Il Cuore nel Pozzo - WORDS n SWORDS

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Il Cuore nel Pozzo - WORDS n SWORDS
Torri di Babele
Raccolta di Racconti Drammatici
ALBERTO VENCO
WORDSnSWORDS
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Torri di Babele
–I–
Il Cuore Nel Pozzo
Il ragazzo è reale, il pozzo no: questo racconto è dedicato a tutti quei ragazzi
che se ne stanno rinchiusi all’interno del proprio pozzo.
pozzo
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Il Cuore nel Pozzo
Gabriele si svegliò nel cuore della notte, disturbato dal ronzio delle mille
cicale sparse fra la verde e immensa campagna che lo circondava. Ormai la
primavera era ben più che inoltrata, ma nonostante ciò durante alcune notti
faceva ancora abbastanza fresco; di certo gli abiti del ragazzo, zuppi d’acqua
stagnante, non contribuivano proprio a tenerlo riscaldato.
Aveva ancora la vista sfocata, probabilmente a causa della caduta; per
colpa del buio non si rendeva ancora conto di dove fosse finito: era disteso a
terra, immerso fino al bacino nella putrida pozza rafferma; davanti a sé, sullo
specchio d’acqua sotto cui rimanevano immerse le sue gambe, una grande
luna piena si rifletteva in tutta la sua contenuta luminosità.
Posò una mano sulla tempia sinistra: riusciva a sentire al tatto il calore del
rivolo di sangue che gli scendeva dalla testa e cominciava a seccarsi verso la
guancia; in un baleno si rese conto dell’incredibile quanto inusuale situazione
e subito si alzò in piedi: l’acqua ora gli arrivava solo poco più sopra delle
caviglie.
Puntò lo sguardo verso il cielo stellato e cominciò ad urlare e a strillare e a
dimenarsi, invocando aiuto, invocando salvezza; sapeva benissimo che in
mezzo a quei campi nessuno lo avrebbe sentito, né tanto meno – figuriamoci
– aiutato.
Si fece forza e riprese fiato, ansimando: prese a girare intorno alle mura,
posandoci sopra le mani e puntando l’occhio in qualche crepa che potesse
fungere da appiglio per aiutarlo a fuggire verso l’alto; qua e là tentava di
arrampicarsi, ma invano – ottenendo solo ancora più dolore ogni volta che gli
si sgretolava un’unghia, spargendo così orme insanguinate ovunque.
Continuò così per diverse ore, urlando a squarcia gola senza ottenere
risultati; deprivato di ogni speranza, sospirò e crollò in un pianto sconsolato:
in quel preciso momento la rassegnazione prese il sopravvento e Gabriele
capì realmente quanto disperata fosse la situazione in cui si trovava; senza un
miracolo non sarebbe uscito vivo di lì. Si sedette presso i riflessi della luna,
dove una squallida roccia viscida – il muschio la rivestiva – riusciva ad
emergere dall’acqua paludosa. Che puzza di cadavere.
“Puzzerà ancora di più...” pensò fra sé e sé il ragazzo. “...se non riuscirò ad
uscire di qui.”
Non c’era nulla da fare; da lì non si poteva uscire; inutile dimenarsi, inutile
incazzarsi con se stessi – o col mondo. Si dovette sedere, non gli restava altra
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Torri di Babele
scelta: l’ansia si espandeva più impetuosa dell’odore, e le gambe parevano
non essere più in grado di reggerlo.
Quando si posò su quella roccia fredda sentì qualcosa di compatto nei
pantaloni; inserì la mano in una delle tasche posteriori dei jeans e ne tirò
fuori un pacchetto di gessetti bianchi, di quelli che si usavano una volta a
scuola, quando le lavagne elettroniche non esistevano ancora e le aule ti
accoglievano con il loro polveroso aroma gessoso.
“Ma come cazzo ci sono finito qui, nel fondo di questo buco fetido?”
continuava a chiedersi a bassa voce il ragazzo. Pose la testa fra le mani e
cominciò a vagare nella sua mente alla ricerca di pensieri e ricordi, interrotti
sempre più spesso da interminabili singhiozzi; rintoccavano fra le mura come
dirompenti campane a lutto.
