seminario 3.4.14 - Dipartimento di Giurisprudenza

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Seminario di Istituzioni di Diritto Privato
3 aprile 2014
OBBLIGAZIONE NATURALE
-
Cass. 3713/2003
La Corte Suprema di Cassazione
Sezione II
Composta dagli Ill.mi Sigg.mi Magistrati:
Dott. Mario SPADONE - Presidente
Dott. Antonino ELEFANTE - Consigliere rel.
Dott. Rosario DE JULIO - Consigliere
Dott. Olindo SCHETTINO - Consigliere
Dott. Giovanna SCHERILLO - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 941/02 proposto da SANNA LUCIA, elettivamente domiciliata in
Roma, Via Giuseppe Ferrari n. 35, presso lo studio dell'Avv. Massimo Marzi che unitamente
all'Avv. Francesco Bolasco la rappresenta e difende come da procura a margine del ricorso;
- ricorrente contro
ATZORI ANTONIO, domiciliato "ex lege" presso la Cancelleria della Corte di Cassazione,
difeso dagli Avv.ti Anna Maria Pitzolu e Francesco Onnis come da procura a margine del
controricorso;
- controricorrente per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Cagliari n. 77/01 del
01.12.2000/27.02.2001;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4 dicembre 2002 dal Cons. Dott.
Antonino Elefante;
sentiti gli Avv.ti Massimo Marzi e Anna Maria Pitzolu;
udito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen.le Dott. Libertino Alberto Russo che ha concluso
per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione 22 giugno 1987, Antonio Atzori, premesso che aveva convissuto "more
uxorio" per oltre 13 anni con Lucia Sanna; che durante tale periodo la Sanna aveva acquistato un
terreno sito in agro di Quartucciu con denari da lui messi a disposizione; che su tale terreno esso
attore, muratore di professione, aveva costruito, acquistando i materiali e lavorando tutto il suo
tempo libero, la casa di abitazione ed altro edificio adiacente di tre piani al grezzo, oltre dei locali
accessori; che dopo tanti anni di convivenza la Sanna gli aveva intimato di lasciare la casa di
abitazione ed aveva pubblicato su un giornale locale l'offerta di vendita dell'intero edificio; che in
tale comportamento della Sanna andava ravvisato il "periculum in mora" che giustificava il
sequestro conservativo autorizzato dal Presidente del Tribunale il 16 maggio 1987, regolarmente
eseguito; tutto ciò premesso convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Cagliari, la Sanna al fine
di ottenere la convalida del sequestro conservativo, e, nel merito, la condanna della Sanna al
rimborso dei denari messi a sua disposizione per l'acquisto del terreno, nonché alla restituzione del
valore dei materiali e della mano d'opera impiegati nella costruzione degli immobili su detto fondo,
ovvero al pagamento dell'aumento di valore arrecato al fondo, nella misura di L. 120.000.000 o di
altra somma, anche eventualmente a titolo di ingiustificato arricchimento.
Costituitasi, la Sanna chiese il rigetto della domanda.
Espletata l'istruttoria, anche mediante c.t.u., il Tribunale inquadrò la fattispecie
nell'ambito dell'art. 936 c.c.; ritenne l'Atzori terzo ai sensi della citata norma in quanto aveva
costruito in assenza di alcun vincolo giuridico che gli attribuisse la facoltà di edificare; escluse che
la costruzione potesse ritenersi adempimento da parte del convivente "more uxorio" di
un'obbligazione naturale nei confronti della famiglia di fatto; liquidò il "quantum" per impiego dei
materiali e mano d'opera nella somma complessiva, compresa la rivalutazione, di L. 62.726.397;
non liquidò gli interessi perché non richiesti; rigettò tutte le altre istanze; convalidò il sequestro
conservativo e pose a carico della Sanna le spese del giudizio.
La Corte d'appello di Cagliari, con sent. n. 77/01 del 01 dicembre 2000/27 febbraio 2001,
accolse per quanto di ragione l'appello principale dell'Atzori e, in parziale riforma della sentenza del
Tribunale, che confermò nel resto, condannò la Sanna a corrispondere all'Atzori gli interessi legali
sulla suddetta somma di L. 62.726.307 dalla data della domanda alla data della decisione, nonché
sulla stessa somma ulteriori interessi dalla data della notifica dell'atto di appello al saldo; rigettò
l'appello incidentale della Sanna; dispose lo svincolo della cauzione di L. 10.000.000 e ne dispose la
restituzione all'Atzori; condannò la Sanna al pagamento delle spese del grado.
La Corte cagliaritana ritenne infondata la tesi della Sanna, secondo cui sussistendo tra lei e
l'Atzori, conviventi "more uxorio", una famiglia di fatto, tutte le prestazioni reciprocamente
eseguite nell'ambito di tale rapporto avevano natura di obbligazioni naturali, con conseguente
irripetibilità di quanto dato e prestato reciprocamente. Osservò che ai fini dell'adempimento
dell'obbligazione naturale, nel rapporto di convivenza "more uxorio", si richiedeva che vi fosse un
rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente
dai conviventi. Nel caso specifico tale rapporto di proporzionalità non sussisteva, anzi non poteva
neppure parlarsi di adempimento di un dovere morale, dato che la prestazione dell'Atzori non si era
esaurita nel procurare alla famiglia di fatto un'abitazione dignitosa e confortevole, ma aveva avuto
come effetto l'arricchimento esclusivo della Sanna, che era diventata proprietaria, in base al
principio dell'accessione, non solo della casa ma anche di un fabbricato di tre piani e di tre locali.
