La Regolazione delle Infrastrutture di Trasporto in Italia

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La Regolazione delle Infrastrutture di Trasporto in Italia
La Regolazione delle Infrastrutture di Trasporto in Italia
Politecnico di Milano, 16 novembre 2009
Intervento del prof. Giorgio Ragazzi
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Spiace dover constatare, ancora una volta, l’assenza del Regolatore ad un
importante convegno sul tema. La regolazione del settore autostradale è caratterizzata
da assoluta mancanza di trasparenza, oltre che da una normativa confusa ed anche
largamente disattesa. Attendevamo di avere lumi dal Regolatore, ma pare che questi
preferisca opporre il silenzio ad ogni possibile critica o domanda.
Il tema della regolazione si pone perché in Italia le autostrade sono soggette a
pedaggio, mentre in molti altri paesi sono gratuite. Quale dei due sistemi è
preferibile? Per finanziare il costo della rete stradale l’imposta sui carburanti è da
preferirsi al pedaggio perché, a parità di gettito, i pedaggi hanno costi di esazione
molto più elevati (oltre la metà dei costi operativi delle concessionarie sono assorbiti
da costi di esazione ed amministrativi); essi inducono inoltre distorsioni nel traffico
con utilizzo non ottimale della rete. Né si può ritenere a priori che concessionarie
autostradali, pubbliche o private, siano più efficienti nella costruzione e
manutenzione di strade rispetto ad agenzie pubbliche come l’ANAS.
Il vero ed unico motivo per cui in Italia si ricorre alla concessione e quindi al
pedaggio è quello finanziario: la possibilità di costruire nuove infrastrutture senza
ricorso a fondi pubblici. Ma nessun pasto è gratis: il pedaggio, aggiungendosi
all’imposta sui carburanti, è in realtà un’altra imposta sulla mobilità con numerosi
effetti negativi.
Se pedaggio v’è da essere, la regolazione deve affrontare vari temi: tariffe,
qualità, decisioni di investimento, struttura del mercato. Parliamo di quest’ultima.
E’ meglio avere un’unica concessionaria per tutta la rete autostradale o molti
gestori? Se pensiamo alla “concorrenza per il mercato” dovremmo rallegrarci di avere
23 concessionari e magari di stimolare con gare anche nuovi entranti. Ma io non
credo che, per motivi strutturali, sia possibile effettuare vere gare in questo settore, ed
in effetti chi ha mai visto in Italia una vera gara?
La frammentazione del sistema ha invece molti handicap: difficoltà a
finanziare nuove opere (perchè richiedono pedaggi molto elevati), struttura tariffaria
irrazionale (per coprire i costi si tende ad applicare pedaggi alti sulle tratte poco
trafficate e viceversa, cioè l’esatto contrario di quanto vorrebbe l’ottimalità
economica), diseconomie di scala.
A questo proposito notiamo che, mentre la Autostrade ha costi operativi per
veicolo/km allineati con i concessionari francesi, le altre 22 nostre concessionarie
hanno costi mediamente superiori di ben il 75%! Sopravvivono tuttavia, e fanno
anche ottimi profitti, perché i piani finanziari sui quali si basano le tariffe recepiscono
i loro costi per quel che sono: non sembra che Ministri ed ANAS abbiamo molta
dimestichezza con la “yardstick competition”! Se le tariffe fossero basate sui costi
operativi dei gestori più efficienti quelli meno efficienti dovrebbero ridurre i loro
costi oppure uscire dal mercato lasciando che le loro tratte vengano gestite da altri,
ancor prima della scadenza della concessione. Ma chi ha mai avuto in Italia la forza
di sfidare la lobby dei concessionari autostradali?
Se la struttura del mercato dipende anche dalla politica tariffaria, che dire di
quest’ultima? Dal punto di vista teorico, essendo le autostrade un tipico monopolio
naturale, l’obiettivo della regolazione dovrebbe essere quello di proteggere gli utenti
contenendo i profitti delle concessionarie ad un livello “congruo”, quanto basta ad
attrarre capitali per nuovi investimenti.
In effetti la rete autostradale italiana è stata costruita su questo principio: sino
all’inizio degli anni ’90 varie leggi stabilivano che i pedaggi dovevano essere fissati
ad un livello sufficiente a coprire i costi mentre eventuali utili oltre un modesto
livello dovevano essere riversati allo stato. Ma le cose sono andate in modo ben
diverso. Rivalutazioni monetarie, proroghe delle concessioni, introduzione di un
“price cap” anomalo (rinvio al mio libro “I Signori delle autostrade”, Il Mulino 2008)
hanno portato i profitti delle concessionarie a livelli astronomici rispetto al capitale
investito.
Storicamente gli investimenti furono finanziati tutti a debito, spesso con
garanzia dello stato, mentre gli azionisti versarono come capitale solo somme
irrisorie. Facciamo qualche esempio.
