I love Rock`n`roll!

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I love Rock`n`roll!
I love Rock’n’roll!
Quando si sente parlare della musica rock, in particolare del metal, quasi automaticamente la si associa a suoni duri,
melodie graffianti e a tutti quei contorni propri della frase simbolo “Sex, drug and rock’n’roll”, ovvero droghe e sesso
senza freni ed inibizioni.
Ma il rock non è solo questo: proprio perché la musica è forte, anche le emozioni, le passioni sono forti, tanto
forti da sfociare in un amore struggente, che spesso arriva a coinvolgere due mondi completamente differenti.
Una personalità ribelle, sicura di sé e sprezzante degli altri, spesso nasconde un dolore che non è mai riuscita a
superare. Niente di meglio dunque che rigettarlo, fronteggiarlo con la rabbia, senza però riuscire a liberarsene del
tutto. Se poi il dolore è stato causato da un uomo, o da una donna, allora è molto più semplice prendersela con gli
uomini, o con le donne, arrivando ad innalzare una barriera contro il mondo esterno, a non darsi una seconda
possibilità.
Quando però l’amore, quello vero ed indistruttibile, irrompe bruscamente nella sua vita, cogliendolo o
cogliendola di sorpresa, allora quest’anima tormentata, ma in realtà bisognosa di affetto e di calore umano, non può
far altro che soccombere alla forza inarrestabile di questo sentimento e a rimettersi in gioco.
Leonardo Jelmini, Leo per gli amici e i fans, bassista dei Blackshark, un successo mondiale e milioni di dischi venduti,
ha imparato presto a non fidarsi delle donne.
Per lui sono tutte bugiarde, fissate con il sesso ed incapaci di fare qualsiasi cosa che non sia riscaldare il suo
letto o chiedergli autografi, figuriamoci un lavoro da uomini!
Per questo, quando viene a sapere che il posto del suo ex addetto alla strumentazione, un uomo che ha avuto
seri problemi con la droga e che per questo è stato licenziato dal suo management, sarà preso da una donna, va su
tutte le furie.
Lui è più che intenzionato a mettere i bastoni tra le ruote alla nuova arrivata, costi quel che costi, ma purtroppo
gli basta gettare un’occhiata alla focosa, ed alquanto indomabile, Ambra per sentirsi ardere da un fuoco sconosciuto…
Se non che la sua nuova addetta alla strumentazione, al contrario di tutte le donne che ha conosciuto, è tutt’altro che
desiderosa di farsi mettere i piedi in testa, figuriamoci di finire a letto con lui!
Dopo aver archiviato una storia con un alcolizzato che non solo l’ha fatta soffrire, ma l’ha pure allontanata dalla sua
famiglia, dai suoi amici e dalla musica che ha sempre amato, il rock, tentando di trasformarla in una bambola da
ammirare e nient’altro, Ambra Leoni sente il bisogno di nuove sfide. E quale sfida migliore dell’ottenere il posto tanto
desiderato, quello di addetta alla strumentazione nella crew dei Blackshark, misurandosi con candidati più esperti di
lei?
Ma, dopo essere riuscita ad ottenere finalmente il posto di lavoro, Ambra si rende conto che la vera sfida non è
quella che ha appena superato, ed anche in modo brillante, ma quella rappresentata da Leonardo “Leo” Jelmini, il
bellissimo, quanto insopportabile e maschilista, bassista dei Blackshark.
Lui non fa altro che colpirla con i suoi commenti sferzanti perché donna, quindi capace solo di chiedere
autografi e di essere portata a letto, ma lei, che non è una bambola di porcellana, non si fa spaventare dal suo
comportamento scostante, anzi!
Se Leo pensava davvero di avere a che fare con una donna paurosa e priva di spina dorsale, beh, si è sbagliato
di grosso, perché lei, che ha il sangue impregnato con le note dure dei Blackshark, e soprattutto con gli assoli del suo
basso, è una vera ribelle!
