Libretto de Il Cavaliere dell`Intelletto, Gilgamesh

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Libretto de Il Cavaliere dell`Intelletto, Gilgamesh
Il cavaliere dell’intelletto
Opera in 2 atti
dedicata a Federico II di Svevia
nell'ottavo centenario della nascita (Jesi, 26 dicembre 1194)
per 4 attori, soli, coro e orchestra
Su commissione della Regione Siciliana
Assessorato dei Beni Culturali e Ambientali
e della Pubblica Istruzione
Prima rappresentazione:
Palermo, Cattedrale, 20 e 21 Settembre 1994
Libretto di Manlio Sgalambro
Musica di Franco Battiato
Edizioni Casa Musicale Sonzogno - Milano
L'Ottava - Giarre
Una voce
Teoria della Sicilia: Là dove domina l’elemento insulare è impossibile
salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola
è segnata da questa certezza; un’isola può sempre sparire. Entità talattica,
essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora
della nave; vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro
impulso verso l’estinzione. L’angoscia dello stare in un’isola, come modo
di vivere, rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale.
La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano
non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere. La
storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori. Ma dietro il tumulto
dell’apparenza si cela una quiete profonda.
Vanità delle vanità è ogni storia! La presenza della catastrofe nell’anima
siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo tedium storico,
fattispecie nel Nirvana.
La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice
dell’arte quest’isola è vera.
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ATTO I
Esterno giorno piazza Cattedrale di Palermo, lontano un gregoriano
Uno
Dimmi, chi si incorona Re oggi? (Finge di guardare) Nessuno, non c’è
nessuno sul trono, nessuno nel corteo (un bambino di quattro anni non è
nessuno). In fatto di magie e di incantesimi in quest’isola tutto è possibile.
Maghi e negromanti fate apparire un Re. Lavorate sul vostro fiato e sul
nostro delirio. Fatto di rugiada e simile alla bocca di un fiore…. Degno di
noi, insomma,… Ma ahimè, non vedo nessuno (un bambino di quattro
anni non è nessuno)…
Un altro
Zitto, rutto pestifero di un otre piena di putridi venti, mangiatore di
rifiuti, pecora pazza. L’idea di sovranità si incorona, essa in persona
siederà sul trono. Ascolta.
Un cancelliere (dottorale, compassato)
La lingua delle lingue. Marino da Caramanico, rimanda a questa fonte,
benedetto il Suo nome, al signor Seneca che nel “De clementia” fa dire al
sovrano dei sovrani, A Nerone s’intende: “Io sono l’arbitro della vita e
della morte dei popoli. Quale debba essere la sorte e lo stato di ciascun
uomo dipende dalle mie mani. E la fortuna annuncia per mia bocca ciò che
intenda attribuire ad ogni mortale”…
Uno
Re è dunque colui che mi può uccidere in qualunque momento. Fammi
schizzare il cervello fuori dalla testa, strappami le gambe, appendimi per
le budella in cima a un minareto e in cambio… lasciami vivere.
Un altro
Sputo di una fogna, continui ancora?!… saggi consiglieri circondano un
Re ed egli porge loro graziosamente orecchio.
Uno
No, Amico. Il becchino è l’unico ministro che un Re ascolta.
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Coro
“Christus vincit. Christus regnat. Christus imperat”
Le vie di Palermo, vagabondare di bambini, gente. Daccapo un brusio di lingue,
frammenti di parole si sentono più di altre: ebreo, arabo, greco, tedesco (“un
latrato di cane e gracchiare di cornacchia”). Improvviso silenzio.
Dialogo tra Federico e Michele Scoto
Federico
Messer Scoto, in nome di Aristotele fermati. I tuoi ragionamenti vanno in
fretta. Bisogna fermarsi. Fermandosi Aristotele trovò un Dio. Ma io mi
contento di molto meno: chiuderti la bocca per un momento.
Michele Scoto
La tua maestà sa, signor Re, che il sillogismo è impressionante. Vola come
i tuoi falchi. E’ forte come una tigre…
Federico
E poi? Cosa distingue qui un ragionamento da un muggito di bove?
Entrambi hanno una forza enorme. Ascoltami piuttosto. Tutta la volta
celeste della tua filosofia crollerebbe, capiscimi, se dovessimo aspettare
l’ultima mano di calce: l’argomento decisivo. Lo hai mai tu trovato?
(Beffardo) Siamo nella fase di luna crescente, puoi dunque rispondermi!
Michele Scoto
Maestà, t’ho detto le proprietà dei minerali e dei metalli, e ti parlai della
natura delle droghe e delle piante. Tu credi che ci arrivai con gli occhi e
col ragionamento?
Federico
Vi sono cose che il tuo ragionare per quanto lo lanci in alto non
acchiapperebbe, come non acchiapperebbe una mosca. Ti diro, Michele,
non amo Socrate, inverecondo ciarlone, ma hai sentito tu di Parmenide?
Egli dice con semplicità, ascolta attentamente: “Io ti comando: l’essere è e
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il non essere non è”. Tu sai che su questo si sorregge la nobile filosofia.
Forse dunque su un ragionamento? No, su un ordine.
Michele Scoto
Tu parli da Re.
Federico
La natura della verità è leggera come quella di una cortigiana. Tu coi tuoi
ragionamenti la corteggi. Io con i miei ordini la posseggo. Si, mio Scoto,
la verità è cosa da Re non da filisofo.
Un canto
Volò con le ali della durabilità, nell’aria della non-qualità al di sopra del
campo dell’eternità e vide l’albero dell’unità per realizzare che “tutto
quello” era illusione. (un sufi)
Duello (danza)
Il buffone
Io sono il buffone. Io solo ho diritto a parlare del passato. Nel comico il
destino dell’individuo si palesa nel riso che destano un eroe preso a pedate
o un Re morto. Il lamento solenne che costituisce l’essenza della tragedia
è sostituito ora dal riso sino alle lacrime al quale la risata si strozza in
gola. Come fenomeno collettivo il riso si rivela tardi. Prima che si stampi
sulla faccia dell’uomo qualsiasi come un marchio bestiale il riso è ancora
appannaggio regale. Ora invece l’esperienza del riso diventa comune.
Ridere non è più cosa da eroi che ridono degli altri. Non ride più solo il
Re, il cui diritto a ridere è consacrato dal buffone che lo segue come
un’ombra. Il riso è profanato. Assieme all’insegna del Re, la plebaglia si
fregia della berretta a sonagli: il diritto a ridere come immortale principio
non scritto. Ora ognuno ride degli altri. Il riso idiota subentra al
Mugugno. Invece della colpa e delle offese tragiche. Pedate, al posto di
veleni e pugnali. Gesti invece che azioni. Il succedere del gesto all’agire
segna il trapasso all’età del comico; è il momento in cui la stessa tragedia
cede le armi. Ora il fuoco, come fa dire Hebbel nella Giuditta, serve a
cucinare i cavoli…
(A un tratto si interrompe, si prende il capo tra le mani come per un improvviso
dolore, si scuote e poi:)
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ma il morto squittisce come un topo nel mio cranio, o Dio la codina si
impiglia tra emisfero e emisfero… Corre su e giù, su e giù, orsù,
Federico… cade nella cavità cerebrale attraverso il plesso coroideo del
terzo ventricolo, titilla la mia immaginazione. Ora si scarica sul parietale
sede della memoria, lo giuro sull’anatomia del Mondino di là da venire e
paff… piomba sulla mia lingua, chiede voce, parola. E tutto ciò che egli
fece? Le sue azioni? Com’è vero che non mi chiamo Yorick e pur lo sono,
ciò che resta è parola.
Danzatori e suonatori di tromba irrompono sulla scena – Abulafia: ”non è
difficile supporre che la sua corte folta di danzatrici e suonatori di tromba
musulmani suscitasse impressioni stravaganti nei visitatori provenienti dal
Nord”.
Isabella
Addio mia Siria, ma patrie addio,
nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie
Aria di Isabella
Soprano
Addio mi siria, ma patrie addio,
nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie.
La storia ha bisogno anche della mia stinta ombra
Per dare all’insieme alcuni effetti.
Chi fui? Una mano di nulla
Sul ritratto di Federico.
Isabella, petite moi-meme.
Coro
Addio mia Siria, ma patrie addio,
nemmeno naufraga tornerò alle tue sabbie.
Isabella legge la “Lettera di federico a Michele Scoto”
A me Isabella di Brienne viene affidata la lettera che Federico scrive nel
1227 a Michele Scoto. Io morirò un anno dopo.
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“Preziosissimo tra i miei maestri, spesso in svariate maniere abbiamo
inteso domande e risposte intorno ai corpi celesti, il sole, la luna, le stelle
fisse, ed agli elementi, all’anima del mondo, alle genti pagane e cristiane e
le altre creature sotto la terra. Tuttavia mai abbiamo inteso qualcosa di
quei segreti che appartengono al diletto dello spirito e della saggezza, vale
a dire del Paradiso e dell’Inferno, delle fondamenta della Terra e delle sue
meraviglie. E se esistano diversi cieli e chi li guidi; e l’esatta misura che
separa un cielo dall’altro e ciò che esiste al di là dell’ultimo cielo; in quale
cielo Dio, per sua natura, ossia nella sua divina maestà si trovi. E in che
modo egli sia assiso sul trono celeste, e come gli facciano corona gli angeli
e dove esattamente si trovino l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso: sotto la
Terra, nella Terra o sopra di essa? E quale differenza intercorra tra le
anime che ogni giorno approdano laggiù. E vogliamo sapere se un’anima
nell’aldilà riconosca un’altra anima e se taluna di esse possa tornare in vita
per parlare con qualcuno, o mostrarglisi e quante e quali siano le pene
infernali”.
Questo chiede di sapere per bocca mia Isabella, il mio Federico. Ma per
mio conto ho già la certezza che egli non lo chiederebbe se non lo sapesse
già.
Aria di Costanza di Aragona
Soprano
Attraverso l’amplesso partecipo alla tua regalità.
Per le mille vie delle carezze (spezie d’amore) mi unisco alla tua suprema
Idea che consacra all’Ordine un insieme di canaglie e di assassini generati
da sperma. Ah! Federico, chi amo quanto amo?
Soprano e coro
Abbraccio la tua idea, splendente come l’armatura, piccolo fermaglio di
nozze che ti donai, o il corpo robusto, forgiato da cacce e guerre anche
all’amore più squisito?
Federico
Messer notaio Jacopo vi faccio arrivare con cavalli veloci a Lentini,
patrietta vostra e di chi sa chi altri, questo sonetto che non ha nulla di
nuovo, vi giuro, ma come nulla di nuovo vi è nell’eterno cerchio dei cieli.
Spogliatevi, notaio, della vostra doppiezza, voi e tutti i lentinesi, e
temetemi se non mi direte la verità… “Oi lasso! Non pensai si forte mi
parisse lo dipartire da donna mia; da poi ch’io m’allontanai…
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Coro
Oi lasso! Non pensai
Si forte mi parisse
Basso
Lo dipartire da donna mia;
da poi ch’io m’allontanai,
ben paria ch’io morisse,
membrando di sua dolze compagnia;
e già mai tanta pena non durai,
se non quando alla nave adimorai.
Ed ora mi credo morir certamente,
se da lei non ritorno prestamente…
ATTO II
Il poeta
L’Hohenstaufen dei poeti, il beatissimo Goethe sostiene, parola mia, ciò
che segue (o su per giù). “A dire il vero non vi sono in poesia personaggi
storici, ma quando il poeta vuole rappresentare il mondo che ha concepito,
fa l’onore a certi individui che incontra nella storia, di prendere i loro
nomi per applicarli alle figure da lui create”. Nei seguenti mugolii, che il
poeta a voi davanti, un Gringoire a servirvi, un paltoniere qualsiasi, vi
declina, il nome Federico è inventato, tutto il resto è vero. O è il
contrario?! (Le ultime parole vengono dette quando è quasi fuori scena)
Coro
Ragioni metafisiche mi obbligano
a contrastare l’affinità
Soprano
Estraneità
Relazioni fuggevoli
Basso
Ragioni sociali mi obbligano
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Soprano
all’amore
Basso
All’ umanità
Soprano e basso
Ragioni abissali
mi obbligano a imporre la verità
Coro
Ragioni sociali mi obbligano
all’amore, all’umanità.
Ragioni abissali mi obbligano.
(Tranche nel porto di Palermo. XII secolo. Un piccolo angolo, quanto basta a un
qualunque marinaio venuto un giorno dalla Francia a lasciare questa)
“Serénade Sicilienne”
Soprano
Jours siciliens
Envies par le soleil
Fleuvies siciliens
Que brigue aussi la mer
Et toi, ma belle
Contez, nymphes, souvenirs
Las splendides cheuveux,
le baiser, la morsure
de mes dents sur votre
chair de ma chair
Basso
Je t’étérne, mon reve
Mon doute, ma nuit,
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Soprnao e Basso
Assoupi por ton parfum
Basso
Suffocant de chaleurs
Soprano e basso
… les douces ètreintes…
O bords siciliens.
Soprano
Immobile ile, Dieu
Basso
Tout brule dans le ferveur
Soprano
Conte de fée.
Basso
Sicile
Soprano e basso
Un matelot du treizième siècle
Basso
(ou du vingtième?)
Soprano e Basso
parmi d’obscures espoirs
songe à toi
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La danza dei falchi
Voce di Federico (fuori scena)
Saxo Yalla… quf… khatt bajna-s-sama wa-l-ard. Sahm Muhandis al
Muhandisi. Saetta… Geometra dei geometri… linea tra cielo e terrra.
(Due qualsiasi, mentre Federico e Ibn Sab’yn si avvicinano).
Uno
Ecco quei due, è un giorno che parlano andando avanti e indietro, che
pazzia parlare!
L’altro
Sono il Re Ibn Sab’yn, un filosofo…
Uno
I loro discorsi mi danno i brividi, ti dico. Quando parlano re e filosofi
capita sempre qualche sciagura. I segni del cielo non mi piacciono. Una
cometa, e un re è spacciato. Ma per un poveraccio le stelle non si
scomodano di certo…
L’altro
Ma qui non ci può capitare nulla, compare. Questo è teatro. Noi siamo al
sicuro nella finzione. Protetti dalla stessa fantasia che ci ha messi qua
sopra. (lontano voce di muezzin)
Ibn Sab’yn
Dio è tutto, federico, unirsi a Lui è il fine, tutti i tuoi atti invece sono colpi
di spada che dai ai tuoi legami con Dio.
Federico
Nella risposta che hai dato ad unamia domanda sei stato più preciso. Hai
detto: “Il solo essere che esiste in realtà essendo Dio, l’uomo, essere
limitato, arrivandovi, perirà”…
Ibn Sab’yn
Ebbene?…
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Federico
Tu sai che il sillogismo è per me come una carezza per l’intelletto, ma
terribile è la sua forza. Ciò che tu non vorresti nemmeno sfiorare esso ti
costringe a pensarlo con la potenza di mille cavalli. Non io dunque, ma il
sillogismo mi spinge a questo (interrompendosi. Come divagando)… Tu sai
quel che si dice, che io feci visita al Vecchio della Montagna, al Capo degli
Assassini… (Riprende il discorso che aveva iniziato). Quello che mi hai
risposto, Ibn Sab’yn, non mi ha lasciato in pace un momento…La forza del
ragionamento, spietata come uno dei miei boia, è arrivata in un lampo a
questa conclusione, ascolta. L’assassinio, la cui traccia metafisica va
seguita con tenacia, rappresenta, nella sua chiave ultrasegreta, il modo
come tutti moriamo. Il fatto che si distinguano gli assassini dalle vittime
non è che un tributo pagato all’apparenza. Un tributo per giudici e
avvocati. L’assassinio è certamente nello stesso Principio, Ibn Sab’yn.