Sforzandosi di ricordare qualcosa, Gabriele cominciò ad esaminare la
scatoletta di gessetti: provò a ricordare dove li avesse presi, chi glieli avesse
dati, per quale motivo; nulla. Il dolore alla testa era troppa, e l’angoscia
troppo dilagante: anche i ricordi – paralizzati dallo spavento – si
nascondevano al buio.
“Qualunque sia il motivo per cui ho questi in tasca, potrebbero servirmi
per ricordare.” E così dicendo inserì la scatoletta di cartone in una fessura fra
la pietra, abbastanza spaziosa da accoglierla al suo interno sporco e freddo; il
ragazzo si risedette sull’umida pietra, a volte sciogliendosi in lacrime, a volte
strillando, a volte pizzicandosi il braccio destro sperando di svegliarsi da un
brutto incubo.
Più contemplava l’assurdità della sua vicenda – e più si rendeva conto
delle ipotetiche nonché drammatiche conseguenze – più la sua testa girava
vertiginosamente; essa si perdeva in un baratro di paure e insicurezze, fino a
farlo svenire solo e al buio, con gli occhi ancora gonfi e arrossati dalle lacrime
perse e riversate in quel gelido pozzo.
***
Il ragazzo sentì i caldi raggi del sole che inondavano il suo corpo, facendolo
sentire quasi a casa; esplorò il terreno attorno a lui con le mani, quasi a
controllare che non stesse sprofondando sott’acqua: tutto asciutto. Il sole era
rovente, saranno state le due del pomeriggio.
“Niente acqua.” pensò Gabriele “Non sono in un pozzo; sono a casa,
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Il Cuore nel Pozzo
sdraiato in giardino. Probabilmente ieri sono tornato a casa tardi, avrò
sicuramente bevuto troppo, così tanto da essermi addormentato sul prato
del vicino.” ripeteva fra sé e sé come a cercare di confortarsi da solo. “Meglio
che mi alzi, e che entri in casa. Magari mamma è già rientrata dal lavoro e
non mi trova da nessuna parte.” Rassicurato dai propri pensieri, aprì gli occhi
e si guardò intorno – lo sguardo stupefatto ed incredulo.
Le spoglie mura grigie in tufo lo circondavano su ogni lato, facendo sentire
il giovane oppresso da quei grandi agglomerati di pietre, macchiate in ordine
sparso da chiazze di muschio e muffa; le strette pareti – su di esse, ancora si
intravedevano le ormai secche impronte insanguinate della sera precedente
– comprimevano l’aria tanto da costringerlo ad ansimare, come se una fredda
morsa gli stritolasse i polmoni. La solitudine.
Quella notte i sogni erano stati terribili: creature demoniache spuntavano
dal sottosuolo del pozzo e ne divoravano il malcapitato ospite, fracassando le
sue ossa con denti affilati; terremoti improvvisi facevano tremare le pareti
del pozzo fino a farle crollare sopra il cranio del giovane, schiacciandolo sotto
i polverosi detriti; ma più di tutto lo terrorizzava il Buio. Non la comune paura
del buio, ma l’oscurità rappresentata da una entità che lo tentava,
portandolo nella direzione sbagliata, magari verso un precipizio.
Infine il suicidio: sognò più volte il suicidio, una soluzione semplice per
mettere fine a quella disavventura, nel caso in cui nessuno avesse potuto
salvarlo da quella catastrofica fine, che ormai sembrava più che certa.
Annegamento, botte in testa con pietre affilate, qualunque mezzo per
terminare quell’agonia silenziosa.
Silenziosa, sì: nessun rumore o suono o vibrazione rompeva l’aria, né qualche
chiacchierata, qualche cinguettio, nulla. Sembrava che il mondo, al di fuori di
quel pozzo, avesse semplicemente smesso di esistere.
“Tre giorni.” pensò Gabriele. “Devo averlo letto da qualche parte: senza
cibo né acqua, riuscirò a sopravvivere solo tre giorni. Tre giorni per riuscire a
trovare il modo di uscire di qui!” E al solo pensiero si mise a piangere,
convinto che tre giorni non sarebbero bastati, non sarebbero serviti a nulla; i
soccorsi non sarebbero riusciti ad arrivare in tempo nemmeno se i suoi
genitori si fossero accorti della sparizione il giorno precedente.