Prologo
OSPEDALE CIVICO, LUGANO
Per la quarta volta di seguito Ambra si guardò intorno, sentendo la stessa sensazione di disagio che aveva provato nel
varcare la porta di quel luogo completamente asettico.
Il suo appartamento si trovava a Trevano, a pochi minuti di bus dall’ospedale civico, ma quel posto le era quasi
sconosciuto, e per questo le incuteva timore.
Durante i suoi venticinque anni di vita le era capitato di vederlo solo in due occasioni: il giorno della sua nascita,
quando era venuta alla luce nella camera 113 del reparto maternità, come amava ripeterle spesso sua madre, che
oltre ad essere maledettamente superstiziosa era anche un’appassionata di numerologia, e il suo primo giorno di
scuola, quando un ramo sottile, e molto traditore, l’aveva fatta cadere dal ciliegio antistante la scuola elementare, sul
quale si era arrampicata con un coetaneo, procurandole una frattura alla gamba destra.
La stanza in cui si trovava aveva le pareti bianche ed era illuminata dalla luce di un singolo neon. Gli unici
rumori percettibili, se escludeva quelli prodotti dagli zoccoli dei medici che andavano da un lettino all’altro, erano i bip
bip insistenti della macchina per misurare il battito cardiaco e il ribollire continuo della macchina dell’ossigeno.
Quest’ultimo era l’unico segno di vita del suo fidanzato, nonché convivente, che era sdraiato sul lettino,
immobile come una statua di cera.
Ambra guardò i suoi occhi socchiusi, poi le rughe che gli segnavano la pelle abbronzata e che, sotto la luce del
neon, lo facevano apparire più vecchio di quanto in realtà fosse.
Niccolò era già stato sottoposto ad alcuni esami, anche se ne mancavano ancora due, e adesso lei stava
aspettando i risultati. Sforzandosi di mantenere la calma, di non pensare a quanto fosse degenerata la loro relazione,
Ambra ripensò a quello che era accaduto.
Era appena uscita dalla SATI, la scuola professionale che formava i tecnici del suono e gli addetti alla
strumentazione, dopo una lezione particolarmente impegnativa, quando la suoneria di “Sweet little Rock’n’Roller”
aveva cominciato a squillare, avvertendola di una chiamata in arrivo.
Non appena aveva risposto, si era ritrovata a parlare con la voce calma e leggermente stentorea di un dottore,
che le aveva detto che il suo fidanzato era stato ricoverato d’urgenza al Civico. L’uomo non le aveva però riferito il
motivo per cui Niccolò era stato internato, e lei non si era preoccupata di chiederglielo, visto che era schizzata a
velocità supersonica a prendere il bus, un minuto prima che lasciasse la fermata della SATI.
Cinque minuti più tardi era saltata giù alla fermata dell’ospedale. Due minuti dopo, aveva varcato la porta
scorrevole dell’edificio e si era diretta verso l’accoglienza per annunciarsi.
Proprio davanti al bancone della reception aveva incontrato uno dei barellieri che avevano soccorso Niccolò.
Insieme a lui c’era il medico che l’aveva chiamata sul cellulare.
Dopo le presentazioni di rito, Stefano, così si chiamava il barelliere, le aveva detto in modo molto spiccio e
senza fare uso di mezze parole quello che era capitato a Niccolò: mentre era seduto ad uno dei tavolini fuori dal
“Canvetto Ticinese”, un bar che si trovava sul ciglio dello stradone che da Trevano portava a Tesserete, il suo fidanzato
aveva avuto un collasso.
Non appena si era accorto di quello che era successo, il titolare del bar li aveva chiamati per portarlo via con
l’ambulanza.
Si era accorto subito della gravità della salute dell’uomo, come se ne erano accorti anche loro, perché quando
erano arrivati sul posto avevano notato che sul tavolo di Niccolò, insieme a tre bottiglie di vino, due delle quali
completamente vuote, c’era una confezione di farmaci e diversi blister aperti e sparsi in giro alla rinfusa.
