L`importanza della Filologia nello studio della Bibbia L`attenzione al

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L`importanza della Filologia nello studio della Bibbia L`attenzione al
L’importanza della Filologia nello studio della Bibbia
L’attenzione al testo scritto significa attenzione alla persona che lo ha
scritto. Prestare attenzione ad uno scritto (oppure a una persona che parla)
significa averne grande considerazione… chiunque sia la persona che
parla o scrive.
Cosa fa lo Studium Biblicum Franciscanum nel campo linguisticofilologico? Una delle caratteristiche della nostra scuola (oltre allo studio
dell’ambiente biblico: geografia, storia e archeologia) è quella di studiare
le lingue bibliche in modo da potere leggere e intendere la Bibbia nella
lingua nella quale fu scritta. Le lingue bibliche principali sono disposte in
diversi anni e in diversi livelli. Il greco si studia per due anni: morfologia
(5 ore settimanali per un anno) e sintassi (3 ore settimanali per un altro
anno). L’ebraico è disposto su tre (o quattro) livelli: morfologia (4 ore
settimanali per un anno), sintassi (2 ore settimanali per un anno), lettura
sintattica (2 ore per un semestre). Esiste poi un quarto livello di ebraico
(sintassi a livello avanzato) riservato ai dottorandi di AT. Obbligatorio
per tutti è anche l’aramaico biblico che, però, occupa lo spazio di un
solo semestre (2 ore).
Esistono poi dei corsi a scelta su materie linguistiche ausiliarie che
vengono offerti con cadenza biennale: Accadico (A-B). Introduzione alla
scrittura cuneiforme, grammatica (morfologia), lettura di brani scelti (ad
es. il Codice di Hammurabi); Siriaco (è un dialetto aramaico nel quale si
è preservata tutta la Bibbia). Fonologia, morfologia, elementi di sintassi,
lettura e traduzione di testi (in gran parte biblici); Aramaico targumico
(cioè la lingua aramaica dei diversi targumim, con i commenti rabbinici
alla Bibbia ebraica); Arabo classico (una lingua semitica affine, in parte,
all’ebraico e all’aramaico); Filologia neotestamentaria (studi
approfonditi su piccole sezioni del testo greco del NT). È una
presentazione dei principali punti della sintassi greca con esempi e analisi
di alcuni capitoli scelti. Lo studente è “obbligato” a seguire almeno un
corso fra questi, ma diversi studenti fanno più dello stretto necessario.
Con questa base linguistica lo studente dovrebbe essere in grado di
analizzare e capire la Bibbia in ogni dettaglio filologico.
Vi faccio alcuni esempi, presi dalle mie recenti ricerche, dove si vede che
anche le minuzie possono avere un significato. Si tratta di un paio di casi
in cui, attraverso un confronto attento fra le diverse versioni, si vede
l’evoluzione del testo biblico dell’Antico Testamento.
Come premessa facciamo vedere in breve la cronologia del testo dell’AT,
il testo ebraico e le sue versioni. Si pensa - e a ragione - che all’epoca di
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Cristo l’AT fosse sostanzialmente completato, cioè la Bibbia ebraica che
noi possediamo fosse già completa (quanto ai libri e al loro contenuto).
Per cui, parlando dell’AT, abbiamo questa sequenza temporale: Antico
Testamento ebraico (prima di Cristo), Targum (traduzione aramaica con
tradizioni di epoche assai diverse a partire dal dopo-esilio babilonese; dal
sec. V-IV a.C. in poi), LXX (dal II secolo a.C. in poi), testi di Qumran (II
sec. a.C.-I sec. d.C.), Vulgata (IV-V secolo d.C.), Peshitta (IV-V secolo
d.C.).
L’evento “Cristianesimo” ha sconvolto questa sequenza e ha causato nel
mondo giudaico una revisione minuziosa e sostanziale del testo ebraico al
punto che possiamo dire che è stato “riscritto” (con l’aggiunta di accenti e
vocali per preservarne la lettura esatta) producendo quello che noi
chiamiamo il Testo Masoretico (secoli VI-VIII d.C. circa). Questo è il
testo ebraico che oggi abbiamo a disposizione e sul quale operiamo
quando diciamo: “Tradotto dall’originale ebraico”.
