Mutuare, interpretare, tradurre: storie di culture a confronto

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Mutuare, interpretare, tradurre: storie di culture a confronto
Mutuare, interpretare, tradurre:
storie di culture a confronto
Atti del 2º Incontro «Orientalisti»
(Roma, 11-13 dicembre 2002)
a cura di
Giuseppe Regalzi
prefazione di
Chiara Peri
Mutuare, interpretare, tradurre:
storie di culture a confronto
Atti del 2º Incontro « Orientalisti»
(Roma, 11-13 dicembre 2002)
a cura di
Giuseppe Regalzi
prefazione di
Chiara Peri
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In copertina: Pieter Brueghel il Vecchio, La Torre di Babele
a Roberto Palazzi
Indice
Prefazione
Chiara Peri
Prefazione del curatore
Giuseppe Regalzi
9
11
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente.
Tre esempi: sumerico, eblaita, fenicio
13
Danila Piacentini
Considerazioni sulle dinamiche sociali nell’Alta Siria durante il
Bronzo Tardo: il caso di Tell Mumbaqat, problemi di metodologia
Simona Bracci
39
La glittica di Siria e Palestina nel Bronzo Tardo. Le produzioni
di Alalakh, Emar e Kumidi a confronto
Riccardo Ceretti
49
Il paese di Aram attraverso le fonti assire da Tiglatpileser I
a Salmanassar III
Michela Alessandroni
67
Topografia dell’ideale topografia del reale I: gli spazi urbani dalle
iscrizioni reali neo-assire
75
Marta Rivaroli
Topografia dell’ideale topografia del reale II: il paesaggio urbano dai
testi giuridici di Emar
85
Lucia Mori
5
Scultura e scrittura: indipendenza ed integrazione del messaggio
Davide Nadali
97
Chi si librava sulle acque? Interpretazioni e trasformazioni
di Gen 1,2
Giuseppe Regalzi
105
La crisi e la scrittura del passato: analogie fra Atene e
Gerusalemme
Massimo Gargiulo
115
Sul culto di Demetra nella Sardegna punica
Giuseppe Garbati
127
Demetra e Core nella religione punica
Chiara Peri
145
Traduzioni nelle epigrafi neopuniche nordafricane?
Rossana De Simone
155
Saperi marginali e religione istituzionale
Fuori e dentro la citta.
nella Grecia antica
Pietro Giammellaro
169
L’Impero e i suoi confini: terra, suolo e territorio nella prima
dinastia Han
Filippo Marsili
215
Interpretare e essere interpretati: il caso della Malinche
Sergio Botta
Dal rifiuto all’incontro: il popolo zingaro nell’Italia centromeridionale nel Cinquecento e nel Seicento
Carlo Stasolla
231
245
Induizzati, degenerati, da convertire. Interpretazioni del buddhismo
newar della valle di Kathmandu
257
Chiara Letizia
6
Historiography and Nationalism: A Match Made in Heaven
Murat Cem MengüÇc
277
‘Orientalism’ in Latin-american Prospect
Cristina De Bernardi, Eleonora Ravenna
285
7
Prefazione
Chiara Peri
La soddisfazione con cui presentiamo gli atti di questo secondo Incontro
«Orientalisti» e dovuta alla consapevolezza che l’anno trascorso ha portato
con s¡e diverse novita positive. Gli Orientalisti si sono costituiti in associazione, la mailing-list OrientaLista continua a funzionare in modo efficace e
le iniziative proposte si moltiplicano. Certo questo secondo incontro interdisciplinale e stato diverso dal primo: piu relatori, che ci hanno portato ad
aumentare a tre le giornate dell’incontro, una maggiore varieta negli argomenti trattati e nelle discipline coinvolte. Identico invece, e ce ne rallegriamo,
e rimasto lo spirito delle discussioni e la voglia di cercare insieme modalita nuove per fare ricerca.
Ci e parso importante affrontare il tema del confronto e dell’intreccio,
spesso inestricabile, di culture diverse in un momento storico in cui lo scontro tra le civilta sembra essere tornato di moda. Ognuna delle relazioni, a suo
modo, mette in guardia dalle definizioni troppo facili e frettolose, siano esse
etniche, politiche o religiose. L’incontro, che assume spesso forme inaspettate e poco decifrabili, e da sempre una delle spinte che muovono i processi storici. Mutuando, interpretando e traducendo, consapevolmente o no, abbiamo
costruito, come tutti, la nostra identita.
Ancora una volta scegliamo la forma della pubblicazione elettronica, a
cui dedichiamo anche una giornata di studi in occasione della presentazione
di questi atti. Rimaniamo convinti infatti dell’efficacia di questo mezzo, che
finira certamente per imporsi nonostante tutte le resistenze. La pubblicazione
dei risultati della ricerca e infatti in primo luogo un dovere, e certo questo e il modo per ottenere la massima diffusione con la minima spesa. Insistiamo
dunque su questa strada, mettendo rapidamente i risultati del nostro lavoro a
disposizione di chi vorra leggerli, commentarli, recensirli.
Quattro delle relazioni lette al convegno non sono state incluse negli atti,
ma ci sembra giusto ricordarle qui: «La rappresentazione visiva dell’evento bellico e del trionfo: due esempi di culture a confronto tra Siria e Mesopotamia» di Rita Dolce; «Esegesi e rappresentazione: l’Antico Testamento
nell’arte tra senso storico e senso figurale» di Valentina Antonucci e Cateri9
10
na Moro; « SÃ lm ‘statua, immagine’ nel semitico nordoccidentale e meridionale» di Fiorella Scagliarini; « SÃ almu ‘immagine’ in accadico» di Lorenzo
Verderame.
Vorrei qui ringraziare brevemente chi ha permesso lo svolgimento del
convegno di dicembre: il Museo Garibaldino di Porta San Pancrazio, a Roma, per averci messo a disposizione i suoi locali e, in particolare, la dott.ssa
Anna Rughetti, che ha di gran lunga superato con la sua gentilezza i suoi doveri di ospite e ha condiviso con noi tutti gli aspetti dell’incontro; il gruppo
Ale Brider e la Corale Polifonica Psalterium per averci offerto il concerto con
cui abbiamo concluso l’incontro; padre Francesco De Luccia S.J. per averci ospitato all’Oratorio del Caravita per la serata conclusiva dei lavori; Giuseppe Garbati, Massimo Gargiulo, Alessandra Mezzasalma, Caterina Moro,
Danila Piacentini, Marta Rivaroli per l’organizzazione; tutti gli Orientalisti
non romani per la loro partecipazione sempre piu numerosa e calorosa.
Ringrazio inoltre tutti gli amici che hanno accettato di dedicare il convegno alla memoria di Roberto Palazzi, un caro amico scomparso tragicamente
un anno fa. L’eterogeneita dei temi trattati e l’assoluta informalita del nostro
incontro, che nulla toglie alla sostanza degli interventi, gli sarebbero piaciute
molto.
Grazie infine a Giuseppe Regalzi, che ha curato anche questi atti con la
consueta attenzione, e che mette generosamente a disposizione il suo tempo
per aggiornare e migliorare il sito web della nostra associazione: senza il suo
lavoro tante buone idee sarebbero rimaste buone intenzioni.
Chiara Peri
Roma, 23 maggio 2003
Prefazione del curatore
Giuseppe Regalzi
A distanza di poco piu di un anno, gli argomenti che elencavo nella prefazione agli Atti del 1º Incontro «Orientalisti» in favore della pubblicazione
elettronica aperta della letteratura scientifica rimangono validi. Purtroppo,
non sembra che nel nostro paese la novita sia stata recepita a livello istituzionale; questo contribuisce a soffocare le potenzialita del nuovo modello di
diffusione del sapere, per l’affermazione del quale sarebbe decisivo qualche
riferimento certo, come il riconoscimento della uguale dignita ai fini concorsuali e l’allestimento di biblioteche elettroniche. Non si obietti che in questo momento la scienza italiana e afflitta da ben altre emergenze: il risparmio di denaro e l’aumento di impatto scientifico che la pubblicazione elettronica aperta comporta potrebbero contribuire ad alleviare proprio quelle
emergenze.
All’estero la situazione sembra piu promettente; lo testimonia, fra l’altro, il numero crescente di riviste peer-reviewed elencate nella «Directory
of Open Access Journals» (DOAJ, http://www.doaj.org). Si registra comunque un orientamento sempre piu netto verso l’archiviazione dei testi elet societa erudite, etc. –
tronici da parte delle istituzioni locali – universita,
piuttosto che in mastodontici centri unificati. La Open Archives Initiative
(OAI, http://www.openarchives.org/) ha sviluppato il software necessario a
garantire l’indispensabile interoperabilita degli archivi cos ı fondati.
Puo apparire prematuro pensare adesso ai mutamenti che i mezzi a nostra disposizione promettono non piu solo nella distribuzione, ma anche nella
concezione stessa delle pubblicazioni scientifiche; e comunque quello che ho
tentato di fare, con tutta la prudenza del caso, nel mio intervento per l’E-book
Italia Forum 2002 organizzato da Luigi M. Reale.1 Si tratta di prospettive
ancora incerte, ma che i rapidi cambiamenti in corso potrebbero avvicinare
imprevedibilmente.
1
«Vino vecchio in otri nuovi. La letteratura scientifica nell'era dell'e-book», in Ebook Italia Forum 2002: il libro elettronico e l'editoria digitale umanistica in Italia. Conferenza virtuale, 30/09 - 30/11 2002, a cura di Luigi M. Reale, Perugia-Clusone 2002,
http://www.italianisticaonline.it/e-book/forum 2002/relazioni/regalzi giuseppe.htm.
11
12
Quella che qui presentiamo e invece una pubblicazione in tutto tradizionale, se non nel modo in cui viene distribuita; possiamo, per il momento,
dircene soddisfatti.
Anche quest’anno il mio ringraziamento va ai relatori, spesso piu ansiosi
dello stesso curatore di mantenere il rapido passo delle scadenze prefissate;
e a Chiara Peri, senza la quale questo Incontro e quello che l’ha preceduto
non avrebbero mai avuto luogo, n¡e sarebbe mai stata fondata l’Associazione
Orientalisti, con tutta la ricchezza di amicizie prima ancora che di progetti
eruditi che essa significa oggi per molti.
Giuseppe Regalzi
Roma, 23 maggio 2003
Il verbo «tradurre» ed il termine
«traduttore» nel Vicino Oriente.
Tre esempi: sumerico, eblaita, fenicio
Danila Piacentini
Abstract
This paper will analyze the multiple sources in which appeared the efforts, the
people of the Ancient Near East made, to communicate each other although they had
chosen each different linguistic systems. In English the significant “to translate” is
adopted for the act performed by a man, the “translator”, who facilitates the comprehension between two foreign people. In the languages of the Ancient Near East
we have a few terms which can fit this demand. They will be organized in a chronological way from the ancient Sumerian to the more recent Punic with a particular
attention at the sources which had transmitted us these terms.
Mi prefiggo di analizzare con questo contributo i termini che in italiano
hanno come significante «tradurre» e «traduttore» e come significato l’atto
compiuto da una persona che ha come fine il facilitare la comprensione tra
differenti popolazioni che per comunicare hanno scelto di adottare diversi
sistemi di linguaggio: questa persona realizza una traduzione da un idioma
ad un altro.
L’analisi delle fonti che contengono i due termini, oggetto della ricerca,
verra condotta in tre delle lingue principali del Vicino Oriente: il sumerico,
l’eblaita ed il fenicio-punico.
Introduzione
Su una tavoletta frammentaria con testo sumerico di argomento letterario della III dinastia di Ur (2112-2004 a.C.),1 conservata all’Ashmolean
Museum di Oxford, e riportato il motivo della «Babele di lingue».2
1
2
Liverani 1988.
Kramer 1968.
13
14
Danila Piacentini
«C’era una volta una terra in cui non c’era il serpente, non c’era lo scorpione, non c’era la iena, non c’era il leone, non c’era il cane selvaggio, non
c’era il lupo, non c’erano paura e terrore e l’uomo non aveva rivali. In quei
ki , ... Ki-en-gi, ... Ki-uri ... e Mar-tu
Î
giorni i paesi di Su-bir4 ki e Ha-ma-zi
erano tranquilli ... e si rivolgevano ad Enlil in una sola lingua. Poi Enki, ...
capo degli d ei e signore della saggezza, ... cambio le lingue nelle loro bocche, le lingue che prima erano una sola». Dalla letteratura si apprende che
nel paese di Sumer la confusione delle lingue nacque dalla rivalita esistente tra le divinita maggiori del loro pantheon: Enlil ed Enki.3 Sono gli d ei a
determinare per i mortali una differenziazione nei sistemi di comunicazione.
In Israele, nell’Antico Testamento, la Genesi (11,1-9) ci parla della terra
che «aveva una sola lingua e le medesime parole». Il Signore pero non approv o che gli uomini costruissero una torre che toccasse il cielo e quindi, per
punirli, confuse le loro lingue, li disperse su tutta la terra ed essi cessarono di
costruire la citta di Babele.4 In questo caso ci troviamo di fronte ad un contrasto tra il dio di Israele ed il suo popolo,5 quindi tra il divino e l’umano,
che generera la diversita delle lingue del mondo.
In Egitto il dio Thot presenta tutta una serie di appellativi che lo qualificano: egli era, in un ostracon scritto in ieratico che contiene un inno a lui,
«colui che rese differenti le lingue da un paese ad un altro», oppure, in un
le lingue da paese a paese», o
papiro da Torino, «colui che distinse [o separo]
ancora, in una stele dal British Museum, «signore di Hermopoli, che distinse
la lingua di ogni paese straniero». Per le credenze del Nuovo Regno, in cui
gli d ei egiziani avevano cessato di essere puramente nazionali, Thot viene
presentato come il creatore delle lingue straniere.6 Nel Libro dei Morti, nella versione giunta a noi dal periodo del Nuovo Regno (1580-1085 a.C. ca.),7
Thot e visto come un potente «traduttore di entrambi i paesi». Nel momento in cui degli stranieri avessero dovuto presentarsi davanti al tribunale dei
morti di Osiride, avrebbero avuto qualcuno che poteva aiutarli: Thot poteva
offrire loro i suoi servigi come traduttore.8
La motivazione divina data come spiegazione alla «confusione» delle
3
Kramer 1968: 111.
CEI 1983: 9.
5
Kramer 1968: 111.
6
Cerny
Ç
1948: 121-22; dalla V dinastia Thot era «signore delle terre straniere».
7
Donadoni 1994: 638.
8
Hermann e von Soden 1959: 28. Sul sostantivo «traduttore» in egiziano si vedano
Gardiner 1915 e Peet 1915.
4
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
15
lingue nel mondo vicino orientale antico aveva gia trovato una soluzione per
il problema: bisognava chiamare un interprete.
Sumerico
La tradizione scribale nel paese di Sumer, che scriveva la lingua sumerica tramite il sistema di scrittura cuneiforme, prediligeva raccogliere lo scibile umano allora conosciuto in elenchi di parole divise per argomento, le cosiddette «liste lessicali». Questi elenchi comprendevano i soggetti piu vari:
dagli uccelli agli alberi, dai nomi geografici al personale amministrativo che
lavorava nel tempio. In una di queste liste, denominata EDLuE (Early Dynastic List E),9 proveniente in molte copie da Tell Ab¤u SÃ al¤ab¤ıkh, che si pensa
possa essere stata redatta nel periodo di Fara (protodinastico IIIa, 2600-2450
a.C.) ed in una copia da Ga¡sur (Nuzi) del periodo paleoaccadico (2335-2154
a.C.), compare per la prima volta il termine eme-bal, da interpretare come
«interprete, traduttore».10 Si tratta di una lista che genericamente puo essere
definita come un elenco di nomi di professione, ma in cui sono riportati tutti
i nomi dei funzionari che lavoravano per il tempio; in essa eme-bal si trova
inserito tra il kingal (gal-ukkin), che si puo tradurre con «colui che sta piu in alto tra la cittadinanza»,11 e il sag-du5 «capo del catasto».12 L’interprete, per le sue conoscenze, aveva quindi uno status sociale elevato all’interno
della societa sumerica [testo sumerico a].
Il verbo bal in sumerico significa «girare, voltarsi, capovolgere».13 Giustapponendo a questo verbo il sostantivo eme, che significa «lingua»,14 si arriva a formare un altro verbo con il significato di «tradurre, interpretare» in
quanto si fa «girare la lingua», la si converte in un altro idioma. Nel corso del
secondo e poi del primo millennio a. C. c’ e un cambiamento d’uso: al verbo
9
Landsberger 1969: 16-17.
Cfr. Lambert 1987: 409 che traduce «tongue interchanger»; von Soden 1989: 352;
Hübner e Reizammer 1985-1986: 265 s.v. eme I «Sprache», 103 s.v. bal-a I «Wechselamt».
L’articolo fondamentale di Ignace G. Gelb, «The Word for Dragoman in the Ancient Near
East», Glossa 2 (1968), pp. 93-104 non mi e stato accessibile.
11
Hübner e Reizammer 1985-1986: 565 s.v. kingal «Bürgerschaftsoberster».
12
Hübner e Reizammer 1985-1986: 835 s.v. sag-du5 «Katasterleiter».
13
Sjoberg 1984: 48-49.
14
Il sumerogramma che forma il sostantivo eme e costituito da due segni che si sovrappongono: KAxME. I due segni rappresentano rispettivamente una testa stilizzata in cui e messa in evidenza la bocca (KA) ed il segno che indica cio che esce dalla bocca in forma di suono
(ME). Deimel 1922, nº 334; Fossey 1926: 50; Labat 1976, nº 32.
10
16
Danila Piacentini
bal si premette un altro sostantivo, inim, che significa «parola», per realizzare il verbo «parlare, conversare» che nella letteratura sapienziale prende
il significato piu specifico di «interpretare, tradurre».15
Dai proverbi e dai testi di esame si puo desumere come le prime figure professionali a doversi cimentare nelle traduzioni dovevano essere stati
gli scribi, che nel periodo della III dinastia di Ur (2112-2004 a.C.) erano sicuramente bilingui. Essi dovevano conoscere necessariamente il sistema di
scrittura inventato dai Sumeri. Era imprenscindibile l’apprendimento della
lingua sumerica (anche se in questo periodo non era piu parlata), mentre lingua ufficiale era divenuta la lingua accadica, che si era adattata al sistema di
scrittura cuneiforme. In un proverbio si arriva ad irridere lo scriba che non
conosceva il sumerico e che non poteva sperare di trovare nessun altro che
lo potesse aiutare, se non se stesso [testo sumerico a1].
Nei testi di esame si dice esplicitamente che il sumerico era una lingua
molto difficile da tradurre comparata con l’accadico e si fa riferimento anche alla traduzione simultanea in quanto, in un altro testo di esame, si chiede se si era in grado di tradurre dei dialetti non meglio specificati, solamente
ascoltandoli [testo sumerico b, c e c1].
La professione di traduttore ci appare attestata nei testi sumerici di ogni
periodo:
1. in un testo economico del periodo paleoaccadico da Adab si fanno delle assegnazioni di cibo ad una persona definita come «interprete della
[testo sumerico d];
citta di Gutium » (oppure destinato a tale citta)
2. in un sigillo paleoaccadico il possessore si attribuisce il titolo di «interprete di MeluhÎ hÎ a»; verosimilmente una persona di origine accadica, desumibile dal patronimico, che conosceva bene anche la lingua
della citta di MeluhÎ hÎ a, situata sul Golfo Persico [testo sumerico e];
3. nei testi economici del periodo di Gudea di Laga¬s16 (2100 a.C. ca.)
possono essere contati 14 traduttori di differente natura: gli eme-bala,
gli ugula eme-bala «interprete ispettore» e gli eme-bala-kaskal.17 Il
sostantivo kaskal significa in sumerico «strada, viaggio, carovana»;
ne consegue che degli interpreti di professione fossero al seguito di
grosse carovane e che esercitassero la loro professione sia nelle sta15
Castellino 1972: 108; Hübner e Reizammer 1985-1986: 499 s.v. inim «Wort», 500 s.v.
inim-bal «interpretieren».
16
Pettinato e Picchioni 1978: 224, 425, 2.
17
Pettinato 1977: 392.
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
17
zioni di posta toccate durante il viaggio sia nei luoghi di destinazione
ci permette
della carovana stessa.18 La natura dei testi di Laga¬s, pero,
di stabilire solamente che questi funzionari ricevevano razioni di cibo
e che quindi erano trattati come tutti gli altri dipendenti del palazzo
[testo sumerico f];
4. nei testi amministrativi della terza dinastia di Ur (2112-2004 a.C.) si
hanno diverse fonti al riguardo, tra cui:
(a) un testo in cui si annota una grande quantita di pesce portato a Drehem, in Mesopotamia, da diverse persone di origine
amorrea,19 tra le quali c’era un interprete20 [testo sumerico g];
(b) una tavoletta in cui si fa un elenco di stranieri e vengono menzionati, tra gli altri, anche un messaggero ed un interprete alle
dipendenze di un uomo di MarhÎ a¬si,21 citta localizzabile nell’Iran
del sud [testo sumerico h];
(c) un’altra tavoletta si riferisce ad altri tre interpreti sempre alle
dipendenze di un uomo di MarhÎ a¬si22 [testo sumerico i].
¬
Infine in un inno al sovrano Sulgi
(2094-2047 a.C.) c’ e un passo23 in cui
¬
si fa riferimento al fatto che lo stesso Sulgi
sia in grado di parlare nei cinque diversi dialetti del paese di Sumer. Questa espressione potrebbe anche
essere interpretata come una parafrasi per indicare la sua sovranita su tutto
il «popolo delle teste nere»24 [testo sumerico j].
Le informazioni che possono essere ricavate dalle fonti sumeriche mostrano l’interprete come una figura inquadrata nell’ambito della struttura am18
Von Soden 1989: 353; Hübner e Reizammer 1985-1986: 536-37 s.v. kaskal I «Landstraße, Weg», kaskal II «Bote», «Reise, Karawane». Sulle carovane nel Vicino Oriente si
veda Maraqten 1996.
19
Nel testo questa gente non era considerata come straniera e, secondo l’editore, l’interprete menzionato risiedeva a Drehem e si rendeva utile nel momento in cui veniva in citta gente che parlava la sua stessa lingua, evento che non doveva essere raro: Buccellati 1966:
328-29.
20
Edzard e Farber 1974: 120 s.v. Mardu; Buccellati 1966: 329 n. 29 preferisce l’interpretazione «interpreter of the Amorites» in quanto il termine MAR.TU e usato come sostantivo
al plurale. Per il termine MAR.TU in generale si veda anche Gelb 1961.
21
¬ u-S¤ın (2036-2028 a.C.). Goetze 1953.
Si tratta di una tavoletta del periodo di S¤
22
Buccellati 1966: 329 n. 29.
23
Castellino 1972: 186-88.
24
In un vocabolario conservato a Berlino (Reisner 1894: 150) dietro le espressioni
eme-KU ed eme-SAL si possono enumerare cinque altri linguaggi o dialetti: eme-gal,
Î
eme-sukud(-da), eme-suh(-a),
eme-temen-na, eme-si-s¡a.
18
Danila Piacentini
ministrativa templare o palatina. Sicuramente i primi interpreti dovevano essere stati degli scribi, i quali, specializzandosi nel campo della traduzione,
passarono poi ad esercitare questa professione a tempo pieno: il dub-sar «lo
scriba» acquisisce la qualifica piu specifica di eme-bal. A fianco di quelli che
potremmo definire «interpreti ufficiali», in quanto prendevano uno stipendio, tramite assegnazione di razioni alimentari, dall’autorita costituita, fosse il tempio o il palazzo, dovevano essercene altri, come si e visto nel caso di Drehem, non inquadrati burocraticamente, ma che comunque potevano
«lavorare» nel campo della traduzione simultanea semplicemente spostandosi tramite carovane da un luogo all’altro del mondo mesopotamico e non,
conoscendo almeno due lingue diverse.
Eblaita
Ad Ebla, dove si ha una «canonizzazione del materiale lessicale sumerico»,25 ritroviamo la tradizione dei testi lessicali monolingui mesopotamici.
L’ordine che avevamo trovato nei lessici di Ab¤u SÃ al¤ab¤ıkh e Ga¡sur (Nuzi) viene conservato in modo pressoch¡e pedissequo anche ad Ebla.26 Il funzionario
eme-bala,27 anche qui da tradurre come «interprete», si trova elencato tra
il gal-unken «gran consigliere»28 ed il sa12 -du5 «capo del catasto»,29 ed e posizionato sempre all’undicesimo posto della lista30 [testo eblaita a].
Nei testi lessicali bilingui,31 sorta di moderni vocabolari, vengono elen25
Pettinato 1981a: 35, 11.
La datazione dei testi lessicali eblaiti, secondo Pettinato 1976a: 177, e il 2350 a.C.
27
In tutte le fonti sumeriche il sumerogramma eme e scritto KAxME, invece ad Ebla
(TM.75.G.1488) si ha KA+ME, che rappresenta una struttura del segno piu arcaica, Pettinato 1976a: 172 n. 13; 1981a: 29. Queste differenze hanno fatto ipotizzare che sia i redattori
à ab¤ıkh sia quelli di Ebla si siano riferiti ad un antecedente comune piu dei lessici di Ab¤u Sal¤
antico, Pettinato 1976a: 177.
28
Hübner e Reizammer 1985-1986: 298 s.v. gal I «groß», 1120 s.v. unken «Ratsversammlung, Versammlung».
29
Hübner e Reizammer 1985-1986: 830 s.v. sa12 -du5 «Katasterleiter».
30
Va notato come al primo posto della lista lessicale delle professioni ad Ebla ci sia il
dub-sar, lo scriba, mentre nelle liste lessicali sumeriche c’era l’ens¡ı, che ad Ebla si trova
solo al quinto posto.
31
Pettinato 1982: 218, 179; 353, 072. Fronzaroli (1980b: 42) descrivendo la composizione dei testi lessicali eblaiti dice che ai sumerogrammi solo a volte vengono aggiunte delle
glosse in eblaita, mentre nelle differenti versioni delle stesse liste non sempre vengono glossati gli stessi vocaboli. Nel periodo degli archivi, comunque, nelle tre tavolette maggiori che
annotano le liste lessicali (TM.75.G.2000, TM.75.G.2001, TM.75.G.5653) si glossano quasi
26
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
19
cati al primo posto dei logogrammi sumerici con accanto delle annotazioni di
corrispondenze in lingua eblaita. In questi testi il termine sumerico eme-bala
(elencato tra eme-ir ed eme-l¡a32 ) ha quattro glosse scritte sillabicamente:
a-pi5 -lu-um, ta¡ -da-b¡ı-lu, a-pa¡ -lu-um, a-ba-um [testo eblaita b].
La prima glossa al termine sumerico e a-pi5 -lu-um (che si puo trovare nel
testo TM.75.G.4526 r. III’ 7’-8’; ha come variante a-b¡ı-lu-um), analizzabile
morfologicamente come un participio attivo G: a¤ pilum,33 che ad Ebla e usato
come nome di professione. Deriva dalla radice semitica *’pl, che in accadico
ha il significato di «rispondere».34
Il participio eblaita puo essere confrontato con il termine identico attestato nei testi provenienti dai palazzi di Mari e Nuzi. Qui l’¤apilum, letteralmente
«colui che risponde», e una figura professionale sacerdotale, riferibile sia a
donne sia a uomini, che faceva da intermediario tra i fedeli che ponevano dei
ogni volta specificata, la quale tramite l’¤apilum poteva
quesiti e la divinita,
rispondere loro.
La seconda glossa eblaita ta¡ -da-b¡ı-lu (in TM.75.G.2284 v. VII 2-3; ha
come varianti ta¡ -ta¡ -pi5 -lu, ta¡ -da-bi-lu, ta¡ -da-bi-ru, da-da-b¡ı-lu) e stata oggetto di varie interpretazioni. Secondo una prima ipotesi deriverebbe dalla
radice semitico-occidentale dbr, che significa «parlare»,35 in cui si sia verificato il fenomeno dello scambio consonantico l/r. Tale fenomeno e molto frequente ad Ebla ed e attestato proprio nelle numerose varianti.36 L’altra
sempre gli stessi vocaboli.
32
Pettinato 1984: 45 fa delle ipotesi di interpretazione del termine.
33
Fronzaroli 1980a: 94 propone /’¤apil-um/; Krebernik 1983: 7; Pettinato 1984: 44-45;
Müller 1984: 192 e 194 parla della duplice possibilita di considerarlo sia come un participio
sia come un infinito; Kienast 1984: 240 propende per la forma /¤apilum/; von Soden 1989:
351-52.
34
AhW p. 56 s.v. ap¤alu(m) «begleichen; antworten»; p. 58 s.v. a¤ pilu(m) «Beantworter(in), eine Art Weissagepriester(in)». Un’altra ipotesi fa derivare il morfema da un participio
Ãha¤ bil-um dalla radice semitica Ãhbl «legare, unire assieme», Dahood 1981: 191.
35
Pettinato 1975-1976: 54 e n. 23; 1976b: 50; 1981b: 275; 1984: 45. Dahood 1981: 19394 e n. 18 accetta l’ipotesi di Pettinato della derivazione della glossa dalla radice dbr, mentre
e contro l’ipotesi di Fronzaroli (1980a) in quanto la radice *’pl, proposta da quest’ultimo,
e sconosciuta al semitico di nord-ovest. Lo studioso fiorentino ritiene infatti che l’eblaita sia
linguisticamente piu vicina all’accadico che non all’ugaritico o all’ebraico biblico. Fronzaroli
1980b: 35: «L’eblaita si e dovuto formare a partire da uno o piu dialetti del tipo semitico
arcaico, che in Mesopotamia e continuato nell’accadico».
36
Fronzaroli 1977: 37-40: l’eblaita e caratterizzato dalla preferenza per le sillabe aperte.
Dove e possibile si conservano le vocali originarie, altrimenti si aggiungono vocali epentetiche a sciogliere un gruppo consonantico nella posizione pretonica presunta o anche posto-
20
Danila Piacentini
ipotesi la farebbe derivare dalla radice semitica *’pl e rappresenterebbe morfologicamente un sostantivo verbale, costruito da forme derivate del verbo
tramite un prefisso tV-,37 cio e un nomen agentis Dt.38 Piu recentemente si e pensato di considerarla come un nomen agentis Gt in considerazione della
difficolta della resa del raddoppiamento in eblaita.39
Il termine a-pa¡ -lu-um (che si trova in TM.75.G.1404 r. III 11-12; con variante a-ba-lum) puo essere interpretato da un punto di vista morfologico come un infinito: ap¤alum,40 ma essendo annoverato tra le possibili traduzioni di
un sostantivo, pare molto piu probabile che si tratti di uno schema nominale41
derivante sempre dalla stessa radice semitica *’pl.
L’ultima glossa presente nei vocabolari bilingui di Ebla e a-ba-um42
nica. Il fenomeno, di chiara tendenza evolutiva rispetto alle lingue semitiche occidentali, e interpretato da Fronzaroli come un esempio di interferenza linguistica. Si vedano poi le considerazioni fatte contro queste ipotesi fonologiche da Garbini 1978: 45: l’aggiunta di vocali
epentetiche potrebbe essere valida solamente per il caso del nome deverbale t¡a-da-bi-ru, un
forse solo secondario rispetto allo schema taqtil, presente in tutte
fenomeno considerato, pero,
le lingue semitiche.
37
Fronzaroli 1980a: 95: in questo caso seguirebbe lo schema tV1ta22i3- /ta’tappil-um/
che ha come valore primario l’astratto, ma che puo avere anche un valore piu concreto, che,
come in questo caso, ha la funzione di nome di professione; della stessa opinione Krebernik
1983: 7.
38
Archi 1980: 88; Müller 1984: 192 n. 106 ritiene che la glossa possa essere sia un nomen
actionis Gt o Dt, sia un nomen agentis, secondo le ipotesi formulate da Fronzaroli e Dahood.
Secondo Kienast 1984: 240-41 si tratta di un nomen agentis /t¤atapilu/ in quanto la funzione del tema verbale in t- puo essere allo stesso tempo «durativ-habitativ» (per questo valore
temporale si veda von Soden 1952: 121 § 92 γ che cita esempi del Gt accadico classificabili
con «eine habitative Bedeutung»).
39
Pettinato 1981b: 275 critica l’ipotesi interpretativa di Fronzaroli. Hecker 1984: 216-17
interpreta la glossa come una forma verbale ad infisso -t- del tipo taptarisum. Anche Kienast
1984: 228-29 e 237 ritiene si tratti di una forma nominale del tipo taptarisum/taptar¤ısum del
tema Gt, quindi una forma non raddoppiata. Müller 1987: 120.
40
Pettinato 1984: 45; Müller 1984: 192.
41
Fronzaroli 1980a: 93 lo identifica come uno schema nominale del tipo 1a22¤a3-, attestato ad Ebla per esempio con /badd¤al-um/ «commerciante»; in questo caso sarebbe da
considerare come nome di professione /’app¤al-um/. Secondo Kienast 1984: 240 la forma
e /app¤alum/. Dahood 1981: 191 pensa che la radice Ãhbl «legare, unire assieme», attestata
in ugaritico, ebraico ed arabo, possa soddisfare meglio le esigenze della glossa, cos ı come
nomen professionis si avrebbe Ãhabb¤al-um «colui che lega una lingua ad un’altra».
42
Dahood 1981: 192-93 ritiene di poter trovare una equivalenza per a-ba-um con a-waum /Ãhaww¤a-um/ «colui che spiega», dalla radice ebraico-aramaica Ãhwh «dichiarare, rendere
noto, spiegare» e da qui «traduttore». Un’altra possibile connessione viene fatta con il no il traduttore sarebbe stato visto come colui che
men professionis habb¤a-um «colui che da»:
rende noto l’equivalente di una parola in un’altra lingua. Infatti a-ba-um ha un’altra equiva-
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
21
(presente in TM.75.G.2008 r. V 6-7; con una variante a-pa¡ -um). Essa presenta una grafia giudicata anomala ed interpretabile sia come un errore scribale
sia come un problema di articolazione della liquida;43 si tratta comunque di
un infinito ap¤alum.44
La documentazione offerta dai testi trovati ad Ebla ci permette solamente
di ipotizzare che in questa citta vi potesse essere una situazione analoga a
quella gia evidenziata per il paese di Sumer, notando comunque che lo scriba
che viveva nella societa eblaita del periodo degli archivi doveva avere una
posizione preminente.45
Fenicio-punico
La lingua fenicio-punica attesta il termine che puo essere tradotto come «interprete» a Cipro: in tre iscrizioni tutte databili al regno di Milkyaton
(392-362 a.C.);46 ad Abido, in Egitto: in un graffito sul muro di un tempio (I
sec. a.C.); a Cartagine e a Cirta (III sec. a.C.): in due iscrizioni votive.
La prima iscrizione cipriota, di natura votiva, e incisa su due frammenti ricongiunti di un recipiente in marmo bianco, mutila nella sua parte iniziale e finale. Le lettere integre si pensa possano essere interpretate come la
parte finale di un nome di persona seguito da un appellativo: MLSÃ (H)KRSYM, tradotto tradizionalmente con «interprete dei troni» e che sembra poslenza nel vocabolario bilingue: n ı-du8-du8 , che significa «tipo di distribuzione come ‘dono’»
(Pettinato 1979: nº 4946 = TM.75.G.11006 II 4’-5’; Pettinato 1980: 130) e secondo Pettinato verrebbe dall’ebraico ’¤ab¤ah «essere volenteroso». Dahood invece ritiene che sia meglio
considerare *h¤ab¤ah come derivante dalla radice di media debole e prima w wahaba «dare».
Krebernik 1983: 7 n. 27 contesta questa radice presa in considerazione in quanto, da un punto
di vista ortografico, la semivocale semitica w non puo essere resa dal segno cuneiforme che
rende il valore ba/b¡ı.
43
Fronzaroli 1980a: 93-94; Pettinato 1981b: 259 esempio di caduta della l. Krebernik
1983: 7 accomuna la prima e l’ultima glossa in a-ba(-lu)-um /’ap(p)¤alum/.
44
Pettinato 1984: 45; Müller 1984: 192. Fronzaroli 1980a: 95 ritiene in conclusione che
le tre glosse eblaite potrebbero essere dei sinonimi, usati a seconda del contesto, da intendersi
come «interlocutore», che con l’eccezione di a¤ pilum (usato ancora in epoca paleobabilonese
a Mari), non vengono piu usati nelle lingue posteriori. Tali glosse fanno quindi parte del lessico semantico arcaico di III millennio riscontrabile nel paleoaccadico ed in eblaita. Krebernik
1983: 7 accomuna la prima e l’ultima glossa in a-ba(-lu)-um /’ap(p)¤alum/.
45
Fronzaroli 1980b: 38-41: la lingua eblaita ha prevalso sia nell’uso quotidiano dei testi
amministrativi sia in quelli letterari. I testi in sumerico sembrano assolvere solamente alla
funzione pedagogica di apprendimento del sistema grafico cuneiforme.
46
Garfinkel 1988: 27.
22
Danila Piacentini
sa far riferimento ad una carica ricoperta presso la corte reale cipriota47 [testo
fenicio a].
La seconda iscrizione cipriota, di natura funeraria, incisa su una stele in
¬
¬
marmo bianco, fu realizzata per commemorare ’SMN’DNY
SRDL,
figlio di
¬
‘BDMLQRT, figlio di RSPYTN MLSÃ HKRSYM. Quest’ultimo potrebbe essere lo stesso personaggio della dedica precedente (in quanto le ultime lettere del nome proprio di CIS I, 22 sono ]YTN), ricordato dal nipote per questa
importante funzione ricoperta48 [testo fenicio b].
L’ultima iscrizione cipriota redatta in lingua fenicia celebra la dedica di
una statua a Melqart e menziona inoltre statue e lavori successivi.49 Il no¬
me del dedicante e mutilo, ma e stato proposto di integrare [RSP]YTN,
lo
stesso menzionato nelle precedenti iscrizioni. A l. 3 e il padre ‘ZRTB‘L a
ricoprire la carica di MLSÃ HKRSYM, ma visto che poi a l. 6 viene attribui¬
ta a [RSP]YTN
di nuovo questa carica, si era ipotizzato che anche a l. 3 la
funzione si potesse riferire al figlio e non al padre.50 L’iscrizione fu redatta in due momenti differenti, denotati anche dalle diverse datazioni (al terzo
anno di regno di MLKYTN la prima parte – 389 a.C. – ed al sesto anno di
regno sempre dello stesso re la seconda – 386 a.C.); si puo ipotizzare quindi
¬
che [RSP]YTN
abbia potuto acquisire la sua carica di MLSÃ HKRSYM solo dopo il terzo anno di regno di MLKYTN e che quindi nella prima parte
dell’iscrizione tale carica non fosse riportata [testo fenicio c].
Il morfema mlÃs e da analizzare come un participio yiphil maschile singolare stato costrutto dalla radice semitica lyÃs51 che ha come significato «interprete», mentre (h)krsym e un sostantivo plurale sul cui significato molto
si e scritto, in quanto di difficile interpretazione. La traduzione virgolettata
«interprete dei troni», proposta nell’ultima pubblicazione complessiva delle
iscrizioni provenienti da varie localita di Cipro,52 implicherebbe connessio47
CIS I, 22; Amadasi e Karageorghis 1977: 23-24 nº A 9.
CIS I, 44; Amadasi e Karageorghis 1977: 88-90 nº B 40. L’iscrizione si data al 375
a.C. ca. sulla base della comparazione con un’altra iscrizione, CIS I, 88, in cui sembrano
menzionati gli stessi personaggi.
49
CIS I, 88; Amadasi e Karageorghis 1977: 178-84 nº F 1.
50
CIS I, 88.
51
DISI pp. 575-76 s.v. lyÃs «indication of function, prob. interpreter».
52
Amadasi e Karageorghis 1977: 23-24; Lidzbarski 1912, 13. Precedentemente si erano
fatte numerose ipotesi di interpretazione del morfema verbale: Richardson 1955: 436 traduce mlÃs nei testi fenici di Cipro e di Karatepe con «fluent speaker» oppure «advisor» sulla
base del suo studio del termine nei passi biblici dei Proverbi e gli attribuisce il significato
di «to babble, talk freely». Van den Branden 1956: 91 pensa che krsym sia da interpretare,
48
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
23
ni tra la corte cipriota e quella persiana, per questo inizio di IV secolo a.C.,
oppure, in un orizzonte geografico piu ampio, con interlocutori greci continentali, che pero in questo periodo non contemplavano la monarchia come
forma di governo.
Un’altra interpretazione proposta del termine krsym deriva da confronti
con iscrizioni in lingua fenicia su ostraca provenienti da un archivio privato
da Arad (datato tra la fine del VII e l’inizio del VI sec. a.C.)53 e da un ostracon
da Elefantina. Si e notato che dopo il morfema verbale mlÃs, con traduzione
«interprete», c’era sempre un etnico. Nel caso di Cipro la terminazione -ym
di krsym puo assolvere a tale funzione, quindi nelle iscrizioni menzionate
sopra si farebbe riferimento ad un funzionario che conosceva la lingua degli
abitanti dell’isola di Creta,54 cos ı che l’espressione mlÃs (h)krsym sarebbe da
tradurre come «interprete dei cretesi».55
In un graffito in lingua fenicia posto sulle scale di accesso al tempio di
Osiride ad Abido e datato alla fine del I secolo a.C., un viaggiatore, come altri
assieme a lui, attesta sia il suo pellegrinaggio fino a questo luogo di culto sia,
indirettamente, la sua devozione al dio egizio. Il suo nome e la sua genealogia
vengono completati dalla sua professione: si tratta di un interprete56 [testo
fenicio d].
In ambiente punico le uniche due attestazioni del termine tradotto come
«interprete» ci vengono da due iscrizioni votive: una da Cartagine e una da
Cirta (Costantina) in Algeria e datate entrambe al III sec. a.C. ca. L’iscriÃ
zione da Cartagine e una dedica a TNT PN B‘L e a B‘L HMN
realizzata da
sulla base della radice aramaica *krs oppure della radice ebraica *kr¬s, come «ventre, intestino» e, come carica istituzionale, vada tradotto con «aruspice». Vattioni 1968: 72-73 propone
che il termine krs designi un vaso, mentre mlÃs significhi «interprete» sulla base dell’ebraico
hameliÃs (Gen 42,23), del greco dei LXX ‘ερµηνευτ“ησ, del latino della Vulgata interpretem e
¢ e man. Garbini 1979: 233 dice che in krsym la y non puo essere
del Targum di Onkelos me turg
considerata come una mater lectionis e che quindi la traduzione «troni» e certamente errata.
53
Garfinkel 1988: 29. Le stesse fonti da Cipro, da Arad, da Elefantina e dalla Bibbia vengono portate come prova dell’esistenza di un gruppo etnico, di probabile origine cipriota, i
all’interno della
Kerositi. Sembra poco probabile questa ipotesi che presuppone la necessita,
corte cipriota e perfino al di fuori di essa, in campo internazionale, di creare la figura di un interprete per questo gruppo etnico di cui non si avrebbe notizia altrimenti e che invece sarebbe
cos ı importante da essere menzionato anche al di fuori dell’ambito cipriota.
54
Lipi¡nski 1983: 149 analizza le fonti tolemaiche della prima meta del IV secolo a.C.
dimostrando come la presenza di cretesi nell’isola di Cipro fosse usuale.
55
Lipi¡nski 1983: 146-52; 1995: 436 e n. 12. Si veda DISI p. 537 s.v. krsy che lo ritiene
un sostantivo di significato incerto.
56
KAI 49 pp. 65-66.
24
Danila Piacentini
‘ZRB‘L, la cui genealogia arriva fino alla terza generazione57 [testo fenicio
e]. L’iscrizione da Cirta invece e dedicata a B‘L nel santuario extraurbano di
el-Hofra [testo fenicio f].
Alla fine di questa analisi delle fonti epigrafiche fenicio-puniche va detto che queste iscrizioni ci hanno fornito un quadro molto frammentario delle
attestazioni del termine «traduttore». Le lingue sumerica ed eblaita, analizzate in precedenza, presupponevano uno studio approfondito ed e¡ litario del
sistema di scrittura cuneiforme per poter accedere alle lingue scritte con esso.
Anche se la natura del sistema alfabetico usato per scrivere le lingue fenicia e
punica appare sicuramente piu semplice da apprendere da una piu larga fetta
di popolazione, la presenza di traduttori era quantomeno necessaria alle normali relazioni internazionali. La posizione centrale occupata da Cipro e da
Cartagine sulle rotte commerciali nel Mediterraneo hanno favorito il commercio con popoli che parlavano altre lingue, anche non semitiche, mentre
Cirta, tra la fine del III e l’inizio del II sec. a.C., fu la capitale di un regno
numida che ebbe contatti continui con i diversi regni del nord Africa, con la
Grecia e con i primi commercianti provenienti da Roma. Ritengo quindi che
la carenza di attestazioni del termine «traduttore» o del verbo «tradurre»
nelle iscrizioni redatte in fenicio-punico sia dovuta solamente alla casualita dei ritrovamenti realizzati fino a questo momento.
Per concludere c’ e da registrare che nella lingua fenicia si e sviluppato
un uso particolare della stessa radice semitica che abbiamo visto essere usata
per indicare il termine «traduttore». Nell’iscrizione bilingue redatta in fenicio ed ittita geroglifico e ritrovata nella localita di Karatepe il termine mlyÃs,
analizzato come una participio yiphil maschile plurale stato assoluto dalla
radice semitica lyÃs, in questo contesto ha assunto un valore lessicale particolare. Qui il participio va ad indicare una «persona che si fa notare a parole»,
un «fanfarone (in quanto parla molto)» e, nel contesto specifico, gli viene attribuita una ulteriore connotazione negativa e, quindi, viene inteso come una
«persona malvagia, ostile, un nemico, un cospiratore»58 [testo fenicio g].
57
CIS I, 350.
KAI 26A pp. 35-40; DISI pp. 575-76 s.v. lyÃs e per tutta la bibliografia ed i tentativi di
traduzione del termine.
58
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
25
Testi
Testo sumerico a
Landsberger 1969: 16-21 EDLuE (Early Dynastic List E).59
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
ens¡ı ([PA.TE.S]I)
sanga
[x]-DU8
ugula
d e
x
nu-banda ¡
s¬ agina (GIR.NIT
A)
Î
SAHAR
sukkal-gal
gal-ukkin
eme-bal
sag-d urue 60
Î
muhaldim
GAL.d DU e
d
x:xe
ki[nda]
d
nimgire
d
nagare
Testo sumerico a1
Gordon 1959: 208-9, nº 2.49.
Î e-en-tum(u)
dub-sar-eme-gi7 nu-mu-un-zu-a inim-bala-e me-da h¡
Lo scriba che non conosce il sumerico, dove potrebbe prendere la
traduzione?
59
Le liste lessicali monolingui sumeriche sono state classificate tramite le lettere dell’alfabeto: lista di professioni A, lista di professioni E, lista di animali A (identiche a Fara, Ab¤u
à ab¤ıkh ed Ebla); lista di animali B, NAGAR, lista di pesci, lista di uccelli A, lista di paroSal¤
le sumeriche B, C, D, E, lista di nomi e professioni (scritte logograficamente a Fara ed Ab¤u
à ab¤ıkh, sillabicamente ad Ebla); lista di nomi geografici (scritta logograficamente ad Ab¤u
Sal¤
à ab¤ıkh, sillabicamente altrove). Pettinato 1992: 345-46.
Sal¤
60
Le letture di Landsberger andrebbero aggiornate: nello specifico si fa l’esempio di linea
10) kingal e linea 12) sag-du5 .
26
Danila Piacentini
Testo sumerico b
Gadd e Kramer 1966, nº 167: 41-42.
Î e-¡eb-da-g¡al eme-gi7 i-ri-dul-la(eme-gi7 -ta inim-e-da-bal-e(-en) h¡
a¬s)
Potrebbe succedere a te di tradurre dal sumerico, ma il sumerico ti e nascosto.61
Testo sumerico c
Sjoberg 1975: 140-41, l. 14; 1984: 60.
inim-bal inim-¬sa¡ r-¬sa¡ r62 an-ta eme-uriki -ra ki-ta e[me-gi7 -ra] an-ta
eme-gi7 -[ra ki-ta eme-uriki -ra] i-zu-u
KA.BAL.E.DA ¬su-ta-bu-la e-li¬s ak-ka-da-[a] ¬sap-li¬s ¬su-me-ru ¬sap-li¬s
ak-ka-da-a e-li¬s ¬su-me-ru [t]i-di-e
Sai tradurre ed interpretare (quando) la lingua degli Accadi e sopra e
la lingua dei Sumeri e sotto, (quando) la lingua dei Sumeri e sopra e
la lingua degli Accadi e sotto?
Testo sumerico c1
Sjoberg 1975: 142-43, l. 25.
inim-bal-bal-e-de gi¬s-tuku-bi ı -zu-u at-ma-¬si-na ¬se-ma-a ti-di-e
Sai tradurre le loro parole ascoltando(le)?
Testo sumerico d
Lambert 1987: 410; von Soden 1989: 352.
eme-bal gu-ti-um
Interprete di Gutium.
61
Nelle ultime linee della tavoletta sembra che l’allievo descriva le materie che deve imparare alla scuola degli scribi e -dub-ba: la scrittura, l’aritmetica e la traduzione dal sumerico.
Gadd e Kramer 1966: 3.
62
Hübner e Reizammer 1985-1986: 503 s.v. inim-¬sa¡ r-¬sa¡ r «interpretieren», 941 s.v. s¬a¡ r-¬sa¡ r
«reichlich füllen», «steigern».
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
27
Testo sumerico e
Lambert 1987: 410.
¬ ı -l¡ı-¡su eme-bal Me-luhÎ ha
Î ki
Su¬ su interprete della citta di MeluhÎ hÎ a.
Suili¬
Testo sumerico f
Pettinato e Picchioni 1978: 152 nº 415.
r. 1.
2.
3.
4.
5.
6.
v. 1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
1 z ı-gu d gure a-ga-de ki
ugula eme-bala
2/5 2/30 z ı-gu
l¡u-ninaki
2/5 3/30 z ı-gu
inim-d inanna
1 z ı-gu gur
3/30 ar-za-na
s¬ e¬s-bur-ra
zi-ga
l¡u-d nan¬se en
itu ezen-¬se-¡ıl-la
mu s¬it¡a-sag-ninnu ba-d¡ım-ma
Testo sumerico g
Buccellati 1966: 328-29.
eme-bal mar-d¡u
Interprete degli Amorrei.
Testo sumerico h
Goetze 1953: 106-7, i 19’.
Î siki -ra gub-ba-me
sukkal eme-bal l¡u [(x)] mar-ha-¬
Un messaggero ed un interprete che stanno con l’uomo di MarhÎ a¬si.
28
Danila Piacentini
Testo sumerico i
Edzard e Farber 1974: 127.
Î siki gub-d bae -me
3 eme-bal ki l¡u mar-ha-¬
d e
Tre interpreti del luogo che stanno con l’uomo di MarhÎ a¬si.
Testo sumerico j
Castellino 1972: 186-88.
V-bi eme-bi ba-ni-ib-gi4 -gi4 KAS¬ 4 inim-bal-e eme! - e! li-b¡ı-du-e
Risponde in queste cinque lingue (dialetti). Nessun altro (al palazzo)
fa la traduzione di lingue straniere.
Testo eblaita a
Pettinato 1976b: 170 = TM.75.G.1488; Pettinato 1981a: 27.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
17.
18.
dub-sar
sanga
¬
sagi (= SILA.
SU.DU
8)
s¬ abra (= PA.AL)
ens¡ı (= PA.TE.SI)
nu-banda s¬ agina (= GIRI.NITA)
ku¬sx
gal-sukkal
gal-unken
eme-bala
sa12 -du5
Î
muhaldim
s¬ andana (= GAL.NI)
gal5 :la gal-kinda
gal-nimgir
nagar
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
29
Testo eblaita b
Pettinato 1982: 218, 179.
eme-bala
eme-bala
eme-bala
eme-bala
a-pi5 -lu-um (a-b¡ı-lu-um)
ta¡ -da-b¡ı-lu (ta¡ -ta¡ -pi5 -lu, ta¡ -da-bi-lu, ta¡ -da-bi-ru,
da-da-b¡ı-lu)
a-pa¡ -lu-um (a-ba-lum)
a-ba-um (a-pa¡ -um)
Testo fenicio a
CIS I, 22; Amadasi e Karageorghis 1977: 23 nº A 9.
].YTN . ML[ÃS]/(H)KRSYM . L[
]YTN interprete dei cretesi per[
Testo fenicio b
CIS I, 44; Amadasi e Karageorghis 1977: 89 nº B 40.
¬
¬
1. HMSÃ BT ’Z L’SMN’DNY
SRDL
BN ‘BDMLQRT BN
¬
2. RSPYTN MLSÃ HKRSYM
¬
¬
1. Questa stele (funeraria e ) per ’SMN’DNY
SRDL
figlio di ‘BDMLQRT figlio di
¬
2. RSPYTN
interprete dei cretesi.
Testo fenicio c
CIS I, 88; Amadasi e Karageorghis 1977: 179-80 nº F 1.
¬
à P‘[L]T [B]SNT
1. BYMM 12 [
L]YRH
3 LMLK MLKYTN
[MLK KTY W
¬ (?)]
à W[
2. ’DYL BN B‘LRM . SML ’Z ’S¬ YTN WYTN’
RSP
¬
3. YTN BN ‘ZRTB‘L MLSÃ HKRSYM L’DNY LMLQRT S[
30
Danila Piacentini
4. PQD63 HMPQD Z WHSLMT ’S¬ LMPQD[
5. MLSÃ KRSYM . WPQD HT [......] B [
¬ BN ’DNSM
¬ S¬ BN RSPYTN
¬
6. ‘BDPMY . W‘BDMLQRT ’SN
MLSÃ
¬
K[RS]YM BSNT 6
¬
7. LMLK MLKYTN MLK KTY W’D[YL] K SM‘
MLQR[T QL] YBRK
1. Nel giorno 12[+ x del] mese P‘[L]T [dell’]anno 3 del re MLKYTN [re
di Kition e]
2. di Idalion figlio di B‘LRM, questa statua che ha dato ed ha eretto e [
¬
RSP(?)]
3. YTN figlio di ‘ZRTB‘L interprete dei cretesi al signore a Melqart [
4. si e incaricato di questo incarico e delle statue che riguardavano
l’incarico [
5. interprete dei cretesi e si e incaricato il [
¬ S¬ figlio di RSPYTN
¬
6. ‘BDPMY e ‘BDMLQRT i due figli di ’DNSM
interprete dei cretesi, nell’anno 6
7. del re MLKYTN re di Kition e di Idal[ion] poich¡e ha ascoltato Melqar[t la voce] possa benedire.
Testo fenicio d
KAI 49.
¬ BN ’BNSM
¬ S¬ BN ’GN HMLSÃ
17. ‘BDRSP
¬ figlio di ’BNSM
¬ S¬ figlio di ’GN l’interprete.
17. ‘BDRSP
Testo fenicio e
CIS I, 350.
1. LRBT LTNT PN B‘L WL’
Ã
2. DN LB‘L HMN
’S¬ NDR ‘ZRB‘L
¬
¬
3. BN ‘BD[S]MN BN ‘BDSMN
63
Per i problemi connessi all’interpretazione di questa radice fenicia si vedano Amadasi
e Karageorghis 1977: 180-82 che traducono l. 4 «A pris soin de ce travail (?) et des images
(?) qui ont trait a ce travail»; DISI p. 932 s.v. pqd1 QAL «to survey» e HOPH/YOPH «to
be charged», che traduce l. 4 con «the surveyance of this mpqd it is with which A. has been
charged»: pp. 673-74 s.v. mpqd1 «subst. of uncert. meaning; poss. part of a temple».
Il verbo «tradurre» ed il termine «traduttore» nel Vicino Oriente
31
4. HMLSÃ
1.
2.
3.
4.
Alla signora a TNT PN B‘L e al
Ã
signore a B‘L HMN
che ha donato ‘ZRB‘L
¬
¬
figlio di ‘BD[S]MN
figlio di ‘BDSMN
l’interprete.
Testo fenicio f
Berthier e Charlier 1955: 117 nº 163.
1.
2.
3.
4.
L’D64 LB‘L ’S¬
NDR B‘LYTN BN
MGN ’MLSÃ 65
. ’BRKYB/K
1.
2.
3.
4.
Al signore a B‘L che
ha donato B‘LYTN figlio di
MGN l’interprete
...
Testo fenicio g
KAI 26 A.
¬
8. WSBRT
MLSÃ M
9. WTRQ ’NK KL HR‘ ’S¬ KN B’RSÃ
8. Ed io ho spezzato le persone ostili / i nemici
9. ed io ho distrutto tutto il male che era nel paese.
64
Le iscrizioni di Costantina presentano tutte delle particolarita grafiche e fonologiche.
A l. 1 L’D sta per L’DN con l’assenza di N, fenomeno non isolato a Cirta; a l. 3 il termine,
oggetto della presente analisi, e preceduto dall’articolo che viene reso graficamente tramite
la laringale occlusiva ’ piuttosto che dalla laringale fricativa sorda H.
65
Berthier e Charlier 1955: 117 leggono sulla pietra ’MLS con S finale, ma sia DISI pp.
575-76 s.v. lyÃs, sia F¡evrier 1955-1956: 157 ritengono che l’ultimo segno della linea 3 vada
à Si auspicherebbe una nuova edizione complessiva di tutti i testi ritrovati a Costantina
letto S.
ed attualmente divisi, in parte al museo del Louvre a Parigi ed in parte al museo di Costantina
in Algeria.
32
Danila Piacentini
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Considerazioni sulle dinamiche sociali
nell’Alta Siria durante il Bronzo Tardo:
il caso di Tell Mumbaqat,
problemi di metodologia
Simona Bracci
Abstract
Some remarks are made about the Lake Assad basin sites during the Late
Bronze: beginning with the center of Tell Mumbaqat, to which the most substantial and widely published archaeological evidences pertain, a brief analysis is tried
of the use of the urban space and of the structures that fill the centers of Upper Syria,
in order to obtain useful hints for the reconstruction of the social dynamics of that
age.
Tell Mumbaqat e un piccolo centro situato nella zona del Lago Assad,
il cui scavo si deve a una missione tedesca guidata per diversi anni da D.
Machule.
Il sito ha restituito tracce di occupazione per un periodo molto ampio che
copre un arco di tempo che va dal Bronzo Antico al Bronzo Tardo,1 cui segue anche un’occupazione tarda. Tell Mumbaqat ha una forma rettangolare
piuttosto regolare, ed e diviso in quattro aree concentriche: al centro si trova
la Küppe (Acropoli), immediatamente a S l’area definita Ibrahim’s Garten,
mentre nel settore E sono situate la Innenstadt e la Aussenstadt. Lo scavo di
Tell Mumbaqat ha messo in luce diverse decine di edifici domestici, ventotto
dei quali interamente riportati alla luce.
Dalla descrizione del sito (e particolarmente delle case che lo popolano)
risultera chiaro come Tell Mumbaqat possa essere usato come luogo privilegiato per alcune osservazioni riguardanti le dinamiche sociali della Siria del
Bronzo Tardo.
1
Machule 1990: 200.
