui si muovono gli attori
che utilizzano le risorse collettive. Questi ultimi devono occuparsi sia dell’appropriazione sia della fornitura affrontando così condizioni assai diverse relativamente agli ambiti spaziali e ai valori di base (Ostrom parla di «incertezza geografica», ibidem, p. 77); inoltre, le loro azioni si riferiscono a scale spaziali differenti. L’appropriazione e la fornitura sono connotate come attività con una forte variabilità geografica, imputata dalla Ostrom solo in parte alle condizioni dell’ambiente naturale. Per l’autrice la variabilità geografica è riconducibile, soprattutto,
alla gestione del sistema di produzione e alle condizioni di «accessibilità pianificata» che gli attori vogliono ottenere. Sono queste ultime che portano alla creazione di istituzioni – argomento principale della trattazione contenuta nel libro:
«insiemi di regole operative seguite per determinare» azioni e restrizioni, aggregazioni, procedure, informazioni da fornire; ma quelle indagate nel testo sono le
«regole de facto effettivamente adottate in contesti caratterizzati dall’uso concre-
Implicazioni geografiche sulla natura dei beni comuni 189
to di risorse collettive nel tentativo di comprendere gli incentivi e le conseguenze che producono» (ibidem, pp. 80-81, e si veda anche Ostrom, 2005). Le regole
operative, però, sono il risultato di scelte formali e informali fatte da chi presidia
il territorio; esse configurano il risultato di un «codice genetico» basato su «principi peculiari del suo funzionamento autoriproduttivo, le sue logiche interne, il
modo comune di pensare, di comunicare e di agire dei soggetti che lo compongono» (Dematteis, 1994, p. 15) che andrebbe approfondito in chiave di analisi
spaziale dei commons.
Beni comuni e territorializzazione. – I casi di studio presentati in Governing
the Commons ritraggono contesti spaziali locali nell’ambito dei quali, attraverso
l’osservazione diretta, si può constatare: 1) in che modo gli appropriatori hanno
«ideato, applicato e monitorato il rispetto delle regole nate per controllare l’uso
delle proprie risorse collettive»; 2) perché i sistemi di produzione delle risorse e
le istituzioni sono sopravvissute per periodi di tempo molto lunghi, superando
condizioni sfavorevoli sia di tipo naturale che di tipo sociale ed economico. Gli
ambiti spaziali esaminati appartengono ad aree geografiche molto differenti e
molto distanti fra loro (Svizzera, Spagna, Giappone, Turchia, Filippine, California, Sri Lanka, Nuova Scozia). Accanto ad alcuni esempi di successo, se ne affiancano altri di fallimento totale e di fragilità delle istituzioni create dagli appropriatori e un caso di cambiamento istituzionale in ambiente incerto e instabile.
Dalla lettura dei casi di studio si coglie come la dimensione geografica nell’analisi dei beni comuni vada recuperata da un punto di vista non solo metodologico, ma anche epistemologico poiché lo spazio non è un semplice contenitore
dell’azione collettiva (Dematteis e Governa, 2005; Giordano, 2003; Moss, 2014;
Turco 2014a). I contesti territoriali esaminati, infatti, si configurano come «classi
socio-spaziali» (Reynaud, 1984) che si differenziano per la capacità neg-entropica: nei casi di successo il gruppo sociale escogita soluzioni per preservare le
specificità locali legate ai commons, crea ordine espresso dalle istituzioni, dalle
relazioni cooperative, dall’uso sostenibile delle risorse, dall’organizzazione dello
spazio; nei casi di insuccesso le classi socio-spaziali declinano a causa dell’indebolimento progressivo della capacità di organizzazione, legato soprattutto a una
scarsa presa di coscienza delle condizioni locali e delle potenzialità legate a un
uso sostenibile dei beni comuni di cui dispongono.
In ciascun caso si parte dall’osservazione dello spazio terrestre, reale e concreto, letto come dato, ma è solo in nuce la sua lettura come spazio prodotto,
vissuto e percepito (Dauphiné, 1989). Per ciascuna comunità locale si osserva innanzitutto la dimensione fisica ed ecologica sulla quale poggia l’organizzazione
umana connessa alla risorsa collettiva naturale: si descrivono la morfologia, le
precipitazioni, l’esposizione alla luce solare, i microclimi. Si tratta certamente di
un’impostazione di metodo fondamentale poiché azione umana e natura non sono svincolate l’una dall’altra, ma vivono di rapporti reciproci non ignorabili se si
190 Mariateresa Gattullo
vuole capire a fondo da dove discende l’organizzazione sostenibile del territorio.