In questo caso ci troviamo di fronte ad un paradosso: le versioni del testo
ebraico della Bibbia sono più antiche, cioè rispecchiano un testo ebraico
più antico rispetto al testo ebraico a nostra disposizione (TM). Non vi
sono fonti antiche che testimoniano in maniera minuziosa e dettagliata
questo passaggio (questa evoluzione dal primo al secondo testo ebraico),
anzi possiamo dire che il testo originale ebraico è andato perduto
fondendosi col TM. Quindi se vogliamo in qualche modo recuperarlo
dobbiamo basarci sulle versioni antiche (compresi i testi di Qumran), in
special modo sui passi delle versioni che concordano fra di loro contro
l’attuale testo masoretico. Facciamo due esempi.
Il caso di Abdia 17: “i suoi possessi” o “i suoi possessori”?
Testo ebraico (TM): Ma sul monte Sion vi saranno superstiti e sarà un
luogo santo, e la casa di Giacobbe possederà i suoi possessi.
CEI 1974: Ma sul monte Sion vi saranno superstiti e saranno santi e la
casa di Giacobbe avrà in mano i suoi possessori.
CEI 2008: Ma sul monte Sion vi saranno superstiti e sarà un luogo santo,
e la casa di Giacobbe possederà i suoi possessori.
LXX: e la casa di Giacobbe possederà i suoi possessori.
Peshitta: e la casa di Giacobbe possederà i suoi possessori (lett.: coloro
che l’avevano ereditata).
Vulgata: eos qui se possederant (= i suoi possessori).
Targum: i possessi dei popoli che li avevano posseduti (testo ambiguo).
Wadi Murabba‘at (dove è stato rinvenuto il testo dei Dodici in ebraico): i
suoi possessori (lett.: coloro che l’avevano ereditata).
Ci chiediamo: come è possibile che tutte le versioni siano concordi contro
il testo ebraico che conosciamo (TM)? La risposta è semplice: Il testo
ebraico primitivo era diverso da quello attuale e riportava la dicitura “i
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suoi possessori”. Il cambiamento in “i suoi possessi” è avvenuto tramite il
cambiamento di una semplice lettera, cioè togliendo una yod! Da
morishehém (µ h y çy r w m ) che significa “i suoi possessori” a (µ h y çr w m )
morashehém che significa “i suoi possessi”. Qui termina il compito della
filologia. Ora bisogna capire se si sia trattato di una correzione
involontaria (= errore) oppure voluta. E quali siano le differenze
implicate… ma questo ha poco a che fare con la filologia, mentre
interessa piuttosto l’esegesi o l’ideologia.
Si noti, invece, che il dizionario BDB (dell’inizio del secolo XX; un
ottimo strumento filologico!), basandosi sulle versioni antiche, aveva
proposto di leggere il testo ebraico nel senso di “i suoi possessori” (p.
440) e questo ben prima della scoperta dei manoscritti del mar Morto
(cioè basandosi esclusivamente sulla filologia). Questo ci fa vedere fino a
che punto possa spingersi la filologia: cioè fino a ricostruire con
precisione un testo non ancora esistente.
Abacuc 2,16 “ti colga il capogiro” o “denùdati mostrando il prepuzio”?
TM: Bevi anche tu e sii incirconciso!
CEI 1974: Bevi, e ti colga il capogiro!
CEI 2008: Bevi anche tu, e denùdati mostrando il prepuzio!
LXX: Trema, o cuore, e àgitati! (diverso)
Peshitta: Ubriàcati e barcolla!
Vulgata: Ubriàcati e addormentati!
Qumran (Pesher): Ubriàcati e barcolla!
Targum: Bevi anche tu e denùdati!
Anche in questo caso ci chiediamo: come è possibile che quasi tutte le
versioni antiche siano concordi contro il testo ebraico (TM)? La risposta è
semplice: Il testo ebraico primitivo era diverso da quello attuale e
riportava la versione “barcolla / ti colga il capogiro” invece di “denudati /
mostra il prepuzio”. Ad un certo punto l’autore sacro (per un errore,
oppure per motivi propri a noi sconosciuti) ha cambiato il senso della
frase operando una semplice metatesi di due lettere: herael “barcolla!”
(l [ r h ) diventa hearel “mostra l’incirconcisione!” (l r [ h ).
Si noti che il dizionario BDB più di 100 anni fa proponeva, ancora una
volta, la stessa lettura che sarebbe stata trovata circa 40 anni dopo a
Qumran.
Si noti inoltre che la Bibbia CEI 2008 è diversa da quella del 1974.