La Corte d'appello escluse che l'Atzori avesse rinunziato a far valere il suo credito, perché dalla
scrittura del 31 maggio 1987 emergeva soltanto che l'Atzori e la Sanna avevano diviso tra loro i
beni mobili, senza manifestare alcuna volontà abdicativa in relazione agli altri beni. A tal riguardo
la prova per testi dedotta dalla Sanna era inammissibile perché irrilevante, risultando anzi dal suo
contenuto e dalla dichiarazione agli atti di Chiara Luisa Muscas il contrario, cioè che l'Atzori non
intendeva affatto rinunciare a chiedere alla Sanna quanto dovutogli per la costruzione degli
immobili. Rilevò, inoltre, che il diritto dell'Atzori non poteva venir meno per il fatto che la Sanna
avesse dato un rilevante contributo economico per il soddisfacimento delle necessità della famiglia
di fatto, donde l'irrilevanza sul punto della prova dedotta.
Infine la Corte territoriale, ritenuto per ferma la qualificazione giuridica dell'azione promossa
dall'Atzori, inquadrata dal Tribunale nell'ambito dell'art. 936 c.c., per non essere stato proposto al
riguardo uno specifico motivo di appello, nonché per la stessa ragione il "quantum" liquidato dal
Tribunale, osservò che l'Atzori aveva chiesto il rimborso dei materiali e della mano d'opera ovvero
il corrispettivo dell'aumento di valore del fondo con rivalutazione e interessi sino alla data della
liquidazione, per cui aveva diritto agli interessi che il primo giudice aveva omesso di attribuirgli.
Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Sanna deducendo quattro motivi di
annullamento.
L'Atzori ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
A fondamento dell'impugnazione la ricorrente deduce:
1) Omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte e
rilevabile d'ufficio in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e falsa applicazione
dell'art. 936 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Sostiene la ricorrente che la Corte d'appello avrebbe inquadrato la fattispecie
nell'ambito dell'art. 936 c.c. sull'erroneo presupposto che la decisione del Tribunale, sul punto, non
sarebbe stata investita da uno specifico motivo di impugnazione, senza considerare che, invece, con
l'atto di appello incidentale era stata proposta la questione riguardante l'inapplicabilità dell'art. 936
c.c., posto che la Sanna aveva dedotto che l'Atzori non poteva essere considerato terzo nei suoi
confronti "visto il rapporto di convivenza tra di loro esistente", all'epoca dei fatti di causa, e che
trattandosi di "un vero e proprio rapporto giuridico" occorreva, nella fattispecie, fare riferimento
non già alla disciplina contenuta nell'art. 936 c.c. ma al "regime della famiglia di fatto" nell'ambito
del quale il contributo dato da uno dei "partner" nell'opera edificatoria doveva qualificarsi come
adempimento di una obbligazione naturale.
Aggiunge la ricorrente che, in ogni caso, l'art. 936 c.c. non poteva trovare applicazione e nessun
indennizzo era dovuto all'Atzori perché le opere erano state da lui realizzate abusivamente tanto che
essa ricorrente aveva dovuto subire un procedimento penale ed aveva dovuto chiedere la sanatoria
edilizia. Inoltre vi era stata prevalenza della mano d'opera fornita dall'Atzori rispetto al valore dei
materiali impiegati, il cui importo non era superiore a L. 1.800.000. Infine l'Atzori aveva eseguito
non una costruzione "ex novo", ma solo opere di ristrutturazione di un precedente edificio, per cui
anche sotto tale profilo erroneamente la Corte d'appello aveva ritenuto applicabile l'art. 936 c.c.,
anziché l'art. 1150 c.c. riguardante le addizioni migliorative, norma quest'ultima che neppure poteva
trovare applicazione, essendo da escludere l'indennizzo nell'ipotesi di costruzione abusiva, anche se
successivamente sanata.
2) Motivazione insufficiente circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti e
rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e falsa applicazione
dell'art. 116 c.p.c., dell'art. 2729 c.c. e dell'art. 3 Cost., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Assume la ricorrente che la sentenza impugnata ha erroneamente escluso che le opere realizzate
dall'Atzori fossero state eseguite in adempimento di un'obbligazione naturale, ritenendo che non
ricorrevano i requisiti di adeguatezza e proporzionalità, senza considerare che la prestazione del
convivente era stata effettuata in adempimento dell'obbligo di assicurare alla famiglia di fatto
un'abitazione sicura e dignitosa, e l'impegno economico sostenuto a tal fine non era certo
sproporzionato rispetto a quello che sarebbe stato normale pretendere; inoltre la sentenza impugnata
erroneamente ha ritenuto irrilevante il contributo della Sanna alle necessità domestiche e alla cura
della casa, pur risultando dai documenti e dalla prova testimoniale il suo apporto economico alle
attività del convivente e all'acquisto di una motozappa da questi utilizzata per i propri lavori di
campagna. Anche dalla complessità delle opere realizzate si doveva trarre per presunzioni il
convincimento che esse avevano richiesto l'attività di più persone, per cui l'apporto dell'Atzori
avrebbe dovuto essere ridimensionato e conseguentemente la sua prestazione, da ritenere
proporzionata e adeguata, essere considerata come adempimento di un'obbligazione naturale.