Si passa poi all’osservazione dell’azione umana rispetto alle risorse collettive: l’individuazione di strategie finalizzate all’uso e al governo delle risorse porta alla
combinazione di mezzi che generano relazioni verticali e orizzontali espressione
della capacità di controllo delle risorse stesse, in cui accanto allo spazio reale (finito e assoluto) si materializza uno spazio simbolico legato all’azione delle organizzazioni che istituzionalizzano le relazioni stesse (Raffestin, 1981; Turco, 1988 e
2014b). Nei casi di successo i soggetti possono essere definiti attori poiché sono
«dotati di intenzionalità proprie» (Dematteis e Governa, 2005, p. 20) orientate a
produrre e riprodurre relazioni materiali e immateriali. Inoltre «questo aggregato
di soggetti agisce come attore collettivo nel momento in cui si impegna nell’elaborazione e realizzazione di un progetto condiviso» (Dematteis, 2001, p. 17).
Il risultato è l’evidenza di alcune analogie fondamentali: esse sono espressione
della territorializzazione di un agire collettivo fondato su regole condivise incentrate sulle peculiarità dell’ecosistema, sui punti di forza delle comunità, sulla minimizzazione dei conflitti, sulla sostenibilità e solidità dei processi di appropriazione delle risorse che «generano territorio», innescano percorsi di sviluppo locale
duraturi e autocentrati, strutturano sistemi locali a base territoriale (Bonora, 2001).
Da tali analogie discendono regole elaborate nei vari contesti territoriali che,
pur differendo in funzione della diversità dei luoghi, possono riassumersi in «sette principi progettuali che caratterizzano queste istituzioni solide responsabili
delle risorse collettive» (Ostrom, 2006, p. 134): 1) chiara definizione dei confini;
2) congruenza tra regole di appropriazione, fornitura e condizioni locali; 3) metodi di decisione collettiva; 4) controllo; 5) sanzioni progressive; 6) meccanismi
di risoluzione dei conflitti; 7) un minimo livello di riconoscimento dei diritti di
organizzarsi. A questi si aggiunge un’ottava regola propria dell’apertura dei sistemi d’uso locali verso altri sistemi locali e verso altre scale di governo del territorio: organizzazioni articolate su più livelli.
Nei casi di successo i sette principi sono la base di quel sistema complesso
«maglia-nodo-rete» (Raffestin, 1981) che diviene l’essenziale visibile, l’esteriorizzazione dell’organizzazione delle comunità studiate, finalizzata non solo alla
conservazione e uso della risorsa collettiva, ma anche all’interazione politica,
economica, sociale e culturale legata ai giochi della domanda e dell’offerta tra
individui e gruppi appartenenti e non alle comunità locali.
La chiara definizione dei confini (fisici e funzionali) – espressione nel testo
dei limiti delle funzioni di controllo, legali e di potere – è indicata come base irrinunciabile e prioritaria per avviare l’azione collettiva (11). Essi costituiscono l’e(11) Sul tema del confine la letteratura geografica è molto ampia e articolata. Il concetto di confine è ambivalente, indica un limite ma, al tempo stesso, esprime la necessità di superarlo; ha una duplice funzione: da un lato escludere e separare; dall’altro unificare e raccogliere (Buzzetti, 1996; Lizza, 2001). Nella lingua inglese si distingue tra «frontier», «border» e «boundary» (Zanini, 1997). Per l’uso dei commons Ostrom parla di «clearly defined boundaries» e specifica che «individuals or households who have rights to withdraw resource units from the CPR must be clearly defined, as must
Implicazioni geografiche sulla natura dei beni comuni 191
lemento primario di qualunque forma di territorializzazione: l’uso dei commons
da parte del gruppo richiede e «genera immediatamente la delimitazione», circoscrive una maglia. «Se non fosse così, l’azione si dissolverebbe […] L’azione essendo sempre comandata da un obiettivo, quest’ultimo è anche delimitazione rispetto ad altri obiettivi possibili» (Raffestin, 1981, p. 158). Il confine è definito
anche in termini di esclusione dai diritti di accesso e appropriazione da parte di
estranei, cioè soggetti che non siano appropriatori appartenenti alla comunità
locale. Nella visione della Ostrom il confine definisce quella che Raffestin chiama una maglia voluta poiché «tenta di ottimizzare il campo operativo del gruppo
locale» (ibidem, p. 159).