39
40
Simona Bracci
Data la finalita della ricerca si sottolinea come, riguardo ai rinvenimenti
nelle strutture abitative di Mumbaqat, non si indagheranno tanto le attestazioni di attivita tipicamente domestiche, come trasformazione e consumo di
beni primari o pratiche cultuali che pure a Mumbaqat sono ottimamente attestate, quanto si ricercheranno eventuali indicatori di classi sociali diverse che
sottendano la presenza di potenzialita economiche piu articolate; connesse a
tale presenza si ritengono rilevanti i seguenti ritrovamenti:
1. la presenza di tavolette che si riferiscano ad attivita di natura commerciale ed economica;
2. la presenza di sistemi di registrazione e/o controllo (grumi di argilla,
sigilli, bullae e gusci di chiocciole2 );
3. la presenza di attivita artigianali o atelier (ovvero l’attestazione di
attivita di produzione diverse da quelle di trasformazione).
Pur puntando maggiormente verso l’indicazione di uno status, si ritengono indicatori altrettanto importanti per ottenere indizi riguardo alla
situazione sociale:
1. la presenza di grandi quantita di ceramica da conservazione, ad indicare una notevole capacita di stoccaggio dei beni come indice di
potenziale disponibilita economica;3
2. la presenza di oggetti in metallo (armi) o di tracce di metalli preziosi;
3. l’espansione o la contrazione delle superfici delle strutture domestiche, considerate indice di impoverimento o frazionamento di un’entita familiare.
Si vogliono inoltre sottolineare le sfumature nell’ambito di tali rinvenimenti: ovvero la presenza di una sola tra le caratteristiche sunnominate di
contro all’attestazione contemporanea di diverse di queste.
Esaminando le aree abitative di Mumbaqat si osserva che la presenza di
tavolette ricorre in quattro case nella zona dello Ibrahim’s Garten (Häuser
2
Einwag-Otto 1996: 25. Einwag, durante lo scavo del sito di Tell Bazi, ha rinvenuto un
gruppo di gusci di chiocciola; la sua ipotesi e che tale ritrovamento sia connesso ad un’attivita di tipo contabile. Lo stesso archeologo, menzionando tale ritrovamento, si riferisce ad un
rinvenimento della stessa natura effettuato nel sito di Tell Mumbaqat.
3
Si vuole sottolineare che questa caratteristica viene tenuta distinta dall’altra poich¡e, malgrado rimandi ad una reale disponibilita di beni, risulta indubbiamente diversa
dall’attestazione di un’attivita economica.
Le dinamiche sociali nell’Alta Siria durante il Bronzo Tardo
41
B-C-O-U); in due strutture nella Innenstadt (Haus M e vano 22 pertinente ad
un edificio non identificato nei suoi limiti), in una nella Aussenstadt (Haus
T), ed in una sulla Küppe (Haus P).
Nel complesso dei ritrovamenti si notano pero delle sfumature che e importante sottolineare, sia riguardo alla quantita che al contenuto delle stesse
tavolette.
Iniziando dall’esame dell’area di Ibrahim’s Garten: l’edificio B ne custodiva 17;4 nella quasi totalita dei casi si tratta di contratti mentre in un caso si
tratta certamente di un testamento.
L’edificio C ha restituito, messe in opera nel corpo di un muro, sei tavolette:5 cinque contratti di vendita ed un testamento. L’edificio U custodiva un’unica tavoletta, T86,6 che riporta una lista di persone dal significato
non chiaro. L’edificio O ha restituito 10 tavolette,7 due delle quali di carattere economico (sono contratti di vendita), mentre le altre sono disposizioni
familiari.
Una piu puntuale osservazione delle evidenze ci autorizza allora a parlare di archivi familiari solo nel caso dell’edificio B e, in parte, nel caso della
Haus O.
Caratteristica comune a tutte queste abitazioni e , contemporaneamente
a quella delle tavolette, la presenza di almeno uno degli altri sunnominati
indicatori di status.8
Parallelamente alla presenza di strutture che attestano chiaramente l’esistenza di attivita economiche, si registra quella di case caratterizzate da indicatori di diversa natura, pur se altrettanto rilevanti. Iniziando dalla Haus A:
tale struttura unisce alla presenza di un vano usato come magazzino di merce
di particolare valore, quella di un pugnale in bronzo e rame e di una serie di
4
Machule et alii 1986: 126-27. Si tratta delle tavolette: T3 sino a T7, T9 sino a T19, altre
due T dal vano 11.
5
Machule et alii 1988: 48-49. Si tratta delle tavolette: T22 sino a T27.
6
La tavoletta in questione mostra, peraltro, la particolarita di essere sigillata come T72
proveniente dal vano 22.
7
Mayer 1990: 45-46. Si tratta delle tavolette T32 sino a T39 e T41-42.
8
La Haus B ha restituito: grumi d’argilla, tracce di rame puro, ceramica miniaturistica e,
soprattutto, un intero vano dedicato alla conservazione. La Haus C, similmente, ha restituito
una punta di lancia e due sigilli; la stessa struttura subisce inoltre un ampliamento della sua
superficie: partendo dal nucleo centrale primario (vani 14-26 e 27) va a occupare i vani 2425. Da ultimo e stata trovata una grande quantita di ceramica da conservazione nei vani 27
(quello delle tavolette) e 26. La Haus U ospita in un vano diversi tannour. La Haus O ha invece
restituito oggetti in metallo.
42
Simona Bracci
9
gusci di chiocciole che potrebbero essere connessi a pratiche di contabilita.
La Haus S ospita una serie di installazioni che rimanderebbero esclusivamente ad attivita di tipo artigianale. La Haus D ha restituito delle canalizzazioni che supporterebbero l’ipotesi della presenza di un’attivita artigianale di cui non e chiara la natura;10 in questo caso tale attivita si svolgerebbe
parallelamente a quella domestica.
Passando all’esame della Innenstadt: alcune tavolette sono state rinvenute nella Haus M e nel vano 22 che fa parte di un edificio non chiarito nei suoi
limiti.
La Haus M ne ha restituite due:11 un contratto ed una compravendita di
un giardino; a questo rinvenimento si affianca la presenza di un vano completamente dedito alla conservazione. Il complesso dei vani 20-21-22 ha restituito sette tavolette,12 nessuna delle quali sembra avere un carattere economico: in un caso si tratta di una lista di oggetti domestici, le restanti sembrano
dirimere relazioni interne alle famiglie riguardanti questioni di eredita.
Anche nella Innenstadt sono presenti strutture che mostrano di custodire
al loro interno indicatori economici diversi dalle tavolette: la Haus H, per
quanto labili, ha lasciato tracce della presenza di oro; la Haus F tracce della
presenza di metalli, mentre la Haus F’ ha restituito non solo frammenti di
metallo ma anche quattro bullae; la Haus W presenta, invece, un carattere
esclusivamente artigianale.
Nella Aussenstadt la sola Haus T ha restituito due tavolette, T85 e T87:
la prima e una lettera, la seconda il contratto di vendita di una vigna.
In questo settore della citta altre due sono le strutture dotate di caratteri peculiari: la Haus J ha restituito tracce di metalli ed un pugnale,
mentre la Haus Z sembra avere, ancora una volta, uno spiccato carattere
esclusivamente artigianale.
Si desume, quindi, come sia per la Innenstadt che per la Aussenstadt
non si possa far riferimento all’esistenza di archivi familiari, ma piuttosto ad un’occasionale presenza di tavolette cuneiformi che attestano attivita economiche forse altrettanto sporadiche.
Infine l’Acropoli: qui la sola Haus P ha lasciato tracce di un vero e pro9
Vedi sopra, nota 2.
Dalla Haus D provengono inoltre un sigillo ed un frammento di ceramica di Nuzi.
11
Si tratta delle tavolette T28 e T29.
12
Mayer 1990: 46-47. Si tratta di: T72 e T75-80.
10
Le dinamiche sociali nell’Alta Siria durante il Bronzo Tardo
43
prio archivio. Da questo edificio provengono 32 tavolette,13 per la maggior
parte contratti di vendita; all’interno della casa e presente un vano completamente dedito all’immagazzinamento. Sempre sull’Acropoli la Haus X potrebbe essere stata adibita, dato il rinvenimento di numerose installazioni, ad
attivita esclusivamente di tipo artigianale. Tracce di attivita produttive anche
nella Haus Y.
Queste osservazioni permettono di trarre alcune conclusioni, la prima
delle quali di carattere topografico: data la natura dei reperti e la posizione
occupata dalle strutture che li custodiscono si puo supporre che non ci sia
una connessione particolarmente forte tra la posizione topografica della casa, la sua tipologia, la superficie e la dominanza della famiglia cui l’archivio
e la casa sono relativi.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare non sembra essere l’A le strutture di quest’acropoli la parte privilegiata per la residenza della citta:
rea non risultano, infatti, particolarmente spaziose, n¡e hanno restituito oggetti di qualche pregio (anzi verso la fine del Bronzo Tardo tutta l’area settentrionale della Küppe viene convertita in zona artigianale per la produzione di ceramica);14 gli unici edifici rilevanti per dimensioni e struttura sull’Acropoli
hanno un carattere sacro.15
La stessa Haus P, che certamente doveva appartenere ad un personaggio rilevante, occupa una posizione topografica periferica presso l’angolo SE
della Küppe, piuttosto lontana dalle vie principali.
Una seconda serie di osservazioni e da collegare piu strettamente alla situazione sociale del centro: sembra evidente che, osservando la topografia e
si possa parlare di societa in movimento, poich¡e si
l’architettura della citta,
constata come alcune delle case che custodiscono gli archivi familiari potrebbero essere relative ad un momento costruttivo successivo al primo impianto
della citta bassa. Si ipotizza essere questo il caso della Haus O e, probabilmente, delle Häuser C ed U.16 Tali strutture, proprio perch¡e edificate in un
13
T40, 43-70, 73-74, 81.
Machule 1996: 23-24.
15
Si tratta di tre edifici di natura cultuale denominati dagli archeologi Steingebäude, tutti
situati nel settore O dell’Acropoli.
16
Machule 1988: 35. Machule sostiene che il pavimento della Haus L sia relativo alla fase
IG II. Machule 1987: 103, facendo nuovamente riferimento alla Haus C, la ipotizza costruita
durante IG III. Sono questi i due casi in cui esplicitamente viene citata la datazione di edifici
che hanno un orientamento diverso da quello usuale. Riguardo alla Haus O tale supposizione
14
44
Simona Bracci
momento successivo a quello del primo insediamento della citta bassa, si trovano a dover usare esclusivamente lo spazio a loro disposizione, adattando
ad esso la tipologia diffusa tra le case di Mumbaqat. Indicativo il caso della
Haus O, la quale mostra di utilizzare lo spazio esistente in modo da tenere
presente la tipologia preponderante della casa di Mumbaqat; tale tipologia
prevede la presenza di un vano allungato che ospiti strutture di natura cultuale, fiancheggiato su uno o due lati da una fila di tre vani minori. Per aderire a questo modello si preferisce aprire un accesso all’edificio dalla stradina
laterale piuttosto che un comodo ingresso dalla via principale.
Similmente nella Haus U si puo osservare un adattarsi allo spazio esistente avendo ben in mente dei modelli architettonici ritenuti, per qualche
motivo, migliori. Ancora la Haus C mostra un ampliamento della struttura
originaria.
Queste evidenze stanno ad indicare, secondo chi scrive, la possibilita che
le esistenti relazioni socioeconomiche si estendano o a nuove famiglie o a
generazioni successive delle stesse; queste, a loro volta, le manifesterebbero
edificando nel sito una nuova struttura, non importa quanto grande, che le
ospiti seguendo quelle modalita costruttive riconosciute ed in qualche modo
considerate come migliori.
A riprova di questa ipotesi diverse importanti constatazioni ricavabili
dall’esame delle tavolette: la prima e quella per cui gli archivi rinvenuti nella
Haus B sono relativi ad un arco di tempo che copre tre diverse generazioni,
per un periodo complessivo che va dai 60 agli 80 anni; ancora, a supportare
l’idea di legami tra le famiglie, la constatazione di come tavolette provenienti
da edifici diversi siano contrassegnate dal medesimo sigillo17 ma anche che
lo stesso nome si trova su contratti provenienti dalle Häuser B-C-O.18
viene formulata a causa del legame costruttivo che essa mostra di avere con la Haus L: il lato
lungo comune alle due strutture.
17
Connesso a questo riconoscimento e quello del legame tra le diverse famiglie che po Numerose sono le impronte di sigillo apposte su tavolette provenienti da case
polano la citta.
diverse: T85 e T87 provenienti dalla Haus T della Aussenstadt risultano impresse dallo stesso
oggetto che sigla la T72 della Haus I; T17-18-59-62-64-81 portano tutte la stessa impronta (le
prime due tavolette provengono dal vano 10 della Haus B, le restanti dalla Haus P): si tratta
non considerando quelli della Haus B.
degli archivi piu ampi rinvenuti nell’intera citta,
18
Mayer 1988: 49. T13-14-21-22-20 riportano lo stesso nome (provengono dalle case B e
C); peraltro il nome che si trova sul sigillo di T13 e (dingir) Bahla-KA ed in tutti i casi risulta
il compratore: non e chiaro se si tratti dello stesso d.Ba-ah-la-ka il cui nome si trova anche
nelle tavolette T35.
Le dinamiche sociali nell’Alta Siria durante il Bronzo Tardo
45
Un’ultima considerazione sembra importante per la connessione dei due
aspetti topografico e sociale: proprio quelle strutture che hanno restituito gli
archivi piu consistenti, ovvero le Häuser B-C-P ed in parte la M mostrano,
accanto o di seguito alla capacita di praticare attivita economiche, un vano
della casa interamente adibito all’immagazzinamento delle derrate, ovvero,
seppur in modo non univoco, alla presenza di un archivio corrisponde una
piu ampia capacita di stoccaggio.
Data la natura dei ritrovamenti risulta chiaro che l’ampia attestazione di
attivita economiche, di contro alla sinora scarsa attestazione di attivita di tipo
artigianale, indicherebbe in Mumbaqat non tanto un centro con carattere di
trasformazione (solo tre strutture hanno lasciato edifici dediti esclusivamente ad attivita di tipo artigianale), quanto piuttosto di gestione di un potere
economico esistente.
Le tavolette a carattere economico consistono essenzialmente di compravendite di giardini e di vigne site nelle colline intorno al centro. Nell’ambito della gestione di tale potere risulta rilevante non tanto la presenza di
un’autorita centrale (a Mumbaqat non e stato rinvenuto ancora un palazzo),
quanto quella di alcune famiglie (nei testi di Mumbaqat spesso si fa riferimento ai «Fratelli») che, diversamente da quanto accade in Mesopotamia,
la trasmettono alle generazioni successive, che si continuano a muovere nello stesso sito costruendosi edifici, staccati da quelli di origine, che seguono
tipologicamente quelli dei loro predecessori, non risultando n¡e per qualita n¡e
per estensione delle strutture loro pertinenti superiori agli altri e, quindi, non
facilmente riconoscibili.
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Le dinamiche sociali nell’Alta Siria durante il Bronzo Tardo
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La glittica di Siria e Palestina
nel Bronzo Tardo.
Le produzioni di Alalakh,
Emar e Kumidi a confronto
Riccardo Ceretti
Abstract
This paper will be about the comparative and iconographical analysis of the
seals and cylinder seals impressions found in the three sites of Alalakh, Emar and
Kumidi, which show considerable differences both in their expressive modus and in
their iconographic development.
Se non pochi sono i sigilli cilindrici di ritrovamento occasionale al di fuori di scavi regolari che possono plausibilmente essere attribuiti a botteghe
nord siriane e palestinesi del Bronzo Tardo, i maggiori nuclei di documentazione glittica scoperti in esplorazioni archeologiche sistematiche nella Siria
e Palestina della fase finale dell’eta del Bronzo (1600-1200), sono quelli costituiti dalle numerose impronte di sigillo, e dai sigilli stessi, scoperti nel Livello IV di Alalakh nell’Antiocene, appartenenti al XV sec. a.C.,1 ad Emar,
sul medio corso dell’Eufrate, databili prevalentemente tra il 1310 e il 1187,2
1
La cronologia assoluta di Alalakh e stata rivisitata, considerando le discrepanze presenti nella pubblicazione di Woolley (1955), da D. Collon (1982: n. 3) la quale, avvalendosi
della Cronologia Media che considera il periodo di regno di Hammurabi di Babilonia (17921750 a.C.) come punto fermo per la cronologia assoluta, colloca e data i diciassette livelli del
sito come: Livelli XVII-VIII (2000-1700 a.C.), Livello VII (1720 - fine del XVII sec. con la
distruzione del Palazzo di Yarim-Lim), Livelli VI-V (fine del XVII sec. - inizi del XV sec.
a.C.), Livello IV (1500-1365 a.C. con la distruzione del palazzo di Niqmepa), Livelli III-II
(1365 - primo quarto del XIII sec. a.C.) e Livello I (secondo quarto del XIII sec. - inizi del XII
secolo a.C.).
2
Le tavolette cuneiformi rinvenute durante le campagne di scavo ad Emar sono state
suddivise in due categorie da D. Arnaud (la pubblicazione dei testi cuneiformi e in corso di
stampa, ma per una prima valutazione sulla cronologia e possibile vedere Arnaud 1987: 20
n. 2), rispettivamente appartenenti ad una tradizione scribale definita «siriana» e a un’altra
«siro-ittita» (Beyer 2001: 15).
49
50
Riccardo Ceretti
e gli esemplari di Kumidi, nella fertile valle della Beqa‘, collocabili tra la
seconda meta del XV sec. e la fine del XIII sec. a.C.3
Lo studio del materiale, suddiviso per luogo di origine, e rivolto alle
iconografie e alle tematiche rappresentate, e segue un’ulteriore distinzione
in due gruppi di appartenenza, rispettivamente legati ad una tradizione siriana4 e ad una produzione nord mesopotamica con caratteri spiccatamente
mitannici.5
La produzione proveniente dal Livello IV di Alalakh puo essere distinta in due tipi, il primo legato ad un’attenta valorizzazione dei particolari
e ad una assai piu razionale concezione dello spazio, e l’altro caratterizzato da iconografie rese in modo sommario ed approssimativo, create da
un eccessivo uso di strumenti a rotazione, ed inserite in uno spazio meno
equilibrato.
Nelle impronte relative alla prima produzione (tav. I, figg. 1, 2 e 3),6 tutte provenienti dal Palazzo Reale e appartenute verosimilmente a personaggi
regali o legati in qualche misura all’attivita politica ed economica della cit3
L’insediamento e stato sede di stanziamenti piu antichi, risalenti anche alla fase avanzata del periodo neolitico, ma si e particolarmente sviluppato durante la seconda meta del
II millennio a.C. La cronologia relativa alla fase piu importante dell’insediamento urbano e conosciuta grazie alle citazioni fatte nelle liste topografiche delle spedizioni militari di Thutmosis III verso la meta del XV sec. a.C., ma la citta entra nell’influenza egiziana gia agli inizi
del XV sec. con alcune campagne militari effettuate da Thutmosis I, diventando cos ı uno dei
cardini principali del sistema amministrativo provinciale egiziano (Matthiae 1986: 117-18).
4
L’apice di tale produzione si e avuto soprattutto durante il XVII sec. a.C. Tra i siti che
maggiormente hanno restituito testimonianze durante scavi regolari, posizione piu rilevante
occupano i siti di Kanish, Mari ed Alalakh, i quali hanno restituito impronte su tavolette o
Cio e testimoniato anche
su cretule caratterizzate da iconografie spesso di eccellente qualita.
da un notevole numero di sigilli cilindrici provenienti dallo scavo del Palazzo di Alalakh VII,
cronologicamente inserito tra il 1725 e il 1620 a.C., i quali si confrontano con una produzione
legata soprattutto alle botteghe reali di Yamkhad e documentano il piu alto livello di attivita di quello che e stato il maggiore centro politico di tutta la regione (Matthiae 2000: 210-11).
5
Lo stile mitannico appare nella glittica del Vicino Oriente antico fin dagli inizi del XVII
sec. a.C., prevalendo nella produzione artistica dei sigilli cilindrici su una vasta area che va
dal Golfo Persico, ad oriente, fino alle coste del Mediterraneo, ad occidente. Gli esemplari
presi in esame in questo lavoro hanno delle caratteristiche comuni – inerenti sia alle iconografie riportate sia allo stile adottato nelle rappresentazioni – alla ben nota classe di impronte
di sigillo cilindrico scoperte a Nuzi (Porada 1947), a Kirkuk (Contenau 1922: 158-63, tavv.
XXXIV-XXXVI) e a Tell Rimah (Parker 1975).
6
Tutte le figure citate da qui in avanti nella relazione si trovano raccolte all’indirizzo
http://www.orientalisti.net/ceretti2003-1.htm. Nella versione elettronica degli Atti basta fare
clic su un riferimento (in blu nel testo) ed essere collegati alla Rete per aprire nel proprio
browser Internet l’immagine corrispondente.
La glittica di Siria e Palestina nel Bronzo Tardo
51
7 e possibile individuare una certa continuita tra la tradizione paleosiriata,
na del precedente periodo (Bronzo Medio), definita «coloniale» o «di bello
stile»,8 e quella relativa al Bronzo Tardo, legata soprattutto alla presenza dei
personaggi rappresentati ed allo stile adottato per la rappresentazione degli
stessi.
La figura del sovrano e caratterizzata da un’alta tiara ovoidale, o dal basso copricapo mesopotamico a calotta semplice ad alta falda,9 e dall’ampio
e lungo mantello con i classici bordi fortemente ispessiti. Ad accompagnare la figura del re compare, nella maggior parte dei casi, una delle divinita principali del pantheon aleppino: la divinita siriana, oppure la divinita babilonese Lama nel classico atteggiamento di venerazione, con entrambe le
braccia piegate e rivolte verso l’alto.
La prima delle due divinita ora citate, definita «siriana» in quanto compare prevalentemente sui sigilli «siriani» collocabili cronologicamente tra
il Medio e il Tardo Bronzo, viene identificata con la grande Khebat, paredra del dio della tempesta Hadad, che vede la sua prima rappresentazione su
un sigillo da Karahöyük,10 piu antico delle impronte e dei sigilli scoperti ad
Alalakh.
Questa divinita sembra, nel corso dei secoli, non aver cambiato la sua
iconografia. Essa appare cinta da un’alta tiara cilindrica, ornata alla base da
una coppia di corna libere, indossa un lungo mantello ornato da un grosso bordo rigonfio e, affrontata sempre ad un personaggio regale, e solita
trattenere in una delle due mano un ankh11 (simbolo della vita eterna).
7
Per quanto riguarda le due impronte, l’iscrizione riportata nello spazio destinato alla
rappresentazione cita nella prima Abban e nella seconda Idrimi, sicuramente due noti personaggi di origine regale o legati in qualche misura alla famiglia regnante della citta (Collon
1975: 169).
8
Matthiae 2000: 210.
9
Questo caratteristico copricapo, indossato anche da soggetti facilmente identificabili
come alti dignitari (Teissier 1984: 76), venne usato soprattutto durante il Bronzo Medio,
durante il quale videro anche un maggior utilizzo alcuni elementi iconografici prettamente mesopotamici, come simboli astrali e crescenti lunari, che caratterizzarono molta della
produzione nord siriana.
10
La scena dell’impronta, poco conservata, e caratterizzata da due personaggi di diversa
dimensione, probabilmente femminili, posti di fronte ad una divinita in atteggiamento divino
con entrambe le braccia piegate e rivolte verso l’alto e con alle spalle una strana guilloche che
divide in due registri orizzontali lo spazio restante (Alp 1968: 116).
11
Tra le numerose documentazioni rinvenute, un’impronta proveniente dal Palazzo Occidentale dell’importante sito nord siriano di Ebla (Tell Mardikh) riporta l’iconografia classica
della dea affrontata al dio della tempesta Hadad: essa indossa la tiara cilindrica con alla base
52
Riccardo Ceretti
Per quanto concerne la divinita babilonese Lama12 (tav. I, figg. 2 e 3), tale
figura non sembra allontanarsi particolarmente dalla sua classica iconografia
conosciuta fin dagli inizi del III millennio a.C. in Mesopotamia. La dea appare con indosso un copricapo caratterizzato da una serie di corna multiple
e un lungo abito frangiato, e con entrambe le braccia piegate e rivolte verso
l’alto, nel classico atteggiamento di venerazione.13
Da un’attenta osservazione dello schema spaziale in cui si muovono in
un’equilibrata armonia i personaggi rappresentati, incentrati sulla figura re e possibile evincere anche l’accurata vagale posta di fronte ad una divinita,
lorizzazione di alcuni particolari iconografici, come gli abiti indossati o i caratteri anatomici ben definiti, la quale sembra non allontanarsi affatto dall’antica tradizione artistica del Bronzo Medio, che vide il suo massimo sviluppo
nella produzione glittica del XVII sec. a.C.14
Gli esemplari presi ora in esame ci danno la possibilita di affermare che
nella sfragistica del Livello IV di Alalakh gli schemi di un’antica cultura
figurativa, prevalentemente classica, permangono in una produzione prettamente regale nella quale si evidenzia anche un gusto locale legato, a volte in
maniera accentuata, ad una tradizione glittica piu antica.
La seconda produzione proveniente dal sito nord siriano (tav. I, figg. 4 e
5) e caratterizzata invece da impronte di sigillo e sigilli cilindrici che propongono schemi compositivi legati alla produzione classica paleosiriana, come
una coppia di corna e un lungo mantello ornato da un grosso orlo rigonfio; sul copricapo e un
uccello, forse una colomba, volatile che le e associato (Matthiae 1989: tav. 164). La stessa immagine con il volatile, questa volta appoggiato sulla spalla sinistra, compare su un’impronta
dal Livello VII di Alalakh (Collon 1975: 13 tav. XV, n. 12).
12
La sua identificazione e stata resa possibile grazie al rinvenimento di un monolite durante gli scavi della campagna 1953-1954, la cui faccia anteriore riportava un’iscrizione
cuneiforme relativa alla dea Lama composta da sedici linee (Spycket 1960: 74 fig. 2).
13
La prima apparizione della dea nell’arte mesopotamica risale a un sigillo in serpentino
di eta akkadica. Tale raffigurazione riporta l’immagine della dea non con il lungo mantello
a frange ma con un lungo abito pieghettato; le braccia piegate sono sostituite da un unico
arto, il destro, proteso in avanti. Solo durante l’epoca di Gudea (fine del III millennio a.C.) il
singolo braccio viene sostituito da quell’atteggiamento che caratterizzera tale figura nel corso
dei secoli (Spycket 1960: 74).
14
Gran parte della documentazione glittica relativa al Bronzo Medio e conosciuta soprattutto grazie alle collezioni private sparse per il mondo. Di tale produzione, se non in sporadici
casi, si ignora il luogo di origine, e la cronologia dei singoli sigilli viene resa possibile solo
dopo un confronto con gli esemplari di sicura provenienza. Tra le piu importanti raccolte private pubblicate, quella della Collezione Marcopoli (Teissier 1984), per gli esemplari inerenti
alla produzione paleosiriana, e sicuramente la piu numerosa in quanto tutti gli oggetti che la
compongono sono stati acquistati in Siria durante la seconda meta dello scorso secolo.
La glittica di Siria e Palestina nel Bronzo Tardo
53
ma iconograficamente ben lontani da quel
figure regali affrontate a divinita,
particolare plasticismo di antica tradizione, sostituito da un gusto piu lineare. Alcune iconografie regali e/o sacre facilmente riconoscibili negli antichi
modelli, appaiono ora rappresentate con tratti decisamente sommari, dove un
gusto piu lineare (o contemporaneo) caratterizza i soggetti raffigurati, a volte
difficilmente identificabili.
Questa stilizzazione degli elementi ancora legati al classicismo siriano
della prima meta del secondo millennio, non piu cos ı manieristica, e riscontrabile anche analizzando piu da vicino le iconografie riportate sui singoli
esemplari. Le figure divine che apparivano frequentemente nel repertorio paleosiriano, quali il dio della tempesta, la divinita siriana ovvero la divinita babilonese, sono presenti su un numero sicuramente minore di esemplari e
la loro resa stilistica, dominata da un gusto piu lineare e corsivo, si allontana
radicalmente dal plasticismo classico di periodo precedente.
In riferimento al dio della tempesta Hadad (tav. I, figg. 4 e 5), la sua postura, stante con il braccio destro rialzato a brandire il martello con il quale
scuote le nubi,15 rimane invariata e legata all’antica tradizione del XVIII sec.
a.C., ma la sua resa stilistica si allontana drasticamente dal plasticismo e dal
realismo tipici della cultura paleosiriana. Uguale sorte sembra caratterizzare la divinita babilonese, presente nella stessa impronta,16 la quale mantiene
il suo classico atteggiamento di venerazione, con entrambe le braccia piegate rivolte verso l’alto, ma nella quale domina un gusto che predilige tratti
sommari che ben si associano ad una produzione mediosirana.17 Altre iconografie, come la figura assisa (tav. I, fig. 5), sono rese adottando un gusto cos ı estremamente lineare che solo la presenza di alcune caratteristiche iconografiche, come il copricapo decorato alla base da una coppia di corna libere,
rende possibile ipotizzare la natura divina del personaggio.
E verosimile che la prima rappresentazione di un personaggio maschile nella classica
postura di chi brandisce un’arma rivolta verso una seconda figura, sia da ricercare su un documento datato al 3168 a.C. e significativo della cultura egiziana, la Tavolozza di Narmer. Una
delle due facce decorate riporta la limpida raffigurazione di un re con una mazza brandita nella
mano destra, pronto a colpire un nemico rappresentato in ginocchio in segno di sottomissione
(Donadoni 1981: 3).
16
La medesima coppia divina, oltre ad apparire su alcuni esemplari di tradizione ittita
provenienti da Emar, appare su un sigillo della collezione Marcopoli (Teissier 1984: n. 477).
17
Gran parte della produzione glittica di Alalakh relativa al Livello IV (Bronzo Tardo)
e caratterizzata da forme decisamente lineari e rese secondo uno schema sommario poco attento alla valorizzazione dei caratteri anatomici delle figure rappresentate. A tale proposito
si vedano le impronte nn. 196, 199, 215 e 219 in Collon 1975.
15
54
Riccardo Ceretti
In aggiunta ad una produzione glittica di tradizione siriana, provengono
dal Livello IV di Alalakh una buona quantita di esemplari che hanno messo
in evidenza aspetti legati, oltre che ad una tradizione siriana, ad una forte
componente mitannica, la quale si manifesta attraverso modi espressivi che
si ispirano agli originali modelli nord mesopotamici, elaborati secondo un
gusto locale.
Lo stile mitannico appare nella glittica vicino orientale durante la prima
meta del XVII sec. a.C., sviluppandosi poi in una vasta area geografica che
va dal Golfo Persico fino alle coste del Mediterraneo. Gli esemplari presi in
esame in questo lavoro sono stati considerati secondo la classica distinzione in stile elaborato e in stile comune che viene utilizzata comunemente per
suddividere le iconografie appartenenti al repertorio della glittica mitannica.
In riferimento alla glittica bisogna anticipatamente precisare che l’aggettivo «mitannico» ha sempre rivestito un’accezione particolare, in quanto
con «mitannico» si e inteso identificare una ben definita classe di impronte
e di sigilli cilindrici che presentano motivi iconografici propri della glittica
dello stato nord mesopotamico della meta del II millennio a.C., riccamente
documentata dalle impronte su tavoletta scoperte a Nuzi.18
Tutto il materiale e stato a sua volta suddiviso seguendo le due ben note categorie dello stile elaborato e dello stile comune,19 create ed utilizza18
Il sito nord mesopotamico ha restituito la piu ampia documentazione della cultura hurrita (la capitale Washukkanni non e stata ancora individuata), la quale si presenta in siti lontani
dal centro originario dell’irradiazione in misura tale, da far pensare non solo ad una semplice
influenza o a fenomeni di importazione, ma ad una vera e propria presenza, in aree ben lontane e distinte, di botteghe stabili con artigiani hurriti, con la conseguenza di non poter piu parlare di imitazione di soggetti ma di una vera e propria produzione locale, soprattutto per
quanto concerne la documentazione palestinese (Baffi Guardata 1990: 100; Parker 1949: 4).
19
I termini Common Style (Stile mitannico comune) e Elaborate Style (Stile mitannico
elaborato) furono usati per la prima volta da E. Porada in riferimento allo stile e ai materiali di
alcuni sigilli ritrovati a Nuzi: «glazed steatite or fayence were most exclusive used for seals of
the Common Style which usually show schematic, often coarse engraving; whereas hematite,
jasper and similarly hard materials were employed for cylinders of the Elaborate Style which present more careful and varied carving» (Porada 1947: 12-13). Tale suddivisione e stata
riutilizzata anche nella pubblicazione della Collezione della Pierpont Morgan Library (Porada 1948), in riferimento sia agli aspetti tecnici della lavorazione che ai materiali utilizzati,
ribadendo una maggiore varieta e ricchezza di temi dei sigilli pertinenti allo stile elaborato.
Sempre in riferimento allo stile si e parlato anche del cosiddetto Syro-Mitannian Style (Stile siro-mitannico), al quale B. Teissier (1984: 93) attribuisce, rispetto allo stile comune, un
modellato e un uso del trapano assai piu sapienti su un supporto in pietra dura. Una possibile
origine di tale stile potrebbe essere ricercata sia nella produzione del cosiddetto Drilled Style
del Periodo paleobabilonese tardo, presente in Siria e nell’alta Mesopotamia intorno al 1700
La glittica di Siria e Palestina nel Bronzo Tardo
55
te per la prima volta da E. Porada (1947: 12-13) nel suo studio relativo alla
documentazione glittica di Nuzi.20
Le scene rappresentate sono compositivamente assai semplici, e da un
primo esame dei documenti rinvenuti si possono estrarre quelli che sono gli
elementi maggiormente impiegati, disposti spazialmente secondo due forme: con una collocazione delle componenti secondo un’unica linea di base
ovvero con una suddivisione della scena in spazi metopali.
In quest’ultimo caso le metope disposte verticalmente od orizzontalmen riempite da
te (tav. I, figg. 6, 7 e 8) si affiancano nel numero di due o piu,
scene differenziate separate a loro volta da semplici linee incise ovvero da
motivi a guilloche e a rete.
Tra gli elementi iconografici piu utilizzati, quello dell’albero sacro (tav.
II) sembra aver avuto particolare fortuna.21 Distinto in due categorie, come
elemento vegetale rettilineo o con fronde caratterizzate da elementi semicircolari o a volute, si presenta con numerose varianti iconografiche le quali pero non permettono di identificare un determinato tipo ricorrente.22 Nella glita.C. ca. (Baffi Guardata 1979: 97-104; Porada 1980: 11), sia in un’importazione di tali sigilli da un sito nord siriano; per questo e stato creato il termine Syro-Mitannian Style (Porada
1970: 13).
20
Recentemente e stato condotto da B. Salje (1990: 150) e da D. L. Stein (1997: 74-76)
uno studio, nel quale un ruolo preponderante ha, nella valutazione degli stili mitannici, l’indagine statistica. La Salje riprende l’intera questione definendo ormai superata e inadeguata
una distinzione fra stile mitannico elaborato e stile mitannico comune sia per quanto concerne
gli aspetti tecnici del materiale utilizzato per la produzione del sigillo, sia per le implicazioni stilistiche. L’autrice pone l’accento sulle implicazioni sociali legate alla distinzione fra i
due stili, abbandonando quella legata al diverso uso dei materiali (di pregio, nel caso degli
esemplari in stile elaborato, piu scadenti, nel caso dello stile comune).
21
L’origine del suddetto elemento iconografico sembra debba essere ricercata in ambito
mesopotamico, anche se tra le piu antiche rappresentazioni particolare rilevanza hanno alcuni
frammenti ceramici proveninti da Susa databili agli inizi del III millennio a.C. Tale elemento
comparira piu frequentemente nelle iconografie della glittica di periodo Gemdet Nasr (30002900 a.C.), ma apparentemente privo di quel valore simbolico e sacro che lo caratterizzera in
epoca successiva.
22
La distinzione in due tipologie di alberi sacri viene fatta per la prima volta in uno studio affrontato da C. Kepinski (1982) nella sua tesi di dottorato. La studiosa, comparando i
motivi vegetali presenti sugli esemplari di varia natura provenienti dai siti della Mesopotamia, dell’Anatolia, della Siria e della Palestina, ipotizza un’origine comune di tutti gli alberi
sacri quella, cio e, a «Y» (Kepinski 1982: 17). Per l’autrice l’albero rettilineo e caratterizzato da un tronco liscio decorato all’apice da ramificazioni accompagnate da forme circolari,
molto simili al bouquet-tree, mentre quello a volute, partendo da una semplice forma a «V»
ad angolo ottuso con gli apici arrotondati, come presentano alcuni esemplari provenienti da
Kirkuk (Contenau 1926: n. 107), da Nuzi (Starr 1937: tav. 119c) e da Ugarit (Schaeffer 1935:
56
Riccardo Ceretti
tica mitannica tale elemento e oggetto di adorazione da parte di figure umane
(tav. II, figg. 9 e 12), oppure la sua posizione e enfatizzata dalla posizione di
due capridi che lo fiancheggiano (tav. II, figg. 10 e 11). I tipi di alberi sono
frutto di una eccessiva stilizzazione e manca totalmente quella ricerca plastica e naturalistica – tranne in qualche raro caso (tav. II, fig. 11) – che si
ritrova facilmente nelle produzioni contemporanee di area mesopotamica. A
volte il tronco viene stilizzato tanto da rendere possibile la tesi di una derivazione dell’albero sacro dallo stendardo come elemento di culto23 sormontato
dal sole (alato e non), rappresentato anche su un pilastro (tav. II, figg. 14 e
15), simbolo del cielo, o su un albero,24 che diviene oggetto di adorazione
da parte di singole o piu figure stanti o inginocchiate. Questa e senz’altro la
scena di culto piu facilmente identificabile fra tutte; importante e la posizione che assume il personaggio di fronte allo stendardo o all’albero; egli puo semplicemente osservarlo oppure puo impugnarne l’asta con la mano (tav.
II, figg. 12 e 13).
E abitualmente accettata l’interpretazione delle figure come un adorante
che si pone di fronte allo stendardo o all’albero, con la mani sollevate o il
singolo arto rivolto verso l’oggetto, mentre il personaggio che afferra l’elemento vegetale o l’arredo sacro posto di fronte ad una seconda figura, si puo interpretare come una divinita che a sua volta viene adorata.25
Tra le numerose iconografie quella del capride sembra essere stata la piu utilizzata. Questa e piuttosto omogenea, ma ben distinte sono le posizioni
che esso assume: stante, passante, accovacciato sollevato sulle zampe posteriori ovvero anteriori (tav. II, fig. 16 e tav. III, figg. 17 e 18). Importante e tav. XXXV), e poi decorato da un numero sempre maggiore di volute rivolte sia verso il basso che verso l’alto, sembra aver maggiore fortuna non solo in ambiente mitannico (Kepinski
1982: 53).
23
L’idea dello stendardo come tale compare nella storia della glittica del Vicino Oriente per la prima volta sui sigilli della I dinastia di Babilonia (Delaporte 1910: n. 424), e sara ereditata poi dagli incisori mitannici; la glittica hurrita adottera frequentemente il tipo di stendardo che sorregge il disco solare, operando cos ı quell’assimilazione tra cultura indoeuropea
e mesopotamica di cui le testimonianze artistiche di Mitanni furono espressione.
24
I sigilli e le impronte di sigillo cilindrico che riportano tale iconografia non sono molti,
e di questi due sono conservati alla Pierpont Morgan Library di New York (Porada 1948: nn.
1049 e 1050) ed uno alla Biblioth eque Nationale di Parigi (Delaport 1910: n. 468); nel primo dei tre casi citati in particolare, l’albero e molto stilizzato e reso in modo assai simile ad
un’asta.
25
Un esempio molto esplicito ci viene fornito da un sigillo conservato al museo di Berlino, in cui la natura divina del personaggio che afferra l’elemento sacro viene ulteriormente
confermata dalla posizione della gamba della figura principale (Moortgat 1940 n. 567).
La glittica di Siria e Palestina nel Bronzo Tardo
57
l’atteggiamento della testa rispetto al corpo. Il tipo che piu spesso e rappresentato ha le seguenti caratteristiche: le corna sono molto lunghe, il corpo e leggermente obliquo e le zampe sono quattro linee quasi parallele tra loro;
il muso e reso da due cerchi, dei quali il piu grande e la testa mentre il piu piccolo e il naso, uniti tra loro da un breve segmento.
Una peculiarita della glittica mitannica e quella di rappresentare gli animali con il capo rivolto all’indietro rispetto al corpo (tav. III, fig. 19). In questa posizione l’animale viene a generare una forma chiusa che, con la testa
parallela e sovrastante il corpo che non lascia spazi vuoti, riafferma il desiderio o l’esigenza degli incisori mitannici di riempire completamente la
superficie del sigillo.
Piu varia e particolare appare invece la documentazione proveniente da
Emar. La grande quantita di impronte su tavolette cuneiformi rinvenute, cronologicamente riferibili tra il 1310 e il 1187 a.C., ha messo in luce una cultura figurativa molto varia e legata a diverse tradizioni come quelle ittita,
paleobabilonese, siriana e mitannica.26
La poliedricita della documentazione del sito sul medio corso dell’Eufrate, oltre che dagli esemplari propriamente definiti di stile «siro-ittita», e testimoniata sia da una forte produzione con soggetti che riportano caratteri
spiccatamente siriani, associabili anche ad una produzione dai caratteri tipicamente paleobabilonesi, sia da iconografie legate ad una tradizione in stile
spiccatamente mitannico. In rapporto alle iconografie ittite, documentate da
111 impronte, la presenza di elementi iconografici spiccatamente siriani e riscontrabile invece su un numero esiguo di esemplari (29 in tutto).
Tali rappresentazioni sono caratterizzate da uno spiccato senso plastico
delle figure rappresentate, con una particolare attenzione alla valorizzazione degli attributi anatomici e di alcuni elementi secondari, quali il vestiario
ovvero oggetti secondari che compaiono all’interno della scena, e da un armoniosa gestione dello spazio all’interno del quale le figure vengono collocate. Sono fattori che rendono questa produzione particolare e specialmente
confrontabile con quella relativa al Bronzo Medio.
Il forte legame con la piu antica produzione paleosiriana rimane visibile sia in relazione alla scelta dei personaggi utilizzati per rappresentare un
determinato momento cultuale, caratterizzato di solito dalla presenza di un
26
La precisa datazione della documentazione e stata resa possibile dall’attento studio
svolto da D. Arnaud sulle tavolette cuneiformi, rinvenute durante le numerose campagne di
scavo (la pubblicazione e in corso di stampa), le quali sono state suddivise dallo stesso in due
tradizioni principali, rispettivamente definite «siriana» e «ittita» (Beyer 2001: 15).
58
Riccardo Ceretti
personaggio di probabile origine regale posto in relazione con una divinita tutelare generalmente raffigurata stante o assisa, sia nella rappresentazione
degli stessi prediligendo una resa prevalentemente plastica.
L’immagine del re (tav. III, figg. 20 e 21) con alta tiara ovoidale e lungo
mantello a bordo ispessito, accompagnato dalle classiche figure divine legate
all’antico pantheon aleppino,27 rimane fortemente legata all’antica tradizione paleosiriana. Anche la rappresentazione delle figure divine come il dio
della tempesta, con il suo alto copricapo cilindrico decorato alla base da una
coppia di corna libere, corto perizoma stretto in vita, la mazza in una delle
mani e il guinzaglio afferrato a trattenere il toro accucciato, animale simbolo
a lui associato,28 rimane legata alla precedente e classica tradizione iconografica. Uguale sorte caratterizza figure divine altrettanto importanti, come
la dea nuda o che si discinge aprendo impudicamente l’abito sulla parte anteriore del corpo (tav. III, figg. 22, 23 e 24 e tav. IV, figg. 25 e 26), ovvero la
dea siriana, con alto copricapo cilindrico con corna alla base e lungo abito a
bordi rigonfi, che rimangono strettamente legate alla produzione del XVIII
e XVII sec. a.C.29
Accanto ad una florida produzione con caratteri spiccatamente siriani e notevole anche una ricca documentazione del piu rigido stile mitannico (tav.
IV, figg. 27 e 28), che presenta soggetti le cui forme tendono a seguire un
modellato piu rigido, realizzato da un sistematico uso di strumenti a rotazione, come trapani e bulini, che prevale numericamente (82 esemplari contro
sugli esemplari con caratteri siriani.
circa la meta)
La produzione emariota, se comparata con gli esemplari del XV sec. rinvenuti a Nuzi, presenta forti analogie sia nelle tematiche rappresentate sia
nella resa stilistica con la quale queste sono raffigurate. Valutando l’impo27
durante il Bronzo
Tra le piu importanti citta della Siria settentrionale Aleppo occupo,
Medio, un ruolo sicuramente di grande rilevanza. Questo e documentato anche da una forte presenza di sigilli cilindrici dinastici dei re di Yamkhad prodotti dalle botteghe aleppine,
nelle quali nacque il senso plastico caratteristico della produzione del XVIII sec. a.C., legato
soprattutto ai piu felici sviluppi formali del Bronzo Medio II (1800-1600 a.C.), che fin ı pero con la distruzione della citta da parte dei sovrani ittiti Hattusili I e Mursili I (Matthiae 2000:
212).
28
In molti esemplari rinvenuti la presenza del dio della tempesta e correlata all’immagine
del quadrupede trattenuto sempre con un guinzaglio e usato, ma solo negli esemplari ittiti,
come piattaforma sormontata dalla stessa figura divina.
29
Questo forte legame con il gusto paleosiriano si riscontra anche nelle testimonianze
architettoniche, soprattutto di origine sacra, come i due templi vicini a struttura longitudinale,
che rimane legata ad un’antica tradizione (Matthiae 1986: 157).
La glittica di Siria e Palestina nel Bronzo Tardo
59
stazione scenica presente nelle impronte ora citate e evidente quanto queste
siano articolate in schemi simmetrici organizzati su un perno centrale, sia
questo un singolo soggetto o una coppia di personaggi, il quale perde ogni
riferimento narrativo diventando cos ı una scena non piu composta da singole
porzioni a s¡e stanti, ma formata da piu elementi ornamentali che occupano
uno spazio ben definito e caratterizzato da quel decorativismo dallo stile elaborato di non poca produzione mitannica, assente, stranamente, nelle scene
del Livello IV di Alalakh.
E altres ı importante notare che il carattere poco espressivo della produzione in stile comune sembra non aver avuto ad Emar particolare fortuna e
che gli esemplari in stile elaborato, presenti su un numero sicuramente maggiore di impronte rispetto a quelle in stile comune, presentano soggetti elaborati secondo una spiccata plasticita non facilmente riscontrabile in altri
esemplari.30
Tale documentazione testimonia la confluenza di molteplici influenze
culturali ed evidenzia anche una forte poliedricita culturale, favorita non poco dalla posizione geografica sul medio corso dell’Eufrate che rende Emar
un centro politicamente attivo durante la seconda meta del II millennio a.C.
e le permette di riequilibrare il potere assoluto di Ugarit durante la seconda
fase del Bronzo Tardo.31
Un'ultima considerazione deve essere fatta per gli esemplari glittici provenienti da Kumidi. Tutta la produzione e caratterizzata sia da una forte stilizzazione delle iconografie riportate, dominate da un gusto del tutto lineare che tende a semplificare le forme e le sagome dei soggetti rappresentati
rendendoli di difficile comprensione, che da una notevole quantita di iconografie elaborate secondo uno stile legato alla produzione comune della
glittica mitannica, su materiali molto spesso in faı̈ance.
Il preponderante gusto della linea, con un chiaro abbandono di quel pla30
Le impronte di sigillo cilindrico che riportano scene elaborate secondo lo stile comune mitannico, classico nella documentazione del Bronzo Tardo, sono soltanto sette, le quali
ospitano scene incentrate, come nel caso della glittica di Nuzi, sul bouquet-tree affiancato da
personaggi umani stanti (Beyer 2001: tavv. J e K nn. E65 e E71).
31
La centralita politica di Emar e testimoniata anche dal numero cospicuo di impronte
che riportano iconografie tipicamente paleobabilonesi (Beyer 2001: tavv. G e H). Tali raffigurazioni testimoniano l’inequivocabile contatto commerciale, considerando la posizione
topografica del sito, esistente tra il centro nord siriano e tutta l’area della bassa Mesopotamia.
Tale produzione, molto vicina a quella della prima dinastia di Babilonia, e caratterizzata da
un intenso uso del trapano e dalla presenza nel repertorio figurativo di divinita primarie e ben
note come la dea Lama o Ishtar, rappresentata nuda e frontale.
60
Riccardo Ceretti
sticismo incontrato sia ad Alalakh che ad Emar, sembra caratterizzare l’intera produzione di Kumidi. Le scene che appaiono su tali esemplari sono per lo
piu caratterizzate dalla presenza di personaggi divini assisi (tav. IV, figg. 29
e 30), accompagnati da figure maschili stanti di difficile identificazione, o da
soggetti la cui postura ci potrebbe suggerire una raffigurazione del dio della
tempesta (tav. IV, fig. 31). Cio che caratterizza questo tipo di produzione, non
particolarmente legata ad iconografie mitico-religiose, mentre piuttosto ricco appare l’utilizzo di soggetti legati al mondo animale, con capridi ovvero
fiere, e uno stile locale connesso soprattutto ad un carattere puramente artigianale che rimane legato, oltre che ad un uso specifico di alcuni strumenti,
quali il trapano o il bulino, ad un’antica tradizione iconografica la quale, fin
dai secoli precedenti, ha sempre prediletto motivi lineari e poco plastici.32
Per quanto concerne gli esemplari che riportano iconografie legate ad
uno stile propriamente mitannico, la produzione di Kumidi si distingue da
quella siriana per non essere particolarmente varia nella scelta dei soggetti
adottati, fra i quali abbondano figure di animali come pesci, uccelli (tav. IV,
fig. 32 e tav. V, figg. 33 e 34) e quadrupedi in sequenza, raffigurati nel classico atteggiamento con il capo rivolto all’indietro e resi secondo uno schema
semplificato legato fortemente alla produzione mitannica in stile comune.33
Dall’analisi iconografica e comparativa degli esemplari rinvenuti nei tre
importanti centri urbani del Bronzo Tardo e possibile, a questo punto, delineare una certa differenziazione sia nel modus espressivo che nello sviluppo
iconografico presenti in ciascuno dei tre siti presi in esame. Mentre ad Alalakh su tutta la documentazione solo quella appartenente ad un determinato
ceto sociale, il piu delle volte regale, sembra aver mantenuto canoni espressivi ed iconografici legati fortemente a criteri rappresentativi di gusto paleosi32
Per una sintesi sulla glittica palestinese si guardi la raccolta di sigilli cilindrici e
impronte di sigillo di Nougayrol 1939.
33 E importante notare che accanto ad una florida produzione in stile locale o mitannico,
la glittica di Kumidi, e in generale quella palestinese, sono caratterizzate anche da un gusto
propriamente egittizzante. Relativamente a Kumidi e possibile che iconografie della cultura
nilotica siano giustificabili e legate agli eventi storici del Bronzo Tardo. La posizione topografica dell’insediamento, entrato nella sfera d’influenza egizia in seguito alle prime campagne militari di Thutmosis I agli inizi del XV sec. a.C., lo rendeva un nodo fondamentale di
comunicazione e di controllo dell’intera regione, e permetteva di interrompere i contatti tra
l’interno e la costa. Alcuni documenti rinvenuti nell’archivio di Amarna menzionano il nome
un certo Arakhattu, vissuto probabilmente nella prima meta del
di uno dei sovrani della citta,
XIV sec. a.C., il quale scrive una lettera ad uno dei sovrani d’Egitto per ribadire la sua fedelta al paese dei faraoni.
La glittica di Siria e Palestina nel Bronzo Tardo
61
riano, mentre viceversa i soggetti presenti sulle impronte o sui sigilli «comuni» sono elaborati secondo un gusto decisamente piu lineare, ad Emar
convivono, in maniera del tutto differenziata, stili appartenenti a culture artistiche completamente diverse tra loro. In aggiunta e possibile affermare che
le rappresentazioni in stile puramente siriano delle impronte emariote mantengono, sia nella scelta dei soggetti rappresentati che nel modo con il quale
questi vengono elaborati, canoni espressivi fortemente legati alla produzione glittica del Bronzo Medio, mentre fra i soggetti mitannici, forse a causa
di una certa influenza nuziana sulla produzione, sono numericamente piu numerosi quelli in stile elaborato rispetto alla documentazione in stile comune.
Diverso da tutti invece e il caso di Kumidi dove, oltre a un numero considerevole di esemplari di gusto prettamente locale, sono attestate iconografie
propriamente mitanniche, soprattutto in stile comune.
La realta storica delle antiche citta di Alalakh, Emar e Kumidi si chiuse
agli inizi del XII sec. a.C., e nessuna installazione urbana, se non in sporadici casi, si sostitu ı ad esse.34 Con questo evento si mise fine ad una intensa attivita culturale che, per quanto concerne la glittica siriana soprattutto di
Alalakh, costituisce l’estremo sviluppo artistico iniziato nel III millennio negli insediamenti urbani di Ebla e Mari, e continuato per tutto il II millennio
a.C. attraverso le testimonianze della stessa Ebla e di Alalakh, la quale insieme ad Emar e ad Ugarit, nella seconda meta del II millennio, fornisce la piu proficua documentazione glittica.
La fine del Bronzo Tardo testimoniera anche il passaggio culturale legato alla sorte del sigillo cilindrico, destinato quasi a scomparire e ancora
presente in pochissimi esemplari relativi agli inizi del I millennio a.C., che
verra sostituito, come dimostra anche la documentazione di Kumidi,35 dal
sigillo a stampo, strumento completamente diverso dal primo soprattutto per
il limitato spazio disponibile per le rappresentazioni sceniche, che perde34
La vita dei tre centri urbani si concluse con la fine dell’eta del bronzo. Alalakh venne distrutta dopo l’invasione dei popoli del mare; Emar, non documentata se non da rarissime strutture templari, venne abbandonata agli inizi del XII sec. a.C. a causa delle razzie
degli Aramei. Kumidi, dopo la distruzione del piu recente stanziamento del Bronzo Tardo,
non sembra aver piu ripreso una fisionomia urbana completa, e la documentazione di alcuni
abitati della fine del II millennio e del IX sec. a.C. non mostra alcuna tracce di fortificazioni;
essi appaiono del tutto estranei a quella rete di rapporti intensi, sia con l’Egitto che con l’alta
Siria, che caratterizzarono il sito in eta mediosiriana.
35
Tra gli esemplari cilindrici il sito siriano ha riportato alla luce una notevole quantita di esemplari a stampo, compresi sigilli e scarabei, per un totale di circa sessanta esemplari,
sicuramente un grande numero se confrontati con i circa trenta pezzi cilindrici rinvenuti.
62
Riccardo Ceretti
ranno quel gusto prettamente narrativo che aveva caratterizzato in maniera
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Il paese di Aram attraverso le fonti assire
da Tiglatpileser I a Salmanassar III
Michela Alessandroni
Abstract
The Assyrian annals are one of the most richest sources for the reconstruction
of the Aramaic history; also from the geographical point of view they supply elements, more or less detailed depending on the circumstances described, but always
fundamental. What we will call the “Country of Aram” (KUR a-ru-ma, mentioned
in this way or in the different vocalizations) is one of the scenes in which some of
the Assyrian expeditions take place. Before we proceed in this research we have to
pay attention to the fact that this mountain region is interpreted and translated by the
scholars by the simple “Aramaeans” instead of the name of their country, and that,
I believe, for reasons connected to the state of the studies of this population and the
lands traditionally inhabited by them. The aim of this research is to examine the Assyrian sources from the period of Tiglatpileser I to Salmanassar III to attempt a geographical reconstruction of the Country of Aram, to situate it between the northern
highlands, and the role that it assumed in history (even though the sources of this
research are partial); it is certain that other attestations of the Near-East, in particular those subsequent to ours, give further information which will be used to confirm
the analysed documentation and to formulate some brief final considerations.
L’argomento che trattero nella presente relazione e del tutto nuovo, in
quanto riguarda una entita territoriale che non e mai stata considerata tale dagli studiosi, ma sempre come definizione di un popolo. Questa regione, che
ho denominato «Paese di Aram » con un appellativo di comodo, in quanto lo
troviamo in realta attestato con diverse vocalizzazioni, e menzionata numerose volte nelle fonti regali assire. Tra l’ampia documentazione riguardante
in generale gli Aramei, un rilievo particolare per qualita ed estensione e da
attribuire agli annali dei sovrani assiri,1 in quanto possiedono l’importante
1
Per le fonti regali assire si e fatto riferimento a A. K. Grayson, Assyrian Royal Inscriptions, Wiesbaden 1972; Assyrian Rulers of the Third and Second Millennia (to 1115 B.C.),
Toronto-Buffalo-London 1987; Assyrian Rulers of the Early First Millennium B.C. (1114-859
B.C.), Toronto-Buffalo-London 1991.
67
68
Michela Alessandroni
caratteristica di essere fonti dettagliate e ben articolate, dotate di una certa
struttura e integrita testuale.
La prima menzione degli Aramei e contenuta negli annali di Tiglatpileser I (1114-1076 a.C.), punto di riferimento fondamentale sia per gli studiosi
che prendono in considerazione anche le attestazioni piu antiche sparse per
tutto il Vicino Oriente sin dal III millennio, sia per coloro che invece considerano i testi di questo re l’attestazione piu antica in assoluto e preferiscono
tralasciare gli altri documenti precedenti perch¡e li reputano non concernenti
gli Aramei. Nei testi di questo sovrano, come e noto, gli Aramei sono denominati per mezzo del binomio Akhlamu-Armaya (akh-la-mı -i KUR ar-ma-ia
MESH ), sul cui significato si e a lungo dibattuto senza per altro giungere ad
una interpretazione da tutti condivisa.2 Non potendo ora riportare le diverse
opinioni, poich¡e richiederebbe molto tempo esporle, analizzarle e criticarle,
mi limitero a presentare in maniera molto sintetica la mia definizione che ci
condurra cos ı nel vivo della questione che andiamo ad affrontare. Analizzando i due nomi nella totalita delle attestazioni si puo facilmente notare come
gli Akhlamu siano sempre presentati come guerrieri numerosi e a volte anche mercenari; non e mai menzionato il nome di un capo o di un luogo di
provenienza, ma solamente il loro ambiente naturale che e quello generale
delle montagne: dovevano dunque essere dei nomadi o seminomadi dotati di
Per quanto riguarda il secondo termine, nomi formati
una estrema mobilita.
da questa stessa radice aram erano piuttosto diffusi in eta precedenti su territori anche assai lontani fra loro. Dal punto di vista sociale quelle attestazioni
sembrano rispecchiare un’identita di tipo seminomadico ma con una certa
tendenza alla sedentarizzazione, come mostreranno poi anche i piccoli inse2
Per una bibliografia in proposito si veda principalmente: A. Dupont-Sommer, Les Aram¡eens, Paris 1949; «Sur les debuts de l’histoire aram¡eenne», in Supplements to Vetus Testamentum, 1, Leiden 1953, pp. 40-49; S. Moscati, «Sulle origini degli Aramei», Rivista degli
Studi Orientali 26 (1951), pp. 16-22; id., «The Aramaean Ahlamu», Journal of Semitic Studies 4 (1959), pp. 303-7; J. Kupper, Les nomades en M¡esopotamie au temps des rois de Mari,
Paris 1957; P. Sacchi, Osservazioni sul problema degli Aramei, Firenze 1960; A. Malamat,
«The Aramaeans», in Peoples of Old Testament Times, ed. by D. J. Wiseman, Oxford 1973,
pp. 134-55; R. Zadok, «Elements of Aramean Pre-history», in Ah, Assyria... Studies in Assyrian History and Ancient Near Eastern Historiography Presented to Hayim Tadmor, ed. by
M. Cogan and I. Eph’al, New York 1991, pp. 1135-46; G. M. Schwartz, «The Origins of the
Aramaeans in Syria and Northern Mesopotamia: Research, Problems and Potential Strategies», in To the Euphrates and Beyond. Archaeological Studies in Honour of Maurits N. Van
Loon, ed. by O. M. C. Haex, H. H. Curvers and P. M. M. G. Akkermans, Rotterdam 1989,
pp. 275-91; M. J. Teixidor, «Antiquit¡es s¡emitiques», in Annuaire du Coll ege de France, Paris
1999-2000, pp. 679-92.