Fra un singhiozzo e l’altro puntò lo sguardo su quella sudicia fessura che
conteneva la scatoletta color ocra dei gessetti da dieci pezzi.
“Dove hai preso questi gessetti? Pensa, forza!” disse ad alta voce. Forse fu
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Torri di Babele
il sole, o il fatto che ormai quasi tutta l’acqua ai suoi piedi era evaporata
durante la mattina o era stata riassorbita nel terreno, o forse fu l’eco che
ripeté quella frase altre due volte al posto suo; fatto sta che i primi ricordi
cominciarono ad affiorare.
Era il 28 aprile, il giorno prima; Gabriele stava tornando a casa dalla scuola
di autocorrezione del comportamento – “Una rissa sbagliata, semplicemente
andata male!” aveva sostenuto il ragazzo ai suoi genitori, dopo che era stato
sospeso a scuola per aver rotto il naso ad un compagno di classe – che
seguiva nel pomeriggio. La signora Mastria, l’insegnante di corso, sosteneva
che non vi era modo più naturale e liberatorio dell’arte, per esprimere i
propri sentimenti; arte non solo come pittura, ma anche scrittura, scultura e
tutto ciò che si potesse fare con le mani. “Quanti innamorati che scrivono ti
amo non ritengono ciò un opera d’arte?” continuava a ripetere la donna nelle
poche ore del corso. “Smancerie. Spero questo corso finisca presto.” si era
lamentato con se stesso.
Quel giorno la Mastria aveva regalato a tutti i partecipanti del corso una
scatoletta di gessetti bianchi: “Create lo specchio della vostra vita.” cominciò
lei. “Disegnate o scrivete, anche in poesia, qualche momento particolare della
vostra esistenza. L’importante è usare i gessetti su dei fogli neri, cosicché
risaltino ancora di più. Vi assicuro che anche i meno emozionabili proveranno
qualcosa: non si può mai sapere quante sensazioni potreste ricavarne, dalle
vostre opere positive; buon lavoro e a domani!”
Gabriele aveva preso la sua scatoletta giallastra, l’aveva infilata nella tasca
dei jeans e se n’era uscito dall’edificio scolastico, avviandosi di fretta verso
casa. Quando uscì dal cortile della scuola pubblica, vide la banda di Tommaso
che lo attendeva; lui in testa al gruppetto, il naso ancora fasciato dal pugno
ricevuto. Gliel’aveva promesso, a Gabriele, che prima o poi gliel’avrebbe fatta
pagare cara.
Appena Tommaso lo fulminò con lo sguardo, Gabriele si voltò e cominciò a
correre verso il sentiero di campagna che l’avrebbe riportato a casa; ci
avrebbe messo un bel po’, perché quella strada era molto più scomoda
rispetto a quella che attraversava il centro cittadino – e di fatti nessuno quasi
mai la percorreva.
Per evitare Tommaso, però, sarebbe stato costretto a passare per di lì.
Mentre correva, sentiva il suo cuore agitarsi alla follia; le voci ansanti di
Tommaso e dei suoi amici lo inseguivano come i lupi con la lepre, imprecando
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Il Cuore nel Pozzo
ogni qual volta Gabriele accelerava anziché fermarsi. Dopo mezzo chilometro
di viottolo, Tommaso stava ancora braccando Gabriele, anche se la velocità di
entrambi era drasticamente diminuita per la stanchezza; il sole batteva forte
sulle loro teste accaldate.
Ci volle un bel po’: i due avevano già percorso metà del sentiero prima che
Tommaso decise di rinunciare a quel futile inseguimento; Gabriele,
nonostante i dolori lancinanti alla milza, corse per un altro centinaio di metri
giusto per assicurarsi di aver seminato quel ragazzotto – “Sarà pure grande,
ma è un gran deficiente.” pensava sorridendo.
A fianco del viottolo scorreva tranquillo un piccolo torrente, lungo il quale
anni addietro i pastori erano soliti sostare per riprendere le forze.
“Il ruscello...” pensò Gabriele, ancora seduto sul sasso della sera prima, reso
meno viscido dai radianti bagliori del sole d’agosto.
Restò un momento in silenzio: quel pozzo era molto grande, quasi come una
stanza; aveva la forma ad imbuto, e più si saliva, più il pozzo si restringeva.