Nella matrice di tutte le cose, come hai detto tu stesso, sta in agguato il
loro annientamento… e il tuo e il mio….
Ibn Sab’yn
(La sua voce è dolce, carezzevole) Che vuoi dire, fanciullo…
Federico
Che ogni morte è un collegamento a un delitto. In altre parole, tutti
moriamo assassinati. (Si ferma. Sovrappensiero. Poi:) Dio è la stessa morte.
Una voce da sacerdote di “mestiere”, una voce da messa, ora più alta, ora più
bassa, ora chiara, ora appena un brontolio, biascica:
“… quod potius igniominiose, quam juste habendos nos dixerit a chatolica
fide suspectos, quam nos, teste supremo judice, in omnibus et singulis,
ejusdem articulis secundum universalem Ecclesiae disciplinam et
approbationem per Romanam Ecclesiam, et symbolum firmater credimus
et profitemur simpliciter” (Lettera di Federico diretta nel 1246 ai prelati, ai
nobili e al popolo di Inghilterra, dopo la sua condanna e deposizione pronunciata
alla presenza e per opera di Innocenzo IV dal concilio di Lione).
(Nel frattempo Ibn Sab’yn risponde a Federico, la sua voce è un sussurro. Ai
limiti del silenzio, come tutte le cose degne)
Ibn Sab’yn
Io ti ho ingiuriato e vilipeso nelle mie risposte, Federico. Ma ora hai
bisogno della mia dolcezza. Voglio carezzare il tuo intelletto, Federico,
con tenerezza di donna… Non Dio è la morte, ma la morte è Dio.
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Morendo ci sciogliamo in lui come nell’abbraccio delle nostre donne nelle
notti di desiderio.
Una voce
(Senza intonazioni particolari, come se leggesse, estranea):
Il 28 shawwal dell’anno 668 dell’ègira (1271 d.C) all’età di cinquantacinqe
anni Ibn Sab’yn si suicidò tagliandosi le vene per rientrare al più presto
nel seno di Dio. Il fine dei fini della teologia, egli aveva detto è l’unione
intera con Dio. Il mezzo più veloce per arrivarvi è la rassegnazione e
l’ammissione dell’impotenza del nostro intelletto. Ma poi gli apparvero il
ricordo della discussione con Federico e la Verità. Il solo essere che esiste
in realtà essendo Dio, l’uomo non appena vi perviene muore. Ibn Sab’yn
stavolta, per pervenirvi più velocemente, trasse l’altra conclusione e
affrettò la morte.
Costanza
Le carceri di Sicilia e di Puglia si sono riempite di prigionieri. Federico
per non sentirne i lamenti li farà uccidere.
Federico
C’è qualcosa nel lamento che fa che gli si rifiuti la natura di linguaggio. E’
come se esso ne fosse al di qua o al di là. In ogni caso in una zona
inospitale, dove non vorremmo mai mettere piede. Se si interviene si
interviene per farlo tacere. Non per la pena. E’ come se al di là della
sofferenza ci fosse qualcosa di peggio. Il lamento oltrepassa la soglia della
sofferenza educata e civile (c’è infatti un lamento che ubbidisce alle buone
maniere) e ci conduce in una zona in cui la sofferenza è sfrenata e
selvaggia. Il lamento penetra per un momento in questa zona senza difese,
dove la sofferenza è pura e tocca la carne viva. Di fronte a chi si lamenta
siamo perciò pronti a tutto pur di farlo tacere. A tappargli la bocca fino a
farlo morire. (Esce)
Costanza
Gli ho sentito dire una volta: “Lesto di coltello deve essere un re come
lesto di becco un falco”.
Michele Scoto
Tu sai come con l’arte della falconeria Federico vuole conoscere la natura
e penetrarne i segreti penetrando i segreti del falcone. Ma ti sei mai
chiesta chi è il falcone? Ti sei mai domandata se non è lui stesso? Il modo
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come piomba sulla preda, sia una verità o un nemico mortale, non lo
riconosci? Non è il modo del falco?
(Si avviano dietro le quinte mentre si svolge il dialogo. Nel frattempo Federico
sfoglia il Liber Augustalis)
Federico
Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali. Il resto è
sogno interrotto da qualche insignificante sprazzo di veglia. Tutto ciò che
ho fatto? Vuoti gesti, gusci senza polpa. Agivo? Mi agitavo, piuttosto.
Solo ciò che dicevo era eterno. Solo la parola resta. Cosa rimane del mio
impero se non le parole di cui era fatto?
Eterna essenza del teatro! Esso divora distanze e unisce le cose più
lontane e di individui chiusi e sprangati in se stessi, di eventi sparsi e
senza nesso, se non quello che piace a Dio, fa una farsa o una lunga lagna,
in onore di chi poi non si sa. Sulla scena del mondo appariamo e spariamo,
come il mestruo delle giovani o come in questo teatro e tutti vogliono
sapere perché. Quando la scienza, ad onore del vero, ci insegna che esso è
solo un balbettio di bambini. Ma cosa unisce un agnello sgozzato, il volto
della mia donna, i miei due maestri, il mio levriero, la merda dei miei
cavalli e il qui presente? Cosa di questo immane coacervo fa un levigato
specchio in cui si può specchiare persino un sorriso? Cosa tiene assieme
insomma questo pasticcio? Cosa tiene unito, spero con benevoli lacci, cio
che su questa scena si è andato svolgendo (se pure qualcosa si è svolto)?
Lo sguardo. Lo sguardo di Dio o di un nano basta perché ci sia spettacolo.
E per gli Dei, solo spettacolo è la Terra, e il sidereo, e me e gli altri e
questa scena…
L’accostamento alla morte
Federico
Voglio accostarmi alla morte come al mio vino. E gustarla… Fui nemico
ad entrambi, a Dio e alla morte. Essi sono Uno e una fu la mia inimicizia.
Allargai un impero per allargare me stesso. Per non offrire alla morte un
piccolo bersaglio. Il mio impero era il mio corpo. Si, per scongiurare Dio e
la morte, mi creai un impero. Anche a Dio è difficile distruggere un
impero. Che strano però!
Nell’atto di morire scompaiono i confini. L’impero che cercavo, l’impero
senza confini, è Dio dunque?
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Voce
Mi immergo con voluttà
nel felice mare della mortalità
Nell’assenza perfetta
Soprano e coro
Voglio morire interamente
nessun residuo che non si sciolga
nell’abyssus abyssum del Niente.
Coro
Che il niente lo accolga
Basso Risolto in Dio, dominerò in Lui
attraverso Lui
di nuovo imperatore sarò del mondo.
Coro
Florebat olim – Floribus omnia vestiebantur – florebat illo
tempore.
FINE
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Campi Magnetici
Musiche per balletto
Libretto di Manlio Sgalambro
Musiche di Franco Battiato
In trance
Voce recitante: Dormienti in stato di trance perenne transitano naviganti
che non conoscono mare chi si desta perde il clima della non curanza.
Corpi in movimento
Voce recitante: ...a corpi in movimento ad asimmetrie che paiono non essere
aderenti ai fenomeni. Si pensi per esempio alle interazioni
elettrodinamiche tra un magnete e un conduttore. Il fenomeno osservabile
dipende qui solo dal moto relativo fra magnete e conduttore, mentre
secondo il consueto modo di vedere sono da tenere rigorosamente distinti
i due casi che l'uno o l'altro di questi corpi sia quello mosso. Infatti, se si
muove il magnete e rimane fisso il conduttore, si produce nell'intorno del
magnete un campo elettrico di certi valori di energia il quale provoca una
corrente nei luoghi ove si trovano parti del conduttore. Rimane invece
fisso il magnete e si muove il conduttore, non si produce nell'intorno del
magnete alcun campo elettrico, ma al contrario si produce nel conduttore
una forza elettromotrice, alla quale non corrisponde per sé alcuna
energia...
Sopranista: Volatile components for the existence of non-gravitational
forces. This structure explains how large parts of a comet.
Voce recitante: In una lettera a Frege, Hilbert comunque aveva scritto: "Se
io, come miei punti, penso quali si vogliano sistemi di cose, per esempio il
sistema amore, legge, spazzacamino..., e poi non faccio altro che assumere
tutti i miei assiomi come relazioni tra tali cose, allora le mie proposizioni,
per esempio il teorema di Pitagora, valgono anche per queste cose. Il
retaggio di un universo dotato di senso, nobilmente dato all'intuizione da
un'unica matematica e da un'unica geometria, viene sconvolto da siffatta
matematica, la quale può asserire qualsiasi cosa e questo universo in
quanto qualsiasi.
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Sopranista: Magnetic lines cloud structure in the atmosphere of... in
contact with the nucleus may break away trough vaporization causing the
fragmentation of nuclei.
Voce recitante: E' la matematica il linguaggio odierno, non le grida
scomposte. Essa è il coro dei sopravvissuti. Il "latino" con cui l'uomo
d'oggi celebra la liturgia dell'estinzione senza capirci granchè. I numeri
non si possono amare.
Fulmini globulari
Sopranista: Fulgit item, cum rarescunt quoque nubila caeli.
Quando un temporale mette in moto i fulmini, lampi squarciano le nubi.
Fulgit item, cum rarescunt...
The Age of the Hermaphrodites
Sopranista: The Age of the Hermaphrodites
Voce recitante: L’abisso originale l’autonomia dell’infertile
L'ignoto
Sopranista: L'eterno mattino
Voce recitante: I numeri non si possono amare
Sopranista: Trascina sogni a riva, il timore di sapere che si espia. Ignoti
segni la notte.
Voce recitante:
Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando, o uno sciame
di api accanite divoratrici di petali odoranti, precipitano roteando come
massi da altissimi monti in rovina: logoi dagli ultimi duemila anni.
FINE
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Angelo Arioli
Remote memorie di argilla
“Proclamerò al mondo le imprese di Gilgamesh, l’uomo a cui erano note tutte le
cose, il Re che conobbe i paesi del mondo. Era saggio: vide misteri e conobbe cose
segrete: un racconto egli ci recò de giorni prima del Diluvio. Fece un lungo
viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò si riposò, su una pietra
l’intera storia incise”
Con simili parole inizia una delle versioni in prosa dell’ epopea di
Gilgamesh, tesoro letterario fra i più antichi inciso in caratteri cuneiformi
su tavolette d’argilla rimaste per millenni sepolte e solo nell’ultimo secolo
disseppellite da archeologi tenaci, e poi decifrate da filologi instancabili.
Un documento poetico che ci riconduce ad epoche remote della storia che
videro il sorgere, il declino, il sovrapporsi di civiltà raffinate da noi
comunemente relegate nei recessi della memoria, ove vengono evocate da
parole come Sumeri, Assiri, Babilonesi….
Testo antico, i cui primi frammenti reperiti, scritti in lingua sumerica,
risalgono intorno al 2150 avanti Cristo, ai quali poi si aggiunsero
redazioni posteriori in lingua accadica (gli uni e gli altri dissotterrati nelle
antiche città mesopotamiche di Ninive, Ur, Nippur), e ulteriori frammenti
provenienti dalla Palestina, dalla Siria, dall’Anatolia, a riprova della sua
diffusione geografica confermata dall’esistenza di traduzioni in altre
lingue del passato come l’ittita e l’hurrita. Un mosaico incompleto di
tavolette appartenenti ad epoche, lingue, aree diverse, alla cui
ricostruzione definitiva tuttora ostano difficoltà testuali, filologiche e
interpretative. Un labirinto di segni, un intarsio frammentario di storie e
leggende, probabilmente trasmesse oralmente e poi incise su argilla, nel
quale tuttavia si staglia nitida la figura dell’eroe: Gilgamesh.
Sovrano di Uruk, la biblica Ereck, identificata nel sito iracheno di Warka
ai bordi dell’Eufrate, per due terzi divino e per un terzo umano, signore
incontrastato cui gli dei per frenarne la tracotanza inviano Enkidu,
dapprima suo avversario e poi suo fedele compagno. Con Enkidu,
Gilgamesh, che persegue la fama e desidera eternare il suo nome con una
grande impresa, volge verso una foresta di cedri ove si cela Khumbaba,
possente forza del male, per liberare la Terra dalla sua presenza. Sconfitto
Khumbaba e acquisita ulteriore fama e potenza, Gilgamesh rifiuta di
giacere con la dea Ishtar e assiste addolorato alla morte dell’amico
Enkidu. Rimasto solo Gilgamesh tenta l’ultima umana impossibile
avventura, quella di eludere la morte. Si mette in viaggio alla ricerca di
Utnapishtim, l’unico umano cui gli dei concessero vita eterna. Per
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raggiungerlo affronta un viaggio estenuante che lo conduce dapprima al
giardino degli dei, poi all’incontro con la divina Siduri la quale tenta di
dissuaderlo dall’impresa rammentandogli che gli umani hanno per fato la
morte e i piaceri della vita, e tuttavia gli indica la via da attraversare:
l’oceano dalle acque mortali. Aiutato da un traghettatore Gilgamesh
naviga su quelle acque e giunto davanti all’umano immortale ascolta da
questi il più antico resoconto del Diluvio e un segreto degli dei: un fiore
d’acqua che assicura l’eterna giovinezza. Gilgamesh coglie quel fiore, ma
nel viaggio di ritorno verso Uruk, mentre si bagna a una fonte, un
serpente gli ruba il fiore. Tornato a Uruk Gilgamesh incide su una pietra
la sua storia e come per ogni mortale si conclude la sua vita.
L’ipotesi che il Gilgamesh dell’epopea sia il riverbero leggendario d’un
sovrano effettivamente esistito, è ormai accettata dagli studiosi che ne
fissano l’epoca in un periodo di tempo oscillante tra il 2800 e il 2500
avanti Cristo, col tentativo altresì di intravedere oltre il velo affabulante
della narrazione epica probabili eventi storici di quel periodo, o meglio la
registrazione in chiave mitografica delle fasi più significative che
ritmarono l’evolversi delle antiche civilizzazioni mesopotamiche.