Il paese di Aram attraverso le fonti assire
69
diamenti distrutti da Tiglatpileser I e le piu tarde entita statali improntate su
modelli istituzionali di tipo gentilizio. All’epoca degli annali di Tiglatpileser
I alcuni gruppi di Aramei si trovavano in espansione verso la zona del medio
Eufrate, quella stessa zona geografica gia frequentata dagli Akhlamu; cos ı il
nome «Armaya», accompagnato dal determinativo KUR, e da considerarsi
un toponimo che potremo situare meglio attraverso la documentazione successiva, ambiente naturale di questi seminomadi in espansione; l’appellativo
«Akhlamu» evidenzia invece, nel modo di un attributo generico, che si tratta di bande, di gruppi di uomini, dei quali si conosce la provenienza, ma che
sono ora considerati alla stregua di quei montanari che «da sempre» hanno
invaso e razziato le terre dei sedentari: tra le diverse genti montanare gli Aramei sono accostati in particolare agli Akhlamu proprio a causa della frequentazione dei medesimi luoghi geografici; inoltre il determinativo finale MESH
ci indica che si tratta di una pluralita di uomini. Proporrei dunque una interpretazione di questo tipo: si tratta di popolazioni di seminomadi provenienti
dalle montagne di «Aram », che frequentano e si infiltrano in quelle determinate zone gia devastate dagli Akhlamu sin da tempi remoti. Le informazioni
geografiche che si possono ricavare da questi testi rimandano dunque ad un
ambiente che non corrisponde alle terre di provenienza degli Aramei, ma ai
luoghi della loro espansione, la zona del medio Eufrate.
Questo stesso sovrano assiro ci ha poi tramandato ulteriori dati che, a
mio parere, non sono stati presi nella giusta considerazione. Per ben due volte Tiglatpileser I nomina un luogo che e tradotto dagli studiosi come «monte
Aruma», e credo che in realta si tratti della stessa terra montuosa della nostra indagine (KUR a-ru-ma). Nella prima delle due iscrizioni essa e descritta
come una regione difficile, dove i carri non possono passare, tanto che il re
li abbandona per proseguire alla testa dei suoi guerrieri e avanzare «trionfalmente sulle sommita delle erte montagne»; inoltre reca l’interessante menzione della terra di Mildish, narra di averla sopraffatta, razziata e bruciata.
Nella seconda, invece, sono nominate altre due terre, quelle di Saraush e di
Ammaush, «che mai prima avevano conosciuto sconfitta».
Seguitando l’analisi delle fonti assire, incontriamo un gruppo di testi, appartenenti quasi con certezza al secondo successore e figlio di Tiglatpileser
I, Ashur-bel-kala (1073-1056 a.C.), che proseguono la narrazione delle imprese belliche contro gli Aramei. Ora le localita a cui si fa riferimento sono
molte, in buona parte in relazione allo stesso scenario geografico delle alte terre settentrionali, ma non si puo pensare che siano tutte appartenenti al
70
Michela Alessandroni
nucleo di provenienza originario. Ma andiamo per ordine. Innanzitutto esistono due brani frammentari che riecheggiano la fraseologia di Tiglatpileser
I, come una sorta di citazione, che quindi non puo fornire indicazioni nuove
o dati di sviluppo. Possediamo poi coni d’argilla frammentari provenienti da
dove per due volte gli
Assur, facilmente ricostruibili data la loro conformita,
Aramei sono nominati come KUR a-ri-me; e evidente che si tratta nuovamente
di quella terra, sia per l’uso del determinativo KUR, sia per il contesto; infatti e detto: «In numerose campagne contro KUR a-ri-me ... io continuamente
ho saccheggiato». Certamente quelle che maggiormente hanno colpito l’interesse degli studiosi sono le iscrizioni che si trovano sul cosiddetto obelisco
spezzato ritrovato a Kuyunjik, incise sulla parte destra della pietra, nella terza
colonna. In esse compare numerose volte la locuzione kharrana (KASKAL)
sha KUR arimi, interpretato diversamente, o come contingente di carovane di
Aramei, o come contingente di militari aramei. E complicato pervenire ad
una conclusione certa in proposito, ma alcuni elementi di analisi non mancano; innanzitutto si puo ben notare come la nostra espressione accompagni
sempre una localita ben determinata, fatto piu confacente a genti stanziali che
a trib u carovaniere; in secondo luogo la situazione descritta e una evidente
condizione di belligeranza; queste considerazioni dovrebbero farci propendere piu per la seconda ipotesi, ma se poi valutiamo i significati di kharranu e
del relativo logogramma sumerico KASKAL,3 ci imbattiamo nei significati
di «via, strada, viaggio, carovana», e la situazione torna di nuovo ad essere
confusa. Al di la di queste osservazioni va evidenziato pero anche il fatto che
compare il determinativo di luogo KUR ad indicare ancora una volta che si
tratta del paese degli Aramei; certamente non si trattera piu di quel territorio
di provenienza di cui si e parlato prima, ma di luoghi presi dagli Aramei in
seguito alla loro forte pressione; l’area geografica principalmente interessata e quella della terra di Shubru, dei monti Kashiari e della zona del Khabur.
Una importante osservazione va esposta riguardo all’appellativo utilizzato:
non si parla piu di Akhlamu e non e specificata dunque alcuna connotazione
seminomadica; questo puo voler significare due cose: da una parte si tratta
di una terra originaria con dei nuovi avamposti che interpretiamo dunque come carovane o militari legati alla terra di Aram; d’altra parte si e in presenza
di un interlocutore che inizia a definirsi con maggiore precisione, non per
mezzo di un attributo generico.
Il lungo lasso di tempo che va da Ashur-bel-kala (1073-1056 a.C.) ad
3
W. von Soden, Akkadisches Handworterbuch, Wiesbaden 1965, vol. I pp. 326-27.
Il paese di Aram attraverso le fonti assire
71
Ashur-dan II (934-912 a.C.) non ci ha tramandato notizie sugli Aramei da
parte assira, nella generale carenza di testi che caratterizza quest’epoca. Con
Ashur-dan II giungiamo in eta neo-assira e per mezzo di numerose tavolette
frammentarie provenienti da Assur siamo informati sulle sue riconquiste a
danno degli Aramei nella zona compresa tra il Tigri e lo Zab superiore, terre
che erano andate perdute sin dai tempi di Assur-rabi II (1012-972 a.C.); insieme alla terra di Uluzu e alla terra di Yakhanu e menzionata anche quella
degli Aramei (KUR a-ri-mi, KUR a-ru-mu), ed evidentemente dovevano essere
situate in aree geografiche attigue, quindi nell’area dell’alto Tigri.
Con Adad-Nirari II (911-891 a.C.) la situazione cambia notevolmente:
questi seminomadi instabili ed ostili hanno rafforzato la loro presenza e il
loro potere, tanto da creare in alcune aree vere e proprie entita statali, delle
quali abbiamo notizia proprio a partire da questo sovrano: ma dei suoi testi
interessa ora soprattutto la menzione degli Aramei e della loro sconfitta in
un contesto che rimanda al complicato mosaico delle terre di Nairi. La situazione geopolitica di queste terre in verita non e ancora risolta del tutto:
temuto pericolo posto tra le montagne per gli Assiri, erano probabilmente
una confederazione di diversi regni, stati, citta e trib u, tra cui possiamo forse
includere gli stati aramaici di Bit-Zamani e di Arumu mentre, come ci informano i testi di Adad-Nirari II, quello dei Temaniti doveva essere situato nella
zona di Khanigalbat. La presenza aramaica in questa area settentrionale dovette essere molto antica, certo non ancora sotto forma di entita statale, ma
come focolaio, come centro di diffusione da cui si avviarono gli spostamenti
successivi; non sono infatti d’accordo con la teoria che vuole una migrazione
aramaica verso Nairi solo dopo la morte di Tiglatpileser I: se i suoi testi non
ci forniscono chiare indicazioni geografiche, mostrano tuttavia di conoscere gia questo toponimo. Ritengo interessante a questo proposito menzionare
brevemente alcune considerazioni che troviamo in uno studio di R. T. O’Callaghan4 su Aram Naharaim: egli ha messo in evidenza che il termine «Naharaim » compare in tre serie di documenti distinti: nell’Antico Testamento,
dove e sempre associato ad Aram; nelle iscrizioni egizie, per il periodo compreso tra Thutmosi I e Ramesse III, dove indica Mitanni in un senso propriamente geografico; infine nelle lettere di Tell el-Amarna. Lo studioso ritiene
che tale denominazione non compaia nelle fonti assire, mentre io credo che
lo si possa connettere proprio a Nairi: come «Naharaim » indica una terra,
4
R. T. O’Callaghan, Aram Naharaim. A Contribution to the History of Upper Mesopotamia in the Second Millennium B.C., Roma 1948.
72
Michela Alessandroni
quella di Aram, compresa tra due fiumi, cos ı il Paese di Aram si trova nella complessa «confederazione» di Nairi, laddove «Nairi» vuol significare
appunto una terra tra due fiumi (dall’assiro naru). Certamente non sara rimasta memoria di quell’antica connessione, ma solamente dell’appellativo,
e quella a cui si voleva in effetti fare riferimento nella Bibbia era la zona di
Kharran.
Ma torniamo alle nostre fonti assire. Tukulti-Ninurta II (890-884 a.C.)
sottolinea insistentemente l’ambientazione geografica di montagne erte, brulle e difficili da percorrere, la cruenta distruzione di trenta delle citta aramaiche e un inseguimento che si protrasse fino allo Zab inferiore. Con Assurnasirpal II (883-859 a.C.) si narra ancora una volta delle terre di Nairi e delle
citta e delle fortezze che erano state prese e sottomesse dagli Aramei ai tempi di Salmanassar II. Nei testi di Salmanassar III (858-824 a.C.) veniamo a
sapere che egli riconquisto le due citta di Pitru e Mutkinu, che si trovavano
l’una sulle sponde del fiume Saggurru, affluente destro dell’Eufrate, e l’altra
sulla sua riva orientale, e che ai tempi del re assiro Assur-rabi II erano state prese con la forza dal re del regno di Arumu. Tale sovrano in capo non e meglio specificato, ma possiamo supporre una collocazione approssimativa
del suo regno e stabilire che fosse esistente almeno dal tempo di Assur-rabi
II (1012-972 a.C.). Troviamo dunque una conferma all’ipotesi di un regno
con questo nome e una riprova dei nostri ragionamenti; infatti laddove il testo originale vuole sottolineare che si tratti di uomini utilizza il determinativo MESH, mentre le altre occorrenze sono riferite ad un luogo; e normale
che poi a volte venga usato il nome del paese per indicare la collettivita del
popolo aramaico. Per concludere ritengo interessante sottolineare come l’appellativo KUR arumu, e le sue varianti, abbia certamente una conformita con
Armina delle iscrizioni persiane antiche e con Armenia dei Greci. Un riscontro ulteriore puo essere effettuato con le iscrizioni urartee, dove il paese di
Arme dovrebbe avere come denominazione completa Arme-ni o Armi-ni: il
secondo segno cuneiforme della parola «Arme» puo infatti essere letto -me
o -mi, mentre il suffisso -ni e proprio dei toponimi nella scrittura cuneiforme
urartea.5 Le difficolta addotte da alcuni studiosi sono facilmente superabili: fra essi soprattutto Diakonoff,6 il quale si e occupato di questo problema
in uno studio sulla preistoria del popolo armeno, crede che n¡e una semplice
assonanza n¡e una coincidenza geografica possano sostenere solidamente la
5
6
B. Piotrovskij, Il regno di Van. Urartu, Roma 1966.
I. M. Diakonoff, The Pre-history of the Armenian People, New York 1984.
Il paese di Aram attraverso le fonti assire
73
inoltre reca come prova contraria il fatto che l’arateoria di questa identita;
maico essendo una lingua semitica non ha alcuna relazione con l’armeno. In
realta gli elementi linguistici che convivevano in questa regione erano molteplici e diversi tra loro, addirittura anche dopo la costituzione di uno stato
unitario, come conferma una testimonianza del X secolo d.C. di Tommaso
Artsruni, il quale racconta di certa «gentaglia sira» parlante una lingua incomprensibile; c’ e chi li ritiene gli ultimi fra gli Urartei, ma a me sembra piu plausibile considerarli come i rimanenti della popolazione aramaica.
Tornando agli sviluppi storici di questa regione, ricordiamo che alla fine
del VII secolo il potere centrale dello stato urarteo sub ı un forte indebolimento, tanto che alcune terre dell’ovest e del sud-ovest si resero indipendenti; per salvaguardare la propria autonomia formarono una sorta di confederazione per unire le forze contro un possibile nemico proveniente dall’e st dell’Asia Minore. Il paese di Arme si pose a capo di questa nuova unita,
tanto che i Persiani e i Greci diedero il nome di «Armina/Armenia» a tale
formazione nel suo complesso. Per concludere propongo un rapido accenno
ad un fattore attuale: il nome «Aram » e ancora utilizzato presso gli Armeni
come nome proprio maschile, con il significato di «altezza», «eminenza»,
«magnificenza».7
7
M. Ekmekdjian, Les pr¡enoms arm¡eniens, Marseille 1992.
Topografia dell’ideale topografia del reale I:
gli spazi urbani dalle
iscrizioni reali neo-assire
Marta Rivaroli
Abstract
The aim of the following two papers is to analyze the different ways to perceive
and thus express the urban landscape in the written cuneiform documentation. Two
examples, each representing a specific text typology referring to a peculiar political
and administrative context, are developed: the first paper examines the ideological
topography of the urban layout as expressed by the Assyrian empire, whose royal
inscriptions are one of the most meaningful examples of political ideology.
Il titolo di questo convegno e «Mutuare, interpretare, tradurre: storie di
culture a confronto». Al momento della scelta di questo tema ci si e posti il
problema di quale accezione dare al termine «cultura». Con questo termine
non si e voluto intendere solo il complesso delle caratteristiche proprie di un
determinato popolo che lo rendono diverso, o meglio lo definiscono rispetto
ad un altro popolo, ma si e voluta dare un’accezione piu generale: le «culture» a confronto espresse dal titolo possono essere anche due diversi aspetti di una stessa cultura, come ad esempio la documentazione iconografica e
quella testuale, tema a me molto caro. Ad un non orientalista, ad esempio un
classicista, questa necessita di analizzare, studiare e confrontare due aspetti di una stessa cultura potra apparire ovvia, ma chi si occupa di discipline
orientalistiche non trova poi cos ı ovvio intraprendere ricerche a carattere interdisciplinare. Inoltre si e pensato che un modo efficace di «applicare» sul
campo il confronto tra culture potesse essere quello di ideare degli interventi a «due voci» su uno stesso tema, indagato da punti di vista differenti, sia
per la tipologia dei documenti sia, soprattutto, per il fatto che ogni studioso
interagisce con l’oggetto da indagare in modo soggettivo.
Ho ritenuto opportuno fare questa premessa per spiegare in che modo
quanto seguira rientri nell’argomento del convegno.
75
76
Marta Rivaroli
Topografia dell’ideale topografia del reale: gli spazi urbani dalle iscrizioni reali neo-assire e dai testi giuridici di Emar. L’intervento della sottoscritta
si lega a quello della collega Lucia Mori.
Si e tentato di mostrare la citta attraverso l’analisi di due diverse tipologie
di testi: le iscrizioni reali e i testi giuridici. E in questa ottica che deve essere letto il nostro duplice intervento ed e per questo che si possono mettere a
confronto due realta cronologicamente e geograficamente distinte, anche se,
e bene ricordarlo, non diametralmente opposte, anzi legate da elementi comuni. Dall’analisi delle iscrizioni reali si puo ricavare un’immagine ideale
mentre la topografia reale di una citta,
il tessuto
e ideologizzata della citta,
urbano vero e proprio, e rintracciabile attraverso lo studio dei testi giuridici.
ma anche
Si tratta quindi di fenomeni da studiare nella loro storicita,
nella loro comparabilita.
Prima di iniziare a parlare dettagliatamente dell’argomento mi sembra
giusto sottolineare, anche se forse a qualcuno potra risultare superfluo, la
tipologia della fonte documentaria da me presa in esame.
Le iscrizioni reali assire, sebbene siano definite a tutti gli effetti testi storici, sono testi di propaganda e quindi storici, perch¡e ricollegabili ad un determinato periodo e perch¡e trattano di argomenti storici, ma da leggere e utilizzare con le dovute cautele e soprattutto attuando un’analisi critica. Quello
che si ricava da questi testi e cio che il sovrano e la corte assira hanno voluto
presentare a livello ufficiale: non si tratta quindi di realta storica ma di realta fortemente ideologizzata, da storicizzare.1 Come Liverani afferma, «the
concept of ‘historical event’ is a pure abstraction, which in all cases implies
a choice in interpretation, a way of understanding and of presenting» (Liverani 1973: 185-86). I testi che ci sono giunti presentano il punto di vista
del redattore e del committente: e per noi arduo – se non, in alcuni casi, impossibile – distinguere cio che e resoconto storico da cio che e messaggio di
propaganda diretto ai vari destinatari del testo. «The pattern, and in general
the way of narrating, is a sort of bridge which the author of the text throws
between the events and his public» (Liverani 1973: 186).
E impossibile in un tempo cos ı breve esaminare tutte le iscrizioni reali
neo-assire, dal IX al VII secolo a.C. Preferisco, al posto della carrellata di re,
concentrarmi su un re e su una citta per poter rendere evidate, testi e citta,
dente, in questa sede, l’impostazione metodologica applicata, piuttosto che il
risultato di uno studio complessivo sulle iscrizioni reali assire, e inquadrare
1
Su questo argomento si vedano Liverani 1973 e Tadmor 1981.
Topografia dell’ideale topografia del reale I
77
storicamente il rapporto descrizione citta / ideologia del singolo sovrano.
La scelta ricade su Sennacherib e su Ninive. I motivi che mi hanno spinto
a questa selezione sono uno di carattere utilitaristico: conosco meglio le iscrizioni di Sennacherib rispetto alle altre; e uno di carattere storico, costituendo
il regno di Sennacherib l’apice dell’impero e quindi contrapponendosi in maniera ancora piu evidente la visione fortemente ideologizzata della citta assira a quella della citta che verra delineata nell’intervento della collega Lucia
Mori.
Iniziamo quindi a esaminare le varie iscrizioni seguendo un percorso
cronologico, ossia studiando la descrizione della citta dal testo piu antico a
quello piu recente.2
Gia nell’iscrizione A1, redatta prima dell’inizio della seconda campagna militare, sono menzionate Ninive e la costruzione del palazzo reale
(Luckenbill 1924: 94-98).
Ninive viene presentata come la «nobile metropoli, la citta amata da Ishtar ... l’eterna fondazione, la cui pianta e stata disegnata, fin dai tempi antichi, nel firmamento ... dove i re prima di me, i miei padri, avevano esercitato
la signoria sull’Assiria». (Luckenbill 1924: 94, II 63-66)
Si passa poi a descrivere il motivo dell’intervento di Sennacherib: i re
precedenti non si sono occupati del palazzo, ormai troppo piccolo, n¡e hanno
«posto mente» o «portato il loro animo» a raddrizzare (mettere in ordine)
ampliare i viali, scavare un canale o piantare orti.
le strade della citta,
Sennacherib «pone la sua mente», «indirizza il suo animo» e, «conformemente alla disposizione divina», inizia i lavori di ricostruzione.3
Coloro che sono incaricati della «rifondazione» della citta sono i nemici
sottomessi (Caldei, Aramei, Mannei e la gente di Kue e Khilakhkhu): sono
loro che portano la cesta e i mattoni.
Il testo procede applicando sempre il criterio della contrapposizione: prima la situazione precedente, che motiva e legittima l’intervento immediato
del sovrano.
Il palazzo costruito dai predecessori di Sennacherib non solo e piccolo
(se ne danno le misure), ma non e decorato, e soprattutto e in rovina a causa
dell’acqua del fiume Tebiltu che ha distrutto le sue fondazioni e la sua piat e deve, intervenire, ricostruendo il palazzo
taforma. Il sovrano quindi puo,
ex-novo. Innanzitutto cambia il corso del fiume e, in un mese propizio e in
2
3
Per la numerazione e il testo delle iscrizioni si segue Luckenbill 1924.
Sul carattere progettuale si veda Liverani 1994: 375-76.
78
Marta Rivaroli
un giorno favorevole, da inizio all’erezione di una piattaforma di fondazione,
notevolmente piu grande e piu alta della precedente, rivestita ora con lastre di
pietra e quindi resa stabile. Su questa piattaforma innalza il «palazzo senza
rivali».4
Sennacherib costruisce la sua residenza con materiali preziosi provenienti da ogni parte del mondo come il cedro, il cipresso, l’avorio, e introduce elementi architettonici ripresi da altre realta culturali, come il famoso b¤ıt Îhil¤ani.
La descrizione del palazzo si conclude con la menzione di «pecore di montagna», in argento e rame, e di «pecore di montagna» in pietra, poste, come
divinita protettrici, agli ingressi del palazzo sui quattro lati.5
Dopo il palazzo si nomina un grande parco, simile al monte Amano, creato a lato della residenza regale, in cui il re pianta tutti i tipi di vegetazione e
donati ai
alberi da frutto. Per irrigare i campi, anche quelli esterni alla citta,
cittadini di Ninive, costruisce un canale dove convoglia le acque del fiume
Khosr.
Al termine della costruzione del palazzo il re «rivolge il suo animo» alla
allarga i viali, rende luminosi i vicoli e le strade e li fa risplendere cocitta:
me il giorno. Quando la citta e stata rifondata il re invita il dio Assur, e tutte
le divinita che dimorano in Assiria, nella novella Ninive e offre loro dei sacrifici. Il testo si conclude con l’invito ai re futuri a restaurare il palazzo qualora fosse necessario, prestando attenzione all’iscrizione di fondazione posta, lo sappiamo dai testi successivi (B1-C1 e E1), all’interno del basamento
del palazzo.
Nell’iscrizione del Cilindro Bellino (B1), redatta nel 702 a.C., il racconto della rifondazione di Ninive e piu breve. Vengono menzionati solo alcuni
interventi: il cambiamento del fiume Tebiltu, la costruzione di un palazzo piu grande del precedente, l’iscrizione di fondazione e la realizzazione del parco. Manca, rispetto al testo precedente, la descrizione accurata della costruzione e della decorazione del «palazzo senza rivali». Rispetto al testo precedente viene sottolineato come il Tebiltu, con la sua forza distruttiva, abbia
(Luckenbill 1924: 99-101).
distrutto «gli edifici sacri all’interno della citta»
Nel cilindro Rassam (C1), testo redatto nel 700 a.C., si trovano delle varianti
significative: le misure della nuova residenza regale sono aumentate rispet4
Non e questa la sede per parlare in maniera dettagliata di questo palazzo. Su questo
argomento si rimanda a Russell 1991.
5
Nel testo non si fa alcun accenno al fatto che siano rappresentazioni bidimensionali o tridimensionali. Per questo motivo ho preferito non inserire termini come «statua» o
«immagine».
Topografia dell’ideale topografia del reale I
79
to all’iscrizione B1, e si menziona la «strada processionale» che si trova di
fronte alla porta, nella parte interna della citta (Luckenbill 1924: 102).
Da questa prima serie di testi possiamo individuare degli elementi interessanti che si collegano all’ideologia regale: per descrivere gli interventi
edilizi si usa il criterio dell’opposizione, secondo il modo di rappresentare la
realta tipico della cultura mesopotamica. L’opera fondatrice del sovrano viene presentata attraverso la sua capacita di modificare la realta preesistente:
il palazzo piccolo e disadorno e ora grande e decorato, il basamento basso e
debole, perch¡e costruito in mattoni, e ora alto e solido, le strade strette e buie
sono ora larghe e luminose. Inoltre la rifondazione della citta viene attuata
utilizzando elementi che provengono dalla periferia: sono i nemici sconfitti
a lavorare alla realizzazione della residenza del re, i materiali costruttivi provengono dalle montagne o dalle terre dei Caldei, gli elementi architettonici
inseriti in essa sono ripresi da altre culture.
manifesta il
Il sovrano, nel compiere l’atto di fondazione della citta,
suo totale controllo sull’elemento periferico: l’elemento caotico, il non assiro, viene dominato e diventa parte dell’ordine costituito. L’opposizione
centro-periferia, ordine-disordine viene messa in risalto con chiari intenti
celebrativi.
Nell’iscrizione E1, redatta nel 694, abbiamo la versione piu dettagliata
degli interventi edilizi compiuti nella citta di Ninive (Luckenbill 1924: 10316). Gli indizi di una maggiore attenzione verso la citta si hanno gia nella
parte del testo che descrive la situazione prima di Sennacherib, essenziale
per poi mettere in risalto l’opera rinnovatrice del sovrano: nessun re prece costruito un muro, elementi che nelle pridente ha ampliato l’area della citta,
me redazioni non comparivano, cui fanno seguito: allargato le strade, scavato canali e piantato frutteti, formule gia incontrate nell’iscrizione A1. Il testo
presenta altre varianti estremamente interessanti: quando si parla dei nemici
vengono menzionati anche
sottomessi, preposti alla costruzione della citta,
i Filistei e gli abitanti di Tiro (siamo dopo la V campagna); colossi taurini e
leonini sono posizionati agli ingressi del palazzo; le dimensioni del palazzo
crescono a dismisura. Quando poi il testo passa a descrivere la costruzione e
la decorazione del palazzo si mette in risalto la provenienza dei materiali e la
difficolta del loro trasporto, con l’intento di magnificare l’impresa del sovrano. Sono gli d ei, Assur e Ishtar, ad indicare al sovrano i luoghi dove recuperare i materiali: i tronchi di cedro piu grandi dai monti di Sirara, l’alabastro
dal monte Ammanana, le pietre, prima mai viste e da cave prima sconosciu-
80
Marta Rivaroli
te, da Kapridargila e da Balatai. Il sovrano non solo «fonda la nuova citta»
per volere degli d ei, ma anche grazie al loro aiuto. Per la decorazione del
palazzo vengono ora introdotti nuovi procedimenti tecnici, soprattutto nella
lavorazione dei metalli, grazie alla conoscenza di Sennacherib.
Dopo la descrizione della residenza regale e la menzione del parco posto accanto ad essa ecco che si inizia a parlare della citta (Luckenbill 1924:
111-13). Il testo presenta la situazione prima dell’intervento del sovrano: il
perimetro della citta misurava 9300 cubiti e nessuno dei re precedenti aveva
costruito le mura interne e le mura esterne (du¢ ru u ¬salkhu¢ ). Sennacherib raddoppia l’area urbana inglobando nel perimetro della citta parte del territorio
esterno, e costruisce il doppio tracciato murario. Il muro di cinta interno e chiamato «il muro il cui splendore sovrasta il nemico», e lungo i suoi quattro lati si aprono 15 porte. Le porte urbiche sono elencate con molta cura,
dando il doppio nome: quello cerimoniale e quello di uso corrente, e fornendo la loro collocazione topografica mediante la menzione del luogo verso cui
si aprono. A titolo esemplificativo cito solo il nome di una: «che il vicario di
Assur possa prosperare», porta di Assur, che conduceva alla citta di Assur (p.
112, vii 74). Il muro di cinta esterno e chiamato «che atterrisce il nemico»;
le sue fondazioni, costituite da blocchi di pietra di montagna, sono gettate
fino al livello delle acque sotterranee e il suo alzato e costituito da blocchi di
pietra fino alla sommita.
Questo dato ha delle implicazioni ideologiche molto importanti: il muro esterno deve separare cio che e fuori da cio che e dentro, deve impedire
all’elemento caotico di entrare nella citta dove, grazie al sovrano, si e ristabilito l’ordine. Le mura con le fondazioni profonde e in pietra, ossia durevoli,
ostacolano l’ingresso dell’elemento caotico.
Alla fine il testo conclude cos ı: «di Ninive, la citta della mia signoria,
l’area ho ampliato, i viali ho allargato e ho reso luminosi come il giorno, il
muro esterno ho costruito e innalzato alto come la montagna, sopra e sotto la
citta ho fatto giardini» (p. 113, viii 13-16). Dopo la descrizione della citta si
menziona l’opera di canalizzazione del fiume Khosr ed infine l’ingresso di
Assur e delle altre divinita nella nuova capitale.6
Si puo ricostruire la topografia di una citta utilizzando come apparato documentario soltanto le iscrizioni reali assire? La mia risposta e : no, non e possibile.
6
Anche in A1 era menzionata la costruzione del canale ma in maniera sintetica, mentre
in E1 il resoconto di questa attivita e estremamente dettagliato.
Topografia dell’ideale topografia del reale I
81
Non si puo desumere l’aspetto topografico della citta soltanto attraverso
l’analisi delle iscrizioni perch¡e non e l’assetto urbanistico lo scopo della redazione di questa tipologia di testi. La scelta, a priori, di menzionare solo alcuni elementi topografici e architettonici e dettata dalla volonta e dal bisogno
di esaltare la figura del sovrano e delle sue opere.
Allora forse potrebbe sorgere un’ulteriore domanda: perch¡e per parlare
di una citta si e scelta questa particolare fonte documentaria? La risposta e semplice. Una volta chiarita la funzione di questi testi e interessante analizzare quali elementi siano stati scelti e inseriti nel programma ideologico del
sovrano, e soprattutto cercare di capire il perch¡e di questa scelta.
Gli elementi topografici di Ninive, presenti nelle iscrizioni reali di Sennacherib, sono: il palazzo, il parco accanto al palazzo, le diverse tipologie di
strade, la cinta muraria interna, le porte urbiche e la cinta muraria esterna.
Esaminando le iscrizioni reali vediamo che la narrazione segue sempre una
stessa sequenza, piu o meno articolata: una prima fase, in cui e il disordine
a cui fa seguito l’intervento ordinatore del
l’elemento costitutivo della citta,
sovrano.
Il primo atto del sovrano e eliminare l’acqua del Tebiltu, che rappresenta simbolicamente il caos primordiale, per poi dare inizio alla propria opera
ordinatrice. La successione degli elementi diventa, a questo punto, estremamente importante. Perch¡e proprio questi elementi e perch¡e proprio in questa
successione?
Questa azione di rifondazione parte dal sovrano stesso, ossia dalla sua residenza, che viene ricostruita a partire dalle sue fondazioni, opera resa stabile
ed eterna dal posizionamento dell’iscrizione di fondazione. L’azione ordina con un movimento che
trice inizia poi a «inglobare» le altre parti della citta,
si irradia dal centro del mondo, il palazzo assiro, verso la periferia: ed ecco
quindi l’importanza della sequenza.
Dopo il palazzo c’ e il parco, simbolo della periferia caotica che e or ossia
mai controllata dal sovrano ordinatore; poi l’assetto viario della citta,
lo strumento attraverso il quale si puo attuare questo movimento dal centro
alla periferia; poi compare la cinta muraria interna, con le sue porte, attraverso le quali la forza e la potenza ordinatrice si dirama in tutte le direzioni;
infine la seconda cinta muraria, quella che separa l’interno dall’esterno. Il
programma ideologico del sovrano, inserito nelle iscrizioni reali, si sviluppa
utilizzando sempre la dialettica degli opposti; elencando le varie iscrizioni ho
posto l’attenzione sull’altro elemento costitutivo di questo processo: il mo-
82
Marta Rivaroli
vimento con direzione opposta, l’arrivo dei materiali, dei beni, delle persone
dalla periferia al centro.
In questa visione dialettica l’attenzione posta ai nomi delle porte urbiche
acquista un’ulteriore connotazione ideologica: il loro nome esprime la loro
doppia valenza liminare: da una parte devono impedire l’ingresso del caos
ma, allo stesso tempo, permettere l’arrivo dei prodotti dalla periferia.7 Dall’altra pero e attraverso le porte che l’azione ordinatrice del sovrano si puo espandere: ecco quindi la menzione del luogo verso cui la strada, che passa
attraverso la porta, si dirige.
L’uso della contrapposizione mette in risalto l’opera ordinatrice del sovrano che compie una «ricostruzione» a tutti i livelli, rifondando cio che il
tempo e l’incuria avevano distrutto. E la contrapposizione tra caos e cosmo.
Il re trionfa sul disordine «fondando» la nuova capitale, simboleggiante il
mondo ordinato, con un progetto mentale, ispirato e voluto dagli d ei. E in
questo essere «immagine simbolica del mondo creato» che forse trova una
spiegazione l’assenza della menzione di porte nella cinta muraria esterna. Oltre il mondo vi e il non-mondo, che non puo e non deve essere raggiunto. La
capitale, la residenza regale, viene dotata di caratteri di durevolezza e ordine,
per contrapporsi, nello spazio e nel tempo, al suo contrario. Compito del re,
una volta attuato il progetto creativo, e quello di controllare che il caos non
possa tornare a minacciare l’ordine.
In un testo scritto su una stele eretta a Ninive (I 30), si legge che Sennacherib, per evitare che la via regia, da lui allargata, non venga ristretta, stabilisce la sua grandezza e fa erigere delle stele, una di fronte all’altra, lungo i lati
della via, in modo che nessun cittadino, ristrutturando la propria casa, «alteri
cio che e stato stabilito», pena la morte (Luckenbill 1924: 153, 15-27).
Prima di concludere vorrei soffermarmi su un elemento riscontrato durante questa trattazione: la presenza di varianti nelle iscrizioni e l’importanza
del loro studio.8 Analizzando le iscrizioni ho seguito una sequenza cronologica: dalla piu antica alla piu recente. Questo metodo ha permesso di mettere
gia sottolineate durante l’esposizione dei dati.
in luce alcune peculiarita,
Gia nella prima iscrizione (A1) viene menzionata la ricostruzione di Ninive e la sua inaugurazione, ponendo quindi l’azione fondatrice di Sennacherib all’inizio del regno. Nelle altre iscrizioni pero sono presenti degli ele7
Si notino, a titolo esemplificativo, i nomi cerimoniali della porta di Nergal, «Erra e il
distruttore dei nemici», e della Porta del molo (della banchina), «quella che reca i prodotti
di tutte le regioni abitate».
8
Su questo argomento si veda Liverani 1981, in particolare pp. 225-31.
Topografia dell’ideale topografia del reale I
83
menti che divergono dal testo A1: le dimensioni del palazzo, le divinita protettrici agli ingressi, la menzione della costruzione della via processionale e
delle mura.
La rifondazione di Ninive descritta nel testo A1 e chiaramente espressione del programma ideologico del sovrano e non di un evento realmente accaduto. E assai probabile che l’attivita edilizia fosse iniziata gia nella prima
fase del suo regno, ma certamente non era ancora conclusa al momento della
realizzazione dell’iscrizione A1: nel testo viene menzionata la «dimensione
progettuale» dell’opera e non l’effettiva realizzazione, portata a termine piu tardi. L’affermare di aver compiuto delle gesta eroiche e di aver realizzato
importanti attivita edilizie gia nei primi anni del proprio regno e un topos
ricorrente nelle iscrizioni reali assire.9 Come sottolineato da Tadmor si tratta di «another discrepancy between ideology and historical reality» (Tadmor 1981: 23). L’analisi critica di queste varianti e un ulteriore strumento
per individuare la componente ideologica presente nelle iscrizioni reali e per
cercare di effettuare una «ricostruzione storica» degli eventi.
Ninive viene presentata fin dall’inizio del regno di Sennacherib come
l’immagine simbolica dell’impero assiro: il centro del mondo dal cui centro ha origine l’attivita creatrice del sovrano, che rifonda, nel tempo storico,
l’ordinamento cosmico stabilito, nel tempo mitico, dal dio Assur.
Bibliografia
Liverani 1973
M. Liverani, «Memorandum on the Approach to Historiographic Texts»,
Orientalia 42, pp. 178-94.
Liverani 1981
M. Liverani, «Critique of Variants and the Titulary of Sennacherib», in
Assyrian Royal Inscriptions: New Horizons, ed. by F. M. Fales (Orientis
Antiqui Collectio, 17), Roma, pp. 225-57.
Liverani 1994
M. Liverani, «Ideologia delle nuove fondazioni urbane in eta neoassira», in Nuove fondazioni nel Vicino Oriente antico: realta e ideologia, a cura di S. Mazzoni, Pisa, pp. 375-83.
9
Si veda Tadmor 1981.
84
Marta Rivaroli
Luckenbill 1924
D. D. Luckenbill, The Annals of Sennacherib (Oriental Institute Publications, 2), Chicago.
Russell 1991
J. M. Russell, Sennacherib’s Palace without Rival at Nineveh, Chicago.
Tadmor 1981
H. Tadmor, «History and Ideology in the Assyrian Royal Inscriptions»,
in Assyrian Royal Inscriptions: New Horizons, ed. by F. M. Fales (Orientis Antiqui Collectio, 17), Roma, pp. 13-33.
Topografia dell’ideale topografia del reale II:
il paesaggio urbano
dai testi giuridici di Emar
Lucia Mori
Abstract
The present paper is intended as an example of a comparative study on the topography of an ancient town from different documentary sources, together with the
previous analysis, by Marta Rivaroli, of an ideal city planned by the Assyrian king
and described in his royal inscriptions. As a matter of fact, it deals with a case study
which concerns the reconstruction of the urban landscape from the legal documents
found in the ancient town of Emar, the modern site of Meskene Qadime, in the Syrian upper Euphrates valley. These tablets have been written with the purpose of registering the transaction of real estates among private citizens, to prevent the possibility of claims against the buyer. They give a detailed description of lots and buildings
for sale, with bordering properties, which allow the reconstruction of small areas of
the ancient town, which have been compared to the archaeological evidence. Moreover, they contain legal clauses which give hints, to a certain extent, to understand
the complex social background of a Syrian town in the XIII century BCE. An articulated ownership of land and buildings is reflected, in fact, by the massive presence
of a sort of ‘city authority’ defined in the texts as “Ninurta and the elders of Emar”
whose role is still to be clarified but that is certainly the main institution in charge of
selling real estates, and whose function in this field was probably more effective than
the one of the Emar palace and royal family. The aim of this paper is to shed light
on the real organization and topographical layout of an ancient town as reflected by
the private documents, in which even the members of the royal family act as private
citizens together with the rest of the community.
Se le iscrizioni reali assire descrivono come veniva concepita una citta fortemente ideologizzata, nuova fondazione e proiezione delle aspirazioni
imperialistiche del sovrano di un grande Stato, un lotto di testi di tipologia e
di tono completamente differenti ci permette di analizzare la maglia del tessuto urbano di una citta vicino orientale dell’Alto Eufrate, Emar, nei secoli
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86
Lucia Mori
precedenti alla conquista assira, cos ı come era organizzata e veniva vissuta e
gestita dalla popolazione locale di semplici cittadini, in una regione di ‘interfaccia’, confine di mire espansionistiche di diversa natura, regione che sara oggetto anch’essa dell’espansione imperiale assira del IX-VIII secolo a.C.
quando ormai Emar era gia distrutta. Il ritrovamento di lotti consistenti di tavolette cuneiformi nel sito di Meskene-Qadime, l’antica citta di Emar, situata
sull’alto corso dell’Eufrate siriano, oggi parzialmente sommersa dalle acque
del lago artificiale Assad, costituisce uno dei rinvenimenti epigrafici piu significativi nell’analisi dello sviluppo culturale della Siria interna del Tardo
Bronzo. Piu di 800 tavolette sono, infatti, state ritrovate nel corso di scavi
regolari, e diversi lotti provenienti dal mercato antiquario sono riconducibili
al sito stesso o alle sue immediate vicinanze, e costituiscono un patrimonio
documentario di estremo interesse per la storia della regione nei secoli XIII
e XII a.C., a cui i documenti cuneiformi appartengono per la maggior parte.
Tra le tipologie documentarie, numerosi sono i contratti di compravendita di edifici, i quali, unitamente ad atti giuridici quali permute di proprieta immobiliari e testamenti, costituiscono una fonte documentaria preziosa nella ricostruzione di un paesaggio urbano antico nella sua organizzazione topografica, riflesso di una organizzazione sociale che emerge dalle
modalita di gestione della proprieta.
Si tratta di documenti afferenti alla sfera ‘privata’ e dunque di tono totalmente differente rispetto alle iscrizioni reali, ed e significativo che da tali testi emerga una gestione del territorio sia urbano (transazioni riguardanti
edifici e orti), che extra-urbano (transazioni riguardanti campi coltivati e vigneti), in cui la sfera palatina non rientra come massima autorita ma piuttosto, nella persona di singoli individui appartenenti alla famiglia reale, in veste
di acquirenti che interagiscono in maniera analoga ad altri singoli individui,
tuttavia con potenzialita economiche maggiori che permettono di acquisire
campi dalle superfici piu estese e un maggior numero di beni immobili. Se
infatti il re assiro si presenta come sommo ordinatore dell’ecumene in quanto rappresentante legittimo e prescelto dal dio nazionale, nei testi giuridici
di Emar l’autorita che emerge in maniera piu evidente come ‘amministratrice’ nelle transazioni di beni immobili non e la famiglia reale ma una sorta
di ‘organo collegiale’, definito nei testi dall’espressione «il dio Ninurta e gli
che compare in una maggioranza consistente di docuanziani della citta»,
menti come l’organo che vende edifici o campi, ma significativamente non
acquisendole in alcuni casi
compare mai come acquirente di tali proprieta,
Topografia dell’ideale topografia del reale II
87
documentati in seguito ad una ‘colpa’ commessa dal precedente proprietario, e forse anche nel caso in cui non vi siano eredi legittimi. Sul ruolo effettivo di tale ‘organo’ e sulla comprensione della gestione e dello stato delle
terre e delle proprieta nella societa dell’epoca, molte sono state le ipotesi formulate: la sinteticita dei documenti giuridici nasconde infatti processi e situazioni sociali complesse che possono soltanto essere ipotizzate sulla base
di indicazioni succinte e sporadiche, tuttavia la frequenza delle attestazioni
permette di riconoscere, accanto ad un potere centrale di tipo ‘palatino’, la
presenza di organismi locali di carattere tradizionale, legati forse ad una societa di ‘villaggio’ i cui stretti legami parentelari sono riflessi nelle modalita e interagiscono significativamente con la sfera
di transazione della proprieta,
palatina, tanto da far considerare la regalita emarita come una «limited kingship»,1 non solo perch¡e la famiglia reale locale e sottoposta in questo periodo
al controllo politico hittita, ma anche per il ruolo importante di «Ninurta e
proprio nell’amministrazione effettiva del territorio.
gli anziani della citta»
E stato proposto di vedere in tali operazioni amministrative la supervisione ed il controllo di una autorita templare,2 collegata in qualche modo ad un
organo ‘cittadino’, ‘gli anziani’; personalmente propendo per l’ipotesi che si
tratti piuttosto del contrario, che non siamo di fronte alla gestione templare
da parte di
di beni immobili, quanto alla gestione di beni ‘della collettivita’
organismi tradizionali, che convivono con il potere palatino. Tanto piu che
nei testi di compra-vendita di campi, tra le proprieta confinanti vi e una in cidenza consistente di lotti per i quali si indica una proprieta della «citta»
e non si accenna mai ad una proprieta templare: nei 54 campi di cui almeno parte dei confinanti e conservata nel testo, 38 sono i casi in cui e la citta (URU.KI) ad essere menzionata; il che corrisponde con tutta probabilita al
binomio «Ninurta e gli anziani della citta di Emar».
I forti legami parentelari emergono dai testi nella frequente menzione di
proprieta appartenenti non ad un singolo individuo ma letteralmente ai «figli
di NP », che sono documentati non soltanto nella descrizione dei confinanti,
ma anche come soggetto giuridico che vende o acquista beni immobili;3 le
clausole finali di ciascun contratto che stabiliscono una penale esorbitante
(1000 o 2000 sicli d’argento),4 a carattere deterrente, contro eventuali riven1
Fleming 1992; Beckman 1997.
Leemans 1989.
3
Zaccagnini 1992.
4
Per un elenco delle penali nei confronti di chi dovesse reclamare la proprieta venduta vedi Beckman 1997: 112-14 fig. III. La penale deve essere pagata per lo piu all’autorita 2
88
Lucia Mori
dicazioni nei confronti dei campi venduti, rispecchiano l’esigenza di tutelare
l’avvenuta transazione e dunque l’alienazione del terreno dalla proprieta del
‘gruppo familiare’ ad un individuo estraneo. D’altra parte, la possibilita che
«i fratelli», ovvero i componenti del clan,5 potessero rivendicare diritti nei
confronti di una proprieta venduta o assegnata al di fuori del gruppo familiare e rispecchiata anche da espressioni quali «i suoi fratelli non dovranno fare reclami nei confronti del nuovo proprietario del bene immobile», e
dalla necessita di qualificare come estraneo (nikaru) il membro del gruppo
che acquista una proprieta familiare onde tutelare l’effettiva acquisizione nei
confronti degli altri ‘aventi diritto’ in quanto membri dello stesso clan.
Tale situazione sociale non impedisce comunque la vendita dei beni immobili al di fuori del gruppo familiare, e proprio dagli atti di compra-vendita
degli edifici e possibile ricostruire tratti del paesaggio urbano antico: i documenti che riguardano edifici sono circa un centinaio, di cui 51 case, e
32 edifici definiti dal termine kirÃs¤ıtu (termine inteso con il significato di
«rudere», contrariamente all’opinione piu diffusa che tende ad identificarlo
come «lotto edificabile», leggendo i segni cuneiformi come KI erÃsetu), che
costituiscono la maggior parte delle tipologie di fabbricati oggetto di transazione, insieme a meno frequenti tipi definiti dai termini tugguru, ÎhiÃtru,
¡ (b¤ıtu = genericamenÎhablu e Îhab¤a’u,6 tutti determinati dal sumerogramma E
te «edificio»), il cui significato e tuttora poco chiaro, essendo noti soltanto
dai testi della citta e delle sue vicinanze.
I documenti hanno una struttura standard: sono riportate innanzitutto le
misure, espresse in ammatu (cubiti – equivalenti all’incirca a 50 cm). Si tratta
nella maggior parte dei casi di due lati definiti come «la sua lunghezza» e «la
sua larghezza». Si intende in genere con la prima misura il lato maggiore, e
con la seconda il lato di dimensioni inferiori, anche se possono esserci delle
eccezioni e i lati possono equipararsi oppure la larghezza puo essere maggiore della lunghezza. Dopo aver indicato la metratura dell’immobile, ven cittadina («Ninurta e gli anziani della citta»),
in casi sporadici al palazzo, ma sono anche
menzionati i «fratelli» (RE 64, TSBR 58, RE 35).
5
Per uno studio sul significato dell’espressione «i suoi fratelli» vedi Bellotto 1995:
210-28; in questa sede l’autrice evidenzia una valenza duplice per cui se si intende un legame parentelare nei casi in cui tali individui riscuotono una somma simbolica, in qualita di
membri della famiglia del venditore, in contesti differenti sembrano rappresentare un tipo di
istituzione cittadina simile a quella degli anziani.
6
Documentato nel solo testo RE7, in cui il termine e riferito a tre diversi edifici di questo
stesso tipo adiacenti l’uno all’altro.
Topografia dell’ideale topografia del reale II
89
gono elencate le proprieta confinanti per individuare correttamente l’edificio:
la descrizione dei confinanti e anch’essa piuttosto standardizzata, si procede indicando in genere dapprima i lati destro e sinistro e poi quelli posteriore e anteriore, prendendo come riferimento evidentemente l’entrata. Non
si segue nella descrizione amministrativa un perimetro ‘reale’, con lati consecutivi, ma piuttosto un modello stereotipato in coppie di opposti (destrosinistro, retro-fronte), secondo un modulo prestabilito nell’ambito della gestione scribale. La coppia di opposti, d’altronde, e anche il modello tipico
dell’organizzazione ‘mentale’ della cultura mesopotamica.
Segue in genere l’indicazione del precedente proprietario, dell’acquirente, del prezzo d’acquisto, della penale contro eventuali reclami e infine
l’elenco dei testimoni.
E dunque possibile, mettendo in pianta i dati epigrafici, ricostruire schematicamente le proprieta immobiliari non solo nella loro forma e dimensione ma anche nella loro collocazione relativa rispetto alle quattro proprieta che ne delimitavano i confini, e in alcuni casi, ove si verifichi la coincidenza di parte degli elementi menzionati in riferimento ad edifici differenti,
lo schema ricostruttivo puo articolarsi permettendo ricostruzioni grafiche di
piccoli settori di abitato da paragonare con quanto documentato dagli scavi
archeologici.
Il modulo abitativo e per lo piu rettangolare con la lunghezza spesso doppia della larghezza. E inoltre frequente il caso di case di pianta trapezoidale, irregolare, la cui forma doveva evidentemente adeguarsi al tessuto urbano o alla conformazione geomorfologica del lotto di terra su cui venivano
edificate. Una ulteriore misura viene aggiunta, in questo caso, ed e nella maggior parte dei testi la larghezza, che spesso riguarda i lati anteriore e posteriore (p¤anu, EGIR), il che indicherebbe la tendenza ad aprire la porta delle
case sul lato minore del rettangolo o del trapezio base della pianta.7 Le misure delle case sono abbastanza regolari: la lunghezza si situa in genere tra
i 20 e i 30 cubiti (10-15 m), con una misura media di 22 cubiti,8 mentre la
larghezza e generalmente dai 10 ai 20 cubiti (5-10 m), con una media di 14
cubiti.9
7
Si tratta delle case a cui fanno riferimento i testi E6.125; TSBR 8; RE 20; RE 55; SMEA
30.2 e probabilmente RE 59.
8
Su 40 case la cui lunghezza e conservata, 20 misurano tra i 20 e i 30 cubiti, 9 tra i 10 e
i 20, e 2 oltre i 30 cubiti.
9
Su 40 case la cui larghezza e conservata, 23 misurano tra i 10 e i 20 cubiti, 10 sono
inferiori ai 10 cubiti e 7 superiori a 20.
90
Lucia Mori
Considerando la media delle misure di lunghezza e larghezza, la superficie delle abitazioni e di 310 cubiti quadrati ca., equivalenti a 77 m2 per
il piano terra, a cui si aggiungevano eventuali superfici di un piano superiore.10 Le misure corrispondono ai rinvenimenti archeologici, se confrontate
con la pianta del «chantier D », in cui e stato scavato un segmento di strada
costeggiato da abitazioni private. Le circa trenta abitazioni private scavate
nel sito di Meskene hanno infatti una pianta concettualmente uniforme: si
tratta di moduli piu o meno rettangolari, costituiti da una stanza grande con
accesso sulla strada, con due piccoli ambienti annessi, disposti sul lato opposto rispetto all’entrata, affiancati e non comunicanti fra loro, ma entrambi
con accesso alla stanza maggiore. Come osserva J. C. Margueron, si tratta di
una schema di base che puo essere adattato a seconda delle condizioni circostanti, e sebbene l’idea di fondo sia analoga, nel sito non sono state rinvenute
due case identiche. Il ritrovamento di vani scala in alcune abitazioni ha confermato la presenza di piani superiori, che, secondo Margueron, dovevano
situarsi al di sopra dei due ambienti di minori dimensioni. Le raffigurazioni
di modellini di abitazioni ritrovati ad Emar mostrano case a pianta rettangolare a sviluppo longitudinale, con apertura su uno dei lati corti e parte della casa articolata su due piani, tutti elementi rispondenti ai rinvenimenti archeologici e testuali.11 Se e stato notato che i modellini non corrispondono
esattamente a case reali riprodotte in piccola scala nei dettagli architettonici
(localizzazione anomala delle aperture, mancanza di scale, mancanza di partizioni nello spazio interno),12 essi possono rispecchiare comunque l’idea di
una forma di casa tipica, pur se rivisitata e articolata con decorazioni (uccelli, serpenti, figurine femminili, cornici decorative) di valenza simbolica piu che realistica.
Altre osservazioni di carattere topografico sono possibili analizzando le
proprieta confinanti con le case. Innanzitutto il lato frontale degli edifici nella
quasi totalita dei casi si apre su una strada; e interessante notare che rispetto
alla terminologia emarita che definisce tre tipi di strada (che sono: vicoli e
stradine di accesso alle case – definite dal termine locale di ÎhuÎhinnu; strade
urbane ‘principali’ definite dal sumerogramma SILA.DAGAL.LA, rib¤ıtu in
accadico; e strade extra-urbane, KASKAL, harr¤anu, che veicolano anche il
10
Piccole unita abitative di Nuzi avevano un’estensione analoga, 70 m2 (Zaccagnini 1979:
43).
11
12
Margueron 1976: 193-232.
Müller 1998: 188-89.
Topografia dell’ideale topografia del reale II
91
passaggio dall’interno all’esterno dell’abitato, partendo dalle porte urbiche),
le case vere e proprie danno in egual misura su una via principale urbana (SILA.DAGAL.LA), 22 casi su 52 edifici, o su un vicolo, 23 su 51, mentre piu raramente e presumibilmente si tratta di edifici situati al di fuori o ai mar su una strada di tipo exra-urbano KASKAL, 7 volte. Il dato
gini della citta,
e interessante se considerato in relazione alle percentuali dei «ruderi», che
differiscono sensibilmente. I ruderi si aprono in maniera consistentemente
maggiore su vicoli, 18 volte su 33 attestazioni, contro le 7 volte delle vie
principali e le 8 delle strade KASKAL. L’osservazione e da connettere con
la frequenza di ubicazioni periferiche in ambito urbano, mura di cinta, fossati,13 distanti da assi viari piu importanti, raggiungibili invece da stradine
o vicoli di accesso, segnando una comprensibile preferenza ad abbandonare
o non riedificare immobili situati in aree marginali dell’abitato. E frequente
inoltre che le case si collochino nei pressi di un incrocio che puo essere fra
via principale e vicolo (E6.10, E6.141, TSBR 8, TSBR 82, E6.20, TSBR 37),
fra strada KASKAL e vicolo (E6.8 casa 2, E6.85, E6.139) e fra via principale e strada KASKAL (TSBR 54, HCCT-E.31). Quando a essere elencato su
lati adiacenti e lo stesso tipo di strada possiamo ipotizzare un incrocio oppure una curva; cio e attestato nei testi seguenti: vicolo e vicolo (E6.139), via
principale e via principale (BLMJ 5, TSBR 10, AuOr 5.9).
Infine, in tre tavolette, un vicolo delimita due lati contrapposti dello stesso edificio (in RE 55 e RE 80 sono i lati anteriore e posteriore, mentre in E
6.141 sono i lati destro e sinistro, poich¡e la porta dell’abitazione da su una
via principale), descrivendo frammenti di una eventuale maglia topografica
urbana ‘regolare’, con assi viari paralleli; si tratta degli unici casi in cui
avremmo una situazione assimilabile a quella ipotizzata dalle ricognizioni
archeologiche per il promontorio NO del sito.
Se dagli atti di compravendita si ricavano informazioni preziose per la
ricostruzione topografica di piccoli settori urbani, l’articolazione all’interno
di una singola ‘casa’, intesa come proprieta familiare, puo essere indagata
attraverso una tipologia differente di atti giuridici, i testamenti, nei quali –
nei casi in cui i beni ereditari siano costituiti da un certo numero di proprieta e in cui il nucleo familiare sia composto da piu figli – il testatore specifica
quale parte debba andare a quale erede.
13
A questo proposito, Zaccagnini nota che: «*kirÃsitu are always located in the city context but they often seem to be situated in peripheral areas of the city itself» (Zaccagnini 1992:
42).
92
Lucia Mori
Negli atti di compra-vendita l’esigenza e quella di specificare la collocazione dell’edificio di cui si sta trattando, quali siano le sue misure e il suo
prezzo; nei testamenti lo scopo di ripartire equamente e senza possibilita di
reclamo o equivoco le proprieta familiari porta a dare indicazioni piu specifiche rispetto ai beni elencati, differenziando gli edifici in possesso del capo
famiglia. In tre testi, in particolare, si elenca una sorta di gerarchia di case che
vengono assegnate ai diversi figli di una stessa famiglia: in E6.181 si elen¡ 4 GAL, assegnata al figlio maggiore (DUMU
cano una «casa grande», E-tu
14
¡ 4 TUR, a quella che, dal contesto, si capisce
GAL), una «casa piccola», E-tu
essere in realta la figlia maggiore, che tuttavia non puo ereditare la casa principale non potendo in quanto donna godere del diritto di primogenitura,15 e
infine un «rudere» al figlio minore (DUMU TUR).16
Da una tale documentazione e ipotizzabile immaginare piccoli agglomerati urbani di proprieta di nuclei familiari che si articolavano in diversi edifici:
una casa principale, centro della vita familiare, a cui potevano aggiungersi
fabbricati con funzioni abitative e di servizio, costruiti nelle adiacenze con
l’aumentare dei membri della famiglia e a seguito delle ripartizioni ereditarie,17 le quali se cercavano di tutelare la proprieta della «casa grande» alla
14
Cfr. anche TSBR 41, in cui si specifica che la casa principale va al figlio maggiore.
Sulle modalita di successione ereditaria ad Emar vedi Bellotto 2000, per questo testo
in particolare p. 193. Il fatto che si tratti della figlia maggiore e chiaro dal contesto, in quanto
nel prosieguo della tavoletta e a lei che viene affidato il compito di maritare i suoi fratelli.
16
Situazioni analoghe sono descritte in E6.176 e E6.177, in cui si fa riferimento sempre
alla «casa grande», ovvero la casa principale del nucleo familiare originario, che viene asse¬ S.GAL,
¬
gnata anche in questi due testi al primogenito (in E6.176 SE
fratello maggiore): nel
primo caso si accenna in seguito ad altre due case non specificate in altro modo, assegnate
ai figli cadetti, mentre nel secondo testo si elenca una gerarchia di fabbricati analoga a quella nominata in E6.181, in cui il «rudere» e assegnato al secondogenito e alla figlia femmina
viene assegnata una «casa piccola», che in questo caso forse doveva avere un valore immobiliare inferiore rispetto «al rudere», considerando il fatto che l’asse ereditario privilegiava la
discendenza maschile, essendo la famiglia di Emar di tipo patriarcale, strutturata sui principi
della patrilinearita e della patrilocalita.