Sentiva un lieve ticchettio proveniente da un angolo della cavità: si avvicinò a
quello spigolo buio e accostò l’orecchio alla parete fredda. Il fiume scorreva lì
di fianco a lui, poteva quasi sentire – o almeno immaginare – quelle pure
acque azzurre che sgorgavano a pochi passi dalla sua prigione.
A quel punto gli balenò un pensiero nella testa, tanto improbabile quanto
imbecille: prese il masso su cui era seduto e, nonostante le dimensioni e il
peso, non si diede per vinto e lo tenne sospeso in aria con le sue esili braccia.
Accompagnandosi con un urlo di incoraggiamento, il ragazzo scagliò il masso
contro la parte del pozzo rivolta verso il fiume. Una volta, poi un’altra e
un’altra ancora: pensava che se fosse riuscito a rompere quello strato di
pietra tenera, l’acqua del fiume l’avrebbe aiutato a risalire il pozzo.
Niente, per quanto ci provasse, non ottenne assolutamente nulla. Ripose il
masso al suo posto e lo guardò con più attenzione: “Io ti ho già visto...” pensò
lui e ricominciò a vagare fra i tristi ricordi, nel tentativo di recuperare quella
memoria che gli era stata strappata durante la caduta verso le profondità di
quel baratro.
Dopo aver risalito il sentiero per un po’ di metri, essendosi accertato che
Tommaso non facesse più parte di quella maratona, Gabriele aveva decise di
fermarsi vicino a quel vecchio pozzo che stava di mezzo fra la strada di
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campagna e il ruscello. Si chinò dietro l’antica struttura in pietra,
accertandosi di non poter venire visto nel caso in cui Tommaso vi
sopraggiungesse; raccolse con le mani dell’acqua dal fiume, usandola per
rinfrescare il viso accaldato.
Aveva corso troppo, era accaldato, e non riusciva più a reggersi in piedi:
l’inseguimento l’aveva distrutto. Stanco morto, si rialzò e posò i gomiti sul
bordo del pozzo; guardando giù di sotto gli sembrava di vedere qualcuno
intrappolato: decise così di sporgersi di più, convinto che – magari – qualcuno
fosse caduto e avesse bisogno d’aiuto.
“Nah. Impossibile!” pensò guardando quella sagoma là sotto, e tentando
di capire cosa fosse. “Come si fa ad essere così scemi da cadere in un pozzo?”
Appena si rese conto che quel qualcosa non era altro che il suo riflesso – il
pozzo non era particolarmente profondo perciò si riusciva ad intravedere
qualche lineamento – il bordo in pietra su cui posava, eroso da secoli di
piogge e tempeste, crollò improvvisamente. Estenuato dalla corsa, Gabriele
non riuscì a contrastare la caduta: precipitò di sotto, battendo il capo proprio
sullo stesso sasso vischioso sul quale s’era seduto la sera prima.
***
Finalmente era riuscito a capire come aveva fatto a finire lì dentro, ora
doveva solo escogitare un modo per uscirne fuori. Continuò per tutta la
giornata a camminare avanti e indietro, urlando ogni tanto per chiedere aiuto
nel caso un passante distratto lo sentisse e potesse così avvertire i soccorsi.
Sapeva però che nessuno usava più quel sentiero di campagna in quanto tutti
preferivano passare per le strade asfaltate del centro anziché in mezzo alle
piante e alle api.
Passata la giornata ad ascoltare impotente le urla del ragazzo, anche il
sole si stancò di sentirlo e la sua orbita sorpassò la sboccatura del pozzo. I
raggi di sole inclinati illuminavano solo una piccola porzione di parete: a
quell’immagine Gabriele restò esterrefatto; come un automa prese in mano
la scatola di gessetti, ne estrasse uno e cominciò a strisciarlo sul muro.
Lo passò e lo ripassò più volte su quella porzione di parete, creando mille
righe che si incrociavano e si avvolgevano fino a formare paesaggi misteriosi,
ma ben conosciuti dal giovane: monti alti e innevati padroneggiavano su una
terra calma e silenziosa, caratterizzata da verdi pascoli e fiumi celestini.