Una volta che Stefano ebbe terminato il suo resoconto, il dottore l’aveva accompagnata nel Pronto Soccorso,
dove, sistemato in una camera di fortuna parecchio scura, aveva trovato Niccolò.
Nonostante quello che aveva passato con lui, aveva deciso di rimanere accanto al suo letto, anche se avrebbe
dovuto correre in appartamento a studiare per gli esami. Li avrebbe dati di lì a pochi mesi, dopodiché, se li avesse
passati, avrebbe ricevuto il diploma di addetta alla strumentazione e tecnica del suono.
Malgrado avesse sfruttato ogni momento libero per studiare, ovvero quando il convivente non era in casa ma
in giro a bere, non si sentiva ancora pronta.
E pensare che quando lo aveva conosciuto gli era piaciuto subito.
Era successo un anno prima, mentre era in giro con le amiche al lunapark di Viganello.
Niccolò l’aveva attirata immediatamente con quella sua aria sbarazzina e il suo fascino da pirata.
Avevano cominciato a parlare del più e del meno. Lui le aveva detto che lavorava come meccanico in un garage,
poi aveva cominciato a parlare con lei della differenza tra la musica degli anni Sessanta e quella del Duemila e lei,
nonostante non amasse molto i gruppi che ascoltava lui, aveva trovato il suo discorso molto arguto oltre che
intelligente. Avevano cominciato a frequentarsi, a girare insieme per locali e a discutere di questo o di quell’altro
argomento, fino a quando una sera non l’aveva baciata sulle labbra e gli aveva confessato di amarla. Si era sentita viva
come non mai, libera, e Niccolò le era sembrato un uomo a posto, con la testa sulle spalle, e l’uomo ideale con cui
costruire qualcosa.
Solo molto più tardi aveva scoperto che non solo aveva un passato da tossico alle spalle, e che si faceva passare
per un invalido per ricevere una rendita più che sostanziosa dal Cantone, ma che aveva anche la tendenza a bere
come una spugna. Oltre che a fare uso di droga, anche se l’aveva sempre negato, ed anche se aveva continuato a
sostenere che ormai era pulito e che era uscito dal giro da anni.
Ripensando a tutte le bugie che le aveva raccontato, si morse il labbro inferiore, nel tentativo estremo di
trattenere la collera. Stupida stupida e ancora stupida! Perché non aveva dato retta ai suoi amici, né tantomeno ai
suoi genitori, quando l’avevano messa in guardia dal suo fidanzato? Come una sciocca innamorata, non si era fatta
scrupoli a non ascoltarli, preferendo dare retta a lui, fino a quando la realtà non aveva deciso di presentarle il conto,
facendola cadere bruscamente dalle nuvole.
Niccolò non solo era un bugiardo, e un violento, e un ubriacone, ma era anche molto malato: quando
frequentava ancora il suo vecchio giro, aveva contratto l’epatite C da una siringa infetta e, non volendo curarla,
quell’epatite si era trasformata presto in cirrosi, poi in una forma incurabile di cancro al fegato.
A quel pensiero, Ambra rabbrividì. Erano trascorsi due mesi da quella famosa sera.
Ancora un mese e dodici giorni e il medico che aveva contattato all’insaputa dell’uomo le avrebbe fatto il
controllo del sangue.
Finalmente avrebbe saputo se l’aveva contagiata… oppure no.
In casa aveva cercato di apparire serena e rilassata, com’era nel suo stile d’altronde, ma le borse grigie che
aveva sotto gli occhi raccontavano un’altra verità.
Il pensiero di quell’ennesima prova non la faceva dormire di notte. Si sentiva a pezzi… anzi, devastata, anzi, no,
distrutta, sia mentalmente che fisicamente. Ma doveva fare un ultimo sforzo.
Ancora un mese e dodici giorni.
Il convivente si mosse nel lettino, poi socchiuse gli occhi. La ragazza notò che non c’era una luce di vita nella
pupilla, e che le iridi apparivano come vetro.