In ogni caso, il lavoro svolto dall'Atzori nell'opera edificatoria, qualora non fosse stato
inquadrabile nello schema dell'obbligazione naturale, era da ritenere soggetto alla presunzione di
gratuità che è tipica delle prestazioni di lavoro effettuate nell'ambito dei rapporti interfamiliari, ivi
compresi quelli di convivenza "more uxorio". Erroneamente la corte d'appello ha attribuito
all'Atzori il diritto all'indennizzo in base al medesimo principio che, nella stessa situazione, tale
diritto è riconosciuto a favore del coniuge (che abbia costruito su suolo di proprietà dell'altro), senza
considerare la differenza che sussiste tra il rapporto coniugale e quello "more uxorio", che non
possono essere trattati allo stesso modo senza violare il principio costituzionale di uguaglianza.
3) Omessa o, almeno, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia
prospettato dalle parti e rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e
falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Sostiene la ricorrente che, una volta chiarito, in base al motivo precedente, che la fattispecie
andava inquadrata nell'ambito del regime giuridico tipico delle obbligazioni naturali, la sentenza
impugnata avrebbe dovuto ammettere la prova testimoniale intesa a dimostrare l'apporto economico
della Sanna alle esigenze della famiglia di fatto e la rinuncia dell'Atzori a far valere il diritto
azionato. Né, riguardo a tale rinuncia, la prova del contrario poteva essere desunta, come ritenuto
dalla Corte d'appello, dalla dichiarazione del 6 giugno 1988 sottoscritta da Chiara Luisa Muscas, né,
comunque, tale dichiarazione poteva essere di preclusione alla prova testimoniale.
4) Omessa o, almeno, insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia
prospettato dalla parte e rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 con violazione e
falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e conseguente nullità della sentenza ai sensi dell'art. 360
c.p.c., n. 4
Deduce la ricorrente che la sentenza impugnata erroneamente ha ritenuto che la domanda di
pagamento degli interessi era stata proposta sia per le somme relative all'aumento di valore arrecato
al fondo sia per il rimborso del valore dei materiali e della mano d'opera, mentre in effetti la
domanda si riferiva soltanto al primo aspetto della vicenda. Correttamente il Tribunale non aveva
liquidato gli interessi per il secondo aspetto perché non richiesti. La Corte d'appello, al contrario,
violando il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ha liquidato anche tali
interessi.
1.1. Il primo motivo è infondato sotto tutti i profili.
La Corte d'appello ha ricondotto la pretesa dell'Atzori nell'ambito dell'art. 936 c.c.,
confermando la qualificazione giuridica data dal Tribunale, dopo aver esaminato ed escluso la
fondatezza dei contrari rilievi della Sanna diretti a sostenere che le opere realizzate dal convivente
erano state eseguite in adempimento di un'obbligazione naturale.
Ed in effetti la Sanna, con il suo appello incidentale (il quale conteneva indistintamente,
all'interno di un unico corpo argomentativo, formato da una serie di proposizioni progressivamente
numerate (da 1 a 35) sia l'esposizione dei fatti sia i motivi di gravame) aveva sostanzialmente
dedotto che il Tribunale erroneamente aveva fatto riferimento all'art. 936 c.c., quando nella specie
doveva trovare applicazione il "regime della famiglia di fatto" e conseguentemente la disciplina
dell'obbligazione naturale.
La Corte d'appello doveva, quindi, occuparsi essenzialmente del problema attinente la
sussistenza o meno di un'obbligazione naturale nell'ambito dei rapporti di convivenza "more
uxorio" tra le parti, per verificare se la fattispecie concreta fosse riconducibile alla
disciplina dell'art. 2034 c.c., la cui eventuale applicabilità avrebbe conseguentemente condotto a
negare il diritto alla ripetizione dell'indennizzo di cui all'art. 936 c.c. Ed una volta esclusa, con
adeguata e congrua motivazione la sussistenza di un'obbligazione naturale in relazione a tutte le
circostanze del caso concreto, ivi compresi i rapporti tra le parti nell'ambito della famiglia di fatto,
non vi era alcuna ragione per cui la Corte d'appello doveva esaminare altre questioni attinenti ai
presupposti di applicabilità dell'art. 936 c.c.non specificamente sottoposte al suo esame.
Pertanto, correttamente, la Corte d'appello, dopo aver escluso che le prestazioni dell'Atzori
fossero conducibili all'adempimento di un'obbligazione naturale, ha ritenuto di dover confermare la
qualificazione giuridica dell'azione proposta dall'Atzori, inquadrata dal Tribunale
nell'ambito dell'art. 936 c.c., non essendo stati proposti, al riguardo, specifici motivi di doglianza.
1.2. Né può trovare ingrosso l'ultima parte della doglianza perché con essa vengono sollevate
questioni nuove, relative sia alla sussistenza dell'illecito edilizio e successiva sanatoria sia alla
prevalenza della mano d'opera impiegata dall'Atzori rispetto ai materiali dallo stesso forniti, sia alla
consistenza e tipologia dell'opera realizzata, mai dibattute tra le parti e mai sottoposte all'esame dei
giudici di merito. Questioni che presuppongono nuovi accertamenti e indagini sicuramente riservati
al giudice di merito e preclusi in sede di legittimità (v. fra le tane: Cass. 19 marzo 1996 n. 2294),
dovendo i motivi del ricorso per cassazione investire, a pena di inammissibilità, questioni che
abbiano formato oggetto del "thema decidendum" come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste
delle parti (cfr. "ex plurimis": Cass. 29 ottobre 2001 n. 13403).
