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Paulo Coelho
La spia
Traduzione di Rita Desti
La nave di Teseo
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Nero quadricromia
Questo romanzo è un’opera di fantasia, anche se la ricostruzione della vita di Mata Hari
è basata sui fatti realmente accaduti e l’autore ha cercato di ripercorrerne la vicenda esistenziale utilizzando le informazioni storiche pervenute fino a noi. Tuttavia le situazioni, gli
accadimenti e i dialoghi che riguardano Mata Hari e le altre persone realmente esistite che
compaiono nell’opera sono frutto di invenzione e non intendono descrivere i fatti per come
sono accaduti in realtà, né mutare il carattere di fantasia del romanzo. Sotto tutti gli altri
aspetti, ogni somiglianza con individui realmente esistiti è da considerarsi casuale.
Crediti fotografici
pp. 13, 23 e 147: Collection Fries Museum, Leeuwarden
p. 193: The National Archives of the UK, ref. KV2/1
Titolo originale: A Espiã
Copyright © 2016 by Paulo Coelho
This edition was published by arrangements
with Sant Jordi Asociados Agencia Literaria S.L.U., Barcelona, Spain
www.santjordi-asociados.com
All rights reserved
http://paulocoelhoblog.com
© 2016 La nave di Teseo editore, Milano
ISBN 978-88-9344-100-1
Prima edizione La nave di Teseo novembre 2016
Seconda edizione novembre 2016
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Quando vai con il tuo avversario davanti
al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti
trascini davanti al giudice, e il giudice ti
consegni all’esattore dei debiti e costui ti
getti in prigione.
Io ti dico: “Non uscirai di là finché non
avrai pagato fino all’ultimo centesimo.”
Luca, 12, 58-59
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Oh, Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a Voi.
Amen.
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O Maria, concepita senza peccato, pregate
per noi che ricorriamo a Voi.
Amen.
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Prologo
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Parigi, 15 ottobre 1917 – Anton Fisherman con Henry Wales,
per l’International News Service.
Poco prima delle cinque del mattino, un gruppo di diciotto
uomini – in gran parte ufficiali dell’esercito francese – salì
al secondo piano di Saint-Lazare, il penitenziario femminile
di Parigi. Preceduti da un secondino che reggeva una torcia con cui accendeva le lampade, si fermarono davanti alla
cella numero 12.
Erano le monache a occuparsi di quel posto. Suor Léonide aprì la porta e chiese a tutti di attendere fuori. Entrò,
sfregò un fiammifero sulla parete e accese la lampada della
stanzetta. Poi chiamò una delle sorelle ad aiutarla.
Piano e delicatamente, suor Léonide cinse con un braccio il corpo addormentato della donna: stentava a svegliarsi, quasi non fosse interessata al mondo circostante.
Quando aprì gli occhi, secondo la testimonianza delle
monache, sembrò emergere da un sonno tranquillo. E si
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mantenne serena anche quando apprese che la domanda
di grazia presentata alcuni giorni prima al presidente della
repubblica era stata respinta. È impossibile dire se provò
tristezza o sollievo per il fatto che tutto fosse ormai prossimo alla fine.
A un cenno di suor Léonide, padre Arboux entrò nella
cella insieme al capitano Bouchardon e all’avvocato Clunet.
A questi, la prigioniera consegnò una lunga lettera-testamento, che aveva scritto nel corso dell’ultima settimana, e due
buste marroni contenenti alcuni ritagli.
Infilò un paio di calze di seta nera – la qual cosa aveva
una nota grottesca in una simile circostanza –, calzò scarpe
con tacco alto e nastri, e si alzò dalla brandina. Da un attaccapanni, sistemato in un angolo della cella, prese un lungo
cappotto di pelle, con le maniche e il collo ornati di pelliccia, probabilmente di volpe. Lo indossò sopra il pesante
chimono di seta con il quale aveva dormito.
