Polizia

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Polizia
Polizia
Mi alzai faticosamente dal letto e subito sentii una fitta al fianco. Alzai la
maglietta e vidi un livido violaceo risalente alla sera prima. Passai davanti allo specchio e senza volerlo mi soffermai a guardare la mia immagine riflessa. Un’ombra scura sotto l'occhio destro era la traccia di un
pugno ricevuto la sera precedente, la guancia era arrossata e sul collo
avevo l'ombra di cinque dita. Mi trascinai in cucina e vi trovai Ugo che
faceva colazione. Mi guardò e rimase spaventato.
-Ciao papà- lo salutai con voce roca. Non rispose e si alzò dal tavolo per
avvicinarsi a me. Passò una mano sulla mia guancia ed automaticamente mi ritrassi. Sapevo che non voleva farmi del male, quello non era l'Ugo violento e ubriaco che la sera prima mi aveva picchiato, quello era il
padre premuroso che ricordavo, quello che fino a due anni prima sorrideva sempre e non aveva mai alzato le mani su di me. Quell'Ugo se ne
era andato quando la mamma era venuta a mancare. Due o tre volte la
settimana andava al bar e tornava la sera ubriaco fradicio, per poi alzare
le mani su di me per sfogare la sua rabbia. -Ti ho fatto molto male ieri,
vero?- mi domandò triste.
Annuii. Era inutile mentire. Mi aveva massacrato. -Scusa, Sophia- si limitò a dire. Mi infuriai. -Delle tue scuse non me ne faccio niente!- sbottai. -Non si può andare avanti così, lo capisci? Tutte le settimane ti
ubriachi ed alzi le mani su di me. Non ne posso più! Mi interruppi
quando sentii qualcuno entrare in cucina. Mi voltai e sorrisi a mio fratello Matteo. Non volevo che sentisse me e mio padre litigare. Aveva solo
sette anni, volevo proteggerlo dalla violenza di Ugo. -Ciao Matteo, hai
fame?- gli domandai. Lui annuì e si sedette a tavola, strofinandosi gli
occhi. Gli preparai la colazione ed andai a lavarmi e ad infilarmi la divisa del bar dove lavoravo. Mi truccai in modo da coprire i lividi sul mio
viso, presi le chiavi della mia auto e portai mio fratello a scuola. Durante il tragitto, Matteo si girò e guardò i miei lividi mal celati dal fondotinta. -Sei caduta ancora?- chiese. Annuii. Ogni volta che mio fratello chiedeva il perché dei miei lividi, gli dicevo che ero caduta. Pensavo che
ormai non fosse più del tutto convinto, ma mai gli avrei detto la verità.
Non doveva sapere che suo padre era un ubriacone che sfogava lo stress
sulla figlia diciottenne. Lo lasciai davanti alla scuola e mi recai al bar
"New Life", dove lavoravo. -Ciao!- salutai Mario, il mio capo. -Cia...fece per salutarmi, poi si interruppe. -Sono caduta- mi affrettai a dire. Di nuovo?- chiese incarnando un sopracciglio. Sbuffai e mi misi dietro il
bancone, iniziando a prendere le ordinazioni, e Mario non fece altre domande.
Erano due anni (da quando avevo iniziato a lavorare per lui) che cercava di capire perché ogni mattina mi presentavo al lavoro come se fossi
reduce da una rissa, ma io continuavo con la scusa "sono caduta". Fu
una giornata pesante e fui quasi felice di uscire dal lavoro, alle 16.
Quasi. Quasi perché sapevo ciò che probabilmente mi attendeva di lì a
qualche ora. Andai a prendere Matteo a scuola ed insieme andammo a
casa.
Mi feci una doccia, lo aiutai a fare i compiti e cominciai a cucinare
Ugo non c'era. "Certo che non c'è!" pensai infuriata. "Sicuramente è al
bar ad ubriacarsi, tornerà alle dieci e mi userà come sacco da boxe!
"Guardai il cellulare che avevo appoggiato sul tavolo ed ebbi la tentazione di chiamare la polizia. Ci avevo pensato altre volte, ma avevo
anche pensato a Matteo. Aveva già perso un genitore, non volevo che
perdesse anche l'altro, per quanto pessimo fosse. Apparecchiai la tavola e chiamai mio fratello a mangiare. Durante la cena gli feci domande su come era andato a scuola e mi rispose svogliatamente. Si alzò e
frugò tra lo zaino, quindi tornò da me tenendo lo sguardo a terra e
porgendomi un foglio. -Ti prego, non dirlo a papà- disse.
Guardai in foglio. Era una verifica di matematica. Insufficiente. Lo
guardai e scossi la testa.- Devi studiare Matteo, la scuola è importantedissi. Magari fossi potuta andare io a scuola, ma avevo dovuto lasciare
gli studi a metà del terzo anno di liceo perché Ugo aveva perso il lavoro a causa della sua dipendenza dall'alcool e qualcuno doveva portare
a casa i soldi per mangiare. -Lo so, Sophia, mi dispiace. Giuro che mi
impegno e la prossima verifica prendo ottimo! Gli accarezzai la testa e
sorrisi. Presi la penna e gli firmai il voto. -Io non dico niente a papà,
ma promettimi che studierai di più. -Promesso!- giurò sorridendo e
dandomi un bacio sulla guancia. Sparecchiai, controllai che mio fratello si lavasse i denti e lo misi a dormire. Andai in cucina ed iniziai a
lavare i piatti. Tra me e me intanto pregavo che per quella sera Ugo
non tornasse a casa, cosa che a volte accadeva, così non mi avrebbe
picchiato. Preghiere inutili. Sentii le chiavi girare nella toppa e qualcuno trascinarsi sul divano. -Sophia!- gridò con voce impastata. -Portami
una birra!
