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Quinto Antonelli
Le ore di Trento
Una delle prime pubblicazioni che nell’immediato dopoguerra diedero conto dei
tormenti sofferti dalla popolazione trentina si intitolò, in modo significativo, Il martirio del Trentino1, inaugurando una terminologia religiosa che rischiò alla lunga di
apparire non solo fastidiosa, ma anche ambigua e inutilizzabile. «Eppure – ha scritto Fabrizio Rasera – quando si pensa allo smembramento delle famiglie e di tutte
le articolazioni della società civile, al Trentino lacerato dei militari in Galizia e dei
volontari nell’esercito italiano, dei profughi nell’Impero e in Italia, degli internati a
Katzenau perché ritenuti filoitaliani e più tardi degli internati all’Asinara o altrove
perché ritenuti austriacanti, ai paesi distrutti e alle città di legno inventate per i profughi in Austria, la metafora che ricorre immediatamente alla penna è proprio quella dei tremendi martirii o supplizi dell’antico regime, quando i corpi dei condannati venivano squartati e umiliati»2.
Si trattò, in altri termini, di una guerra «totale» che entrò nelle valli e nelle città,
coinvolse, in una prova drammatica e logorante, i civili e operò per «la conquista
delle loro anime»3.
Soldati
La sera del 27 luglio 1914, appena fu nota la dichiarazione di guerra alla Serbia, le
autorità militari inscenarono, nelle maggiori località del Trentino, manifestazioni
di apparente euforia con fiaccolate e con la musica delle bande di reggimento.
Quattro giorni dopo, il 31 luglio, l’imperatore d’Austria impartiva l’ordine di mobilitazione generale dell’esercito e della leva in massa. Migliaia di uomini dai 21 ai
42 anni (reclute, congedati e riservisti) affluirono ai rispettivi depositi per essere inquadrati nei 4 reggimenti Kaiserjäger dell’esercito comune, nei 3 reggimenti di montagna (Landesschützen, dal 1917 Kaiserschützen), oltre che nella milizia territoriale austriaca (Tiroler Landsturm). Durante il conflitto la mobilitazione si estenderà di ulteriori 14 classi fino a comprendere gli uomini abili dai 18 ai 50 anni4. Così circa
55.000 trentini di lingua italiana furono avviati alla guerra.
Nel Trentino, alla partenza dei soldati, non vi furono manifestazioni di entusiasmo collettivo, nessun patriottismo esultante, nessuna espressione di quell’Augu-
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sterlebnis che pure altrove, in Austria come in Germania, aveva caratterizzato i primi giorni del conflitto.
Profonda costernazione, amarezza, opprimente senso di incertezza, speranza in
una rapida fine, presentimento di morte: erano piuttosto questi i pensieri e sentimenti dei soldati e delle loro famiglie, riflessi nei tanti diari di guerra. Le stazioni
ferroviarie di Rovereto e di Trento divennero, nella scrittura popolare, luoghi carichi di significati simbolici: concretamente «il luogo della lacerazione dalla comunità
che si lascia con una pena di intensità sconosciuta»5.
La destinazione dei trentini fu il fronte orientale: la Galizia, la Bucovina, la Volinia, a contrastare i reparti dell’esercito russo.
Il treno colmava gli ottocento chilometri che separavano Trento dai campi di battaglia in cinque, sei giorni, e il paesaggio passava davanti agli occhi dei soldati, incarrozzati spesso in vagoni che erano serviti per il trasporto del bestiame, «come una
variopinta pellicola cinematografica, che sempre si rinnova»6.
Ma una volta giunti erano colti dalla sorpresa, se non dallo sgomento di fronte
alle popolazioni contadine polacche e al loro modo di vivere: «sono colpiti dalla loro povertà, dal loro abbigliamento sporco e trasandato, dalla fatiscenza delle abitazioni, dalla mancanza di pulizia, dall’abbondanza di parassiti, dalla promiscuità di
persone e animali»7. La presenza degli ebrei, in particolare, così numerosa e così appariscente imprimeva un marchio incancellabile nel paesaggio galiziano, tanto da alimentare tra i soldati il pregiudizio antisemita, già ampiamente diffuso in patria dalla pubblicistica cattolica8. «Un vecchio ebreo – scrive il trentino Botteri giunto in Galizia il 2 ottobre 1914 – dal sudicio soprabito nero, dal cappello volpino a cocuzzolo
basso e tondo come il fondo d’un paiolo, cogli immancabili riccioli lungo le tempie,
la barba lunga di colore impossibile, e lo sguardo mai fermo, lucente d’intelligenza e
guasto d’alcool, offre un po’ di formaggio. [...] Una razza singolare questi ebrei! Untuosi coi forti, ipocritamente piangenti con chi comanda, diventano grifagni con chi
onestamente vuole pagando; sono iene con quelli che diventano loro debitori!»9.
Al fronte anche i soldati di nazionalità italiana furono subito coinvolti nelle sanguinose battaglie di Grodeck, Gorlice, Leopoli e travolti dalla controffensiva dell’esercito russo che in pochi mesi occupò la Galizia orientale e centrale fino a giungere al campo trincerato di Cracovia10. Conobbero, spesso con disperazione, una
guerra moderna che ai bombardamenti assordanti e allo scoppio degli shrapnels aggiungeva gli assalti con la baionetta, la lotta corpo a corpo, le spaventose cariche
dei cavalieri cosacchi; e poi la distruzione dei villaggi e dei raccolti e l’opera sistematica degli «impiccatori» militari, che conducevano una loro guerra di pulizia, giustiziando presunte spie e sabotatori galiziani.
La ferocia degli scontri è riflessa nei numeri dei caduti: alla fine del primo anno
di guerra, l’esercito austro-ungarico aveva perso 994.000 uomini, più di un milione quello russo11.
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Molti dei 10.500 caduti trentini che si conteranno al termine del conflitto (uno
ogni cinque arruolati), morirono in questi primi mesi, mentre altri caddero prigionieri dei russi, quando non agevolarono con la diserzione la propria cattura. Una via
di fuga che non sempre era dettata da un atteggiamento nazionale filoitaliano, anzi i più erano mossi da una serie complessa di motivazioni: il «trauma galiziano»,
ovvero la traumatica scoperta della realtà della guerra con le sue sanguinose battaglie, fu certo un fattore decisivo nell’accelerare forme di renitenza militare12. Dispersi in una moltiplicità di corpi di truppa stranieri, ai trentini non fu permesso
di socializzare, di integrarsi in una «comunità» di eguali, presupposto indispensabile per conservare una disponibilità prolungata a resistere.