2.1. Anche il secondo motivo è infondato.
Ed invero, riaffermato il principio di diritto (peraltro non contestato dalla ricorrente) che
un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" può configurarsi come
adempimento di un'obbligazione naturale allorché la prestazione risulti adeguata alle circostanze e
proporzionata all'entità del patrimonio e alle condizioni sociali del "solvens", va detto che con il
motivo si tende a sollecitare un riesame dei fatti di causa e delle risultanze probatorie, peraltro sulla
base di considerazioni ipotetiche ed elementi presuntivi.
Trattasi in altri termini di doglianza di merito tendente alla rivalutazione dei dati processuali,
non deducibile in sede di legittimità, se non nei limiti della mancanza, insufficienza o
contraddittorietà di motivazione, che nel caso specifico non ricorre avendo i giudici di merito
correttamente giustificato il loro convincimento, circa la non configurabilità della prestazione
dell'Atzori come adempimento di un'obbligazione naturale, allorché hanno rilevato che, in base alle
prove acquisite e alla c.t.u., non sussisteva un rapporto di proporzionalità tra l'opera edificatoria
realizzata dall'Atzori e l'adempimento dei doveri morali e sociali da lui assunti nell'ambito della
convivenza di fatto.
La sentenza impugnata ha anche evidenziato come non era neppure da parlarsi di adempimento
di un dovere morale in relazione alle prestazioni dell'Atzori, dato che queste non si erano esaurite
nel procurare alla famiglia di fatto un'abitazione dignitosa e confortevole, ma avevano avuto come
effetto l'arricchimento esclusivo della Sanna, per effetto dell'accessione, non solo della proprietà di
un appartamento di circa mq. 175, ma anche di un fabbricato di tre piani di circa mc. 860 non
ultimato, autonomamente utilizzabile con destinazione commerciale o residenziale, nonché tre
locali di sgombero di mc. 154.
L'indagine sulla sussistenza di un dovere morale e sociale e lo stabilire se una prestazione abbia
il carattere della adeguatezza e della proporzionalità si risolve in accertamento di fatto, riservato al
giudice di merito, incensurabile in Cassazione se sorretto da motivazione sufficiente e immune da
vizi logici e da errori di diritto.
Inammissibilmente, pertanto, la ricorrente pretende disattendere tale accertamento e sostenere,
sulla base di un discutibile dato presuntivo costituito dalla rilevante mole dell'opera realizzata, che
l'attività edificatoria non sarebbe il frutto del lavoro di una sola persona, per inferirne, anche in
considerazione del suo contributo economico, un ridimensionamento dell'apporto dato dall'Atzori
nella costruzione dei fabbricati.
2.2. Quanto all'assunto della ricorrente che, qualora la prestazione dell'Atzori non possa
inquadrarsi nello schema concettuale dell'obbligazione naturale, la prestazione stessa dovrebbe
presumersi gratuita, essendo stata resa nell'ambito dei rapporti di convivenza "more uxorio", va
osservato che ciò, nel caso specifico, non può trovare applicazione. Invero la presunzione di gratuità
è da ritenere che venga meno quando risulti che la prestazione esuli dai doveri di carattere morale e
civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e condizioni sociali delle parti,
e si configuri come mera operazione economico-patrimoniale, che abbia determinato un
inspiegabile e illogico arricchimento del convivente "more uxorio", con proprio ingiusto danno.
2.3. Pertanto, correttamente la Corte d'appello ha riconosciuto all'Atzori il diritto all'indennizzo,
che non può essere contestato in base a ipotetica violazione dei principi costituzionali (in particolare
quello di uguaglianza).
3.1. Il terzo motivo è, nella prima parte, superato dalla qualificazione dell'azione come
ipotesi dell'art. 936 c.c., e non come obbligazione naturale; ed è infondato nella restante parte
avendo la Corte d'appello giustificato l'inammissibilità della prova orale perché irrilevante ed
escluso la rinuncia dell'Atzori a far valere il suo diritto sia in base al contenuto della scrittura del 31
maggio 1987 sia in base alla deposizione di Chiara Luisa Muscas.
Per il resto è sufficiente ricordare che la valutazione delle risultanze processuali nonché della
prova testimoniale insieme al controllo sulla loro concludenza - come la scelta, fra le varie
risultanze probatorie di quelle ritenute più idonee a sorreggere la decisione - involgono
apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento della sua
decisione una fonte di prova ad esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le
ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto a discutere ogni singolo elemento o
a confutare tutte le deduzioni avverse ("ex plurimis": Cass. 8 novembre 1996 n. 9744; 6 settembre
1995 n. 9384; Cass. 14 aprile 1994 n. 3498); onde la sentenza impugnata non è suscettibile di
cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice di merito siano, secondo
l'opinione del ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione, conforme alla tesi da lui
sostenuta.
4.1. Il quarto motivo è destituito di fondamento.
La Corte d'appello ha chiarito che l'Atzori aveva chiesto in primo grado gli interessi sia sul
valore del materiale e della mano d'opera sia sull'aumento del valore arrecato al fondo e che tale
richiesta si riferiva alternativamente all'uno o all'altro titolo. Sul punto vi era stata omissione da
parte del Tribunale, per cui andavano riconosciuti gli interessi sulla somma liquidata.