Feci come mi aveva chiesto e gli portai la sua maledettissima birra, con
le gambe che mi tremavano. Lui naturalmente lo notò. -Hai paura di
me?- chiese alzandosi dal divano. Continuai a guardare per terra. Non
reggevo il suo sguardo. Sentii il suo pugno colpirmi la guancia e caddi
a terra. Stava per avere inizio il suo rituale di sfogo.
-Guardami in faccia quando ti parlo!- urlò, dandomi un calcio in pancia.
Mi si mozzò il respiro. Mi prese per i capelli e mi costrinse a guardarlo
negli occhi. -Ti faccio così schifo che nemmeno mi guardi in facciasibilò. Con orrore vidi una testolina bionda sbucate da dietro il divano.
-Cosa stai facendo?- gridò mio fratello attaccandosi al braccio di Ugo.
—Mollala, mollala! Cattivo lasciala! Ugo mollò la presa su di me per
tirare un pugno nello stomaco a Matteo. Brutta idea. Mi scagliai su di
lui prendendo una sedia dal tavolo e spaccandogliela sulla schiena,
con tutta la forza che avevo in corpo. Non stetti nemmeno a vedere la
sua reazione, presi in braccio mio fratello e mi chiusi a chiave in camera mia. Sentii dei colpi sulla porta. Ugo la stava prendendo a pugni,
ordinandomi di aprirla. Lo ignorai e mi concentrai su mio fratello, che
si teneva la pancia. -Matteo! Matteo stai bene?- lo scossi delicatamente
con le mani tremanti. -Sto... sto bene- balbettò, alzando lo sguardo. La
rabbia mi invase, mentre le lacrime mi rigavano le guance. Non doveva picchiarlo. Non doveva azzardarsi a toccare mio fratello! Un conto
era picchiare me, il che già era sbagliato. Ma non doveva azzardarsi a
toccare il mio fratellino! Presi il cellulare e digitai quelle tre cifre che
mi avevano perseguitato negli ultimi due anni. -Polizia, qual è l'emergenza?- chiese una voce da donna dall'altra parte del telefono. -Mi
chiamo Sophia Pagani, abito al numero 3 di via Garibaldi, a Brescia.
Mio padre è tornato a casa ubriaco e ha picchiato me e mio fratello. Manderemo dei nostri agenti da lei, saranno lì in cinque minuti insieme ad un'ambulanza. Mantenga la calma.
Chiusi la conversazione ed abbracciai mio fratello. Finalmente avevo
avuto il coraggio di fare ciò che andava fatto. Mio padre sarebbe andato in prigione e mio fratello ed io non avremmo più vissuto nella paura. Dopo meno di cinque minuti sentimmo le sirene della polizia e
qualcuno fece irruzione a casa nostra. Sentii rumori di lotta ed Ugo che
gridava, dopo di che qualcuno bussò alla porta di camera mia. -Mi
chiamo Andrea, sono un paramedico, apri la porta. Con ancora in
braccio mio fratello aprii la porta e mi trovai davanti due paramedici.
Una era una donna sui trentacinque che subito prese in braccio
Matteo e lo portò fuori. L'altro, Andrea, era un ragazzo più o meno
della mia età, con gli occhi color di foglia che mi guardavano tristi. Mi
fece sedere sul letto e mi passò una mano sui lividi. Automaticamente
mi ritrassi, ma sapevo che non voleva farmi del male, come Ugo quando era sobrio. Mi guardò negli occhi, mi mise un braccio attorno alle
spalle e mi portò su un'ambulanza. Tre mesi dopo una marea di bambini uscì correndo dal portone della scuola elementare "Leonardo da
Vinci".
Tra tutte le testoline riuscii a scorgere quella bionda di mio fratello
venirmi incontro. -Guarda, guarda!- esclamò Matteo porgendomi un
foglio. Era una verifica di matematica. Ottimo. -Ma che bravo!- Lo abbracciai, sorridendo -Dobbiamo festeggiare!- disse Andrea, baciando
prima Matteo su un guancia, poi me sulla bocca. Negli ultimi tre mesi
Andrea, il paramedico dagli occhi color di foglia, mi aveva aiutato a
riprendere a vivere. Non mi ritraevo più quando qualcuno mi toccava,
avevo ricominciato a sorridere. A settembre avrei ripreso gli studi,
lavorando solo nel pomeriggio. Era stata dura resistere al primo mese,
nel quale facevo avanti ed indietro dal tribunale. Fortunatamente ero
riuscita ad evitare di far testimoniare Matteo, così non aveva dovuto
rivivere gli avvenimenti della sera in cui finalmente avevo digitato
quei tre numeri che mi avevano cambiato la vita. Finalmente avrei potuto vivere davvero.
Giulia Gandellini