Inoltre i soldati trentini erano obiettivamente vittime di misure discriminanti nel
reclutamento, nell’assegnazione ai corpi e nella concessione delle licenze. A tutto
questo si aggiunse, con l’entrata in guerra dell’Italia, l’aperta diffidenza dei comandi nei loro confronti che sfociava spesso in punizioni e maltrattamenti. Così che il
malumore, se non l’odio dichiarato «si dirigeva verso il corpo ufficiali, in maggioranza tedesco, che fra i soldati italiani assurgeva a una sorta di onnipresente “nemico ideologico”»13.
Quanto profondo e vero fosse quest’odio per gli ufficiali è documentato più volte nei diari e nelle memorie dei soldati. Come nel testo del «disertore» Alfonso Cazzolli che, stanco dei rimproveri e delle angherie di un ufficiale ungherese, giura di
vendicarsi al momento opportuno: «I Russi sparavano fortemente, [...] e vedo uno
spettacolo orribile, gli Austriaci cadevano a frotte, fra l’Artiglieria Russa, le mitragliatrici e le armi, in più le artiglierie austriache tiravano sopra di noi, io e Luigi osservamo questo spettacolo, io osservo bene e vedo l’ufficiale Maggiaro a pocchi passi da me, con la rivoltella in mano costringeva tutti a proseguirre oltre, fu alora che
mi venne la decisione, presi la mia arma la punto ben bene e lascio partire il colpo,
altro non so, è caduto... morto?... non so altro»14.
Il lungo itinerario della prigionia aveva inizio ancora sul campo di battaglia, in
mezzo ai corpi inerti dei compagni caduti, tra i lamenti dei feriti. Poi, suddivisi in
due gruppi distinti, quello degli ufficiali e quello della bassa forza, i prigionieri austriaci raggiungevano in treno i campi di raccolta come quello tristemente famoso
di Darnitsa presso Kiev15.
Lì e in altri concentramenti le condizioni igieniche e sanitarie dei prigionieri erano disastrose, tanto che nel dopoguerra ci si chiese se il numero dei trentini morti
in prigionia non fosse stato superiore a quello dei caduti sul campo. Fuori dai luoghi di raccolta, le situazioni di prigionia erano straordinariamente diverse. «Ed abbiamo viaggiato e viaggiato! [...] – scrive lo studente Annibale Molignoni – mi fu
fatta percorrere in tutti i sensi, dall’occidente all’oriente, dal mezzogiorno al settentrione, la Russia europea, anch’essa vasta e immensa con i suoi cinque milioni di chilometri quadrati»16.
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Per altri si aprirono le estensioni quasi infinite della Siberia, dove cercarono di
sopravvivere, lavorando nelle imprese addette alla costruzione delle ferrovie, nei boschi, nelle fattorie dei contadini; o si industriarono a fare il loro vecchio mestiere
d’artigiani.
Di questa vicenda furono protagonisti circa 25.000 soldati italiani di cui presumibilmente più della metà trentini.
Molti di loro, tra il 1915 e il 1916, ebbero la fortuna di incontrare la Missione diplomatica italiana inviata in Russia, in seguito agli accordi intercorsi tra i due governi, per contattare i prigionieri austro-ungarici di lingua italiana, guadagnarli alla causa dell’irredentismo e, infine, condurli in Italia17. A Kirsanov (nel Governatorato di Tambov) venne organizzato un campo di accoglienza, in grado di offrire
anche una prima acculturazione patriottica. Nell’autunno del 1916, con tre diversi
convogli, circa 4000 ex prigionieri partirono dal porto di Arcangelo per l’Italia. Ma
non fu il destino di tutti: molti seppero troppo tardi della presenza e delle iniziative della Missione; altri ancora decisero di rimanere fedeli alla divisa austriaca. Così
quando nel 1917 la rivoluzione bolscevica spazzerà via il vecchio Stato e porrà fine
alla guerra, i nostri prigionieri saranno coinvolti, in un modo o nell’altro, dai nuovi
eventi.
Proprio la rivoluzione impedì altri rimpatri, al punto da suggerire ai responsabili militari italiani di trasferire gli ex prigionieri, che nel frattempo erano affluiti a
Kirsanov in numero di 2500, a Vladivostock, al fine anche di sottrarli alla propaganda bolscevica. Ci vollero venti giorni per svuotare interamente il campo.
Fioravante Gottardi lasciò la caserma il 3 gennaio 1918: «cogli altri si va alla stazione. Ma dove prender posto? Il treno è zeppo e un vento glaciale ci penetra fino
al midollo delle ossa. Ma non ci perdiamo di spirito. Scorgiamo un vagone tutto rotto e coperto di neve, esposto alle intemperie. Ma coraggio e su quello a rischio di
giunger morti. Così incomincia il lungo viaggio»18.
Gli ex soldati rivedono i luoghi della loro prigionia: Penza, Celjabinsk, Irkutsk,
Cita. Dopo due mesi, Vladivostock si rivelò solo una tappa: da lì vennero rispediti
in direzione della Cina, nelle concessioni italiane e francesi di Pechino e di TienTsin, da dove settecento di loro furono trasportati in Italia da navi americane passando per gli Stati Uniti.
«Per gli altri fu giocoforza arruolarsi nel Regio corpo di spedizione in Estremo
Oriente (Cseo): in tal modo i Battaglioni neri dei “redenti” (così detti dal colore
delle mostrine) si affiancarono al contingente arrivato dall’Italia per dar man forte
alle truppe dell’Intesa che lì operavano in funzione antibolscevica. Questo nuovo capitolo della loro avventura di guerra, viatico obbligato per il rientro e la riammissione nella nuova patria (fortemente contrastato anche in Trentino dall’opinione
pubblica socialista), ebbe termine nel gennaio 1920, quando avvenne il definitivo e
mortificante rientro in Italia»19.
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Ma l’esperienza dei prigionieri italiani fu ancora più complessa: alcune centinaia di loro vennero inquadrate nell’armata cecoslovacca e un numero imprecisato
si arruolò nell’Armata rossa. Mentre altre migliaia rimasero irraggiungibili sul grande territorio russo.
Una circolare del capo della Missione italiana in Russia che ancora nella primavera del 1919 cercava di rintracciare e raccogliere gli ex prigionieri dispersi, li descriveva realisticamente come provati da ogni sofferenza: «Nessuna sofferenza fu loro risparmiata. Sia nei campi di concentramento, che sui lavori per conto di privati, furono soggetti alla più dura disciplina ed alla più esosa forma di sfruttamento.