Interpretazioni plausibili, forse meno suggestive di quella per cui l’intera
mitologia antica , e specialmente l’epopea di Gilgamesh, altro non sarebbe
che la complessa, oggi a noi imperscrutabile, scrittura dell’eterno
spettacolo dai moti degli astri nell’orizzonte celeste. Quale che sia il
decreto degli specialisti, il fascino dell’avventura umana di Gilgamesh
permane immutato da tempo per diversi motivi. Sono vicende note che
evocano altre storie già sentite. L’intera vicenda di Gilgamesh, ad
esempio, si ripercorre, con le ovvie ed inevitabili varianti, in un episodio
delle Mille e una notte. Chi vuole scorgerà la replica di Gilgamesh nel
conquistatore invincibile a noi più familiare, in quell’Alessandro che
instancabile varca gli orizzonti alla ricerca dell’introvabile Acqua di Vita,
l’acqua che rende immortali. Per altri momenti delle vicende di Gilgamesh
è stata osservata la somiglianza con equivalenti reperibili nell’Odissea…
Ma al di là di questi accostamenti puntuali, che suggeriscono l’eventualità
di un antico patrimonio comune di leggende diffusosi nel tempo in un area
vastissima, l’epopea di Gilgamesh ripropone, in una delle versioni più
antiche, il destino tragico d’ogni essere umano: la sua ansia di eludere la
sorte gia decretata, di imprimere un segno indelebile nel tempo che fluisce
perenne, di trascendere l’umana natura qualunque sia – e ogni epoca ha il
proprio – l’Oceano d’acque mortali o di spazi siderali da varcare. Ma per
quanto in alto proietti la sua parabola tesa a lambire il cielo dell’eterno,
qualunque sia l’Acqua di Vita effimeramente perseguita o illusoriamente
acquisita, essa ineludibilmente si conclude in terra, dove ognuno a suo
modo rende l’ennesima testimonianza di quanto sia vano rincorrere il
vento, e incide su argilla la propria storia.
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Gilgamesh
Opera lirica in due atti
Libretto e musica di Franco Battiato
Prologo
di Angelo Arioli
Nell'antica città di Uruk, in epoche perdute della memoria, regnò
Gilgamesh: colui che tutto intravide. L'eroe a cui i misteri furono
manifesti. Estraete la tavoletta di lapislazzuli e leggetela, la storia di
quest'uomo che patì sofferenze di ogni genere. Cercò la vita eterna,
raggiunse Utnapishtim 'il Lontano, e la completa saggezza. Per due terzi
divino e per un terzo mortale, come sole possente, invincibile, regnava in
Uruk, città dalle mura ben salde, e soverchiava tiranno i suoi sudditi
contrariando gli dei. E gli dei convennero di dargli un avversario, pari in
forza e bellezza: in terra precipitarono una stilla di firmamento... ed ecco
sorgere Enkidu, figlio del silenzio, saetta di Ninurta, delle umane cose
ignaro. Enkudu, reso umano dall'abbraccio di donna (una sacerdotessa del
tempio di Ishtar), verso Uruk si avvia a sfidare Gilgamesh che ne divina
nel sogno le mosse e gli intenti. L'incontro è scontro d'astri tremendo, e
tremano le mura e sussultano i telai delle porte allo schianto dei corpi
avvinghiati alla lotta. Soggiace infine Enkidu, e Gilgamesh vittorioso
l'abbraccio gli tende, suggello d'eterna amicizia. Terribile prova ora
attende i due amici: nella remota foresta labirinto trapunto di cedri, ove il
viaggio si fa passo di danza, sta Khumbaba potenza del male, terrore di
umani. "Trema la terra e freme ignara della sorte del combattimento... e
buio e luce insieme"
Atto I
Utnapishtim e moglie di Utnapishtim:
Il re di Uruk sfida le forze oscure
della foresta al fianco di Enkidu.
Popolo di Uruk:
Trema la terra e freme ignara
19
della sorte del combattimento e
buio e luce insieme.
Gilgamesh! Enkidu! Khumbaba!
Utnapishtim, moglie di Utnapishtim e popolo di Uruk:
Era felice Gilgamesh in quella vita,
in quel tempo, che a contemplarlo lo si fermava.
Popolo:
Enkidu muore;
chiamate Gilgamesh!
Voce recitante:
Quando apparvero le prime luci dell'alba,
Gilgamesh mandò un grido che si sparse su tutta la terra.
Disperato disse: "Ti farò riposare su un letto
preparato con amorevole cura; i principi
della terra ti baceranno i piedi; e io stesso
trascurerò il mio aspetto e vagherò in aperta
campagna. La tristezza è entrata nel più
profondo del mio essere e, solo adesso, scopro di avere paura della Morte!"
Moglie di Utnapishtim:
Gilgamesh, lascia il tuo corpo immobile,
viaggerai sul suono in cerca di Utnapishtim,
l'uomo immortale.
Siduri:
(la dea che vive nel giardino degli dei in riva al mare) Forse quest'uomo è
un assassino; come osa entrare nel giardino degli dei? (nel frattempo
Gilgamesh si avvicina) Gilgamesh!... sei irriconoscibile. Come sono
smunte le tue gote; come è infelice il tuo cuore!... Esausto e pieno di dolore
il tuo aspetto. Il fato dei mortali che ha raggiunto Enkidu (l'amico amato e
pianto per sei giorni e sette notti), non riesci a capire. La tua meta:
incontrare Utnapishtim (l'unico uomo che ha conquistato l'eternità), è
ardua, difficile. Nessuno da tempo immemorabile è riuscito ad attraversare
'le acque letali', (Pausa) Ti voglio aiutare. Giù c'è Urshanabi 'il barcaiolo di
Utnapishtim'. Che gli altri dei ti proteggano. (mentre Gilgamesh va via e
Siduri con tutto il giardino esce di quinta): Cambiategli la veste e
pulitelo... in queste condizioni non riuscirebbe mai ad entrare nel 'Regno
del Lontano.
Popolo:
Gloria Aeter...
dona eis requiem
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Utnapishtim:
Lascia che ti riveli una cosa ben custodita, quando gli dei in consiglio
decisero il diluvio.
Moglie di Utnapishtim:
C'era Anu, padre loro, Enlil il guerriero, Ninurta, Ennugi e il
lungimirante Ea.
Utnapishtim:
Ea mi disse: costruirai una barca; larghezza e lunghezza saranno in
armonia. Coprila di un tetto come l'Apsu (l'abisso), dividila in sette,
caricala di amici e di parenti, di animali, di artigiani. Due terzi dovranno
emergere dall'acqua...
Popolo:
Alleluja Pater noster
Utnapishtim (voce recitante):
La tempesta era terribile a vedersi. Gli stessi dei, pentiti, ebbero paura di
quel furioso diluvio; e si accucciarono come cani. Per sei giorni e sei notti
soffiò il vento. L'inondazione sommerse la terra. Il settimo giorno il
diluvio cessò. Guardai il tempo. Regnava il silenzio. Mi chinai e piansi.
Donne:
Liberai una colomba, ma ritornò indietro.
Uomini:
Utnapishtim disse: e ancora un corvo.
Donne:
Misi fuori la rondine: non tornò.
Uomini:
Misi fuori la rondine e non tornò.
Popolo:
Gilgamesh! Gilgamesh!
Guardate il nostro re. E' morto o dorme?
21
Atto II
Estate 1240 in Sicilia. Incontro di sette sufi.
Baritono:
Pater
Baritono e mezzosoprano:
noster
Baritono:
qui es in caelis: sanctificètur nomen tuum Pater noster, qui es in caelis:
sanctificètur nomen tuum.
Mezzosoprano:
advèniat regnum tuum; fiat volùntas tua, sicut in caelo et in
Mezzosoprano e baritono:
terra.
Coro:
Panem nostrum substantialem da nobis hòdie.
Mezzosoprano
et dimìtte nobis dèbita nostra, sicut et nos dimìttimus debitòribus nostris;
et ne
Coro:
nos indùcas in tentationem;
Baritono:
sed libera nos amalo.
Tutti:
Amen.
Il maestro:
"A giudicare dall'apparenza, il ramo è l'origine del frutto; ma in realtà, il
ramo è venuto all'esistenza in vista del frutto. Se non ci fossero stati un
desiderio e una speranza per il frutto, come avrebbe potuto il giardiniere
piantare la radice dell'albero? Ecco perchè in realtà dal frutto è nato
l'albero."
22
Rumi
Vi ascolto.
Un uomo:
Durante un mio viaggio alla ricerca del miracoloso, capitai in una zona del
nord Africa, dove esiste il monastero senza porte dalle mura alte come
l'antica Uruk. Per entrarvi, bisogna attendere che qualcuno decida di
calare giù una corda con appesa una cesta; cosa che potrebbe non
accadere. Aspettai invano per due giorni, ma la notte successiva mi
apparve in sogno un essere trasparente, una pura vibrazione di luce.
"Quando avrai trasceso la condizione dell'uomo, mi disse, sarai condotto
in una terra dolcissima che non si può nè immaginare nè rappresentare: la
sua natura è di espandere l'anima nella gioia. E in questo firmamento ciò
che è giovane non diventa vecchio, ciò che è nuovo non diventa antico;
non si corrompe cosa alcuna nè si guasta; nulla muore; nessuna persona
desta si addormenta, poichè il sonno è fatto per il riposo e per scacciare il
dolore... e in questo luogo non ci sono nè sofferenze nè dispiacere." Rumi
Una donna:
"Io fui già un tempo giovane e ragazza ed anche pianta ed uccello e muto
pesce che salta fuori dal mare." Empedocle
A Murcia, dove ho abitato per sette anni, ebbi come maestro Ibn Arabi, a
Lui pace e gloria.
"Il mondo è fatto di sostanze grossolane e di sostanze sottili; E fa da velo
a se stesso, di modo che non può vedere Iddio proprio perchè si vede. Dio
resta sempre sconosciuto, così all'intuizione come alla contemplazione,
poichè l'effimero non ha presa sull'eterno." Ibn Arabi
"Non è possibile avvicinare la divinità sì che abbia accesso ai nostri occhi.
Non è corredata di umana testa sulle membra, nè di piedi, nè di agili
ginocchia, nè di vergogne pelose, ma è Intelletto sacro ed ineffabile, che
coi rapidi pensieri per l'Universo intero si squaderna." Empedocle
Il maestro:
Giusto
Un altro uomo:
Negli ultimi tempi, mi sono dedicato con assiduità all'esercizio che Lei ci
assegnò l'estate scorsa. Ho preparato un pezzo che ho chiamato,
parafrasando il libro di Abul Qasim, "Luci sulla scienza dei suoni e sui
percorsi interni della voce." Ho delimitato la ricerca alla sola zona del
sentimento, sperimentando che il punto che colpisco con una nota
all'interno, risuona esattamente nello stesso punto all'esterno di chi
ascolta.
Uno straniero:
23
Io credo di vedere, di giorno, le microscopiche particelle che compongono
l'aria.
Il maestro:
E la notte?
Coro:
Deo nostro. Vere dignum et iustum est, invisìbilem Deum Patrem
Omnipotèntem, Filiùmque eius unigènitum, Dòminum nostrum Iesum
Christum,
Baritono:
toto cordis ac mentis affèctu, et vocis ministèrio personàre.
Coro:
Qui pro nobis.
Voce:
Exùltet iam angèlica turba caelòrum: exùltent divina mystèria: et pro
tanti Regis victòria, tuba insonet salutàris. Gàudeat et tellus tantis
irradiàta fulgòribus: totìus orbis se sèntiat amisìsse calìginem.
Mezzosoprano, baritono e voce:
Sursum corda. Habemus ad Dominum.
Mezzosoprano:
Laetètur et mater Ecclèsia, tanti lùminis adornàta fulgòribus: et magnis
populòrum vòcibus haec aula resùltet.
Voce:
Quapropter astàntes vos, fratres carissimi, ad tam miram huius sancti
lùminis clarìtàtem,
una mecum, quaeso, Dei omnipotèntis.
Mezzosoprano e baritono:
Misericòrdiam invocàte.
Coro:
Vobìscum et cum spìritu tuo.
Mezzosoprano e baritono:
Haec nox est, in qua primum patres nostros, filios Israel edùctos de
Aegypto.
Coro: Oramus ergo te, Domine, oramus.
24
Voce:
Toto cordis ac mentis affèctu, et vocis ministèrio personàre.
Coro:
Qui pro nobis.
Tutti:
Exùltet ecc... e Haec nox ecc...
FINE
25
Gabriele Mandel su Barzani
Quando il Buddha disse ai suoi allievi: "Spiegatemi lo spirito della nostra
fede" ognuno si sforzò di dare una risposta adeguata con le parole più
ricercate e frasi tortuose e profonde. Ananda, in silenzio, gli mostrò un
fiore. Come adeguarsi, in pittura, a questo gesto sublime? Come esprimere
Dio se non con il grido del cuore, di là da ogni parola azione immagine
dettate dalla mente? Così in pittura la rarefazione dell'arte porta forse
molto lontani dai pesantumi barocchi ma molto vicini alle emozioni pure
dell'anima. Questa è la pittura di Battiato. Certo: occorrerebbe dire
dell'altro, perché la tradizione pretende presentazioni di due pagine
almeno; e così è facile correre con la memoria ai "primitivi senesi", questi
pittori che avevano e arte e fede sulla punta dei pennelli vibranti, liberi da
finzioni orpelli convenzioni preconcetti e valori transitori allora come
oggi di un'umanità prigioniera del consumismo.
Anche in pittura Battiato ci lancia il messaggio – messaggio dovuto al suo
amore per l'umanità tutt'intera senza discriminanti barriere; alla sua
tolleranza che gli permette d'abbracciare e di fare suo il buono d'ogni
messaggio umano arricchimento ed acquetamento dell'anima; empatia,
pietas, valori dell'anima capiti vissuti e amati... e alla fine tradotti in
pittura.
Così la pittura di Battiato ha una "sua" religione: il monoteismo dello
spirito contro il monolitismo del Mercato che ha posto sugli altari del dio
Oro nuovi santi: Corruzione, Violenza, Alienazione, Delinquenza, Odio,
Malvagità, Interesse...
E' l'accostamento – o la rivisitazione in chiave contemporanea – ai
Primitivi senesi, con una doppia valenza: da un lato ciò colloca la sua
pittura nella casella opportuna (e siamo oramai abituati a incasellare per
capire, prigionieri della nostra stessa idiozia generalizzante); e dall'altro ci
permette di capirne più facilmente l'essenza. "Come quelli e bravo!", e
siamo acquietati nei dubbi d'essere condotti ad amare apprezzare
prediligere questa pittura "senza saperne il perché".
Poi c'è l'altro discorso, per gli addetti ai lavori: Battiato creativo sensibile
cantando l'anima è grande nella musica e nella poesia; con la pittura porta
a completamento il ciclo poiché la piena del fiume gonfio ribollente della
sua lava etnèa prorompe, sconvolge e investe... ma non s'esaurisce del
tutto nella musica e nella poesia: restano bagliori, sprazzi, angoli in cui la
lava giunge uscendo dal suo grande fiume... e allora dipinge.