In base alle considerazioni svolte, il ricorso va, quindi, rigettato con condanna della ricorrente
al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
cassazione, che liquida in complessivi € 140,00, oltre € 2.000,00 per onorario.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2ª Sezione Civile, il 4 dicembre 2002.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 13 MAR. 2003
-
Cass. 15301/2011
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCHETTINO Olindo - Presidente
Dott. BUCCIANTE Ettore - Consigliere
Dott. MATERA Lina - rel. Consigliere
Dott. PROTO Cesare Antonio - Consigliere
Dott. SCALISI Antonino - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 30515/2005 proposto da:
F.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MICHELE MERCATI 51, presso lo
studio dell'avvocato LUPONIO Ennio, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato
PORRATI CARLO;
- ricorrente contro
S.G. (OMISSIS), S.S. (OMISSIS), S.A. (OMISSIS), nella qualità di eredi di S.M.T., elettivamente
domiciliati in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 52, presso lo studio dell'avvocato MENGHINI
Mario, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato MARENGO FAUSTO;
- controricorrenti avverso la sentenza n. 1960/2004 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 29/11/2004;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 18/05/2011 dal Consigliere Dott.
LINA MATERA;
udito l'Avvocato LUPONIO Ennio, difensore del ricorrente che ha chiesto accoglimento del ricorso;
udito l'Avvocato MENGHINI Mario, difensore dei resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del 30-3-1987 S.S., A. e G., quali eredi di S.M.T., convenivano dinanzi al
Tribunale di Alessandria F.S., assumendo che quest'ultimo deteneva senza titolo un immobile
caduto nella successione ereditaria della loro dante causa. Essi chiedevano, pertanto, la condanna
del convenuto al rilascio del predetto bene ed al risarcimento dei danni.
Nel costituirsi, il F. contestava la fondatezza della domanda, negando di detenere l'immobile in
questione. Egli, inoltre, nel dedurre che dal 1970 al 1983 S.M.T. aveva vissuto presso l'abitazione di
esso convenuto, il quale, con l'aiuto dei familiari, aveva provveduto al suo mantenimento, chiedeva
in via riconvenzionale la condanna degli attori, nella qualità, al pagamento di quanto dovuto per le
prestazioni erogate in favore della donna.
Con sentenza del 6-3-2002 il Tribunale adito, in accoglimento della domanda riconvenzionale,
condannava gli S. al pagamento in favore del convenuto della somma di Euro 20.000,00, oltre
rivalutazione ed interessi, rigettando invece la domanda attorea.
Avverso tale sentenza veniva proposto appello principale dagli eredi S. ed appello incidentale dal
F..
Con sentenza depositata il 29-11-2004 la Corte di Appello di Torino rigettava l'appello incidentale;
in accoglimento dell'appello principale, rigettava la domanda riconvenzionale proposta dal F.,
condannando quest'ultimo al pagamento delle spese del grado.
Per la cassazione della predetta sentenza ricorre il F., sulla base di due motivi.
Gli S. resistono con controricorso.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113
c.p.c., art. 277 c.p.c., comma 1, artt. 352 e 359 c.p.c., artt. 1988 e 2697 c.c., nonchè l'omessa,
insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia.
Assume che la Corte di Appello non poteva limitarsi a criticare il Tribunale per non aver saputo
qualificare giuridicamente la fattispecie dedotta dal convenuto con la domanda riconvenzionale, ma
avrebbe dovuto procedere a tale qualificazione, dando atto, sulla base degli elementi probatori
acquisiti, dell'esistenza di un contratto a titolo oneroso, in forza del quale il F. si era obbligato,
dietro corrispettivo, al mantenimento, alloggio ed altre cure in favore di S.M.T., ad esso non legata
da alcun rapporto di parentela o affinità o simile, che potesse giustificare una pattuizione di gratuità
di siffatte prestazioni. Fa presente che, secondo quanto accertato dalla Corte di Appello, la S. aveva
promesso al F. che l'avrebbe remunerato per quanto faceva per lei; e che tale dichiarazione da un
lato esclude resistenza di un patto di gratuità e dall'altro costituisce, ex art. 1988 c.c.,
riconoscimento da parte della donna del proprio debito verso il F. e promessa di pagamento.
Sostiene che a carico della S. gravava un'obbligazione giuridica, come tale trasmessa ai suoi eredi, e
non una mera obbligazione naturale; e che, ai sensi dell'art. 2697 c.c., incombeva sugli eredi S.,
convenuti con la domanda riconvenzionale, l'onere di provare l'avvenuto pagamento di quanto
dovuto. Rileva, inoltre, che il giudice del gravame, nell'affermare che il F. non ha fornito un qualche
principio di prova in ordine al quantum, non ha tenuto conto della documentazione prodotta dal
convenuto, concernente le tariffe applicate dalle case di riposo della zona per il soggiorno delle
persone anziane.
Il motivo è infondato.
Nella sentenza impugnata la Corte di Appello non si è limitata a rilevare che il Tribunale aveva dato
atto della impossibilità di ricostruire la causa pretendi della domanda riconvenzionale, senza
procedere, come avrebbe dovuto, alla qualificazione giuridica della fattispecie dedotta in giudizio e
alla verifica della sussistenza dei relativi requisiti di forma e presupposti sostanziali. Essa, al
contrario, sia pure in maniera succinta, ha passato in rassegna le varie ipotesi astrattamente
configurabili, quali sono state indicate nella sentenza di primo grado, per rimarcare l'insussistenza
di un valido titolo giustificativo delle pretese avanzate dal F. nei confronti degli attori e, quindi,
l'erroneità della pronuncia adottata dal giudice di prime cure, il quale, pur non avendo preso una
chiara posizione su alcuna delle ipotesi considerate, ha ritenuto di liquidare in via equitativa un
importo in favore dell'odierno ricorrente.