Per l’autrice, tuttavia, il confine è necessario ma non sufficiente. La maglia infatti include i nodi – rappresentati da appropriatori, fornitori e produttori (locali
e sovralocali) – ciascuno espressione di un potere sulla risorsa. Tali attori «non si
affrontano, essi agiscono e di conseguenza cercano di intrattenere delle relazioni, di assicurare funzioni, di influenzarsi, di controllarsi, di proibirsi, di permettersi, di allontanarsi o di avvicinarsi, e con ciò di creare tra loro delle reti»
(Ostrom, 2006, p. 161). Pertanto l’insieme degli altri sei «principi progettuali» va
a cementare reti interne ed esterne, a strutturare quel sistema di relazioni produttive ed esistenziali che animano sia il processo territoriale sia il prodotto territoriale e definiscono percorsi di sviluppo locale incentrati sui commons.
Le «regole di appropriazione e di fornitura» (principio 2) esprimono le modalità di relazioni tra soggetti locali e milieu territoriale nate intorno alla risorsa
collettiva (Bonora, 2001; Dematteis, 2001; Dematteis e Governa, 2005). Il richiamo esplicito del testo alla coerenza delle regole con le condizioni locali e con
gli attributi specifici della risorsa è il riconoscimento del fatto che i commons sono legati strettamente alle condizioni dell’ambiente naturale, sono caratterizzati
da immobilità, specificità e non esiste un modo unico per gestirli in maniera corretta, ma questo va di volta in volta adattato a tali specificità; inoltre tale coerenza garantisce l’uso sostenibile della risorsa collettiva naturale rispetto ai diversi
attori e avvia processi di sviluppo dal basso (Conti, 2012).
«I metodi di decisione collettiva, il monitoraggio, le sanzioni progressive e i
meccanismi di risoluzione dei conflitti» (Ostrom, 2006, p. 134) esprimono le modalità con cui strutturare un altro tipo di relazioni: quelle dei soggetti locali, in-
the boundaries of the CPR itself» (1990, p. 91). Tale definizione sembra rimandare in maniera immediata alla questione della delimitazione di uno spazio di cui ci si appropria, preservandolo e valorizzandolo, attraverso un percorso di costruzione sociale legato ai commons, in cui il confine, insieme
al territorio che delimita, è «esito di azioni collettive mediate dalla materialità dei luoghi» (Dematteis
e Governa, 2005, p. 26). Infatti, come rilevano Dematteis e Governa (ibidem, p. 25), richiamando
Raffestin, «la questione della delimitazione e della demarcazione di un territorio implica l’idea di appropriazione dello spazio: tracciare un confine, includere ed escludere, è l’espressione materiale di
un progetto, delle intenzioni e delle volontà che in esso si attuano, dei rapporti di potere che lo sorreggono. Tracciare un confine contribuisce alla territorializzazione dello spazio e alla strutturazione
del territorio come luogo di un’azione».
192 Mariateresa Gattullo
teressati ai commons, tra di loro (Bonora, 2001; Dematteis, 2001; Dematteis e
Governa, 2005). Le buone regole discendono, per l’autrice, dal coinvolgimento
nella loro formulazione della maggior parte degli individui interessati dalle regole operative stesse. Seguendo questo principio le istituzioni posso adattare meglio «le loro regole alle circostanze locali, in quanto gli individui che interagiscono tra loro e con il mondo fisico possono modificare nel tempo le regole, per
meglio adattarle alle specifiche caratteristiche locali» (Ostrom, 2006, p. 138). Il
fatto, però, che vi siano buone regole non significa che queste vengano rispettate: i soggetti locali sono chiamati anche a monitorare, sanzionare e gestire i conflitti che nascono all’interno di quello che viene definito «sistema locale».