17
Un recente studio etnoarcheologico sui villaggi dell’alta valle del’Eufrate, nei pressi
di Cafer Höyük, ha evidenziato come la ripartizione dei gruppi familiari all’interno degli agglomerati urbani sia tutt’oggi un elemento fondamentale dell’organizzazione socio-spaziale
degli insediamenti, in cui il fatto che i figli costruiscano la loro abitazione nei pressi della
casa paterna e una tendenza piuttosto comune, che porta i villaggi ad essere ripartiti topograficamente in veri e propri ‘quartieri’ familiari (Aurenche, Bazin e Sadler 1997: 116-17).
Come afferma Olivier Aurenche: «l’emplacement des maisons dans un village du Proche
Orient actuel ob¡eit a des imp¡eratifs stricts ou les appartenences tribale, clanique ou familiale
jouent un r¢ole pr¡epond¡erant» (Aurenche 1996: 1).
15
Topografia dell’ideale topografia del reale II
93
linea di discendenza principale, non potevano evitare la frammentazione della proprieta originaria.18 D’altronde numerosi sono i casi in cui si accenna
alla proprieta collettiva di un immobile da parte dei membri della famiglia,
quando nei testi si fa riferimento a edifici definiti come «proprieta dei figli
di NP ».
La «casa grande» era un elemento riconoscibile del paesaggio urbano:
e infatti nominata tra i confinanti di una casa oggetto di vendita in TSBR 57,
¡ GAL) di YaÃsi-Dagan figlio
il cui confine posteriore e «la casa principale (E
19
di Kapara».
In un caso, RE 37, si fa riferimento alla ripartizione all’interno dell’unita abitativa. Si assegnano i beni familiari a tre figli: al figlio maggiore va una
¡ 4 qa-du 2 ur-¬si), mentre al secondogenicasa con due stanze da letto (E-tu
to si assegna una sola camera con un magazzino (E¡ ur-¬su qa-du a-bu-us-si)
20 Al figlio minore va una casa non meglio spe¡
Î
e una stalla (E.GU
4 .HI.A).
cificata, di cui pero si indica una localizzazione («confinante con la casa di
Abiya»). Le ripartizioni ereditarie dei primi due figli documentano la suddivisione delle singole unita abitative, con ambienti adibiti ad uso residenziale (ur¬su), ambienti adibiti a funzioni di immagazzinamento (abussu) e stal¡
Î
le per gli animali domestici (E.GU
probabilmente molto simili alle
4 .HI.A),
case degli odierni villaggi rurali tradizionali dell’alta valle dell’Eufrate, articolate in moduli funzionali specifici, area residenziale, area di elaborazione
del cibo, e area di cottura, area di immagazzinamento delle derrate, in genere non comunicanti fra loro ma con apertura su un cortile o corridoio.21 Tale
tipo di casa poteva sicuramente coesistere, in ambito rurale, con case inserite
in una maglia urbana piu fitta, come quelle rinvenute negli scavi archeologici
e assimilabili alle informazioni dagli atti di compra-vendita.
18
Tale situazione e valida anche per le proprieta fondiarie, dove una parcellizzazione eccessiva dei campi portava necessariamente alla impossibilita di lavorare produttivamente un
certo lotto di terreno. Una soluzione doveva essere quella di lasciare delle proprieta indivise,
con proprieta comunitaria, situazione rispecchiata in tutti quei casi in cui, sia per gli edifici,
sia per gli appezzamenti di terreno i proprietari sono «i figli di NP», oppure di suddividere
il lotto ma lavorandolo collettivamente (per il carattere familiare della proprieta cfr. Bellotto
2000: 191-94).
19
Una casa principale e attestata anche in E6.197, in cui e situata nella zona di una porta
¡
urbica (a-na pa-ni KA.GAL);
E6.15; E6.34; E6.156.
20
La citazione di una stalla per buoi insieme all’abussu, ne fa preferire la traduzione
di «deposito», «magazzino», piuttosto che quella pure documentata di «stalla»: AHw =
«Krippe, Stalle, Magazin(kammer)».
21
Aurenche 1998: 38-42.
94
Lucia Mori
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Topografia dell’ideale topografia del reale II
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Scultura e scrittura: indipendenza
ed integrazione del messaggio
Davide Nadali
Abstract
This analysis would point out the aspects of the imperial ideology during Assurbanipal’s reign: the aim is to compare the two main propagandistic expressions, the
draft of the annals and the sculptural representations of the royal deeds. The interpretation and the translation of the written and visual message allows to seize both
the link and the diversity of the two “cultures” in the realization and the emphasis
of the king’s role. We will consider only some examples of the main significant wall
reliefs that combine the written and the visual propaganda.
Fin dalle prime manifestazioni artistiche su ortostati di eta neo-assira (IX
sec. a.C.), il rapporto tra la scultura e la scrittura e stato molto forte e stringente: accanto infatti ai lunghi registri scolpiti, che ricordano le esaltanti gesta
del sovrano, si e sempre definito uno spazio occupato da una lunga iscrizione che parallelamente registrasse per iscritto le imprese belliche, venatorie e
di conquista del re assiro. Si e pertanto verificato un legame di coesistenza e
di complementarieta tra le due forme di esaltazione e di propaganda: la fitta
trama di eventi scolpiti ritrova un corrispettivo nella dettagliata descrizione
degli annali.1
Questo studio si propone di trattare e di sviscerare, seppur brevemente,
la modalita di espressione e di realizzazione del messaggio nelle due forme
le affinita,
le peculiarita ed
presenti sulle lastre sottolineandone le diversita,
appunto le integrazioni al fine di comprendere pienamente il significato delle
1
Non si tratta pero di una corrispondenza meccanica per cui si possa asserire che le sculture riproducano visivamente il racconto degli Annali: le immagini scolpite glorificano ed
esaltano le azioni del sovrano, in particolare quando impegnato in azioni belliche o venatorie, sviluppando un proprio messaggio indipendente ed autonomo che segue parallelamente
il resoconto degli Annali o la versione compatta dell’Iscrizione Standard, tipica dell’eta di
Assurnasirpal II (Matthiae 1996: 41-42).
97
98
Davide Nadali
rappresentazioni. All’interno di una medesima cultura coesistono differenti sistemi di espressione culturale: in particolare, nello studio degli ortostati assiri e delle piccole iscrizioni scolpite sulla superficie delle lastre, si puo analizzare un modus operandi dello scultore (cultura figurativa) ed uno dello
scriba (cultura scribale), accomunati da un medesimo intento che si esplica
in due maniere differenti, ma complementari per la comprensione della rappresentazione. L’esplicazione e la realizzazione materiale di questi due tipi di
espressione culturale, nel caso delle sculture prese in considerazione, chiariranno gli intenti dell’uno e dell’altro e il loro effettivo apporto alla dinamica
ed al significato della rappresentazione.
Nella ricca ed abbondante documentazione scultorea su ortostati dell’eta neo-assira, si e scelto di limitare l’analisi ad un solo sovrano, Assurbanipal
(668-631 a.C. ca.), in riferimento alla rappresentazione della vittoriosa battaglia sul fiume Ulai contro gli elamiti del re Teumman.2 A partire proprio
dal VII sec. a.C. la lunga iscrizione, che divideva l’altezza della lastra in due
maggiori registri, superiore ed inferiore, viene soppressa (fig. 13 ): l’intero
comparto figurativo e occupato solamente dalle rappresentazioni scultoree il
cui soggetto agente, il sovrano, compare e ricompare insistentemente nella
progressione narrativa delle azioni.4 Gli scultori di Assurbanipal rinunciano alla presenza della lunga iscrizione divisoria preferendo, come gia con il
predecessore Sennacherib, brevi e puntuali didascalie (Gerardi 1988 e 1995;
2
Si tratta delle celebri lastre fatte scolpire da Assurbanipal nel «Palazzo Senza Rivali»
del nonno Sennacherib nella nota Sala XXXIII (Barnett, Bleibtreu e Turner 1998: pls. 289,
293, 297).
3
Tutte le figure citate da qui in avanti nella relazione si trovano raccolte all’indirizzo
http://www.orientalisti.net/nadali2003.htm. Nella versione elettronica degli Atti basta fare
clic su un riferimento (in blu nel testo) ed essere collegati alla Rete per aprire nel proprio
browser Internet l’immagine corrispondente.
4
Proprio a partire da Sennacherib, si attua un’importante riforma artistica che rivoluziona nettamente i principi artistici finora adottati dalle botteghe di Nimrud e di Khorsabad: la
lastra e occupata nella sua interezza esclusivamente dalle sculture che vengono cos ı inserite
in uno spazio decisamente e volutamente dilatato in modo che le azioni raffigurate si svilup La nuova visiopino secondo un modulo continuo e narrativo senza soluzione di continuita.
ne «a volo d’uccello» (Matthiae 1996: 164) permette infatti di dilatare il campo figurativo
con una suggestiva visione dall’alto che inserisce le singole figure protagoniste in uno scenario riccamente e dettagliatamente definito: la rappresentazione della natura e del paesaggio
ove si svolgono gli eventi contestualizza visivamente i luoghi e gli scenari caratterizzando lo
spazio dell’azione in maniera precisa ed inequivocabile non come semplice sfondo, ma come parte integrante del racconto contribuendo a scandire il ritmo narrativo e i momenti della
rappresentazione (Mazzoni 1989: 154).
Scultura e scrittura: indipendenza ed integrazione del messaggio
99
Russell 1999) che aderiscono come un’etichetta ad una precisa immagine
specificando quanto scolpito e riportando ad esempio il nome della citta presa d’assalto dall’esercito assiro, il nome di alcuni personaggi, la descrizione
di una particolare azione, o, come nel nostro caso, il discorso diretto tra due
protagonisti della battaglia.
La presenza o meno della didascalia puo talvolta essere essenziale, come
vedremo, per la comprensione della narrazione e della sequenza degli eventi,
che, comunque, si sviluppano indipendentemente seguendo principi e canoni propri del linguaggio figurativo: tuttavia, la combinazione della didascalia, quindi di un testo scritto, con le sculture contribuisce a richiamare la nostra attenzione proprio verso quella scena e non un’altra.5 Lo stesso effetto
doveva essere prodotto sugli spettatori antichi, personalita importanti come
dignitari, ambasciatori o alti funzionari, in grado di saper leggere e comprendere sia il significato del testo che l’importanza o la particolarita di una scena
corredata da un testo (Matthiae 1996: 42). Oggi, solo grazie allo studio della
scrittura e della lingua accadica assira, possiamo comprendere appieno i testi
delle piccole didascalie che ci aiutano a definire i particolari di una scena gia di per s¡e chiara e nota a prescindere dalla conoscenza del contenuto dell’iscrizione, ponendoci ad un livello di lettura della trama degli eventi superiore
6
e piu completo rispetto allo spettatore comune nell’antichita.
Possiamo pertanto cogliere in tutta la sua interezza il messaggio trasmesso, definire un preciso ordine della disposizione delle figure, e fissare
differenti gradi di lettura delle immagini.
Gli episodi principali della battaglia sul fiume Ulai della Sala XXXIII del
Palazzo Sud-Ovest a Ninive (figg. 2a-b-c),7 corredati da didascalie esplicati5
«Such captions are different from texts which accompany an image, in that the text may
be exactly parallel or it may be amplifying, providing more information, whereas the caption
tends rather to focus, getting one closer to the intended meaning – that is, it “anchors” the
image» (Winter 1981: 25).
6
Bisogna infatti distinguere un pubblico letterato in grado di leggere sia le lunghe iscrizioni che le brevi epigrafi da un pubblico ignorante la scrittura e la lettura dei testi. Le didascalie apposte accanto alle immagini rimangono comunque incomprensibili per chi non sa
leggere, ma vengono sempre piu preferite proprio per la loro diretta ed esplicita relazione con
l’immagine (Winter 1981: 25; Gerardi 1988: 16).
7
La scelta di prendere in esame questo ciclo scultoreo e particolarmente efficace ai fini
della comparazione della scultura e dei testi scritti delle piccole didascalie. Infatti, come gia ricordato, queste sculture, datate al regno di Assurbanipal, sono state scolpite per decorare
una sala del Palazzo di Sennacherib: esse infatti detengono ancora, anche se e gia stata in
parte tralasciata l’innovativa visione «a volo d’uccello», le caratteristiche delle lastre di Sennacherib, non presentando una partizione rigida in registri («Der Frühe Assurbanaplu-Stil»,
100
Davide Nadali
ve e presi in esame in questa sede, sono tre, tutti riferibili a precisi momenti
della battaglia.
Ad una prima analisi, la presenza della didascalia non sembrerebbe
influire minimamente sul significato e sulla comprensione delle immagini scolpite, ma indubbiamente funge da polo calamitante la nostra attenzione spingendoci ad osservare principalmente quegli avvenimenti marca in talutamente sottolineati da un’epigrafe. La lettura delle didascalie puo,
ni casi, aiutare a capire il ritmo e la direzione della narrazione scandendo
cronologicamente gli eventi nella loro naturale successione.
Uno degli esempi piu significativi si trova sulla lastra 2, nel registro centrale (fig. 3): un soldato assiro armato di lancia guarda un elamita a terra gia trafitto da piu frecce. Al di sopra dei due protagonisti della scena campeggia una didascalia che chiude orizzontalmente il riquadro. Il soldato assiro
a sinistra con la sua lunga lancia tenuta verticalmente, un albero a destra e
l’epigrafe in alto definiscono una sorta di cornice artificiale alla piccola vicenda, ritagliando una metopa all’interno del flusso travolgente dell’intera
battaglia. Questa miniatura scultorea di un piu ampio rilievo interrompe la
progressione da sinistra a destra della battaglia imponendo, in quel preciso
istante e luogo, un suo ritmo diverso da quello che pervade e caratterizza l’azione circostante. L’apposizione della didascalia non fa altro che enfatizzare
questa rottura con il tessuto dell’intero rilievo decretando una breve cesura
che inizia e finisce nello stesso momento per poi annullarsi nella trama di
tutta la vicenda: la narrazione si ferma istantaneamente per ritrarre due soldati delle opposte fazioni nell’atto quasi di dialogare. Effettivamente, ad una
prima osservazione, sembra proprio che il soldato elamita a terra si rivolga
al lanciere assiro alle sue spalle. La conferma ci viene data dal testo dell’epigrafe che recita: «Urtak, parente di Teumman, che era stato trafitto da una
freccia, ma non era morto, si rivolse ad un soldato assiro con queste parole:
Nagel 1967: 27-30): la battaglia si svolge infatti liberamente nello spazio, i soldati dell’esercito assiro e della fazione avversaria combattono muovendosi da sinistra verso destra, ed
i cadaveri degli elamiti e la vegetazione occupano e riempiono disordinatamente il campo
di battaglia. Il flusso travolgente ed incalzante della battaglia sfocia nel fiume Ulai che taglia
perpendicolarmente lo spazio scolpito: la massa di soldati assiri e dei nemici in fuga o gia uccisi sul campo di battaglia, disposti apparentemente senza ordine, contribuiscono a riprodurre
i momenti caotici del conflitto. L’apposizione di brevi didascalie all’interno del fitto tessuto
di uomini morti e di soldati armati in corsa, proprio in questo particolarissimo esempio, contribuisce a selezionare alcuni eventi dell’intero scontro ritagliando ed evidenziando piccole
scene che si isolano momentaneamente dal resto della battaglia per poi confluirvi nuovamente
nell’interezza della rappresentazione.
Scultura e scrittura: indipendenza ed integrazione del messaggio
101
‹Vieni, taglia la mia testa, portala al cospetto del re, tuo signore, e gloriati di
questa azione›» (Russell 1999: 172; trad. dall’inglese di chi scrive).
Altre due epigrafi vengono dedicate, e non poteva essere altrimenti, all’evento principale della battaglia, l’uccisione del re elamita Teumman (lastra
3). La sorte del sovrano elamita precipita rovinosamente venendo scaraventato a terra dal suo carro: il timone si e spezzato e le zampe dei quattro cavalli
scalpitano nel vuoto senza piu alcun controllo (fig. 2b); il re viene tratto in
salvo dal figlio verso destra, cerca di difendersi dai soldati assiri, ma viene
crudelmente ucciso (fig. 2b-c); si vede un soldato assiro piegato verso il basso mentre taglia la testa al sovrano sconfitto ed un altro che raccoglie la tiara
e le armi regali da portare in trionfo ad Assurbanipal (fig. 4a). Tutta questa
scena altamente drammatica e tesa che si svolge nel giro di pochi e brevissimi istanti sigla il momento cruciale della battaglia, l’orgoglio del re Assurbanipal, che si gloriera della vittoria esponendo la testa del nemico sconfitto
durante un banchetto nei giardini regali assieme alla regina (fig. 5). A rafforzare questa tensione sono inoltre due epigrafi che seguono parallelamente
lo svolgersi degli avvenimenti cruenti: nella piu piccola il re Teumman urla
disperatamente al figlio di imbracciare l’arco (fig. 4b),8 mentre nella seconda viene annalisticamente registrata la morte del re elamita ed il taglio della
testa sua e del figlio (fig. 4a).9 Le due epigrafi, poste in alto, coronano l’intera vicenda ricordando non solo nella rappresentazione della scena ma anche
nelle parole la vittoriosa operazione di Assurbanipal contro i nemici elamiti
e la crudele fine del loro re. Poste a lato della rispettiva immagine sigillano
inesorabilmente quella scena attribuendole importanza e fama, e collocando
in un climax ascendente per Assurbanipal ed il suo esercito, discendente per
Teumman e suo figlio la sequenza di eventi.
L’ultimo caso di epigrafe (lastra 1) (fig. 6) apposta ad un avvenimento di
guerra chiarisce in maniera inequivocabile il naturale susseguirsi della narrazione che sarebbe di difficile comprensione osservando semplicemente lo
sviluppo narrativo della raffigurazione: nel registro superiore della lastra 1
e raffigurato un carro che avanza, contrariamente alla direzione dell’intera
battaglia, verso sinistra; sopra un soldato assiro dal tipico elmo a punta reg8
«Teumman, in preda alla disperazione, disse a suo figlio, ‹impugna l’arco›» (Russell
1999: 170; trad. dall’inglese di chi scrive).
9
«Teumman, re dell’Elam, il quale era stato ferito nella battaglia, Tammaritu, suo figlio
maggiore, lo prese per mano e fuggirono per mettere in salvo le loro vite. Si nascosero nel
mezzo di una foresta. Con il sostegno di Assur e di Ishtar, li uccisi. Ho tagliato le loro teste
l’uno di fronte all’altro» (Russell 1999: 170-71; trad. dall’inglese di chi scrive).
102
Davide Nadali
ge una testa mozzata di un nemico in mano, che la didascalia ci chiarisce
essere quella del re elamita Teumman.10 Nel naturale proseguimento della
vicenda bellica la consegna della testa di Teumman sarebbe dovuta seguire
all’uccisione ed alla decapitazione del nemico elamita, ma al contrario ritroviamo sulla prima lastra del ciclo l’esito di un’azione che viene ritratta solo
sulla terza lastra del rilievo. In questo caso la specificazione del testo della didascalia non solo puntualizza che si tratta effettivamente della testa di
Teumman, ma scandisce cronologicamente gli eventi della battaglia che, in
questo caso, non seguono il naturale percorso, da sinistra verso destra, delle
altre figure protagoniste dell’evento ritratto.
Le epigrafi scolpite sui rilievi seguono di pari passo la scena corrispondente ponendosi come una semplice didascalia di supporto alla rappresentazione visiva: le sculture vengono pertanto prima delle parole, che vengono
apposte solo in secondo tempo e solo in riferimento a precisi eventi cui si
vuol dare particolare risalto.11 La narrazione della battaglia procede parallelamente su due binari: da un lato lo spettatore puo ignorare le epigrafi –
anche perch¡e non e detto che sia in grado di decifrarle – ed osservare la scena facendosi guidare dal naturale svolgimento degli eventi da sinistra verso
destra, e seguendo le vittoriose incursioni dei reparti dell’esercito assiro; dall’altro puo isolare dal fitto tessuto della battaglia i singoli episodi sottolineati
da un’epigrafe prescindendo dal resto del racconto e soffermandosi solo sui
particolari: procedendo cos ı, lo spettatore otterra s ı una visione parziale, ma
non perdera i fatti salienti e decisivi volutamente enfatizzati appunto dalle
didascalie per esaltare la riuscita vincente del re assiro e del suo operato. Il
singolo fotogramma e accompagnato dall’epigrafe che ne estende i confini
spazio-temporali dilatando con le parole l’azione concisa ritratta nello spazio
ritagliato di una metopa.
La traduzione e l’interpretazione dei due modi di espressione diviene
complementare per la comprensione del messaggio che scultore e scriba han10
«Testa di Teumman, re dell’Elam, che un comune soldato del mio esercito ha tagliato
nella mischia della battaglia» (Russell 1999: 171; trad. dall’inglese di chi scrive).
11
Mentre in precedenza, sulle lastre di Assurnasirpal II, di Tiglat-Pileser III e di Sargon
II, il testo occupava un suo spazio definito, ora il testo sopravvive in funzione dell’immagine
scolpita in una perfetta simbiosi utile alla comprensione dell’evento narrato. Cambia cos ı la
maniera di esprimere e di ricordare le imprese del re: mentre prima, su un rilievo, si potevano effettivamente riconoscere e distinguere due strumenti, entrambi protagonisti, del racconto, ora il ruolo principale di trasmissione del messaggio e conferito alla scultura che occupa
l’intero comparto figurativo, in cui sono ritagliate piccole didascalie concise, esclusivamente
pertinenti all’immagine attigua.
Scultura e scrittura: indipendenza ed integrazione del messaggio
103
no voluto trasmettere: basandosi ognuno sulle proprie regole e sui propri canoni hanno lavorato in simbiosi per uno stesso e comune intento che evidenziasse ed esaltasse le gesta del re e del suo esercito in un modulo costantemente narrativo. L’abilita da parte degli scultori di selezionare ogni volta
i frammenti piu significativi di una battaglia e saperli sapientemente e suggestivamente montare in un’unica azione spazio-temporale e stata assorbita
dagli scribi di corte che hanno saputo racchiudere in una semplice epigrafe il racconto dell’evento in maniera concisa e suggestivamente fedele alla
riproduzione scultorea.
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Chi si librava sulle acque?
Interpretazioni e trasformazioni di Gen 1,2
Giuseppe Regalzi
Abstract
“And the Spirit of God was hovering upon the waters”: the sentence we read
at the end of Gen 1:2 still puzzles the interpreters. What do these words exactly
mean? Should the Hebrew ruaÃh be translated as “wind”, or as “Spirit”? And, in any
case, why is the ruaÃh no more mentioned in the following verses, and is therefore
apparently devoid of any role in the creation of the world?
This paper aims at tracing some of the interpretations and transformations Gen
1:2 underwent during the centuries, and at showing how the ruaÃh was neither a wind
nor a Spirit in the first stage of this process.
Le parole iniziali della Genesi ci informano che prima della creazione le
tenebre avvolgevano l’Oceano primordiale; e un poco di quell’oscurita sembra essersi propagata al testo che ne parla. «In principio Dio creo il cielo e
la terra. Prima la terra era desolata e deserta, e le tenebre ricoprivano la superficie dell’Abisso; e lo spirito di Dio si librava sulla superficie delle acque».1 Il misterioso £yh
i l
È '
é x
Þ ûr, «spirito [o vento] di Dio», che troviamo
nominato alla fine del v. 2, ha affaticato in modo particolare gli interpreti;
ma tutta la frase di cui questo sintagma costituisce il soggetto risulta problematica: le uniche parole sicure si riducono in effetti a «sulla superficie delle
acque».2 Cos ı, limitandoci agli interpreti antichi, i Settanta rendono con l’anodino κα‚ι πνε”υµα θεο”υ ‘επε3“ερετο ‘επ“
ανω το”υ —υδατοσ,3 «e il vento [o lo
1
Com’ e noto la sintassi del primo verso della Genesi e incerta. Anche se si interpreta
uno stato costrutto, e tuttavia inevitabile riconoscere nel v. 1,2 una descrizione
dello stato del mondo prima della creazione. Una traduzione alternativa potra essere dunque:
«Quando Dio si accinse a creare il cielo e la terra, la terra era desolata e deserta, etc.».
2
Il testimone piu antico della fine del v. 1,2 e il ms. 4QGeng di Qumran, che dovrebbe
risalire alla meta del I sec. a.C. La frase vi compare per intero, e senza varianti rispetto al
textus receptus. Nel piu recente 4QGenb (50-68 d.C.) e sopravvissuto solo [tpx]rm.
3
la versione di Aquila e Simmaco (κα‚ι
Quasi identica, a parte qualche ebraismo in piu,
πνε”υµα θεο”υ ‘επι3ερ“
οµενον ‘επ‚ι πρ“
οσωπον υδ“
ατων), e quella di Teodozione (κα‚ι πνε”υµα
θεο”υ ‘επι3ερ“
οµενον ‘επ‚ι προσ£
ωπου το”υ —υδατοσ). Le medesime parole, salvo il soggetto, sono usate dai Settanta per tradurre £yÇm
GA h
a ynÅKüp lav hAbGEth
a ªl
e GEtw in Gen 7,18. In Is 28,15.18 e 29,6
3ερﵓενη e il predicato di καταιγƒισ ‘turbine’; cfr. Atti 2,2: ω
§σπερ 3ερﵓενησ πνο”ησ βιαƒιασ.
tyH
i 'r
ã b
Ðü come
105
106
Giuseppe Regalzi
spirito] di Dio procedeva [lett. «era portato»] sull’acqua», che riecheggia piu tardi nell’«et spiritus Dei ferebatur super aquas» della Vulgata. A differenza
di Girolamo, il Targum Onqelos preferisce parlare di vento: ywy £dq ¤m 'xwrw
'ym yp' lv 'bSnm, «e un vento da parte di Iahv e soffiava sulla superficie delle acque»,4 come Giuseppe Flavio (Ant. 1,27), πνε“υµατοσ δ α‘υτ’ην α
› νωθεν
‘επιθ“εοντοσ, «e un vento correndo dall’alto su di essa [scil. la terra]».
Anche molti fra i moderni hanno preferito vedere nel x
Þ ûr un vento. Quanto al verbo, che abbiamo tradotto con «si librava», la parola ebraica, tp
e x
e r
Þ m
ü ,
e un participio di ¥x
a r
ß , da una radice presente in diverse lingue semitiche. Il
verbo viene usato in Deut 32,11, dove Iahv e che conduce con s¡e Israele viene
paragonato a un’aquila: «Come un’aquila esorta la nidiata, si libra sul pulcino, dispiega le sue ali, lo conduce, lo fa innalzare con le sue proprie penne».
Ritroviamo il medesimo verbo associato alle aquile anche in ugaritico, nella Storia di Aqhat, dove la dea Anat spiega a un suo sgherro: [‘lh] / n¬srm .
trÎhpn . ybÃsr . [Ãhbl . d]/iym . bn . n¬srm . arÎhp . an[k .] ‘l / aqht . ‘dbk . hlmn
. Ñtnm . qdqd / ÑtlÑtid . ‘l . udn, «Sopra di lui le aquile si libreranno, aleggera uno stormo di uccelli da preda; fra le aquile mi librero io stessa, sopra Aqhat
colpiscilo due volte sulla testa, tre volte sulle orecchie» (KTU 1.18
ti porro:
IV 19-23, cfr. 30-34).5 In KTU 1.108 8-9 si legge: w ‘nt . di 6 . dit . rÎhpt /
[b ¬sm]m rm<m>, «e Anat vola, si libra / nell’alto dei cieli». Il verbo e usato largamente in siriaco, per esempio per indicare gli angeli che si librano al
di sopra di Maria morente. In tutti questi casi e evidente che il movimento
descritto e assai limitato: piu che all’uccello da preda che si innalza su una
corrente di aria calda descrivendo i caratteristici cerchi, si deve pensare probabilmente al tipo di volo che un esperto descrive in questi termini: «Vari
rapaci diurni (falchi, ecc.), quando spiano dall’alto la preda, danno l’impressione di mantenersi sempre nello stesso punto. Cio avviene mediante colpi
d’ala piatti e ripetuti che imprimono al corpo una spinta che uguaglia quella
del vento. » (Toschi 1980: 512).
Ma un vento che si libra rappresenta, evidentemente, un ossimoro: non
4
Leggermente piu letterale il Targum Samaritano: hym yp' lv hbSnm hhl' xwrw. Il Targum Neofiti ha una variazione interessante: 'ym yp' lv 'bSnm hwh yyy £dq ¤m ¤ymxrd xwrw,
«e un vento di misericordia da parte di Iahv e soffiava sulla superficie delle acque» (cfr. lo
Pseudo-Yonatan: 'ym ypn' lv 'btnm £yql' £dq ¤m ¤ymxr xwrw). La Pe¬siÃtta ricalca invece il
testo ebraico: wrwÃhh d’lh’ mrÃhp’ ‘l ’py my’.
5
Anche in 1.19 I 32-33: ‘l . bt . abh . n¬srm . trÎhpn . / ybÃsr . Ãhbl . diym, «Sulla casa di suo
padre le aquile si libravano / aleggiava uno stormo di uccelli da preda».
6
Un errore per du (infinito assoluto)?
Chi si librava sulle acque?
107
e un vento, e aria ferma. E vero che la Bibbia ebraica usa altrove la ben nota
metafora delle «ali del vento» (Sal 18,11 = 2Sam 22,11, Os 4,19, Sal 104,3),
ma il riferimento, in quel caso, e senza dubbio a un volo molto rapido. Non
possiamo tuttavia pretendere dall’ebraico un’esattezza che non pretendiamo
neppure dalla nostra lingua: non diciamo forse che il vento « e caduto» o
«si e posato», senza prestare troppa attenzione alla logica? (Anche se in effetti non diciamo mai che il vento «si libra»...) Naturalmente, per servire a
qualcosa il vento dovra pur muoversi, prima o poi; cosa che nel nostro verso
indubbiamente non fa.
Ma qual e la funzione del x
Þ ûr nel racconto della creazione? Si e spesso
ravvisato un parallelo con Gen 8,1, opera dello stesso autore del primo racconto della creazione: al culmine del diluvio, Dio fa passare un vento sulle acque, che cominciano a ritirarsi. Poich¡e il diluvio rappresenta in un certo senso un ritorno alla condizione primordiale, quando l’Oceano ricopriva completamente la terra, sembra naturale assegnare al vento di Gen 1,2 il
compito analogo di scacciare le acque per far apparire la terraferma. Anche
nell’En¤uma eli¬s babilonese, che quasi certamente costituisce una delle fonti
del primo racconto biblico della creazione, Marduk si serve di un vento per
ridurre all’impotenza Tiamat (4,93-104), l’equivalente dell’ebraica Tehom.
E in effetti, la tradizione cosmogonica ebraica conosce altrove questo ruolo
del vento – o anche dell’«alito» – divino. Ritengo che si debba leggere in
Gb 26,13: «Con la sua forza rende il mare una furia, con la sua intelligenza fa a pezzi Rahab; col suo soffio riduce le acque un deserto, la sua mano
trafigge il serpente guizzante», dove Rahab e la controfigura ebraica della
babilonese Tiamat; anche il serpente guizzante – il mitico Leviatano – e una
personificazione dell’Oceano primordiale. La lotta contro i mostri del caos
marino ricompare in forma demitologizzata nel passaggio del Mar Rosso: i
due eventi vengono accostati in Is 51,9-10: «Non hai forse fatto a pezzi Rahab, non hai trafitto il drago? Non hai forse prosciugato il mare, le acque del
grande Abisso, e non hai reso le profondita del mare una strada, perch¡e vi
passassero i redenti?». Significativamente, nel racconto dell’Esodo Dio rende asciutto il mare «con un forte vento orientale» (Es 14,21), che in Os 13,15
e uguagliato al «soffio di Iahv e » (cfr. Is 40,7).
Il £yh
i l
È '
é x
Þ ûr di Gen 1,2 e dunque l’alito divino che asciuga le acque della
l’esame del testo porta a escluTehom per far comparire la terra? In realta,
derlo recisamente. Notiamo innanzitutto che in Gen 8,1 quel che asciuga le
acque del diluvio non e l’alito divino ma piuttosto un vento generico. Cosa
108
Giuseppe Regalzi
piu importante, questo vento viene suscitato quando ce n’ e bisogno, e comincia subito a far regredire la Tehom; lo stesso accade nell’attualizzazione
della cosmogonia in Es 14,21. N¡e c’ e ragione che sia altrimenti: il vento e uno strumento di cui Dio si serve al momento opportuno. Eppure in Gen 1,2
il x
Þ ûr e l ı in attesa prima della creazione, e del tutto privo di efficacia: le acque non cominceranno a ritirarsi che nel terzo giorno. Quando poi il racconto
giunge al punto cruciale, ecco che leggiamo: «Dio disse: ‹Si raccolgano le
acque che sono sotto il cielo in un solo luogo, e compaia l’asciutto›. E fu cos ı » (1,9). Non c’ e il minimo accenno a un ruolo del vento nella ritirata delle
acque; in effetti, dopo il verso 1,2 il £yh
i l
È '
é x
Þ ûr non viene piu nominato per
nulla.
Ogni ipotesi che parta dal presupposto che sia il vento a librarsi sulle acque deve fare i conti con questa omissione, e con l’obbligo oneroso di spiegarla, per non lasciare ozioso e immoto – e quindi in effetti assai poco ventoso – il £yh
i l
È '
é x
Þ ûr. A questo scopo, alcuni hanno voluto vedere nel nostro brano la sopravvivenza parziale di un originario, piu esteso mito della creazione.
Si sono invocati a questo scopo altri paralleli, questa volta con cosmogonie in
cui il vento appare, come nel nostro passo, tra i costituenti primigeni del cosmo; la divergenza ideologica con la cosmogonia ebraica ‘canonica’ avrebbe portato a scorciare drasticamente il racconto originale, lasciando pendere isolata la menzione del vento nel v. 1,2. Eusebio di Cesarea (Praeparatio
Evangelica 1,10,1) riferisce in questi termini della cosmogonia che Filone
di Biblo esponeva nella sua Storia Fenicia: «Come principio di tutte le cose, egli suppone aria oscura e ventosa o un soffio di aria oscura ed un Caos
tenebroso e torbido: tutto cio sarebbe stato indefinito e per lungo tempo non
avrebbe avuto limite. Ma quando – cos ı egli dice – il vento si affeziono ai
suoi propri elementi, allora si verifico una mescolanza e questa combinazione fu chiamata Pothos [Desiderio]; essa fu il principio della creazione di tutte le cose» (traduzione di Lucio Troiani, 1974: 78). Ritroviamo qui in effetti
il vento e le tenebre della Genesi; e una conferma di un possibile rapporto
col racconto biblico sembra venire da una sorta di doppione della cosmogo che la Storia Fenicia ospitava piu avannia, di nuovo con vento ed oscurita,
ti: «Nacquero dal vento Kolpia e da una donna Baau (questo termine e reso
con ‹notte›) Aion e Protogonos, uomini mortali» (ibidem, 92). Senonch¡e c’ e
da chiedersi in che direzione andasse il rapporto con le tradizioni bibliche:
perch¡e Kolpia sembra essere una trascrizione dell’ebraico h
Рy yp
Ki lOwq, «voce della bocca di Iahv e », mentre Baau viene in genere collegato alla parola
Chi si librava sulle acque?
109
ebraica ûhb
OÐ ‘deserto’, che troviamo proprio in Gen 1,2: se questo e vero, allora l’interpretazione data da Filone, «notte», che e estranea alla radice se nel testo
mitica, sembrerebbe potersi spiegare solo con la casuale contiguita,
biblico, di ûhb
OÐ e ªS
e x
O ‘tenebre’. E interessante notare che negli unici altri due
frammenti di cosmogonie fenicie in nostro possesso, rispettivamente di Eudemo e Mochos, tramandati dal neoplatonico Damascio nel De principibus,
ritroviamo il vento, non pero come primo principio, ma bens ı come semplice
anello nella catena di esseri generati che si succedono nei primordi. Quan l’altro elemento primigenio secondo Filone, si ritrova solo in
to all’oscurita,
Eudemo, ma sotto forma di Οµƒιχλη ‘nebbia’, ‘caligine’. Qui le affinita col
racconto biblico si fanno veramente evanescenti, fino a sparire; e si consolida il sospetto che Filone, o la sua fonte, dipendano in qualche modo dalla
Genesi; semprech¡e naturalmente le affinita rilevate non si debbano in realta ad una banale coincidenza.7
Troppo spesso si dimentica che Filone di Biblo e vissuto tra la fine del
primo e l’inizio del secondo secolo dopo Cristo. E vero che la sua fonte, il
sacerdote Sancuniatone, precederebbe la guerra di Troia; ma questo e quello
che ci racconta Filone, o quello che qualcuno gli ha raccontato. Nel periodo
ellenistico-romano il racconto biblico ha chiaramente influenzato altre cosmogonie pagane: nel terzo trattato del Corpus Hermeticum (1,6-7), un vento «sottile e intelligente» tiene compagnia nell’Abisso alle Tenebre e all’Acqua, prima dell’avvento della Luce. Epifanio, nel Panarion (25,5), riporta la
cosmogonia della setta gnostica dei Nicolaiti: «Esistevano Tenebre, Abisso
ed Acqua; e il vento, in mezzo a questi, opero la loro divisione», dove si vede come, per non lasciare inoperoso il vento, gli gnostici fossero pronti ad
attribuirgli quel ruolo di separatore degli elementi primordiali che la Genesi
riservava invece a Dio.
Che cos’ e, allora, il £yh
i l
È '
é x
Þ ûr, visto che l’interpretazione con «vento
Sembra proprio che la traduzione
[o soffio] divino» incontra tante difficolta?
alternativa, «spirito di Dio», sia da preferirsi: il concetto di «spirito» e ben
distinto da quello di «soffio fisico» da cui ha avuto origine, e designa nella
Bibbia ebraica una sostanza immateriale che – a quanto sembra – puo all’occorrenza librarsi nell’aria. E infatti, in un testo di Qumran, 4Q521 (2,II,6),
ovviamente dipendente dalla Genesi, leggiamo ¥xrt wxwr £ywnv lvw, «il Signore ricerchera i pii e chiamera i giusti per nome, e il suo spirito si librera 7
Si noti l’assenza totale nella cosmogonia della Storia Fenicia della massa primordiale
delle acque, che tanta parte ha invece presso gli ebrei.
110
Giuseppe Regalzi
sui poveri, ed egli rinnovera i fedeli con la sua forza». Ma naturalmente la
scena piu celebre in cui lo spirito di Dio si muove come un volatile si trova
nei Vangeli: e quella in cui lo spirito discende come una colomba su Gesu appena battezzato (Mat 3,16, Mar 1,10, Luc 3,22, Gv 1,32). La presenza anche qui dell’elemento acquatico rende molto probabile un influsso di Gen 1,2
(Davies e Allison 1988: 334); ad ogni modo la colomba viene uguagliata allo
à 15a) e nel Targum del Cantico dei Cantici
Spirito anche nel Talmud (bHag
(2,12).
Ma se, come tutto lascia credere, nel racconto della creazione si parla dello spirito di Dio, qual e la sua funzione? Nella Bibbia ebraica il £yh
i l
È é' x
Þ ûr
ispira nella grande maggioranza dei casi la profezia, inducendo un particolare stato estatico, o comunque spronando il profeta a emettere il proprio messaggio; piu o meno allo stesso modo immette in giudici e re l’energia sovrumana necessaria ai loro compiti, oppure l’intelligenza negli artigiani (Es 31,3
e 35,31) o nell’uomo in genere (Gb 32,8, Pr 1,23). Ma e chiaro che in Gen 1,2
non si parla di nulla di tutto questo. Talvolta per «spirito di Dio» si intende
invece la forza vitale che anima uomini e animali (Gen 6,3, Sal 104,30, Gb
27,3 33,4 34,14, cfr. Is 42,5, Gb 12,10, Qoh 12,7), e che e identica alla tm
a üHnÇ
£yyCÇx
a , «l’alito vitale», che Dio soffia nelle narici di Adamo (Gen 2,7).
John Milton, nel Paradiso perduto, da allo spirito di Dio proprio questo
valore (7,231-35):
Matter unform’d and void: Darkness profound
Cover’d th’ Abyss: but on the watrie calme
His brooding wings the Spirit of God outspred,
And vital vertue infus’d, and vital warmth
Throughout the fluid Mass
Vacua e informe materia; tenebra profonda
ricopriva l’abisso; ma sulla calma equorea
le ali paterne distese lo spirito divino
e forza vitale infuse, calor vitale
per tutta la massa fluida
o, ancora piu esplicitamente, rivolgendosi allo Spirito (1,17-22):
Thou from the first
Wast present, and with mighty wings outspread
Chi si librava sulle acque?
111
Dove-like satst brooding on the vast Abyss
And mad’st it pregnant
Tu dal principio
eri presente, e con le forti ali distese
come una colomba covavi sopra l’immenso abisso,
e lo rendesti fecondo
Questa visione, indubbiamente suggestiva, puo trarre una certa legittimazione dal fatto che la radice rÃhp ha in siriaco anche il significato di «covare».
Al siriaco doveva probabilmente rifarsi Gerolamo quando, in un passo molto
noto delle Quaestiones in Genesim affermava: «Pro eo, quod in nostris codicibus scriptum est ferebatur, in hebraeo habet marahaefeth, quod nos appellare possumus incubabat sive confovebat, in similitudinem volucris ova
calore animantis» (Lagarde 1868: 4, ll. 8-11). E probabile che la visione di
Milton derivasse piu o meno direttamente da questo testo.
Ma in ebraico il £yh
i l
È é' x
Þ ûr non da la vita perch¡e infonde calore, o per
qualche altra virtu fecondativa: lo spirito da la vita perch¡e costituisce il respiro all’interno dell’uomo o dell’animale; ed e comunque inaudito che vada
ad animare l’abisso primordiale.
Col che abbiamo esaurito le possibili funzioni dello spirito di Dio; e in
ogni caso – e la difficolta che abbiamo gia incontrato – dovremmo sempre
spiegare perch¡e esso, una volta nominato nel v. 1,2, non svolga piu alcuna
funzione apparente nel seguito del racconto.
Esiste, per converso, un elemento che non viene nominato nel prologo,
e che nel seguito si dimostrera particolarmente attivo per ben sei dei sette
giorni della prima settimana della creazione. Non viene nominato, abbiamo
detto, ma doveva sicuramente essere presente fin dal principio assieme all’abisso e alle tenebre; se non notiamo la sua assenza e perch¡e in genere ce lo
rappresentiamo invisibile e incorporeo. Sto parlando, naturalmente, di Dio
in persona. Dove si trovava, prima di procedere alla sua opera creatrice? Dimora abitualmente in alto, ma il cielo non era ancora stato creato perch¡e vi
potesse risiedere; e allora probabile che si librasse sulle acque... Lo stesso
autore del primo racconto della creazione ce lo mostra mentre sfoggia le sue
capacita ascensionali in due occasioni, quando abbandona dopo un colloquio
prima Abramo e poi Giacobbe: «Dio sal ı in alto» (Gen 17,22 e 35,13).
Ammettiamo per un attimo che in origine – non importa se in una tradizione autorevole con cui il nostro testo non poteva fare a meno di confrontar-
112
Giuseppe Regalzi
si, o in alternativa in una forma piu antica di questo stesso racconto – fosse
Dio in persona a librarsi sulle acque: divinita alata,8 o magari a cavallo di un
cherubino (Sal 18,11 = 2Sam 22,11), ma per la quale comunque si usava un
verbo, rÃhp, proprio degli uccelli rapaci. La Bibbia, com’ e noto, si sforza in
figuriamoci gli
genere di evitare gli antropomorfismi applicati alla divinita;
ornitomorfismi! E molto probabile che il nostro autore, o chi per lui, avrebbe sostituito la menzione diretta di Dio con una qualche forma di perifrasi:
per esempio, facendo Dio presente, s ı, ma – alla lettera – in ispirito. Non diversamente, nel Sal 139,7, per significare l’onnipresenza di Iahv e, il salmista
esclamava: «Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire lontano dalla
tua presenza?».
In 2Sam 12,9 il testo masoretico legge: «perch¡e disprezzi la parola di
Iahv e?»; ma l’originale ci e stato conservato dalla traduzione greca dei Settanta, col suo piu diretto «perch¡e disprezzi Iahv e?».9 L’eufemismo e praticamente lo stesso che abbiamo ipotizzato per Gen 1,2. In effetti, e possibile che il nostro passo abbia subito una seconda volta un cambiamento dello
stesso genere: nella Sura di H¤ud del Corano (11,7) leggiamo: « E Lui che
ha creato i cieli e la terra in sei giorni, mentre il suo Trono si trovava sulle
acque». Se il testo non e corrotto, dobbiamo pensare che «Trono» sia stato
sostituito a «Spirito» per evitare quello che poteva essere interpretato come
un riferimento allo Spirito Santo, sgradito a dei monoteisti intransigenti.
C’ e del pathos efficace nell’immagine di Dio che si libra sull’Oceano
primordiale ancora immerso nelle tenebre, apprestandosi a iniziare la propria opera; che questa immagine si trovi all’origine del nostro passo rimane naturalmente un’ipotesi non provata, e tuttavia, credo, non del tutto
improbabile.
Bibliografia
Davies e Allison 1988
W. D. Davies e Dale C. Allison, Jr., A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel According to Saint Matthew (The International
Critical Commentary), 3 vols., Edinburgh, Clark, 1988.
8
Non e impossibile che ci sia una connessione col tema della colomba che vola sulle
Grandi Acque di cui scrive Chiara Peri, 2002: 17.
9
Anche al v. 14 (inserzione di rbd), cfr. McCarter 1986: 59.
Chi si librava sulle acque?
113
Lagarde 1868
Hieronymi Quaestiones Hebraicae in libro Geneseos, e recognitione
Pauli de Lagarde, Lipsiae, Teubner.
McCarter 1986
P. Kyle McCarter, Textual Criticism: Recovering the Text of the Hebrew Bible (Guides to Biblical Scholarship: Old Testament Guides),
Philadelphia, Fortress Press.
Peri 2002
Chiara Peri, «Tra mare e deserto: il viaggio di Giona», Materia Giudaica 7 (2002), pp. 14-23.
Toschi 1980
Augusto Toschi, «Uccelli», in Enciclopedia della scienza e della tecnica, 7ª ed., 15 voll., Milano, Mondadori, vol. XII pp. 504-21.
Troiani 1974
Lucio Troiani, L'opera storiografica di Filone da Byblos (Biblioteca
degli studi classici e orientali, 1), Pisa, Goliardica.
La crisi e la scrittura del passato:
analogie fra Atene e Gerusalemme
Massimo Gargiulo
Abstract
The political crisis produced in Athens and Jerusalem similar cultural reactions:
both tried to strengthen their identity (re)writing their history since the beginning
by the redaction of detailed, but often artificial, genealogies. But also in the wider
project of the so called Deuteronomistic history and its parallel Books of Chronicles
we can find some links with the great Greek historiography of the 5th century, of
which some examples are given.
Con l’intenzione di seguire il tema prescelto per questo incontro, ho voluto prendere in esame una questione che, almeno in parte, ha una storia iniziata molti secoli fa. Cicerone (De legibus 1, 5) defin ı Erodoto pater historiae, affermando cos ı una tradizione che da allora e rimasta ben radicata nella
cultura occidentale. Uno dei colpi che essa sub ı fin dall’antichita le venne nel
momento in cui l’Occidente, prima per le conseguenze prodotte dalle conquiste di Alessandro e poi per l’affermarsi del Cristianesimo, diede inizio alla
sintesi tra la cultura propria e quella giudaico-cristiana che e alla base della
Allora prese l’avvio anche quella particolare rivalita che sembrasua civilta.
va riprodurre l’ideale greco del «primo scopritore», per la quale soprattutto
il mondo giudaico e quello cristiano rivendicavano la maggiore antichita delle proprie istituzioni e tradizioni. Cio metteva evidentemente in gioco anche
la paternita erodotea della storiografia, se era vero che gli scritti biblici vantavano un’eta assai piu veneranda. Per certi aspetti potremmo dire che tale
situazione non sia del tutto risolta: tuttora spesso gli studiosi delle tradizioni veterotestamentarie mostrano una certa diffidenza nell’accostamento con
le grandi opere storiografiche greche. Tuttavia non sono mancati tentativi in
questo senso, dei quali e sufficiente fornire soltanto alcuni esempi.1 Garbini (2001a) ricorda come il termine utilizzato dagli Israeliti del post-esilio per
1
Oltre a questi, da ultimo, J. W. Wesselius 2002.
115
116
Massimo Gargiulo
il
indicare la storia, tol¤edot ‘generazioni’, sia un calco del greco genealogika,
titolo delle opere di Ecateo ed Acusilao; inoltre come il grande disegno storico ebraico che abbracciava le vicende a partire dalla creazione dell’Universo
si inserisse nel quadro della storiografia orientale prodotta in eta ellenistica.
Flemming (1997) ha sostenuto che l’elemento tragico, comune ad Erodoto
ed al Deuteronomista, presuppone un’influenza della tradizione letteraria ellenistica sulla storiografia biblica. Di recente e tornato sull’argomento Marco Nobile (2000), affermando che la storia di grande respiro che va da Genesi a 2Re chiama in causa un criterio storiografico rilevabile in Erodoto:
la narrazione come progetto, carattere assente dalle tradizioni mesopotamiche o ittite. Van Seters (1983, in particolare 51-54) ha evidenziato infine tutta
una serie di elementi comuni. Naturalmente si sono avute prese di posizione
di senso contrario. Momigliano (1979) ad esempio, pur segnalando altrove
(1984) il debito che Daniele ha nei confronti degli storici greci per l’applicazione dello schema quadripartito delle eta alla nozione politica degli imperi
mondiali, ha evidenziato quelle che per lui sono quattro differenze fra storici
biblici e classici per quanto concerne il tempo, e cio e: il fatto che la Bibbia
contenga una narrazione continua dalla creazione del mondo e unico rispetto alle sezioni limitate delle comuni storie classiche;2 gli ebrei non fecero
uso dell’attendibilita per selezionare gli eventi; avevano il dovere religioso
di ricordare il passato; tra storia e profezia vi fu una collaborazione che non
abbiamo invece in Grecia tra storia e filosofia.
Io vorrei proporre alcuni spunti, ciascuno dei quali meriterebbe un diverso approfondimento rispetto a quello che qui si puo fare, sulla possibilita che sussistano tra storiografia greca e storiografia biblica delle analogie, affrontando essenzialmente tre aspetti: l’utilizzo del genere genealogico come
risposta ad un momento di crisi, l’utilizzo delle fonti, l’utilizzo della storia
per fini politici. Credo infatti che, anche qualora non fosse possibile individuare relazioni storiche fra loro, tali analogie possano contribuire a spiegare
fatti interni a ciascuna. Del resto la ricerca di influssi subiti dall’esterno da
parte degli scrittori di storia dell’Antico Testamento, e suggerita dal carattere
unico che il loro prodotto assume all’interno della produzione letteraria del
Vicino Oriente Antico.
Possiamo quindi prendere le mosse dalle genealogie.3 E gia stato notato
da alcuni studiosi (ad es. Garbini 2001a e Nobile 2000) come la loro presen2
3
Questa idea e ripresa da F. Hartog (1997).
Non mi e stato possibile consultare Knoppers 2001.
La crisi e la scrittura del passato
117
za nell’Antico Testamento possa derivare dall’influsso delle omonime opere
greche, del tipo di quelle composte da Ecateo di Mileto. Vorrei procedere oltre su questa strada. Nicolai (1997) ha ribadito come l’opera genealogica di
Ecateo nascesse in un contesto all’interno del quale l’aristocrazia della Ionia
vedeva in pericolo non soltanto il suo predominio, ma la sua stessa identi egli tentava di porre ordine nell’intricato mondo tradizionale da cui ricerta:
cavano una propria legittimazione le aristocrazie. Tra le conseguenze, vi era
che egli non poteva prescindere dal presupposto della storia eroica di cui trattava, «il commercio tra d ei e uomini» (Mazzarino 1965: 77). La genealogia
non aveva cio e un valore erudito, ma poggiava su interessi concreti. Il genealogista migliore era quello che conosceva piu nomi e sapeva chiedersi da dove traessero origine: passava cos ı dai toponimi agli eponimi, dall’etimologia
all’eziologia.4 La vitalita del genere non si esaur ı comunque nella risposta
alla crisi delle aristocrazie. Per quanto cio possa apparire estraneo al nostro
gusto, la ricostruzione genealogica, il dato eziologico, esercitavano fascino
sul pubblico antico. Questo prova la notizia del sofista Ippia di Elide (V sec.)
secondo la quale gli Spartani amavano ascoltare le genealogie e le fondazioni delle citta che egli recitava. La crisi, per quanto concerne la scrittura della
non erano piu soltanto le aristocrazie della Ionia a cerstoria, si trasformo:
care una legittimazione di s¡e. Atene usc ı pesantemente sconfitta dalla guerra
narrata da Tucidide: alla citta del V sec. succede «una citta disfatta ... nostalgica di un passato di grandezza, e molto interessata ad idealizzarlo ... un
passato ad hoc in cui, su una trama gia quasi fissata, ogni oratore apportera qualche modifica in funzione del proprio progetto politico ... Tutti sono alla
ricerca di un’introvabile ‹Costituzione degli antenati›» (Hartog 1997: 975).
Ma non ci si fermava di fronte al fatto che tali documenti fossero introvabili. Era frequente nelle assemblee la citazione di decreti fatti risalire a grandi
personaggi del passato: ebbene, Habicht (1961) ha dimostrato che spesso si
trattava di falsi contemporanei. Si pensi ad esempio al cosiddetto Decreto
di Temistocle, risalente al IV sec. a.C., ma che si pretendeva del 480, o alle tradizioni sulle guerre di indipendenza messeniche, rilette epicamente nel
IV sec. (Hornblower 1996). E il momento in cui diverse citta fissano pubblicamente la propria genealogia, inserendo spesso nell’epigrafe, tutte in una
volta, liste che coprivano l’arco di alcuni secoli precedenti. E chiaramente
il primo passo verso l’affermazione nel IV sec. della storia locale; ad Atene
ogni autore di questo genere riprendeva la storia a partire dal mitico Cecro4
Cfr. Hartog 1997.
118
Massimo Gargiulo
pe: di essa Jacoby (1949: 131-32) ha evidenziato la funzionalita come arma
politica nella lotta fra i partiti. Questo modello sembra avvicinarsi piu di altri
alla storia universale biblica: essa e s ı, come afferma Momigliano vedendo in
cio una differenza rispetto alla storiografia greca, un racconto a partire dalla
creazione, ma e pur sempre limitata al popolo Israele ed alla sua citta Gerusalemme. Quando si considerino le genealogie bibliche, si possono cogliere
non pochi punti di contatto con quanto abbiamo appena detto, sia per le modalita che per gli scopi. L’Antico Testamento ricostruisce il passato piu lontano attraverso lo sviluppo di genealogie con digressioni aneddotiche o folcloristiche (Van Seters 1983: 51), spesso di natura eziologica. Tale passato viene
collegato senza interruzione al periodo propriamente storico attraverso una
solida impalcatura cronologica, di modo che e possibile seguire le vicende
del popolo dal primo uomo, in piena eta di commercio col divino, all’ultimo
re della dinastia davidica. In questo schema risulta evidente l’utilita delle genealogie nel creare una linea continua: il risultato e l’individuazione esatta
del popolo Israele e dei ruoli che ogni sua componente deve svolgere nella
Questo dato svela le finalita di sistematizzazione connesse con tale
comunita.
operazione storiografica e fa pensare al primo grande momento in cui iniziarono ad essere formate le tradizioni bibliche, l’esilio babilonese. Di fronte
alla crisi occorreva dare diverse risposte: innanzitutto un perch¡e, basato sul la rilettura degli eventi trascorsi; quindi una conferma della propria identita,
messa in pericolo dalla conquista; in terzo luogo, passato il rischio dell’estinzione definitiva, la legittimazione del nuovo ordine creato. Dal momento che
diversi momenti simili a quello dell’esilio, seppure verificatisi anche soltanto sul versante interno, occorsero nelle vicende di Giuda, e presumibile che
questo schema di risposte, che assunse per l’esilio babilonese un valore fondante ed archetipico, venisse ripreso ed attualizzato. Nel periodo di permanenza in Babilonia gli intellettuali giudei poterono confrontarsi con le opere
prodotte in Mesopotamia ed iniziare a scrivere un proprio racconto storico:
come nel resto del Vicino Oriente5 le fonti dovevano essere di ambiente palatino e quindi questa prima storiografia di argomento monarchico. Gli eventi
successivi al ritorno posero poi gli esiliati di fronte a nuovi problemi; si disputava su chi fosse il vero Israele, su chi avesse diritto alla proprieta della
terra e su chi dovesse detenere il potere. Le vicende condussero infine all’affermazione del sacerdozio, il quale inizio il lavorio sulle tradizioni per rifondare, dopo la crisi, lo stato e la sua storia, ricreando, come avveniva ad Atene,
5
Da ultimo su questo Abusch 2001.
La crisi e la scrittura del passato
119
un passato ideologizzato. Le genealogie avevano la funzione di riaffermare
l’identita del popolo Israele inserendola in un preciso contesto geografico. Al
contempo esse potevano essere utilizzate nella lotta tra le fazioni: basti pensare alle liste sacerdotali di 1Cr 5-6 che rispondono alla necessita di stabilire
in modo inequivocabile la legittimita della linea aronide nell’amministrazione del Tempio, senza essere in realta una registrazione completa ed autentica
dei sacerdoti del periodo monarchico (Japhet 1993: 151-52). In prima istanza
la genealogia serviva quindi a riaffermare il diritto di chi la componeva, come
per le aristocrazie ioniche. Ne scaturisce lo scarso valore storico: il passato
era idealizzato come avveniva nelle citta greche che inventavano la costituzione degli antenati; allo stesso modo gli autori biblici costruivano la costituzione patria data dall’evolversi storico del rapporto che legava il popolo a
Yhwh. Ricorrevano in questo anche a citazioni di documenti ufficiali inventati: l’«Editto di Ciro» o le «Lettere dei Re», opere letterarie con la pretesa
che conservassero testi ufficiali (Garbini 2001b: 90-91), ripetevano le stesse falsificazioni dell’Editto di Temistocle. L’andamento delle loro genealogie inoltre non impediva che ad esse fosse connesso il gusto per la curiosita narrativa che rendeva il genere gradito anche agli Spartani. Affinita esistono
pure sul piano formale. Si e detto di come il genealogista greco mostrasse
la sua bravura nel saper ricollegare nomi a fatti, personaggi, luoghi, con un
costante interesse eziologico; esso e all’opera anche nella Bibbia, in modo
evidente per i personaggi assurti al rango di eponimi e per i toponimi. Tutte queste somiglianze inducono a porsi la domanda se esse possano risalire
ad un influsso diretto. Van Seters (1983) pensa ad una vasta area di contatti
fra Mediterraneo e Vicino Oriente, attraverso la mediazione fenicia, in forza della quale i Greci stessi poterono attingere alle tradizioni orientali, come
proverebbero diversi temi della poesia esiodea; i Greci poterono altres ı apprendere l’uso delle liste reali. Allo stesso modo Garbini (1986) suggerisce
la mediazione filistea come ponte tra le genealogie greco-anatoliche e quelle
ebraiche. In quest’ottica quindi non avrebbe molto senso parlare di influenza
delle genealogie greche sul fare storico biblico. Ma l’inserimento di questi
schemi genealogici all’interno di corpora storiografici di ampio respiro, o
anche lo sviluppo di questi a partire da dati genealogici, con l’evidente funzione di legittimazione del soggetto storico stesso in risposta ad uno stato di
crisi, fa piuttosto pensare ad un contatto diretto.