Evidentemente nella vecchia edizione traducendo “ti colga il capogiro”
avevano seguito le diverse versioni antiche, mentre nella Bibbia CEI
2008 hanno tradotto letteralmente il testo ebraico masoretico, cioè
“denùdati mostrando il prepuzio”.
Questi due esempi devono bastarci per farci capire che il testo biblico può
essere affrontato seriamente dal punto di vista filologico, anche se questo
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impegno non viene richiesto a tutti, ovviamente (e non tutti sono in grado
di apprezzarlo).
Vediamo ora alcuni contributi linguistico-esegetici presenti nella rivista
Liber Annuus appena uscita nel suo sessantunesimo volume.
Alberto Mello
Abitare nella casa del Signore. Il Sal 27 (26) e la risurrezione
Il salmo inizia in questo modo: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di
chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore?”.
Il salmo 27 è un Salmo di risurrezione? Cioè fa riferimento alla vita
futura? Noi – sottolinea l’autore – crediamo di sì. All’inizio si dice: “Il
Signore è mia luce e mia salvezza”, che è stato tradizionalmente
interpretato dagli esegeti antichi come: “La luce in questo mondo e la
salvezza del mondo a venire”. Poi il salmo formula un voto solenne (v. 4)
per quanto riguarda la volontà di abitare per sempre nella casa del
Signore (Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare
nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza
del Signore…). Inoltre, si conclude con un altro voto (v. 13: Sono certo di
contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi). Almeno due
detti, in questi due voti, sono rigorosamente paralleli: “per contemplare la
bellezza del Signore” (v. 4) e “per vedere la bontà del Signore” (v. 13).
Quindi i due voti si illuminano a vicenda. Questo fatto ci consente di
trovare una nuova soluzione grammaticale per il molto difficile v. 13, in
cui abbiamo una protasi senza apodosi. Teologicamente, “la casa del
Signore” diventa molto vicino alla “terra dei viventi”, ossia la
risurrezione.
Ci si potrebbe ancora chiedere (dice Mello): la prospettiva così delineata
è quella di una “immortalità dell’anima” o di una “risurrezione del
corpo”? Niente obbliga a scegliere, suggerisce Maurice Gilbert, il quale
registra negli scritti deuterocanonici, redatti in greco come il libro della
Sapienza o tradotti in greco come il Siracide, una certa fluttuazione
culturale dall’una all’altra concezione, fluttuazione che si riconosce anche
nei manoscritti esseni di Qumran. Certo, porre un’alternativa troppo
rigida tra le due cose finisce per nuocere ad entrambe.
Frédéric Manns
The Historical Character of the Fourth Gospel
Il carattere storico del quarto Vangelo: vuole mettere tutto in discussione
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in vista della ricerca attuale sul Gesù storico.
Molti esegeti – scrive Manns – accettano senza discussione che il Quarto
Vangelo è stato scritto negli ultimi dieci anni del primo secolo ed è solo
un testimone della storia della comunità giovannea. Lo scopo di questa
ricerca è stato quello di esaminare la storicità del quarto Vangelo: si tratta
di un vero e proprio Vangelo? Qui vi sono diversi approcci. Viene la
‘Birkat ha-Minim’ accennata nel Vangelo? La cristologia alta è in
ritardo? Il Vangelo è dipendente dai sinottici? Sono le citazioni della
Scrittura basate sulla LXX o su un’altra versione? Che cosa significa
l’ebraicità di Gesù? Perché il Vangelo sottolinea l’importanza delle feste
ebraiche? Non contengono i discorsi giovannei alcune tradizioni storiche?
Ha l’archeologia qualcosa da dire riguardo alla storicità? Tutte queste
domande devono essere affrontate prima di dare una risposta in merito
alla storicità del quarto Vangelo.
Alfio Marcello Buscemi
Col 3,1-4: “cercate le cose di lassù”. Un approccio filologico-esegetico
Questa ricerca mira a stabilire la delimitazione di Col 3,1-4, il suo
contesto, la funzione retorica, la struttura letteraria, e di offrirne una più
precisa interpretazione esegetica. Col 3,1-4 è una pericope di transizione.