26
Sgalambro su Barzani
Il senso della bellezza torna a occupare un posto nella nostra vita. La
bellezza chiama. Il nichilismo artistico in cui siamo vissuti è stato
soprattutto un nichilismo pittorico. Per ciò che offriva agli occhi abbiamo
avuto per lo più noia e indifferenza. "Tutti i quadri sono belli": 'et omnia
bona sunt'. Come un dio stanco il testimone dell'arte visiva sbadigliava
trovando tutto buono. Cercavamo a volte il bello ma trovavamo solo
"abbellimento". In realtà la visività oggi è in pericolo. Tutto è indirizzato
agli occhi. L'uomo oculare – l'uomo d'oggi, cioè – costruisce le sue cose in
funzione della sua vista e si appaga della loro presenza . Ma che forse la
vista è, come egli crede, soltanto ciò che "vede" e ciò che vede soltanto
"presenza"? "La vista ha una funzione profetica. Più che per se stessa ci
interessa per l'indicazione di quanto può avvenire... La vista è un mezzo
per presentare psichicamente ciò che in realtà è assente, e poiché l'essenza
della cosa è ciò che esiste anche in nostra assenza, la cosa viene
spontaneamente concepita in termini visivi" (Santayana, The Sense of
Beauty). Qui Santayana distribuisce saggiamente le forze dell'azione
visiva. Chi vede solo ciò che ha davanti agli occhi in realtà non vede. C'è
bisogno di esser platonici? La forza di un quadro è quella di restituire
un'assenza. Ma vorrei andare un po' più in là. La presenza pittorica
richiami pure l'assenza (che è infine la bellezza) o no. Ma chi vuole vedere
la bellezza cosparsa sul quadro come magica polvere soffrirà le pene
dell'inferno. Perché il suo desiderio non sarà appagato. La bellezza è un
invito che il quadro le rivolge pressante: può essergli rifiutato. Le mani
calde della bellezza hanno accarezzato il quadro di questo pittore. Eppure
tutto è "semplice". Il ritmo della simmetria induce all'equilibro l'occhio
che guarda. I nostri sensi logorati riacquistano vita. S'intende, non è
offerto molto alla loro cupidigia. Perché ci si possa ubriacare, manca il
"pittoresco". Pittura senza pittoresco: non ne vedevamo da molto. C'è
invece, ne siamo testimoni, quello che il nobile Santayana (questo quadro
ci ha rimandato a lui e lui a questo quadro) chiama:"la capacità
permanente di piacere". Battiato ci vuole infine convincere che riprodurre
l'imperfezione – il destino dei moderni – è da anime ignobili. Forse è vero.
27
Manlio Sgalambro
Sodalizio
E’ vero, due perfetti amici ormai tacciono. Non hanno più nulla da dirsi.
Ma nel senso superiore. Godono delle loro sembianze stando accanto e
delle loro anime stando lontano. Il mortificante chiacchiericcio non
prevale sulle ragioni profonde per cui l’esistenza reciproca è assaporata
come aria pura di montagna. Eppure si deve parlare ancora, e sfidare con
turbanti parole l’atroce sordità del mondo. Ma in ultimo nel momento
migliore della loro amicizia sono solo loro due. Tra essi non si introduce
che l’incanto della Forma che dànno a emozioni comuni.
Franco Battiato
Uno sguardo dal ponte dello stretto di Messina
E’ certo, pensavo, ritornando a casa dopo anni di studi musicali, che molti
artisti occidentali hanno proprio l’ossessione dello sviluppo delle forme,
col fatto non trascurabile che essendo queste prive di contenuto reale,
invecchiano con e come la moda che le ha generate. Quanti sarebbero in
grado di riconoscere una bella donna dall’indiscutibile talento, che si
presentasse sotto mentite spoglie? Quanti sono capaci di ascoltare in
relazione diretta e non “a programma”? E quanti sentono il dispiacere che
certe aggregazioni di suoni producono su certi organi?
La musica dodecafonica è stata per la Musica quello che oggi i filmini
pornografici sono per il Sesso. E non ho certo le condizioni necessarie per
scagliare pietre, ne il benché minimo atteggiamento moralistico, ma che
decadenza , che vecchiume, che lascivia e corruzione! E pensare che molti
credono in chissà quali conquiste di libertà. Da una qualche parte di me
sorse spontanea una domanda: e il puntinismo dissociativo? E lo
strutturalismo integrale? Altrettanto spontanea la risposta “patatì patatà”
(un piccolo omaggio a Tommaso Landolfi). Intendiamoci, nessuno mette
in dubbio le qualità tecniche dalle quali muovono la loro invenzione
almeno alcuni compositori con eccellenti risultati, ma questo cosa c’entra?
Molte sono purtroppo le invenzioni assolutamente ridicole in partenza
che diventano irresistibilmente comiche quando arrivano a essere definite
“avanguardia”.
Egregio signore, mi creda, dissi al mio occasionale compagno di viaggio:
avanguardia non è uno spazzolino da denti sbattuto sulle corde di un
violino, ne un glissando di ottoni, ne una provocazione o una ideologia, ne
tantomeno la scoperta di armonici artificiali, ne la cronaca sublime delle
28
schizofrenie del nostro tempo o ancor peggio una rarefatta e raffinata
atmosfera cangiante per timbri interstellari, lunari o come si vuole. Non
potrebbe essere invece un profondo stato dell’essere? Un percepire e
riconoscere il disegno delle leggi che governano la materia e la sua
evoluzione? Sa che ho avuto la fortuna di incontrare eremiti che hanno
scoperto cose a cui la scienza non arriverà mai?!
San Paolo è dalla mia parte (prima lettera ai Corinti – distinzione tra
sapienza e scienza “alla prima appartiene la conoscenza intellettuale delle cose
eterne, alla seconda la conoscenza razionale delle cose temporali”)
E Ettore Majorana, e la lista sarebbe lunga. Chi l’ha detto che ci vuole
fede per credere? E se bastasse percepire? Sentire? Se non vedere?
Quando, per esempio, gioie inesprimibili, come adesso che mi sto
avvicinando alla mia terra, mi invadono, quando tutte le cellule del mio
corpo danzano con i ritmi di una stagione, come posso trovare posto e
tempo per una disquisizione sull’esistenza di una vita dopo la morte?
Sembrerebbe un fuori tema, ma non lo è.
E quante chiacchiere negli ultimi tempi anche da parte di scrittori
straordinari su, in, per, contro Dio. Non sforziamoci amici, non ci può
sentire e forse i nostri reclami stanno andando a vuoto per l’inesistenza di
questo canale di comunicazione nella natura primigenia. E se provassimo
a cambiare frequenza, che non si sa mai o almeno ad abbassare il tiro?
“Nun t’allargà” diceva giustamente un mio amico cantautore romano al
tastierista che gli armonizzava le canzoni con tipico modo jazzistico.
Un brusio e una eccitazione crescente nei viaggiatori mi distolse
piacevolmente dai miei pensieri e dai miei discorsi. Eravamo gia sull’isola.
Come ho amato ed amo i rituali e le tradizioni di questo popolo e come sto
combattendo contro quella specie di malattia ereditaria che si trasmette
anche via etere, per cui ti ritrovi ad avere un gusto, un idea, un’immagine
(molte volte sbagliati), di cose, fatti e persone che non hai mai conosciuto.
Franco Battiato
La primordiale Trasparenza
L’eterna continuità del divenire dei buddhistiè, in fondo, la teoria
elettromagnetica della materia. La natura della realtà fisica non è materia
statica, ma energia vibrazionale, che radia onde. Avete presenti i disegni
di Henri Michaux? Per i buddhisti, l’esistenza è trasformazione. Tutte le
cose sono soggette cambiamenti.
“Sappi che qualunque cosa esiste, nasce da cause condizioni, ed è
impermanente sotto ogni aspetto”. Buddhisti Posteriori, però, sostengono
che esiste un elemento permanente, soggiacente a tutti i cambiamenti.
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Ogni cosa ha un esistenza limitata. Qualcosa cessa di esistere, e qualcosa
di nuovo viene all’esistenza.
Il Buddhismo è un “Via” verso la liberazione, verso la Primordiale
Trasparenza. Attraverso l’anamnesi (il ricordo del Sé), si crea una nuova
personalità, con una coscienza meno passiva della precedente e meno
sottoposta (rispetto alle percezioni sensibili) alle reazioni istintive, dovute
alla propria costituzione karmica. Nel progresso verso la liberazione,
questo è solo il primo stadio, quello del convertito, destinato a rinascere
almeno altre sette volte. Il secondo è quello di “colui che ritorna ancora
una volta”. Il terzo è quello del “non ritornante”. L’ultimo stadio è quello
di colui che ha raggiunto la “degnità”, e attende solo la morte per entrare
nell’estinzione assoluta:
“Esiste il non-nato, il non-originato, il non-creato, il non-composto; se
non ci fosse, o monaci, non ci sarebbe scampo dal mondo del nato,
dell’originato, del creato e del composto” (Udana, VIII, 3).
Franco Battiato
Delirio di una proteina
Non mai, non mai l’italica Poèsi vantò lusinghe di più dolci note,
né a più squisito lavorio sospesi furo i ritmi e le rime.
ENRICO PANZACCHI
L’antica esegesi faticò non poco per trovare un espediente che desse al
Salmo cittadinanza poetica. Si ritenevano i Salmi solo un innalzamento
stilistico del linguaggio prosastico (cose da pazzi!). Si escogitò quindi la
“legge del parallelismo dei membri”, che li fece entrare per diritto tecnico
nella terra dell’Alloro. Oggi in zone un po’ più basse si ripropone per
penna dei nipotini di classificatori coatti lo stesso dilemma. Può il testo di
una canzone essere considerato poesia? Io dico invece: come si può porre
una simile domanda? Basta scrivere o pubblicare libri di poesie, vincere
premi letterari eccetera, per essere poeta? Solo menti burocratiche e
livorose possono ignorare, misconoscere e sottovalutare gli strepitosi testi
musicali degli ultimi quarant’anni.
Nella canzone, miracolosa espressione del nostro tempo, parole e musica
sono un corpo solo, stessa materia, non scindibile, ma non per questo
classificabile come cosa “altra” dalla poesia. Certi autori di canzoni sono
come dei piccoli Abramo, scopritori di codici di segrete lingue. L’oscura
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consapevolezza della petites perceptions. Quell’ignoto che precede di poco
una delle sue manifestazioni.
La canzonetta la frequentò Monteverdi, per esempio. Nel XIII secolo
esplose la sensualità della canzone arabo-andalusa. Al-Isfahani (897-967),
nel suo Kitab al-Aghani (Libro delle canzoni), raccolse in circa venti
volumi tutte le canzoni dal periodo preislamico al suo. La canzone era
cantata nei mercati, per le strade, e anche la notte come preghiera mistica.
Al di la della bellezza o meno di un testo musicato, direi, ci sta un mare di
complessità quasi insondabile: il carisma, il timbro, il momento astrale
dell’interprete… La prima canzone scritta fu Jahveh.
Interviste
E' un po' nostalgico?
«Bisogna vedere che cosa s'intende per nostalgia. Io vivo bene in questo
tempo, ma nel ritrovare cose perdute che avevano valenza ed eccellenza
mi sono sentito molto a mio agio. Per esempio, oggi è sfumato il piacere di
vivere e anche un certo modello femminile che c'era negli anni 50».
In Sicilia?
«Non lo restringerei a un luogo preciso. Venivamo da una guerra
tremenda, c' era molta solidarietà e non c'era delinquenza. Le porte delle
case, per esempio, erano sempre aperte».
In questi anni ha scoperto una forte amicizia e comunanza artistica con Manlio
Sgalambro che con lei ha scritto la sceneggiatura del film.
«E' importante poter discutere, lavorare con persone affini. E' una fortuna,
una grazia. C'è chi lavora e produce bene con persone con cui litiga. Io
lavoro bene solo con persone con cui non ho contrasti. Il contrasto mi
annoia, è una perdita di tempo e l'ho allontanato dalla mia vita». La
musica resta importante nella sua vita? «Sicuramente il mio legame è più
forte con la musica del passato per la sua eccellenza. Penso a un quartetto
di Beethoven, a Mendelssohn. Preferisco una musica che mi aiuta a
concentrarmi, a leggere. I suoni contemporanei esprimono altro».
Quant'è forte per lei il legame tra arte e spiritualità?
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Per me è fondamentale, ogni volta che mi metto a scrivere qualcosa che
non sia banale, sento il bisogno di inserirvi elementi metafisici.
Ha scelto di narrare la narrazione, ma dice di rifiutare la consequenzialità. Non
c'è un po' di contraddizione in questo?
La contraddizione è necessaria. L'esercizio del dubbio dovrebbe essere alla
base dell'esperienza umana.
Nel film descrive il mondo musicale come un mondo cinico, dove si ragiona solo
in termini di guadagno. Lei lo vive così?
Mi sono soltanto divertito a descrivere l'errode del discografico che dice
"non funziona, non emoziona" a proposito di una canzone che avrà un
enorme successo. Il bello nella musica è che la riuscita o meno di un pezzo
è imprevedibile perchè dipende dal capriccio primigenio, insondabile del
pubblico.
Ha mai pensato di fare un film dove la musica sia completamente assente?
Sarebbe un progetto interessantissimo, ci ho pensato spesso e mi
piacerebbe molto perchè si potrebbero approfondire le sperimentazioni sul
sonoro. Secondo me la musica o è presente in modo preponderane o deve
essere completamente assente, il commento da serie televisiva non mi
interessa. Servirebbe il film giusto.
Nel suo film il protagonista compie un viaggio verso la spiritualità che si
concre6tizza come un viaggio reale dalla Sicilia a Milano. Oggi è ancora
possibile compiere viaggi così?
Quando Corrado torna in Sicilia con il contratto della casa editrice il
Pigmalione commenta dicendo "che tempi". E' atterrito dalla possibilità di
avere successo immediato, senza fatica, senza studio. Questo processo è
cominciato proprio negli anni '60.
Cos'è per lei il sogno?
Il film inizia con una frase che sembra una dichiarazione d'intenti:
"Nascita e morte sono gli unici momenti reali, tutto il resto è sogno" La
frase è una terribile frase di Sgalambro. Terribile nel senso che non è
molto consolatoria. Il sogno di per sé è un meccanismo molto complesso,
ma va bene all'interno del sonno. Nella vita si dovrebbe cercare di non
sognare ma di vedersi per ciò che si è.
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Campi magnetici
«La musica è in prima esecuzione. Solo il coreografo, Paco Decina, l'ha
finora ascoltata - è ovvio - e ci sta lavorando sopra. Per quanto si tratti di
musica senza molte inclinazioni al ritmo e alla corporeità, Decina non ha
fatto una piega. Significa che è il coreografo giusto: appartiene già alla
nuova generazione e sa bene che si tratta, ormai, di operare una
trasposizione del segno, non di creare un collegamento fra musica e
gesto».
Musica astratta, insomma.
«Fondamentalmente sì. Un finto descrittivismo, un finto
impressionismo...I titoli della suite, per esempio, non contemplano il
sentimento, e alcuni si rifanno alla fisica atomica».
Suite in quanti movimenti?
«Sette, senza contare introduzione e Finale, che contengono due sorprese
che non posso ovviamente rivelare: sono due appendici che alleviano le
pene del percorso».
Qualche esempio?
«Uno dei movimenti si intitola Fulmini globulari, e su un background di
batteria elettronica, nello spazio di una battuta ho concentrato centinaia di
note, anche di un centoventottesimo, così che l'effetto è di pura materia.
Un altro si intitola Suoni primordiali, e sono onde assolutamente senza
vibrazioni. Suoni fissi e puri su cui entrano altri suoni puri. E' una musica
che tende a svincolarsi dal tempo, ad andare oltre».
Nessuna indulgenza al ritmo?
«C'è sì, qualche parte ritmica, ma un ritmo interno, che non ha alcuna
intenzione di far muovere il corpo. In un brano che s'intitola Trance, c'è
del ritmo, ma è quasi un abbaglio. Come un'ossessione. In Campi
magnetici c'è molta materia distruttiva».
Tutta musica di sintesi? Solo elettronica?