Una giovane dottoressa, vestita con un camice azzurro, scelse quel momento per scostare la tendina
plastificata ed entrare nella stanzetta.
Ambra la salutò con un sorriso, che la donna ricambiò con uno altrettanto sincero.
Niccolò invece le rivolse un’occhiata astiosa.
<<E lei chi diavolo è?>>
La dottoressa si coprì la bocca per soffocare un accenno di tosse.
<<Sono la responsabile di questo reparto>> disse, presentandosi. <<Sono venuta ad avvertirvi che un infermiere
passerà tra pochi minuti per fare gli esami del sangue. Dopo dovremmo aver finito.>>
<<Non voglio fare gli esami del sangue!>> Sbraitò Niccolò, facendo risuonare l’accento calabrese. <<Io voglio fumare
una sigaretta! E ho sete! Datemi un goccio di vino, ne ho bisogno!>>
La dottoressa rispose paziente:
<<Mi dispiace, ma non potrà bere fino a quando non avremo i risultati di tutti gli esami. Più tardi le farò portare una
bottiglietta d’acqua.>>
<<Non me ne frega un cazzo degli esami! E non voglio acqua, ma vino!>> Urlò Niccolò, facendola sobbalzare per lo
spavento. <<Voglio tornare a casa! Firmerò qualsiasi foglio, e vi darò anche due biglietti da mille, ma fatemi tornare a
casa!>>
<<Signor Chirico, cerchi di calmarsi…>>
Quella raccomandazione non fece che infuriare ancora di più Niccolò, che cominciò a strillare e ad insultare
pesantemente la dottoressa.
Richiamato da tutto quel baccano, un infermiere nerboruto entrò nella stanzetta, il viso atteggiato da un
cipiglio severo. Insieme a lui c’era il medico con cui Ambra aveva parlato appena pochi minuti prima.
Non vista, la ragazza gli rivolse uno sguardo colmo di gratitudine per essere intervenuto in modo tempestivo.
Il viso della dottoressa era cereo e tirato sugli zigomi. Guardandola, Ambra non poté fare a meno di provare
compassione, ma anche un po’ di invidia: anche lei aveva saggiato la furia distruttiva di Niccolò e sapeva benissimo
cos’era capace di fare, ma, al contrario di lei, la dottoressa non sarebbe mai stata picchiata dal suo convivente, perché
si trovava nel letto di un ospedale, completamente inerme e privo di forze. E se anche fosse accaduto, vicino a lei
c’erano due uomini sani e forti, pronti ad intervenire per proteggerla ed impedire a quel drogato che le facesse del
male.
Lei non era stata altrettanto fortunata.
Purtroppo lo aveva già sperimentato da sano, e in azione. Aveva visto quanto poteva essere violento, e fare
molto male. Sulle gambe aveva ancora i lividi di due sere prima, quando, tornato ubriaco dal solito giro, Niccolò
l’aveva picchiata perché aveva il ciclo… e per questo non aveva potuto dividere il letto con lui.
<<La smetta, subito!>> Gli intimò l’infermiere, usando un tono fermo. <<Sta disturbando gli altri pazienti.>>
<<Signor Chirico, si rende conto che quasi ci lasciava la pelle in quel bar?>> Disse invece il medico, con voce mite.
<<Suvvia, stia tranquillo, adesso l’infermiere le farà l’esame del sangue>> poi uscì.
Ambra, che non sopportava la vista del sangue, lasciò anche lei la stanzetta e seguì il medico nel corridoio.
<<Dottore>> lo chiamò.
Il medico si voltò. Vedendo le rughe che aveva sul viso e le tempie leggermente ingrigite, Ambra intuì che
doveva essere più vicino ai quaranta che non ai trenta.
Gli occhi azzurri dell’uomo la fissarono, seri.
<<Ha bisogno di qualcosa, signorina?>>
Il tono pieno di calore e comprensivo la fece quasi piangere, ma nello stesso tempo la tranquillizzò, inducendola a
fargli la domanda che le frullava nella testa fin da quando aveva saputo che Niccolò era stato ricoverato d’urgenza.