Ecco perché presenta un duplice contesto: quello del battesimo di Col
2,8-23 e quella del comportamento escatologico di Col 3,5-4,6. Entrambi
i contesti cercano di coinvolgere i credenti nel “mistero della morte e
risurrezione di Cristo”. … Col 3,1-4 presenta una tripartizione: A. Col
3,1: la motivazione cristologica ed escatologica - B. Col 3,2: la
conoscenza e il modo di vivere coerente - A' Col 3,3-4: la motivazione
cristologica ed escatologica . La pericope è un appello ai credenti a vivere
la propria identità cristiana. Per questo motivo essi devono avere frónesis
(φρόνησις “sapienza”) a “morire e risorgere con Cristo”, “in attesa della
sua manifestazione nella gloria”, e così saranno “manifestati con lui che è
la nostra vita”.
Lesław Daniel Chrupcała
Il καί avverbiale in Lc-At
Nel NT, come nelle opere degli autori greci, ci sono due usi principali di
καί: connettivo (congiunzione copulativa) e aggiuntivo (particella
avverbiale), entrambi però denotano varie sfumature. Come avverbio, καί
assume due significati generali: additivo (“anche”) e ascensivo o
intensivo (“anche”: “non solo… ma anche”), a volte, quando il senso del
climax è particolarmente forte, l’ultimo ha un senso enfatico. Il presente
articolo focalizza l’attenzione sulla funzione del καί avverbiale negli
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scritti di Luca. Tutti i passaggi che contengono il καί avverbiale sono
raggruppati e analizzati in tre sezioni secondo l’uso di questa particella:
1) in connessione con i singoli elementi della clausola o parti della frase,
2) in relazione tra le clausole, dove καί denota l’aggiunta del contenuto a
quello della clausola precedente, principale o coordinata; 3) all’interno
delle varie forme di confronto. Lo scopo di questo studio è quello di
ottenere una migliore comprensione dell’uso lucano del καί avverbiale e
di apprezzarlo nell’esegesi biblica e nella traduzione.
Da ultimo segnalo un mio contributo dedicato alla pubblicazione di un
testo patristico preservato unicamente in lingua siriaca e attribuito a San
Gregorio Taumaturgo.
Massimo Pazzini
Trattato di San Gregorio Taumaturgo circa la non passibilità o passibilità
di Dio. Testo siriaco e traduzione italiana
L’articolo contiene il testo siriaco e la traduzione italiana di un’opera del
II-III secolo d.C. che tratta della non passibilità o passibilità di Dio, cioè
se Dio possa soffrire oppure no (se sia conveniente dire che Dio può
soffrire oppure no). Si tratta di un trattato di filosofia, di teologia
dogmatica e di apologetica, conservato unicamente in lingua siriaca e
attribuito a S. Gregorio Taumaturgo. Secondo Gregorio Dio ha scelto
liberamente di soffrire – cioè di patire passioni umane, comprese le
sofferenze fisiche – per mostrare all’uomo di essere superiore ad ogni
genere di passione.
E usando le parole stesse di San Gregorio: “Ciò che patisce colui che è
nella passione, quando il dominio della passione corruttrice domina su di
lui, è all’infuori della volontà di colui che patisce. Quello, invece, che, nel
contatto con le passioni, è sottomesso alle passioni di sua volontà,
nell’impassibilità della sua natura, di questo non diciamo che è caduto
sotto la passione, anche se ha preso parte con la sua volontà alle
passioni”.
Non mancano i giochi di parole per esprimere questa realtà, giochi di
parole comprensibili sia in siriaco che in italiano: “Infatti l’impassibile
(cioè il Dio impassibile) fu passione per le passioni affinché per lui (le
passioni) patissero la passione, quando l’impassibilità nella sua passione
mostrò la sua impassibilità. Ciò che operano le passioni presso i passibili,
allo stesso modo opera l’impassibile nella sua passione verso le passioni,
perché fu passione per le passioni con la sua impassibilità”.
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Nel presente volume della rivista ci sono altri articoli di carattere
puramente filologico come quello di G. Geiger su “L’Accentuazione
nella differenziazione semantica: il Nif'al wayyiqtol nella vocalizzazione
masoretica” (che studia la differenza di significato causata dalla
differenza dell’accento) e quello di R. Pierri su “L’imperativo nel Nuovo
Testamento” (che discute il modo imperativo nel complesso dell’intero
NT). Ma sono troppo tecnici per essere presentati in questa sede.
Ci bastino questi esempi per farci capire che l’approccio linguistico
filologico può portare frutti utili anche nel campo dell’esegesi e, in
generale, dello studio della parola di Dio.
Massimo Pazzini, ofm
Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemme
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