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Il Cuore nel Pozzo
Ovviamente i colori non c’erano, non sulla pietra; ma Gabriele li vedeva, li
immaginava nella sua mente, sognando il giorno in cui avrebbe rivisto quei
paesaggi – non appena fosse riuscito ad uscire da quel pozzo.
E là, al centro del disegno, in mezzo a pecore albe e volpi saettanti, stava una
piccola dimora rustica, dove anni addietro aveva trascorso le vacanze di
natale. Il sole splendeva alto proprio sopra il tetto della casa, e nonostante il
colore uniforme del gesso, Gabriele riusciva a vedere le mille sfumature di
quel prato e le mille rientranze nelle rocce montane; sentiva il profumo del
vento che faceva frusciare l’erbicella sotto gli zoccoli delle pecore,
nonostante l’unico vero profumo che sentisse fosse l’aspro muschio delle
pareti nel pozzo. Tante illusioni.
Il primo giorno era trascorso, e ormai era sera; vedendo quel disegno appena
fatto, il ragazzo si mise ad urlare fino ad esaurire completamente le forze:
ormai rassegnato, pensò che non avrebbe mai più rivisto la sua famiglia, gli
amici, i paesaggi stupendi sparsi per il mondo; non avrebbe mai scoperto
cosa significa essere adulti e i problemi che aumentano sempre più. Non
avrebbe mai scoperto cosa fosse il vero amore. O forse sì? Quella ragazza,
quella giovane dai capelli corti, di un nero purissimo. Quella che fissava ogni
giorno e a cui le parlava come un amico, ma che non aveva mai avuto il
coraggio di parlarle con serietà. Era proprio per colpa di quella ragazza che
Gabriele aveva rotto il naso a Tommaso; chissà se lei ne fosse a conoscenza.
Il giovane prigioniero sapeva di per certo cosa fare, prese infatti un
secondo gessetto e di fianco al paesaggio cominciò a tracciare le linee di un
volto umano: gli occhi accesi e penetranti, le labbra carnose e pronunciate,
quel nasino appena articolato, i capelli corti lungo il viso. Stabilì che se fosse
morto, almeno avrebbe lasciato una traccia di quella che era stata la sua vita,
e quella ragazza avrebbe dovuto almeno conoscere il suo nome e cosa
provava per lei; doveva per forza essere una ragazza importante, perché lui la
pensasse in un momento e in una situazione del genere.
Decise però che non bastava un ritratto, né voleva aggiungere cuoricini e
bacetti come fanno i dodicenni sui quaderni o sui diari di scuola. Così si
distese nel suo piccolo angolo asciutto e si mise a guardare il cielo sempre più
adornato di stelle luccicanti.
Nel tentativo di trovare un’ispirazione si addormentò di sasso, ma tutto ad
un tratto spalancò gli occhi come se fosse stato colpito da un fulmine: afferrò
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Torri di Babele
il pezzo di gessetto quasi consumato e si mise a scrivere sotto il disegno:
Le stelle ricoprono l’animo tuo
e come angeli ti proteggono dalla notte buia
“No, di certo non le piacerebbe.” pensò fra sé e sé; prese un po’ di terra da
sotto i piedi e la strofinò sopra la poesia appena scritta, cancellandone ogni
traccia biancastra. Cominciò a camminare avanti e indietro, poi si avvicinò
nuovamente:
Mille stelle stan là per fissarti:
la luna invidia il tuo splendore
Nemmeno questa sembrava andargli a genio: ripeté quel che aveva fatto
prima con la terra e cominciò a pensare a qualcosa di nuovo:
Come tante stelle le lacrime tue cadranno dal cielo,
riempiendo di tristezza il mio cuore nel pozzo...
Stava per cancellare pure questa frase, magari per scriverne un'altra, o
lasciare lo spazio vuoto, o magari per riscrivere una delle due precedenti; ma
dato che aveva finito il secondo gessetto – “Mi sembra una buona scusa.” –
decise di smettere di scrivere e andare a dormire.
***
Al secondo giorno ormai Gabriele non si preoccupava più di pensare che
quello che gli stava succedendo fosse un brutto incubo; e, come convinto che
quella fosse una sua nuova vita, quando si alzò non poté fare altro che
conseguire quella che era diventata la sua nuova routine: si mise ad urlare in
cerca di aiuto, camminò nervosamente avanti e indietro, si lamentò con il suo
stomaco borbottante, e infine tentò di arrampicarsi rovinando ancora di più
le unghie, ormai lacerate e insanguinate.