«Una parte sì, ma dal vivo ci saranno due pianoforti, una tromba, tastiere,
un sopranista e due voci, una di Sgalambro e una mia».
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Com’è nata questa collaborazione così particolare, l'idea del suo ultimo album?
BATTIATO: Non so se è particolare. Diciamo che è nata su un altro
versante. Io dovevo comporre un'opera sulla distruzione di Troia quando
lessi il suo libro, «Dialogo teologico» per l'esattezza, fui contagiato da
quella scrittura - io sono un musicista quindi amo le sonorità, al di là del
contenuto - e insistetti perché lui scrivesse il libretto. Si prese un pò di
tempo prima di accettare perché era, e notate l'imperfetto, un filosofo
strict, troppo strict, e infine mi disse che poteva provare. Nel frattempo
arrivò la commissione della regione siciliana per un'opera in occasione
dell'ottavo centenario della nascita di Federico Il di Svevia alla quale
demmo priorità perché aveva una scadenza immediata. Nel frattempo la
collaborazione ha avuto una specie di perfezionamento progettuale ed è
nato questo disco di canzoni. Ne sta seguendo un altro, con calma.
Il progetto continua, dunque...
BATTIATO: Sicuramente. Per me è stata una liberazione perché ritorno
così al mio ruolo primigenio. Ogni volta che Sgalambro mi manda un fax i
sensi sono accesi.
Che diffìcoltà ci sono state a musicare i testi di Sgalambro?
BATTIATO: Non ci possono essere delle difficoltà. E’ un fatto di
sonorità, di ritmo. La difficoltà si ha quando devi mettere a posto conti
che non tornano.
Volevamo chiedere a Sgalambro come mai avesse deciso di scrivere testi per delle
canzoni, ma la risposta forse l'abbiamo avuta: è stata una richiesta.
SGALAMBRO: Questa è uno questio facti, poi vi è un'altra questione. Io
credo che la riflessione, il pensare, in ispecie il filosofore cerchino in certi
periodi, in certi snodi della loro esistenza, nuove forme. Questo è un
momento, a mio avviso, in cui il fallimento delle forme abituali dei
filosofare (il fatto che la filosofia in qualche modo ha un'eternità di fatto,
un'esistenza acuta, esiste) spinge chi pratica la filosofia a sentire
l'occorrenza di esplorare vie diverse. Naturalmente io non pensavo per
nulla di esplorare vie date da canzoni...
Il bilancio ci sembra positivo.
SGALAMBRO: Credo di sì dal mio punto di vista, oltre che dal punto di
vista comune.
Nel suo libro «Del pensare breve» lei dice che la coniugazione tra la filosofia e la
narrazione avviene solamente con l'epos. Poi afferma che la filosofia non può più
narrare e la letteratura non sa più scrivere. Voi vi trovate però a collaborare ad
un'opera che rientra nella forma narrativa dell'epos.
SGALAMBRO: Il fatto narrativo della filosofia è detto non in senso
trionfale. E’ piuttosto spesso il rimpianto che essa non possa narrare
daccapo. A mio avviso l'odoperabilità di forme diverse resta sempre, però
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bisogna che esse siano in effetti adoperate, che trovino l'esecutore, un
uomo in cui tutte queste cose si accolgono e con grazia diventino qualche
cosa di semplice. Quindi è chiaro «narrare di» è il «sistema». Cos'è
narrare in filosofia? Il vecchio sistema, il sistema della filosofia idealistica
tedesca, quella narrazione che, si è detto un po' da tante parti, non può
essere più possibile, In realtà questa narrazione può avvenire anche
attraverso diverse altre maniere. Direi che il piccolo testo di canzoni può
essere una maniera per aggirare e dare oggi, in un'epoca dove tutto è
rimpicciolito, queste piccole schegge di un sistema. Infine, la canzone
porta al problema dell'oralità, della vocalità delle cose, è esprimersi
mediante la voce, il canto, porta insomma a problemi non indifferenti.
Tanto per giocare con il titolo di un libro di Sgalambro: la società dimostra
molta indifferenza in materia di poesia. Dall'Ottocento in poi il ruolo del poeta è
andato scadendo, perdendo presa sulla società. La poesia sta traslocando nella
canzone?
BATTIATO: Sono assolutamente d'accordo. La società va sempre per
schemi, difficilmente accetta l'idea di trasformazione delle cose. Si va a
cercare la poesia in un campo dove non esiste più, dove ormai è solamente
imitazione di modelli arcaici e ben riusciti. E’ quello che è successo anche
alla musica contemporanea. E’ la cecità attuale che non può far vedere che
la musica leggera è la continuazione di quella classica perché è
impensabile, per la gente così detta colta, una simile caduta, mentre in
realtà non sa accorgersi dell'esistenza di nuovi linguaggi, nuovi modelli di
penetrazione. Ci sono dei prodotti apparentemente di consumo
(tecnodance) che hanno una intrinseca verità, che però non è riconosciuta
e non è neanche cosciente in chi la produce.
Le vostre frequentazioni con la poesia ?
BATTIATO: Sgalambro è un appassionato. Voleva addirittura dedicare
una giornata alla poesia in questa «estate catanese» di cui ci siamo
occupati, ma poiché il programma consisteva in soli cinque giorni ha
dovuto limitarsi.
Quali autori aveva in mente?
SGALAMBRO: Mi piace molto la Volduga. Mi piace l'impresa che lei
conduce. Però non è questo il punto, è inutile fare dei nomi.
Ritornando alla canzone, sembra di percepire nell'ultimo album che i testi di
Sgalambro seguano un modello narrativo molto simile a quello che appartiene a
Battiato. Si potrebbe parlare di una destrutturazione logica che procede
attraverso metafore...
BATTIATO: Attenzione, Sgalambro odia il simbolismo.
Voleva essere una provocazione: diciamo che questo procedere per immagini
ricorda la tecnica dello «stop gurdjeffiano».
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BATTIATO: E’ curioso, una ragazza che mi ha chiamato ieri ha letto il
suo ultimo libro e mi diceva che sentiva delle analogie tra Sgalambro e
Gurdieff, ma lui non sopporta tutta quell'aria. Secondo me Sgalambro ha
raggiunto un alto livello di penetrazione. E’ inevitabile che il suo modello
coincida con quello di altri, anche se poi li differenziano le conclusioni.
Un mistico conosce la gente, penetra, Sgalambro vede le stesse cose, ma
trae conclusioni apparentemente opposte.
SGALAMBRO: Io sono molto legato alla tradizione europea e occidentale
della filosofia. Per me non c'è salvezza per la filosofia al di fuori di questa
sua tradizione, e ogni suo debordare non è soltanto tradire, se così si può
dire, la sua intima essenza, ma negarsi. Dentro la tradizione si possono
fare anche testi per canzoni, ma fuori di essa non si può fare nulla. Questa
tradizione contiene non a caso i poemi di un Parmenide, di un Empedocie.
Oggi il pensiero occidentale si percorre in una specie di viavai continuo.
Non si arriva ad un punto e si dice «Ecco, da qui», ma si va per continui
ritorni, e come se qualcuno facesse qualcosa in cui è implicato questo
andare e poi tornare, e poi riandare da capo magari tracciando vie di altro
tipo. Questa soluzione mi convince, ma fuori dalla mia tradizione non
metto piede.
Allora, rimanendo nell'ambito della tradizione occidentale, esiste un'etica della
scrittura?
SGALAMBRO: La scrittura è forse l'attuale situazione in cui siamo.
Attraverso la scrittura possiamo raggiungere il punto che oggi ci può
essere dato come possibile, e cioè la materialità del pensare, Pensare si ha
appunto nella scrittura. la scrittura è una costruzione ben visibile, è
qualcosa di ponderabile. Cos'è la «Critica della ragion pura» di Kant? E’
un libro, cioè un sistema di scrittura, scrittura attraversata certamente da
molteplici sensi
BATTIATO: Scusi se la interrompo. E’ un libro, ma lei non crede nella
deformazione di certi pensieri, di alcune idee che si sviluppano, vanno a
sedere nella gente anche senza che lo sappiano...
SGALAMBRO: Sì, senza dubbio, però il momento concreto in cui la
scrittura, il pensare occidentale trova la sua differenza dal pensare
orientale consiste proprio in questo: che trova la sua etica nella scrittura.
Lì è il suo bene, il suo male, il suo metro di giudizio, la sua misura. Ma è
detto, ripeto, non in senso trionfale. La scrittura è il nostro limite, il limite
però che consente al pensare di poter essere qualcosa, altrimenti rischia di
rimanere un rimuginìo, un fatto psicologico.
E la dimensione del concerto ? Può essere un luogo concreto di incontro fra
persone, fra filosofia espressa nel testo di una canzone e pensiero espresso in una
composizione musicale; fra l'altro in «Del pensare breve» lei dice «pensare
divide»: queste due forme di pensiero - la scrittura e la musica – forse collidono
nel luogo, nell'evento del concerto.
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SGALAMBRO: lei ha ragione. Una lezione di filosofia dell'Università
non riesce a realizzare il minimo dei suoi assunti, cioè quello informativo.
Non riesce poi a realizzare una situazione filosofica, cioè una situazione
d'ascolto, una situazione di dialogo. Ecco, lei ha ragione in questo: una
situazione di incontro in cui chi proviene dalla filosofia si incontra con chi
proviene dalla musica ed entrambi camminano quel momento, cioè il
concerto, può avere il senso di un dialogo. Tra una lezione di filosofia
fatto da una cattedra e una canzone cantato da Battiato io preferisco
quest'ultimo.
La canzone è più efficace.
SGALAMBRO: Non si tratto solo di efficacia, non è solo un fatto
pragmatico. Credo sia anche un fatto intrinseco, vero.
Probabilmente il pensiero si svolge abbondantemente al di fuori delle aule
universitarie, e quindi anche un concerto diventa un luogo dove è più facile che i
pensieri siano a confronto. Non dimentichiamo che nell'efficacia della
comunicazione contano entrambi i termini, quindi spesso c'è più pensiero anche
dalla parte del pubblico di un concerto che non dentro un'aula universitaria.
SGALAMBRO: Io parlo di un'aula universitaria perché usualmente la
filosofia, ahimè, si svolge lì. Ciò che chiamiamo filosofia è legato a un
luogo, ma filosofia la si può insegnare da un lettino d'ospedale, da un bar,
magari con le spalle appoggiate a un angolo. Ora il luogo occidentale
della filosofia, il suo destino amaro o no (non importa qui dirlo), è appunto
l'accademia.
BATTIATO: Giusto, ma io non me la sento proprio di perdere una
lezione eterna e determinante datami magari da un fattorino mentre mi
porta i bagagli.
Pensando ai suoi interessi per il sufismo, Rumi ad esempio: quanto un concerto di
questo tipo, concepito in questo modo si avvicina a quello che è il «Sama» per i
sufi? Forse è un po' azzardato...
BATTIATO: Non è per niente azzardato, anzi direi che il naturale
ambiente del rito è già questo: la forza della canzone. Poi è chiaro,
bisogna fare delle differenze naturali: c'è la musica di intrattenimento, c'è
il piano-bar, ogni cosa ha una dose. Ci sono certi concerti che sono molto
vicini a riti iniziatici, in cui proprio il tutto assume un aspetto inquietante
e impenetrabile, altri in cui l'attenzione è tale che la parola fa più che
comunicare: esprime.
Allora diventa curioso che questa forma di pensiero, che forse è più della
tradizione orientale, entri nelle nostre sale da concerto attraverso poi dei testi
scritti da chi si dichiara invece della tradizione occidentale.
BATTIATO: E’ un problema teorico, non pratico. Perché Sgolambro può
dire quello che vuole: pur avendo una sua posizione netta e operando una
divisione manichea con tutto quell'aria, andando a rileggere alcune cose
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che lui ha scritto, anche per delle canzoni, si trova lo stesso genere di
profondità. Mi viene in mente una canzone, «Fornicazione» il cui testo
che mi ha pilotato a penetrare in un campo musicale in qualche maniera
inconsueto. Quel testo descrive ambienti di una profondità misteriosa che
già nell'epoca di Rumi esistevano in maniera così mistica e che la suo
poesia descriveva. Anche se Sgalambro e Rumi sono due mondi diversi.
Potremmo dire che il mondo è sempre stato molto complesso e quindi per
descrivere, per affrontare questa complessità una ricchezza di strumenti è solo
buona; quindi non occorre tanto scegliere fra tradizioni differenti quanto
riuscire a farle convivere assieme.
BATTIATO: Non solo convivere, ma anche farle reagire.
Restringendo questo discorso al campo dell'opera, da «Genesi» a «Gilgamesh»
infine a quest'ultima opera: il concerto, la possibilità di comunicazione può
avvenire solamente attraverso il mito perché necessario come ripresa di un
archetipo collettivo?
BATTIATO: Da quando collaboro col nostro professore è cambiato una
cosa determinante nel mio lavoro. Quando in passato ho preso, come lei
definisce, un archetipo, un eroe d'altri tempi, l'ho fatto perché avevo
bisogno di utilizzare una drammaturgia che mi servisse per descrivere in
un certo modo lo scopritore di mondi ultraterreni, quindi di utilizzare una
meccanica classica, sempre uguale, sia per «Genesi» che per «Gilgamesh»:
la meccanica del viaggio. Con l'arrivo dei libretto di Sgalambro, parlo dei
«Cavaliere dell'intelletto», non ne ho avuto più bisogno perché il libretto
partiva con questa straordinaria teoria della Sicilia, di una bellezza
spudorata. Mi accorsi che come compositore dovevo semplicemente
capire quali erano le cose da musicare. Negli altri percorsi la storia era
una storia parateatrale, una specie di sceneggiata dietro le quinte. Ad
esempio in «Genesi» ho utilizzato per il testo diverse lingue come il
sanscrito e il persiano proprio perché non me la sentivo di raccontare in
italiano, avevo come il ribrezzo verso il melodramma tradizionale con
tutta la sua retoriche, non sono più tempi, viviamo un epoca velocissima,
abbiamo bisogno di sintesi.
Con Sgalambro abbiamo avuto il miracolo della comunicazione. Il suo
testo l'ho lasciato come teatro puro e sono intervenuto con la musica solo
nei momenti in cui poteva alleviare le pene della parola. Quella parola
pura mi fece venire in mente che in effetti stavamo entrando in un nuovo
genere di proposta teatrale, e quando lbsabin dice a Federico: «Dio è tutto
Federico, unirsi a lui è il fine» sentivi proprio la platea, era una cosa
miracolosa,- allora lì individui, quando la parola è fatta con arte e contiene
concetti alti, che la musica può solo disturbare.
L'opera ha un bilanciamento bellissimo tra le parti musicali che alleviano
la parola e l'aissoluto rigore di questa parola.
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Pensavamo alla frase «mi ispirano paesaggi senza alcuna idea di movimento»
da «Moto browniano». Il paesaggio nel suo lavoro e nel suo pensiero ha uno
svolgimento, una sua riflessione?
SGALAMBRO: Quando uno scrive non è sempre se stesso; se adopero
una chiave nella porta adopero me stesso? Attraverso me stesso adopero
una cosa: la chiave. Moto browniano: supponiamo che queste due parole
unite assieme formino un corpo oggettivo. E’ qualcosa che va descritto.
Ma descritto è poco: che va sciolta in quelle che sono le sue componenti.