Gli ultimi due principi progettuali manifestano un chiaro riconoscimento dell’essenzialità della cooperazione e del dialogo tra componenti locali e livelli di
scala sovralocali nell’uso e gestione dei commons. Il rapporto delle istituzioni locali con le altre istituzioni di origine politico-economica e la possibilità di agire
in autonomia rispetto alla risorsa comune localizzata, insieme al riconoscimento
di più scale spaziali e di più classi socio-spaziali interessate alla gestione dei
commons, evidenziano come il governo del territorio vada pensato sempre e necessariamente in una dimensione transcalare. Si afferma, infatti, che «le attività di
appropriazione, fornitura, sorveglianza, applicazione forzata, risoluzione dei
conflitti e amministrazione sono inserite in organizzazioni articolate su più livelli concentrici» (ibidem, p. 150); ciò implica il riconoscimento di più forme e tipi
di istituzioni coinvolte nella gestione dei beni comuni. La relazione fra tali istituzioni e quelle politico-amministrative implicate nella gestione della risorsa comune è una chiave di successo poiché, per l’autrice, «stabilire regole ad un livello, senza che esistano regole fissate agli altri livelli, produce un sistema incompleto che non può durare nel tempo» (ibidem, p. 150). Si tratta di una visione significativa che racchiude in sé il concetto di multilevel governance (Scarpelli,
2009) rispetto ai beni comuni. Benché localizzati questi richiedono un approccio
alla gestione che sia frutto della corresponsabilità e di politiche territoriali di scala e che, inoltre, tenga conto del fatto che vi siano azioni e relazioni che non dipendono dagli attori collettivi locali.
L’insieme di queste diverse categorie di relazioni, individuate dall’osservazione dei casi di studio, suggerisce che per la ricerca geografica intorno ai commons uno strumento concettuale utile, da affiancare allo IAD framework, sia il
modello teorico operativo dei sistemi locali nello sviluppo territoriale (Bonora,
2001; Dematteis, 2003) perché «le reti dei soggetti locali sviluppano al loro interno relazioni di tipo cooperativo, negoziale, competitivo e conflittuale, attraverso
le quali si rende possibile una progettazione e un’azione collettiva rivolta a
obiettivi di sviluppo condiviso» (Dematteis e Governa, 2005, p. 30).
Nei casi di successo tali relazioni hanno per oggetto la messa in valore delle
risorse collettive appartenenti al milieu territoriale secondo una visione condivisa che è salvaguardata proprio attraverso la gestione dei conflitti. Infatti, è dalla
combinazione di azione collettiva autonoma e risorse immobili che si ottiene «va-
Implicazioni geografiche sulla natura dei beni comuni 193
lore aggiunto territoriale» (12) che nei casi di successo ha consentito di alimentare
percorsi di sviluppo locale significativi e duraturi nati dalla mobilitazione di attori e risorse locali e localizzate (ibidem). Il risultato dei cambiamenti funzionali e
istituzionali genera così forme di territorializzazione in cui «la razionalità territorializzante [è] riconoscibile e riconosciuta come una delle modalità attraverso le
quali il corpo sociale vive e si riproduce» (Turco, 1988, p. 15). Nei casi di insuccesso le asimmetrie tra gli attori coinvolti, la scarsa attenzione alle caratteristiche
della risorsa, il conflitto tra appropriatori, fornitori e produttori, la limitata relazione tra scale di governo del territorio hanno portato al deperimento della risorsa comune e a un uso poco coerente che non ha permesso si avviassero forme
di territorializzazione auto-sostenibili. Il maggior punto di debolezza nei casi di
insuccesso è la mancanza di una visione condivisa e compartecipata.
Alcune riflessioni conclusive. – Le riflessioni sui beni comuni contenute nel
testo Governing the Commons sembrano aprire un vasto campo di azione all’analisi geo-territoriale e in particolare alle più recenti riflessioni sullo sviluppo locale e sulla lettura transcalare dello sviluppo. Tutto il testo, benché concentrato
in maniera più ampia sulle istituzioni nate intorno al local empowerment (la possibilità di auto-gestione delle risorse locali da parte delle comunità e l’opportunità di definire in maniera autonoma le regole di uso e appropriazione dei commons), accende i riflettori su una serie di concetti propri della geografia – quali
il territorio, la territorializzazione dell’azione collettiva, la territorialità, la rilettura
dell’idea di comunità, l’identità territoriale – e dischiude ampie possibilità di studio e ricerca intorno ai commons non ancora esperite (Moss, 2014).
Nella gestione dei beni comuni proposta nel testo emerge l’importanza della
dimensione spaziale dell’agire umano e si riconosce all’uomo la sua qualità di
homo geograficus, «un particolare attore sociale che, pur nella molteplicità dei
ruoli che esplica in qualche modo e in qualche momento: a) produce territorio;
b) usa territorio; c) attiva, sviluppa e conclude relazioni con altri attori» (Turco,
1988, p. 52).