Nel dare atto, in punto di fatto, che dalle testimonianze raccolte è emerso solo che la S. aveva
trascorso un certo periodo in una stanza della casa del F., e aveva promesso di remunerare
quest'ultimo per le "attenzioni" che riceveva, la Corte territoriale ha in primo luogo escluso la
configurabilità, nella specie, di un'ipotesi di donazione remuneratoria o di negotium mixtum cum
donatione, per difetto dei requisiti di forma. Essa ha altresì ritenuto non provata l'esistenza di un
contratto a titolo oneroso opponibile agli eredi, stante la mancanza di pagamenti immediati e
regolari nel lungo arco di tempo per il quale si è protratto il mantenimento (dal 1970 al 1983); ed ha
rilevato che la promessa della S. di remunerare il F. per le attenzioni ricevute non era riconducile ad
una obbligazione legale, ma costituiva, al più, una obbligazione naturale, non trasmissibile agli
eredi.
Tale convincimento, reso all'esito di un accertamento di fatto scuretto da una motivazione logica e
non contraddittoria, si sottrae alle censure mosse dal ricorrente, avendo ti giudice di appello dato
atto delle ragioni per le quali ha escluso che sulla S. gravasse un vero e proprio obbligo giuridico al
pagamento di un corrispettivo in favore del F.; ragioni che sono state sostanzialmente ricondotte
alla mancanza di prova di un accordo intercorso tra i due, in forza del quale il F. si era obbligato ad
assistere la donna in cambio di una controprestazione. E, in effetti, ove vi fosse stata una simile
pattuizione, sarebbe difficilmente spiegabile come mai la S., per un periodo così lungo, nulla abbia
mai dato al F., e quest'ultimo nulla abbia mai richiesto alla predetta.
Correttamente, pertanto, la Corte di Appello ha inquadrato la promessa di remunerazione fatta dalla
S. al F. nell'ambito delle mere obbligazioni naturali (art. 2034 c.c.), fondate su doveri morali o
sociali e prive, a differenza delle obbligazioni giuridiche in senso tecnico, del carattere della
coercibilità, non avendo il creditore naturale il potere di agire in giudizio per ottenere
l'adempimento dell'obbligo, ma solo i diritto di trattenere la prestazione che sia stata
spontaneamente adempiuta dal debitore.
Di qui l'ineccepibile conclusione secondo cui gli eredi della S. non possono ritenersi obbligati a
mantenere la promessa fatta dalla loro dante causa. L'obbligazione naturale, infatti, non è
trasmissibile per via di successio mortis causa, in quanto, non avendo giuridicità prima e fuori
dell'adempimento, non ha carattere patrimoniale nè fa parte del coacervo di diritti ed obblighi nei
quali subentra l'erede (Cass. 29-11-1986 n. 7064).
Non sussistono, pertanto, i vizi denunciati dal ricorrente, essendo al contrario evidente che
quest'ultimo, nel sostenere che tra le parti fu stipulato un contratto a titolo oneroso, in forza del
quale il F. si era obbligato a prestare il mantenimento, alloggio ed altre cure in favore della S. dietro
corrispettivo, richiede una valutazione alternativa delle risultanze probatorie, non consentita in sede
di legittimità.
Non appare conferente, d'altro canto, il richiamo all'art. 1988 c.c..
Poichè, infatti, la promessa di pagamento, al pari della ricognizione di debito, non costituisce fonte
autonoma di obbligazione, ma spiega soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto
fondamentale, la stessa non può ritenersi idonea a trasformare in un debito giuridicamente
vincolante per il promittente un'obbligazione naturale (v. Cass. 29-11-1986 n. 7064).
Le ulteriori censure mosse dal ricorrente in ordine alla ritenuta mancanza assoluta di prova circa il
quantum restano assorbite.
2) Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 112 c.p.c., art. 277 c.p.c.,
comma 1 e art. 91 c.p.c., nonchè la insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su un punto
decisivo della controversia.
Deduce che la Corte di Appello ha del tutto omesso di pronunciare sulla richiesta degli appellanti
principali di accoglimento della domanda di rilascio d'immobile; e che detta richiesta avrebbe
dovuto essere rigettata per mancanza di prova dell'illecita detenzione del bene da parte del F..
Sostiene di avere interesse a rilevare tale omessa pronuncia, ai fini del regolamento della spese di
secondo grado, che, in ragione della reciproca soccombenza, avrebbero dovuto essere compensate.
Rileva la Corte che, in applicazione del principio secondo cui presupposto necessario dell'interesse
a ricorrere per cassazione è la soccombenza, deve ritenersi inammissibile, per difetto d'interesse, il
ricorso con il quale, come nel caso in esame, si deduca il vizio di omessa pronuncia relativamente
ad una domanda proposta dalla controparte, in quanto non è configurabile al riguardo una
soccombenza del ricorrente, che non può subire alcun concreto pregiudizio da una siffatta carenza
di decisione (Cass. 11/10/1996 n. 8905).
Il F., d'altro canto, non ha nemmeno interesse ad impugnare la omessa pronuncia sulla domanda
proposta dalle controparti con riferimento al regime delle spese, dal momento che, secondo il
consolidato orientamento di questa Corte, in tema di regolamento delle spese processuali, la
violazione dell'art. 91 c.p.c., si verifica soltanto nel caso in cui le stesse siano poste a carico della
parte totalmente vittoriosa (tra le tante v. Cass. 2-7-2007 n. 14964; Cass. 20-10-2006 n. 22541,
Cass. 8-9-2005 n. 17953).
Nella specie, in nessun caso l'odierno ricorrente potrebbe essere considerato parte totalmente
vittoriosa, essendo il medesimo rimasto soccombente in ordine alla domanda riconvenzionale.