Eppure, in ciò io non faccio un'operazione dove sono solo io: l'io è subìto
dalla cosa, che mi sopporta. In questa sopportazione che l'oggetto del
nostro scrivere, del nostro poetare, musicare, pensare, ha verso di noi, in
questa sopportazione e nella sua consapevolezza c'è forse un diverso
rapporto, che in qualche modo fa sì che la cosa non venga ad essere
assorbita in me. Sono io, ma fino ad un certo punto: sono una sua pedina,
se vogliamo, e nemmeno accettata: sopportata.
Nei discorsi che facevamo attorno al paesaggio sostenevamo che il soggetto
diventava un luogo, non era più il centro della scrittura ma uno dei luoghi, o
meglio una mappa dei luoghi. Ci potremmo ricollegare a tante cose che Battiato
ha scritto, canzoni in cui la geografia viene prelevata in una specie di cut-up e
poi rimontata in una atmosfera che dà l'immagine del tutto; è una forma questa
di archetipo moderno, di mito collettivo attraverso il quale si può comunicare a
tutti.
BATTIATO: Mi piacerebbe, ma vorrei rispondere a Sgalambro
dicendogli che se un contenitore è di colore nero non può dare l'azzurro
all’acqua. La cosa ti può possedere, ma non è importante quanto il fatto
che solo l'occhio attento di un determinato osservatore può posarsi su
certe cose.
SGALAMBRO: Supponiamo che ci sia un cammino, un iter. C'è un
momento in questo cammino in cui - parlo di quello che conosco un pò
meglio, cioè il mio mestiere, che poi se togli nel filosofore il lato dei
mestiere, si toglie la zavorra, e un filosofare che non avesse la zavorra, la
gravezza materiale, se ne andrebbe chissà dove - un momento in cui chi fa
questo mestiere è un artigiano di cose. Un artigianato essenziale, e in
questo momento uno può scrivere o può parlare o pensare, può descrivere
questa cosa come se non lo riguardasse. Ma questi giochetti sono
necessari come alla musica di Battiato sono necessari certi giochetti
perché essa si componga, si formi con una grana di cose. Allo stesso modo
nel pensare c'è questa granulosità ed è il momento della cosa; ed è appunto
il momento della cosa che non è una manifestazione mia, un me che si
oblia.
Per fare circolare una parola che lei ha usato: l'artgianato genera grazia.
SGALAMBRO: Perché no.
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D. Dalla forma aforistica de "La morte del Sole" al "Dialogo sul
comunismo". E' indifferente la scelta di un nuovo genere?
R. Via via che si scrive, lei sa, si cerca di incardinare ciò che si pensa, o le
proprie emozioni, in un certo tipo di scrittura, o, meglio, in una certa
organizzazione di scrittura, organizzazione in questo caso dialogica. Io poi
ne ho scritti due di dialoghi, perché pubblicai un "Dialogo teologico"
qualche anno fa con l' Adelphi, e dicevo che erano dei falsi dialoghi. In
realtà "Augustinus cum Augustinum", come dice Agostino da qualche
parte, cioé era Agostino che parlava con Agostino. E quindi in sostanza
cho il sospetto che i dialoghi siano in realtà falsi dialoghi. Ma in ogni caso,
lei dice perché il dialogo: perché appunto ti permette di stabilire questa
specie di sfalsatura fra te che dici e un altro te, che indubbiamente c'è ormai è pacifico per tutti che i "me" in ciascuno di noi pullulano -, che in
qualche modo fa da cassa di risonanza o riprende ciò che dici. Quindi la
parola dialogo va presa in senso "losco" direi, non in senso diretto, cioé va
presa, bassamente, per dir così , per celare, o manifestare, o celare e
manifestare, un certo tipo di operazione, un certo tipo di rete, con cui
agganciare. Perché , infine, se noi scriviamo, scriviamo sì per ordinare, per
dar peso, gravezza, materia alle idee che altrimenti fluttuerebbero, anzi
forse nemmeno, perché sarebbero solo una pasticciatissima nebulosa, ma
anche per agganciare il lettore, e questa volta la forma scelta è stata quella
del dialogo.
D. La sua filosofia appare come diretta più a discepoli che ad
interlocutori...
R. Lei ha perfettamente ragione.
D. E quindi la scelta del dialogo non potrebbe a questo punto apparire
come una deviazione, un'apertura verso un altro tipo di approccio?
R. Il dialogo è circolare. In realtà non ci sono interlocutori.
L'interlocutore partecipa il minimo indispensabile perché ci sia questa
specie di partita a tennis Io scrivevo una volta questo qui, più o meno.
Riportavo un esame di docenza che fece Schopenauer in una commissione
in cui c'era anche Hegel. Fu proprio Hegel a porgli la domanda: se un
cavallo si sdraia sulla strada quali motivi vi sono o cause? e allora
nell'incontro tra questi due grandi filosofi, l'uno la cui grandezza la
conosce solo lui, (Schopenauer), l'altro la cui grandezza cominciava ad
essere abbastanza diffusa (Hegel), si danno ad una specie di dialogo
veramente buffo: a stabilire se erano cause, se erano motivi. Cioé mi parve
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che questa fosse una contraffazione del dialogo, che metteva però in
evidenza il dialogo così come effettivamente è , e in ogni caso con questo
mi pare che si chiuda l'era del dialogo in filosofia. Nata con Platone essa si
chiude con questa buffa faccenda, di due grandi che si incontrano e non
sanno parlare altro che di un cavallo...
D. Perché proprio un dialogo sul comunismo?
R. Ecco, e così andiamo all'argomento, perché vorrei che si chiarisse un
equivoco. Comunismo, qui, vuole indicare esattamente questo:
innanzitutto questo slancio per dir così , che è tipico della nostra civiltà.
Ma voglio indicare piuttosto un pericolo che in questo momento vi è . C'è
una gerarchia di comunismi, vi sono più comunismi, certamente, non nel
senso storico, ma nel senso ideale. E questo comunismo di cui mi
preoccupo io è proprio il venir meno e l'individualizzarsi dell'idea di
verità, il crollo della comunità scientifica, che comincia ad essere
individualizzata anche nella scienza, anche nella fisica. La fisica parla oggi
di principi quasi individuali nel suo ambito, ad esempio qualcuno ha
potuto parlare di una fisica a misura d'uomo, perché il fine è quello che
l'uomo goda, che abbia piacere, una fisica che stabilisca la possibilità di
una libertà nell'ambito dell'universo: é una fisica come un'altra, cioé a dire,
può essere benissimo una fisica accettabile. Oggi vi è il nuovo principio
antropico: anche questo obbedisce a esigenze dell'individuo nell'ambito
della fisica, cioé a proiettare le nostre esigenze di finalità, di soddisfazione,
nell'ambito di una disciplina come la fisica che era stata altera, si era
presentata come un assoluto sdegno dell'umano. E l'idea di verità, espunta
dal contesto della filosofia o ridotta a un fatto individuale. Ecco qual è la
mia preoccupazione e qual è il comunismo di cui parlo: tentare di destare
l'allarme per il venir meno di idee di verità comuni, di un comune senso
della scienza, di un comune senso dell'operare all'interno del sapere. Il
frammentarsi in principi individuali di tutto quanto l'assetto del sapere,
per cui il comunismo in definitiva - in questa gerarchia di comunismi che
nel libro è più o meno adombrata, per quello che mi interessa -, è proprio
il ristabilirsi di una comune idea di verità, di cui oggi è impossibile
parlare, perché una cosa del genere fa ridere. Ma, lo ripeto, soprattutto
per quanto riguarda l'ambito del sapere, laddove esso è frammentato in
saperi individualizzati - e il principio individuationis frusta a sufficienza
non solo le filosofie che sono ormai quasi personalizzate: ciascuno ha la
sua, come ognuno ha la sua cravatta, la sua donna -, ma anche in quelle
che sono le discipline rettrici della civiltàoccidentale, la matematica,
poniamo. Ecco: mentre gli altri si preoccupano del comunismo dei bisogni,
de la merde, - come io lo chiamo -, io mi preoccupo di questo, che
certamente saràsuperfluo, ma che a me dàl'impressione che sia
bisognevole di un occhio attento: perché stiamo perdendo la "comunità" di
questi beni intellegibili, di questi beni spirituali, che si frammentano e
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diventano proprietàdi piccoli o grandi proprietari che ne fanno in qualche
modo un fatto personale, a sé .
D. Quindi un interesse per il comunismo da dove meno ce lo si aspettava?
R. Certo, il comunismo per quello che interessava veramente me .
D. Lei ha scritto un libro intitolato "Dell'indifferenza in materia di
società". Questo suo interesse per la filosofia come verità, questo
comunismo inteso come riverca di verità comuni, ha a che fare invece con
un interesse per la società, può servire alla società?
R. Io personalmente ritengo che l'interesse per la società sia un interesse
sussidiario e avventizio. Il primo interesse per l'uomo non credo sia la
società, la società è un dato: ma è un dato questo pavimento, è un dato che
devo apripre la porta se voglio entrare , è un dato che sono in una società
perché nasco,sono buttato già, nasco in una società: ma questo non
significa che io dirigo le mie intenzioni e i miei sforzi al pavimento in cui
cammino, certo, se non ci fosse il pavimento io crollerei, se non ci fosse la
società, cioé tutto il complesso, l'organizzazione che forma la struttura di
una società, probabilmente non soddisferei i miei bisogni, sarei privo di
molte delle cose che formano il mio benessere, ma questo non significa che
io debba ritenere primaria la società, la società è come il pavimento, come
la porta, strumenti che mi giovano, che mi servono ma non il mio
interesse. Io credo che l'interesse primario, è qui bisognerebbe
considerarlo all'interno della nostra civiltà, e per me la civiltà è quella
occidentale o non è, non sia la società ma l'arte, il produrre, anche il
generare può essere interesse primario, ma non sia dia l'interesse primario
alla società, soprattutto non si dia a quelli che di questa società si fanno
per dir così portatori, i falsi servitori di essa, o quelli che se ne fanno
padroni, cioé il politico, la politica, che è diventata nel nostro assetto
sociale, europeo, talmente primaria da abbattere qualsiasi interesse o da
ridurlo sotto di sé : questa è per me un'oscurante sconfitta delle cose dello
spirito.
D. Qual è questa verità comune che lei ravvisa nel comunismo?
R. Io dico l'idea di verità anzitutto, cioé il perseguire l'idea di verità, le cui
caratteristiche sono, risibili per l'uomo comune, ovviamente, l'idea di
unicità, l'idea di eternità: oggi i filosofi hanno idee più comuni dell'uomo
comune , ritengono che l'idea di verità sia un ferrovecchio, noi abbiamo
perso i grandi principi che abbiamo, che ci tengono, ma che noi possiamo
ammirare e contmplare, così come l'uomo della tecnica ammira le più
grandi invenzioni di quest'età tecnologica: anche l'invenzione
dell'imperativo categorico, della nozione di legge, in senso fisico come in
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senso sociale, queste cose sono proprio il grande patrimonio comune che
si sta smembrando e sta diventando invece proprietà di singoli, perché ci
sono, si, non soltanto i grandi proprietari di ricchezze materiali, ci sono
anche i grandi proprietari di ricchezze intellegibili, delle idee, come se in
sostanza delle idee ne fosse padrone questo o quel filosofo; ecco, se noi
diciamo le automobili della Fiat, ci accorgiamo dell'onta, del disdoro che
c'è nell'affermazione, ma se diciamo le idee di questo o quel filosofo non ci
accorgiamo quasi di questo senso in cui idee comuni,patrimonio di
intellegibilità, almeno dell'elite europea, diventano proprietà di uno, di
grandi proprietari del pensiero, i quali ne fanno l'uso e l'abuso che
vogliono. Perché , e con ciò vorrei concludere, la ricchezza materiale, solo
quella, non è possibile rendere comune, checché se ne dica, perché essa è
strettamente individuale, mentre è proprio l'altra, la ricchezza spirituale
che è comune in se stessa e che per accidente oggi sta diventando singola,
individuale. E' questa che bisogna rendere comune.
D. Ma questa sembra impresa difficile, visto che lei definisce la scuola
"una barriera opposta al male del sapere"
R. La scuola è in realtà una grande neutralizzatrice.La scuola pubblica
europea nasce con la funzione di formare, di educare, di istruire, ma in
maniera tale che tutto ciò che viene impartito sia neutralizzato in
partenza: il sapere è il veleno quale può essere in un trattato di
tossicologia, cioé innocuo, descritto ben bene ma in cui manca proprio
l'elemento primo, la possibilità che se tu tocchi gli occhi o lo ingerisci
muori o resti deturpato: ma questo non è il volere o non volere
dell'insegnante. E' proprio l'assetto specifico del sapere scolastico:
Essenzialmente neutralizzatore esso deve togliere l'elemento non
formativo, non educativo che vi è nel sapere: Lei pensi a un Beaudelaire,
nelle scuole francesi, preso così per com'è, sarebbe dirompente....o a
Leopardi nelle nostre scuole...
Sono sette anni che Franco Battiato ha spostato la sua dimora stabile da
Milano a Giarre…
… Proprio come i ritmi che, da sette anni esatti, con
ogni tempo e in ogni stagione, cadenzano le sue giornate: la sveglia alle 5
del mattino, poi la contemplazione del paesaggio (quasi a voler riempire il
cuore e i polmoni di tutta quanta l'aria di Sicilia), poi l'ascolto, per una
mezz'oretta buona, di musica classica. Seguono lo yoga e la meditazione;
poi, alle 7 e 30 precise, la colazione, quindi il lavoro fino all'una. Dopo
pranzo, immancabile, il riposino pomeridiano, e poi ancora il lavoro dalle
3 alle 8 di sera. E solo a questo punto Battiato si concede una cena frugale,
il rito del Telegiornale, la visione di un film in cassetta.
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Da quando è qui, lei ha deciso di affiancare all'attività di musicista anche quella
di pittore: pittore di icone, soprattutto. Come è nata questa passione?
"Più che una passione, direi che quella della pittura è stata una necessità.
La necessità di porre rimedio a un difetto troppo grande: la mia totale
incapacità di fare qualsiasi cosa con le matite e i pennelli, il mio blocco di
fronte alla trasformazione di una cosa vista in una cosa trasposta su tela.
Quella della pittura è stata una sorta di sfida con me stesso. E ora - che i
miei dipinti piacciano oppure no - credo di poter affermare di averla vinta,
questa sfida. Ora so che cos'è la prospettiva, ora ho capito che la pittura e
la musica occupano dimensioni totalmente diverse, anche se
complementari, nella mia mente e nel mio cuore".
Altra singolare coincidenza: sono molti anni che lei pratica il sufismo, ma solo da
quando è qui ha deciso di rendere pubblica ed evidente la sua fede religiosa. Come
mai?
"E' molto semplice. Pur senza voler convincere nessuno l'indottrinamento non fa certo parte del mio bagaglio filosofico e culturale
- trovo che non sia male lanciare segnali evidenti di un certo genere di
testimonianza. E' un modo di dire a chi ti segue e a chi ti apprezza: 'Stai
all'erta, qualcosa in te può cambiare'. Così come è cambiato in me".
Mi tolga una curiosità, e mi perdoni la banalità della domanda: che cosa l'ha
spinta a "scegliere" il sufismo in luogo - che so - del buddismo o della teosofia?