<<Dottore… si sa già cos’è capitato, veramente, al mio fidanzato?>>
Il medico rilasciò un respiro profondo, e per un attimo ebbe l’impressione che la stesse guardando con fin troppa
indulgenza, ma invece di sentirsi offesa nel suo orgoglio, si sorprese a provare addirittura simpatia per quell’uomo.
<<Solo gli esami del sangue potranno dircelo con sicurezza. Dai primi risultati che abbiamo ricevuto dal laboratorio,
sembrerebbe che il suo fidanzato abbia assunto una dose elevata di metadone insieme all’alcool… e che questa
miscela abbia causato il suo collasso. Tuttavia, per avere una conferma definitiva, dovremo aspettare i risultati delle
analisi del sangue.>>
Ambra annuì.
<<Dottore… volevo dirle un’altra cosa… il mio fidanzato ha l’epatite C. Solo per informarla… per quando esaminerete il
sangue. Fate molta attenzione.>>
Il medico sorrise.
<<Le prometto che faremo molta attenzione, non si preoccupi. Non è il primo caso che ci capita, ma la ringrazio per
avermelo detto.>>
Ambra si congedò dal medico, poi tornò presso il capezzale del fidanzato.
Sembrava che si fosse riaddormentato.
Aveva un polso fasciato… il punto dove gli avevano fatto il prelievo.
Un mese e dodici giorni.
Cercando di non pensarci troppo, Ambra si accomodò su uno sgabello e per ingannare l’attesa e non pensare al
contagio vero o presunto, tirò fuori il libro di matematica dallo zaino e cominciò a ripassare.
L’orologio appeso alla parete segnava le quattro, quando un’altra dottoressa scostò la tenda plastificata ed entrò nella
stanzetta.
Niccolò si svegliò. Com’era già successo con gli altri medici, anche a lei disse che voleva fumare una sigaretta,
che voleva bere e che voleva tornare a casa.
Ambra si preparò ad assistere ad un’altra scenata.
La donna però, che sembrava molto più robusta, ed anche molto più determinata, della sua collega, gli rispose
con un no secco.
<<Oggi non potrà lasciare l’ospedale. Stanotte la terremo in osservazione, poi domani decideremo se dimetterla o
no.>>
<<Ma io non ho bisogno di stare in ospedale! Voglio tornare a casa!>>
<<Non se ne parla nemmeno>> ribatté decisa la dottoressa. <<Signor Chirico, è arrivato al Pronto Soccorso che quasi
non riusciva a respirare. Dico, non vorrà mica rischiare di morire per mancanza d’aria?>>
<<Voglio fumare una sigaretta!>> Si lagnò Niccolò.
<<Mi dispiace, ma non potrà farlo fino a quando non avremo tutti i risultati degli esami, e ci vorrà ancora un po’ di
tempo.>>
Niccolò ricominciò a sbraitare e ad urlare come un ossesso. Lo stesso infermiere di prima, sentendo che c’erano
ancora dei problemi, entrò nella stanzetta.
<<Veda di abbassare la voce. Una paziente sta cercando di riposare.>>
<<Ma andate tutti a fanculo, voi e la vostra paziente!>> Inveì Niccolò. <<Voglio fumare! Voglio bere! Datemi questo
fottutissimo foglio da firmare, così me ne vado! Nessuno può trattenermi contro la mia volontà!>>
<<Signor Chirico, ma si rende conto di quello che sta dicendo?!>> Esclamò la dottoressa, spazientita. Si rivolse quindi a
lei, guardandola negli occhi. <<Lei è la sua fidanzata. Secondo lei, cosa dovremo fare?>>
Ambra rimise il libro di matematica nello zaino, che richiuse con un gesto secco.
Secondo lei dovevano tenere Niccolò in ospedale, almeno per quella notte: se davvero aveva preso una dose elevata
di metadone, mescolata insieme all’alcool, aveva paura che il fidanzato, sotto l’influsso dello stesso, potesse
commettere qualche altra sciocchezza.