[...] È gente, che ha lottato con la miseria e con la fame, che ha veduto la morte vicina di frequente, che moralmente si considera perduta ed a cui le ingiustizie delle
dolorose vicende hanno scosso il sistema nervoso ed ingenerato nel loro animo una
viva avversione per il genere umano e specialmente per le autorità costituite»20.
Profughi
Fu un «esodo», una «via crucis», una «diaspora»: nei racconti dei profughi tornano frequentemente i termini biblici e religiosi a enfatizzare tutta la drammaticità dell’evacuazione messa in atto al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, che trasforma il Trentino da retrovia in teatro di operazioni.
L’eventualità che il Trentino potesse diventare zona di guerra era stata presa in
considerazione fin dal 1912. Successivamente, nel settembre 1914, le autorità militari del comando di fortezza con i capitani distrettuali di Trento, Borgo e Rovereto,
avevano elaborato alcuni piani di evacuazione dei civili, che avrebbero coinvolto, secondo stime del tutto ottimistiche, non più di 26.000 persone21. Ma all’ultimo
momento, nei giorni precedenti il 24 maggio, tali piani vennero giudicati inadeguati
e fu decretato lo sfollamento totale delle località situate a ridosso della futura linea
del fronte (tra cui la città di Rovereto) e nel circondario di Trento, nonché l’evacuazione parziale della città capoluogo. Cosicché il flusso dei profughi si rivelò ben
presto superiore al previsto: il 26 maggio la Direzione generale dei trasporti comunicava che già erano partite 32.000 persone, divenute 60.000 quattro giorni dopo.
Per quanto sul numero dei profughi sussista ancora una certa imprecisione, si può
sostenere che in quei giorni concitati di fine maggio e in forma molto più diluita nei
mesi successivi, abbandonarono il Trentino non meno di 75.000 persone (donne,
bambini e uomini anziani)22.
La partenza delle donne dai loro paesi fu, se possibile, ancor più drammatica di
quella dei soldati e divenne un luogo autobiografico dominante, continuamente ripercorso attraverso gli elementi caratteristici di una «via crucis» laica: il tragitto a
piedi o su carri fino alla stazione ferroviaria, il caos della partenza, il viaggio in car-
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ri bestiame, la scrematura degli uomini e dei ragazzi abili al lavoro militarizzato, l’incertezza circa la destinazione. Furono partenze amare e angosciate per la perdita
della casa e il mondo affettivo che essa poteva significare, un’identità riconosciuta,
la rete sociale del paese. Furono colte, queste povere donne, (ciò sta al centro delle
loro memorie) da un tragico senso di amputazione, ben sperimentato anche dalle
profughe di fine secolo. Circola nei loro testi un sentimento doloroso di degrado e
di vergogna, a vedersi costrette a fuggire con i pochi e improvvisati fagotti, in un
clima di allarme, sotto il controllo dei militari e si paragonano spesso agli zingari e
ai mendicanti23.
Per ragioni sanitarie, di approvvigionamento e di «ordine pubblico» i profughi
vennero coattivamente distribuiti nei capitanati dell’Austria superiore e inferiore,
della Boemia e della Moravia, disseminati su un territorio venti volte più vasto del
Trentino.
L’arrivo non fu meno amaro della partenza. «Impossibile mi riesce a descriverti
tutti i dolori di questa partenza, di questo viaggio interminabile. Quante volte ti
ho invocato in mio aiuto, quante volte ho pianto disperata. Finalmente il dì dopo
su carette tirate da robusti cavalli ci hanno trasportati fin qui, a cinque ore dalla città
[Braunau am/Inn in Austria Superiore]. Che bella prospettiva tutto pianure e monticelli, prati e seggala, un po’ di patate e niente più. L’acqua bisogna cavarla dalle sorbe e per lavarsi si è costretti a viaggiare mezza ora per trovare una pozza d’acqua.
[...] Di viveri poi non si trova niente e non si sa come campare. In certi momenti
non so più cosa penso, mi sembra d’esser pazza. Sola con quattro figli, senza tue
notizie e cola tema di saperti morto un dì o l’altro, povero caro! se tu sapessi quanto soffro!»24.
Nei diari delle donne troviamo ben descritto questo stato di «raminghe», lontane dalle loro comunità di origine e dalle loro occupazioni produttive, in una situazione di povertà per molti del tutto nuova, per altri più drammatica di quella
conosciuta in patria: sempre fuori casa a cercare qualche occupazione precaria, cibo, combustibile; a bussare presso i vari comitati di assistenza per ottenere un aiuto, un sussidio, un vestito.
Altre fonti come le migliaia di lettere indirizzate al Segretariato per richiamati e
profughi, con sede a Trento e filiale a Vienna, illustrano l’improvvisazione della partenza, l’assenza di informazioni certe («è solo per 15 giorni», si sentono ripetere gli
evacuati) e segnalano le condizioni di povertà («trovandoci alla miseria qui in questo paese ove fan fredi tremendi siamo senza coperte e senza vestiti», scrivono serialmente al Segretariato)25.
Nel complesso emergono alcuni elementi ricorrenti: la scarsità del vestiario (dovuto al limite dei 5 kg di bagaglio a testa); il problema degli alloggi, costituiti molto spesso da edifici fatiscenti, da cantine malsane, se non addirittura da stalle o fienili; la difficoltà di far fronte con il sussidio, o con i proventi di lavori sottopagati,
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al costo della vita; la diffidenza delle popolazioni locali, specie quelle dell’Alta e Bassa Austria, che imputavano ai profughi la colpa di parlare la medesima lingua degli
italiani «traditori».
La rete dei parroci trentini al seguito degli sfollati, assicurò un minimo di conforto non solo spirituale e costituì, per molti, l’unico solido punto di riferimento istituzionale per le richieste di aiuto e per i problemi di lavoro. Le lettere e le relazioni dei sacerdoti inviate all’Ordinariato vescovile di Trento disegnano la geografia della deportazione e la disseminazione dei profughi in città e paesi e rivelano, nel
contempo, le preoccupazioni pastorali dei parroci trentini che individuano nella
prossimità con i protestanti, nella promiscuità praticata nelle fabbriche, nella diffusione delle idee del socialismo, altrettanti pericoli morali per le giovani donne.
Accanto alle decine di migliaia di profughi che vissero in «diaspora» per tutta
la durata della guerra, altre migliaia vennero concentrate nei grandi lager, come quelli di Mitterndorf e di Braunau a/I, vere e proprie «città di legno», che arrivarono a
contenere 20.000 sfollati. Nonostante che per il governo rappresentassero la miglior soluzione per ricoverare (e sorvegliare) grandi masse di persone appartenenti
alle categorie più deboli, è qui che si consumò il capitolo più tragico dell’evacuazione con un peggioramento intollerabile delle condizioni di vita, mentre si instaurò
per la prima volta la militarizzazione della vita civile. La residenza nei campi era di
fatto coatta, i trasferimenti difficili da ottenere, le uscite rigidamente regolamentate; la posta censurata; l’ordine interno assicurato da gendarmi.