"Direi che l'ho abbracciato per una questione di vicinanza, per quella sorta
di illuminazione che ti pervade quando ti accorgi di aver trovato proprio
quello che andavi cercando. In altre parole, io sono legato al sufismo
perché ho scoperto che il mio mondo interiore è assolutamente uguale a
quello dei mistici sufi, in particolare per quel che riguarda la concezione
della sofferenza".
La sofferenza?
"Sì, proprio la sofferenza. Da non intendersi nell'accezione 'normale' del
termine, come quel 'qualcosa' che in genere pervade i rapporti di coppia e
provoca le liti e le rotture coniugali: ma, semmai, nel suo senso più
universale e trascendente, vicino a quello stato che generalmente viene
classificato come 'angoscia'. Bene, questo sgomento, quando sopravviene,
implica una totale inabilità nei confronti delle faccende della vita,
impedisce ogni comprensione di quel che sta succedendo. E, quando viene
portato alle conseguenze estreme, assomiglia a una tempesta cosmica che
si abbatte su un individuo inerme: totalmente incapace di sopportare
anche una briciola minuscola del suo furore. Proprio questo tipo di
sofferenza, che più volte ho sperimentato sulla mia pelle, è stato il tramite
che mi ha avvicinato al sufismo".
E' a questo tipo di sofferenza che si è ispirato per scrivere "Il Re del Mondo", la
canzone che prende a prestito il titolo di un famoso saggio di René Guénon?
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"Direi di no: perché 'Il Re del Mondo', pur descrivendo una situazione
assolutamente opprimente, è, tutto sommato, una canzone abbastanza
serena. Direi anzi che l'unico riferimento a una sofferenza come quella che
ho tentato di descrivere in precedenza si trova in una canzone del mio
ultimo album, "Lode all'Inviolato". Nel passo dove canto: 'Ne abbiamo
attraversate di tempeste, e quante prove antiche e dure...'".
Sempre da questo punto di vista, una canzone prettamente politica come "Povera
patria" sembra quasi anomala, nella sua produzione..
"Infatti è proprio così. A pensarci adesso, avrei preferito non farla: perché
la 'politica' non è proprio il mio mestiere. Ma ci sono stato costretto per
l'indignazione che provavo - e che tuttora provo - di fronte alla volgarità
dei politici. Una volgarità che mi fa realmente orrore, e che si manifesta
nella totale insensibilità per le esigenze degli altri".
Che cosa la spinge, dunque, a scrivere musica? Musica così diversa, fra l'altro?
"E' molto difficile rispondere a questa domanda. Perché si tratta di una
sorta di 'necessità arcaica': di un qualcosa che preesiste a me, e che utilizza
qualsiasi tipo di linguaggio, dal canto gregoriano fino al techno-pop, per
comunicare a chi ascolta i miei sentimenti. Però, aldilà delle differenze
formali, ciò che trovo invariabilmente presente in tutti i miei lavori, da
quelli 'avanguardistici' degli anni Settanta fino alla mia recentissima
'Messa arcaica', è una ricerca costante della bellezza, dell'armonia, della
fluidità delle soluzioni che si muovono all'interno di ogni linguaggio
prescelto. Perché sono assolutamente sicuro che per comunicare certi
sentimenti, certe emozioni, certe opzioni del cuore, è necessario seguire
strade ben definite".
Strade come quelle della "Messa arcaica", per esempio?
"Sì. E quest'esperienza, fra l'altro, è stata per me estremamente
significativa anche per altri motivi. Perché, per esempio, mi ha insegnato
quanto sia strano questo nostro mondo musicale: dove capita di essere al
centro di un tifo da mega-concerto rock anche quando si suona in una
chiesa, anche quando si esegue un'opera che si muove lungo un tenuissimo
filo orizzontale. Tutto questo è molto gratificante, intendiamoci: ma è
certo che non mi sarei mai aspettato di vedere il Duomo di Orvieto
trasformarsi in una sorta di Palasport, al termine dell'esecuzione...".
In “Cammino Interminabile” hai usato per il canto l’uso del dialetto siciliano, un
omaggio alla tua terra.
Per me l’uso dialettale è bellissimo, mi piace molto, l’importante è che non
sia un fattore usato per esibizionismo, come fanno alcuni politici e anche
letterati. Questa canzone si farà apprezzare al di là dell’uso del dialetto,
perché se è vero che non tutti capiscono il siciliano, è altrettanto vero che
la musica va oltre l’aspetto dei testi. E’ importante che ognuno interpreti a
suo gusto un verso o una canzone. Apprezzo quello che dice Sgalambro al
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proposito, quando asserisce che il dialetto è un duro linguaggio della
necessità, è il momento animale della lingua, il desiderio di animalità. Chi
parla di musicalità del dialetto non sa di che cosa parla: se la lingua è
storica e culturale, il dialetto è cosmico. Chi muore, muore in dialetto!
La civiltà è quella assiro-babilonese e "Gilgamesh" è un eroe divinizzato,
mitico re d'Uruk, che ispirò uno dei più conosciuti poemi della letteratura
di quella civiltà: l'Enuma Lish. Su questa figura si intrecciano una serie di
miti dell'Olimpo babilonese legati alla spiegazione di fenomeni naturali.
Dove presenterà il suo lavoro?
Si tratta di un'opera che privilegia il trascendentale, ma devo ancora
terminarla, non voglio che le mie idee, che devo ancora sviluppare, siano
travisate. Per questo non ho accettato la proposta di far rappresentare in
tv "Genesi". Lo schermo può snaturare le intenzioni del rito.
Vivo nel sacro e la mia musica riflette questa dimensione. Ma si tratta di
qualcosa di diverso dal culto, e neanche la sua accettazione della Bibbia è
incondizionata. La lettura della Bibbia non mi ha mai veramente esaltato.
Certo contiene aspetti stimolanti e alcuni elementi che hanno
rappresentato le fondamenta per la civiltà occidentale, ma dalla Bibbia non
sono mai coinvolto in modo totale: anche per "Genesi", del resto, l'ho
considerata soltanto un testo di riferimento. Non sono d'accordo con
l'assolutismo a favore della Bibbia. Nell'interpretazione sono stati fatti
errori grossolani, forse anche in malafede (pure Aristotele potrebbe essere
raccontato diversamente). Esistono tanti altri libri mistici, il Corano ad
esempio. La Bibbia fa riferimento a una società di diritto piuttosto che di
spirito. Dobbiamo imparare a dare più importanza alla meditazione che
alla ritualità dei gesti comuni: quando entro in chiesa faccio fatica a fare il
segno della croce.
Quando mi accorsi che non ero capace di comandare il mio corpo, non ho
più abbandonato la ricerca spirituale. In questi anni ho incontrato molte
verità, ho girato monasteri di tutto il mondo apprendendo le diverse
tecniche di meditazione spirituale. Mentre per lo studio di uno strumento
tutti sono concordi nel ritenere che sia indispensabile il rigore, pochi
riconoscono l'importanza del rigore nella ricerca interiore. I mistici sono,
invece, la razza più intelligente che conosca. Oggi sono capace di
concentrarmi nel silenzio, è una sensazione che diventa materia.
L'abbandono totale non sempre consente una completa sintonia con
l'esterno. E' necessario ascoltare gli altri, solo così possiamo comprendere
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la vera musica. La meditazione è importante. Il giudizio di un singolo ti
può devastare, quello della collettività ha un valore effimero.
La musica per me è uno strumento per raggiungere certi livelli spirituali,
ma non sono d'accordo con chi vuol accomunare tutto nella categoria del
sublime. Preferisco vivere ritirato oggi, faccio quasi fatica a uscire.
"Gilgamesh" sarà una grande opera, un lavoro inedito.
«Medito tutti i giorni, all’alba e all’imbrunire». Dice proprio così,
all’imbrunire, usando questo termine arcaico che trasmette un senso di
calma e al tempo stesso di malinconia.
Quando?
«Direi trentacinque anni fa. Io sono nato nel 1945, ma la mia vita ha
iniziato a definirsi tale quando ho scoperto la meditazione, nei primi anni
Settanta. La pratico due volte al giorno, come gli egizi. Cambio orario a
seconda della stagione. Comunque, non sono regole fisse, se ho degli
impegni la sposto. Ma mai rinuncerei, per me è diventata una cosa
indispensabile, non potrei vivere senza».
Adesso l’esoterismo va molto di moda. Ci sono scuole di meditazione yoga, sufi,
addirittura Spa che mettono a disposizione pacchetti di massaggi anticiccia e
meditazione antistress. Lei che meditazione pratica?
«La mia è una meditazione personale. Negli anni ho letto e raccolto tutte
le indicazioni possibili. Poi ho scelto la mia linea personale. Medito dai
quaranta ai cinquanta minuti. Quando ho iniziato, negli anni ’70,
impiegavo mezz’ora a rilassare tutto il corpo. Oggi in una frazione di
secondo riesco a ricollegarmi con tutto il lavoro che ho già fatto. Se ci
sono alcune parti che si devono sciogliere, se sei pieno di nodi, è difficile
cogliere qualcosa. È l’eterna lotta tra il sì e il no. All’inizio il corpo, non
essendo ammaestrato, ha le sue necessità, non vuole stare fermo in quella
posizione, ti suggerisce scuse di tutti i tipi, impegni immaginari, impegni
che non si possono rimandare. Invece, è tutto rimandabile».
Perché ha cominciato?
«Ho iniziato per necessità, per problemi esistenziali. Una persona a un
certo punto della vita si ferma e cerca di capire: perché fai così? Avevo 24
anni. La politica non mi ha mai interessato. Con il movimento non ho mai
avuto contatti. Ho ancora un senso di notevole sgradevolezza se ripenso
alle occupazioni, alle aule magne con molti che poi ho scoperto terroristi.
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Già allora avevo capito che si impegnano molte più energie nelle faccende
effimere che in quelle serie».
Per lei il sociale non esiste?
«Con il tempo ho scoperto che aumentando un certo tipo di sensibilità si è
più vicini alla gente, ma da lontano. È una strada che anche mostrandoti
che sei – miserabile – ti porta ad accettarti e correggerti. Fin da giovane
ho sempre avuto grandi sospetti verso quelli che se la prendono sempre
con qualcun altro e mai guardano a se stessi».
Lei in che cosa crede?
«Come scrisse Rumi: “Io non sono musulmano, né induista né cattolico.
Non credo né al cielo né alla terra”. Dopo un certo numero di esistenze
(credo nella reincarnazione) si spera di entrare nel mondo del non
ritorno».
Anche il protagonista del suo film Perduto Amor, scritto insieme con il filosofo e
amico inseparabile Manlio Sgalambro, scopre un certo tipo di letteratura
esoterica. Come è arrivato a queste coincidenze?
«Scoprii per primi i mistici indiani: Yogananda, Aurobindo. Poi sono
passato al buddhismo, ai sufi, e soprattutto, fondamentale, al sistema di
Gurdjieff. Maestri ne ho avuti tanti. Tra i nostri occidentali Santa Teresa
D’Avila, Giovanni della Croce e poi tutti i padri del deserto,
Sant’Agostino. Ho iniziato da autodidatta. Ho imparato a ordinare il
disordine, a non disperdermi. Dice Gurdjieff: “Il tempo è prezioso, non
sprecarlo per cose che non siano in rapporto con la tua meta”».
Autodidatta, come in tutte le altre cose che lei ha fatto. Dalla musica alla pittura,
al cinema.
«Sì, anche con la musica ero un orecchiante. Poi ho incontrato
Stockhausen, che mi ha proposto di interpretare una sua opera e non
poteva credere che non sapessi leggere la partitura. Così ho iniziato a
studiare la notazione classica. Anche con i testi sacri, sono come uno che
va per mare come praticante e poi trova le carte nautiche».
Che cosa è il sacro per lei?
«Tanto per scherzare, posso dire che è l’unica zona del nostro universo
dove non ci sono raccomandazioni. Il sacro non si può comprare. Se non
lasci la zavorra, in queste zone non entri».
Con la meditazione lei è riuscito a lasciare la sua zavorra?
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«Io ci provo. Più in alto vai più la materia si fa leggera, più hai la
percezione di mondi delicati e sottili. Devi lasciare fuori le grossolanità e
un certo genere di pensieri. Alcune sensazioni, un litigio, una guerra
contaminano e i tuoi sentimenti sono tirati giù, verso il basso».
Però il basso esiste.
«Il sociale come luogo comune non mi interessa, invidie e gelosie sono
mondi che se non si riesce a eliminare almeno si deve cercare di
controllare. Paul Valéry ha scritto una pagina di indimenticabile bellezza
sulla competizione tra gli uomini. Il competitivo ha bisogno dell’altro, da
solo non è nessuno».
C'è una grande tensione filosofica, oggi, sulla verità. L'ermeneutica, per esempio,
fa parte dei tentativi di legare l'estetica alla verità piuttosto che all'emozione e
alla sensibilità.
A me non risulta. Vedo scomparire il concetto di verità, vedo la
prevalenza del concetto di opinione, quasi identica all’uomo. Il concetto di
verità non ha più autorità. Viene espulso dagli stessi contesti in cui
sembrava fosse essenziale alla vita stessa. Le grandi prese di posizione di
fronte a questo concetto la scarnificano. Bisogna avere una buona dose
d’ingenuità per poter professare il concetto di verità, che dovrebbe avere i
connotati classici, che dovrebbe essere filosoficamente piena... come quella
di cui parlava Husserl nelle Ricerche logiche: la verità che è identica e una
per angeli, dèi, mostri e uomini. Epperò Husserl dice in seguito anche che
il mercante al mercato ha la sua verità. Che ogni uomo ha la sua verità.
Come suo postero mi accadde di mettere queste due accezioni in stridente
e meccanico contrasto. Il prima e il dopo. Ma poi Husserl voleva anche lui
guarire la civiltà dai suoi mali, era diventato un "medico" della civiltà. Le
civiltà hanno per essenza limiti intrinseci. Se oggi sfogliamo il Gibbon,
possiamo notare che la campana suona sempre allo stesso modo: la
senescenza del mondo, i giovani che non ci sono più, il fatto che si vedano
soltanto vecchi, il senato delle donne, molti danni... La civiltà non ha mali,
è tutto un male che poi sfuma, come ogni altra cosa.
Lei dà un enorme rilievo alla comunicazione del pensiero. La possibilità di
pensare insieme. Comunità di pensiero, più alto rispetto all’amore e alla
sessualità. È un pensiero o un desiderio?
Io credo sia insito in ogni essere pensante. Filosofare insieme, io credo
anche sul piano dello scambio emotivo, pur sempre nella vicinanza dei
corpi, è uno splendido momento che ho provato da giovane, quando
filosofare non era un mestiere. Chiedersi e rispondersi sulle cose stesse.
Nel mio rapporto coi libri la parte dell’odio è stata superiore a quella
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dell’amore. Dietro il libro cercavo il conforto della vita, la corrispondenza
con ciò che si chiamava vivere. Non attraverso il libro, che era un pericolo,
ma attraverso un filosofare comune. Lo considero un momento di alta
possibilità di rapporto. Ma quanto può interessare... è un rapporto di
pochissimi. Già il fatto che si faccia filosofia solo nelle università! Laddove
si filosofa, quello è il luogo della filosofia. Può essere un bar, un ospedale.