Per iniziare la parte relativa all’utilizzo delle fonti, prendero le mosse da
un giudizio di Momigliano (1984b: 22 e 25), secondo il quale per gli autori
120
Massimo Gargiulo
della Bibbia la regola non era registrare versioni differenti di uno stesso avvenimento, contrariamente allo storico greco che riteneva parte del suo lavoro
raccoglierle e classificarle in funzione della loro verosimiglianza.6 In questo
un ruolo essenziale gioco la scrittura, discrimine tra mito e storia, che non
tollerava le discrepanze della tradizione. Proprio la scrittura infatti avrebbe
creato la responsabilita dell’autore (Desideri 1996: 967), il quale si faceva
cos ı in prima persona principio di autorita del testo. Nel momento cio e in
cui Ecateo o Erodoto affermavano di operare un lavoro critico nei confronti
del materiale a loro disposizione, ponevano s¡e stessi e la propria ricerca come garanzia del racconto. Da questo punto di vista sembrerebbe di trovarsi
percio quanto mai lontani da una storiografia come quella biblica che preserva costantemente nell’anonimato la figura dell’autore. A ben guardare pero qui l’ottica e semplicemente spostata: il principio di autorita viene fatto risiedere nel libro in s¡e che, semplicemente in quanto tale, assolve alla funzione
di preservare, con un valore normativo, le tradizioni del passato. Qui si apre
pertanto il problema di come valutare il complesso di tradizioni che compaiono l’una affianco all’altra, a volte contraddicendosi, nella Bibbia. La critica
su questo, in una varieta di formulazioni, ha raggiunto un accordo di massima: la forma finale del testo risale all’opera non di un autore, bens ı di un
redattore (ad es. Van Seters 1983: 41). Questi avrebbe realizzato un’operazione di cucitura di una serie di materiali diversi, molti dei quali assai antichi.
Mi sembra invece che, qualora si tenga a mente lo spostamento del principio
di autorita dallo scrittore allo scritto di cui ho parlato, l’utilizzo delle fonti
da parte degli storici greci possa aiutarci a comprendere quello degli storici biblici. Erodoto (Asheri 1988: XXVII sgg. e XXXIII sgg.) in alcuni casi
cita una o piu fonti, ad esempio: «Questa e la piu degna di fede delle versioni, ma va riferita anche l’altra» (III, 9, 2). In tale procedimento Asheri vede
la mentalita caratteristica di chi ha a che fare con tradizioni prevalentemente
orali: sopravvalutare le fonti scritte equivarrebbe a supporre l’esistenza di altri Erodoti prima di Erodoto ed a considerare la sua opera come un saggio di
compilazione eclettica da biblioteca. Senza entrare qui nel problema dell’ascolto delle fonti orali da parte dello storico, mi sembra molto interessante la
seconda parte del giudizio di Asheri: il fatto che un’opera preservi l’una accanto all’altra versioni differenti di un fatto non implica che essa non possa
risalire ad un autore. Cio e, e questo e un dato ben messo in evidenza recentemente da Catastini (2001), nessuno chiamerebbe Erodoto redattore, come
6
Si veda anche Hartog 1997.
La crisi e la scrittura del passato
121
e invece indicato lo storico biblico, per il semplice fatto che egli registra piu versioni relative ad un medesimo dato. La vera differenza e che lo storico gre essendo lui che da autorita al
co, scrivendo in prima persona, da conto di cio,
proprio testo; nella Bibbia e autorevole il testo in s¡e e non c’ e quindi spazio
per un autore che dica: «Di David gli uni dicono che fosse un suonatore di
cetra, gli altri che fosse un pastore». Questa analogia, se difficilmente ci consente di individuare un’influenza diretta della storiografia greca, ci permette
tuttavia di offrire un argomento in piu ad una tesi che fra gli studiosi italiani
si va ormai affermando (per la prima volta Sacchi 1987; vd. anche Garbini
2001a e Catastini 2001): l’esistenza di un autore che compose l’opera continua da Genesi a 2Re; il modello erodoteo di giustapposizione di piu versioni
puo aiutare a superare lo stallo prodotto negli studi biblici dalla critica delle
fonti. Riguardo ad esse vi sono del resto altri elementi di affinita con Erodoto:
spesso quelle da lui citate sono fittizie; ebbene, Garbini ha dimostrato (1981)
che le fonti citate nei libri biblici non corrispondevano a quelle che avevano
a disposizione effettivamente gli autori. Allo stesso modo Erodoto in alcuni
casi utilizza come fonti anche elementi tipici della tradizione orale, come i
proverbi, ed attorno ad essi costruisce delle storie; di nuovo e un procedimento storiografico di cui troviamo degli esempi anche nell’Antico Testamento,
come provano gli episodi della vita del re Saul che ruotano attorno al famoso
detto: « E anche Saul fra i profeti?».
L’ultima riflessione deve partire da una caratteristica della storiografia biblica che in piu di un caso ha indotto gli studiosi a guardare al modello greco;
la narrazione veterotestamentaria e piu lunga ed articolata di qualsiasi altro
testo del Vicino Oriente e, al di la delle discrepanze di cui si e detto, permette
di cogliere una ratio unitaria che ha guidato la sua composizione fornendo
una chiave interpretativa dei fatti presentati come storici. Per il complesso
che va da Genesi a 2Re tale filo conduttore consiste essenzialmente nel rapporto di fedelta osservata o tradita nei confronti del dio nazionale Yhwh. A
me sembra pero che una lettura meramente teologica non renda giustizia all’ideologia complessiva dello storico biblico. La sua opera tratta il proprio
soggetto principale, Israele, non semplicemente come ente morale, ma anche
come ente politico. Ne segue infatti tutte le tappe istituzionali dal clan familiare allo stato monarchico esercitando su questo aspetto una critica serrata.
La forma politica prescelta dal popolo ha rilevanza sulla sua sorte storica,
poich¡e da essa dipende anche la relazione stabilita con Yhwh. Esemplare e in
questo la durissima critica della scelta della monarchia in 1Sam 8 (per il qua-
122
Massimo Gargiulo
le Dinkelaker 1998 suggerisce un influsso di Platone): scegliere un re terreno
vuol dire rifiutare la regalita divina e pagarne tutte le conseguenze (contra,
ad es., Sacchi 1987, secondo il quale la condanna riguarda il solo Saul). Ma
proprio il momento dell’instaurazione monarchica mostra come anche altre
forme istituzionali nascondessero vizi: Israele decide di farsi un re perch¡e l’istituto della giudicatura si e ormai corrotto ed e giunto il momento di guardare alle altre nazioni; si vede qui il ruolo del popolo quale massa poco lungimirante in ambito politico e soprattutto incontrollabile, come mostreranno le
occasioni in cui pecchera Saul (il quale, sia detto per inciso, ripete in modo
identico la morte dell’eroe greco Aiace). L’idea che l’autore pare avanzare
e che gli ordinamenti umani, dalla giudicatura alla monarchia, passando per
il rischio connesso alle masse popolari, siano tutti destinati a fallire. Persino
David, modello dei re futuri, fa chiedere al lettore come potesse essere figura esemplare un capo assassino e traditore. La soluzione implicita era la teocrazia, realizzabile sulla terra evidentemente soltanto attraverso un regime
ierocratico. Una visione politica cos ı critica ed avanzata costituisce un tratto
piuttosto unico nel Vicino Oriente, ove la storiografia era il piu delle volte
la voce di propaganda del potere. Essa richiama piuttosto la riflessione filosofica greca, tesa, fino a quando le condizioni storiche favorirono una simile
indagine, allo studio delle diverse forme costituzionali ed all’individuazione
della migliore fra di esse. Questo dibattito non rimase confinato ai filosofi:
Erodoto nel libro III (80-82) riferisce il dialogo avvenuto alla corte persiana
tra i cospiratori sostenitori rispettivamente della monarchia, dell’oligarchia
e della democrazia. Le parole di Otane contro la monarchia trovano paralleli interessanti nella Bibbia: egli afferma che la colpa piu grave del re (80,
5) e che sovverte le usanze patrie, violenta le donne e manda a morte senza giudizio; in Deut 17,14-17, un testo che gli studiosi ricollegano a quello
citato dell’istituzione della monarchia, 1Sam 8, e detto che il re non dovra essere uno straniero e che, oltre ai cavalli, non dovra avere troppe donne. Un
re cio e vicino a quello che sovverte i costumi patri e violenta le donne del
brano erodoteo.7 Si puo pensare di essere di fronte a motivi comuni di polemica contro il potere, presenti nei circoli profetici israelitici gia prima della
riflessione greca. Ma di nuovo mi sembra che vi sia di piu che una semplice affinita tematica. Nella Bibbia non c’ e una generica condanna della mo7
Quando poi Otane, messo in minoranza, si arrende alla necessita di un re, elenca tra le
possibili modalita di scelta l’estrazione a sorte o la designazione da parte della moltitudine;
modalita che ricordano quelle compresenti nell’elezione di Saul.
La crisi e la scrittura del passato
123
narchia, ma la storicizzazione del confronto critico tra le diverse possibilita di ordinamento istituzionale con la riflessione sulla loro degenerazione: essa
non credo possa prescindere dal dibattito politico-filosofico greco, espresso
in piu di un genere letterario.
Per terminare, possiamo tornare al quesito iniziale sulla paternita del fare storiografico. Sembra di poter concludere che e condivisibile il giudizio
secondo il quale i Greci non inventarono la storia, ma lo storico che da conto
in prima persona degli eventi narrati nella sua opera. Quanto alla Bibbia, il
suo primato e forse l’invenzione dello storico nascosto, il creatore anonimo
di un’opera volutamente presentata come nata e legittimata in s¡e stessa.
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Sul culto di Demetra nella Sardegna punica
Giuseppe Garbati
Abstract
The diffusion of cults addressed to the earth fertility represents one of the most
distinctive aspects of the Sardinian rural landscape during the Hellenistic Age. Between the 4th and the 2nd century BCE, the hinterland of the greatest cities is characterized by a lot of small sanctuaries, generally constituted by sacred sources, little
roofless buildings, often planned over nuragic installations and deprived of any architectural structures of monumental relief. The presence of these sacred areas is
often pointed out by the distribution of the so-called favissae, around which the local religious life had to rotate considering the quantities, usually abundant, of terracotta offerings (anatomical ex voto, figurines of deities, the so-called “suffering
believers”, thymiateria etc.).
The introduction of such devotional aspects in Sardinia has been postponed to
the Carthaginian influence and, specifically, to the episode that, according to Diodorus Siculus, saw the institutional affirmation of Demetra’s cult in the Punic metropolis, after the destruction of the temple of Syracuse. After the event, that chronologically coincides, or maybe precedes, the most important period of the Carthaginian’s expansion in the island, the cult of Demetra would have followed the grain exploitation of the region. Nevertheless, even though the archaeological data seem to
confirm, at least partly, a similar origin, the interpretation of the morphology of the
cults themselves is really difficult as well as the possible identification of Demetra
with Punic deities.
Besides, one of the most characteristic aspect, historically opposed to Diodorus’
tale, is the popular quality of this type of cults in the island. They were planned in
the rural territory and practiced in areas frequented by the communities of the countryside: probably, according to these data, the cult’s organization was not administrated by the state and by the public and official institutions. Another aspect, that
sets difficulty of interpretation, is the chronological definition of the phenomenon.
Actually it seems to be planned on historical situations matured before the 4th century: the diffusion of Demetra’s cult could be preceded by the diffusion of terracotta
productions, since the 5th century, inspired to the Greek craftsmanship of Sicily.
Il paesaggio rurale della Sardegna di eta ellenistica e in gran parte segnato dalla presenza di piccole aree sacre, distribuite nell’hinterland dei centri
maggiori e diffuse in misura tale da divenire, tra il IV e il II secolo a.C., distintive della morfologia del territorio (Barreca 1986; Cecchini 1969; Tore
127
128
Giuseppe Garbati
1989; Campus 1997; Pirredda 1994; Moscati 1993; Garbati in corso di stampa). Si tratta di decine di luoghi di culto che, di norma, sono costituiti da sacelli di piccole dimensioni, spesso a cielo aperto o impostati su precedenti
insediamenti nuragici, privi di strutture architettoniche monumentali (Pirredda 1994). Non di rado, queste aree sacre sembrano ruotare principalmente,
se non esclusivamente, attorno a fosse votive, contenenti depositi di offerte
composti da ingenti quantita di materiale fittile.1 Del tutto assente in merito
e invece la documentazione epigrafica.
L’analisi tipologica e iconografica dei votivi (ex voto anatomici, statuette
di fedeli, figurine di divinita femminili etc.) ha piu volte portato ad assegnare
l’indirizzo cultuale dei complessi, e del loro ambiente di attestazione, a un
ambito religioso piuttosto ampio, ricondotto a una fondamentale religiosita comune legata alla fertilita e alla guarigione.2 Per taluni siti, in particolare,
l’abbondante presenza di alcune categorie di terrecotte, rimandate tradizionalmente all’iconografia delle Cereri (divinita con kalathos e collana di semi,
dea con porcellino, kourotrophoi, thymiateria a testa di kernophoroi), ha suggerito l’attribuzione del culto a Demetra e Kore. Gli esempi piu significativi
in questo senso sono il santuario rinvenuto a Terreseu di Narcao, presso Carbonia (Barreca 1983: 289-300; Barreca 1984; Moscati e Uberti 1990; Moscati 1993: 77-82) e il nuraghe Lugherras nelle vicinanze di Oristano (Taramelli
1910; Regoli 1991; Moscati 1993: 37-45), cui si aggiungono le attestazioni di
Genna Maria di Villanovaforru (Sardegna interna meridionale) (Lilliu 1988
e 1990) e quelle di eta tardo-repubblicana di S. Margherita di Pula (Cagliari)
(Pesce 1974).3
Storicamente, le ragioni di tale attribuzione sono state rimandate all’introduzione del culto in ambiente nord-africano, avvenuta secondo Diodoro
Siculo dopo il 396 a.C. (Diod. Sic. XIV, 77, 4-5):4 in base a quanto riporta lo storico greco, l’episodio avrebbe trovato i presupposti nella distruzione
1
Un esempio dell’articolazione e della quantita delle offerte e testimoniato dal deposito
di Padria (Campus 1994).
2
Sul particolare significato degli ex voto anatomici e sui c.d. «fedeli sofferenti» si
vedano Campus 2001 e Garbati in corso di stampa.
3
In questa sede si fara maggiore riferimento ai siti di Narcao e di Lugherras, poich¡e la
quantita e la qualita dei dati archeologici consentono di ipotizzare, con buona approssimazione, l’indirizzo demetriaco del culto locale (soprattutto nel primo caso). Per gli altri piccoli
siti, indicati in diverse opere d’insieme (Tore 1989; Cecchini 1969; Barreca 1986; Pirredda
1994), le notizie rimangono parziali, tali da non poter suggerire interpretazioni sulle divinita titolari.
4
Sulla questione si veda il contributo di C. Peri in questi Atti.
Sul culto di Demetra nella Sardegna punica
129
del tempio siracusano ad opera del generale Imilcone e il culto, a sua volta,
sarebbe stato introdotto ufficialmente come espiazione del sacrilegio e organizzato secondo rituali greci gestiti da sacerdoti ellenici residenti in loco, in
parte coadiuvati dall’aristocrazia locale (Xella 1969).5 La fortuna di cui il
culto godette a Cartagine, e nel territorio controllato dalla citta punica (Lipi¡nski 1995: 374-80; Pena 1996), sarebbe dunque una delle cause della sua
conseguente diffusione in Sardegna.
Ma se la documentazione archeologica insulare sembra riallacciarsi alla
notizia diodorea, almeno nei suoi tratti generali, piu difficile e l’individuazione delle modalita di accoglimento e dei vettori di diffusione del culto delle Cereri in ambiente sardo e, con essa, rimane a tutt’oggi problematica la
comprensione degli aspetti morfologici della venerazione, nonch¡e della sua
eventuale sovrapposizione a forme religiose preesistenti.
I piccoli sacelli di Sardegna appartengono, com’ e noto, a un orizzonte
sociale che vede protagoniste le comunita rurali dell’isola. Gia S. Pirredda, in
un contributo del 1994, notava che «la poverta di queste aree sacre ... sembra
riflettere le condizioni di vita, non solo economiche ma anche culturali, dei
contadini ‘sardi’» (Pirredda 1994: 853), divenuti, con la conquista punica,
manodopera addetta alla produzione cerealicola intensiva. La religiosita cui
i luoghi di culto appartengono sembra quindi di matrice popolare e contadina
nella fattispecie. Del resto, la loro stessa posizione, la mancanza di strutture
edilizie di una certa consistenza e l’assenza di espressioni cultuali analoghe
di ambiente pubblico cittadino sembrano confermare il prevalente orizzonte
popolare della religiosita di questi siti, rispondente alle esigenze di gruppi
che trovano nell’economia agraria, specificamente cerealicola, la loro forma
di sussistenza e la loro dimensione sociale all’interno dello stato territoriale
cartaginese.
La questione trova conferma nella tipologia delle terrecotte. In linea di
massima, i complessi appartengono al c.d. filone ‘popolare’ dell’artigianato
punico e tardo-punico e, in alcuni casi, le produzioni presentano adattamenti
ed evoluzioni provinciali (nonostante, all’interno dei complessi, siano a volte
5
Secondo E. Lipi¡nski, il dato sarebbe comprovato dalla lettura di due epigrafi nordafricane: la prima interpretata come relativa al sacerdozio di Kore (CIS I, 5987, 1; BenichouSafar 1982: 216-17 n. 49, fig. 97; Lipi¡nski 1995: 374; F¡evrier 1957) e la seconda come una
dedica a Demetra e Kore (Lipi¡nski 1995: 375; CIS I, 177 = KAI 83). Sempre secondo Lipi¡nski, anche in una terza iscrizione sarebbe stato utilizzato il nome delle Cereri (= ‘BDKRR:
«servitore delle Cereri»; Lipi¡nski 1995: 379). Per una diversa interpretazione cf. Xella 1984.
130
Giuseppe Garbati
attestati prodotti di fattura ‘colta’) (Campus 1997; Moscati 1993). Una delle
categorie fittili piu esemplificative in questo senso, e che meglio definisce tali
luoghi sacri in termini demetriaci, e quella dei thymiateria a testa femminile,
originariamente usati per bruciare aromi durante la celebrazione dei rituali
(Bisi 1990; Regoli 1991: 73-83; Pena 1990, 1991 e 2000; Cherif 1991: 74143).
D’ispirazione siceliota, questi oggetti sembrano perdere, in molti esemplari nord-africani e sardi, la loro funzione originale. Dei 731 manufatti restituiti dal nuraghe Lugherras, per esempio, meno di una decina presenta tracce
di combustione (Regoli 1991: 80-83); inoltre i forellini di aerazione, fondamentali per la funzione dell’oggetto, non sono presenti su tutti i reperti, il
che indica che gia dalle fasi di fabbricazione una parte della produzione non
viene destinata a svolgere le sue funzioni proprie. E il caso, per esempio del
tipo VII della classificazione elaborata da P. Regoli per Lugherras, nel quale
risulta evidente l’evoluzione dai prototipi anche nella totale assenza dei fori
di aerazione, esito forse della scelta di botteghe artigiane che producono simili manufatti con destinazione santuariale di tipo essenzialmente votivo e
‘popolare’ (Regoli 1991: 68-71).
Sempre in ambito punico, inoltre, l’uso dei bruciaprofumi e spesso documentato in contesti alquanto diversificati; e attestato, infatti, nelle necropoli (Cartagine-Odeon; Lilibeo), in quartieri residenziali (Cartagine-Byrsa;
Rosas-Gerona; El Castel) e in contesti sacri di varia destinazione (Cartagine) (Pena 1991 e 2000; Regoli 1991: 56-71 con bibliografia). Il thymiaterion,
pertanto, sembra ricoprire spesso il valore generico di offerta, rimandabile a
un ambito cultuale privato: la sua pertinenza alla religiosita popolare (ma il
discorso potrebbe essere allargato anche a gran parte delle statuette di divinita femminile e alla produzione votiva fittile in genere) si concretizza nell’utilizzo dell’oggetto come voto personale, non rispondente costantemente
alla sua funzione specifica e al suo legame con i rituali demetriaci.6
La situazione trova precisi confronti in Nord-Africa: poco piu del dieci
per cento dei circa 200 thymiateria tunisini e segnato da tracce di bruciato,
alcune delle quali rilevate su bruciaprofumi di contesto abitativo e funerario
e, quindi, non rapportabili direttamente, almeno dal punto di vista pubblico,
alla venerazione delle Cereri (Cherif 1997, 1991 e 1992-1993).7 Sulla natura
6
Sul problema dell’attribuzione dei bruciaprofumi, con funzione votiva, ad alcune divinita del mondo punico si vedano Ruiz de Ambulo 1994, Pena 2000 e Niveau de Villedary y
Mari£nas e C¡ordoba Alonso 2003 (in corso di stampa).
7
Una questione analoga e stata evidenziata anche per i thymiateria di contesto iberico
Sul culto di Demetra nella Sardegna punica
131
dei luoghi di culto nord-africani, invece, si puo dire ben poco. Come per la
Sardegna, alcune notizie fanno riferimento a santuari rurali (Korba, Soliman)
(Picard 1982-1983 e 1955; Cintas 1949-1950)8 o disposti in posizione periferica rispetto al centro urbano; del tempio piu noto, rilevato a Cartagine, le
pubblicazioni riportano che l’area doveva essere dislocata in periferia (nelle
vicinanze di Sidi Bou Said), prossima al mare e caratterizzata dalla presenza
di un deposito votivo composto da terrecotte affini a quelle delle piccole aree
sacre di Sardegna (A. L. Delattre 1923a e 1923b; P. Delattre 1899; Cintas
1922; Fantar 1986: 356; Picard e Picard 1968: 147; Picard 1956: 44).
Dal lato cronologico, la datazione a partire dal IV secolo di gran parte
della produzione fittile sarda e nord-africana, legata nell’iconografia al culto di Demetra, sembra concordare con la notizia diodorea relativa all’episodio del 396 a.C.: la fioritura delle terrecotte andrebbe quindi a legarsi a una
riforma o a un’innovazione religiosa.
Tuttavia l’affermazione dell’apporto ellenico sull’artigianato punico, segnato in parte proprio dalla produzione di statuette ispirate ai modelli sicelioti, ha i suoi presupposti gia nel secolo precedente (se non nel VI), come
dimostrano ampiamente i rinvenimenti di Mozia (ma anche di Cartagine e di
vari siti della Sardegna) (Bisi 1966, 1968a e 1968b). In merito, A. M. Bisi ha giustamente suggerito che «le botteghe artigiane sorte in prossimita dei grandi santuari sicelioti ... esercitano un’influenza profonda, sin dal VI
sec. a.C., sulla contemporanea produzione delle colonie fenicie della Sicilia nord-occidentale», tanto che «si ha ... motivo di ritenere che a Cartagine
e in Sardegna gli stessi tipi coroplastici giungano per il tramite della Sicilia
fenicia» (Bisi 1990: 19). Ne sono testimonianza alcune figurine moziesi a
stampo di dea con kalathos e di dea con collana di semi di derivazione gelooagrigentina e diversi busti femminili con velo e trecce ricadenti sulle spalle
di fabbrica agrigentina (Bisi 1990: 20); la questione e attestata anche a Palermo, le cui necropoli hanno restituito, in particolare, kourotrophoi ammantate
di fine VI - inizi V secolo con bambino stretto al petto che si appoggia alla
spalla sinistra (Bisi 1990: 20; Tamburello 1979).
(Pena 2000).
8
Specifichiamo, tuttavia, che i santuari di Korba e di Soliman fanno capo a un periodo
piu recente di quello suggerito per Narcao, Lugherras etc. (inizio I sec. d.C.), anche se le statue
ivi rinvenute riproducono modelli di V e IV secolo a.C. e fanno ipotizzare una continuita di
culto almeno dall’eta ellenistica (cf. Lipi¡nski 1995: 376).
132
Giuseppe Garbati
Dalla Sicilia, dunque, quest’apporto si diffonde nel resto del mondo punico in parte direttamente, ma in larga misura tramite la mediazione di Cartagine attraverso il commercio di originali greci e di matrici e lo sviluppo
di una produzione locale (Moscati 1993: 17-45): in Sardegna il fenomeno
interessa, per esempio, la coroplastica di Tharros, nella quale si affermano
la dea stante con kalathos, la dea con kalathos e braccia aperte, la dea assisa in trono e la dea con collana di semi ( e da notare che la dea con braccia
aperte, schematizzata in sagoma cruciforme, sara poi distintiva del tempio
di Demetra rinvenuto a Narcao) (Moscati 1993: 27-36; Acquaro, Moscati e
Uberti 1975; Moscati e Uberti 1987).
L’abbondanza nel territorio sardo, dal IV secolo, delle kourotrophoi e dei
thymiateria, piu o meno rispondenti alle tipologie di derivazione mediate da
Cartagine, avrebbe trovato antecedenti, quindi, nelle produzioni fittili di VIV secolo ispirate all’artigianato greco-siceliota; in questo senso, la diffusione del culto di Demetra, da esse veicolato, potrebbe aver poggiato su forme
devozionali gia in essere o, comunque, su un ambiente nel quale l’apporto
greco, culturale e artistico, non doveva essere certo una novita nel generale
quadro del tempo.9
In merito alle vie e ai vettori di diffusione del culto in Sardegna, la documentazione archeologica sembra impostarsi su una direzione opposta a
quanto tramandato dalla notizia di Diodoro per Cartagine. L’orientamento
popolare delle produzioni fittili e la natura rurale e contadina delle aree sacre, nonch¡e della devozione in esse praticata, sono difficilmente rimandabili
a decisioni formulate in ambienti istituzionali, come registrato da Diodoro
per Cartagine stessa a seguito dell’episodio del 396 (e come attestato in Sar 10 E possibile, piuttosto, che il fenomeno vada atdegna per altre divinita).
9
Attualmente e piuttosto difficile poter comprendere in quale misura, e secondo qua le statuette fittili, adottate in ambiente punico di questa fase, abbiano risposto
li modalita,
a concezioni religiose locali; la loro diffusione nel tofet di Mozia, per esempio – come indicato dalla Bisi – potrebbe dipendere dall’uso delle stesse come raffigurazioni di divinita fenicio-puniche, quali Astarte prima e Tanit poi (Bisi 1990: 35); problema che del resto si
pone anche per la documentazione sarda e per l’eventuale sovrapposizione e interpretazione
Tanit-Demetra, tutt’ora estremamente problematica anche per siti come Lugherras (Regoli
1991: 73-83; sul problema si veda anche Ch¡erif 1991: 743 e bibliografia alla n. 30). D’altra
parte nulla esclude che, per lo meno inizialmente, la loro funzione sia stata piu generica, forse
finalizzata all’espressione di forme religiose legate alla protezione della prole e della famiglia
(aspetto, del resto, coerente con quanto oggi noto sul tofet).
10
Un esempio piuttosto emblematico e il culto di Sid in Sardegna, la cui affermazione
Sul culto di Demetra nella Sardegna punica
133
tribuito alla religiosita dei diretti fruitori, le comunita contadine insulari, in
parte provenienti dal Nord-Africa.
E noto, infatti, che la coltura cerealicola rappresenta uno degli obiettivi
primari della politica cartaginese in Sardegna (da ultimo Bartoloni, Bond ı e
Moscati 1997: 73-92). I metodi di applicazione di simili finalita si esplicano
anche attraverso lo spostamento di gruppi di popolazione nord-africana nel
territorio insulare e, se il fenomeno raggiunge il periodo di massima espansione nel IV-III secolo, la presenza di coloni punici e gia documentata un
secolo prima, anche grazie ad alcune tipologie tombali della necropoli del
Tuvixeddu (Cagliari), che richiamano strutture analoghe di ambiente nordafricano (Bartoloni, Bond ı e Moscati 1997: 81; Taramelli 1912). La cospicua presenza in Sardegna, da questo momento, delle comunita di genti nordafricane, potrebbe quindi legarsi alla prima fase di diffusione commerciale
delle terrecotte della divinita femminile ispirate ai modelli sicelioti (mediati
da Cartagine stessa) e sarebbe ulteriore indizio della formazione, gia dal V
secolo, di un ambiente favorevole all’accoglimento di culti agrari e fertilistici
di matrice greco-siceliota.
Dal IV secolo, l’impegno cartaginese si fa poi capillare; e in questa fase
che «la penetrazione raggiunge il suo massimo sviluppo geografico» (Bartoloni, Bond ı e Moscati 1997: 75), come e testimoniato dalla fioritura di centri
di nuova fondazione, dalla rivitalizzazione e dalla crescita di insediamenti fenici inizialmente penalizzati dall’intervento cartaginese e dalla costituzione
di robuste fortificazioni nei grandi abitati «primari» della presenza fenicia
(Bartoloni, Bond ı e Moscati 1997: 75). Nel territorio rurale, l’incidenza dell’occupazione punica e ben documentata, fra gli altri, dal santuario di Mitza
Salamu, pur non legato direttamente alla venerazione delle Cereri, che domina la parte inferiore del Campidano: «I reperti votivi paiono rivisitazioni
ampiamente libere e distanti di originali punici di IV secolo a.C., a loro volta mediati da ambiente greco di Sicilia» (Bartoloni, Bond ı e Moscati 1997:
85; Salvi 1990; Moscati 1991). Contemporaneamente, fiorisce la produzione di terrecotte d’ispirazione greca, che trova nei manufatti di Tharros e nei
thymiateria di Lugherras gli esempi piu significativi dell’affermata influenza
ellenica nell’isola (Moscati 1993: 27-45).
Naturalmente i vettori di diffusione delle produzioni fittili non necessariamente devono coincidere con i vettori di popolamento del territorio sardo
sembra dipendere da scelte e riforme sacerdotali che seguono la prima occupazione punica
dell’isola (AA.VV. 1969; Grottanelli 1973; Garbati 1999).
134
Giuseppe Garbati
da parte di genti nord-africane, essendo legati i primi a vie mercantili che
trovano in Tharros, appunto, il principale centro di svincolo e redistribuzione dei manufatti nell’isola (Moscati 1993: 27-45; Regoli 1991: 73-83); tuttavia e possibile che l’affermazione, in maniera consistente, di nuove forme
religiose legate alla fertilita della terra, abbia seguito il fenomeno di popolamento e il conseguente sfruttamento agrario del territorio e abbia trovato
nelle terrecotte stesse la sua forma piu immediata di espressione artigianale,
ispirandosi all’ambiente cartaginese di provenienza e a quello siceliota d’origine, e impostandosi inoltre su un terreno favorevole, come quello che si era
venuto a creare nel V secolo. L’interesse allo sfruttamento intensivo delle risorse agrarie di Sardegna e la parallela produzione fittile locale, orientata alla
fruizione popolare dei manufatti, potrebbero, pertanto, costituire lo sfondo
socio-economico della distribuzione delle piccole aree sacre rurali, legate al
culto delle Cereri (o piu genericamente ad aspetti devozionali di tipo agrario
e fertilistico) e frequentate in primis da comunita contadine punico-libiche e
indigene.11 Il dato, del resto, appare del tutto coerente con le osservazioni di
P. Xella, secondo le quali fu il legame di Demetra e Kore con l’agricoltura
che «ne favor ı il trapianto nel suolo punico ... ; in Demeter si vide soprattutto la divinita indulgente che svela agli uomini la ricchezza e gli strumenti
per ottenerla [l’agricoltura]» (Xella 1969: 225); questione che richiama, a
sua volta, il carattere popolare e agrario dei rituali siracusani (Xella 1969:
223; cf. Diod. Sic. V, 4-5) da una parte e la politica economica cartaginese
dall’altra.
Per quanto riguarda la morfologia dei rituali, qualche indizio e rintracciabile nella documentazione del santuario di Narcao. All’interno di un vano,
incastrato nell’angolo nord-ovest del sacello, e stato rilevato, sotto le macerie
del crollo del tetto, un altare di pietre circondato da ex voto fittili e coperto
da ceneri e ossa combuste di suini. Nello stesso vano, al di sotto dell’altare,
era custodito un deposito contenuto in una sorta di cassetta quadrangolare e
11
La possibile matrice popolare e nord-africana dell’affermazione del culto di Demetra in
la possibilita di un’azione culturale diretta dalla Sicilia. La ben
Sardegna non esclude, pero,
nota partecipazione di genti sarde in alcune spedizioni militari condotte da Cartagine nell’isola (per esempio Diod. Sic. XI, 20, 4; XIV, 63, 4 e XIV, 95; Erod. VII, 165) potrebbe, infatti, essere letta in questi termini, fermo restando il carattere primario della mediazione svolta
dalla maggiore colonia punica. Inoltre la frequentazione delle piccole aree sacre di Sardegna,
nonch¡e il loro legame con culti di indirizzo fertilistico, prosegue anche in eta romana, senza
soluzioni di continuita o cesure documentabili (Pirredda 1994; Vismara 1980).
Sul culto di Demetra nella Sardegna punica
135
costituito da una statuetta femminile stante, circondata da urnette con resti di
sacrificio, bruciaprofumi e una lucerna a quattro becchi (Barreca 1983: 229).
La disposizione dei materiali sembra ricordare situazioni analoghe attestate in alcuni piccoli thesmophoria della Sicilia greca e, nella fattispecie,
quelli di Bitalemi (Gela) e di Sant’Anna di Agrigento (Orlandini 1968-1969
e 1966). I due luoghi di culto, oltre a essere accomunati dalla posizione di re nelle vicinanze di foci di fiumi (sorgono
lativo isolamento rispetto alla citta,
su collinette sabbiose e argillose a poca distanza dal mare), hanno restituito
attestazioni del sacrifico di porcellini e della sepoltura degli ex voto e dei pasti rituali. A Sant’Anna, in particolare, gli oggetti erano raccolti dentro cerchi
di pietre, simili a piccoli bothroi, mentre a Bitalemi erano collocati direttamente nella sabbia a diverse profondita e fermati con frammenti di ceramica
(Orlandini 1968-1969 e 1966). La particolare dislocazione degli ex voto e dei
resti di suini incontrata a Narcao potrebbe dipendere, quindi, dall’espressione del carattere ctonio di Demetra, tramite l’offerta di sacrifici ed ex voto in
piccoli ambienti nascosti alla vista, secondo modalita affini a quelle siceliote.
Gran parte delle piccole aree sacre della Sardegna di IV-II secolo, inoltre,
si impostano su piu antichi insediamenti nuragici, nelle immediate vicinanze di pozzi di acqua sorgiva; carattere che trova il suo principale riscontro
di nuovo a Narcao. In piu di un’occasione e stato proposto che tale sovrapposizione sia dipesa da una continuita d’uso sottesa a una continuita cultuale, tanto da postulare la venerazione di una divinita nuragica della natura feconda, interpretata poi come Demetra (Barreca 1983: 299). Le testimonianze
archeologiche, tuttavia, non confermano a tutt’oggi la diffusione di culti di
indirizzo agrario in eta nuragica; esse, piuttosto, «vanno nel senso di una religione legata a culti connessi all’acqua» (Pirredda 1994: 838; Lilliu 1988).
Per l’eta ellenistica la tradizione e ancora documentata, per esempio, a Monte Ruju di Thiesi (Madau 1997) e a Santu Giolzi di Romana (Sanciu 1997),
i cui depositi votivi presentano tracce evidenti di immersione prolungata e,
per la tipologia delle terrecotte, possono essere difficilmente interpretati come insiemi di offerte di tipo specificamente fertilistico. A un orizzonte analogo appartengono anche i depositi di Linna Pertunta - S. Andea Frius (Salvi
1990) e di Mitza Salamu - Dolianova, come del resto testimonia il toponimo
136
Giuseppe Garbati
di quest’ultima (Mitza = sorgente; Barreca 1986: 325; Cecchini 1969: 113;
Tore 1989: 48; Moscati 1991).
In alcuni casi (Narcao), il diffuso riutilizzo in eta punica di strutture piu antiche, vicine a sorgenti, potrebbe dipendere, quindi, dalla natura sotterranea dei pozzi di acqua sorgiva, richiamando ancora il carattere ctonio di Demetra (ben nota e la collocazione del tempio di Siracusa nei pressi di una fonte, come anche i tre piccoli tesmophoria prima richiamati sorgevano vicino a
corsi d’acqua): nella Sardegna ellenistica il mantenimento in certe aree sacre
di aspetti devozionali legati alle acque avrebbe assunto un indirizzo demetriaco, adattando forme religiose preesistenti alle nuove prospettive cultuali
di stampo prevalentemente popolare.
Secondo i dati raccolti, l’introduzione ufficiale del culto delle Cereri a
Cartagine potrebbe essersi innestata su un panorama culturale, quello della
seconda meta del V secolo, ben disposto nei confronti di rinnovate forme di
devozione, specie se provenienti dal mondo greco, come attestano le produzioni fittili di ispirazione siceliota gia dal VI-V secolo. La notizia di Diodoro,
quindi, potrebbe essere interpretata non gia nei termini di un’introduzione
ex novo del culto di Demetra, ma nel senso della sua ufficializzazione (forse
seguita da un episodio specifico) e della conseguente diffusione di un fenomeno gia esistente o in fieri o, comunque, installato su un contesto aperto e
favorevole.
non sembra riflettersi
La scelta istituzionale tramandata dalle fonti, pero,
a livello formale sulle espressioni piu diffuse in Nord-Africa e in Sardegna
del culto stesso. Nelle aree sacre dell’isola, in particolare, la tipologia dei
votivi (thymiateria ma anche kourotrophoi, divinita con collana di semi, divinita con porcellino etc.) indirizza la religiosita locale verso l’ambito privato, a discapito dell’attestazione di un’eventuale organizzazione pubblica del
culto; quella che prevale risulta cio e la devozione popolare, di cui i principali referenti sono le comunita contadine nord-africane e sarde, tanto da poter
attribuire alle prime l’importazione delle nuove forme religiose nel territorio, in accordo con la morfologia essenzialmente agraria delle pratiche rituali (contro l’escatologia eleusina: Xella 1969). Il riutilizzo privilegiato di
antichi contesti nuragici, forse riadattati in relazione alle nuove credenze religiose, sembra confermare, inoltre, questa accezione del culto: la loro posizione, il richiamo piu o meno consapevole a tradizioni religiose piu antiche,
la probabile ‘rilettura’ dei luoghi stessi e la loro frequentazione da parte delle
comunita rurali colloca gli aspetti devozionali di questi santuari in una pro-
Sul culto di Demetra nella Sardegna punica
137
spettiva inversa rispetto a quella della religione cittadina (o anche di quella
extraurbana controllata dal centro amministrativo).12
E proprio l’aspetto popolare del culto, del resto, che rende difficoltosa la
possibilita di riconoscere eventuali fenomeni di identificazione, anche parziali, delle Cereri con divinita del pantheon punico: la mancanza di dati epigrafici e la ripetitivita delle iconografie mediate dalle terrecotte, diffuse con
poche variazioni, non consentono di comprendere se, e in quale misura, le
comunita punico-libiche e indigene abbiano fatto riferimento specifico a Demetra e Kore o abbiano utilizzato alcuni loro caratteri, interpretandoli in base
ad affinita con divinita proprie e in funzione di esigenze locali. Il santuario
di Narcao, grazie alle tipologie delle offerte e alle modalita rituali, sembra
orientarsi verso la prima ipotesi ma, di certo, le sue caratteristiche non possono essere accordate a tutte le altre localita (n¡e seguire indiscriminatamente
la diffusione delle statuette femminili e dei thymiateria).
Nella sostanza, il culto di Demetra e Kore in Sardegna si inserisce in una
dimensione del tutto particolare, legata alla dialettica tra culto pubblico e culto privato, all’interno della quale presenta una fluidita funzionale piuttosto
evidente. Se, infatti, la sua introduzione a Cartagine si deve, forse, a un’innovazione religiosa coscientemente elaborata e attuata dalle classi dominanti,
la fortuna del culto dipende sostanzialmente dall’aspetto agrario della morfologia delle due dee e al loro accoglimento da parte delle comunita contadine:
la diffusione delle Cereri in ambito punico (o piu generalmente degli aspetti
devozionali di tipo agrario e fertilistico che in quello stesso ambito trovano
espressione) non sembra dipendere dalla gestione cittadina e istituzionale,
ma dalla religiosita di gruppi di popolazione rurale che, in un momento di
forte impegno economico legato all’agricoltura, trovano in Demetra e Kore (o nelle divinita con cui esse possono essere state identificate) il punto di
riferimento per la loro dimensione religiosa, tanto che i piccoli luoghi di culto divengono distintivi del territorio rurale, in ‘opposizione’ ai templi e alle
strutture sacre inserite nei contesti urbani.
12
Si veda il caso di Antas (cf. nota 10). Una forma di ufficialita del culto di Demetra e
Kore in Sardegna e forse ravvisabile nella monetazione con testa di Kore dipendente dall’ambiente nord-africano. Tuttavia, sembra piu verosimile che tale monetazione sia maggiormente
legata alla politica di sfruttamento del territorio, piuttosto che all’organizzazione pubblica del
culto e delle pratiche rituali (Acquaro 1971 e 1988).
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Demetra e Core nella religione punica
Chiara Peri
Abstract
According to the traditional view, based on a well-known passage by Diodorus
Siculus, the cult of Demeter and Core was introduced in Carthage as a political act,
following the war in Sicily. The Greek historian insists on the passive importation
of the Greek rite in all its aspects (according to him, even the priests were Greek).
In this paper we want to focus on the cult of the two goddesses in Sardinia and try to
verify its supposed “official” character. The re-examination of all the archaeological
findings and a reconsideration of the written sources may lead to a different interpretation of the meaning of the cult and of the forms it assumes in Sardinia and in
other areas of the Punic world.
Culto ufficiale o culto popolare?
L’introduzione del culto di Demetra e Core a Cartagine si configura, secondo il racconto di Diodoro Siculo (XIV, 63-77), come un atto ufficiale a
tutti gli effetti. Dopo la sconfitta subita da Imilcone contro i Siracusani, a
conclusione di una guerra segnata da errori ed empieta da parte del condottiero punico, i Cartaginesi vollero «comprendere Demetra e Core nei loro riti,
scelsero i loro piu illustri concittadini per farli sacerdoti delle dee, consacrarono statue e celebrarono i loro riti secondo il costume dei Greci. Scelsero
anche i piu in vista dei Greci che vivevano presso di loro e li assegnarono al
servizio delle dee». La testimonianza di Diodoro, scremata dalla caratteristica retorica dell’empieta punita, fornisce diverse indicazioni interessanti. In
primo luogo si puo osservare un’interessante testimonianza della convivenza, assolutamente ordinaria e accettata, tra Greci e Cartaginesi: a Cartagine
vivevano Greci, cos ı come in Sicilia «un numero non indifferente di Cartaginesi aveva a Siracusa case e ricchi possedimenti» (XVI, 46). Diodoro racconta anzi che per scatenare un conflitto per lui conveniente il tiranno Dionisio di Siracusa dovette inviare dei suoi fedeli a tenere discorsi pubblici che
145
146
Chiara Peri
avessero lo scopo di suscitare l’ostilita nei confronti dei «Fenici che abitavano tra loro»: questo fa pensare che i rapporti fra i due popoli fossero, fino
a quel momento, buoni. La cerimonia dell’introduzione del culto delle dee a
Cartagine e una presa di posizione politica che sancisce la fine del conflitto
e ripristina quel clima di reciproca accettazione infranto – artificialmente –
da Dionisio.
Facendo in una certa misura violenza al testo di Diodoro, si tende in genere ad accentuare il carattere straniero del culto, come se esso fosse stato
accolto nella religione punica senza alcuna mediazione: dee straniere, sacer vengono spesso citate le iscridoti stranieri, riti stranieri. A riprova di cio,
zioni CIS I 5987 da Cartagine e KAI 70 da Avignone (ma di probabile origine cartaginese), in cui il nome della dea Core apparirebbe semplicemente
trascritto dal greco.1 Queste due attestazioni si vanno ad aggiungere a poche altre testimonianze epigrafiche del culto di Demetra e Core: particolarmente significativa e l’iscrizione KAI 83 (= CIS I 177), una dedica in cui le
due dee sono indicate con gli epiteti, rispettivamente, di Madre (’m’) e di b‘lt
hÃhdrt, che si puo tradurre come «Signora degli Inferi» o forse «Signora del
me¡ garon», con riferimento alla cavita sotterranea utilizzata nel culto delle
due dee (Sznycer 1975: 70-75 e Ribichini 1995: 16-17). Lo scarno materiale epigrafico non consente comunque di affermare che il culto di Demetra
e Core avesse conservato dei caratteri spiccatamente estranei alla tradizione
religiosa punica.
Elementi importanti per la valutazione del significato del culto delle Cereri nel mondo punico possono essere ricavati dall’esame delle attestazioni
archeologiche del culto delle due dee. In Sicilia e a Siracusa in particolare
il culto di Demetra aveva un carattere decisamente popolare e in questo suo
aspetto, piu estraneo ai contesti ufficiali, esso si diffonde nel Nord Africa e
in tutto il Mediterraneo punico. L’esame della documentazione archeologica, per cui rimando all’intervento del collega Giuseppe Garbati, rivela contesti cultuali extraurbani, di piccole dimensioni, che mal si conciliano con
un culto di carattere ufficiale imposto dall’alto. Se dunque l’atto diplomatico descritto da Diodoro avvenne in un momento preciso (nel 396 a.C.) e
Siracusa e Cartagine, in una contingenza storico-politica
interesso due citta,
ben determinata, piu sfuggente e poco precisabile ci appare la diffusione di
1
La prima riga dell’epigrafe recita: qbr Ãhnb‘l hkhnt ¬s krw’. Il nome della dea sarebbe la trascrizione della forma greca *Κορ“υα/*Κορ“υη in uso in Sicilia. Cfr. F¡evrier 1957 e
Ribichini 1995: 20-21.
Demetra e Core nella religione punica
147
un culto dai caratteri agrari e ctoni, che incontro una popolarita documentata dalla diffusione di figurine demetriache e bruciaprofumi. Questa diffusione «dal basso» del culto precedette probabilmente l’introduzione ufficiale e
spiega una persistenza e una capillarita che non possono essere state determinate solo dal gesto formale di un governo. A una mutuazione piu antica
del culto fa pensare, del resto, la testimonianza dei culti, non esclusivamente
greci, praticati nel santuario della Demetra Malophoros e nel temenos consacrato a Zeus Meilichios e Pasikrateia-Persefone a Selinunte, come pure il
caso del santuario extraurbano di Monte Adranone, anch’esso dedicato alle
Cereri (Ribichini e Xella 1994: 46).
Le figure divine di Demetra e Core erano molto probabilmente entrate
a far parte della dimensione religiosa punica in modo graduale, grazie alla
convivenza di genti greche e semitiche in Sicilia. La crescente popolarita di
tali culti in ambiente punico fu certamente dettata da un complesso di fattori, uno dei quali fu certamente l’incoraggiamento «pubblico» nei confronti
di un culto di carattere agrario, che si addiceva bene alla politica di sfruttamento agricolo della Sardegna e del Nord Africa inaugurata dallo stato cartaginese. Meno convincente mi sembra il richiamo a una presunta esigenza
di «rinsanguare la decadente sacralita del pantheon tradizionale», a cui ha
fatto riferimento soprattutto Paolo Xella (Xella 1969: 228 e Ribichini e Xel la 1994: 55-56). Alcuni dati documentari, sia pur nella loro frammentarieta,
portano al contrario a individuare una delle cause della fortuna del culto delle
Cereri nel mondo punico nella relativa consonanza che esso presentava con
alcune pratiche religiose tradizionali.
Sacrifici scomodi
Demetra e Core, secondo la definizione di Erodoto (Storie VII, 153), erano dee dell’oltretomba. I culti a loro tributati, in Grecia e nelle colonie sicilia Si e a lunne, sono perfettamente coerenti con la natura ctonia delle divinita.
go ritenuto che culti di questo genere non suscitassero interesse in ambiente
punico. In un articolo dedicato alla questione dell’introduzione del culto di
Demetra e Core a Cartagine, Paolo Xella osserva: «i Cartaginesi sembrano
aver attribuito scarsa importanza all’idea dell’oltretomba: l’escatologia punica era poco sviluppata» (Xella 1969: 228). Esigenze nuove dunque, a cui
la religione tradizionale non dava risposta, avrebbero spinto i Cartaginesi ad
introdurre un culto straniero.
Che le concezioni escatologiche puniche e, piu in generale, cananaiche
148
Chiara Peri
fossero poco sviluppate e di scarsa rilevanza ideologica e un luogo comune
dettato da una zona d’ombra della documentazione. In mancanza di una letteratura fenicia, la nostra fonte principale in materia di religione di Canaan
e la Bibbia ebraica,2 nella quale tutto cio che riguarda gli Inferi e i suoi d ei
e soggetto a un rigorosissimo tab u.3 Una simile censura ideologica non deve
sorprenderci: del tutto coerente con i principi che ispirano la grande operazione intellettuale della scrittura della Bibbia ebraica, essa ha in questo caso un fondamento piu antico. Anche nelle liste di sacrifici di Ugarit Mot (la
Morte) non compare mai negli elenchi di divinita destinatarie di offerte. Cio non toglie, con buona pace di chi vi ha visto solo una personificazione letteraria di un concetto astratto (Caquot e Sznycer), che Mot sia una divinita di rilievo nel pantheon ugaritico, antagonista di Baal nella lotta per la rega I sacrifici alle divinita infernali, proprio per il loro carattere oscuro e in
lita.
qualche modo pericoloso (un contatto con la realta caotica opposta alla creazione era comunque un rischio, anche quando avveniva in forme ritualmente «sicure»), venivano celebrati secondo modalita molto particolari, di cui
non si parlava volentieri. Le fonti letterarie sono dunque alquanto reticenti su questa realta cultuale, comunque largamente attestata nella documentazione archeologica. Questo in parte detta il carattere «popolare» di questi
culti, estranei all’ufficialita e spesso conservati in modo persistente (al limite
svuotati del loro significato originario) nelle tradizioni e nel folklore.
Il trattamento rituale della realta caotica aveva anche nella cultura semitica una grande importanza. Dai pochi dati di cui disponiamo, spesso ricavabili da fonti indirette, si puo affermare con sicurezza che alcuni elementi
tipici dei culti degli d ei inferi, che caratterizzavano in Sicilia come in Grecia
il culto di Demetra e Core, non dovevano apparire estranei alla cultura punica
tradizionale. Non mi e qui possibile esaminare in modo sistematico tutti questi elementi, cosa che mi riprometto di fare in un lavoro piu ampio, ma vorrei
tuttavia soffermarmi brevemente su alcuni di essi. La prima osservazione riguarda la localizzazione dei culti di Demetra: in quanto connessi all’episodio
mitico del rapimento di Persefone, erano celebrati in prossimita di punti di
accesso agli Inferi, fossero essi geograficamente evidenti (una fonte, come a
Siracusa, o un vulcano, come nel caso dell’Etna) o solo simbolici (nell’Ar2
Con tutti i limiti che ho messo in luce nel mio intervento al 1º Incontro «Orientalisti»
nel dicembre 2001 (Peri 2003a).
3
Ho tentato di avanzare qualche ipotesi interpretativa dei pochi, spesso confusi, dati a
nostra disposizione in una monografia di prossima pubblicazione (Peri 2003b).
Demetra e Core nella religione punica
149
golide, presso il fiume Cheimarros, un peribolos di pietre segnava il luogo
dello sprofondamento: Pausania II, 36, 7). I culti presso le fonti e i chasmata, strettamente connessi al controllo delle acque del Caos, erano tipici della
cultura fenicia, al punto che ogni tempio aveva una sua via di comunicazione con gli Inferi,4 attraverso la quale potevano essere inviate le offerte alle
divinita ctonie.
Un secondo tratto tipico delle festivita dedicate alle divinita infere era un
temporaneo sovvertimento delle regole del vivere civile. Si lasciava, insomma, che la realta caotica prevalesse in forme ben definite e controllabili, nel
tempo e nello spazio: da qui il carattere di «rovesciamento» che si riscontra anche nei culti demetriaci, caratterizzati dalla prevalenza – o addirittura
che prendeva
dall’esclusivita – dell’elemento femminile e dalla licenziosita,
la forma di oscenita e di turpiloquio (il fondamento mitico per questo aspetto del rito era il racconto secondo il quale la serva Iambe riusc ı a far ridere
Demetra, raccontato tra l’altro da Diodoro Siculo, V, 4). E interessante osservare che questo aspetto di licenziosita nel culto di Demetra e Core e attestato anche in un contesto sacro punico: nel santuario sardo di Antas, in
cui sono state rinvenute tra l’altro due testine in marmo di eta ellenistica che
raffigurerebbero le due dee (Minutola 1976-77: 413-17 nn. 2 e 3), una terza
statuina in bronzo rappresenta una figura femminile inginocchiata che solleva la veste, nel gesto dell’anasyrma caratteristico di Iambe (Angiolillo 1995:
329, 336-37 n. 1; una bella fotografia della statuina si trova in Moscati 1993,
tav. 4).
I riti in onore delle divinita ctonie venivano per lo piu celebrati di notte e
le modalita di sacrificio erano volutamente opposte a quelle canoniche, per
quanto riguardava la vittima, il luogo e il modo di ucciderla. Non si usavano altari, ma piuttosto bothroi, chasmata e megara (i megara, secondo uno
scolio lucianeo, erano equivalenti ai chasmata).5 Secondo un’interessante testimonianza contenuta in uno scolio ai Dialoghi delle Cortigiane di Luciano
(Rabe 1906: 275-76) i maiali venivano buttati nel chasma di Demetra e Kore, una sorta di fossa sul cui fondo si trovavano serpenti. I resti degli animali
smembrati venivano poi raccolti da donne chiamate «attingitrici». Lasciare che la vittima si faccia a pezzi da sola, gettandola (anche solo simbolica4
Questo potrebbe essere il significato di pozzi sacri e piscine comuni nei santuari fenici:
su questo argomento si veda Groenewoud 2001.
5
«I bothroi e i megara sono dedicati agli d ei hypochtonoi, come i bomoi sono dedicati
agli olimpii»: Porfirio, Antro delle Ninfe 6.
150
Chiara Peri
mente) da un’altura e una modalita di sacrificio molto particolare, non casualmente simile al rituale del cosiddetto «capro espiatorio» (ma questa traduzione e , come ho mostrato altrove [Peri 2003b], volutamente fuorviante)
descritto nell’Antico Testamento: mentre il capro riservato a Yahweh viene
regolarmente sacrificato sull’altare, quello riservato ad Azazel viene mandato nel deserto e spinto giu da un dirupo in modo da essere del tutto smembrato.6 Si tratta di un’offerta a una divinita «nemica» e caotica, che deve essere compiuta solo una volta l’anno secondo modalita «rovesciate» rispetto a
quelle del sacrificio regolare. Una variante di questo genere di sacrifici consisteva nel gettare la vittima viva in una fonte o in un corso d’acqua: presso
la fonte Ciane di Siracusa annualmente cavalli e tori venivano gettati nella
fonte stessa e nel lago adiacente (Manni 1963: 105-29). Anche questa modalita «irregolare» di sacrificio e attestata nel mondo semitico: secondo una
testimonianza di Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica VII, 17), presso le
sorgenti del Giordano a Banias venivano celebrate cerimonie durante le quali una vittima viva veniva gettata nell’acqua e spariva all’istante, inghiottita
dalla divinita a cui era stata offerta.
Cio che caratterizza specificamente il culto di Demetra e Core e il sacrificio di maiali. Il fondamento mitico di questo culto e esposto tra l’altro
nello scolio ai Dialoghi delle Cortigiane di Luciano, a cui ho gia fatto riferimento: un pastore si trovava a pascolare il suo branco di maiali nel luogo
in cui avvenne il rapimento di Core e la voragine apertasi al passaggio del
dio degli inferi (il chasma) inghiott ı gli animali. Il maiale nel mondo semitico e notoriamente un tab u alimentare. L’impurita alimentare, tuttavia, non
implica che esso non potesse essere considerato una vittima idonea per sacrifici straordinari, in particolare per le divinita infere. A questo proposito
sono particolarmente interessanti le considerazioni di Giuliano l’Apostata a
proposito del divieto di mangiare pesce e altri animali «impuri»:
Il primo motivo e che non e opportuno mangiare cio che non usiamo per i sacrifici
agli de i ... E se qualcuno obietta: « Che vuoi dire? Non offriamo forse spesso pesci
in sacrificio agli de i?» io sarei pronto a rispondere: « Signor mio, e vero che offriamo
pesci in alcuni sacrifici mistici, proprio come i Romani sacrificano i cavalli e molti
altri animali, selvatici e domestici, e i Greci e i Romani sacrificano cani ad Ecate.
E tra le altre nazioni anche molti altri animali vengono offerti in culti mistici; ma
sacrifici di questo genere avvengono pubblicamente nelle loro citta solo una o due
6
Talmud Bab., tratt. Yoma, cap. 4.
Demetra e Core nella religione punica
151
volte l’anno » ... Il secondo motivo che e , io credo, anche piu pertinente a quanto
ho finora affermato e che dato che anche i pesci, per cos ı dire, scendono nelle piu essi ... appartengono agli Inferi.7
remote profondita,
Un animale idoneo ad essere sacrificato, eccezionalmente e secondo modalita peculiari, alle divinita infere (il maiale e uno di questi) non puo essere ammesso nella normale alimentazione e deve essere dunque considerato
impuro. La documentazione del Vicino Oriente antico sembra confermare
questa affermazione. In Mesopotamia i maiali venivano offerti a Nergal e, in
genere, erano vittime riservate a divinita notturne e infere. Il maiale e considerato un animale impuro, ma e spesso usato per le purificazioni (come pure
il cane, altro animale notturno e ctonio per eccellenza). Il sacrificio avveniva sotto forma di «cacciata» simbolica nell’Oltretomba. Erodoto descrive
un analogo sacrificio compiuto in onore del «Dioniso egiziano» (Osiride):
una volta l’anno viene ucciso un maiale davanti alla porta della casa e poi le
sue carni non vengono consumate, ma sono fatte portare via. Il maiale era
considerato una bestia impura anche dagli egiziani, che non ne mangiavano
la carne (Storie II, 47 e I, 47-48). Secondo l’interpretazione che Plutarco da di questo rito, il maiale e una delle forme assunta da Seth: uccidere un maiale equivale dunque ad offrire a Osiride il suo nemico (De Iside et Osiride
354A).
Sacrifici di maiali sono archeologicamente documentati, sia pur raramente, almeno per il II millennio a.C., in Palestina, a tell el-Farah, presso
Nablus, e a Gezer (ma non sempre le ossa di animali rinvenute in santuari
e favissae sono state catalogate con precisione, quindi non si puo escludere
l’esistenza di altre attestazioni, passate inosservate).8 Anche l’Antico Testamento menziona il sacrificio di maiale, chiaramente connotato come offerta
(illecita, dal punto di vista dell’autore) alle divinita infere.9 Quelli che mangiano carne suina «stanno seduti nei sepolcri» (Is 65,4) e compiono empieta indicibili. In un solo versetto vengono messe a confronto azioni sacrificali
lecite e illecite: «uno sacrifica il toro e poi uccide un uomo, uno immola la
pecora e poi strozza un cane, uno presenta un’offerta e ... un maiale, uno
(Is 66,3).
brucia l’incenso e poi venera l’iniquita»
Le anomalie risiedono evidentemente nella natura stessa della vittima
7
Giuliano l’Apostata, Orazioni V, 176D-177A.