Dosolina Zanelli, subito dopo l’ingresso nel campo di Braunau, scrive al marito prigioniero in Russia: «Ieri siamo arrivati qui: io non posso ancora dire se va bene o male; so solo una cosa: che noi siamo prigionieri. Il nostro vitto è il vitto dei
soldati, i nostri posti per dormire sono pagliericci, come i militari molti l’uno accanto all’altro, 150 in una baracca»26.
Nei campi il sovraffollamento e la promiscuità erano totali: le baracche potevano contenere anche 400 persone, suddivise in stanzoni da 50, 100 persone, uomini, donne, bambini precariamente separati da stracci e coperte. Sottoalimentazione
e condizioni igieniche e sanitarie precarie favorirono un forte e generalizzato aumento della mortalità.
Furono soprattutto i bambini a soccombere per primi e in maggior numero: dei
1931 trentini deceduti nel campo di Mittendorf dal giugno 1915 al dicembre del 1918,
875 (pari al 45,7%) erano di età inferiore ai 10 anni27.
Allo Stato, che teneva saldamente nelle sue mani la gestione dell’assistenza, si
affiancava lo Hilfskomitee für die Flüchtlinge aus dem Süden («Comitato di soccorso per i profughi meridionali») di Vienna, costituito da personalità del mondo politico, culturale ed ecclesiastico delle provincie interessate dall’esodo. Tra i trentini,
il deputato Alcide De Gasperi si trovò, come delegato, a ispezionare il campo di
Braunau e soprattutto gli insediamenti dei profughi in Boemia. E forte di quest’e-
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sperienza, all’apertura del parlamento nella seduta del 12 luglio 1917, poté denunciare la politica assistenziale del governo. Affermò con decisione che i profughi non
furono trattati da cittadini ma « come oggetti da amministrare. Essi vennero evacuati, instradati, perlustrati, approvvigionati, accasermati, come se non avessero alcuna volontà propria, come se non avessero alcun diritto». E come «secondo errore fondamentale» (anzi «un crimine»), De Gasperi denunciava «lo spirito di persecuzione» con cui era avvenuta l’evacuazione: e questo spiegava come si era giunti
ai campi di concentramento28.
Ma quello dei profughi deportati nelle terre dell’Impero fu solo una parte del
dramma che si consumò ai danni della popolazione civile.
La rapida avanzata dell’esercito italiano nel Trentino meridionale venne ad annullare, per i paesi occupati, l’ordine di sgombero totale emanato dai capitanati distrettuali. Così il flusso dei profughi si arrestò per poi cambiare direzione, da nord
verso sud. A ogni spostamento della linea di combattimento, le autorità militari italiane, prive di un piano preordinato, dovettero procedere di volta in volta, spesso
sotto il fuoco dei cannoni austriaci, allo sgombero della popolazione civile. Così in
tre ondate successive si riversarono in Italia, dal maggio 1915 al maggio 1916, 35.000
profughi trentini provenienti dalle Giudicarie Inferiori, dalla Vallagarina, dalla Vallarsa, dalla Valsugana e dall’altopiano del Tesino, dalle valli del Vanoi e del Cismon
e dall’Ampezzano29.
Il governo italiano, colto alla sprovvista da un così alto numero di profughi che
si andava sommando a quello dei sudditi rimpatriati dai paesi in guerra, scelse di frazionarli, dal Piemonte alla Sicilia, in più di trecento comuni. Senza un piano organico, sotto l’urgente stimolo della necessità, i profughi vennero dislocati a numero,
senza riguardo al comune di provenienza e spesso neppure ai legami di famiglia,
presso alloggi privati, ricoveri in comune, vecchi monasteri, ospizi, scuole, asili.
L’assistenza e la cura dei profughi furono affidate alla Direzione generale della
Pubblica Sicurezza, alle prefetture e alle commissioni di patronato, sorte in gran
parte per iniziativa della Dante Alighieri: tre organi diversi, privi di indicazioni
comuni, che provvedevano con criteri molto differenti da zona a zona30. Le
lamentele che si susseguirono dall’estate del 1915, indirizzate perlopiù a Giovanni
Pedrotti, vicepresidente della Commissione centrale di patronato tra i fuoriusciti
adriatici e trentini, ritornavano sulle modalità dell’evacuazione forzata, sul trasferimento nelle località malsane e inadatte dell’Italia centrale e meridionale, sulla
disparità di trattamento e sulla necessità di equiparare l’erogazione del sussidio,
sulla tutela del lavoro.
Anche in queste lettere emergono le autorappresentazioni di gente sbandata e
«raminga»: «Siamo partite da Pieve Tesino per 15 giorni, prendendo con noi il poco che si poteva portare, ora son presto due anni, e la biancheria consumata i vestiti laceri, oramai colle bestie in dosso senza denari, e dimenticate da tutti! [...] In-
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vece da tante parti ci scrivono che i profughi anno vestiti e biancheria, e perché tante indiferenze? non siamo forse tutti miserabili raminghi, privi di tutto? Quando
avevano da farci morire di miseria così lentamente era meglio ci lasciassero lassù sotto il cannone almeno si moriva in un sol colpo»31.
Quella vita di segregazione e di disagi, tra gente indifferente quando non sospettosa, finì per preoccupare (anche dal punto di vista dell’educazione e consenso
nazionali) i politici trentini più accorti. Scriveva, il 1° giugno 1917, Oreste Ferrari,
direttore dell’organo dei fuorusciti trentini «La Libertà» al già citato Giovanni Pedrotti: «In questo momento io sono profondamente convinto, per quello che ò veduto e per quello che conosco, che, se un’azione sana ed energica non sarà svolta, i
profughi che torneranno nel Trentino dalle varie regioni d’Italia saranno italianamente peggiori di quelli che riavremo dall’Austria e questo periodo sarà per loro un
vero e proprio esilio in patria»32.
Dopo la rotta di Caporetto i 35.000 trentini si confusero con i 632.072 profughi civili fuggiti dalle province di Udine, Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza33. Profughi tra profughi, poterono godere dell’assistenza del neocostituito Alto commissariato per i profughi di guerra che si proponeva di regolare in modo uniforme il
soccorso « eliminando le incertezze che qualche volta si notavano nelle autorità e
funzionari preposti ai relativi servizi»34.