Il motivo in esame, di conseguenza, deve ritenersi inammissibile.
3) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro
2.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.
OBBLIGAZIONI SOLIDALI
-
Cass. 11051/2012
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PLENTEDA Donato - Presidente Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere Dott. DIDONE Antonio - rel. Consigliere Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso 4798-2010 proposto da:
SOCIETA' FONDAZIONI SACCO SRL (OMISSIS) in persona del suo Amministratore Unico,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 63, presso lo studio
dell'Avvocato CONTALDI MARIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati
GIOVANNI ZUCCONI, PONASSI CARLO, giusta procura speciale in calce al ricorso;
- ricorrente contro
BANCA POPOLARE COMMERCIO E INDUSTRIA SPA (OMISSIS) in persona del Procuratore
ed inoltre UNIONE DI BANCHE ITALIANE SCPA già Banche Popolari Unite Scpa in persona del
Presidente del Consiglio di Gestione e legale rappresentante, entrambe elettivamente domiciliate in
ROMA, VIA LIMA 28, presso lo studio dell'avvocato NICOLOSI marco, che le rappresenta e
difende unitamente agli avvocati MONTI FEDERICO F., LUCA PARAZZINI, giuste procure
speciali in calce ai rispettivi controricorsi;
- controricorrenti e contro
S.P.;
- intimato avverso la sentenza n. 3052/2009 della CORTE D'APPELLO di MILANO del 21.10.09, depositata
il 30/11/2009;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/04/2012 dal Consigliere
Relatore Dott. ANTONIO DIDONE;
udito per la ricorrente l'Avvocato Mario Contaldi che si riporta agli scritti e chiede l'accoglimento
del ricorso.
E' presente il Procuratore Generale in persona del Dott. IGNAZIO PATRONE che nulla osserva
rispetto alla relazione scritta.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
p. 1.- La relazione depositata ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c. dal cons. Renato Rordorf è del seguente
tenore: "1. La Fondazioni Sacco s.r.l. ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo con cui
il Presidente del Tribunale di Milano le ha ordinato di pagare alla Banca Popolare Commercio e
Industria s.p.a., con la quale intratteneva un rapporto di conto corrente, l'importo del saldo debitorio
pari a L. 247.991.340, oltre agli interessi ed alle spese.
Con lo stesso atto l'opponente ha chiamato in causa a scopo di manleva il sig. S.P., che era stato
delegato ad operare su detto conto corrente a nome della società correntista.
Avendo il tribunale rigettato l'opposizione a decreto ingiuntivo e dichiarato inammissibile la
domanda di manleva proposta nei confronti del terzo, l'opponente ha interposto gravame, che è stato
però anch'esso rigettato, con sentenza emessa il 30 novembre 2009, dalla Corte d'appello di Milano.
Avverso tale sentenza la Fondazioni Sacco propone ricorso per cassazione, articolato in sei motivi,
ai quali resistono con controricorso le due banche intimate, mentre nessuna difesa ha svolto in
questa sede il sig. S..
2. Il ricorso è suscettibile di essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375,
376 e 380-bis c.p.c., potendosi ipotizzare la manifesta fondatezza di alcune censure e
l'inammissibilità o manifesta infondatezza di altre. 2.1. Il ricorso, articolato in plurimi motivi,
solleva essenzialmente quattro questioni:
1) la possibilità, per il giudice di secondo grado, di tener conto di un'eccezione di (parziale)
pagamento proposta dall'opponente a decreto ingiuntivo per la prima volta nell'atto di appello;
2) la possibilità, per detto giudice, di tener conto di un'eccezione di nullità della clausola avente ad
oggetto interessi anatocistici in favore della banca, sollevata dall'opponente a decreto ingiuntivo per
la prima volta nell'atto di appello;
3) la possibilità, per la banca creditrice, di procedere alla capitalizzazione annuale degli interessi
maturati a carico del cliente sul saldo passivo del conto corrente;
4) l'ammissibilità della chiamata in causa di un terzo, direttamente operata dall'opponente con l'atto
di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo.
2.2.1. In ordine alla prima questione è da tener conto del principio, enunciato in più d'un'occasione
da questa corte, secondo cui, poichè il giudice è tenuto ad accertare l'avvenuta estinzione del debito,
ove sia provata, anche in assenza di una richiesta da parte del debitore, l'eccezione di pagamento
non rientra tra quelle non rilevabili d'ufficio e, pertanto, può essere sollevata per la prima volta
anche in appello (si vedano Cass. n. 6350 del 2010 e n. 1154 del 1997).
Alla stregua di tale principio, cui la corte territoriale non pare essersi attenuta, il primo motivo di
ricorso potrebbe esser accolto.
2.2.2. In ordine alla seconda questione, è certamente vero che, per costante giurisprudenza di questa
corte, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che costituisce un normale giudizio di
cognizione, la nullità del titolo negoziale posto a base della pretesa di pagamento è rilevabile
d'ufficio, ai sensi dell'art. 1421 c.c., anche in sede di gravame, qualora sia in contestazione
l'applicazione o l'esecuzione del contratto per esser stato chiesto l'adempimento delle obbligazioni
da esso derivanti, giacchè in tale ipotesi la validità dell'atto si pone come elemento costitutivo della
domanda, che il giudice è tenuto a verificare (si vedano Cass. n. 27088, n. 21141 e n. 4853 del
2007, nonchè Cass. n. 4094 e n. 19882 del 2005). L'applicazione di tale principio, tuttavia,
presuppone, appunto, che in primo grado vi si stata contestazione in ordine alla validità o
all'efficacia del titolo negoziale sul quale la pretesa del creditore è basata. Nel caso in esame,
viceversa, la corte d'appello espressamente riferisce (citando testualmente un passaggio della
sentenza del tribunale) che nell'atto introduttivo "l'opponente non contesta la debenza di quanto nei
suoi confronti ingiunto", limitando invece la sua doglianza alle modalità di gestione del conto ad
opera del delegato sig. S..