Negli anni ’60 l’IRI versò nella società Autostrade un capitale di 5 milioni di
euro (traduco le lire in euro per semplicità) ricavandone poi 8 miliardi dalla
privatizzazione, oltre a dividendi per più di 600 milioni. Quanto può essere l’IRR di
questo investimento? Schemaventotto versò all’IRI 2,5 miliardi di euro nel 2000 ma
ne ha recuperato più della metà a seguito delle vicende collegate all’OPA ed ha oggi
una partecipazione che vale 4,5 miliardi.
Gli azionisti della Autobrennero versarono nel capitale della società, negli anni
’70, lire3 per l’equivalente di circa 1,5 milioni di euro e si trovano oggi in cassa circa
700 milioni, oltre ai dividendi percepiti nel frattempo, e un MOL di oltre 100 milioni
l’anno. L’autostrada Torino-Milano aveva, nel 1976, un capitale di 3 milioni, oggi il
gruppo Gavio capitalizza in borsa più di 2 miliardi, e potrei continuare. I “diritti
contrattuali” che oggi vantano le concessionarie mancano di legittimità storica: non
hanno versato quasi nulla come capitale né pagato un soldo allo stato per le
concessioni (tranne Schemaventotto).
Il risultato della regolazione degli ultimi 10 anni è disastroso: enormi profitti
per tutte le concessionarie e pressoché zero nuovi investimenti nel settore.
Su quale sia la politica tariffaria attuale non possiamo che chiedere al
Regolatore, dato che le convenzioni ed i relativi piani finanziari, essendo contratti tra
due società (anche l’ANAS è una SpA), sono inaccessibili a terzi. La legge 101/2008
stabilisce che “sono approvati tutti gli schemi di convenzione già sottoscritti
dall’ANAS”. E’ stato così escluso anche il CIPE e nemmeno i parlamentari possono
sapere cosa hanno approvato per legge: nemmeno loro hanno diritto ad avere i testi
delle convenzioni.
Con la nuova convenzione Autostrade si è rescisso ogni rapporto tra tariffa e
profitto del concessionario. Tutto il beneficio dell’incremento del traffico, nei
prossimi 30 anni, resterà acquisito alla società, qualunque sia il suo tasso di profitto.
Si è passati d’un colpo dalla logica della tariffa-remunerazione a quella della tariffascommessa. Un cambiamento così radicale avrebbe dovuto comportare la rimessa a
gara della concessione. Basti pensare a quanto maggiore sia stato il prezzo pagato per
le concessionarie francesi privatizzate con la logica della tariffa-scommessa (rinvia
anche su questo punto al mio libro citato).
Sono poi previsti incrementi di tariffa molto rilevanti (oltre al 70%
dell’inflazione) per coprire i costi dei nuovi investimenti. E’ difficile capire se si
investa così male, in opere che non riusciranno a ripagarsi in termini di maggior
traffico nemmeno nell’arco di 30 anni, quale è appunto la durata residua della
concessione, oppure se si tratti di un altro caso di macroscopica sottovalutazione
degli incrementi futuri del traffico a beneficio della concessionaria. In Francia ed in
Spagna investimenti in terze o quarte corsie non danno luogo ad incrementi di tariffa.
Nel maggio scorso il Regolatore ha concesso un incremento tariffario del 20%
circa all’autostrada Torino-Milano, che pure aveva ottenuto incrementi molto elevati
nei precedenti 8 anni, e poco meno all’altra autostrada del gruppo Gavio, la TorinoPiacenza. Parrebbe che questo incremento sia stato dato a seguito della rivalutazione
monetaria del ramo d’azienda che l’ANAS ha riconosciuto a maggiorazione del
capitale investito. Sarebbe una decisione davvero paradossale. Ma solo l’ANAS
potrebbe spiegare il mistero.
Parlando del “dover essere”, l’operazione di gran lunga più importante sarebbe
trovare il modo di convogliare verso il finanziamento di nuove opere i profitti su
tratte ormai ammortizzate da tempo, che vengono invece accumulati in strumenti
finanziari. Ciò trova ostacolo nell’obbligo di assegnare per gara ogni nuova tratta,
come se fosse un investimento autonomo e separato. Un modo potrebbe essere quello
di rescindere i pedaggi pagati dagli utenti da quelli incassati dalle concessionarie, e
limitare i loro profitti ad un livello “congruo” rispetto al capitale residuo storicamente
investito dai loro azionisti. L’esperienza Di Pietro ha però indicato quanto le
concessionarie siano contrarie a qualunque tentativo di commisurare i profitti al
capitale investito, e persino a parlare di RAB.
Sembra che l’obiettivo primario della regolazione del monopolio naturale,
limitare il profitto ad un livello “congruo”, non sia più attuale in Italia. I pedaggi sono
ormai dei “diritti di passo”, senza rapporto col costo della tratta, oggetto di brame e di
negoziati tra stato, enti locali ed investitori privati.