Ma per effetto di Caporetto non persero lo stigma d’irredenti e nei loro confronti
si radicalizzarono i pregiudizi, i sospetti e le diffidenze, tanto che il discrimine tra
profughi e internati si fece assai più sottile35.
Scrive a questo proposito don Giacomo Riolfatti, profugo nel comasco al seguito
dei profughi del monte Baldo: «Politicamente dopo l’invasione austro-tedesca nel
Veneto si parlò male di noi, come fossimo anche noi nemici dell’Italia, e il Governo stesso pareva che volesse tutti internarci non so dove»36.
Civili, militarizzati
Le donne e gli uomini che dimoravano nelle valli non direttamente coinvolte dal
conflitto (l’altra metà del Trentino), dovettero comunque subire le durissime leggi
dell’economia di guerra. Già nell’estate del 1914 erano venuti meno gli introiti tradizionali derivanti dall’emigrazione, dal turismo, dal commercio con l’estero. Era
proibito far uscire dai confini dello stato beni utili per l’economia interna, per cui
non si poté, ad esempio, esportare in Italia legname in cambio di generi alimentari e soprattutto di mais. A danno dell’agricoltura e dell’allevamento furono requisiti carri, bestiame e fieno. Negli anni seguenti la spoliazione delle ricchezze residue dei paesi divenne pratica quasi quotidiana: si requisirono gli oggetti metallici,
gran parte degli attrezzi agricoli, lo spago, la lana, gli stracci, le pelli di vacca, ca-
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vallo e capra. Furono mobilitati gli scolari per la raccolta delle foglie di mora e delle ortiche.
Venne introdotta la tessera per ogni genere di prima necessità: una novità che
fu registrata con sarcasmo nei diari popolari. Scriveva l’oste Daniele Speranza il 31
maggio 1917: «La tessera. Questo nome resterà a ricordanza funesta dei poveri abitanti della maggior parte del vasto Impero Austriaco. La tessera è una carta rilasciata dalla Commissione di sostentamento con la quale in determinate ore [ci] si
presenta al luogo di distribuzione e giusta il numero delle persone di famiglia si riceve la stabilita razione di vitto conforme ai depositi e qualità esistenti pella pubblica alimentazione. [...] E così ogni volta bisogna andare colla tessera coi denari
contati, e dopo lunga coda ricevere la piccola quantità che potrebbe servire appena
per un giorno, e deve durare 7 giorni. Fosse almeno genere buono, ma il più delle
volte farina di legno macinato o di torsoli, patate guaste, burro rancido, carne febbrata ecc. E così si va avanti, ma il popolo fra la fame e l’incertezza del termine soffre doppiamente, diventò nevrastenico, piange e diventa egoista»37.
Ad aggravare la penuria alimentare si aggiunse l’onere di alloggiare truppe e di
ospitare profughi e prigionieri di guerra, serbi e russi. Inutilmente i capicomune facevano presente al Comando supremo dell’esercito le difficoltà della convivenza e
denunciavano l’abbattimento irrazionale e massiccio dei boschi, i furti, i danni alle
campagne compiuti dai militari.
In occasione della visita del luogotenente di Innsbruck nell’aprile 1918, mons. Donato Perli, decano e preside del comitato di approvvigionamento di Tione, illustrò
così la situazione economico-sociale del distretto: «Ci tolsero il 32% dei bestiami grossi – in altre provincie e distretti soltanto il 6-8-15%. Ci tolsero il burro, il formaggio,
il fieno. Ci devastarono le selve, ci spremettero la borsa di milioni di corone pei prestiti
di guerra; ci levarono i rami di cucina fin il paiolo della polenta, ed ora i soldati stessi
parte battono alla porta per polenta ed altri vanno a rubarci nei campi le patate
seminate. In compenso non riceviamo che promesse e amare disillusioni»38.
Nelle zone che divennero retroterra organizzativo delle prime linee, la popolazione civile fu di fatto militarizzata: tutti gli uomini non soggetti agli obblighi di
leva come pure le donne e i ragazzi tra i 14 e i 18 anni vennero utilizzati nei cantieri militari o come portatori.
Ancora nelle prime fasi della guerra, che nel Trentino dall’Adamello alla Marmolada fu essenzialmente guerra di montagna, il fabbisogno di operai divenne impellente. Si trattava di scavare estesi campi trincerati e caverne, di costruire casematte
in calcestruzzo e fortificazioni di vario genere, baracche di legno e depositi, sentieri, mulattiere, strade carreggiabili (400 km sul fronte trentino), e poi teleferiche,
funivie e ferrovie, linee elettriche e telefoniche, acquedotti. Così che le esigenze di
quella guerra combattuta sulle cime imposero al paesaggio una progressiva e profonda deformazione artificiale39.
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Tra gli operai militarizzati, il vistoso ingresso delle donne sulla scena bellica inquietò soprattutto i parroci che vi videro il segno di un degrado morale. Ma comunque si prendesse la cosa, non c’è dubbio che dopo la partenza degli uomini le
donne divennero, come si disse, «padrone del paese». D’improvviso le donne dovettero inventarsi come capifamiglia, come artigiani, come operai di fatica, come negozianti40.
Nel corso dei quattro anni di guerra trovarono impiego come cuoche, lavandaie
o nelle cancellerie militari, ma quando la carenza di manodopera andò crescendo, alle donne furono assegnati compiti assai più pesanti a fianco, appunto, degli operai
militarizzati come portatrici di materiale edile (travi, rotoli di filo spinato, sacchi di
sabbia) sino alla linea del fronte. E proprio come i soldati erano esposte al rischio di
cadere travolte dalle valanghe o di trovarsi sotto il tiro dell’artiglieria italiana.
Confinati, internati, sospettati
« L’obiettivo supremo – la vittoria – per il quale noi tutti lottiamo, esige perentoriamente che per la durata dello stato di guerra gli aspetti militari siano anteposti a
tutto il resto». Così si rivolgeva ai primi di giugno del 1915 senza alcuna diplomazia al luogotenente del Tirolo, conte Toggenburg, il generale di corpo d’armata arciduca Eugenio che, con il trasferimento di competenze dell’amministrazione politica alle autorità militari, diventava la suprema autorità della Contea principesca
del Tirolo41.
Già un anno prima, il 25 luglio 1914, in esecuzione della legge del 5 maggio 1869,
erano stati sospesi in parte o in tutto i diritti costituzionali: la libertà personale, l’inviolabilità del domicilio, il segreto della corrispondenza, la libertà di associazione e
di riunione, la libertà di opinione e di stampa. Con il conferimento all’esercito anche del potere politico e giudiziario (il 27 maggio 1915 venne introdotta in Tirolo
la legge marziale) si andava instaurando un «potere pressoché dittatoriale»42.
