Involontari Carnefici

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Involontari Carnefici
Exil, 02.09.2016
Involontari Carnefici
Di Exil
Pietro aveva i capelli a spazzola e il codino alla Roberto Baggio. Nell’insieme la sua
testa sembrava un topo ma Pietro era grosso, più largo che alto, e nessuno di noi si
permetteva di farglielo notare.
Io di Baggio non avevo nulla. Mia madre mi aveva inflitto un taglio di capelli da
paggio, a caschetto, che faceva di me un piccolo sosia castano di Ramon Diaz. Da
paggio avevo anche il piede destro aperto all’infuori per sua stessa natura, a favorire
i passaggi di piatto. Il sinistro invece era montato normale, lo conservavo per i tiri
d’esterno.
Pietro ed io andavamo d’accordo e ci rispettavamo a vicenda, pur essendo lui un
boss della malavita infantile ed io solo un outsider.
I nostri destini scolastici s’incrociarono quando la maestra lo spedì al banco accanto
al mio e mi diede la tacita consegna di soffocare i suoi istinti delinquenziali con una
stretta marcatura ad uomo. Mi fu subito simpatico, Pietro: io odiavo la plastica
gialla che foderava il quaderno di aritmetica; lui con la copertina del suo quaderno
ci fece un aliante giallo.
Un giorno arrivò in classe Gianni, proveniva dallo stesso paese in cui era nato
Pietro, un posto della Terronia Saudita.
Gianni era forte, ma non leale come Pietro. Sorrideva sempre, e menava solo
quando si trovava in superiorità numerica. Non mi piaceva.
Côsme apparteneva a una delle famiglie più in vista del paese, una schiatta attiva
da generazioni nel campo dell’energia. Di origini francesi, lui e suo padre avevano
la erre moscia, il che confermava la loro nobiltà e giustificava il loro prestigio
sociale. Era forte, Côsme, aveva le braccia sempre abbronzate e con le vene in
vista, muscolose come le gambe di un calciatore. Si teneva in allenamento
lavorando, di mestiere consegnava a domicilio le bombole del gas.
Ricordo quando passava da casa nostra: fermava l’Apecar davanti al cancello,
scendeva lasciando il motore acceso, sollevava dal cassone due bombole piene e le
portava su per la rampa ripida e stretta delle scale, senza apparente sforzo. Tempo
dell’operazione: due minuti scarsi.
Itria era appena arrivata dalla Sardegna e di brutto aveva solo il nome, anzi a
pensarci bene nemmeno quello. Maggiorenne da pochi giorni. Aveva gli occhi
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talmente neri che le pupille parevano aver invaso l’area riservata alla sclera.
Corvini i capelli, lunghi, da azteca. La carnagione olivastra. Le curve del corpo
cesellate, capolavori d’artista.
Appena Itria mise piede nella piazza del paese, i maschi andarono tutti fuori di
testa.
Un giorno ci ritrovammo al campo sportivo a giocare a pallone. Usavamo il
metodo che in futuro sarebbe stato adottato dai frequentatori di rave party illegali:
torme di bambini apparivano all’improvviso davanti al campo, scavalcavano la rete
e iniziavano a dimenarsi finché i carabinieri non intervenivano per disperderli.
Il campo era da undici giocatori. Le nostre squadre consistevano di circa trentaquaranta elementi. In quelle partite ho capito che cosa devono essere stati i
combattimenti dell’Iliade. Dato il numero dei partecipanti, dentro il match
principale si svolgevano incontri in scala più piccola, in una struttura a frattale, che
venivano tollerati anche perché la polvere sollevata li nascondeva agli occhi dei
boss.
Fu in una mischia a centrocampo che vidi Gianni col pallone tra i piedi e allora
affondai in contrasto il piede destro, aperto all’infuori per sua stessa natura. Lui non
se l’aspettava. Cademmo. Io mi rialzai. Gianni rimase giù, la faccia a terra.
“Questo non è forte davvero, - pensai - fa solo scena.”
Côsme invitò Itria a uscire con lui. Lei accettò, ma una volta sola. Le piaceva
Maurizio, il ragazzo che aveva affittato il monolocale di sua zia. Era alto, slanciato,
abbronzato e con i capelli neri. Insomma, era come lei.
Di mestiere faceva il macellaio in un supermercato, Maurizio, e non era ricco.
“Mettiti con Côsme, lui è di buona famiglia!” le dicevano tutti. Lei scelse Maurizio.
Erano belli uno accanto all’altra.
Côsme continuò a portare le bombole a domicilio, ma non mi sembrava più così
forte. Ora il suo mi pareva un lavoro di fatica. Uno di quelli che non avrei voluto
mai fare. “A che serve avere le braccia grosse - pensavo io e forse lo pensava pure
lui - se non possono stringere la donna che vuoi?”
Non so dire esattamente quando successe, a poco a poco la famiglia di Côsme si
ritirò. Nel frattempo in paese venne terminato l’allacciamento al gas metano, di
bombole ne servivano sempre meno. Il padre di Côsme chiuse bottega. Lui andò
via dal paese e non ne seppi più nulla.
Quando mi risollevai a centrocampo, tutti i bambini mi dissero di scappare prima
che Gianni si riavesse.
“Ma non ho fatto nulla di male!”, obiettai.
“Questo non ti salverà” mi dissero quelli che da Gianni le avevano già prese.
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Allora scavalcai la rete e corsi via, rapido come un contropiedista. Il giorno dopo
Gianni venne in classe e mi minacciò. Io chiesi aiuto a Pietro, che lo calmò.
Probabilmente senza la mediazione di Pietro mi sarei ritrovato con il naso rotto,
anche perché non si poteva mai prevedere quando Gianni avrebbe colpito, ma mi è
sempre rimasto il dubbio che uno così molle nel contrasto non avrebbe potuto
stendermi in un combattimento leale.
Anche Gianni poco dopo lasciò il paese. Non fu certo a causa del mio intervento a
centrocampo, ma penso che comunque a lui non dispiacque andarsene. Dopo quel
fatto, aveva perso parte del suo prestigio.
In paese rimasi io, che non sarei mai diventato un campione di calcio né un boss
della malavita. Restò Maurizio, che continua a fare il macellaio e non è più
attraente come un tempo. E insieme a lui è rimasta Itria. È identica alla ragazza
che scelse il giovane povero ma bello e il suo passaggio in piazza fa ancora ribollire
il sangue dei maschi.
Chissà che ne è di Côsme e Gianni, se la gloria li ha ripresi con sé e li tiene stretti
tra i suoi seni o se li ha abbandonati definitivamente.
E soprattutto chissà se hanno perdonato i loro involontari carnefici.
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