Il sole doveva ancora entrare nell’apertura del pozzo, quindi il fondo era a
malapena illuminato. Sapeva che aveva più o meno due giorni, ma si sentiva
molto debole, tanto che provava il leggero timore di non riuscire a
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Il Cuore nel Pozzo
sopravvivere per così tanto. E si sentiva in colpa quando questo timore
diventava quasi una beata liberazione; forse morire non sarebbe stato così
male.
“Dove sono i miei genitori? E i miei amici? Forse non mi sta cercando
nessuno…” continuava a pensare disperato Gabriele. In realtà, ad una decina
di chilometri di distanza, tutti quelli che conoscevano e non conoscevano il
giovane ragazzino disperso erano sulle sue tracce, speranzosi di trovarlo.
Ma Tommaso – “Quel bastardo...” pensava Gabriele dalla sua prigionia. “E’
tutta colpa sua.” – non aveva ancora detto nulla dell’inseguimento; la paura
di finire in qualche guaio più grosso di lui lo frenava dal rispondere delle
proprie azioni: purtroppo si sa che chi tiene troppa aggressività la usa per
sostituirla al coraggio. Così tutte le ricerche erano concentrate in città, poiché
nessuno aveva ancora pensato a quella via secondaria, sperduta fra i campi.
Al solo pensiero di essere stato abbandonato, il giovane prese un terzo
gessetto e cominciò a delineare lungo l’umida parete un nuovo disegno: un
alto fusto si alzava verso il cielo, diramandosi sempre più in mille strade che
conducevano verso mille direzioni diverse; bastava percorrerle al contrario,
invece, per farle tornare tutte sempre sullo stesso punto – la bellezza degli
alberi, e i suoi diversi punti di vista.
I rami della pianta che stava disegnando erano forti, robusti e pieni di
fogliame, tutti rigogliosi e ben saldi al tronco. Però un solo ramo, uno solo ed
esile, giaceva presso le radici, privo di foglie, ormai marcio, spezzatosi e
allontanatosi dai tubi linfatici che l’avevano nutrito; quel ramo era lui; scrisse
Gabriele, a fianco di esso:
Perché mi avete abbandonato?
E così un altro gessetto se n’era andato; ma ne rimanevano altri sette: se
fosse morto, avrebbe avuto solo dieci gessetti bianchi per far conoscere a
tutti chi era veramente.
“Sono stanco di parlare da solo…” dissero prima il ragazzo e poi l’eco del
pozzo.
Tirò fuori un quarto gessetto dalla scatoletta cartonata e si accovacciò a
terra: dopo un paio d’ore ebbe finito la sua nuova opera d’arte.
“Come ti senti, Sax?” Gabriele aveva disegnato un viso sopra il sasso sul
quale aveva sbattuto la testa; l’aveva ritratto come un signore di mezza età: i
capelli già un po’ caduti, gli occhiali da vecchio spessi come tappi di bottiglia,
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Torri di Babele
un accenno di cravatta. Sembrava quasi il suo professore delle medie, quello
di storia, quello anziano – quello che di storia ne aveva veduta e vissuta un
bel po’.
Sopra il sasso, dalla parte verso cui si appoggiava alla parete, Gabriele
disegnò un grande cartello con lampadine, un po’ alla Las Vegas, con scritto
in caratteri enormi SaX, il nuovo nome del suo amico sasso. “Stupido.” balenò
nella mente di Gabriele. “Stai parlando con un sasso.”
Si mise a ridere come non faceva da parecchio tempo, una risata alquanto
isterica; si immaginò un sasso sassofonista e poi un sassofonista che ‘resta di
sasso.’ Rise stupidamente, ma rise così tanto che lo sforzo gli provocò una
dolorosa fitta al cuore, come se quest’ultimo stesse per cedere: il colorito del
volto si faceva sempre più pallido e lo stomaco continuava a brontolare senza
interruzione da decine di ore, ormai.
“Ecco, sto per morire!” disse ad alta voce. Nemmeno l’eco ebbe il coraggio
di ripetere quelle sue disperate parole. Poi tutto d’un tratto il ragazzo si
riprese, il suo battito tornò normale e smise di sudare.