In questo quadro la popolazione trentina assumeva il ruolo di «sorvegliato speciale» dato che negli ambienti militari era radicata la convinzione che nessun italiano sudtirolese doveva essere considerato del tutto affidabile43.
Così con l’entrata in guerra dell’Italia si provvide con una certa urgenza ad arrestare, su tutto il territorio trentino, quei soggetti politicamente sospetti, ben noti
alle autorità di polizia, che già dal settembre precedente erano stati inseriti in appositi elenchi, via via aggiornati.
Senza alcun processo gli «inaffidabili» furono internati nel campo di Katzenau,
nei pressi di Linz. L’internamento, un metodo alquanto radicale di repressione preventiva, mancava in realtà di una base giuridica precisa, come denunciò Alcide De
Gasperi nel giugno 1917, in occasione dell’apertura del parlamento austriaco.
Le ore di Trento
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Ma per una sorta di diritto di «emergenza bellica» la semplice appartenenza alla Lega nazionale o l’ostentazione della nazionalità italiana (nonché semplici indizi, equivoci, voci) erano elementi sufficienti per subire l’internamento. Fino all’aprile del 1917, quando per un atto di clemenza del nuovo imperatore tutti i trentini poterono lasciare il campo, il numero degli internati oscillò tra le 1700 e le 2000
unità. La pratica dell’internamento colpì soprattutto la piccola e media borghesia
trentina (insegnanti, commercianti, imprenditori, artigiani, impiegati, liberi professionisti), le élite politiche e intellettuali (i podestà, il clero) che davano corpo alla classe dirigente.
Nelle misure dell’internamento e del confino fuori dal Tirolo (una forma più
attenuata di isolamento), le autorità militari coglievano l’occasione definitiva per
mettere fuori gioco l’intero ceto politico, sommariamente definito irredentista. I
consiglieri comunali di Rovereto e di Trento, che non erano riparati in Italia subirono il confino o l’internamento. Valeriano Malfatti, podestà di Rovereto nonché
deputato nazional-liberale fu accusato di alto tradimento, così come il podestà di
Trento Vittorio Zippel.
Lo stesso vescovo di Trento, mons. Celestino Endrici, fu accusato dal Comando
supremo dell’esercito di fomentare il movimento nazionale e irredentistico. Tanto
che dapprima fu allontanato dalla sede di Trento e poi confinato, il 19 giugno 1916,
presso l’abbazia cistercense di Heiligenkreuz, nella Selva viennese. Il «perno» di tutte le accuse – scriveva mons. Endrici in una lettera indirizzata a Benedetto XV –
consisteva nella sua opposizione, nel periodo antecedente alla guerra, alla invadenza
delle società pangermaniste d’ispirazione protestante. Ma poi denunciava al papa
«l’onda spaventosa di odio e di vendetta» che si stava abbattendo sopra il clero e il
popolo trentino e che rispetto agli ecclesiastici assumeva la fisionomia di un vero e
proprio Kulturkampf 44.
Quasi a simbolico coronamento di questa politica di «decapitazione spirituale
della nazionalità italiana in Austria»45, il 12 luglio 1916 Cesare Battisti, deputato socialista e volontario nell’esercito italiano, viene processato e condannato all’impiccagione per il crimine di alto tradimento. Con lui subisce la stessa sorte il roveretano Fabio Filzi, mentre due mesi prima era stato fucilato il giovane Damiano Chiesa: esponenti entrambi di quei 700 volontari trentini che avevano compiuto la
difficile scelta (per molti aspetti estrema) di disertare, di abbandonare le famiglie per
arruolarsi nell’esercito italiano46.
In definitiva nei tre anni della guerra contro l’Italia, il Comando supremo dell’esercito considerò il Trentino come un territorio nemico e i trentini «come un popolo nemico, come un popolo conquistato»47. Contro di loro si aprirono migliaia
di procedimenti penali, rubricati come reati di disturbo della quiete pubblica, alto
tradimento, lesa maestà e oltraggio a un membro della casa imperiale, tesi a reprimere ogni forma, anche minima, di dissenso48.
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Luoghi e figure
Ma anche nel lembo di territorio occupato dall’esercito italiano le ragioni militari vennero «anteposte a tutto il resto». Già la freddezza manifestata dalla popolazione, ben lontana dalle immagini della propaganda, preoccupò non poco le autorità militari italiane. « Voi Trentini siete tutti austriacanti. [...] I miei soldati sono
convinti di fare una guerra di liberazione, non di occupazione, e guai se sapessero
che voi non siete contenti di venir liberati dall’Austria», avrebbe detto, esprimendo tutto il suo disappunto, il general Cantore entrando ad Avio49.
Così sulla base di elenchi preparati da informatori locali che si erano premurati di segnalare le persone ostili e inaffidabili, ora per « sospetto austriacantismo »,
anche le autorità italiane fecero valere immediatamente lo strumento dell’internamento50. Secondo recenti stime circa 1500 persone, di « sentimenti austrofili » e
sospettate di spionaggio, vennero interessate da provvedimenti restrittivi e parte di
questi dispersa per lo più in centri dell’Italia meridionale o internata a Ventotene e
a Ponza51.
Ricomporre le lacerazioni
Il ritorno nel Trentino, divenuto italiano, fu per tutti – profughi, internati, soldati
e prigionieri – un evento traumatico. Trovarono un territorio devastato: pascoli e
boschi pesantemente sconvolti dalle trincee e dalle tante opere belliche e dai bombardamenti, mentre interi paesi, collocati lungo la zone di confine, erano stati distrutti. Inoltre lo spopolamento forzato, le requisizioni, la spoliazione sistematica
delle campagne, la decimazione del bestiame, il generale impoverimento avevano
provocato una drammatica caduta di produttività del suolo.
Entro questo quadro si trattava di ricomporre le famiglie e le comunità lacerate
dai lutti e dalle traversie della guerra; di riprendere il corso di una vita che per tutti era passata attraverso prove e tensioni.
Le centinaia di diari, di memorie, di epistolari prodotte in quegli anni difficili
consentono di rilevare le trasformazioni soggettive (mentalità, religione, scelte politiche, ideologiche e nazionali) che avvennero.
Da esse emerge senza dubbio anche la scoperta e l’affermazione di un’identità
italiana dentro la crisi dell’esercito imperiale o nei campi di prigionia.
« Ma la scrittura popolare diffusa della guerra testimonia anche la difficoltà, o
l’impossibilità, di ridurre la profondità dell’esperienza vissuta entro la categoria della redenzione patriottica. Il mito della guerra eroica, la sua celebrazione monumentale, l’enfasi sul sacrificio dei volontari per l’Italia non potevano incontrare facile adesione presso uomini e donne che della tragedia europea avevano conosciuto direttamente altri volti e altri scenari, e che si trovavano di fronte alla necessità
di elaborare altri lutti»52.