E se poi si fosse rimesso a bere, peggiorando la situazione? E se gli fosse mancato l’ossigeno, andando incontro
ad una morte sicura?
Lei aveva venticinque anni, ma non era un’infermiera, per giunta non aveva la minima idea di come intervenire
nel caso si fosse verificata anche una sola delle cose che temeva.
<<Meglio che lo teniate qui, almeno per stanotte>> rispose alla fine.
I medici annuirono soddisfatti, poi lasciarono la stanzetta.
Il viso di Niccolò si contrasse in un’espressione dura. L’uomo girò la testa verso di lei e la fissò con uno sguardo
assassino, che lei sostenne risoluta. Ora che si trovava in un letto d’ospedale, Niccolò non poteva più dirle che cosa
doveva fare, né poteva percuoterla, anche se le sue mani continuavano ad aprirsi e a chiudersi a pugno.
<<Brutta stronza>> sibilò. <<Come hai potuto metterti contro di me! Pensavo che avresti tenuto le mie parti, non che
ti schierassi con quelle teste di cazzo!>>
Ambra cominciava ad averne abbastanza, ma si sforzò di restare calma, conscia che, se gli avesse detto in faccia quello
che pensava, una volta che fosse uscito dall’ospedale e fosse tornato nel suo appartamento, semmai fosse tornato, le
avrebbe fatto rimpiangere ogni singola parola con l’unico metodo che conosceva: le botte.
<<Niccolò, un medico mi ha detto quello che ti è capitato>> cominciò a dire, con l’intento di farlo ragionare. <<Metti
che stai male… Io non sono un’infermiera diplomata, e non saprei nemmeno come comportarmi, mentre qui ci sono
tante persone in grado di curarti e di farti star bene. Dopotutto si tratta di una notte sola, no?>>
Le labbra di Niccolò si assottigliarono.
Ambra vide che i suoi pugni tremavano. Sapeva che adesso non poteva farle del male, era troppo debole per
farlo, ma sentì lo stesso un brivido gelido correrle lungo la schiena.
<<Bene, se la metti così…>> disse Niccolò, freddo. <<Chiama il mio amico. Digli di passare a prendere tutte le mie cose
nel tuo appartamento, poi vattene. Non voglio più vedere quella faccia da stronza che ti ritrovi.>>
Ambra rimase impassibile, anche se le cattiverie del fidanzato, o meglio, del suo ex, l’avevano ferita. Ma Niccolò non
meritava di vederla addolorata.
C’era stato un tempo in cui lo aveva amato, ed anche alla follia, ma ora che aveva visto quanto poteva essere
gretto, e meschino, era più che certa che, se anche fosse sopravvissuta una traccia del vecchio amore per lui, beh,
adesso era stata spazzata via.
<<Ah, e metti anche duecento franchi, nella mia borsa…>>
Ambra sbarrò gli occhi. Cosa?
Come diavolo si permetteva?
<<…per il telefono che mi hai buttato via.>>
Un’altra bugia, perché il telefono di cui parlava non l’aveva mai visto nel suo appartamento, anche se Niccolò aveva
giurato e spergiurato di averlo lasciato sul tavolo della cucina, e poi non era così stupida da buttare un cellulare!
<<Tra noi è finita.>>
Ambra alzò e riabbassò le spalle.
<<Che fai, non piangi, non mi implori? È proprio vero che sei una menefreghista, lo sei sempre stata.>>
Adesso basta! Pensò Ambra, ergendosi in tutta la sua statura e guardandolo fisso negli occhi, le iridi che
mandavano scintille.
<<Sai che ti dico? Che puoi anche andartene al diavolo, maledetto ubriacone che non sei altro! Oggi mi hai solo fatto
un grande favore>> e senza borbottargli una parola di addio, né guardarlo in faccia, si mise lo zaino su di una spalla ed
uscì dalla stanzetta del Pronto Soccorso, determinata più che mai a riprendere in mano la sua vita.
E a chiudere definitivamente la porta sul passato.