Stando così le cose - e la stessa narrativa del ricorso sembra confermare che stanno proprio così parrebbe non residuare spazio per una contestazione sulla validità del titolo azionato dal creditore in
sede monitoria, ormai divenuto intangibile per difetto di tempestiva opposizione sul punto.
Ove si condivida tale rilievo, ne dovrebbe conseguire il rigetto del secondo motivo di ricorso.
2.2.3. In ordine alla terza questione, va rilevato che essa investe un'affermazione della corte
d'appello circa la validità della capitalizzazione (non già trimestrale, bensì) annuale degli interessi
maturati sul saldo passivo del conto corrente bancario. Ma tale affermazione, nell'impugnata
sentenza, segue il già riferito rilievo della novità - e quindi dell'inammissibilità - del motivo
d'appello concernente la misura degli interessi. E' perciò da considerare del tutto priva di carattere
decisivo, giacchè la pronuncia d'inammissibilità della domanda comporta la carenza del potere di
esaminare la causa nel merito, con la conseguenza che la relativa decisione, eventualmente resa dal
giudice in aggiunta alla dichiarazione d'inammissibilità, è improduttiva di effetti giuridici: donde
anche il venir meno dell'interesse della parte ad impugnare (si vedano Cass. n. 15234 del 2007,
Cass. n. 9973 del 1998, Cass. n. 9555 del 1993, Cass., sez. un, n. 2078 del 1990 e, con specifico
riguardo alle pronunce d'inammissibilità per difetto di giurisdizione o competenza, Cass., sez. un.,
n. 3840 del 2007).
Il terzo, quarto e quinto motivo del ricorso potrebbero perciò risultare inammissibili, o comunque
assorbiti dal rigetto del secondo motivo.
2.2.4. In ordine alla quarta questione appare necessario richiamare il principio, più volte enunciato
da questa corte, secondo cui nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo l'opponente che
intenda chiamare in causa un terzo non può convenirlo direttamente in giudizio con l'atto di
citazione ma ha l'onere di chiederne l'autorizzazione al giudice, a pena di decadenza, nell'atto di
opposizione (si vedano, tra le altre, Cass. n. 13272 del 2004 e n. 3156 del 2002, nonchè Cass. n.
8718 del 2000).
Alla luce di tale insegnamento, che non sembra idoneamente confutato da parte ricorrente mediante
la mera contrapposizione di contrarie decisioni di alcuni giudici di merito, anche il sesto motivo di
ricorso potrebbe essere rigettato".
La relazione è stata notificata alle parti e comunicata al pubblico ministero unitamente al decreto di
fissazione dell'adunanza in camera di consiglio.
Parte ricorrente e le banche resistenti hanno depositato memoria nei termini di cui all'art. 380 bis
c.p.c..
2.- Il Collegio condivide le conclusioni della relazione e le argomentazioni sulle quali esse si
fondano e che conducono all'accoglimento del primo motivo del ricorso, al rigetto del secondo e del
sesto e alla dichiarazione di assorbimento dei rimanenti motivi.
Invero, non appaiono decisivi gli argomenti invocati dalle banche resistenti nelle memorie. Queste
ultime, invero, ribadiscono la non rilevabilità d'ufficio del pagamento invocando e, inoltre,
deducono che il pagamento, nella concreta fattispecie, sarebbe avvenuto ad opera del fideiussore, il
quale avrebbe pattuito una clausola contrattuale in virtù della quale egli non potrebbe agire in
surrogazione se non dopo l'integrale estinzione del debito.
Sennonchè va condivisa e va data continuità alla giurisprudenza richiamata nella relazione quanto
alla rilevabilità d'ufficio del pagamento, la quale opera anche in relazione alle obbligazioni solidali.
Si è ritenuto, infatti, che "in tema di obbligazioni solidali passive, per le quali costituisce regola
fondamentale che tutti i debitori siano tenuti ad un medesima prestazione in modo che
l'adempimento di uno libera tutti i coobbligati (art. 1292 c.c.), l'avvenuto pagamento determina
l'estinzione ipso iure del debito anche nei confronti di tutti gli altri coobbligati, e tale effetto
estintivo, rilevabile e deducibile anche in sede di legittimità - atteso che l'eccezione di pagamento
integra una mera difesa della quale il giudice deve tenere conto ove essa risulti comunque provata,
anche in mancanza di un'espressa richiesta in tal senso - opera anche nei confronti di altro
coobbligato che non si sia avvalso della facoltà di invocare, in altro giudizio di merito, l'estensione
ex art. 1306 c.c. del giudicato già conseguito dall'altro coobbligato" (Cass., 2.7.2004 n. 12174).
In ogni caso, l'esistenza della clausola invocata dalle resistenti non risulta dalla sentenza impugnata
e, comunque, l'eventuale operatività di essa - se esistente - anche nei confronti del debitore
principale potrà essere accertata dal giudice del merito in sede di rinvio.
La sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte di appello di Milano in
diversa composizione per nuovo esame e per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, rigetta il secondo e il sesto motivo di ricorso e
dichiara assorbiti i rimanenti motivi;
cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano in diversa
composizione per nuovo esame e per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2012