Le ore di Trento
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Ad accentuare l’estraneità delle popolazioni rurali ai miti e ai riti della redenzione
ci fu, dopo la fine delle ostilità, l’internamento dei trentini, già soldati austro-ungarici, nei campi di prigionia italiani. Una sorta di «leggenda nera»53 che enfatizzò, nei
decenni successivi, quella che venne da subito percepita come un’azione punitiva.
Era successo che all’indomani dell’armistizio i militari trentini che erano riusciti a raggiungere le loro case dalle varie località dell’Impero in cui si trovavano
dispersi (quando non dalla prigionia in Russia), su disposizione di alcuni comandi e sulla base di direttive confuse e contradditorie, furono inviati nei campi di
concentramento dell’Italia centrale, come Isernia e Castellamare Adriatico. Vi
rimasero due mesi in condizioni oggettivamente umilianti, che nelle memorie
successive vennero descritte come peggiori di quelle subite durante la prigionia in
Russia54.
Se «i fatti di Isernia» suscitarono tali proteste da indurre le autorità italiane ancora a fine gennaio alla liberazione degli ex militari austro-ungarici, molti altri restarono più a lungo nei tanti campi disseminati nella penisola, da Brescia a Servigliano (Ascoli Piceno) a Crotone, fino all’Asinara, dove furono internati gli ex prigionieri provenienti dalla Russia, via Odessa, in quanto « sospettati di sentimenti
bolscevichi»55.
Terminate le ostilità, non si esaurirono gli effetti di quelle lacerazioni che divisero i trentini, ma continuarono, nel corso del Novecento, a determinare scelte e comportamenti, ad alimentare il conflitto tra narrazioni e contronarrazioni d’identità56.
Note
1 Gino Marzani et al., Il martirio del Trentino, a c. della Commissione dell’emigrazione trentina in Milano e della Sezione trentina dell’Associazione politica degli italiani redenti in Roma, Cooperativa grafica degli operai, Milano 1919.
2 Fabrizio Rasera, Prefazione, in La guerra di Volano. Appunti per una storia del paese dal 1880 al 1919, a c. di Eva Bertoni
et al., La Grafica, Mori (Trento) 1982, p. 9.
3 Claus Gatterer, Italiani maledetti, maledetti austriaci. L’inimicizia ereditaria, Praxis, Bolzano 1986 [1972], pp. 183-200.
4 Hans Heiss, I soldati trentini nella prima guerra mondiale. Un metodo di determinazione numerica, in Sui campi di Galizia (1914-1917). Gli italiani d’Austria e il fronte orientale: uomini, popoli, culture nella guerra europea, a c. di Gianluigi Fait,
Materiali di lavoro-Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto 1997, pp. 253-67.
5 Gianluigi Fait et al., La scrittura popolare della guerra. Diari di combattenti trentini, in La Grande guerra. Esperienza, memoria, immagini, a c. di Diego Leoni, Camillo Zadra, Il Mulino, Bologna 1986, p. 123.
6 Archivio della Scrittura Popolare (da qui in poi ASP), Museo Storico in Trento, lettera di Guerrino Botteri a Valerio
Ongari (2 ottobre 1914); edita in Scritture di guerra, vol. 8, Museo Storico in Trento-Museo Storico Italiano della Guerra,
Rovereto 1998, p. 43.
7 Fabrizio Rasera, Camillo Zadra, Patrie lontane. La coscienza nazionale negli scritti dei soldati trentini (1914-18), in Sui
campi di Galizia, a c. di Fait cit., p. 330.
8 Cfr. Tomasz Gasowski, La Galizia, «tana degli ebrei», in Sui campi di Galizia, a c. di Fait cit., pp. 45-60.
9 ASP, Museo Storico in Trento, c. 11, diario manoscritto di Guerrino Botteri; edito in Scritture di guerra cit., vol. 8, p. 19.
10 Cfr. Janusz Pezda, Stanislaw Pijaj, Le principali vicende militari sul fronte austro-russo (1914-17), in Sui campi di Galizia,
a c. di Fait cit. pp. 99-104.
11 Ivi, p. 100.
12 Cfr. Oswald Überegger, L’altra guerra. La giurisdizione militare in Tirolo durante la prima guerra mondiale, Società di
studi trentini di scienze storiche, Trento 2004, p. 318 [tit. orig. Der Andere Krieg. Die Tiroler Militärgerichtsbarkeit im Ersten
Weltkrieg, Universitätsverlag Wagner, Innsbruck 2002].
13 Ivi, p. 336.
14 ASP, Museo Storico in Trento, Alfonso Cazzolli, Ricordi e Memorie, manoscritto, p. 28; edito in «Materiali di lavoro»,
nn. 1-2, 1986, pp. 190-191.
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Luoghi e figure
15 Marina Rossi, I prigionieri dello Zar. Soldati italiani dell’esercito austro-ungarico nei lager della Russia (1914-1918), Mursia, Milano 1997, p. 99-111.
16 Annibale Molignoni, Trentini prigionieri in Russia. Agosto 1914-settembre 1916, SEI, Torino 1920, p. 21.
17 Cfr. Antonello Biagini, La Missione militare italiana in Russia e il rimpatrio dei prigionieri di guerra e degli irredenti trentini (1915-1918), in La prima guerra mondiale e il Trentino, a c. di Sergio Benvenuti, Comprensorio della Vallagarina, Rovereto 1980, pp. 579-97. Tra le memorie di quell’evento si veda almeno Gaetano Bazzani, Soldati italiani nella Russia in
fiamme. 1915-1920, Legione trentina, Trento 1933.
18 ASP, Museo Storico in Trento, Fioravante Gottardi, Ricordi della Guerra mondiale, dattiloscritto, p. 30; edito in Scritture di guerra cit., vol. 3, 1995, pp. 181-82.
19 Diego Leoni, Il popolo scomparso, in Il popolo scomparso. Il Trentino e i trentini nella prima guerra mondiale (1914-1920),
a c. del Laboratorio di storia di Rovereto, Nicolodi, Rovereto 2003, p. 22.
20 Museo Storico in Trento, Archivio E, b. E/58, fasc. 1, lettera circolare del magg. Cosma Manera, Vladivostock 1 Maggio 1919.
21 Cfr. Gerd Pircher, Militari, amministrazione e politica in Tirolo durante la prima guerra mondiale, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, Trento 2005, pp. 50-54 [tit. orig. Militär, Verwaltung und Politik in Tirol im Ersten Weltkrieg, Universitätsverlag Wagner, Innsbruck 1995].