Sapeva che ormai si avvicinava la fine, così decise di riprendere a
disegnare. Con un quinto gessetto ripassò più volte il contorno della propria
mano sulle pareti, e dentro ogni palmo scrisse una breve poesia: per la
madre, i fratelli, il padre, gli amici, e anche una per Cassandra.
Finito il quinto gessetto prese il sesto, cominciò a disegnare una spiaggia
che si estendeva fino alla riva; là dove la distesa sabbiosa lasciava posto al
mare, questo iniziava e si sperdeva fino all’orizzonte: il sole sorgeva dietro
agli scogli.
Ormai era tardi e il ragazzo si accasciò a terra, privo di forze, tentando di
dormire. Proprio in quel momento, un Tommaso perseguitato dai rimorsi
venne interrogato dalla polizia per non aver contribuito a parlare quando
avrebbe dovuto: uno dei suoi amici infatti confessò di aver aiutato il ragazzo a
spaventare Gabriele fino alla strada di campagna. Subito, tutti coloro che
partecipavano alla ricerca dello scomparso cominciarono a disperdersi fra i
campi, tentando disperati di trovare qualche misero segnale che potesse
fungere da indizio. Anche Tommaso, che sembrava veramente pentito, si
mise sulle tracce di Gabriele, ripercorrendo la strada di pochi giorni prima.
Ma il tempo di certo non aiutava, perché anche le nubi cominciavano a
setacciare il cielo, rendendo le ricerche ancora più complicate. Il vento
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Il Cuore nel Pozzo
soffiava forte, tanto che gli alberi stridevano piegati sotto la forza dell’aria; i
vecchi del luogo già annunciavano la tempesta imminente.
All’improvviso una voce svegliò Gabriele: “Ehi tu, là sotto! Riesci a
sentirmi?” Gabriele sbarrò gli occhi di colpo e li puntò verso l’alto; la voce lo
chiamò nuovamente.
“Sì! Sono qui! Aiutami!” rispose Gabriele. Ma quello là in cima si mise a
ridere e saltò giù di botto. Nonostante la notte buia, Gabriele riusciva a
vederlo: era lui stesso.
“Sai, è strano… due giorni qui e nessuno ti ha ancora trovato...” cominciò il
Gabriele appena tuffatosi. “Beh, non c’è nulla di strano, come fanno a trovarti
se non ti cercano? Forse non si sono nemmeno accorti che sei scomparso.”
concluse ridendo.
“Sei un sogno? Un allucinazione? Oh no, sei il Buio, sono morto?” chiese a
raffica Gabriele.
“Boh, non lo so!” disse, leggermente scocciata, la presenza. “Ma, ehi, non
m’importa. Quello nel pozzo sei tu, non io. Ah, bei disegni! Guardandoli mi
viene da chiederti: ma cosa cerchi tu nella vita? In quei disegni c’è amore,
lealtà, fiducia. Ma tu sei qua giù, solo… Cos’è che vuoi veramente?”
Gabriele non reagì alla provocazione, e si limitò ad urlargli contro: “Voglio
che tu sparisca per sempre dalla mia vita!”
Il Buio, scocciato, mise il broncio; stava per pronunciare la sentenza, ma non
fece in tempo a replicare che il ragazzo si svegliò.
Le stelle non c’erano più, e non c’era nemmeno la luna; solo grossi
ammassi di nubi nere coprivano il cielo; il vento, invece, avvolgeva qualunque
suono fosse al di fuori del pozzo. Anche le voci dei soccorritori, che
nonostante le intemperie si avvicinavano sempre più al ragazzo, erano state
ricoperte.
A Gabriele girava la testa: non aveva ancora molto tempo da vivere.
Decise che, se avesse dovuto morire quella notte, sarebbero dovute esserci
anche le stelle e la luna. Prese due dei tre gessetti che gli rimanevano e
ritrasse pian piano la volta celeste. Stelle e costellazioni si alternavano qui e
lì, mentre uno spicchio di luna sovrastava tutto quanto. Ormai era sempre più
convinto che non avrebbe più visto la luce del sole, come se fosse stato
anch’esso intrappolato in quel suo disegno di notte perpetua, fra la luna e le
stelle di gesso.