Cfr. de Vaux 1957.
9
I passi in questione sono Is 65,4 e 66,3.17. Tutti e tre i passi (soprattutto il terzo)
presentano gravi corruttele testuali.
8
152
Chiara Peri
(uomo, cane o maiale) e nella modalita dell’uccisione. Forse non casualmente le vittime canoniche (toro e pecora) sono precedute dall’articolo determinativo, mentre quelle «anomale» (uomo, cane e maiale) restano indeterminate. Il verbo «strozzare», o piuttosto «uccidere con un colpo alla nuca»
(‘rp), contrapposto nel passo di Isaia ai verbi di sacrificio «regolare» ¬sÃht e
zbÃh, ricorre in Es 13,13 e 34,20 a proposito dell’uccisione rituale di un asino,
un altro animale impuro. In Deut 21,4.6 il verbo si riferisce a un particolare
sacrificio di espiazione, da compiere qualora venga scoperto il cadavere della vittima di un omicidio compiuto da ignoti. In quel caso si doveva portare
una giovenca in un luogo deserto («dove non si lavora e non si semina»),
farla scendere in un corso di acqua corrente e l ı ucciderla secondo questa
particolare modalita.
Un clamoroso sacrificio di maiale fu celebrato da Antioco Epifane all’interno del tempio di Gerusalemme.10 In questo atto, che la tradizione ebraica ricorda come una mera provocazione, qualche studioso oggi riconosce un
tentativo di appoggiare una tradizione religiosa ebraica diversa da quella affermatasi in seguito, secondo la quale l’offerta di un maiale sarebbe stata,
almeno eccezionalmente, conveniente al dio degli ebrei.11 Troviamo un’ulteriore conferma della valenza infera del maiale anche nel Nuovo Testamento,
nell’episodio della guarigione dell’indemoniato: gli spiriti, cacciati dal corpo
degli uomini, entrano in alcuni maiali «ed ecco tutta la mandria si precipito dal dirupo nel mare e per ı nei flutti» (Mt 8,32). Gesu sembra acconsentire a
una precisa richiesta degli spiriti, permettendo loro di tornare da dove erano
venuti. I maiali sono dunque gli animali piu idonei per riportare all’inferno
i demoni attraverso il mare, che nella tradizione ebraica antica era una delle
porte della Gehenna.
Dopo questa rapida panoramica possiamo affermare che i Cartaginesi (e
gli indigeni punicizzati in Nord Africa, Sicilia, Sardegna e Spagna) non dovevano provare una totale estraneita nei confronti dei culti di Demetra e Core, ma probabilmente individuavano molti elementi familiari in un tipo di riti
che anche nel mondo greco avevano un sapore arcaico (a Siracusa gli abitanti
archaı on bı on). Su questa base
celebravano le Thesmoforia mimoume¡ noi ton
culturale e religiosa piu omogenea di quanto non appaia dalle fonti ufficiali
10
Diodoro Siculo 34-35 e Flavio Giuseppe, Antichita Giudaiche XII, 253.
Questa ipotesi e stata proposta per la prima volta nel 1937 in una celebre monografia
di Elias Bickermann, tradotta in inglese molti anni dopo (Bickermann 1979). Su una possibile interpretazione ctonio-dionisiaca del culto di Yahweh in eta ellenistica si veda piu recentemente Scurlock 2000.
11
Demetra e Core nella religione punica
153
si e potuta innestare con successo quell’uniformita di cultura materiale che
caratterizza il Mediterraneo ellenistico. Con questo non si vuole certo intendere che le differenze culturali tra un cittadino greco di Siracusa e un contadino sardo punicizzato si annullassero in nome di un comune sentire religioso:
tuttavia quelle forme artistiche semplici e di larga diffusione (figurine demetriache, terracotte, thymiateria) riuscirono in un preciso momento storico ad
essere efficace manifestazione della religiosita dell’uno e dell’altro.
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Traduzioni nelle epigrafi
neopuniche nordafricane?
Rossana De Simone
Abstract
Neopunic inscriptions from North Africa offer several opportunities to make
considerations on attempts of translation or interpretation of formulas and expressions unknown to Semitic tradition. The analysis of some funerary and votive texts
may lead to identify some lines of interpretation.
Lo studio che qui si presenta si propone di prendere in esame alcuni testi
neopunici nordafricani nel tentativo di analizzare e comprendere le modalita di resa linguistica di alcune espressioni tipiche del formulario epigrafico latino. Traduzioni e/o interpretazioni di testi latini nelle epigrafi neopuniche,
non necessariamente bilingui, costituiscono dunque l’oggetto della nostra ricerca.1 Tale ricerca procedera per temi, tenuto conto dell’ampia documentazione a noi pervenuta, ampia sia dal punto di vista geografico che cronologico, attingendo dal copioso patrimonio epigrafico nordafricano e operando
necessariamente una scelta nella selezione dei testi da esaminare, scelta che
se e discutibile dal punto di vista metodologico, come ad esempio l’esclusione delle latino-puniche o delle iscrizioni provenienti dalla Tripolitania,
risulta necessaria per la brevita del tempo a nostra disposizione.
L’analisi dei numerosi tentativi di traduzione riconoscibili nelle epigrafi
nordafricane va preceduta da una necessaria premessa di ordine metodologico.
E da chiedersi cos ı se il moderno concetto di traduzione possa essere tout
court applicato al mondo antico, se dunque si possa parlare di una semplice
operazione linguistica che intenda rendere un messaggio fruibile e comprensibile ad un piu ampio numero di persone parlanti lingue diverse. Natural1
Per la bibliografia relativa alle iscrizioni citate si rimanda alla fine del testo: ciascuna
iscrizione e identificata da una sigla che indica il luogo di rinvenimento, seguito da un numero
arabo, facendo riferimento all’elenco redatto in Jongeling 1983: XVI-XXII.
155
156
Rossana De Simone
mente saranno diverse le possibili accezioni ove si tratti di testi letterari o
epigrafici.
assai poConsiderato il grado di alfabetizzazione diffuso nell’antichita,
co elevato come si puo immaginare, i livelli di interpretazione e le possibili
chiavi di lettura potranno apparire differenti. Non e difficile forse ipotizzare,
ad esempio, che dei dedicanti menzionati nelle migliaia di iscrizioni provenienti dal tophet di Cartagine, dei piu diversi strati sociali, in verita ben pochi
fossero in grado di leggere il breve testo inciso sulla pietra, per il quale sicuramente avranno anche dovuto pagare l’operazione di scrittura realizzata
dallo scalpellino-scriba.
Discorso analogo andra portato avanti in relazione alla funzione delle
iscrizioni. Ci si chiede, ad esempio, perch¡e un semplice testo funerario sia
stato redatto in due lingue e due scritture diverse, talora in punico con il nome reso in latino2 o in latino con il nome scritto in punico.3 Una risposta,
seppur banale, potrebbe trovare riferimento nell’origine etnica del defunto,
ma probabilmente tale spiegazione non appare del tutto soddisfacente, pur
nella considerazione che la lingua parlata in vita dal defunto viene cos ı ad
assumere un carattere fortemente distintivo, in un contesto sociale multietnico, con una solida valenza ideologica: ‘connotare’ dunque con la scrittura e
la lingua. Nel caso di iscrizioni votive, la necessita di una traduzione si spiegherebbe invece con la voluta intenzione di rendere nota l’offerta a gruppi
linguistici diversi.
Tali schemi possono senza dubbio essere applicati anche all’epigrafia
greca e latina, ma diverso appare il caso del fenicio, in particolare in area
nordafricana e in un periodo nel quale forti suggestioni arrivano dalla diffusa e ormai dilagante ‘cultura’ latina. Trattandosi di una lingua meramente
epigrafica il problema si presenta infatti ancora piu complesso. Se le fonti letterarie sono prodighe di notizie relative ad autori che hanno tradotto, o fatto
tradurre, testi fenici, con meritoria operazione oltre che di grande apertura e
tolleranza anche di lungimirante previsione di una possibile quasi totale perdita delle opere letterarie (si pensi alla crux del giuramento di Annibale o al
Periplo di Annone, o alla traduzione in latino dell’opera di Magone voluta
dal senato romano), diverso e il caso delle iscrizioni, ed e proprio in questo
ambito che indirizzeremo la nostra ricerca.
2
3
MAKTAR 1.
MAKTAR 6.
Traduzioni nelle epigrafi neopuniche nordafricane?
157
Le considerazioni che abbiamo fin qui sommariamente presentato sembrano cos ı potersi sintetizzare in alcuni semplici quesiti, la cui sconcertante
semplicita si pone alla base del nostro studio.
Chi leggeva le epigrafi? Dunque, per chi si traduceva? Escludiamo, per le
funzioni intrinseche, le iscrizioni a carattere ufficiale che tendono a suggellare alleanze anche a livello ‘linguistico’: utilizzando infatti anche la lingua
in un certo senso
del gruppo diverso le si conferisce una sorta di ‘dignita’,
elevandola allo stesso livello della lingua cosiddetta ‘dominante’, oltre naturalmente ad affidarle una importante funzione pratica per la diffusione del
messaggio. E nella sfera del privato che forse si celano i motivi piu profondi
di alcune scelte ‘culturali’.
Ancora, chi traduceva? Come si traduceva?
Se per i testi ‘ufficiali’ si suppone la presenza di un vero e proprio interprete capace di scrivere testi in lingue diverse, nel privato la figura dello
scalpellino-scriba4 assume cos ı una forte valenza di ‘interprete’, anche di una
sensibilita in genere poco rintracciabile nei rigidi formulari epigrafici a noi
pervenuti. E se la traduzione presuppone una vasta conoscenza, sia da parte
dell’autore che dei fruitori del messaggio, non rimane che da chiedersi quale
fosse in realta la funzione dell’interprete, la cui figura non puo comunque essere disgiunta da quella dello scalpellino-scriba, se non quella di mediatore
tra culture diverse e lingue differenti.
Una volta risolto il problema del perch¡e, bisognerebbe chiedersi come si
traduceva. In assenza dei lessici bilingui riportati alla luce copiosi dalle ricerche archeologiche in area vicino-orientale, possiamo solo constatare che,
purtroppo, quanti erano riconosciuti unanimamente dagli storici antichi quali
gli inventori della scrittura, paradossalmente, non ci hanno lasciato nulla.
E ancora, resta valido il principio (che nelle traduzioni, sappiamo, comunque rimane inevitabilmente solo un principio), del tradurre e/o interpretare senza alterare il senso originario di un testo?
In sintesi, possiamo in realta per i testi nordafricani parlare di vere e
proprie traduzioni?
L’analisi di alcune iscrizioni puo forse contribuire ad individuare alcune
linee interpretative.
Una rapida rassegna di alcuni testi funerari nordafricani pare evidenziare
una certa sintetiticita nella resa dei messaggi nelle due diverse lingue, puni4
Rare le attestazioni di epigrafi ‘firmate’: si veda ad es. l’iscrizione MAKTAR 79.
158
Rossana De Simone
co e latino, ben nota del resto a chi abbia dimestichezza con l’epigrafia an in alcuni casi, una maggiore ricercatezza nei testi
tica tutta. Sorprende pero,
punici a fronte dei piu scarni testi latini.
Segno dell’avvenuta acquisizione all’interno del formulario sepolcrale
semitico di ‘concetti’ propri del repertorio epigrafico latino sono da considerare i tentativi di resa, a volte vere e proprie traduzioni, di alcune formule
funerarie inusitate per l’epigrafia fenicia.
Cos ı, troviamo spesso tradotta, in diverse varianti, la formula hic sepultus est (hic sepulta est) o altrimenti hoc loco sepultus est, resa con una soà HBNT ST QBRT;5
luzione perifrastica nella locuzione HNKT ‘BNT THT
6
à ’BN Z ‘BNT;7
HNKT ‘BNT T‘T HBNT ST QBRT; HNKT SÃ W’YT THT
à ’BN ST,8 ove si riconosce l’innochot di Poenulus 936.9
HNKT QYBR THT
L’esame delle occorrenze mostra, pur nelle differenti varianti grafiche caratteristiche della scrittura neopunica, l’interscambiabilita delle diverse forme
verbali: ‘BNT / SÃ W’YT / QYBR e QBRT / ‘BNT. L’introduzione del sostantivo che indica la pietra sepolcrale, assente nella formula latina, e probabilmente da riferire al significato intrinseco attribuito alla stele stessa, latrice
sostanziale, anche quando anepigrafe, del messaggio essenziale. L’esigenza
di aggiungere, nella perifrasi, il sostantivo ‘pietra’ sembra dunque da ricondurre ad una sensibilita diversa, alla quale non appare estranea l’assonanza
tra il termine ’BN /aban/ ‘pietra’ e la radice omofona ‘BN ‘seppellire’, attestata al niphal in un testo da Kef Bezioun10 (Algeria) – HNKT N‘BN‘ – ove
si riconosce forse la traduzione ‘letterale’ che segue pedissequa la formula
latina.
Alcuni epiteti attribuiti al defunto tentano di riprodurre espressioni la11 espressione che rende
Ã
tine. Cos ı Pius in vita viene tradotto TM BHYM,
12
¬ N‘M, in un testo
talora anche l’avverbio latino honeste. Ancora DL SM
funerario da Maktar, sembrerebbe poter essere ricondotto al latino vir bonae
memoriae.13 Un espressione simile compare nella bilingue latino-neopunica
5
MAKTAR 32.
MAKTAR 33.
7
MAKTAR 34.
8
MAKTAR 35.
9
F¡evrier 1958-59 e 1964-65; Hartmann e Hoftijzer 1971.
10
KAI 171.
11
MAKTAR 24.
12
MAKTAR 35.
13
MAKTAR 27.
6
Traduzioni nelle epigrafi neopuniche nordafricane?
159
da Guelaa Bou Sba,14 della quale tratteremo piu avanti, ove si trova invece
¬ T‘ÃSMT ‘con nome glorioso’.
DL SM
Dall’esame di alcune iscrizioni bilingui si evidenzia talora una mancata
corrispondenza tra il testo latino e quello neopunico.
E il caso di una iscrizione da Gightis15 nella quale il nome latino
Lupercus e apposto in caratteri piu grandi al di sotto dell’iscrizione in
neopunico.
L’eta del defunto e indicata in cifre diverse nel testo latino rispetto a quello neopunico nella bilingue da Henchir Guergour,16 ove per Publius e riportata la bella eta di 105 anni nel testo latino mentre compare il numero
85 in quello neopunico, ove viene omessa la traduzione della locuzione hic
sepultus est.
Alcune interferenze a livello grafico, come in un testo neopunico di provenienza sconosciuta ove l’eta della defunta viene scritta in caratteri latini,17
sono facilmente spiegabili dal punto di vista meramente epigrafico. Non e infatti da escludere, come peraltro mostrano alcune testimonianze da Cartagine, che il testo venisse preparato in precedenza sulla pietra e il nome del
defunto, o altri dati, aggiunti solo in un secondo momento.
Talora ci si chiede se si tratti di vere e proprie traduzioni o se si tenda
invece a mantenere l’essenzialita del messaggio, fornendo solo i dati principali, omettendo particolari ritenuti dunque non di rilievo per la comprensione
del testo.
E questo il caso delle libico-puniche, come ad esempio nella bilingue da
Teboursouk,18 ove del lungo testo libico, peraltro al momento assolutamente incomprensibile, viene reso in neopunico solo il dato principale ossia il
nome del defunto (sempre ammesso che si tratti di un testo funerario). Cos ı
in un testo da Ain El-Kebch,19 in Algeria, non viene reso il termine che segue l’etnico; o in un altro da Mechta,20 la genealogia sembra essere piu lunga
nel testo neopunico. In una iscrizione da Sigus,21 invece, ove si riconosce nel
14
GUELAA BOU SBA 1.
GIGTHIS 1.
16
HENCHIR GUERGOUR 6.
17
TUNISIA OU 12.
18
TEBOURSOUK 2.
19
AIN EL-KEBCH 1.
20
MECHTA 1.
21
SIGUS 1.
15
160
Rossana De Simone
testo libico il nome del defunto Hanno, le corrispondenze sembrano assai poco rintracciabili se non supponendo una sorta di sistema di abbreviazione, al
momento assolutamente sconosciuto. Nella bilingue da Bordj Hellal22 il testo neopunico e molto piu lungo rispetto a quello libico, dal quale sembra,
se non nei dati essenziali, indipendente.
L’iscrizione votiva da Ain Yousef,23 in Algeria, mostra alcune particolarita che forse vale la pena segnalare.
nel testo neopunico, si conSi tratta di una iscrizione votiva che pero,
clude con termini propri del formulario sepolcrale, mostrando cos ı una sorta
di contaminazione. Supponiamo cos ı la presenza del termine pius nel testo
latino, in corrispondenza di N‘M alla fine della prima riga. Viene omessa la
resa in punico della formula de sua pecunia faciendum curavit, nota da altre
epigrafi,24 e in corrispondenza del latino templum e del votumque solvit troviamo il termine MNSÃ BT, in genere utilizzato per indicare il «monumento
o la stele funeraria», seguito dalla formula N]DR’ L’WLMM, «che ha de Anche ipotizzando la presenza di MQDS¬ nella parte
dicato per l’eternita».
mancante dell’epigrafe, a rendere il latino templum, il testo non appare affatto chiaro. E forse piu semplice, ma e solo una ipotesi, tenere conto della
possibilita di un riutilizzo della pietra.
Oltre al lessico, anche le strutture sintattiche mostrano alcune ‘anomalie’, evidenziando tentativi, inevitabilmente poco riusciti, di adeguarsi ai
rigidi schemi del pur parco formulario epigrafico sepolcrale latino.
Nell’iscrizione da Henchir Brirht,25 nella parte finale ancora del tutto incomprensibile, la formula iniziale Dis Manibus Sacrum non viene tradotta
nel testo neopunico. La genealogia del defunto e qui presentata in maniera piu estesa, viene omesso il termine pius e la locuzione hic situs est. Per
patri piissimo posuerunt si ha invece alla quarta riga PHL’ L’B‘NHM MT
QBR, «fecero per il loro padre morto la tomba», seguito dal nome dei figli.
La sintassi non funziona: si aspetterebbe il termine QBR precedere, insieme
al relativo, il verbo seguito poi dal soggetto; nello schema classico, infatti, il
nome del defunto segue l’indicazione del monumento funerario o della stele.
La struttura della frase non rispetta dunque la sintassi semitica. La laconicita 22
BORDJ HELLAL 1.
AIN YOUSEF 1.
24
DISI: 1021.
25
HENCHIR BRIRHT 1.
23
Traduzioni nelle epigrafi neopuniche nordafricane?
161
del testo latino non trova corrispondenza in quello punico, che peraltro continua con altre tre righe che al momento rimangono oscure, ostili a qualsiasi
tentativo di interpretazione. L’iscrizione termina con un richiamo alla pace
che ben si collega alle invocazioni finali alla quies, alla securitas aeterna, a
quella pax che spesso conclude gli epitaffi latini. Tale richiamo e pero assente
nel testo latino corrispondente.
Possiamo dunque dedurre che chi ha scritto il testo neopunico segue s ı
necessariamente quello latino, riportando i dati essenziali, nomi propri ed eta dei defunti, tentando di seguirne in parte anche la struttura sintattica (come
dicevamo, il nome del defunto all’inizio, ad esempio), ma non esita ad omettere quanto a questo punto ritenuto non essenziale, pur conoscendo bene il
formulario sepolcrale latino, come mostra l’invocazione finale alla pace. Piacerebbe conoscere quanto scritto alla quarta, quinta e sesta riga, parte del
testo che sembra costituire una aggiunta rispetto alla parte latina, pur non
escludendo la possibilita di una interpretatio delle locuzioni da noi al momento ritenute omesse. Senza la pubblicazione di una piu chiara documentazione fotografica della stele sembra pero difficile riuscire a comprendere
qualcosa di piu.
Analogo il caso dell’iscrizione da Djebel Mansour incisa su un sarcofago, epitaffio di Quarta, sacerdos magna.26 Il testo punico inizia con una
forma verbale seguita dal termine BT, raro ma attestato in fenicio per indicare la tomba,27 e segue pedissequo l’iscrizione latina. Alla terza riga, assai
poco leggibile, doveva essere resa l’espressione de sua pecunia e tradotto il
termine curatoribus. Seguono i nomi di questi personaggi. In corrispondenza di structoribus troviamo il participio, al posto del piu frequente perfetto,
a rendere l’ablativo assoluto latino.
Anche l’iscrizione da Bir Tlelsa28 ripropone un caso analogo. Si tratta,
come e noto, di un testo votivo di complessa interpretazione che ricorda la
dedica di un altare a Baal Addir. Tralasciando in questa sede l’esame delle diverse letture proposte, la disposizione del testo e soprattutto i verbi che indicano la dedica e l’offerta posti alla fine rivelano una struttura sintattica estranea al semitico, alla quale l’iscrizione neopunica sembrerebbe essere stata
adattata. La prima riga inoltre si trova staccata dal resto del testo: LB‘L ’DR
HTQDS¬ sembra richiamare il dativo frequente nelle iscrizioni votive latine
26
DJEBEL MANSOUR 1.
DISI, p. 159.
28
BIR TLELSA 1.
27
162
Rossana De Simone
(ad esempio deo sancto Baliddiri ma soprattutto il piu frequente Saturno sacrum). E dunque un testo latino a ‘condizionare’ l’iscrizione, per quanto non
possa essere provato quanto affermato da F¡evrier, che ipotizzava una vera e
propria traduzione di un testo oggi non piu rintracciabile.29
L’iscrizione funeraria da Cherchell30 mostra un incipit assai insolito:
¬ N‘MT MHBT, «Ricordo della sua famiglia per una donna
SKR DR’ L’ST
buona amata». Dopo questa delicata notazione alla defunta, che richiama i
frequenti uxori dolcissimae, patri amatissimo etc. del repertorio epigrafico
latino, viene specificato che la stele funeraria e stata posta dal figlio, leggia¬ ‘ZRÃ ’S¬ P‘L SYW‘T LHHYM
Ã
mo alla fine della seconda riga, ’HR
H’S¬ SL’
BL, «dopo che fece una sepoltura in vita suo marito Azrubaal». In realta dovremmo intendere «per la vita», ma se richiamiamo il se vivo sibi statuit ad
esempio, o il semplice se vivo degli epitaffi latini, l’interpretazione appare
chiara.
La difficile iscrizione da Guelaa Bou Sba,31 che a nostra conoscenza non
ha trovato altri tentativi di interpretazione successivi alla lettura proposta da
Levi Della Vida nel 1965,32 merita particolare attenzione poich¡e costituisce
un unicum nell’ambito del rigido formulario sepolcrale semitico di Nordafrica, probabilmente mostrando una qualche relazione con l’epigrafia funeraria greca di eta tardo-ellenistica, relazione che meriterebbe forse ulteriori
approfondimenti, che in questa sede siamo pero costretti a rimandare.33 All’essenzialita del testo latino, che riporta il nome con la genealogia e l’eta del
defunto e si conclude con i classici formulari e le abbreviazioni tipiche delle
epigrafi sepolcrali latine – (H(oc) l(oco) s(epultus), o(ssa) t(ibi) b(ene) q(uiescant) – si affianca un anomalo lungo testo semitico ove si invita il passante
a leggere l’iscrizione che accoglie le lodi del defunto, con diverse titolature acquisite in vita di difficile interpretazione, anche perch¡e rimandano ad
ambiente libico.
Un testo anomalo, per chi conosca la rigidita delle iscrizioni funerarie
semitiche. In questo caso, dunque, non si tratta di una traduzione e neppure
29
F¡evrier 1961.
CHERCHELL 1.
31
GUELAA BOU SBA 1.
32
In Van den Branden 1974 vengono affrontati alcuni problemi lessicali relativi al testo,
con soluzioni poco condivisibili.
33
Si veda ad esempio Peek 1972: 20 n. 13.
30
Traduzioni nelle epigrafi neopuniche nordafricane?
163
di una vera e propria bilingue, bens ı di due testi assolutamente indipendenti:
addirittura e differente il nome proprio del defunto, che dunque ad un certo momento aveva assunto un nome latino ma che nel testo punico conserva
quello che pare essere stato il nome originario, mentre rimane identico quello
del padre (TSDT BN MTT). L’accuratezza della composizione anche grafica
dell’iscrizione, ad esempio le linee orizzontali incise che segnano il percorso
della scrittura nella parte sommitale del testo, mostra una particolare attenzione alla suddivisione dei messaggi, che ben si completano anche dal punto
di vista dell’impatto visivo sulla pietra.
Gli esempi potrebbero continuare: viene introdotta, tra l’altro, l’indicazione dell’eta del defunto, inusitata nell’epigrafia fenicia, che sembra
riprodurre il latino vixit annos.
Anche nelle iscrizioni votive compaiono fenomeni analoghi: si ricordi ad
esempio per la formula die fasto la locuzione BYM N‘M WBRK, sulla quale
esiste ormai un’ampia bibliografia;34 interessanti dati provengono ad esempio per l’interpretatio latina delle divinita fenicie da un testo assai frammentario da Henchir Kasbat,35 ove si trova una inedita corrispondenza tra Astarte
e Minerva; un testo sempre da Henchir Kasbat,36 ove e stata riconosciuta la
cella proma menzionata da Tertulliano, contiene una iscrizione edilizia purtroppo incompleta nella quale il testo punico sintetizza al massimo quello
latino.
Al termine di questa necessariamente rapida rassegna, ci preme ritornare
ai quesiti posti all’inizio della nostra ricerca e tentare di fornire, alla luce di
quanto esposto, se non risposte, quantomeno linee interpretative.
Come si e visto, seppur ben presente nei testi neopunici, e non soltanto
nelle bilingui, il repertorio epigrafico latino compare ben selezionato.
Alcune formule non vengono mai tradotte nei testi punici esaminati: non
compare ad esempio Dis Manibus Sacrum n¡e Sit Tibi Terra Levis o Ossa Tibi
Bene Quiescant. L’acquisizione e l’introduzione delle formule e dunque dettata da precise scelte ‘culturali’, alle quali chiaramente sottende una visione
escatologica, al momento assai poco definibile se non per labili tracce, scelte
che sembrano ancora dunque difficilmente individuabili.
34
Ferron 1993; Fantar 1993; Ferjaoui 1994.
HENCHIR KASBAT 2.
36
HENCHIR KASBAT 3.
35
164
Rossana De Simone
a nostra conoscenza, un’unica tePer Dis Manibus Sacrum esiste, pero,
stimonianza. Si tratta della bilingue da El-Amrouni,37 al confine tra Libia e
Tunisia, rinvenuta all’interno del noto mausoleo.38 Al testo latino, epitaffio
di Quintus Apuleius Maximus, si affianca una iscrizione neopunica che inizia con l’invocazione L‘L(’)[N] R’P’M S¬ ‘PWL’[Y]. I rephaim di Apuleio,
dunque, a fronte degli Dei Mani latini. Ulteriori indizi potrebbero venire dall’esame dei dati iconografici: le lastre rinvenute all’interno del mausoleo riproducono il viaggio di Orfeo nell’oltretomba alla ricerca di Euridice, ma
alcuni particolari, sui quali varrebbe la pena forse indagare, si allontanano
dagli schemi classici.
Non sempre appaiono chiare le relazioni con il testo originario, come ad
esso ci si adatti, perch¡e si omettano determinati passi, in sostanza se e come
il punico traduca o reinterpreti il latino. Si insinuano nei testi formule nuove
e suggestioni della lingua latina, come si e visto, si evidenziano in testi non
necessariamente bilingui. Addirittura, si modifica la sintassi.
Chi scrive in punico conosce bene le iscrizioni latine. Ma e un romano che scrive in punico, o, con maggiore verosimiglianza, un punico che ha
imparato a scrivere in latino?
La lingua latina ha certamente influenzato, e non solo nel lessico, gli ultimi esiti dell’antico fenicio. Se e stata fortemente modificata la scrittura neopunica sulla scorta di quella latina (si pensi alla fondamentale introduzione
delle matres lectionis), perch¡e non dovremmo ammettere che anche la lingua
sia stata investita da trasformazioni importanti? Tali influenze, riconoscibili
nelle iscrizioni, investirono anche la lingua parlata o si tratta di un fenomeno
limitato soltanto ad una sfera piu colta? Quali le differenze nelle diverse aree
geografiche e nei diversi periodi?
Se la nostra ricerca si e rivelata sostanzialmente un susseguirsi di domande, non potevamo concludere che proponendo altri quesiti che ancora
attendono risposta.
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Fuori e dentro la citta Saperi marginali e religione istituzionale
nella Grecia antica
Pietro Giammellaro
Abstract
In the ancient Greek polis, besides the institutional religion, there were particular forms of belief, spread in every social class, related to some figures of itinerant diviners and magicians. They were mainly called agyrtai or goetes and we only
know a few informations about their activity.
Through the history of these two terms it will be possible to say something about
the role of marginal religious knowledge in the cultural and political development
of the Greek city, as it appears in the writings of Hippocrates and Plato.
Non tutto cio che il medico deve
conoscere viene insegnato nelle
accademie. Di tanto in tanto egli dovra ricorrere alle donne anziane, ai tartari detti
zingari, ai ciarlatani ambulanti, ai vecchi
contadini e a molte altre persone spesso
tenute in poca considerazione. Da loro
egli attingera la sua scienza, poich¡e questa
gente sa di queste cose piu di quanto non
si sappia in tutte le universita.
Paracelso1
Nel secondo libro della Repubblica, per bocca di Adimanto, Platone sferra la piu violenta invettiva che la Grecia classica ricordi contro le pratiche
magiche e contro chi di tali pratiche si fa portatore.
Questo attacco, collocato in una posizione chiave nell’opera che piu compiutamente delinea l’utopia politica platonica, ha pero radici molto antiche, e non e che l’esito di una opposizione tra saperi operante, credo, gia a
partire dall’epica omerica.
1
Citato in Lloyd 1987: 180 n. 12.
169
170
Pietro Giammellaro
Cerchero in questo intervento di ricostruire la storia di tale opposizione,
attraverso l’analisi di due particolari categorie di operatori del sacro, indicati
nelle fonti come α
οητεσ.
‘γ“υρται e γ“
Interpretate variamente come sacerdoti itineranti, maghi, ciarlatani, guaritori, queste figure occupano una posizione affatto singolare nel pur variegato panorama ‘magico-religioso’ della Grecia arcaica e classica:2 si distinguono dai µ“
αγοι, connotati, almeno in eta arcaica, da una decisa impronta
etnica;3 sembrano servirsi del patrimonio di conoscenze di quei ρ
οµοι
ιζοτ“
e 3αρµαχοπ“
ολαι (tagliatori di radici e venditori di pozioni) legati prevalentemente all’ambito della guarigione;4 e possibile ipotizzare che operassero
attraverso purificazioni, come i καθαρταƒι.
Ma la veemenza con cui gli α
‘γ“υρται vengono stigmatizzati nei testi in
nostro possesso indurrebbe a considerare questi operatori un problema a s¡e,
a fronte dell’esiguita della documentazione, soprattutto per l’eta arcaica e
classica (in tutto sei occorrenze fino a Platone).
Eppure, basta leggere i piu importanti studi sulla magia in Grecia degli
ultimi trent’anni per rendersi conto di come queste figure non siano state neppure assunte come problema dalla storiografia moderna. Gia Giuliana Lanata
(1967: 41), in un saggio del ’67, si limita a definire gli α
‘γ“υρται come «coloro
che raccoglievano mendicando doni per qualche scopo, soprattutto sacerdoti
mendicanti e vaganti»; piu recentemente Andr¡e Bernand (1991: 216) sem2
Per una sommaria rassegna del ‘vocabolario magico’ della Grecia antica cfr. Moreau
2000: 6-20. Si vedano comunque anche le opere di carattere generale di A. Bernand (1991) e
F. Graf (1995). Per una bibliografia generale cfr. il IV volume dell’opera curata da A. Moreau
e Turpin (2000).
3
Come e noto, gia a partire da Erodoto, il termine e usato specificamente per indicare
una trib u dei Medi.
4
Non e sempre facile tracciare una netta linea di demarcazione tra queste figure; in generale e possibile ipotizzare che esse facessero riferimento a un sapere tradizionale, basato su
farmaci naturali e rimedi popolari: in un frammento della perduta tragedia di Sofocle ΡΙΖΟΤΟΜΟΙ, verosimilmente appartenente al ciclo di Medea, e possibile trovarne una suggestiva
descrizione:
Ella torcendo gli occhi lontano dalle mani, raccoglie in vasi di bronzo il bianco
siero che stilla dal taglio ... Ceste segrete custodiscono le radici tagliate, che
ella mieteva nuda, con falci di bronzo, gridando, ululando.
Al di la della evidente caratterizzazione letteraria del personaggio, si puo intuire che l’attivita delle figure indicate come rhizotomoi avesse anche una spiccata connotazione magicorituale. Su rhizotomoi e pharmakopolai cfr. Lanata 1967: 32, Lloyd 1982: 36 e soprattutto
Lloyd 1987: 91-93.
Fuori e dentro la citta 171
plicemente non ne tiene conto, liquidandoli come «preti mendicanti» nella
traduzione di un famoso passo platonico, mentre Fritz Graf (1995: 23) esaurisce il problema dichiarando che «un agyrtes e chiaramente un prete itinerante e mendicante». Infine, in una recentissima e monumentale pubblicazione
sulla magia nell’antichita da lui curata, Alain Moreau (2000: 11) definisce
l’agyrtes come
un pauvre type, tra¢ınesavates (ou plut¢ot sandales, a moins qu’il n’aille pieds nus),
tra¢ınemis ere. Il ne peut pas faire grand-mal mais il ne peut pas faire grand-bien
non plus et on ne croit gue re a ses reme des; ni a ses pr¡edictions qui suscitent autant l’incr¡edulit¡e qu’aujourd’hui celles des boh¡emiennes quand elles pr¡etendent lire
dans la main et r¡ecitent sur le ton de la m¡elop¡ee des formule apprises par cœur et
suffisamment vagues pour ne pas provoquer l’hilarit¡e ou l’indignation.
Con questa pur breve e sommaria rassegna, ho voluto dare conto del dibattito, invero non molto acceso, intorno agli α
‘γ“υρται; come si vede, lo spazio loro riservato nella definizione di pratiche religiose non ufficiali nella
Grecia antica e stato decisamente insufficiente, se non si considerano gli sforzi di certa storiografia5 nella direzione di una identificazione di queste figure con i sapienti provenienti dall’Oriente; proveremo in seguito a discutere
questa interessante ipotesi, e tuttavia, prima di spingersi oltre le frontiere del bisogna almeno tentare, credo, una definizione del problema cos ı
la grecita,
come viene delineato nelle fonti (greche) in nostro possesso.
Accattoni e vagabondi
Il termine α
‘γ“υρτησ sembrerebbe derivare dal piu antico verbo α
‘γεƒιρω,
e piu precisamente dal grado zero della sua radice α
‘γερ-. Il significato originario e individuato da Chantraine nell’idea di «radunare», «assembrare»,
da cui anche «questuare».6
5
Cfr. per es. gli studi di Walter Burkert, e in particolare Burkert 1983 e 1999.
Chantraine 1968: 9 e KujÃorÃe 1973: 76. Anche Eustazio, nei suoi Commentarii ad Homeri Odysseam afferma che nel verso in questione si parla di Odisseo ωσ πρ’
οσ α
‘ γ“υρτην α
› νδρα. E stata proposta da G. Semerano (1994: 6) una diversa etimologia, facendo riferimento
a due verbi accadici: ag¤aru ‘raccolgo come mercenario’, ‘prendo a nolo’ e wah¤aru ‘accettare
oggetti di valore’, ‘raccogliere oggetti’, ‘accettare offerte’, ma il campo semantico individuato sembra essere piu o meno lo stesso; e dunque irrilevante ai nostri fini, almeno in questa fase,
stabilire la provenienza semitica o indoeuropea della radice.
6
172
Pietro Giammellaro
Il termine non e attestato per l’eta arcaica; e pero presente come hapax il
denominativo α
αζω in un verso dell’Odissea; si puo quindi immaginare
‘γυρτ“
che, a fronte della lacuna documentaria, il termine α
‘γ“υρτησ fosse conosciuto
7
e usato in eta omerica. Se questa ipotesi e plausibile, il passo in questione
acquista particolare rilevanza ai nostri fini, poich¡e in questi pochi versi sono presenti, esplicitamente o in nuce, alcuni elementi che costituiranno in
seguito aspetti ricorrenti nella rappresentazione dell’‘
αγ“υρτησ.
Odisseo, sotto le mentite spoglie di un mendicante,8 parla a Penelope del
marito, ormai da tempo lontano da casa, e dice:
E gia da tempo Odisseo sarebbe qui. Ma questo gli parve piu utile in cuore, andare
racimolando (‘
αγυρτ“
αζειν) ricchezze andando per molte terre.9
Non e un caso, credo, che la prima attestazione di questo verbo nella letteratura greca sia legata alla figura di Odisseo: il piu antico e generico α
‘γεƒιρω
non e sufficiente per descrivere i vagabondaggi dell’eroe: e necessario usare
un’espressione piu specifica, nella quale sia presente, certo, l’idea del raccogliere e dell’accumulare, ma con un’intensita e una forza supplementare
richieste dall’errare pluriennale di Odisseo.10
Cos ı, gia in eta arcaica, al senso originario di «raccogliere» si aggiungono i temi del viaggio, del vagabondaggio e dell’itineranza, caratteristici della
figura di Odisseo e che tanta parte avranno nel successivo sviluppo del termine e nel suo conseguente uso per indicare ben precise figure di ‘ciarlatani
itineranti’.
Il verbo sembra qui non avere alcuna connotazione religiosa; possiamo
dunque ritenere che questa sfumatura semantica si sia aggiunta in una fase
successiva.
E forse possibile, invece, individuare gia in Omero l’origine di quel pesante giudizio di valore insito nell’accezione successiva di α
‘γ“υρτησ, a partire
da due elementi: innanzitutto il tema dell’accumulazione di beni, che, come
7
Cfr. KujÃorÃe 1973: 76-78.
Come si vedra in seguito, questo dettaglio e tutt’altro che irrilevante; cfr. in proposito
Gilli 1988: 16.
9
Omero, Odissea XIX, 282-84.
10
Una sfumatura in questo senso e data, peraltro, dallo stesso suffisso: secondo KujÃorÃe
(1973: 78), «the termination -τ“
αζω proper originally to nomina agentis in -τησ (cf. α
‘ γυρτ“
αζω: α
‘ γ“υρτησ) ... is shown by some verbs which often have an intensive or frequentative
meaning».
8
Fuori e dentro la citta 173
vedremo, e presente come accusa gia nell’occorrenza sofoclea e verra sviluppato poi da Ippocrate e da Platone; in secondo luogo, la valutazione negativa
sul piano etico, espressa qui implicitamente nei confronti di chi preferisce,
nel suo animo (θυµ¤
?), vagabondare per molte terre lasciando la patria e la
famiglia in balia degli eventi, piu tardi dichiarata in maniera evidente contro i
ciarlatani che, proprio per il loro errare, non possono appartenere stabilmente
a una comunita e per questo vengono marginalizzati.
Un’ultima suggestione: se Odisseo e proverbialmente descritto come
πολ“υµητισ, πολυµ“
ηχανοσ ‘dalle molte astuzie’, δολο3ρον“εων ‘che medita inganni’, proprio l’inganno sara poi uno degli elementi ricorrenti nella
rappresentazione classica dell’‘
αγ“υρτησ.
Profeti e ciarlatani
Bisogna aspettare il V secolo per trovare nuovamente traccia del termine
in questione, questa volta con un inequivocabile legame con la sfera magicoreligiosa. A partire da questo momento tutte le attestazioni del termine, anche
le piu tarde, confermano l’ipotesi di un uso specifico del termine per indicare
operatori del sacro marginali, contrapposti ai sacerdoti e agli indovini della
polis.
Nel primo caso l’appellativo e declinato al femminile ed e riferito ad
un’altra figura della mitologia greca particolarmente significativa ai nostri
fini, Cassandra.
Alla fine del quarto episodio dell’Agamennone di Eschilo, in una conversazione col Corifeo che e anche un vero e proprio vaticinio oracolare, la
profetessa di sventure dichiara a un certo punto:
Ho sopportato di essere maltrattata11 come un’agyrtria errante (3οιτ’
ασ), disgraziata
mendicante (πτωχ’
οσ) morta di fame (λιµοθν’ησ); ed ora il profeta (µ“
αντισ), dopo
avermi resa profeta (µ“
αντιν), mi ha condotto a questi destini di morte.12
Se la profetessa puo affermare di aver dovuto sopportare l’appellativo di
α
‘γ“υρτρια, con ogni probabilita il termine e qui usato come un’ingiuria, in
11
Seguo in questo caso la correzione di M. West (1990) κακουµ“ενη in luogo della lezione
tradita καλουµ“ενη, in considerazione della presenza dell’avverbio ωσ, a mia conoscenza non
attestato in collegamento col verbo καλ“εω. Di diverso avviso e E. Fraenkel (1962: 590-91)
che, interpungendo diversamente, accetta la lezione dei codici.
12
Eschilo, Agamennone 1273-77.
174
Pietro Giammellaro
evidente contrapposizione con la figura ‘positiva’ di cui α
‘γ“υρτρια rappre senta una degenerazione e una deformazione: µ“
αντισ. E stato il dio Apollo,
µ“
αντισ per eccellenza, ad avere reso µ“
αντιν Cassandra, ma e stato lo stesso
E non c’ e castigo peggiore per
Apollo a condannarla al discredito dei piu.
chi sa di avere ricevuto l’arte da un dio, poich¡e tanto e il prestigio e il rilievo
sociale del µ“
αντισ nella citta greca,13 tanto e il disprezzo con cui e trattato
colui che finge di essere un µ“
αντισ.
Stessa sorte tocca al vate Tiresia nell’Edipo Re di Sofocle: in una violentissima rhesis, il sovrano tebano cos ı definisce il mitico indovino:
questo mago tessitore di inganni (µηχανορρ“
α3ον), agyrtes ingannatore (δ“
ολιον),
che ha occhi solo per il guadagno, ma e cieco per natura (›ε3υ τυ3λ“
οσ) nella sua
arte.14
Le parole messe in bocca da Sofocle a Edipo non sono certo casuali: se i
due aggettivi, µηχανορρ“
α3ον e δ“
ολιον, rafforzano l’invettiva con l’accusa
di millanteria (e ricordano con una certa precisione, anch’essa non casuale,
gli attributi proverbiali di Odisseo), le ingiurie usate dal re tebano, e in particolare α
‘γ“υρτησ,15 rappresentano gia una chiara indicazione nella direzione
dell’ipotesi precedentemente formulata a proposito di Cassandra.
Scrive Dario Del Corno: «nei due capolavori sommi della tragedia greca,
l’Agamennone e l’Edipo Re, i vati Cassandra e Tiresia rappresentano il moti13
Burkert (1992: 142) afferma: «in mancanza di una rivelazione, l’osservazione di ogni
Il piu prestigioso spesorta di segni diventa la forma piu diretta di rapporto con la divinita.
cialista in questo campo e l’indovino (mantis) ... Non si da inizio a nessuna battaglia senza
l’osservazione precisa dei segnali premonitori e la vittoria viene attribuita all’indovino non
meno che al generale». Del resto, anche D. Del Corno (1985: 287) ricorda: «I re spartani e
gli strateghi ateniesi erano accompagnati in guerra da profeti, che avevano attribuzioni tanto
estese quanto incerte, se una legge ateniese (riferita da Platone, Lachete 199 a) ammoniva che
il mantis non deve comandare al di sopra del condottiero. E tuttavia il presagio non distoglieva dall’azione: alla strenua esortazione di Ettore ricordata in precedenza corrisponde in eta storica l’eroico comportamento di Megistia, il mantis di Leonida, che rifiuto di partire dalle
Termopili pur sapendo di affrontare la morte». Sul ruolo sociale e religioso del mantis cfr. da
ultimo Bremmer 1996.
14
Sofocle, Edipo Re 387-89.
15
Per una interpretazione di Tiresia come mago cfr. Rigsby 1976 e Ginzburg 1989, che
scrive in proposito: «Tiresia, e ancor piu Melampo, sono i prototipi mitici di quegli iatromanti greci – guaritori, indovini, maghi estatici – che sono stati accostati agli sciamani dell’Asia centrale e settentrionale». Per una storia della questione dello sciamanismo greco cfr.
la bibliografia citata infra, n. 57.
Fuori e dentro la citta 175
vo conduttore di uno spirito profetico, che riconosce le connessioni profonde
tra quanto accadde un tempo, accade ora e accadra poi».16
Noteremo a tal proposito che le uniche due figure indicate esplicitamente
come α
‘γ“υρται nella letteratura greca arcaica e classica sono proprio Cassandra e Tiresia. Non sembra dunque azzardato affermare che α
‘γ“υρτησ, in eta classica, rappresenta la controparte negativa del µ“
αντισ. Possiamo forse pensare che quando un cittadino ateniese usava questa parola per offendere l’interlocutore, avesse in mente l’immagine precisa di un µ“
αντισ degenerato: il
vero professionista della µαντιχ“η opera al servizio della polis, che se ne serve in tempo di pace e soprattutto in tempo di guerra e che gli conferisce una
posizione di prestigio; al contrario l’‘
αγ“υρτησ opera individualmente, senza
nessun legame istituzionale con la citta e, quel che e piu grave, agisce solo
per il suo tornaconto. Le parole di Edipo in questo senso sono molto chiare: Tiresia, δ“
ολιοσ α
‘γ“υρτησ, ha occhi solo per il guadagno ed e invece cieco
riguardo all’arte. Questo tema verra ripreso piu tardi da Platone e da Ippocrate, nel corso di due violentissimi attacchi agli α
‘γ“υρται, che discuteremo
per esteso piu avanti, ma di cui e interessante notare l’insistenza ossessiva
sull’avidita di queste figure e sul loro desiderio spasmodico di accumulare
denaro, anche a scapito della salute o della sopravvivenza dei ‘clienti’.
Se quanto sostenuto finora e convincente, allora e possibile affermare
che, almeno fino a Sofocle, l’appellativo ingiurioso di α
‘γ“υρτησ contenga
in s¡e, oltre all’idea del vagabondaggio e dell’itineranza come condizioni di
estraneita rispetto allo spazio circoscritto e chiuso della polis, anche la critica all’esercizio individuale di una ‘professione’ tradizionalmente considerata istituzionale, con l’aggravante della ricerca di un beneficio economico
a fronte di una pratica mantica che
personale, anche a danno della comunita,
conferisce s ı prestigio sociale, ma non comporta alcun tornaconto sul piano
economico.17
Negromanti e iniziati
Con la testimonianza platonica che ci accingiamo ora a leggere, questa
opposizione frontale tra µ“
αντισ e α
‘γ“υρτησ cessa di operare. Michel Casevitz
16
Del Corno 1985: 279.
Scrive Del Corno (1985: 287): «l’ordinaria amministrazione della mantica era affidata ai singoli indovini: sacrificatori, auspici, interpreti di prodigi e di sogni, delle sorti e di
un’infinita di messaggi spontanei e provocati. Della loro consultazione era possibile disporre
ed essa riusciva meno dispendiosa di quella oracolare».
con sicurezza e continuita,
17
176
Pietro Giammellaro
ha spiegato questa evoluzione sostenendo che, a partire da Platone, funzioni
e prerogative che fin dall’eta omerica erano concentrate nell’unico, generico,
µ“
αντισ cominciano ad essere indicate con vocaboli specifici: nella fattispecie, secondo lo studioso, µ“
αντισ, in Platone, e soltanto colui che e in preda
alla mania; le altre funzioni di intermediazione tra mondo divino e mondo
umano, chiaroveggenza e profezia sono attribuite ad altre figure.18
non inficia
Lo slittamento semantico cui assistiamo con Platone, pero,
quanto detto finora riguardo all’opposizione tra ministri della religione ufficiale e figure decisamente non istituzionali: se fino a Platone l’operatore
‘pubblico’ del soprannaturale era chiamato µ“
αντισ, da Platone in poi assumera nomi diversi a seconda della specifica attivita svolta o della particolare funzione esercitata. In Platone, a fare da contraltare alla religione ufficiale saranno dunque α
αντεισ, in un binomio che si ritrovera ‘γ“υρται κα‚ι µ“
poi fino alle attestazioni piu tarde, a indicare la stessa figura di ‘ciarlatano
itinerante’.19
Chiarito questo delicato passaggio, possiamo procedere all’analisi di una
delle piu violente invettive che la grecita classica abbia concepito contro le
pratiche magiche: nel II libro della Repubblica, parlando dell’utilita di azioni
giuste e ingiuste, Adimanto a un certo punto afferma:
Essi sostengono infatti che perfino gli de i a molti uomini onesti hanno dato un’esistenza sventurata e infelice, mentre ad altri hanno concesso il destino contrario.
Αγ“υρται κα‚ι µ“
αντεισ bussano alle porte dei ricchi e li persuadono di aver ricevuto
dagli de i, grazie a sacrifici e incantesimi (θυσƒιαισ τε κα‚ι ‘επ?δα„ισ), la facolta di riparare con feste e divertimenti a qualche colpa commessa dal padrone di casa o dai
suoi antenati. E se si vuole fare del male a un nemico, essi si impegnano, per un tenue
compenso, a far del male a chiunque, al giusto e all’ingiusto, mediante evocazioni
e formule magiche (‘επαγωγα„ισ τισιν κα‚ι καταδ“εσµοισ): affermano infatti di poter
convincere gli de i a porsi al loro servizio. Per tutto cio adducono le testimonianze
dei poeti, alcuni dei quali concedono al male una facile realizzazione:
18
Casevitz 1992: 1-18. Sullo stesso tema cfr. anche Bremmer 1996: 246.
Cfr. per esempio le affermazioni di Plutarco nella Vita di Licurgo (9,5,24) a proposito
della riforma monetaria spartana: «non giungeva al porto nessun carico di merci, n¡e arrivava
nessuno sfruttatore di prostitute, nessun
in Laconia nessun sofista, nessun mantis agyrtikos,
artefice di ornamenti d’oro o d’argento, non essendoci denaro». E nella Vita di Mario (42,7) a
proposito di Ottavio: «Quest’uomo, che per il resto era il piu assennato tra i romani, che aveva
mantenuto piu d’ogni altro la dignita consolare incontaminata dall’adulazione e che rimase
ossequiente ai costumi e alle leggi della patria come a decreti immutabili, sembra aver avuto
la debolezza della divinazione, per cui passava piu tempo con agyrtai kai manteis che con
uomini politici e generali».
19
Fuori e dentro la citta 177
La malvagita e possibile raggiungerla in grande abbondanza
e facilmente: la strada e piana, ed essa sta molto vicino;
ma davanti alla virtu gli de i posero il sudore
[Esiodo, Le opere e i giorni 287-89]
e una via lunga e ripida. Altri mostrano che gli de i si lasciano convincere dagli
uomini, e si servono della testimonianza di Omero che ha dichiarato:
Si lasciano placare perfino gli de i
E con sacrifici e amabili preghiere
Con le libagioni e il grasso delle vittime gli uomini li placano
Pregandoli quando trasgrediscono la legge e commettono una colpa
[Omero, Iliade IX, 497-501]
Mostrano poi una quantita di scritti di Orfeo e di Museo, discendenti, a quanto
si racconta, della Luna e delle Muse, secondo cui essi compiono i loro riti, convincendo non solo gli individui ma anche le citta che esistono per i vivi e per i morti assoluzioni e purificazioni dalle colpe mediante sacrifici e piacevoli divertimenti
(λ“υσεισ τε κα‚ι καθαρµο‚ι α
ατων δι’
α θυσι¤
ων κα‚ι παιδι”
ασ ηδον¤
ων). Questi ri‘ δικ絓
ti essi li chiamano iniziazioni (–
ασ δ’η τελετ’
ασ καλο”υσιν), capaci di liberarci dai mali
dell’Oltretomba, e affermano che se li trascuriamo ci attendono castighi terribili.20
Il brano, come si vede, e ai nostri fini ricchissimo di spunti e denso di
contenuti. Un primo elemento richiama subito alla mente quanto detto a proposito di Tiresia: Platone tiene a specificare che α
αντεισ sono
‘γ“υρται κα‚ι µ“
soliti bussare alle porte dei ricchi; poco dopo aggiunge che essi si impegnano, per un tenue compenso, a far del male a chiunque, al giusto e all’ingiusto. Ritorna con forza, mi pare, il tema ricorrente, gia a partire dall’Odissea
(αγυρτ“
αζειν χρ“
ηµατα), dell’accumulazione di ricchezze, con mezzi leciti o
illeciti. In questo caso si trovano pero indicazioni specifiche sulle pratiche
attuate da queste figure per il perseguimento dei loro scopi: essi persuadono
gli interlocutori di poter riparare alle loro colpe, innanzitutto con sacrifici e
incantesimi (θυσƒιαισ τε κα‚ι ‘επ?δα„ισ). Se il sacrificio sembra suggerire l’idea di una cerimonia religiosa ufficiale, l’‘επ?δ“η, al contrario, e una prerogativa specifica degli operatori del magico, in primo luogo i γ“
οητεσ, cui il
termine e ricorrentemente associato. Επ?δ“η indica al contempo una formula magica e una pratica discorsiva tesa ad ingannare il prossimo: si tratta in
se non dovessero
entrambi i casi di un’azione da condannare. Ma c’ e di piu:
bastare i sacrifici e gli incantesimi, α
αντεισ possono offrire agli
‘γ“υρται κα‚ι µ“
20
Platone, Repubblica II, 364 b 2 - 365 a 3.
178
Pietro Giammellaro
avventori altre piu pesanti soluzioni:21 se si vuole danneggiare un nemico,
non importa che egli sia giusto o ingiusto, i nostri ‘ciarlatani’ sono pronti a
mettere in campo ‘επαγωγαƒι e κατ“
αδεσµοι. Gia l’‘επαγωγ“η, evocazione dei
morti o degli d ei inferi finalizzata all’utilizzo dei loro poteri per fini personali, costituisce una pratica per cos ı dire ‘non ortodossa’. I rapporti con gli inferi, riservati a pochi privilegiati (Odisseo, Orfeo etc.), rappresentano sempre
un fattore di pericolo, anche quando il fine ultimo dell’evocazione e quello
di sapere di piu su di s¡e o sugli eventi presenti o futuri; quando poi si cerca di utilizzare il potere degli inferi (che, ricordiamolo, e un potere oscuro,
difficilmente gestibile) per scagliarsi contro i nemici, poco importa se giustamente o ingiustamente, il pericolo diventa incontrollabile. Il problema e dunque squisitamente politico: se si ricorre a questi mezzi per affermare le
proprie istanze si abdica deliberatamente al ruolo di mediazione che l’istituzione dovrebbe svolgere nei rapporti tra i cittadini; e, se si da credito a queste
pratiche, in breve tempo la giustizia codificata della polis, il sistema di leggi
che una comunita si e data, viene ad assumere una valenza pressoch¡e nulla:
se i rapporti sono regolati dalla sopraffazione personale viene meno il senso stesso della comunita cittadina cos ı come concepita da Platone. Ecco uno
dei motivi della veemenza del filosofo in questa circostanza: pratiche siffatte
mettono a repentaglio la sussistenza stessa delle istituzioni; l’intento demistificatorio e qui assolutamente funzionale ad un migliore svolgimento della
vita politica.
Discorso analogo puo essere proposto a proposito dei katadesmoi, ma
con qualche indicazione supplementare, proveniente dall’esame comparato
di testi e documentazione archeologica ed epigrafica, offerto dagli studi di
Christopher A. Faraone. L’uso di «binding magic»,22 come la definisce lo
studioso, sembra essere pratica comune gia nel primo V secolo, ma se ne
possono individuare significativi antecedenti diretti in epoca molto piu antica
e in aree geografiche vicine come l’Egitto e la Mesopotamia.23
La legatura, secondo Faraone, costituisce l’unico mezzo per imprigio21
Non e difficile immaginare come il prezzo del servizio dovesse salire proporzionalmente al grado di illiceita delle azioni tentate.
22
Faraone 1991: 165-66. Su questi temi cfr. Faraone 1993 e 1998, oltre a Faraone e
Obbink 1991.
23 E ormai ampiamente accettata l’ipotesi di stretti contatti religiosi, linguistici e culturali tra queste aree e la Grecia arcaica e classica. Per una definizione del problema ed una
dettagliata disamina di tali contatti si veda la monumentale opera di Bernal 1991, di cui sono
pienamente condivisibili le premesse metodologiche e le conclusioni ma nella quale e possibile individuare alcune evidenti forzature. Piu cogenti e senza dubbio convincenti sono in
Fuori e dentro la citta 179
nare e bloccare la divinita che, essendo immortale, non puo essere in alcun
modo danneggiata o uccisa. L’attestazione mesopotamica di legature ‘mediche’ per liberare il malato dalla maledizione dello spirito, del demone o del
mago che lo ha contaminato fa pensare immediatamente alla critica ippocratica agli α
‘γ“υρται, ma di questo si dira appresso, commentando il famoso
incipit del Male Sacro. Piu interessante e , in questo contesto, riflettere sul
significato delle legature divine nell’ambito del pensiero religioso (e politico) di Platone: pensare di poter imprigionare una divinita per costringerla a
sottomettersi al volere di un essere umano significa, per il filosofo, ammettere che il destino degli uomini sia in mano a quelli di essi che sanno meglio
sfruttare le potenze dell’occulto. Ne viene cos ı fortemente ridimensionato il
ruolo degli d ei che, in questa posizione, non possono piu costituire i primi
garanti dell’ordine cittadino.
Ecco perch¡e queste pratiche sono considerate da Platone il pericolo numero uno, contro cui avviare una strenua battaglia sul piano epistemologico,
decostruendone le fondamenta teoriche, ma da non sottovalutare neppure sul
terreno istituzionale, concependo un sistema di leggi rigidamente prescrittivo in materia religiosa e violentemente repressivo per chi non si sottomette
all’ordine ‘razionale’ della polis.
E se l’evidenza archeologica di tabellae defixionum e di ‘bambolette voodoo’24 mostra con chiarezza la capillare diffusione di questi manufatti nella
Grecia antica, possiamo percio pensare che il pericolo fosse avvertito da Platone in termini certo non sottovalutabili, tanto da indurre il filosofo a darne
conto nell’opera che piu compiutamente descrive la sua utopia politica.
Ma come facevano questi ‘ciarlatani’ a convincere i clienti della loro
oltre che dell’efficacia dei loro mezzi?
legittimita,
Platone in proposito e prodigo di particolari, utili a noi per aggiungere
elementi alla ricostruzione di queste figure, ma certamente funzionali alla
sua argomentazione contro ogni forma di inganno e di imitazione, e in special modo contro la poesia; e i primi ad essere tirati in ballo sono proprio
due figure che nell’immaginario di un greco di eta classica
due poeti, di piu,
dovevano rappresentare l’incarnazione stessa della poesia: Omero ed Esiodo.