Aveva i capelli in disordine. Dopo averli pettinati con
grande cura, li fermò sulla nuca. Si mise un cappello di paglia e, affinché il vento non lo portasse via quando si sarebbe
trovata in aperta campagna, là dove stava per essere condotta, lo fissò con un nastro di seta legato sotto al mento.
Con un gesto lento, si chinò per prendere un paio di
guanti di pelle nera. Poi, mostrando una serena indifferenza,
si rivolse ai presenti, con voce calma:
“Sono pronta.”
Tutti lasciarono la cella del carcere di Saint-Lazare e si
diressero verso un furgone cellulare che li attendeva con il
motore acceso, pronto a condurli nel luogo dove si era radunato un plotone di esecuzione.
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Il veicolo partì a gran velocità – superiore a quella consentita – e, attraversando le strade della città ancora addormentata, si diresse verso il castello di Vincennes, dove un
tempo sorgeva un forte quasi distrutto dai prussiani durante
l’assedio di Parigi del 1870.
Venti minuti dopo, il furgone si fermò e tutti scesero.
Mata Hari fu l’ultima a lasciare l’abitacolo.
I soldati erano già schierati. Di lato al plotone di esecuzione, formato da dodici zuavi, c’era un ufficiale con la spada
sguainata.
Mentre padre Arboux, affiancato dalle due monache, stava parlando con la condannata, si avvicinò un tenente francese, il quale porse un panno bianco a una delle suore, dicendo:
“Per cortesia, copritele gli occhi.”
“Devo proprio essere bendata?” domandò Mata Hari,
osservando il pezzo di stoffa.
L’avvocato Clunet guardò l’ufficiale con espressione interrogativa.
“Non è obbligatorio. È una scelta che spetta a Madame,”
rispose il tenente.
Mata Hari non fu legata né bendata. Impettita, con un’aria di apparente tranquillità, si ritrovò a fissare i suoi giustizieri mentre il prete, le suore, il tenente e l’avvocato si
allontanavano.
Il comandante del plotone d’esecuzione, che sorvegliava
attentamente gli uomini per evitare che controllassero i propri fucili – la prassi vuole che uno dei fucili sia caricato con
un colpo a salve, cosicché tutti possano pensare di non aver
sparato il proiettile mortale –, parve rilassarsi. Presto sarebbe stato tutto finito.
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“Plotone, attenti!”
I dodici zuavi assunsero una postura rigida e appoggiarono i fucili sulla spalla.
“Caricare!”
Lei non mosse un muscolo.
L’ufficiale si diresse verso un punto dove tutti i soldati
potessero vederlo e levò in alto la spada.
“Puntare!”
La donna rimase impassibile, senza rivelare alcun segno
di paura.
La spada si abbassò, fendendo l’aria con un movimento
ad arco.
“Fuoco!”
Mentre una fragorosa raffica di spari attraversava l’aria,
il sole ormai sopra l’orizzonte illuminò le fiammate e i nugoli
di fumo che proruppero dai fucili. Poi, con un movimento in
perfetto sincrono, i soldati poggiarono le armi a terra.
Per un secondo, Mata Hari rimase ancora ritta. Non
stramazzò al suolo come accade nei film, quando gli uomini vengono colpiti dalle pallottole. Non cadde in avanti né
all’indietro; non agitò le braccia né verso l’alto né di fianco.
Sembrò accasciarsi su se stessa, con il capo eretto e gli occhi
aperti. Uno dei soldati svenne.
Le ginocchia della vittima cedettero, e il suo corpo ricadde sulla destra; le gambe si piegarono sotto il lungo cappotto di pelle. Mata Hari giacque immobile, il viso rivolto
al cielo.
Un terzo ufficiale estrasse la rivoltella da una fondina fissata alla bandoliera e, accompagnato da un graduato, si avviò verso il corpo inerte.
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Si chinò e accostò la canna della rivoltella alla tempia della spia, premurandosi di non sfiorare neppure la pelle. Poi
premette il grilletto: la pallottola attraversò il cervello della
morta. Tornò sui suoi passi e, rivolgendosi ai presenti con
tono solenne, dichiarò:
“Mata Hari è morta.”
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