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Torri di Babele
Prese l’ultimo gessetto; un ronzio continuo aumentava sempre più nella sua
testa: ormai non era nemmeno più in grado di udire il vento. Pose davanti a
sé la mano debole e cominciò a scrivere:
Ormai ho perso il conto di quanti giorni sono stato qui, senza cibo, né acqua.
L’unica cosa che avevo a disposizione erano 10 gessetti bianchi, usati uno
dopo l’altro per dire ciò che non avevo mai detto, per mostrare al mondo chi
fossi veramente. Ormai non ho più forza, ma vorrei trovarla almeno per
scrivere queste ultime righe.
Voglio dire a mia madre di essere forte, e di non dimenticare i miei fratelli:
avranno bisogno di stare con lei non avendo più me. A mio padre non ho
bisogno di dire che faccia il forte, perché lo sarà, prendendosi cura della
famiglia.
Saluto uno ad uno i miei amici, che non dimenticherò mai e che porterò
sempre con me nel mio cuore.
E infine saluto tutti coloro che non hanno la forza di reagire o di esprimere la
loro anima: la vita è vostra e non dovete aver paura né farvi sottomettere, o
rischierete di costruire un pozzo intorno a voi.
Con queste ultime parole non posso fare altro che salutarvi: non ho più
gessetti, né forze, né parole.
Gabriele.
Anche l’ultimo dei dieci gessetti finì: Gabriele non riusciva più a tenersi in
piedi, e si lasciò cadere al centro del pozzo. Un fulmine tuonò illuminando il
cielo: scrosci di pioggia cominciarono a cadere fitti fitti e con una forza
devastante. Il ragazzo chiuse gli occhi mentre le fredde gocce lo colpivano
come aghi. “Sono buonissime.” pensò, assaporandone il gusto salato sulle
labbra.
Intorno a lui nessuno voleva arrendersi e le ricerche continuarono sotto
tuoni e lampi: ormai la gente si avvicinava sempre più a quel vecchio pozzo;
se avesse avuto la forza di gridare, avrebbero potuto soccorrerlo all’istante.
L’acqua piovana purtroppo aumentava velocemente; al suo scrosciare, si
aggiunse improvvisamente un boato disumano che spavento Gabriele. Il
fiume a fianco del pozzo cominciò a straripare a causa della tempesta: l’acqua
– prima cristallina come la pioggia, ora torbida e fangosa – prese ad inondare
la prigione entro cui il ragazzo giaceva.
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Il Cuore nel Pozzo
A Gabriele comunque non importava: anche se avesse avuto la forza per
alzarsi, non si sarebbe mosso, evitando così di stramazzare nel panico,
tentando inutilmente di salvarsi. E mentre il ragazzo veniva a poco a poco
ricoperto dall’acqua, il livello della quale si alzava sempre più rapidamente
cominciando ad intaccare le pareti del pozzo; gli abitanti, attirati da quel
frastuono, corsero verso il fiume.
Ormai però era troppo tardi, e il ragazzo era totalmente sommerso
dall’acqua. “Addio Sax.” pensò guardando la roccia poco lontana da lui, il cui
volto disegnato si stava sciogliendo nel fango.
“Sto per addormentarmi, sto per dormire…” gli occhi si chiusero appena in
tempo per evitare di vedere l’acqua schiantarsi contro i suoi scritti e contro i
suoi disegni: ogni mano, ogni volto, ogni paesaggio, ogni parola che si trovava
su quelle pareti venne sciolta e rimossa per sempre, così come fu rimossa la
vita dal corpo di Gabriele.
E tutto procedeva come un ralenti: la gente che tentava di deviare lo
straripamento, i ragazzi e le madri che piangevano e gridavano, i soccorritori
che tentavano invano di strappare il corpo immobile dalle acque e di
rianimarlo.
Poco a poco anche la pioggia smise di cadere e le nubi si sciolsero; pure il
vento tacque. Un pallido raggio di luna colpì la parete della cavità; fra gli aloni
sbiaditi del gesso cancellato, spuntava in alto una piccola poesia che era
riuscita a salvarsi dall’acqua:
Come tante stelle le lacrime tue cadranno dal cielo
Riempiendo di tristezza il mio cuore nel pozzo...
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