E proprio grazie all’autorevolezza degli scritti di questi poeti che gli
α
‘γ“υρται convincono gli interlocutori della possibilita di manipolare a piaquesto senso le argomentazioni di Burkert e dello stesso Faraone. Sui contatti religiosi tra l’area vicino-orientale e il mondo greco cfr. il recente volume a cura di S. Ribichini, M. Rocchi
e P. Xella (2001).
24
Cfr. in particolare Faraone 1998.
180
Pietro Giammellaro
cimento il potere degli d ei e soprattutto della convenienza di agire in maniera ingiusta. Subito dopo, e quasi individuando una continuita tra la sorte
il filosofo
che aspetta gli uomini in questa vita e il loro destino nell’aldila,
menziona i libri di Orfeo e Museo, grazie ai quali i ‘ciarlatani’ compirebbero i loro rituali, consistenti per lo piu in purificazioni, sacrifici e soprattutto
iniziazioni.
Come ricorda A. Masaracchia,25 Platone, nel confrontarsi con la cultura poetica e con la religione tradizionale individua «due momenti distinti e
successivi, uno piu antico che fa capo a Orfeo e uno, piu recente, che fa capo a Omero»; e tuttavia, continua lo studioso, «questa cultura si presenta
per le sue caratteristiche ideologiche sostanzialmente compatta e unitaria». Il
filosofo assume dunque, nei confronti di questa tradizione, un atteggiamento
univoco in cui «il giudizio su Orfeo e gli orfici e illuminato dal giudizio su
Omero e gli omeridi e viceversa».
E, a quanto pare, questo giudizio non e certo dei piu lusinghieri: la poe che in Platone costituisce
sia distoglie gli uomini dalla ricerca della verita,
momento fondamentale anche della vita politica, e le iniziazioni orfiche, garantendo la salvezza oltremondana indipendentemente dal rispetto degli d ei,
allontanano irrimediabilmente i cittadini dalla religione della polis.
Si e voluto riconoscere, nei personaggi attaccati da Platone, i rappresentanti di un ‘orfismo degenerato’26 ma, come e noto, il problema del ruolo
delle pratiche orfiche nella societa greca antica e del rapporto fra gli orfici
e le istituzioni della citta e ancora lontano dal trovare una soluzione. E pos a mio parere, individuare nelle varie descrizioni delle pratiche
sibile pero,
orfiche alcune costanti che, non a caso, sembrano riguardare anche altre categorie di ‘professionisti’, come i poeti o i carpentieri: prima fra tutte, l’iti sembra comportare necessariamente l’estraneita neranza, la non stanzialita,
da un contesto come quello fortemente accentrato della polis.
Del resto, il possesso di una techne implica quasi sempre una vita itinerante, che comporta necessariamente una condizione di estraneita rispetto
di cio abbiamo testimonianza gia a partire da
alla vita organizzata della citta;
Omero.27
25
Masaracchia 1991: 183. A riprova di quanto afferma lo studioso e possibile individuare
molte altre occorrenze di questa ‘doppia coppia’, sia in Platone che in altri autori a lui precedenti e successivi; volendosi limitare alla sola opera platonica basti citare Apologia di Socrate
41 a-b, Ione 536 b, Protagora 316 d, Cratilo 402 b-c.
26
Masaracchia 1991.
27
Ricorda a questo proposito Walter Burkert: «still earlier, Homer grouped together this
Fuori e dentro la citta 181
Gli orfici, come gli α
αντεισ di Platone, rientrano pienamen‘γ“υρται κα‚ι µ“
e tuttavia la loro situazione non li indute in questa condizione di estraneita;
ce a costituirsi in comunita organizzate: i sacerdoti dell’orfismo, come afferma J. Bremmer (1999: 81-82), sembrano operare per proprio conto poich¡e, secondo un’efficace concettualizzazione di Burkert (1982), non basta
una techne per creare una comunita.
di alcuUn gruppo, religioso o politico, ha bisogno, per dirsi ‘comunita’,
ni requisiti, tra cui un particolare stile di vita, un’organizzazione interna della
proprieta pubblica e privata, un generale accordo sulle credenze e le pratiche
religiose, un potere costituito o una qualche forma di autorita (ibidem, p. 3).
Queste condizioni, necessarie e sufficienti, secondo lo studioso, per la costituzione di una setta, sono applicabili, a mio avviso, anche alla struttura di
una compagine statale quale la polis vagheggiata da Platone. Se questa interpretazione e condivisibile, allora e facile comprendere i motivi piu profondi
dell’ostilita del filosofo verso queste pratiche: per una comunita come la polis e certo piu agevole confrontarsi con un’altra aggregazione che condivide
almeno le condizioni di cui sopra, come potrebbe essere, per esempio, la setta pitagorica; in questo caso si tratta solo di rapporti di forza: l’aggregazione
piu debole viene confinata ad una posizione minoritaria rispetto a quella piu forte.
Quando invece ci si trova dinanzi a individui singoli, che non solo con le
loro pratiche e le loro concezioni, ma con la loro stessa vita, propongono un
allora non
sistema assolutamente incommensurabile con quello della citta,
puo instaurarsi nessun confronto, nessuno scontro: questi individui devono
essere del tutto eliminati.
All’epoca di Platone, tra queste figure e certamente possibile annoverare i sofisti che, come gli α
αντεισ, si spostano per motivi
‘γ“υρται κα‚ι µ“
squisitamente economici.
Scrive in proposito Silvia Montiglio:
Lo scopo del vagabondaggio dei sofisti non era quello di allontanarsi dalla societa.
Molti di essi erano stranieri che lasciavano le loro citta e viaggiavano, spesso anche
kinds of wandering d¤emiourgoi: the mantis, the healer, the carpenter and the singer. Outside
Greece we find the Etruscan haruspices who ‘propagate their craft in families’ and once more
the Mesopotamian magicians: ‘the wise man will teach his son, and he will let him take an
oath’; the corresponding formulae are still found in the Hippocratic collection, the famous
‘oath’ and the nomos which adopts the language of teletai: ‘things that are holy are revealed
only to men who are holy. The profane may not learn them until they have been initiated into
the mysteries of knowledge’» (Burkert 1982: 7-8, con i riferimenti testuali in nota).
182
Pietro Giammellaro
molto lontano. Come ci si aspetta da questo gruppo di intellettuali, che spostavano l’oggetto della filosofia dalla natura all’uomo, ed in particolare all’uomo inseri andare in giro ha lo scopo di incontrare, piuttosto che di fuggire,
to nella societa,
gli esseri umani. Ma, diversamente da Solone o Democrito, i sofisti non viaggiavano al fine di acquisire conoscenza. Difficilmente una ‘teoria’, un’astratta curiosita o un interesse etnografico motivavano i loro viaggi. Piuttosto, i sofisti viaggiavano
Come molti intellettuali e artisti moderni, essi si spostaper vendere la loro abilita.
vano dove c’era lavoro: questo e il motivo per cui tendevano a convergere tutti ad
Atene, dove avevano migliori chances di sfondare. Il viaggiare era parte della loro
attivita professionale. ... Il vagabondaggio del sofista all’interno del regno instabile dell’opinione rivela la sua natura non filosofica e si accorda con la sua abilita nell’assumere qualsiasi forma, come un mago. Il vagabondare e una manifestazione
della instabile mutabilita del sofista, che alternativamente da luogo ad una moltiplicazione di definizioni. Insomma, il vagabondaggio del sofista connota i suoi ingan la sua natura infida ed evasiva. Il sofista vagabondo e una
ni verbali, la sua avidita,
figura odissiaca, ma vista sotto una luce negativa. Mentre l’Odisseo omerico impara dai suoi vagabondaggi, il vagabondaggio dei sofisti tradisce la loro mancanza di
conscenza.28
Ancora una volta, dunque, l’attacco agli specialisti di pratiche genericamente definibili come ‘magiche’ e in Platone figura di una critica serrata al
movimento sofistico. Diremo, meglio, che l’ostilita verso queste due ‘categorie’ fa parte di un progetto complessivo di salvaguardia di un ordine politico fortemente minacciato da prospettive filosofico-religiose e soprattutto
da modi di vita decisamente ‘altri’.
Quando, poi, a servirsi delle ‘competenze’ di queste figure sono non solo
lo sdegno di Platone si trasforma in un risoi singoli ma anche intere citta,
luto, anche se velato, attacco ai governanti che, nell’ottica del filosofo, non
si rendono conto del potenziale eversivo che scatenano agendo in tal modo.
Non puo non venire in mente, a questo proposito, la vicenda del ‘saggio’ cretese Epimenide, chiamato dall’amministrazione ateniese a purificare la citta dal miasma che la contaminava.29
Puo essere forse interessante, allora, leggerne il racconto,30 che propongo nella suggestiva traduzione di Giorgio Colli:
28
Montiglio 2000: 92-93, traduzione e corsivi miei.
Per una lettura storico-politica di questo evento cfr. Mazzarino 1966.
30
Platone, Leggi 642 d - 643 a (fr. Colli 8[A 5]). Testo critico di riferimento e traduzione:
Colli 1978: 47-49.
29
Fuori e dentro la citta 183
E sulla citta gravavano certi terrori di natura religiosa, assieme ad apparizioni religiose, e i divinatori dicevano pubblicamente che i sacrifici rivelavano contaminazioni e colpe bisognose di purificazioni. E appunto, mandato a chiamare da loro,
era giunto da Creta Epimenide di Festo, annoverato come settimo tra i sapienti da
alcuni di quelli che non riconoscono Periandro. La sua reputazione poi era di uomo
caro agli de i e sapiente intorno alle cose divine, rispetto alla sapienza entusiastica
e iniziatica. Percio gli uomini di allora lo salutavano anche come figlio della ninfa
di nome Blaste e lo chiamavano il giovane Curete. Ma giunto, e trattando Solone
da amico, gli preparo il terreno e gli apr ı la strada in molte cose per la legislazione.
Difatti li rese ordinati nei servizi sacri, come pure mitigo le manifestazioni di lutto, mescolando immediatamente dei sacrifici assieme ai riti funebri ed eliminando
il carattere crudele e barbarico da cui prima erano dominate la maggior parte delle
donne.31 Ma dopo di aver santificato e iniziato ai riti segreti la citta – questa e la cosa
piu importante – con dei mezzi di pacificazione, con purificazioni e fondazioni sacre, la rese obbediente alla giustizia e piu disponibile alla concordia. ... Epimenide,
dunque, oggetto della massima ammirazione – e mentre gli Ateniesi volevano dargli
molte ricchezze e rendergli grandi onori – non richiese nulla se non un ramoscello
dell’ulivo sacro, e ricevutolo part ı.
Scrive Giorgio Colli (1978: 15):
Il sapiente politico – Solone – invoca l’aiuto di chi e soltanto sapiente, perch¡e conosce il passato e l’avvenire, di chi vive con gli de i: ed Epimenide viene da Creta,
dalla mitica Cnosso, citta di Minosse e del Labirinto. Atene e purificata, i terrori
svaniscono, e questa sapienza e una conquista di gioia. Ma la cosa piu stupefacente,
31
Questo particolare ricorda da vicino due episodi legati ad altrettante figure di operatori del sacro certamente vicine a Epimenide: il primo, Melampo di Pilo, mandato a chiamare dagli Argivi, libero le donne di Argo dalla pazzia dopo aver ottenuto un esoso compenso
(Erodoto, Storie IX, 34); il secondo, Dexicreone, aner agyrtes menzionato da Plutarco negli Aetia Romana et Graeca (303 c 2-4), servendosi di una purificazione, libero le donne di
Samo «rese dissolute dalla lussuria e dalla tracotanza». Non e possibile in questa sede analizzare puntualmente tali testimonianze; e tuttavia, credo, bisogna rilevare che in tutti e tre i
casi in questione la ‘malattia delle donne’ assume caratteristiche affatto particolari: se la testimonianza su Epimenide parla di «carattere crudele e barbarico», neppure la pazzia delle
donne Argive e la lussuria e tracotanza di quelle Samie sembrano descritte come semplici
e ordinarie patologie: lo dimostra il fatto che le poleis colpite (si badi bene, in tutta la loro
componente femminile) non badano a spese pur di risolvere il problema. Un’ultima notazio sono stranieri, cos ı come
ne: tutti e tre gli ‘specialisti’ convocati provengono da un’altra citta,
straniero e il Dioniso delle Baccanti di Euripide, che, a detta di Penteo, convive con le donne
tebane proponendo loro le iniziazioni dionisiache.
184
Pietro Giammellaro
rispetto a questo racconto, e che qui – secondo ogni verosimiglianza – non si tratta
di leggenda, bens ı di storia.
E proprio in un tentativo di offrire un’immagine storicizzata del sapiente
cretese Burkert scrive:
Si dice che Epimenide abbia ricevuto la sua iniziazione in una delle grotte cultuali di
Creta. Se egli mai visito quella del monte Ida, si sara trovato di fronte al tympanon
e agli scudi bronzei di chiaro stile orientale, realizzati probabilmente da artigiani
orientali per il culto di Zeus Ideo. ... Non sappiamo molto delle pratiche dei sacerdoti divinatori e purificatori greci nello stile di Epimenide. Ma, nei dettagli che ci e dato conoscere, vi sono strette corrispondenze con i testi magici sumero-akkadici,
che possediamo in gran numero e che assommano ad un’intera biblioteca.32
Lo studioso svizzero utilizza cos ı la figura di Epimenide per individuare
in Creta il trait d’union tra l’oriente mesopotamico e il mondo greco, a conferma della sua ipotesi secondo cui molte delle pratiche magiche diffuse in
Grecia proverrebbero direttamente dal Vicino Oriente. Quello che qui ci in non e tanto la provenienza o l’origine di queste pratiche quanto
teressa, pero,
piuttosto il loro ruolo nello svolgimento della vita politico-religiosa in terra
greca. Questa digressione dunque ci e utile solo nella misura in cui ci consente di affermare che «l’asceta Epimenide, l’uomo ritornato in patria con
un ramoscello dell’ulivo che cresce sull’acropoli ateniese, non soltanto viene riconosciuto dalla scena politica, ma da questa e trattato come un essere
superiore».33
Medici e stregoni
La vicenda di Epimenide il cretese offre, credo, un’utile rappresentazione del ruolo dei cosiddetti ‘purificatori’ nella societa greca antica e dei loro
rapporti con l’istituzione statale.
Ma se questa testimonianza getta luce sull’uso pubblico di incantesimi
e purificazioni, un altro testo documenta, a partire da una posizione fortemente ideologica, il ricorso a queste pratiche da parte dei privati cittadini.
32
Burkert 1983: 115; traduzione mia.
Colli 1978: 15. Sulla figura di Epimenide e il contesto storico della purificazione di
Atene cfr. Pugliese Carratelli 1978, pp. 9-15, ma soprattutto le splendide pagine dedicate al
sapiente cretese da Santo Mazzarino (1966: 26-37 e 46-52).
33
Fuori e dentro la citta 185
L’ambito e quello della guarigione, della guarigione ‘sacra’ contrapposta alla guarigione ‘scientifica’, ‘razionale’, o, se si preferisce, ‘istituzionale’. E il
uno di
testimone, l’autore ippocratico34 del Male Sacro, e un medico; di piu,
quei medici che, attraverso la redazione di un’opera per cos ı dire ‘teorica’,
intende affermare con forza il predominio della techne iatrike su ogni altra
forma di guarigione.
Il testo meriterebbe di essere analizzato per intero, e tuttavia si e ritenuto
qui opportuno selezionarne alcuni passaggi.
1 Riguardo alla cosiddetta malattia sacra le cose stanno cos ı: 2 per nulla mi sembra che sia piu divina (θειοτ“ερη) delle altre malattie n¡e piu sacra (€ιερωτ“ερη), ma ha
una natura da cui deriva e che anche tutte le altre malattie posseggono. 3 Gli uomini, a causa dell’inesperienza e dello stupore, credettero che la sua natura e la sua
causa fossero un fatto divino, dal momento che in nulla e simile alle altre malattie;
4 e se da una parte il carattere divino, di fronte alla loro difficolta di comprendere,
le e garantito, dall’altra invece, di fronte alla facilita del modo terapeutico con cui
trattano, esso viene meno, dal momento che curano con purificazioni ed incantesimi
(—
οτι καθαρµο„ισƒι τε ιω
¤νται κα‚ι ‘επαοιδ”>σιν). 5 Se d’altronde per il fatto che desti
meraviglia la si crede divina, molte saranno le malattie sacre e non una sola, poich¡e
io dimostrero che le altre, che (pure) nessuno ritiene siano sacre, non sono per nulla
meno degne di stupore n¡e (meno) straordinarie.35
Gia nell’incipit si manifesta con evidenza il carattere altamente polemico
della trattazione. Proprio in questo senso, particolare attenzione va riservata all’uso dei due comparativi θειοτ“ερη e €ιερωτ“ερη:36 la malattia cosiddetta (καλεﵓενη) sacra, identificata in eta moderna nell’epilessia, non e per il
nostro autore piu sacra n¡e piu divina di tutte le altre. La polemica e qui non
tanto contro una concezione religiosa della malattia37 quanto piuttosto contro l’idea che si possano individuare gradi diversi di sacralita per le diverse
affezioni del corpo. Utilizzando le parole di James Redfield in riferimento a
quegli operatori del sacro specializzati nella risoluzione di problemi ‘ecce34
Sulla questione ippocratica e il problema della paternita dei trattati contenuti nel
Corpus cfr. Lloyd 1993.
35
Ippocrate, Male Sacro I, 1-5.
36
Sull’uso dell’aggettivo €ιερ“
οσ alternato a θε„ιοσ a seconda che l’autore faccia riferimento
alle posizioni dei purificatori o alle sue cfr. Lanata 1967: 24-25.
37
Lo stesso autore ippocratico dira in seguito che tutte le malattie sono divine e tutte
umane.
186
Pietro Giammellaro
zionali’,38 potremmo dire che, nell’ottica del medico ippocratico, una malattia piu sacra delle altre costituirebbe un «surplus problem », una difficolta fuori dalla norma, affrontabile soltanto da specialisti fuori dalla norma.
Nell’affermare la curabilita di questa malattia con gli strumenti utilizzati
per le altre, l’autore ippocratico rivendica, certo, la legittimita e l’importanza
della sua ‘professione’ all’interno della polis, ma soprattutto afferma velata luogo privilegiato del dispiegamente un principio fondamentale: la citta,
di un ordine conoscibile e controllabile dall’interno, non
mento della verita,
ha bisogno di «problem solvers» specializzati nella risoluzione di problemi
particolari poich¡e i problemi particolari, semplicemente, non ci sono.
Proprio nell’intento di dimostrare questo principio, nei paragrafi 6 e 7
il nostro autore si profonde in un elenco di malattie altrettanto stupefacenti
e che dunque dovrebbero essere definite sacre o divine. Subito
(thomasta)
dopo, senza spezzare la tensione dell’invettiva, egli individua con precisione
il bersaglio polemico diretto del suo attacco:
10 Mi sembra che i primi ad aver sacralizzato questa malattia siano stati uomini quali anche oggi ci sono, maghi e purificatori e agyrtai e accattoni, quanti invero pretendono di essere molto rispettosi degli de i e di sapere qualcosa in piu (θεοσεβ“εεσ
εŒιναι κα‚ι πλ“εον τι ειδ“εναι). 11 Costoro infatti recando per pretesto il divino e parando con esso la mancanza di espedienti che permettessero di possedere qualcosa
che, una volta somministrato, portasse giovamento, affinch¡e non fosse evidente che
essi non ne sapevano nulla, ritennero che questa affezione fosse sacra, 12 e pronunciando formule opportune fondarono la terapia per la loro sicurezza, somministrando purificazioni e incantesimi (καθαρµο’υσ προσ3“εροντεσ κα‚ι ‘επαοιδ’
ασ) ...
20 Tutte queste prescrizioni le impongono a causa del carattere divino, dicendo di
sapere qualcosa in piu ( ωσ πλ“εον τι ειδ“
οτεσ) ed adducendo altri pretesti, affinch¡e,
se invece muore, la
se (il malato) guarisce, di loro siano la reputazione e l’abilita,
loro discolpa sia garantita, con il pretesto che non sono essi la vera causa, ma gli
de i; ... 23 Se poi somministrando e mangiando questi alimenti si genera e cresce
il male, e non mangiandoli si cura, il dio allora non e la vera causa di alcunch¡e, n¡e
giovano le purificazioni, ma i cibi sono cio che cura e cio che danneggia: inoltre la
38
«Among the Greeks, religious specialists dealt with surplus problems, with the realm
of the unnatural (ta daimonia) ... When however there was an exceptional problem, it would
be felt that the cause must be some unnatural act, some crossing of sacred boundaries; an
individual with supernatural powers would be called upon to identify the cause and placate
the god. Such superior insight ... is socially recognised as a craft, like carpentry or poetry»
(Redfield 1991: 103-4).
Fuori e dentro la citta 187
potenza del dio svanisce. 24 Cos ı pertanto mi sembra che chiunque si accinga a
curare con tale trattamento queste malattie, reputi che non siano n¡e sacre n¡e divine.
25 Allorch¡e infatti viene allontanata per mezzo di queste purificazioni e di questa
terapia qui, che cosa impedisce loro di farle giungere e piombare sugli uomini per
mezzo di altri simili artifizi? Cosicch¡e non e piu il carattere divino la vera causa,
ma un qualcosa di umano. 26 Chiunque sia nella possibilita di cacciare questo male purificando tutt’intorno e mettendo in atto pratiche da mago (περικαθαƒιρων ...
κα‚ι µαγε“υων), questo potrebbe anche arrecarlo dopo aver praticato altri artifizi, ed
in questo discorso il carattere divino viene meno. 27 Dicendo ed escogitando tali
espedienti pretendono di sapere qualcosa in piu (πλ“εον τι ειδ“εναι), ed ingannano
gli uomini (‘
ανθρ£
ωπουσ ‘εξαπατ“εουσι) imponendo loro astensioni e purificazioni,
e gran parte del loro discorso approda al divino ed al demonico.39
La prima evidenza sottolineata dall’autore riguarda la pretesa di magoi,
kathartai, agyrtai e alazones di essere molto pii e di possedere conoscenze
che superino quelle del sapere istituzionale e riconosciuto.
Tratteremo piu avanti il problema dell’eusebeia e della relazione di
questi operatori del sacro con la religione ufficiale. Piu interessante e qui
l’espressione,
riflettere sulla presunzione di πλ“εον τι ειδ“εναι, vedere di piu:
che ricorre, pressoch¡e identica, in tre occorrenze della stessa opera, fa pensare immediatamente alla serrata critica platonica rivolta contro chi sostiene
di possedere una conoscenza superiore. I ‘ciarlatani’, portatori di un sapere
unitario, non parcellizzato, sono contemporaneamente medici, stregoni, sacerdoti e iniziati ai misteri; conoscono Omero ed Esiodo, leggono i libri di
Orfeo e Museo, e tutto questo senza la necessita di suddividere le competenze e di settorializzare la conoscenza. Non sembra dunque azzardato ipotizzare che questo attacco, sferrato su piu fronti, sia rivolto anche contro un
esercizio della conoscenza ancora una volta lontano, incommensurabile con
la rigorosa specializzazione dei saperi e delle funzioni, teorizzata da Platone nella Repubblica ed esemplificata, in campo medico, attraverso gli scritti
ippocratici.
Se si accetta l’idea che incantesimi e purificazioni posMa c’ e di piu.
sano ottenere un effetto positivo sulla salute dell’uomo, si ammette necessariamente che attraverso queste pratiche sia possibile anche arrecare danno
ad altri individui. Vale dunque l’argomentazione proposta precedentemente
a proposito del brano platonico: una comunita che non puo garantire l’inco39
Ippocrate, Male Sacro I, 10-12; 20; 23-27.
188
Pietro Giammellaro
lumita dei suoi cittadini e il rispetto delle leggi che essa stessa si e data, perde
ogni credibilita e si indebolisce come struttura politica.
Proprio per questo, nel suo scritto, l’autore ippocratico si appella a quell’istituzione che piu di tutte, a suo parere, garantisce la stabilita dello stato e
rafforza il potere politico: la religione.
28 Eppure proprio a me non sembra che facciano discorsi sulla corretta venerazione
del divino come loro dicono ma piuttosto sulla cattiva venerazione di esso e che dicano che gli de i non esistono, e mi sembra che la venerazione e il divino di costoro
siano mancanza di venerazione e di rispetto di cio che e permesso dagli de i agli uo 29 Se infatti promettono di essere capaci (‘επƒιστασθαι) di
mini, come spieghero.
far scendere la luna e di nascondere il sole e di mandare la tempesta ed il ciel sereno
e le piogge e la siccita e di rendere il mare e la terra infruttiferi e tutte le altre cose
di tal genere – sia che dicano di esserne capaci per mezzo di riti, sia per mezzo di
qualche altra conoscenza o pratica – 30 a me in realta sembra che essi siano empi e
che non credano n¡e all’esistenza degli de i n¡e, se gli de i esistono, che abbiano alcuna
forza, e che non si asterrebbero da nessuna azione estrema in quanto gli de i non sono
terribili per loro. 31 Se infatti un uomo, operando pratiche da mago e sacrificando
(µαγε“υων τε κα‚ι θ“υων) fara scendere la luna ed eclissera il sole e produrra la tempesta ed il cielo sereno, io di certo non potrei pensare che tra questi fenomeni vi sia
qualcosa di divino, ma di umano, se invero la potenza del dio e dominata ed asservita
dalla conoscenza dell’uomo. 32 Forse invece le cose non stanno cos ı, ma uomini,
bisognosi dei mezzi di sussistenza, escogitano molti espedienti di ogni specie e li
ricamano su questa malattia e su tutte le altre, attribuendo la vera causa a un dio, a
seconda di ciascuna forma del male.40
E ancora:
39 Fanno uso di purificazioni ed incantesimi (Καθαρµο„ισƒι τε χρ“εονται κα‚ι ‘επαοιδ>σι) e fanno del divino quanto di piu contrario alla venerazione e al divino, come mi
”
sembra: 40 purificano infatti coloro che sono colpiti dalla malattia col sangue ed
altri mezzi di tal genere come se avessero una qualche contaminazione (µƒιασµ“
α τι),
o come dei perseguitati dall’ira divina, o incantati (πε3αρµα㵓ενουσ) da uomini
o come se avessero compiuto qualche azione per niente conforme alle prescrizioni
divine date agli uomini. Occorrerebbe che costoro facessero il contrario di queste
operazioni, che sacrificassero e pregassero e recandosi nei templi supplicassero gli
purificano! 42 Ed alcuni resti delle
de i; 41 ora pero non fanno nulla di tutto cio,
40
Ippocrate, Male Sacro I, 28-32.
Fuori e dentro la citta 189
purificazioni li nascondono nella terra, altri li gettano nel mare, altri ancora li arroccano sulle montagne ove nessuno li tocchi n¡e ci metta i piedi; 43 ma occorrerebbe
dare tali cose alla divinita recandole al tempio, se davvero il dio ne e la vera causa.
44 Da parte mia d’altronde non ritengo cosa degna di credibilita che il corpo di un
uomo sia contaminato da un dio, cio che e piu corruttibile da cio che e piu puro; 45
ma qualora succedesse che fosse macchiato da altro o soffrisse qualcosa, dovrebbe
essere pulito e reso ritualmente puro dal dio piuttosto che contaminato. 46 E il divino che pulisce e purifica i piu grandi errori e le azioni piu nefande ed il sudiciume
che e in noi, noi stessi poi, fissiamo i confini dei templi e dei recinti sacri per gli de i,
affinch¡e nessuno li superi se non sia ritualmente puro, ed entrandovi noi ci aspergiamo non come se fossimo contaminati ma come se una qualche macchia l’avessimo
anche prima, e ce ne purificassimo. Questo penso sulle purificazioni.41
Che un medico ippocratico si permetta di discettare sulla corretta venerazione del divino, o peggio ancora, inviti i fruitori della sua opera a sacrificare, pregare, recarsi nei templi a supplicare gli d ei, sembra certo cosa
ben strana: in fondo, da un punto di vita strettamente economico, la guarigione templare e il culto di Asclepio sembrerebbero costituire nella Grecia
della fine del V secolo i diretti antagonisti della medicina ippocratica.
E tuttavia una analisi piu profonda consente di pervenire a conclusioni
come afferma Geoffrey Lloyd (1982: 39), «i medel tutto diverse: in realta,
todi di cura usati nella ‘medicina razionalistica’ e nella ‘medicina del tempio’ avevano molti elementi in comune: i sacerdoti facevano ricorso a farmaci, prescrizioni dietetiche e flebotomie, cos ı come alcuni medici razionalisti
non rifiutavano amuleti e preghiere». Di conseguenza, gli fa eco Chiara De
Filippis Cappai (1991: 283), «pur non esistendo pubblica affermazione, si
deve ritenere che i sacerdoti-guaritori di Asclepio fossero per lo piu accettati
dai medici». Non cos ı per i nostri agyrtai: la medicina templare, che rappresenta, certo, una possibilita alternativa alla techne ippocratica, non ne mette
pero in crisi i presupposti, i fondamenti e le pratiche; la guarigione magica, al
contrario, muovendosi in un campo per cos ı dire ‘trasversale’ e ancora una
volta non commisurabile con gli altri saperi, costituisce un pericolo molto
piu profondo.
E per questo, allora, che le argomentazioni dell’autore ippocratico, un
technites, ‘professionista specializzato’, risultano in conclusione del tutto
analoghe a quelle di un filosofo come Platone. Il mezzo piu efficace e an41
Ippocrate, Male Sacro I, 39-46.
190
Pietro Giammellaro
cora l’accusa di ‘vilipendio alla religione’: i ‘ciarlatani’ sono in realta degli
empi, poich¡e pretendono, con le loro conoscenze, di dominare e asservire la
potenza del dio, e anche le pratiche da essi attuate (purificazioni col sangue,
seppellimento o allontanamento dei resti) sono evidentemente, per il nostro
autore, contrarie ad ogni corretto svolgimento di un rituale religioso. In questo contesto, e alla luce di un passo platonico a proposito della trasformazione degli d ei, acquistano particolare rilievo i paragrafi 35-38 dell’opera in
questione, che attraverso un procedimento argomentativo identico a quello
di Platone ribadiscono una concezione degli d ei come esseri del tutto superiori, che per via della loro intrinseca purezza non possono in alcun modo
contaminare gli uomini, strutturalmente soggetti all’impurita.
Piuttosto, e proprio rivolgendosi alla purezza degli d ei che gli uomini
possono purificarsi dalle loro colpe, dal loro miasma: cio e possibile solo attraverso un’osservanza stretta dell’ortodossia religiosa che, ancora una volta,
si erge a garanzia delle istituzioni politiche della citta.
L’attacco congiunto di filosofia e medicina contro gli agyrtai ci fornisce una significativa testimonianza sulla diffusione di queste figure di
operatori del sacro itineranti, oltre che, verosimilmente, sul consenso che
raccoglievano attorno a s¡e da molta parte della popolazione.
Non possiamo dire con certezza se questo appellativo indicasse effettivamente gli iniziati ai misteri orfici o se invece designasse i rappresentanti di
un orfismo ‘degenerato’: certo e che il collegamento con la figura di Orfeo
si ripresenta nella maggior parte delle occorrenze, ora velato, ora esplicito,
anche nella letteratura successiva.
Un frammento del VII libro della Geografia di Strabone testimonia in
maniera inequivocabile questa associazione:
Ai piedi dell’Olimpo e situata la citta di Dion; nelle vicinanze si trova il borgo di
Pimpleia. Qui dicono che abitasse il Cicone Orfeo, all’inizio uomo goes agyrteuonta per mezzo di musica, mantica e riti orgiastici di iniziazione e che in seguito divento ambizioso, attirando a s¡e la folla e il potere. Alcuni lo seguivano di loro spon altri, sospettandolo di macchinazione e violenza, ordita una congiura
tanea volonta,
42
lo uccisero.
A partire da questo passo43 e possibile aggiungere qualche elemento al
42
43
Strabone, Geografia VII, fr. 18.
Accostato da Riedweg (1996: 1266) alla testimonianza platonica analizzata sopra.
Fuori e dentro la citta 191
quadro delineato, spostando l’attenzione su un’altra figura di operatore del
sacro ‘marginale’: nel passo di Strabone Orfeo e indicato come aner goes.
Sembra dunque indispensabile, preliminarmente, cercare di enucleare
succintamente una definizione di questa figura, con la consapevolezza di addentrarsi, in punta di piedi, in una questione spinosa e ancora oggi molto
discussa: alcuni studiosi hanno ritenuto di vedere nei goetes i corrispettivi
greci degli sciamani siberiani,44 per altri si tratta semplicemente di ciarlatani sedicenti maghi; puo essere dunque utile provare a ripercorrere la storia
linguistica del termine che li designa.
Dal compianto funebre all’evocazione dei morti
Attestata a partire dal VII sec. a.C.,45 la forma γ“
οησ46 sembra essere derivata dal piu antico verbo γο“
αω e dal sostantivo γ“
οοσ:47 il campo semantico e quello della lamentazione rituale, ma l’esame di tutte le attestazioni di queste due forme nell’Iliade mostra con chiarezza che il tipo di lamentazione
indicato riguarda specificamente il compianto funebre. Secondo Ernesto De
Martino (1975: 209) questo lamento si caratterizza anche formalmente, differenziandosi da altre tipologie di pianto rituale, come una «prosa ritmica,
prodotto intermedio tra la comune prosa parlata e il melos cantato».48
La specificita e dovuta forse alla particolarissima funzione che questo lamento sembra assumere: il morto che non ha ancora ricevuto sepoltura si tro44
Burkert, 1962: 36-55. L’articolo in questione si inserisce nella nota questione dello sciamanismo in Grecia: il primo a sollevare il problema fu Karl Meuli, con l’ormai classico «Scytika», pubblicato su Hermes nel 1935. In seguito presero parte al dibattito alcuni tra i piu illustri filologi e storici delle religioni degli ultimi cinquanta anni: tra questi Eric Dodds (1959:
159-210), Mircea Eliade (1968) e il suo allievo Culiano (1980). Per una rassegna critica di
queste posizioni cfr. Cusumano 1984; sullo stesso problema cfr., da ultimo, Kingsley 1994.
45
In un frammento di un poema epico perduto, la Foronide (cfr. infra).
46
Con i suoi derivati.
47
Cos ı Chantraine, 1968: 231. Semerano (1994: 63) riconduce questi termini ad una radice accadica qab¢u (= dire, lamentare, comandare) ma, come si vede, il campo semantico resta
lo stesso individuato da Chantraine.
48
Segno di questa specificita mi sembra possa essere riconosciuto in una notazione omerica sul pianto delle ancelle e di Andromaca subito dopo l’incontro con Ettore nel VI libro
dell’Iliade (VI, 500): α€ι µ’εν ›ετι ζω’
ον γ“
οον ‡Εκτορα ¨
? ‘εν‚ι ο‹ικ?, «Quelle piangevano Ettore,
sebbene ancora vivo, nella sua casa». La certezza dell’imminente fine dell’eroe e tanto forte
che le donne cominciano a piangerlo come morto nonostante in effetti sia ancora vivo, ›ετι
ζω“
ον. Questa precisazione e necessaria per sottolineare la tragicita del momento: comincia
il γ“
οοσ, pianto rituale specificamente legato alla morte, prima ancora che la morte sia giunta,
perch¡e quando essa raggiungera Ettore sara la fine per tutti i Troiani.
192
Pietro Giammellaro
va in una condizione di forte instabilita e il canto funebre si configura come
Il γ“
un ‘atto magico’ che favorisce la risoluzione di tale instabilita.
οοσ e dunque un «incantesimo per il morto»,49 una «recitazione di moduli verbali e
mimici che aiuta il cadavere vivente50 a raggiungere la sua stabile condizione
nel mondo dei morti».51
Nel seguire l’evoluzione del pianto rituale De Martino si spinge ancora
piu avanti: «Da questa forza magica della lamentazione si dovette poi sviluppare il vero e proprio incantesimo funerario». Si tratta di «incantesimi
che, mediante l’evocazione del defunto, pretendevano di ricavare informazioni sull’al di la o addirittura di attivare a profitto dei viventi le anime dei
morti. Nel quale ultimo caso si sara trattato di vera e propria necromanzia».52
Con la necromanzia siamo ormai lontani dall’accezione omerica di γ“
οοσ,
ma forse in un passaggio dei Persiani di Eschilo e possibile individuare una
fase dell’evoluzione del termine in questo senso:
Ma voi intonate canti luttuosi, stando in piedi presso la tomba
e levando la voce con lamenti evocatori di anime (ψυχαγωγο„ισ ... γ“
οοισ)
mi chiamate angosciosamente.53
Il γ“
οοσ e qui esplicitamente ψυχαγωγ“
οσ, e un lamento, ma e anche un incantesimo, una epode¡ capace di mettere in comunicazione il mondo dei morti
con quello dei viventi. E dall’evocazione di un’anima allo sfruttamento dei
suoi poteri per fini personali il passo e breve, tanto breve quanto quello che
congiunge, e nello stesso tempo separa, il γ“
οοσ, lamento funebre, dal γ“
οησ,
operatore specializzato della necromanzia, stregone e ciarlatano.
L’evocazione dei morti sembra essere una delle prerogative ricorrenti
nella caratterizzazione successiva del γ“
οησ e ritorna nella descrizione tipica
di maghi, streghe e stregoni dall’antichita classica all’Europa di eta moderna.
49
De Martino 1975: 215.
«La fase intermedia del cadavere vivente ... e sostenuta e determinata dal comportamento rituale del periodo di lutto, di guisa che, se i riti non sono eseguiti, e il morto resta
senza sepoltura e senza lamento, il regno dei morti non e raggiunto e il cadavere permane
tornando ostilmente tra i viventi» (De Martino
inquieto in una sorta di rischiosa instabilita,
1975: 211-12).
51
Ibidem. Sul γ“
οοσ come ‘lamento terapeutico’ finalizzato a ristabilire l’equilibrio di chi
lo esegue cfr. Spatafora 1997.
52
De Martino 1975: 216 e ss.
53
Eschilo, I Persiani 686-88.
50
Fuori e dentro la citta 193
Chi richiama tra i vivi un defunto opera un sovvertimento radicale dell’ordine cosmico, ponendosi nella condizione di mediatore tra due mondi. Si
colloca cio e in una posizione liminare tra il mondo degli uomini e la sfera del
soprannaturale; questo ruolo di comunicazione con un altro mondo implica
necessariamente l’assunzione di una forma altra, extraumana.
Non sembra dunque una forzatura considerare la trasformazione come
un risvolto per cos ı dire ‘esteriore’ di una azione piu profonda, che mette in relazione diretta due mondi tassativamente separati in tutte le culture
conosciute: quello dei vivi e quello dei morti.54
Del resto, il primo caso di trasformazione dei γ“
οητεσ, nel IV libro delle Storie di Erodoto, descrive la metamorfosi dei Neuri in lupi, animali che,
insieme ai cani, sono notoriamente considerati i custodi del passaggio tra la
vita e la morte e per questo intimamente legati al mondo ultraterreno.55
Il passo e molto interessante e merita di essere riportato per esteso:
I Neuri praticavano usanze scitiche; ... sono uomini che hanno tutta l’aria di essere
γ“
οητεσ. Infatti gli Sciti e i Greci che abitano in Scizia raccontano che una volta all’anno ciascuno dei Neuri per pochi giorni diventa un lupo e poi torna di nuovo al
suo stato precedente. Chi dice queste cose non mi persuade. Nondimeno le dicono,
e quando le dicono, fanno giuramento.56
Poco importa che si tratti in questo caso di un «fenomeno spontaneo individuale»,57 o piuttosto di un «rituale collettivo di travestimento»;58 quale
che sia l’interpretazione specifica del brano erodoteo, la licantropia e cer54
Scrive Carlo Ginzburg nel suo studio sul sabba: «in una societa di vivi, i morti possono
essere impersonati soltanto da coloro che sono inseriti imperfettamente nel corpo sociale ...
l’imperfetta assimilazione accomuna anche le figure ... che costituiscono gli
La marginalita,
antecedenti storici di streghe e stregoni» (Ginzburg 1988: 280).
55
Cfr. Mainoldi 1981, p. 8: «il cane gioca un ruolo particolarmente importante nel mondo
degli inferi ... La presenza del cane nella sfera della morte si articola sostanzialmente in tre
lo atterrisce con la sua presenza nel
momenti: il cane segna il passaggio del morto nell’aldila,
regno di Ade e inoltre rappresenta il morto che torna tra i viventi in forma di fantasma». Come
il γ“
οησ, il cane/lupo non appartiene del tutto a uno dei due mondi, e collocato al confine, al
limite tra la vita e la morte; accompagna il defunto nel trapasso, custodisce la soglia, torna
come fantasma: tutte azioni che coinvolgono entrambi i mondi. Per una trattazione piu ampia
del problema cfr. anche Mainoldi 1984, con ricco apparato bibliografico.
56
Erodoto, Storie IV, 105, 1-2.
57
Cos ı Corcella 1993: 317.
58
Ibidem.
194
Pietro Giammellaro
tamente una delle trasformazioni tipiche di maghi e streghe, presente nella
rappresentazione letteraria della magia dall’antichita 59 all’eta moderna.60
Dall’evocazione dei morti alla trasformazione
Un’altra testimonianza della capacita del γ“
οησ di mutare a piacimento il
suo aspetto e fornita da Platone nel II libro della Repubblica: nell’enunciare il
secondo principio della legge riguardo agli d ei si dice: «Pensi forse che la divinita sia un γ“
οησ capace di mutare di proposito apparenza, talvolta davvero
presente e cangiante in molteplici sembianze, talvolta invece mostrando di s¡e
solo un’apparenza ingannevole?»61 Platone spieghera poco dopo che la divinita non ha alcun motivo di mutare forma, poich¡e si desidera di cambiare il
proprio aspetto solo nella prospettiva di una condizione migliore; dunque gli
d ei, che si trovano nella forma perfetta, potrebbero mutarsi solo in qualcosa
di peggiore e questo e impossibile.
59
Per il mondo latino cfr. per es. Plinio (VIII, 80-84, senza riferimenti specifici a streghe),
Virgilio (Bucoliche VIII, 97, in riferimento a una strega), Properzio (IV, 5, in riferimento a una
ruffiana che possiede arti magiche e che, tra l’altro, riesce con i suoi incantamenti a comandare
gli astri, prerogativa questa, nel mondo greco, di goetes e agyrtai). Una succinta ma efficace
trattazione del problema della licantropia nel mondo latino in Fedeli e Dimundo 1988, con
ampia bibliografia.
60
Cfr. in proposito Ginzburg 1988, che tenta una lettura comparata delle piu importanti
testimonianze di licantropia dall’antichita all’eta moderna; in particolare, a p. 135 afferma:
«la capacita di trasformarsi in lupi viene attribuita di volta in volta a gruppi di consistenza
molto diversa. A popolazioni intere, come i Neuri secondo Erodoto; agli abitanti di una regione, come Ossory in Irlanda secondo Giraldo Cambrense; a determinate famiglie come gli
Anthi in Arcadia secondo Plinio; ad individui predestinati a cio dalla Parche (identificabili
con le Matres), come scriveva Burcardo di Worms al principio del secolo XI, condannando
la credenza come superstiziosa. Questa varieta e accompagnata pero da alcuni elementi ricorrenti. In primo luogo, la trasformazione e sempre temporanea, anche se di durata variabile ...
In secondo luogo essa e preceduta da gesti di sapore rituale: il lupo mannaro si spoglia e appende le vesti ai rami di una quercia (Plinio) oppure le depone in terra pisciandovi attorno
(Petronio); poi traversa uno stagno (in Arcadia, secondo Plinio) oppure un fiume (in Livonia,
secondo Witekind). In questa traversata e nei gesti che la accompagnavano si e visto un rito di
passaggio, piu precisamente una cerimonia iniziatica, oppure un equivalente della traversata
del fiume infernale che separava il mondo dei vivi da quello dei morti». Come si e detto, il
lupo e associato, nell’antichita greco-latina, al mondo dei morti, ma questa caratterizzazione
puo essere estesa anche al mondo germanico, baltico e slavo; come ricorda Ginzburg (ibidem,
pp. 135-36), le presunte apparizioni di lupi mannari nell’Europa centro-orientale sono per lo
piu concentrate nelle dodici notti tra Natale e l’Epifania, quelle stesse notti in cui, secondo le
tradizioni popolari locali, le anime dei morti vanno vagando sulla terra.
61
Platone, Repubblica 380 d.
Fuori e dentro la citta 195
Ai nostri fini, cio che importa e ancora una volta l’associazione del γ“
οησ
alla trasformazione. In questo caso si tratta ancora di un semplice cambiamento esteriore ma lo spunto serve al filosofo per discutere di ben altre trasformazioni: dopo aver fugato ogni dubbio sulla possibilita degli d ei di cambiare forma, infatti si domanda: «Ma forse gli d ei, pur essendo incapaci di
trasformarsi da soli, ci fanno credere che appaiono sotto molteplici forme ingannandoci e incantandoci (‘εξαπατ¤
ωντεσ κα‚ι γοητε“υοντεσ)?»62 La risposta e chiara: la vera menzogna e universalmente detestata dagli d ei e dagli
uomini. In conclusione dunque
la divinita e semplice e veritiera nei fatti e nelle parole, non e mutevole (ο›υτε α‘υτ’
οσ µεθƒισταται) e non inganna (ο›υτε α
=) n¡e con apparizioni, n¡e con
› λλουσ ‘εξαπατ”
discorsi (ο›υτε κατ’
α λ“
ογουσ) n¡e con l’invio di segni durante la veglia o il sonno
(λ“
ογουσ ο›υτε κατ’
α σηµεƒιων ποµπ“
ασ, ο›υθ —υπαρ ο‘υδ ο
›ναρ). ... Ammetti che il
secondo principio che ci deve guidare parlando degli de i, in poesia o in prosa, e che
essi non ci incantano (γ“
οητασ ο
›ντασ) mutando sembianza e non ci ingannano n¡e
con le parole n¡e con i fatti?
— S ı, lo ammetto.63
Il γοητε“υειν, l’incantare, e qui costantemente accostato all’ ‘εξαπατε„ιν,
l’ingannare,64 che pare proprio equivalere al cambiare forma.
serMutare aspetto, diventare qualcosa di diverso da cio che si e in realta,
ve ad ingannare l’interlocutore, a confonderlo, a precipitarlo nel regno della
doxa.
In alcuni passi65 l’identita tra γοετεƒια e α
ατη diventa esplicita: la γοε‘π“
τεƒια rappresenta il cambiamento, della forma fisica cos ı come dell’idea;
chi si lascia incantare si perde nella mutevolezza e viene irrimediabilmente
allontanato dal vero.
Nel Sofista (234 c - 235) la caratterizzazione del γ“
οησ viene delineata
da Platone in maniera ancor piu inequivocabile: egli fa leva sulla debolezza
naturale degli uomini, sulla tendenza a confondere l’apparenza con il vero.
Come la poesia e la pittura, la γοετεƒια crea illusioni.66 In questo senso,
come ha notato Carlo Viano,67 una critica serrata contro l’arte di incantare e 62
Ibidem 381 e.
Ibidem 382 e - 383 a.
64
Ibidem 381 e - 383 d.
65
Per es. Repubblica 413 c.
66
Platone, Repubblica 602 c 10 - d 4.
67
Viano 1965: 415.
63
196
Pietro Giammellaro
funzionale alle argomentazioni del filosofo contro la retorica dei sofisti. E se
«la retorica e associata alla magia in quanto anch’essa e una tecnica di manomissione della psiche umana e di legittimazione dei suoi disordini, che fa
appello alla disponibilita dell’ordine del mondo», e proprio a questa ‘tecnica
di manomissione della psiche’ che fa riferimento il filosofo in molti passaggi
delle sue opere, riprendendo con inequivocabile precisione terminologica gli
stilemi dell’‘iconografia del sofista’.68 La magia, tradizionalmente considerata come un risvolto per cos ı dire ‘oscuro’ della vita religiosa, con Platone
entra a far parte a tutti gli effetti della vita politica della citta.
Dall’inganno al sovvertimento dell’ordine
Il tema della sovversione politica,69 del ribaltamento di un ordine ‘naturale’, se da un lato ci richiama all’accezione originaria, etimologica, della
γοετεƒια, dall’altro ci consente di leggere in questa chiave il celeberrimo passo delle Baccanti di Euripide70 in cui lo straniero sotto le cui spoglie si cela
Dioniso viene definito goes epodos.
Mettendo in relazione questo passaggio con l’attacco degli ippocratici
alla concezione divina delle malattie, Giulio Guidorizzi (1989: 13) scrive:
«certamente n¡e i medici, n¡e Platone n¡e Euripide condividevano le idee popolari sulla follia divina ... ; in effetti la tematica della possessione puo ben
dirsi uno dei terreni di scontro piu significativi tra la cultura tradizionale e
quella propugnata da una e¡ lite intellettuale: le Baccanti vanno viste anche
alla luce di questo dibattito».
Se quanto affermato dallo studioso e per un verso certamente condivi68
Tra questi passi, particolarmente emblematico mi sembra per es. Ippia minore 371 a 3.
In un passaggio del Politico (234 c - 235 c 5) i goetes sono definiti da Platone
στασιαστικο“υσ ‘sovversivi’.
70
Euripide, Baccanti 233-47:
69
Dicono che e giunto uno straniero, goes epodos, dalla terra di Lidia: ha riccioli
biondi tutti profumati e negli occhi azzurro cupo spira il fascino di Afrodite.
E lui che giorno e notte convive con le nostre giovani, e propone loro le iniziazioni di Bacco. Ma se lo sorprendero in questa reggia gli faro ben io smettere
di percuotere la terra col tirso e scrollare al vento le chiome: gli tagliero la
testa. Dice che Dioniso e un dio; dice che un tempo fu cucito nella coscia di
Zeus: lui che fu folgorato insieme alla madre la quale aveva simulato nozze
divine. Ma non sono cose degne della forca, questi oltraggi dello straniero,
chiunque sia costui?
Fuori e dentro la citta 197
sibile, d’altra parte mi sembra che nella sua interpretazione prevalga fortemente l’aspetto per cos ı dire epistemologico della polemica, a tutto discapito
di una lettura ‘politica’, che peraltro aggiunge materiale interessante per una
migliore definizione del problema.
Direi anzi che le due chiavi di lettura possono essere considerate come
aspetti complementari di un dibattito unico che vede contrapposte non solo
due concezioni del mondo ma anche (almeno) due idee contrapposte dello
stato, della politica, della vita comunitaria. Non e un caso, credo, che le attestazioni platoniche del termine in questione e dei suoi derivati siano concentrate soprattutto nella Repubblica e nelle Leggi. La γοετεƒια, come pure la
sofistica, e in ultima analisi, per il filosofo, un problema squisitamente politico, e come tale va trattato, specificamente nei due dialoghi su cui soprattutto
si basa l’utopia politica di Platone.
E proprio nelle Leggi, infatti, che la critica alla magia acquista la forma
istituzionale della sanzione. Scrive ancora Viano (1965: 427): «La magia ha
il proprio fondamento nell’ateismo, non in quello che nega semplicemente
l’esistenza degli d ei, ma in quello che crede gli d ei incuranti delle faccende
umane e corruttibili da parte degli uomini». Cos ı si spiega, allora, l’insistenza quasi ossessiva sul ruolo dei sacerdoti e sulla proibizione di qualsiasi atto
religioso che non sia guidato dagli operatori istituzionali del sacro. E possiamo trovare le radici di queste affermazioni nella concezione platonica del
demonico, messa in bocca a Diotima nel Simposio:
Nella sfera del demonico si svolge tutta la pratica divinatoria e l’arte dei sacerdoti in relazione ai sacrifici (θυσƒιασ) e alle iniziazioni (τελετ“
ασ) e agli incantesimi
(επ?δ“
ασ) e a ogni genere di profezia (µαντεƒιαν) e di magia (γοετεƒιαν). Gli de i non
hanno contatti con gli uomini, ma attraverso il demonico si realizza ogni rapporto e ogni colloquio degli de i con gli uomini, desti o addormentati. E chi e sapiente
in simili arti e uomo demonico, mentre chi e sapiente in qualsiasi altra cosa, arte o
mestiere che sia, e uomo che pratica il lavoro manuale.71
Il demonico comprende tutte le pratiche legate alla sfera soprannaturale,
dall’arte dei sacerdoti alla γοετεƒια, in una climax inequivocabile. Religiosita istituzionale e magia, sacrifici e incantesimi, sembrano dunque appartenere
allo stesso ambito.
Proprio per questo, nelle Leggi (933 c 4 - d1) Platone mette in guardia
sugli effetti delle azioni magiche e dei farmaci somministrati da ‘non addetti
71
Platone, Simposio 202 e 7 - 203 a 7.
198
Pietro Giammellaro
ai lavori’. Non si nega tout court l’efficacia delle pratiche legate al soprannaturale; si dice piuttosto che queste pratiche devono essere espletate sotto la guida di un operatore istituzionale, un medico o un sacerdote, perch¡e
solo a queste figure, riconosciute come ‘esperti’, e possibile controllare le
conseguenze di atti magico-religiosi.
Ancora una volta, mi sembra, il problema di Platone e piu politico che
epistemologico: l’unico modo di combattere il potenziale eversivo del soprannaturale e affidare questo ambito a ‘funzionari pubblici’, a ministri del
potere che sapranno controllare e riportare entro i confini dell’istituzione
pratiche che altrimenti attenterebbero gravemente all’ordinato svolgimento
della vita religiosa nella polis ideale.
Chiarite queste premesse, e facile comprendere l’accanimento di Platone
contro i medici o i sacerdoti scoperti a praticare la magia:
Chi compie a danno di un altro venefici che non hanno effetti letali su quella data
persona, o sulla sua gente, oppure fa venefici a danno dei suoi armenti e delle sue
api in qualche modo danneggiandoli o addirittura uccidendoli, se e un medico ed e riconosciuto colpevole di veneficio sia punito con la morte. Se invece e un cittadino
qualsiasi, spetta al tribunale decidere quale deve essere la sua pena, pecuniaria o
corporale.
Se uno viene ritenuto colpevole di aver eseguito fatture o incantesimi o magie
varie, oppure altre pratiche riconducibili a questo tipo di venefici, se e un indovino o
un aruspice, sia messo a morte. Se pero e provata la sua colpevolezza quanto al fatto
di compiere venefici, senza l’aggravante d’essere esperto nell’arte mantica, abbia lo
stesso trattamento illustrato nel caso precedente.72
I medici e i sacerdoti che praticano arti magiche sono ben piu colpevoli
dei semplici cittadini. Essi rappresentano i garanti di un ordine costituito e il
valore simbolico del loro gesto e amplificato proprio da questo ruolo istituzionale: hanno attentato alla vita dello stato dall’interno, e per questo vanno
puniti con la morte.
Diversamente dai medici e dai sacerdoti, gli specialisti della γοετεƒια
non sono integrati organicamente nella struttura della polis greca. I γ“
οητεσ,
stando a quanto ci mostrano le fonti, sono descritti come figure marginali,
collocate in uno spazio intermedio, di non facile definizione.
Alla luce di queste considerazioni, mi sembra interessante a questo punto
esaminare le piu antiche attestazioni di γ“
οησ nella letteratura greca.
72
Leggi 933 d 1 - e 5.
Fuori e dentro la citta 199
In un frammento di un poema epico datato tra il VII e il VI sec. a.C.,
la Foronide, il termine e usato dall’autore per indicare i Dattili Idei, figure
piuttosto oscure della mitologia greca spesso collegate alla magia:
E la (›ενθα) avevano dimora i Frigi Idei, goetes abitatori dei monti, il grande Celmi, Damnameneo e il forte Acmone, esperti assistenti della montana Adrasteia, che
per primi nell’arte scaltra di Efesto (τ“εχνηισ πολυµ“ητιοσ €Η3αƒιστοιο) trovarono
nelle valli montane il ferro violaceo e, ponendolo sul fuoco, fabbricarono opere
splendide.73
Lo stato frammentario del testo non permette di individuare con certezza i luoghi, reali o immaginari, cui e riferito l’avverbio ›ενθα, e tuttavia, ai
nostri fini, e possibile isolare alcune caratteristiche di questi γ“
οητεσ mitici a
partire da altri elementi, chiaramente evidenziati dall’autore: il riferimento
esplicito alla scoperta del ferro e all’abilita metallurgica ci riporta immediatamente ai Telchini, indicati come γ“
οητεσ in testimonianze piu tarde;74 del
resto, la metallurgia e in molte culture antiche intimamente legata all’ambito della magia e della stregoneria.75 Il legame e probabilmente costituito
da alcune capacita che entrambe queste attivita conferiscono a chi le pratica.
La manipolazione a proprio vantaggio di elementi considerati ‘non umani’
implica il contatto con ‘energie’ di difficile controllo, e chi e capace di dominare queste forze non puo non essere considerato un ‘diverso’, utile per
ma al
la risoluzione dei «surplus problems»76 e quindi funzionale alla citta,
contempo legato ad un sapere sconosciuto ai piu e percio scomodo, da tenere
a ‘distanza di sicurezza’.
E proprio questo, credo, il ruolo dei γ“
οητεσ nella societa greca arcaica: essi possono essere interpellati per risolvere problemi non affrontabili
con gli strumenti della religiosita ufficiale, ma i loro legami con l’occulto li
collocano necessariamente fuori dallo spazio pubblico.
Se quanto detto finora e plausibile, acquista particolare importanza un’altra caratteristica del testo in questione: l’ambientazione della scena, tratteggiata con chiarezza, anche grazie all’uso reiterato dello stesso aggettivo77 per
73
Fr. 2 (2K), Barnab e 1987: 118-21.
Cfr. Realacci 1976 e Detienne 1970: 230-33. Sui Telchini cfr. anche Brillante 1993 e,
da ultimo, Musti 2000.
75
Cfr. per esempio Xella 1975, oppure Detienne 1970.
76
Redfield 1991: 103-4.
77
In un composto prima, per esteso negli altri due casi.
74
200
Pietro Giammellaro
tre volte nel giro di pochi versi, lega inequivocabilmente queste figure ad uno
spazio ben definito, quello della montagna: descritto di solito come ambiente
inadatto alla sopravvivenza dell’uomo, spesso quasi refrattario alla sua sola
presenza, lo spazio della montagna si configura tradizionalmente come alter chi vive nella montagna e fuori
nativo, e direi antitetico, a quello della citta;
dallo spazio civilizzato della polis, relegato all’eterno stato di natura, lontano dai luoghi della cultura. Questa estraneita e tematizzata nei modi piu var¢ı, dalla deformita fisica78 alla differenza nella lingua, dalla particolarita dell’abbigliamento all’alterita alimentare.79
Alla luce di queste considerazioni, puo essere letto sotto una nuova luce anche un passo erodoteo, particolarmente interessante perch¡e riunisce in
Nel secondo libro delle
un unico contesto molte di queste marche di alterita.