22 Cfr. La città di legno. Profughi trentini in Austria (1915-1918), a c. di Diego Leoni, Camillo Zadra, Temi, Trento 1981,
pp. 16-19; Paolo Malni, Profughi italiani in Austria. Una storia dei vinti, una storia del Novecento, in La violenza contro la
popolazione civile nella Grande Guerra. Deportati, profughi, internati, a c. di Bruna Bianchi, Unicopli, Milano 2006, p. 236.
23 Cfr. Quinto Antonelli, «Io sono di continuo in pensieri...». Donne che scrivono nella Grande guerra, in Scritture di donne.
Uno sguardo europeo, a c. di Anna Iuso, Biblioteca Città di Arezzo-Protagon Editori Toscani, Arezzo-Siena 1999, pp. 103-19.
24 ASP, Museo Storico in Trento, Giuseppina Filippi Manfredi, diario manoscritto, c. 12; edito in Scritture di guerra cit.,
vol. 4, 1996, pp. 111-12.
25 Cfr. Quinto Antonelli, Camillo Zadra, Lettere di profughi trentini ai comitati di soccorso nella Grande Guerra, in Deferenza rivendicazione supplica. Le lettere ai potenti, a c. di Gianluigi Fait, Camillo Zadra, Pagus, Paese (Treviso) 1991,
pp. 35-41.
26 Cit. in Paolo Malni, Profughi italiani in Austria cit., pp. 247-48.
27 Ibid.
28 Alcide De Gasperi, Discorso alla Camera dei Deputati del Reichsrat, Vienna 12 luglio 1917, in Id., Scritti e discorsi politici, vol. I, t. II, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 1937-49.
29 Cfr. Giovanni Pedrotti, I profughi di guerra nel Regno, in Marzani et al., Il martirio del Trentino cit., pp. 173-80.
30 Cfr. Luciana Palla, Il Trentino orientale e la Grande guerra. Combattenti, internati, profughi di Valsugana, Primiero e
Tesino (1914-1920), Museo del Risorgimento e della Lotta per la Libertà-Temi, Trento 1994.
31 Lettera di Maria Nervo, Oleggio Loreto (Novara) 12 gennaio 1918, cit. in Palla, Il Trentino orientale e la Grande guerra
cit., pp. 191-92.
32 Cit. in Renato Monteleone, La politica dei fuorusciti irredenti nella guerra mondiale, Del Bianco, Udine 1972, p. 85.
33 Cfr. Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande guerra, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 43.
34 Palla, Il Trentino orientale e la Grande guerra cit., p. 181.
35 Ceschin, Gli esuli di Caporetto cit., pp. 209-19.
36 ASP, Museo Storico in Trento, don Giacomo Riolfatti, diario manoscritto, annotazione del 6 gennaio 1918.
37 ASP, Museo Storico in Trento, Daniele Speranza, Memorie giornaliere dal 6 novembre 1916, manoscritto, annotazione
del 31 maggio 1917.
38 ASP, Museo Storico in Trento, mons. Donato Perli, Note redatte in Tione durante la grande guerra e dopo la stessa fino al
1938, manoscritto, nota del 15 aprile 1918.
39 Cfr. Diego Leoni, La montagna violata, in « Materiali di lavoro », n. 3, 1989, pp. 5-31; Id., Frammenti di un discorso
geografico-naturalistico sulla Grande Guerra. Il caso Trentino, in «Memoria e ricerca», n. 1, 1998, pp. 101-14.
40 Cfr. La guerra di Volano, a c. di Eva Bertoni et al. cit., pp. 130-35.
41 Pircher, Militari, amministrazione e politica in Tirolo cit., pp. 42-43.
42 Überegger, L’altra guerra cit., p. 87. Cfr. anche Pina Pedron, In nome di Sua Maestà l’Imperatore d’Austria! Il fondo
«Processi di guerra 1914-18» dell’Archivio di Stato di Trento, in «Materiali di lavoro», nn. 1-3, 1985, pp. 3-68.
43 Pircher, Militari, amministrazione e politica in Tirolo cit., p. 45.
44 Lettera del vescovo Endrici al papa Benedetto XV, Vienna 15 maggio 1916. Edita parzialmente in Sergio Benvenuti, La
chiesa trentina e la questione nazionale 1848-1918, Museo del Risorgimento e della Lotta per la Libertà-Temi, Trento 1987,
pp. 225-226.
45 Gatterer, Italiani maledetti, maledetti austriaci cit., p. 186.
46 Cfr. Alessio Quercioli, I volontari trentini nell’Esercito italiano 1915-1918, in La scelta della patria. Giovani volontari nella grande guerra, a c. di Patrizia Dogliani et al., Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto 2006, pp. 21-46.
47 Alcide De Gasperi, Discorso alla Camera dei Deputati del Reichsrat, Vienna 28 settembre 1917, in Id., Scritti e discorsi
politici cit., p. 1949.
48 Überegger, L’altra guerra cit.
49 Beno Perotti, Cronaca di guerra della Bassa Val Lagarina. 1 agosto 1914-3 novembre 1918, in «Alba Trentina», nn. 11-12,
1922, p. 266.
50 Cfr. Diego Leoni, Camillo Zadra, Classi popolari e questione nazionale al tempo della prima guerra mondiale. Spunti di
ricerca nell’area trentina, in «Materiali di lavoro», n. 1 [n.s.], 1983, pp. 5-25.
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51 La cifra è dovuta ad Aldo Miorelli che sta portando a termine una ricerca sui trentini internati in Italia. Testimonianze
in Palla, Il Trentino orientale e la Grande guerra cit., pp. 121-28.
52 Fabrizio Rasera, Dal regime provvisorio al regime fascista (1919-1937), in Storia del Trentino, vol. VI, L’età contemporanea.
Il Novecento, a c. di Andrea Leonardi, Paolo Pombeni, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 76-78.
53 Ibid.
54 Cfr. Palla, Il Trentino orientale e la Grande guerra cit., pp. 337-69; Lodovico Tavernini, Prigionieri austro-ungarici nei campi di concentramento italiani 1915-1920, in «Annali», Museo Storico Italiano della Guerra, nn. 9-11, 2001-03, pp. 57-81.
55 Palla, Il Trentino orientale e la Grande guerra cit., p. 365.
56 Cfr. Diego Leoni, Antigone in Trentino. Note su storia, memoria, identità della gente trentina, in L’identità fra tradizione
e progetto. Nazioni, luoghi, culture, Provincia autonoma di Trento, Trento 1996, pp. 145-50.