In questa prospettiva lo spazio in cui gli attori collettivi si muovono può essere interpretato «come un campo d’azione costituito di distanze, superfici ed
energia suscettibili di influenzare la trasmissione delle informazioni. I suoi attributi sono utilizzati in modo diverso a seconda dei gruppi. Ogni società, in un
(12) Il Valore Aggiunto Territoriale (VAT), «riferito ad un dato territorio, può essere inteso in due
modi diversi: 1) come valore aggiunto del progetto […]; 2) come valore aggiunto del territorio» (Dematteis, 2001, p. 22). Nel caso dei commons il valore aggiunto territoriale va inteso come valore aggiunto incorporato al territorio dalla realizzazione di progetti condivisi per i commons e come valore
in più che si ottiene dalla mobilitazione delle potenzialità dei commons di un dato territorio (Dematteis, 2001). Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Dematteis (2001); Dematteis e Governa
(2005); Corrado (2005).
194 Mariateresa Gattullo
dato momento storico, produce allora un territorio, cioè uno spazio segnato dalle creazioni e dai vissuti umani. La territorialità corrisponde all’insieme di relazioni che consentono ai diversi gruppi di far valere i propri interessi nello spazio» (Bailly e Beguin, 1984, p. 24).
Nel caso dei commons le finalità dell’azione condotta dalle comunità prese in
esame è senza dubbio complessa, persegue più obiettivi, produce «territorialità»
sia attiva che passiva (13), genera un modello di inclusione/esclusione nell’uso e
nella gestione delle risorse collettive che è connaturato al bisogno comune di
preservare, utilizzare e patrimonializzare la risorsa collettiva, una risorsa cioè
che deve, per la sua natura, essere utilizzata insieme. L’azione collettiva dunque
diviene espressione di una peculiarità dei commons: quella di legare tra loro i
co-appropriatori, di unirli con una rete di interdipendenze (di cui prendono coscienza) generate dalla risorsa collettiva stessa. Tale rete, per essere gestita, richiede che si ragioni seguendo la «razionalità del noi» (Bruni, 2006).
Appare anche chiaro che gli attori non possono essere considerati come soggetti senza territorio, e che il territorio non è un banale supporto di interazioni
tra istituzioni. Ostrom ritiene essenziale ogni legame che si crea tra specificità
territoriali connesse a beni comuni e soggetti. L’azione collettiva, nei casi di successo, esprime l’identità collettiva che, fatta di intrecci di elementi materiali e immateriali nati intorno ai commons, non è definita in funzione della prossimità
spaziale (questo sarebbe il risultato di una condivisione passiva del capitale territoriale) ma «deriva dall’agire collettivo dei soggetti, in quanto portatori di pratiche e di conoscenza [reciproca e condivisa], costruttori di territorio e di logiche
di riferimento identitarie» (Dematteis e Governa, 2005, p. 22). La territorializzazione che nasce da tale azione collettiva è espressione di una sinergia «in cui il
territorio non è unicamente lo scenario in cui si svolge l’azione, ma è matrice ed
esito di un’azione in cui i diversi soggetti si mobilitano localmente e si organizzano in una maniera che non sarebbe possibile se agissero separatamente e se
le loro azioni fossero deterritorializzate» (Governa, 2001, p. 40).
(13) La territorialità, in senso geografico, «non indica solo la relazione dei soggetti con le “cose”,
ma anche le relazioni fra soggetti; non solo, inoltre, il rapporto con gli spazi concreti, ma anche con
spazi astratti e simbolici» (Governa, 2007, p. 351). All’interno degli studi sul tema, si può identificare
la territorialità passiva (in negativo) «con strategie di controllo e col sistema normativo ad esse associato, [che] mira ad escludere soggetti e risorse»; la territorialità attiva (in positivo) «discende dall’azione collettiva territorializzata e territorializzante dei soggetti locali e si serve di strategie inclusive e
cooperative» (Dematteis e Governa, 2005, p. 26). La territorialità passiva nasce da una nozione di territorialità rigida, plasmata dal controllo e dalla imposizione; consiste nella manifestazione geografica
del controllo dello spazio e del potere sociale esercitato su quello spazio; si sostanzia in strategie attraverso le quali individui o gruppi influenzano e controllano persone, fenomeni e relazioni, delineando e affermando il controllo all’interno di un’area geografica (Governa, 2005b). La territorialità
attiva scaturisce da una concezione in cui «la territorialità è un insieme di relazioni che nascono in
un sistema tridimensionale società-spazio-tempo in vista di raggiungere la più grande autonomia
possibile compatibile con le risorse del sistema» (Raffestin, 1981, p. 164).