Lì c’è, e allora quello diventa il luogo. Ciò suppone una temperie culturale:
che sia abbandonato questo miserabile concetto di cultura; che si ritorni a
una concezione Ottocentesca che illustra meglio i vari echi del pensiero. Il
brillare di luci varie. Il concetto di Spirito, il luogo dove può avvenire
questo rapporto. Lì dove penso, lì è filosofare. Non si può filosofare senza
luogo; sarebbe portarlo a un’astrattezza tale...!
Il rapporto tra il filosofo e il potere si va intensificando. Non ovunque, non un
servitore... Ma Cacciari è sindaco di Venezia, lei ha relazioni con il potere
catanese... Come lo spiega?
A volte mi sembra che il filosofo sia un tiranno fallito. Ha rapporti con
colui il quale può realizzare ciò che pensa. Avviene che il filosofo si
avvicini al potere. Il potere dei giudizi tende a diventare un potere dei fatti
e delle cose. Il tiranno che è in lui viene oggettivato nel tiranno politico.
Di fronte alla beffarda realizzazione dell’idea, il filosofo si ritira. Il tiranno
insisterà ma il filosofo si ritira. Tranne nei casi in cui l’avvicinamento al
potere è coessenziale alla miglior parte. Ma il filosofo non ha i mezzi per
imporre le sue idee. Ha solo il potere dei giudizi. In momenti come questi,
di trasformazione, il filosofo è al massimo tentato di avvicinarsi al potere.
È la follia del potere che lo prende. Potrebbero essere lui e i suoi giudizi a
trasformarsi in potere. E’ un pericolo per lui.
Mi sbaglio o recentemente lei ha riflettuto sul comunismo?
Sì, ho scritto un "Dialogo sul comunismo". La riflessione è riferita ad un
comunismo particolare, un comunismo della verità, non è il comunismo
rozzo della condivisione e della soddisfazione dei bisogni. E’ quello in cui
in comune sono messe le cose; è un comunismo dello spirito. Io credo che
si dovrebbe ripristinare il vecchio esercizio spirituale, l’esercizio della
filosofia come nell’età ellenistica. C’è contemporaneità fra l’età ellenistica e
la nostra. L’esercizio e la disciplina della mente sono essenziali sul piano
del pensare, non solo su quello dell’essere. Io preferisco il pensiero. Anzi,
l’essere mi fa schifo... ontologicamente parlando. Il pensare non solo mi
diletta, e io credo che sia un’ipotetica bilancia sulla quale possiamo buttare
qualcosa a favore di questa specie immonda che siamo. Credo in questo
congegno, in questa misteriosa faccenda che è, infine, il pensare. C’è
bisogno di una disciplina che non proviene dalla pratica, ma dal teorizzare.
È intrinseca al fatto di come vivere meglio per poter pensare, non come
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pensare per poter vivere meglio... Come pensare meglio, questo è il mio
problema.
C’è dolore quando si esce dal pensiero e si entra nella pratica quotidiana?
Io credo che si possa vivere come un chierico nel mondo, quasi senza
esserci; quindi non c’è lacerazione, non c’è dolore. Credo anzi che si
possano raggiungere spazi di gioia, riuscendo a disciplinare il pensare, a
vedere in atto questa trasformazione delle cose in idee, che fu
appannaggio di tutti i filosofi nell’età d’oro della filosofia. Era l’epoca in
cui la meraviglia di trasformare le cose in idee era ugualmente il loro
godimento.
Recentemente ho letto il libro di Kupfer "L’esperienza come arte", dove si legge
un capitolo dedicato all’estetica della violenza, come un aspetto che connota il
nostro secolo. La violenza, secondo lui, non si produce più a causa
dell’emarginazione, ma si produce perché questa società non garantisce e non
favorisce più la possibilità di intrattenere relazioni estetiche con il prossimo e con
il mondo. L’isolamento, non quello dell’intellettuale, ma della gente comune,
genera violenza, che ormai è gratuita, senza più nemico...
Innanzitutto il nemico è l’altro, la sordità dell’altro. L’altro è sordo non
perché lo è diventato, ma perché noi siamo in una situazione di maggiore
consapevolezza e dunque di maggiore richiesta. Quindi l’altro,
allorquando la porta non si apre, cerca di sfondarla, di spaccare tutto. La
violenza è un modo, oggi, di attestare che l’altro c’è, ma attraverso
un’inversione del rapporto classico che ci attestava l’altro con l’amore. La
violenza è questo capovolgimento che è richiesto dal capovolgimento delle
cose, cioè dal fatto che l’altro, il nostro prossimo, oggi, è distante. Chissà
quanto grande è questa distanza! Io credo che la violenza sia proprio
dovuta all’aumentata consapevolezza della sordità che c’è nell’essere
altro... ed io nell’essere altro da lui. Sono elementi che prevalgono in
questa nostra società: come l’esagitazione del coito, che nel momento dello
spasimo ci accerta che noi abbiamo un rapporto con l’altro, quando l’altro
grida, c’è, e io penso: "sono con uno, sono con l’altro". Il grido, il mugolio,
te l’accerta. Ecco, la violenza è l’estremo punto a cui giunge chi, quando
bussa dolcemente, non gli si spalanca nulla. Allora insiste sempre più
forte. Al termine dell’atto, c’è l’altro.
La bellezza è l’attesa, l’attesa dell’altro, di poterlo contemplare?
Io credo che l’attesa, la pazienza, è una lunga linea che in tempi come
questi si vuole accorciare. L’attesa è deliziosa, si può godere dell’attesa. I
nostri, non sono tempi di attesa.
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Professore, quando nasce il suo amore per la filosofia?
Già all'età di nove anni avverto un amore dissennato per qualcosa che non
conoscevo. M'incapriccio del mistero che rappresentava la parola
'filosofia', in una Lentini di tanti anni fa. Scopro che facevo già filosofia
senza saperlo, che dentro di me vi era un fuoco che bruciava, come in
quella splendida immagine in cui S. Tommaso equipara l'inferno ad un
luogo in cui l'uomo brucia alla semplice visione del fuoco.
E poi, cosa succede?
Prendo i primi contatti con l'Università e conosco un professore che
parlava, con un ridicolo accento napoletano, dell'Uno di Plotino. Ne
avverto l'assurdità, di natura estetica! Da giovani certe cose urtano con la
propria sensibilità, per una mancanza di eleganza interna.
Naturalmente, la filosofia è un'altra cosa!
Ritengo che bisogna tornare al concetto di "natura filosofica", una
disposizione misteriosa a filosofare, che non vuole essere spiegata, e che ci
porta continuamente a trasformare il problema di ordine generale in
particolare e viceversa. Allora bisogna lottare per raggiungere un
equilibrio all'interno di questo tramutarsi delle cose nelle loro ombre,
nelle idee.
Quando ha iniziato a scrivere?
Avevo già circa vent'anni e pubblicavo degli articoli dai temi forti, su una
rivista romana, diretta da Vittorio Chiaromonte e Ignazio Silone, "Tempo
presente", che tra l'altro pagava piuttosto bene, per quei tempi, mi davano
20.000 lire a colonna, poi sono passato ai saggi e .....
Ha mai percepito la dimensione siciliana come un limite, anche solo geografico?
No, noi siamo isolati per il fatto che riteniamo di esserlo e condividiamo
una sensazione che ci tramandano, che viene ben prima del reale
isolamento.
Mi racconta com'è avvenuto il suo incontro con la musica e con Franco Battiato?
È stato, come spesso accade, un caso. Ci fu commissionata un'opera dalla
Regione Siciliana: "Il cavaliere dell'intelletto". Franco fece le musiche ed
io scrissi il libretto in pochissimo, una nuova febbre, una nuova malattia.
Abbiamo fatto 28 recite, in diverse parti d'Italia. Poi gli proposi un disco
di musica pop e lui volle musicare tali e quali alcuni miei testi, che
riconosco erano un po' difficoltosi, così nacque il CD "L'ombrello e la
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macchina da cucire", al quale fecero seguito alcuni altri, cui ho contribuito
anche con la mia voce "truce".
Questo episodio mi ricorda una sua frase: "getta la vita lontano da te e va a
riprenderla"….
Sì, accade quando la disperazione dell'uomo diventa tale che si tramuta in
senso dell'avventura, in una gioia dionisiaca, e cerca un obiettivo sempre
più lontano. È la saggezza dei tempi in cui il soggetto è solo, e la società è
'dissocietà'.
«Il libro tibetano dei morti. Lo lessi all'inizio degli anni Settanta. La
prima volta fu un'esperienza traumatica, perché stavo attraversando un periodo
molto delicato. Non riuscii ad arrivare in fondo, non potevo neanche tenerlo sul
comodino. La seconda volta lo lessi con maggiore padronanza. La terza mi ha
fulminato». In che senso? «Diciamo che l'ho fatto mio. Questo libro è perfetto,
ognuno lo assimila al proprio metabolismo, alla propria essenza culturale. Perché
le distanze sono notevoli, a volte si incontrano delle descrizioni simboliche che
sono reali, o viceversa. Io ho fatto un percorso molto preciso di ricerca, e quindi ho
ritrovato delle affinità che non avrei nemmeno sospettato».
Che cosa succede quando si muore?
«Tutto questo succede nei quarantanove giorni successivi alla morte fisica.
- continua Battiato - Quelli della cosiddetta "esistenza intermedia". Il libro è
abbastanza crudo, non addolcisce nessun dettaglio. Ma al fondo c'è la
convinzione del buddismo tibetano che tutto è "maja", cioè illusione. E questa
consapevolezza aiuta a sopportare anche le cose più orrende».
Il corpo come «vanitas», come involucro transitorio e corruttibile dell'
anima, è anche un concetto cristiano...
«Per i buddisti, ciò che resta di noi non è l'anima ma il pensiero. Però è un
peccato buttare via il corpo, perché è quello che dà la possibilità di raggiungere la
salvazione. E' un tempio, e come tale va rispettato. Il pensiero "poggia sul
respiro". Quando si muore cessa il respiro, il prana vitale. Il pensiero resta solo, e
comincia a errare. Fa qualche tentativo di rientrare nel corpo, e capisce che non è
possibile. Allora comincia la sua vita intermedia, in cerca di nuovi supporti. Il
libro descrive un itinerario, dove a seconda del tuo desiderio, di quello che hai
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lasciato in sospeso, dei piccoli o grandi peccati che hai fatto, vieni attirato da una
luce piuttosto che da un'altra. Soltanto a pochi eletti, a coloro che hanno
raggiunto la perfetta coscienza, è consentito superare il ciclo della morte e della
rinascita. Gli altri sono costretti a rinascere come uomini o come animali».
Lei ci crede davvero nella reincarnazione?
«Assolutamente sì. E non su base fideistica. Ci sono arrivato per
sperimentazione».
E in che cosa le piacerebbe reincarnarsi?
«E' più facile dire che cosa non vorrei. Non mi piacerebbe ritornare in regni
animali. Preferirei rinascere albero. Oppure un uomo evoluto o qualcosa di più.
Sempre che ci riesca...».
Rieccoci con il premio e il castigo, l'inferno e il paradiso.
«Sì, ma come ho detto tutto è illusione, anche i mostri si manifestano perché tu sei
così. Proietti le tue paure. I ritorni sono i desideri che abbiamo lasciato, e solo
quando abbiamo esaurito questi desideri possiamo ricongiungerci al pensiero
puro, che è l'origine di tutte le cose».
Il libro dei morti ha ispirato qualcuna delle sue canzoni?
«Direttamente no. Beh, forse "L'ombra della luce" rappresenta in qualche modo
questo desiderio di illuminazione».
Non trova che certi mistici, più che chiarire concetti o trasmettere
conoscenze, si limitino a comunicare delle emozioni? Che in realtà
facciano poesia più che filosofia?
«Non sono d'accordo. Prenda Abdal Qadir, "Il segreto dei segreti": quando l'ho
visto in una libreria, in Inghilterra, i miei pensieri erano determinati da una
sinistra ombra del vivere. L'ho aperto, e ci ho trovato quello di cui avevo bisogno.
La bontà d'animo dei sufi, la loro purezza era così vera da sciogliere anche i
ghiacci. Possiamo accusarli di fanatismo ma non di millanteria. Così, quando
uno legge i padri del deserto, anche se è ateo deve rimanere affascinato dalle vette
di queste intelligenze che lanciavano massi come i Rolling Stones».
Permetta una domanda scontata, Battiato : l'ha trovato il suo centro di
gravità permanente?
«Per fortuna no. Penso che sia impossibile. In compenso ho trovato qualcosa di
importante. Non mi è più capitato di cambiare idea su una persona. Di fare una
inversione a U».
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Manlio Sgalambro
Poesie
Edizioni La Pietra Infinita 1998
I
Dimmi, un attimo prima della
putrefazione
quali evidenze, prove
mi porti della tua sorte?
Mentre la lingua cade marcia
quali parole pronuncia?
Il seno che palpasti è
frollo, sfatto
non ne gode il tatto
come una volta mentre,
dentro di me il tuo pene,
sfrigolava la mia potta.
Lei si volta e mi dice,
sono morta.
II
No, questa parola non basta!
i tuoi occhi sono grumo giallastro,
poltiglia stracca.
Le tue guance un alito le stacca.
No, questa parola non basta!
E’ solo morte, questa?
III
Seduto sotto i terebinti, sai a Mamre
Jahveh mangia a sazietà ricotta
vitello arrosto e pane:
se ne fotte il cane.
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IV
Proverò a cominciare dall’inizio,
ha detto Agatha Christie
come un teologo provetto.
Chi mi ha ucciso, dimmi
chi mi ha ucciso?
Scoprilo, tu che hai scoperto
chi uccise John. Chi uccise Muriel…
chi uccise un’infinità di uccisi.
Scopri chi uccise uberhaupt,
si, uccide in generale.
Persa, ogni fatica è persa:
Dio è la morte stessa.
ILLE OMICIDA ERAT AB INITIO.
V
Allora Eud si accostò
al re e gli disse: ho una parola per te,
gli disse – da parte di Dio.
La spada dal fianco trasse
e gliela piantò nel ventre
nel grasso ventre
da parte di Dio. – Giudici, 3.20 – 21
VI
Sfera di cristallo:
stella era, stella
ora imputridita
a causa della vita.
Stella sarà.
Via, per sempre.
Disdici dalla terra
ogni cosa che vive
lascia solo una rosa.
Mi empio di questa terra
che daccapo la luce riprende
risplende, l’ombra scompare
sgombra rientra
nello stanco tango universale.
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VII
L’essere è screditabile e saputo.
Via stracci, veli, avvolto
in stracci e garze, ciò che resta
tracce di biancospino attorcigliato
Nudo è Batillo.
Dio e le leggi meccaniche dell’urto,
ecco tutto.
Voglio che dal nostro abbraccio
Trasudi idea
Oltre che carne e scolatura.
Umidori esalano dalla vagina,
dal cervello il problema della verità
matura.
VIII
Ti sei lamentato bene
pattoniere.
Smarrito nelle ceneri
scovavi sostanze
mio Gringoire.
Sui giacigli non stavi
pieni di dubbi e di riposi.
Nei golfi del Sud
non cercavi giardini.
Azzurri scogli dettano rapine
e risposte alla fine.
Mon dèlinquant.
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