Implicazioni geografiche sulla natura dei beni comuni 195
In questa prospettiva, la sinergia tra azione collettiva autonoma e beni comuni genera quel valore aggiunto territoriale che rende il territorio stesso un insieme localizzato di beni comuni che costituiscono il capitale territoriale (Dematteis e Governa, 2005). Capitale in cui risorse immobili, patrimonio storico
culturale e beni relazionali divengono le variabili cruciali della sostenibilità locale e del dialogo transcalare (Moss, 2014). Nello studio geografico dei commons la scala di partenza resta essenzialmente quella locale, ma lo sguardo può
allargarsi a osservare come questa scala dialoghi e cooperi con le altre scale per
il bene delle comunità locali e sovralocali; può soffermarsi a studiare le relazioni materiali e immateriali che la comunità locale intesse attorno ai beni comuni.
Tali relazioni diventano portatrici di «valori» in base ai quali il bene stesso è utilizzato nel rispetto delle sue peculiarità e delle peculiarità che genera in rapporto ai territori. Sono proprio le relazioni a essere la chiave del successo e dell’insuccesso dell’azione umana (Dematteis e Governa, 2005; Governa, 2007): le relazioni tra commons e comunità, le relazioni tra portatori di interessi, le relazioni tra storia e futuro eccetera.
Una grande sfida per questo secolo sarebbe proprio di attribuire il valore di
beni comuni non solo alle risorse naturali, ma anche a beni che soddisfino bisogni
spirituali e immateriali quali ad esempio i beni culturali, il paesaggio, la solidarietà, le nuove culture d’impresa, la fiducia (Hess e Ostrom, 2009; Vocabulary of
Commons, 2011; Turco, 2014a), al fine di individuare come sono considerati, quali strategie cooperative e inclusive potrebbero essere messe a punto dalle comunità a tutti i livelli della scala spaziale per utilizzarli insieme senza consumarli.
Ciò che emerge con chiarezza nel testo è che le comunità che hanno gestito
con successo i beni comuni sono quelle che hanno puntato sul dialogo tra gli
attori, che hanno reso visibile e leggibile nello spazio la loro identità connessa al
bene stesso, favorendo lo scambio continuo di idee nell’interesse della salvaguardia dei «beni comuni» e nella prospettiva del «Bene comune» (14). Vi è, infatti, «un legame profondo tra beni comuni e Bene comune, un concetto chiave
della tradizione classica di filosofia morale, quella che va da Aristotele a Nussbaum. Non c’è infatti Bene comune […] senza l’esistenza, l’accudimento e il miglioramento dei beni comuni. E ogni concetto di bene comune (commons) rimanda necessariamente […] ad un’idea morale di Bene comune, cioè al fatto
che le persone che usufruiscono di quei beni comuni sono legate tra di esse, sono una comunità: comunità, Bene comune e beni comuni sono accomunate tra
loro da quel cum-munus (cioè dono-obbligo) che è la radice di tutte e tre le parole» (Bruni, 2012b, p. 113) e che ci spinge verso una nuova razionalità.
(14) Per approfondire le differenze etimologiche ed epistemologiche tra «Bene comune» e «beni
comuni» si vedano Antelmi (2014); Bruni (2012a); Lo Presti (2009); Zamagni (2007 e 2014).
196 Mariateresa Gattullo
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GEOGRAPHICAL REFLECTIONS UPON THE NATURE OF COMMONS STARTING
FROM THE READING OF GOVERNING THE COMMONS BY ELINOR OSTROM. – This paper proposes a geographic review of Elinor Ostrom’s most famous book Governing the
Commons. The Evolution of Institutions for Collective Actions. Its goal is to identify what
contribution geographical science can give to defining the possibilities and limits related
to the use of commons. In the governance of commons, space and territory play a strategic role. Sometimes, however, this role is sacrificed to social, economic and political
processes.
Università degli Studi di Bari «Aldo Moro», Dipartimento di Scienze Economiche e Metodi
Matematici
[email protected]