Storie si riporta un racconto di Etearco, re degli Ammoni, a proposito dell’esplorazione dei deserti della Libia da parte di un gruppo di giovani Nasamoni; durante questa non facile impresa essi sarebbero stati protagonisti di un
singolare incontro:
I giovani mandati dai coetanei, ben provvisti d’acqua e di cibi, andarono dapprima
attraverso la terra abitata: dopo averla attraversata, giunsero nella zona delle belve e
dalla zona delle belve attraversarono il deserto dirigendo il cammino verso il vento
Zefiro. Percorsero molto territorio sabbioso e, dopo molti giorni, videro alberi che
crescevano in una pianura; si avvicinarono e si misero a cogliere i frutti che c’erano
sugli alberi; ma, mentre li prendevano, furono attaccati da uomini piccoli, piu piccoli di uomini normali; gli uomini piccoli li catturarono e li portarono via: i Nasamoni
non conoscevano per nulla la loro 3ων“η n¡e coloro che li conducevano la 3ων“η dei
Nasamoni. Li condussero per paludi immense; dopo averle attraversate, arrivarono
in una citta dove tutti erano uguali in altezza a quelli che li conducevano, e neri di
colore. Presso la citta scorreva un grande fiume: scorreva da Occidente in direzione
del sorgere del sole, e nel fiume si vedevano coccodrilli. Mi basti dunque aver esposto fin qui il racconto di Etearco l’ammonio; a parte che Etearco diceva anche che
i Nasamoni, come raccontavano i Cirenei, avevano fatto ritorno e che gli uomini,
presso cui erano giunti, erano tutti γ“
οητεσ.80
78
Peraltro caratteristica dei ‘fabbri mitici’ di cui sopra (Efesto, Kothar etc,). Probabilmente in questa chiave e possibile leggere anche la proverbiale cecita dei poeti. Sulla teoria della
‘mutilazione compensativa’ cfr. da ultimo D’Onofrio 2000: 30-33.
79
Come e noto, gli orfici vestivano di bianco e si astenevano dalle carni. Sul collegamento
tra i Dattili Idei e l’orfismo cfr. Mazzarino 1966: 36.
80
Storie II, 32-33.
Fuori e dentro la citta 201
I giovani Nasamoni, dopo aver attraversato lo ‘spazio della cultura’, abitato dai Libici, dai Greci e dai Fenici, si spingono ancora oltre, passando per
la terra delle belve e per la terra della sabbia, dove regna «terribile aridita e
totale deserto»: lo spazio, insomma, dominato dalla natura. Procedendo ancora, giungono in una pianura con alberi, e cominciano a raccogliere i frutti
che, verosimilmente, crescono spontanei: questo luogo, nell’itinerario antropologico percorso dai Nasamoni, mi sembra rappresenti uno stadio preculturale, in cui la natura offre spontaneamente i suoi frutti e in cui uomini e
animali vivono pacificamente in armonia; immagini come questa ricorrono
in molte rappresentazioni della cosiddetta ‘eta dell’oro’, sia in ambito greco che, piu tardi, in tutta la letteratura latina. In questo spazio i giovani Nasamoni incontrano degli uomini, diversi per dimensioni (µικρο“υσ, µετρƒιων
ασσονασ α
ων), per colore della pelle (χρ¤
ωµα δ’ε µ“ελανασ) e per 3ω‘ελ“
‘νδρ¤
ν“
η. Questi, per raggiungere la citta che abitano, devono ancora oltrepassare
paludi immense. La conclusione dei Nasamoni e semplice e diretta: essi sono
tutti γ“
οητεσ.
E singolare come in entrambe le attestazioni erodotee finora trattate, i
γ“
οητεσ siano sempre identificati con un’intera popolazione: sia i Neuri licantropi che questi ‘pigmei’ neri dalla strana 3ων“η81 sono caratterizzati da marche di alterita di rilevanza tale da indurre lo storico greco a collocarli in spazi
e addirittura in comunita isolate; e se per i Neuri l’attributo di γ“
οητεσ poteva
forse essere letto nel segno della trasformazione, nel caso dei ‘pigmei’ l’u nico carattere rilevante ai nostri fini mi sembra essere la radicale estraneita,
fisica e culturale.
81
L’uso di 3ων“
η in luogo del termine che normalmente indica la lingua, γλ¤
ωσσα, non e casuale. Scrive Claudia Vassallo (1997/98): «la presenza del termine 3ων“η in quest’ultimo
passo e per noi abbastanza significativa: nei luoghi del testo erodoteo fino ad ora citato, infatti,
quando compariva il riferimento alla lingua, si trattava sempre del termine γλ¤
ωσσα che conformemente al valore che era stato individuato, indicava per l’appunto una delle forme che
la voce umana articolata poteva assumere, che in quanto tale poteva essere tratto distintivo e
caratterizzante di un determinato gruppo, e che per questo se imparata e conosciuta poteva
garantire la comunicazione tra diversi; qui invece siamo di fronte a una situazione di assolu le due lingue in questione non sono in alcun modo compatibili, ma per
ta incomunicabilita,
dirlo Erodoto fa ricorso al termine forse piu appropriato a valutarne la differenza; insomma
questa notazione sulla lingua ... pare voler non solo giustificare l’assenza di comunicazione fra le due parti, ma pure sottolineare la distanza che li separa e che, non essendo in nulla
scalfita, li rende reciprocamente irriducibili». Se questa interpretazione e corretta, possiamo
dunque considerare la scelta terminologica di Erodoto un segno ulteriore della distanza ‘culturale’ del popolo in questione rispetto ai Nasamoni, provenienti da uno spazio decisamente
‘civilizzato’.
202
Pietro Giammellaro
Sulla base di queste considerazioni, allora, e forse possibile leggere nella
chiave di un’opposizione tra spazio culturale e spazio della natura anche un
passaggio dell’Ippolito di Euripide (1038-41):
TES. Eccolo l’‘επ?δ’
οσ κα‚ι γ“
οησ, che crede di impadronirsi della mia anima con
parole dolci, dopo aver disonorato suo padre.
Se con ogni probabilita il senso principale dell’espressione ‘επ?δ’
οσ κα‚ι
γ“
οησ e in questo caso legato all’inganno, secondo i passaggi illustrati sopra,
non va dimenticato tuttavia che in una lettura antropologica del mito in questione Ippolito rappresenta l’uomo sottratto volontariamente all’ambiente ci A fronvilizzato della cultura, consacrato alla selva e alla dea della ferinita.
te della scelta c’ e pero la sua appartenenza ereditaria allo spazio della citta:
egli vive pertanto in una condizione di semiestraneita che lo costringe ad una
posizione liminare rispetto alla polis.
E proprio in questa situazione non definita, non incasellabile, la radice
piu profonda della tragedia.
Credo che attraverso la condizione di Ippolito, al contempo fuori e dentro
possano essere interpretati il ruolo e la posizione dei γ“
la citta,
οητεσ nella
cultura greca arcaica e classica. Essi non appartengono del tutto alla sfera
della natura ferina ma sono esclusi per le loro prerogative dall’appartenenza
allo spazio cittadino.
La citta si serve di loro per risolvere i «surplus problems», ma attua
contemporaneamente tutta una serie di strategie di esclusione, finalizzate a
mantenerli in una posizione marginale.
E quando Platone puo affermare nelle Leggi (649 a 1-5): «Ebbene, legislatore, n¡e un dio ha dato agli uomini un rimedio per la paura, n¡e noi stessi abbiamo escogitato un pharmakon – i γ“
οητεσ non li considero neppure»
nella sua scarsa considerazione per i γ“
οητεσ c’ e s ı un intento polemico e denigratorio, ma c’ e pure, a mio avviso, un chiaro invito, rivolto ai singoli ma
anche alle istituzioni, a non servirsi in nessun caso di pratiche e di operatori
che, a suo parere, possono solo danneggiare lo stato.
E necessario, a questo punto, tirare le fila del discorso finora condotto,
provando a legare in un unico ragionamento i molti temi trattati in relazione
alle figure di cui stiamo tentando di ricostruire le caratteristiche.
Nel XII canto dell’Odissea, al rimprovero di Antinoo per aver condotto a palazzo un mendicante straniero, il porcaro Eumeo risponde con queste
parole:
Fuori e dentro la citta 203
Antinoo, non parli bene, bench¡e tu sia un uomo di valore. Chi mai potrebbe andare,
in un paese o in un altro, a invitare un estraneo che non appartenga ai demioergoi,
un mantis o un guaritore di mali o un carpentiere o un thespis aoidos che diletta col
suo canto?82
Scrive Gian Antonio Gilli (1988: 11):
Demioergos e un termine intraducibile, denso di implicazioni: significa, letteralmente, colui che opera (erg-) per un demos, vale a dire per la popolazione di una
data unita territoriale. Il termine coglie cioe non i contenuti ‘tecnici’ delle attivita svolte, bens ı l’aspetto (sociologicamente ancor piu interessante) di subordinazione
o quantomeno una loro destinazione
di questi portatori di techne a una comunita,
sociale ben precisa.
Proviamo ad applicare questa definizione alle figure, mitiche o storiche,
che abbiamo visto indicate come γ“
οητεσ o α
‘γ“υρται.
I Dattili Idei e i Telchini, γ“
οητεσ per eccellenza, erano fabbri: al frammento della Foronide esaminato piu sopra e possibile affiancare le affermazioni di Diodoro secondo cui «gli Idei Dattili di Creta ... scoprirono l’uso
del fuoco, le proprieta del rame e del ferro e la lavorazione cui questi metalli
vengono sottoposti»83 e i Telchini «scoprirono alcune arti e introdussero altre novita utili alla vita degli uomini».84 Anche Strabone, parlando di queste
figure, ne mette in rilievo il carattere magico legato alla metallurgia.85 Dattili
Idei, Telchini e Cureti sono evidentemente associati ad Efesto, che, sempre
secondo Diodoro,
scopr ı il ciclo completo della lavorazione del ferro, quello del rame, dell’oro, dell’argento e di tutto cio che va lavorato col fuoco; scopr ı inoltre tutti gli altri modi
di utilizzazione del fuoco e trasmise queste conoscenze a coloro che esercitano le
arti e a tutti gli altri uomini. Percio gli artigiani (δηµιουργο‚ι) che esercitano questi mestieri, rivolgono di preferenza a lui preghiere e sacrifici; essi e tutti gli uomini chiamano il fuoco « Efesto », affidando ad un ricordo e ad un onore immortale il
beneficio concesso in origine alla vita comune.86
82
Omero, Odissea XII, 381-85.
Diodoro Siculo, Biblioteca Storica V, 64.
84
Ibidem V, 55.
85
Strabone, Geografia XIV, 6-7: «ο–υσ ο€ι µ’εν βασκ“
ανουσ 3ασ‚ι κα‚ι γ“
οητασ ... πρ£
ωτουσ
δ ‘εργ“
ασασθαι σƒιδηρ“
ον τε κα‚ι χαλκ“
ον, κα‚ι δ’η κα‚ι τ’ην αρπην τ¤
? Κρ“
ον? δηµιουργ”ησαι».
86
Diodoro Siculo, Biblioteca Storica V, 74 2-4.
83
204
Pietro Giammellaro
Non e possibile in questa sede dilungarsi sul significato che la cultura
greca attribuiva allo ‘stare accanto al fuoco’;87 mi interessa piuttosto rilevare
che tutte queste figure mitiche sono evidentemente definibili come demioergoi; sono maghi, ma sono innanzitutto artigiani, capaci di dare forma alla
materia informe.
Tiresia e Cassandra, indicati come α
‘γ“υρται, possiedono, per dono di un
dio, la τ“εχνη µαντικ“
η: interpretando i segni degli d ei e ‘traducendoli’ in vaticinio, danno forma, anche loro, ad una materia informe. Questa abilita e utile
che pero non esita a marginalizzarli quando il loro sapere diventa
alla citta,
scomodo.
Epimenide di Creta, definito καθαρτ“ησ alla stregua di quegli specialisti
della purificazione stigmatizzati insieme agli α
‘γ“υρται da Platone ed Ippocrate, indicato come «giovane Curete» (e vale la pena di ricordare che i Cureti
sono variamente assimilati ai Telchini e ai Dattili Idei88 ), pu o certamente es riconoscendone la techne,
sere considerato un ιητ”
ηρ κακ¤
ων. Persino le citta,
lo mandano a chiamare come ‘esperto straniero’ e si servono della sua abilita per liberarsi del miasma.
Infine Orfeo, indicato da Strabone come « α
ο µουσικ”ησ
› νδρα γ“οητα, α
‘π’
α
µα
κα‚
ι
µαντικ”
η
σ
κα‚
ι
τ¤
ω
ν
περ‚
ι
τ’
α
σ
τελετ’
α
σ
ο
ργιασµ¤
ω
ν
α
γυρτε“
υοντα»,89
—
‘
‘
da Diodoro come «discepolo dei Dattili Idei»,90 era l’autore dei libri che gli
α
αντεισ di Platone mostravano per praticare i loro rituali.
‘γ“υρται δ’ε κα‚ι µ“
Egli era «dotato dalla natura di straordinaria attitudine alla poesia e alla musica, e il primo ad avere introdotto in Grecia i misteri»,91 anche lui, dunque,
un demioergos.
Tutte le figure fin qui esaminate possono a buon diritto far parte della
lista di Eumeo: tutti sono portatori di una techne, sia essa la lavorazione dei
pure
metalli o la µαντικ“
η, l’arte della guarigione o la poesia. Queste abilita,
utili, indispensabili alla polis, presentano pero rilevanti elementi di pericolo
92 Scrive Gilli (1988: 7):
per la citta.
se oggi si guarda alla tecnica come a un vettore essenziale della Societa e del progresso, di cui e impossibile non tener conto, e al quale occorre anzi adeguare tutte
87
Sull’argomento cfr. Gilli 1988: 42-45.
Cfr. Strabone, Geografia 10, 3, 7.
89
Cfr. supra, p. 190.
90
Diodoro Siculo, Biblioteca Storica V, 64.
91
Ibidem.
92
Come ben sottolineano Miralles e Portulas 1998.
88
Fuori e dentro la citta 205
– la posizione dei Greci fu piuttosto quella di un uso delle altre parti della Societa,
le technai ‘difensivo’ nei confronti delle technai stesse: un uso fatto di cautele, di
che non si placarono nemmeno in prelimitazioni, e spesso di dichiarate ostilita,
senza del saldissimo controllo sociale istituito sui portatori di techne. Come per la
nostra esperienza, anche per l’esperienza greca il problema delle technai fu centra per i Greci, di una centralita minacciosa: impossibile da ignorare,
le, – ma si tratto,
essi tentarono tuttavia di attenuarla e di rimuoverla, e in buona parte vi riuscirono.
Il problema e , a questo punto, individuare le strategie messe in atto dalle
seguendo lo
istituzioni per far fronte a questo ‘pericolo necessario’. Provero,
schema tracciato da Gilli, a individuarne alcune.
Scrive ancora lo studioso: «un’indicazione preziosa di contenuto nel dialogo fra Antinoo ed Eumeo e l’associazione fra la condizione di demioergos
e la condizione di straniero:93 e normale, a quanto sembra, che per avvalersi dei sevizi di un demioergos lo si inviti, lo si mandi a chiamare». Queste
parole non possono che richiamare alla mente la figura di Epimenide, non
menzionato nello studio di Gilli, ma le cui caratteristiche e prerogative sembrano adattarsi con straordinaria precisione al quadro tracciato dallo studioso. Epimenide e straniero, e possiede un’abilita per la quale viene chiamato
da fuori: la citta ne ha bisogno, lo copre di onori e lo paga profumatamente, ma non ha spazio per una simile figura nella sua articolazione; e il sapiente rifiuta il compenso, segno tangibile di una distanza, e riparte con un
ramoscello d’ulivo.
Se le caratteristiche di Epimenide corrispondono in maniera particolarmente precisa al modello delineato da Gilli, nondimeno, anche nelle altre
figure e possibile individuare puntuali rispondenze: i Telchini e i Dattili Idei
provengono da Creta o dalla Frigia, a seconda delle diverse tradizioni, Cassandra e una troiana e anche Orfeo, il Cicone, si configura come uno straniero. A questi esempi e necessario aggiungere il Dioniso delle Baccanti, γ“
οησ
οσ proveniente dalla Lidia, nella cui caratterizzazione sono presenti in
‘επ?δ“
nuce le motivazioni politiche della necessita di marginalizzare tutte queste
figure.
Al tema dell’estraneita si lega intimamente quello, gia discusso nei capitoli precedenti, del «vivere sparsi». «La caratteristica piu vistosa», afferma
Gilli (1988: 304), « e certamente il disfavore sostanziale e formale con cui
93
Su questo tema cfr. anche Miralles e Portulas 1998: 18-19.
206
Pietro Giammellaro
gli autori antichi illustrano tale condizione: non vi e forse un solo caso in cui
essa sia connotata positivamente».
Per esemplificare questo modello, lo studioso utilizza la ‘non-societa’
dei Ciclopi, stigmatizzata da Omero principalmente per la condizione di
isolamento che essa comporta:
le caratteristiche dei Ciclopi corrispondono ad altrettanti indicatori di non-Societa:
... assenza di leggi, mancanza di assemblee, l’essere ciascuno legge a se stesso e,
finalmente, il non curarsi degli altri. Il fatto che la loro vita si svolga « sopra le cime
degli eccelsi monti, in grotte profonde» (IX, 113-14) rappresenta il sigillo ambientale coerente con tutto il quadro: selve, monti e antri sono, come sappiamo, tipico
paesaggio non societario.94
Alcune di queste caratteristiche dell’isolamento dei Ciclopi trovano singolare rispondenza nella vita itinerante dei γ“
οητεσ e degli α
‘γ“υρται mitici: la
collocazione montana dei Dattili o il sonno di Epimenide in una grotta non
sono che il corollario esteriore, geografico per cos ı dire, di una piu profonda
analogia: isolamento e itineranza rappresentano cio e, in ultima analisi, i due
risvolti di una stessa opzione antropologica e politica: il rifiuto di un’organizzazione statale come la polis greca, il rifiuto di vivere in una comunita regolata da leggi, circoscritta topograficamente ma soprattutto simbolicamente.
Ed e Ippolito, ‘επ?δ’
οσ κα‚ι γ“
οησ, l’emblema di questa condizione ‘apolitica’
e direi ‘antipolitica’: il suo ‘esilio volontario’ nella selva e figura di un’estraneita che e anche, per l’appunto, rifiuto, e proposizione di un modello etico,
politico e religioso incompatibile con quello dominante della citta.
Risvolto dell’estraneita e della vita itinerante, la trasformazione viene
indicata da Gilli come ulteriore elemento caratteristico dei demioergoi. La
figura odissiaca di cui si serve lo studioso per illustrare questa prerogativa
e il Vecchio del Mare, Proteo, che in s¡e raccoglie tutte le marche di identita tipiche del demioergos: e straniero (precisamente egiziano), vive, accanto al
mare, solo con la figlia Eidotea e un branco di foche,95 e possiede la µαν94
Sull’argomento cfr. anche D’Onofrio 2000 che, a p. 21, afferma: «la differenza sostanziale rispetto ai palazzi e che l’antro, anche quello simulato, si propone come spazio oscuro,
non costruito, ricavato nelle viscere della terra o da un albero, generalmente a una sola entrata,
uno spazio in cui lo stato di natura trova potente possibilita di espressione simbolica».
95
Su Proteo e le foche e sull’affinita di questa figura con i Telchini cfr. Detienne 1970,
Brillante 1973 e Musti 2000. Come Proteo, le foche vivono a meta tra la terra ed il mare,
ed e la loro configurazione fisica a costituire un segno evidente di questa condizione: nel De
Fuori e dentro la citta 207
τικ“
η. Ma questa non e l’unica techne che padroneggia: egli infatti e capace
di trasformarsi in vari animali, oltre che in fuoco o in acqua.96
Della trasformazione dei γ“
οητεσ si e gia detto: questa abilita riguarda i
Telchini, capaci, secondo Diodoro, di mutare forma a piacimento;97 riguarda
i Neuri erodotei, che una volta all’anno si trasformano in lupi; e anche Platone, usando metaforicamente il verbo γοητε“υω per indicare l’azione di chi
inganna, fa riferimento, verosimilmente, a questa caratteristica.
Ritorniamo dunque al passo omerico da cui siamo partiti: il rimprovero
di Antinoo che offre a Eumeo la possibilita di elencare le categorie di demioergoi riguarda la presenza di un mendicante a palazzo: ma questo men le modalita di questo tradicante non e altri che Odisseo travestito. Di piu:
vestimento sono descrritte come le fasi di una vera e propria trasformazione:
un’immagine che verra ripresa da Euripide in due luoghi del Reso:
E un’altra volta [Odisseo] entro in citta da α
‘ γ“υρτησ, con una veste da mendicante
(πτωχικ’
ην ›εχων στολ’
ην), invocando molti mali per i Greci, ma era stato mandato
a Troia come spia.98
E ancora:
aspetto sfuggente, stracci da mendicante, ma sotto
Una volta [Odisseo] entro in citta:
gli stracci teneva la spada. Chiedeva l’elemosina e strisciava come un α
‘ γ“υρτησ, con
il capo sordido, grinzoso; e insultava la casa reale degli Atridi.99
Il travestimento di Odisseo, dunque, non e solo esteriore: come a Troia
insulta i Greci per dare credibilita alla sua interpretazione, cos ı a Itaca, presso
partibus animalium (697 b 1) Aristotele afferma che esse «partecipano delle caratteristiche di
due generi [gli animali acquatici e quelli terrestri] senza appartenere n¡e all’uno n¡e all’altro. ...
Infatti, se considerate in quanto acquatiche, hanno piedi, ma in quanto terrestri hanno pinne
(perch¡e i loro piedi posteriori sono del tutto simili alle pinne dei pesci, e inoltre tutti i loro
denti sono disposti a sega e acuminati)». A partire dalle sue particolarissime caratteristiche,
biologiche ed etologiche, la foca e percepita e rappresentata dagli antichi come animale ‘di
confine’, di difficile classificazione proprio perch¡e collocato in uno spazio intermedio. Alla
luce di queste considerazioni, oltre che del collegamento con Proteo e con i Telchini, non
mi sembra dunque azzardato proporre, come suggestione, un accostamento tra la condizione
‘anfibia’ delle foche e la collocazione ‘fuori e dentro’ la citta di γ“
οητεσ e α
‘ γ“υρται.
96
Vale la pena di ricordare che fuoco e acqua sono tra gli elementi fondamentali della
tecnica purificatoria.
97
Diodoro Siculo, Biblioteca Storica V, 55.
98
Euripide, Reso 503-5.
99
Ibidem, 710-19.
208
Pietro Giammellaro
la sala che ospita i Proci, mostra di conoscere perfettamente la techne dell’accattonaggio: si ferma davanti alla soglia individuando con precisione il punto
esatto in cui un mendico deve fermarsi, cos ı da proporre la propria presenza senza tuttavia imporla; «rimanendo vicino alla soglia questo portatore di
techne, attiva, all’interno della propria techne un tratto che e comune a tutte
quello di essere dentro rimanendo ai margini».100
le technai della societa:
Proprio questa condizione liminare, dentro e fuori, ci consente di ritornare, dopo questa lunga digressione, alla realta di cui i personaggi trattati sono
una chiara rappresentazione: quelle figure sociali, in carne e ossa, alla cui
attivita e rivolta la critica platonica.
E possibile affermare, a conclusione di questo studio, che quegli operatori del sacro indicati come γ“
οητεσ o α
‘γ“υρται, che vantano antenati mitici illustri, ancorch¡e marginalizzati, dovettero costituire nella Grecia antica una realta di rilievo, non solo alternativa, ma anche e soprattutto antitetica alla struttura della polis. Essi rappresentarono certo per la citta una alterita terapeutica, sia rispetto alla nascente medicina ippocratica, sia rispetto
all’antichissima medicina templare.
Ma, quel che e piu importante, furono i portatori di una radicale alterita politica e religiosa, e in questo senso la figura di Orfeo adombra con ogni
verosimiglianza quei gruppi di sacerdoti che proponevano al popolo nuovi
regimi alimentari, nuovi culti, nuovi riti e nuove forme di aggregazione.
Scrive M. Detienne (1990: 118-19):
che coltivano tecnigli Orfici sono quelli che rifiutano, che si esercitano alla santita,
che di purificazione al fine di separarsi dagli altri, da coloro che sono soggetti ai delitti e alla sozzura. Tornando verso l’eta dell’oro, verso il tempo degli inizi, il genere
di vita orfico prescrive il rifiuto assoluto del sangue versato sugli altari e del mangia del
re carne, che e insieme, e inscindibilmente, anche un rifiuto dei valori della citta,
suo sistema religioso comprendente potenze divine distinte, con i suoi de i differenziati e la necessaria separazione tra gli de i e la specie umana. Un rifiuto radicale che
si esprime attraverso la condanna del pasto di sangue e del legame sociale che nella citta istituiscono il sacrificio di una vittima animale sull’altare e il conseguente
essere commensali in un banchetto di carni ... Come astenersi dalla carne equivale
dal momento che l’esercizio del sacrificio cruento appara porsi fuori dalla citta,
tiene allo stesso tessuto politico, rinunciare agli de i degli altri vuol dire mettere in
100
Gilli 1988: 17. Sul ‘fermarsi sulla soglia’ come regola dei rapporti tra stranieri cfr.
D’Onofrio 2000: 23.
Fuori e dentro la citta 209
Il politeismo greco e costruito
discussione l’intera costruzione della vita della citta.
in modo da comprendere anche il sociale ed essere parte integrante del politico.
Γ“
οητεσ e α
‘γ“υρται condividevano molti dei caratteri di cui sopra. Se pure non possiamo affermare con certezza che con questi appellativi ingiuriosi,
carichi di disprezzo e diffidenza, si volessero velatamente indicare i gruppi
orfici ormai diffusi in tutta la Grecia, possiamo certamente dire, parafrasando un’espressione di Dodds, che queste figure rappresentano per Platone il
peggior nemico da affrontare: l’individualismo antinomico.101 Essi incarnano «non un nuovo tipo di personalita ma anzi uno molto antico ... che unisce in s¡e le funzioni ancora non differenziate di mago e naturalista, poeta e
filosofo, predicatore, guaritore e pubblico consigliere».102
Questa figura di ‘intellettuale complesso’, portatore di una techne, non
puo inserirsi certo in una compagine statale che fa della specializzazione dei
saperi il punto di forza della sua organizzazione e il senso stesso della sua esi questo modello mette in pericolo la citta soprattutto sul piano
stenza; di piu,
politico, ne mette in crisi le strutture di potere perch¡e propone una via ‘altra’ al sapere, e Platone e pronto a contrastare questo sapere utilizzando lo
strumento della religione.
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L’Impero e I suoi confini: terra, suolo
e territorio nella prima dinastia Han
Filippo Marsili
Abstract
Under the aegis of the first Chinese controversial emperors, there flourished a
passionate debate on the function of rule and its relationship with the territory. I propose to identify a « Daoist» background through an analysis of sources conceived
for a « Confucian » e¡ lite.
Introduzione
In Cina, la concezione classica di impero unitario, cos ı come e nota ai
giorni nostri, nasce si sviluppa e viene dibattuta in un periodo brevissimo.
Una volta formalizzata, si cristallizza e – almeno a livello ufficiale – giunge,
senza essere quasi mai messa in discussione, sino all’epoca moderna.
Per la Cina della prima dinastia Han (202 a.C. - 8 d.C.), quando si parla di
sovranita imperiale si fa riferimento soprattutto alla sintesi formulata dal letterato Dong Zhongshu (179 ca. - 104 ca. a.C.),1 colui che avrebbe integrato
le concezioni cosmologiche di origine «taoista» nel sofisticato sistema etico
morale elaborato dai letterati, interpreti accreditati del pensiero di Confucio.
In breve si puo dire che egli riconoscesse, nella supremazia dei monarchi che
una sorta di continuita morale frutto dell’insi erano alternati dall’antichita,
terazione consapevole con le forze cosmiche. Le dinastie si sarebbero quindi
avvicendate conformandosi all’evoluzione e all’alternanza delle diverse ere,
ognuna caratterizzata da uno dei Cinque Agenti.2
1
Si veda Loewe 1994a e 1994b.
Secondo il Lüshi Chunqiu (una delle prime fonti nelle quali appare tale teoria), la sequenza (coerentemente con il principio ordinante dello xiangsheng, «mutua conquista») sarebbe: Terra, Legno, Metallo, Fuoco e Acqua, rispettivamente associati all’Imperatore Giallo
(Huangdi), alla dinastia Xia e a Yü il Grande, alla dinastia Shang e a Tang, agli Zhou e a re
Wen, il cui successore sarebbe dovuto essere connesso alla virtu dell’Acqua, ma dal momento
2
215
216
Filippo Marsili
In questo modo, confidando nell’organicita di tale sistema, attraverso un
attento esame dei portenti3 e un’accurata analisi delle fonti classiche «confuciane»,4 sarebbe stato possibile mettere in luce gli elementi ricorrenti che
stuavevano caratterizzato e reso possibili le azioni dei saggi dell’antichita:
diare cio che era accaduto nel passato poteva aiutare a prevedere cosa sarebbe
successo nel futuro.
Dopo lo sciagurato «interregno» dei Qin (221-207 a.C.), i quali – per lo
meno a giudicare dall’opinione negativa su di loro espressa dalla storiografia
posteriore – avevano voluto recidere ogni legame con la tradizione, lo storico
torno di nuovo a rivestire un ruolo cruciale: il taishigong attraverso la scrupolosa registrazione di ogni fenomeno operava sia un’analisi della realta che
la sua continua creazione.5
Questa visione, al di fuori del suo contesto storico, si accordava quasi
perfettamente con quelle che sarebbero state le letture tipicamente «confuciane» della cosiddetta «sovranita celeste» generalmente accettate soprattutto dopo la fine del regno di Han Wudi.
Se invece mettiamo in relazione il sistema di Dong Zhongshu con il mondo rappresentato dai fangshi, operatori dell’occulto, e dai maestri del suo
tempo, con la complessita culturale del primo periodo Han – cos ı come comincia ad apparire dagli studi sempre piu frequenti della cosiddetta scuola
«Huang-Lao»6 – il suo modello puo essere interpretato come una sintesi inche la legittimita dei Qin (almeno nella prima fase degli Han) fu messa in discussione, l’elemento e il colore consoni alla dinastia successiva furono materia di dibattito; si veda Loewe
1994c.
3
Si vedano Bielenstein 1950 e 1984, Eberhard 1957; entrambi gli studiosi sostengono che la registrazione dei portenti, specialmente durante l’epoca Han, rappresentasse un
espediente per criticare indirettamente l’imperatore, dal momento che questi avrebbe difficilmente tollerato una opposizione aperta. Se simili attacchi mascherati fossero escogitati dai
funzionari o dagli stessi storici, e ancora materia di polemica tra i due studiosi succitati.
4
Per quanto riguardo il ruolo di taishigong e le sue origini nelle antiche pratiche divinatorie si veda Vandermeersch 1992; per un’analisi delle pratiche divinatorie in Cina Sabbatucci 1989; per una nuova lettura dei concetti di tempo, spazio e storia nel contesto cinese: Wu
1995; Daffina 1991.
5
Il tentativo stesso di interpretare una realta che e concepita come continuamente soggetta a mutazioni puo di per s¡e essere considerato come atto creativo; secondo una interpretazione confuciana ortodossa il zhengming («la rettifica dei nomi») rappresenterebbe addirittura
si veda Vandermeersch 1992.
il primo passo necessario verso una riforma della moralita;
6
Un notevole avanzamento negli studi sul pensiero Huang-Lao (che e stato considerato come una sintesi tra le concezioni politiche della scuola legista, e la «filosofia naturale»
taoista, dove la seconda fonderebbe il presupposto ideologico del «cinismo» e del «machia-
L’Impero e I suoi confini
217
tellettualistica e artificiosa, quasi il tentativo di razionalizzare e secolarizzare
il multiforme patrimonio «magico-religioso» eredita del periodo degli Stati
Combattenti.7 Cio che era stato materia di investigazione cosmologica, di ricerca alchemica, di sperimentazione politica, una volta che diventava oggetto
di speculazione filologica e come se in certo senso perdesse il suo potenziale
sovversivo e destabilizzante.
Non e ancora possibile indicare chi beneficiasse di una tale «umanizzazione» della cultura ufficiale cos ı come della riduzione a simboli astratti delle prerogative religiose del sovrano;8 sia che si trattasse soltanto di una conseguenza del momento contingente o piuttosto di una precisa operazione politica pianificata da un gruppo ben definito, e comunque certo che una simile
visione fin ı per condizionare l’opera monumentale del primo storico della
Cina, Sima Qian (146-86 ca. a.C.) che, allievo tra gli altri di Dong Zhongshu
stesso, influenzo il modo nel quale gli abitanti del Paese di Mezzo avrebbero
veduto se stessi nei secoli a venire.
La storiografia posteriore fu incline a leggere le cerimonie celebrate dall’imperatore in prossimita della capitale piuttosto come una rappresentazione simbolica delle sue prerogative di garante dell’armonia universale, e Sima Qian – che con il suo imperatore Wudi (r. 141-87 a.C.) ebbe un rapporto
quanto meno problematico9 – proprio sulla base di un tale modello, sembra
vellismo» della prima) si e avuto grazie agli scavi condotti a Mawangdui, iniziati nella prima
meta degli anni ’70. Nel sito nei pressi di Changsha sono state rinvenute le sepolture aristocratiche risalenti all’antico regno di Chu e all’inizio del secondo secolo a.C. Al di la dello
straordinario valore artistico e culturale dei pezzi rinvenuti, vennero recuperati gli ormai famosi manoscritti su seta contenenti due differenti versioni del Daodejing e i cosiddetti Cinque
Classici Perduti, che hanno gettato nuove basi per la comprensione del mondo culturale della
fine del periodo degli Stati Combattenti, e segnatamente sul movimento Huang-Lao. Per un
primo resoconto sugli approcci ai testi e al relativo dibattito filologico che ne segu ı, si rimanda
a Du 1979. Tra la massiccia produzione specialistica sull’argomento si segnala il tentativo di
sintesi filosofica in Peeremboom 1993; per una traduzione critica dei «classici» Huang-Lao:
Yates 1997.
7 E certo che la fama di Dong Zhongshu fu successiva alla sua morte; sotto l’imperatore
Wu ricopr ı soltanto incarichi marginali (cfr. Loewe 1987: 134-41).
8
Fu Dong Zhongshu stesso che volle forzosamente considerare i sacrifici jiao condotti sotto gli Han come indirizzati al Cielo (cfr. Bujard 1997), e che volle leggere il carattere
wang come la rappresentazione simbolica della funzione del sovrano, visto come colui che
realizzava e garantiva l’armonia tra i tre livelli esistenziali: Cielo, Uomo e Terra (Ammassari
1991: 88).
9
Come e noto Sima Qian nel 99 a.C., con la sua perorazione a favore del generale Li Ling
(che aveva preferito la ritirata alla disfatta completa in uno scontro con i nomadi Xiongnu)
aveva suscitato le ire del suo sovrano che lo aveva poi costretto all’evirazione; lo storico co-
218
Filippo Marsili
incline a sottolineare la non ortodossia della sua condotta religiosa. Secondo lo storico, il Figlio del Cielo sarebbe stato soltanto ansioso di raggiungere
l’immortalita con ogni mezzo, affidandosi alle superstizioni e alle millanterie
dei fangshi che provenivano dai paesi costieri di Qin e Yan.
Rianalizzando le fonti alla luce delle nuove scoperte archeologiche e testuali, la politica religiosa di Wudi potrebbe trovare una nuova coerenza nella
concezione territoriale espressa nei cosiddetti classici Huang-Lao, nei quali si auspicava un sovrano in grado di controllare personalmente l’impero in
maniera centralizzata attraverso un programma di pianificazione economica
su larga scala, che di fatto finiva per sminuire il ruolo delle grandi famiglie di
proprietari terrieri, classe di riferimento della classe dei letterati-confuciani.
Cionostante Wudi sembra insofferente o poco fiducioso verso ogni forma di
sintesi culturale, come se le sue esperienze personali e una realta di fatto ancora frammentaria e multiforme lo rendessero consapevole della problemacita insita nella necessita stessa di unitarieta che il nuovo istituto imperiale di
fatto implicava. In dettaglio la complessita del suo atteggiamento puo essere
analizzata attraverso lo studio di una fonte come il «Fengshanshu»,10 nella
trattazione di particolari sacrifici imperiali quali quelli di Taiyi e Houtu.
Taiyi e Houtu
Il primo a parlare a Wudi del sacrificio a Taiyi e dei metodi esoterici
(fang) per realizzarlo era stato nel 133 a.C. il fangshi Miu Ji, proveniente
da Bo: «Tra gli shen11 celesti il piu nobile e proprio Taiyi, i suoi assistenti
munque, quale eunuco venne messo a capo della Segreteria Imperiale che specialmente sotto
Wu fu un ufficio di non trascurabile importanza; su Sima Qian, la vita e l’opera si rimanda a
Durrant 1995 e Nylan 1998-1999.
10
Il «Fengshanshu», il libro dei sacrifici Feng e Shan, e uno dei trattati presenti nello
Shiji di Sima Qian. Concepito come la storia della civilta cinese attraverso i suoi sovrani e
le cerimonie «religiose» di «stato», finisce in realta per screditare ogni pretesa di collegare
la legittimita di ogni dinastia (e nello specifico del regno di Wu) ai segni inequivocabili di
un’investitura superumana.
11
Il carattere shen che in contesto cinese e stato tradotto solitamente come «dio», «spiri quando sostantivo, e con «divino» o «sacro» quando in posizione di aggettito», «divinita»
vo (cfr. Birrell 1993: 5-22; Eno 1990b), nello Shijing di Sima Qian e riferito a tutti i fenomeni
che suscitano imbarazzo e sospetto piuttosto che ammirazione e rispetto; in questo studio viene seguita la lezione di Hall e Ames (1998: 242), che mettono in relazione shen con tutto cio che e semplicemente straordinario come piu che comunemente umano.
L’Impero e I suoi confini
219
sono i cinque Imperatori;12 anticamente il Figlio del Cielo sacrificava a lui in
immolando delautunno e primavera nella periferia sudorientale della citta,
le grosse vittime per sette giorni di seguito; egli elevava un altare con otto
angoli per favorire l’arrivo dei gui».13
Wudi recep ı in pieno le indicazioni di Miu, facendo prontamente eseguire i sacrifici nei sobborghi a sud-est di Chang’an. Successivamente gli giunsero in proposito ulteriori esortazioni (non e specificato se sempre da parte
dello stesso Miu) che facevano riferimento nuovamente a supposte usanze
degli antichi imperatori, i quali, ogni tre anni, avrebbero immolato vittime
animali ai tre shen, Tianyi, Diyi e Taiyi.
Come riferisce Sima Qian, Wudi accolse favorevolmente il consiglio e
anche questa volta dispose perch¡e il Taizhu sacrificasse presso l’altare fatto
edificare da Miu.
Nel 112 a.C.,14 Wu incarico l’ufficiale addetto ai sacrifici Kuan Shu di
provvedere alla costruzione di un ulteriore edificio per il culto Taiyi, a sud del
palazzo di Ganquan, (a quanto e riportato) sul modello di quello gia ultimato
secondo il progetto di Miu Ji, e finalmente di questo secondo altare il testo
fornisce un’estesa descrizione.
Il complesso era costruito su tre livelli; quello superiore, con l’immagine
di Taiyi, era chiamato zi tan, Altare Porpora, mentre quello centrale, altare
dei Cinque Di (wuditan), conteneva le zone di culto dedicate agli Imperatori Verde, Rosso, Bianco, Nero e Giallo, ubicate rispettivamente sui lati Est,
Sud, Ovest, Nord e Sud-Ovest;15 il livello inferiore era invece intitolato alla
moltitudine degli shen e a Beidou,16 l’Orsa Maggiore.
Questa particolare costruzione sembra sintetizzare tradizioni culturali risalenti a periodi diversi e attribuibili a distinte etnie della Cina, la cui esatta
fisionomia, per la scarsita e la frammentarieta delle fonti, e difficilmente ri12
Secondo Qian Baocong (Qian 1932), in questo passaggio sarebbe adombrata una delle fasi della «lotta» che oppose nella prima era Han la scuola taoista a quella dei Cinque
Elementi.
13
SJ, XXVIII, 1386. Con SJ, da qui in poi si indichera lo Shiji di Sima Qian nell’edizione
della Zhonghua Shuju di Shanghai, 1960.
14
SJ, XXVIII, 1394.
15
Come riporta Chavannes (1895-1905: 490 n. 4), essendo il centro gia occupato dal culto
di Taiyi, Huangdi venne ubicato sul lato Sud-Ovest, direzione legata al carattere ciclico wei,
al quale corrispondeva l’elemento Terra.
16
Lo staio, dou, era una sorta di grosso cucchiaio usato anticamente in Cina come unita di misura (circa due litri). La costellazione di Beidou aveva questo nome proprio per la sua
forma «a mestolo».
220
Filippo Marsili
costruibile. Taiyi, da sempre, e stato al centro dell’interesse degli studiosi cinesi. Recentemente Li Ling,17 sulla base di nuovi ritrovamenti archeologici,
ne ha proposto un’interpretazione che nel culto ravviserebbe la confluenza
di aspetti filosofici, astronomici e divinatori.
E ormai acclarato che gli stessi caratteri del nome (tai e yi), all’epoca,
erano entrambi utilizzati quali sinonimo del Dao a indicare una sorta di Unita Primordiale dalla quale si sarebbero generati Yang, Yin e conseguentemente la molteplicita dei fenomeni; mentre Taiyi e Tianyi sembrano anche essere riferiti a degli specifici corpi celesti: Taiyi e stata identificato ormai quasi
definitivamente18 con la stella Di (Imperatore) della costellazione cinese di
Beiji, il Limite Settentrionale (corrispondente a β Ursae Minoris, Kochab),
l’antica Stella Polare cinese;19 sebbene una collocazione esatta di Tianyi, per
la discrepanze tra le antiche fonti astronomiche, sia ancora problematica, si
tende a considerarla come il gruppo di tre stelle disposte a triangolo, chiamato, per il suo essere spesso invisibile nel Cielo, Yinde, Virtu dello Yin,
localizzata sotto Beidou.
Come sappiamo20 questa costellazione in Cina e tradizionalmente associata alle prerogative militari del monarca. Come riporta il trattato astronomico dello Shiji:21 «Lo Staio e il carro dell’imperatore; esso si mette al centro (del cielo) e governa i quattro punti cardinali, separa lo Yin dallo Yang,
determina le quattro stagioni, equilibra i cinque elementi, fa evolvere le divisioni (del tempo) e i gradi, fissa i diversi cicli». Beidou e anche legata alle
antiche tecniche divinatorie realizzate per mezzo dello strumento detto shi
(in voga dal periodo dei Regni Combattenti): questo era costituito da un elemento circolare a rappresentare il Cielo (con raffigurata l’Orsa), che veniva
fatto ruotare su una base quadrata (simbolo della Terra), sulla quale erano segnate le ventotto divisioni equatoriali o i dodici mesi dell’anno; chi si orientava tramite questo sistema (tenendo sempre presente Beidou) riceveva forza
e protezione. Come possiamo vedere la sua struttura sarebbe riprodotta nel
modello dell’altare a Taiyi della ricostruzione di Li Ling.
Ora nello stesso anno in cui venne stabilito il secondo altare a Taiyi (113
17
Li Ling 1995-1996.
Cfr. Qian 1932.
19
Questo corpo celeste, nell’epoca remota nella quale nacque tale mito astrale, si doveva
trovare molto piu vicino al Polo Nord celeste.
20
Cfr. Iannacone 1991: 115-20.
21
SJ, XXVII; traduzione in Iannacone 1991: 116.
18
L’Impero e I suoi confini
221
a.C.),22 il Grande Astronomo (in quell’occasione Sima Tan, padre di Sima
Qian), nel momento di annunciare la spedizione di Wu contro Nanyue, aveva
indirizzato in direzione del paese da combattere la Lancia Taiyi (Taiyi feng):
che consisteva in uno stendardo (Lingqi, Stendardo Magico), issato su asta
in legno, con raffigurati il sole, la luna, Beidou, e dei draghi volanti a rappresentare Taiyi e le sue tre stelle23 in un diagramma ricostruito da Li Ling
come una «Y ».
Tutti gli elementi di questa descrizione compaiono in diversi reperti archeologici analizzati sempre dallo studioso cinese (cfr. Li 1932: 12-18). Su
un pezzo di seta recuperato proprio dalla tomba 3 di Mawangdui24 (Bingbi
tu, ossia «Carta che respinge le armi»), e rappresentata una creatura antropomorfa definita contestualmente come Taiyi; e accompagnata da tre draghi
e da quattro altri personaggi piu piccoli definiti come suoi discepoli; due di
loro sono indicati rispettivamente come il Signore del Fulmine e il Signore
della Pioggia; sotto il braccio sinistro di Taiyi compare, iscritto in un cerchio, il carattere she (il Dio del suolo, la Terra); i colori usati nel disegno
per le figure sono in giallo, rosso, verde, nero e bianco. Su un talismano risalente al 133 d.C., scavato nello Shaanxi, compaiono il diagramma «Y »,
in posizione centrale, i caratteri tu, dou, gui, yue, ri (riportato 5 volte). Li
Ling mette in relazione questi elementi sulla base di un’analisi delle antiche fonti astronomiche cinesi; secondo tali testimonianze, Taiyi e il gruppo
Tianyi, nella regione circumpolare, occuperebbero il Palazzo Centrale, corrispondente, nella teoria dei Cinque Agenti, all’elemento Terra (rappresentato
in questo caso dai caratteri she e tu).
Sintetizzando, per Taiyi dell’epoca Wu, si puo parlare di culto astronomico-divinatorio; e trattandosi nello specifico di un culto imperiale, lo si puo leggere come legato alle funzioni cosmologiche e guerriere del sovrano e alla sua prerogativa di designare lo spazio percorrendolo e ridefinendolo sulla base di un azione conforme ai movimenti del cosmo; caratteristiche che
definiscono paradigmaticamente nel mito di Huangdi, l’Imperatore Giallo,
che come sovrano ideale e una figura centrale nei testi della Huang-Lao.
Il culto di Taiyi, nell’ottica delle speculazioni coeve su Yin e Yang, troverebbe il suo complemento ideale nei sacrifici a Houtu, la Madre Terra che
22
SJ, XXVIII, 1395.
Ibid.
24
La stessa tomba dal quale e stato recuperato il cosiddetto «canone» Huang-Lao, di cui
si parla nella nota 6.
23
222
Filippo Marsili
appunto nello Huainanzi25 vediamo comparire come assistente dell’Imperatore Giallo, proprio in un passo nel quale veniva descritto come esemplare
«dio del centro».
Nel culto di Houtu, inaugurato sotto Wu a Fenyin nel 113 a.C.,26 la caratterizzazione Yin, femminile,27 il riferimento inequivocabile al suo presiedere alla fertilita dei campi, appaiono come una reinterpretazione e una sintesi
in chiave taoista degli antichi riti legati a She, l’altare del dio del suolo e a
Houji,28 «dio» dell’agricoltura e capostipite dei Zhou, punto di riferimento
culturale della classe dei letterati.
Nella ricostruzione di Granet (1973: 70 e segg.) questi due shen, almeno
nel periodo degli Stati Combattenti, furono oggetto di un culto che metteva
in evidenza rapporti di ordine pubblico esistenti, non tra beni fondiari, ma tra
i raggruppamenti umani gerarchizzati che componevano la societa feudale.
Gli altari she potevano essere eretti, a favore di una comunita piu o meno
estesa, dall’imperatore, dai signori, dai grandi ufficiali, dai capi distretto o
dai capi famiglia; erano l’emblema dell’infeudamento dei capi locali, investitura che avveniva «per glebam »: lo she di un sovrano era costituito da un
quadrato formato a ogni oriente da terre di colori adeguati, nella sua zona
centrale con della terra gialla. I signori ricevevano una zolla del colore che
corrispondeva alla direzione dei loro territori di provenienza, sulla quale, una
volta di ritorno, avrebbero costruito a loro volta un ulteriore she. Sempre secondo Granet – almeno in epoca Zhou – l’abbinamento di quest’ultimo con
l’altare a Houji ribadiva un legame con il culto degli Antenati e il loro tempio.
Conclusioni
A questo punto e chiaro che la concezione del potere espressa da Wu, il
suo centralismo, la scarsa propensione alla delega delle prerogative di governo, la volonta di limitare l’autonomia politica ed economica delle famiglie di
proprietari terrieri, si esplicassero in maniera piu coerente in cerimonie quali
25
In Huaninanzi 3:6a si legge: «Il centro e la Terra, il suo imperatore e Huangdi, il suo
assistente e Houtu che misura le quattro direzioni con una linea retta».
26
SJ, XXVIII, 1389.
27
¡ Chavannes (1895L’interpretazione di Houtu come principio femminile si deve a E.
1905: 475-76 n. 3; 1910: 521-25); recentemente e stata supportata dagli studi in Mathieu 1989; relativamente al contesto storico e culturale nel quale si muoveva Wu, tale
caratterizzazione ci sembra inequivocabile.
28
Cfr. Birrell 1993: 54-58.
L’Impero e I suoi confini
223
quelle di Taiyi e Houtu che nei vecchi culti retaggio dei Zhou29 che ne erano
Il «Dio del Suolo» e Houji rimandavano chiaral’espressione della civilta.
mente all’aspetto maschile, politico, culturale della divisione del territorio; il
potere passava digradando dal centro alla periferia, e si riproduceva a livello
di microcosmo sempre secondo quei principi etici e gerarchici che per i confuciani erano il fondamento della civilta cinese tutta. La Terra Madre dei sacrifici di Wu andava invece ad incarnare il principio femminile stesso: poteva
essere percorsa in tutte le direzioni e resa fertile dall’imperatore-guerriero,
il quale, attraverso le sue campagne militari avrebbe stabilito i limiti della
un’azione che conforme ai moti del cosmo lo avrebbe anche potuto
civilta,
portare ad imporsi su preesistenti convenzioni politiche e culturali.
Se quindi Taiyi e Houtu, tenendo presente la concezione regale espressa dalla tradizione Huang-Lao, avrebbero dovuto rappresentare l’epitome e
la consacrazione del nuovo modello imperiale rappresentato da Wudi, stupisce che il sovrano sentisse comunque il bisogno di integrarli, quasi non
confidasse sino in fondo nella loro efficacia o rappresentativita o non considerasse risolutivi e appaganti tali culti ufficiali da un punto vista strettamente
privato.
Come riporta Sima Qian,30 quando Wu nel 118 a.C. cadde gravemente malato, il culto di Taiyi, nell’interesse dell’imperatore, fin ı per essere sopravanzato perfino dalla devozione per Shenjun, la Principessa degli spiriti
che ospitava nel parco imperiale e dalla quale traeva grande conforto;31 in
un’altra occasione, addolorato per la morte di una concubina,32 aveva invece
richiamato il solito fangshi da Qi, nella speranza che la riportasse in vita.
Se infatti l’imperatore rimaneva sempre psicologicamente legato a forme
devozionali piu adatte al popolo che al suo status, se continuava a voler dar
credito alle parole fangshi, se inaugurava imponenti cerimonie ufficiali sulla
base di tradizioni cinesi non confuciane, contemporaneamente non chiude29
In SJ, XXVIII, 1389, Wu, nel 114 a.C. passando per Luoyang, un tempo capitale dei
Zhou, avendo osservato che era difficile mantenere il retaggio delle Tre Dinastie (il cui tempo
era ormai lontano) concesse a un discendente della vecchia casa regnante un «feudo» perch¡e
vi potesse sacrificare agli antenati. L’imperatore, pur mostrando rispetto per l’antico casato,
sembra voler sancire l’interruzione di una linea di potere, svincolando il proprio regno dai
legami con quella tradizione che i letterati – animati anche da fini politici – proponevano
come paradigma.
30
SJ, XXVIII, 1388.
31
Ibid. In questa occasione Shenjun venne ospitata nel Palazzo della Longevita (Shougong).
32
SJ, XXVIII, 1387; si trattava di Shao Weng di Qi.
224
Filippo Marsili
va le porte ai letterati, dando spesso l’idea di voler condurre, seguendo la
loro interpretazione dei classici, cerimonie che fossero inequivocabilmente
ortodosse.
Il progetto politico e religioso che Wu intendeva portare avanti evidentemente si scontrava ancora con concezioni che erano espressione di forze politiche e interessi che non potevano essere liquidati brutalmente senza tentare
una mediazione, ma l’opera di mediazione e sintesi che l’istituto imperiale
necessariamente imponeva non si poteva immediatamente attagliare a una
realta complessissima, multiforme, nella quale «l’uni-verso» poteva essere
esso stesso concepito come la coesistenza parallela di mondi apparentemente inconciliabili e in contraddizione; se Wudi non si fece mai scrupolo di eliminare qualsiasi abile funzionario civile o militare una volta che ne avesse
ricavato cio che era funzionale ai suoi disegni, da un punto di vista ideologico, cultuale e rituale, il suo comportamento fu sempre ambiguo e meno
facilmente decifrabile.
Quando nel 122 a.C.,33 dopo un sacrificio jiao a Yong, venne catturato un
animale simile a un lin, Wu sembro accettare l’interpretazione dei funzionari
che considerarono l’evento come un chiaro segno di favore concesso dal Cielo. Pensando che si stesse quindi per apprestare a realizzare feng e shan (i soli
sacrifici che indubitabilmente secondo le fonti tradizionali avrebbero sancito
la legittimita dinastica) il re di Jibei gli fece dono del Taishan che si trovava
all’interno dei territori da lui amministrati; in seguito, anche la commanderia
di Changshan, con il monte Hengshan, cadde sotto l’amministrazione centrale; secondo Sima Qian soltanto a questo punto, finalmente, i Cinque Picchi
venivano a trovarsi tutti sotto il dominio del Figlio del Cielo che altrimenti
non avrebbe potuto condurre quei sacrifici che, come abbiamo visto, erano
stati nobilitati dall’esempio di Shun.
Se Wu quindi con i culti di Taiyi e Houtu sembra voler dichiarare diversamente che tutta la terra e dell’imperatore in quanto l’ha conquistata militarmente, e perch¡e, verosimilmente, all’epoca erano ancora in auge prassi e
concezioni diverse; un tale principio quindi, in un certo senso rivoluzionario, doveva essere a maggior ragione affermato e ribadito anche per mezzo
di culti non ortodossi e di origine periferica quali quelli di Taiyi e Houtu.
33
SJ, XXVIII, 1387.
L’Impero e I suoi confini
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Interpretare e essere interpretati:
il caso della Malinche
Sergio Botta
Abstract
La Malinche, the interpreter of the expedition that Hern¡an Cort¡es drove to the
conquest of Mexico, became a symbolic protagonist of the whole Mexican history.
Her historic character was transformed into a powerful metaphor of the rising mestizo nation. La Malinche suffers on her body the collective afterthought of two cultures that are uniting their destinies. In the manifold attempts of interpretation of the
new events, the Spaniards and the Natives addressed to the woman to give sense to
the new reality. As an heroin of the Mexican nation, La Malinche transforms herself
from interpreter to an object of interpretation.
La Malinche fu l’interprete nativa che guido Hern¡an Cort¡es durante la
spedizione alla conquista del Messico a partire dal marzo del 1519. Il termine
«Malinche» e il nome di uso comune con cui si indica, nel Messico attuale,
un personaggio storico, mitico e letterario che attraversa l’intera vicenda nazionale; la sua figura e il prodotto sincretico dell’incontro tra due tradizioni,
quella nativa e quella cristiana, che, nel corso della storia, ha assunto nomi,
funzioni e ruoli differenti.
La vicenda della Malinche si e svolta su due piani distinti, uno individuale e uno collettivo. Da un lato c’ e la storia personale, della quale possediamo pochissimi dati certi, dall’altro la vicenda e apparsa adatta a interpretare la radicale novita degli avvenimenti della Conquista e il personaggio in carne e ossa si e trasformato ben presto in un prodotto di consistenza
biografica effimera. La produzione discorsiva1 sviluppata intorno alla figura della Malinche ha pero contribuito a plasmare la cultura messicana coloniale con il suo rinnovato orizzonte simbolico sincretico. Tentando di soffermarmi sulla dimensione collettiva piuttosto che su quella individuale, intendo prendere le distanze da quegli studiosi contemporanei che, continuando a
1
Foucault 1969.
231
232
Sergio Botta
interrogarsi sulla semplice consistenza storica del personaggio, hanno scritto, e continuano a scrivere, biografie della Malinche senza analizzare criticamente le ragioni ideologiche che hanno ispirato i diversi narratori della storia
messicana.2
I testi piu importanti da cui e possibile attingere per ricostruire la vicenda originaria della Malinche sono due: la Historia verdadera de la conquista
de la Nueva Espa£na di Bernal D¡ıaz del Castillo (terminata nel 1568) e il Libro XII del Codice Fiorentino del francescano Bernardino de Sahag¡un (circa
1578-79). Non e possibile ricavare notizie da fonti piu antiche: le Cartas de
Relacio¡ n di Hern¡an Cort¡es inviate a partire dal 1520 all’imperatore Carlo V
mostrano, ad esempio, un totale disinteresse nei confronti della Malinche.3
E necessario dunque leggere il testo di Bernal D¡ıaz del Castillo, luogotenente di Hernan Cort¡es. La Historia verdadera de la conquista de la Nueva
Espa£na fu scritta a molti anni di distanza dagli avvenimenti per rispondere
alle parole inesatte di chi «senza avere notizia alcuna veritiera» aveva voluto
ugualmente raccontare i fatti (D¡ıaz del Castillo 1984: 37). In aperta polemica con l’agiografo di Cort¡es, il sacerdote Lopez de Gomara, che non aveva
mai messo piede in America, Bernal D¡ıaz propone la propria esperienza di
protagonista e testimone oculare. Tanto basta a molti storici per considerare la Historia verdadera come una fonte assolutamente credibile ai fini della
scrittura di una biografia della Malinche. L’opera di Bernal D¡ıaz si contrappone risolutamente a Cort¡es e tenta un riscatto dei ‘veri’ protagonisti della vicenda. Il cronista intende opporre un’epopea collettiva all’epopea puramente cortesiana proposta nelle Cartas e nell’opera di Lopez de Gomara
(N¡un£ ez Becerra 1996: 33); questa storia scritta e pensata attraverso le regole retoriche e il linguaggio della chanson de geste avra pero pur sempre le
caratteristiche di un’epopea. La rappresentazione della Malinche proposta
dal cronista spagnolo ricorda modelli letterari provenienti dai romanzi cavallereschi (Rose-Fuggle 1991); il racconto sembra organizzato affinch¡e le
eccellenti doti morali della Malinche possano convivere a fianco di coloro
che compiono gesta eroiche.
Nell’opera di Bernal D¡ıaz, la Malinche e chiamata Donna Marina: e il
2
Per un’aggiornata analisi critica dell’intero panorama scientifico sul tema si veda il
recente Glantz 2001.
3
Cort¡es racconta brevemente della Malinche in due occasioni. Nella Lettera II, nella
quale si riferisce alla Malinche come: «la mia interprete, una donna indiana di Putunchan»,
e nella Lettera V, nella quale afferma: «Marina ... viaggio sempre in mia compagnia dopo
che mi fu donata insieme con altre venti donne» (Cort¡es 1987).
Interpretare e essere interpretati: il caso della Malinche
233
nome che le danno gli Spagnoli con il battesimo. Nel corso dell’intera vicenda sembra assolvere semplicemente una funzione passiva di interprete
tra Spagnoli e nativi. La donna «parla», «accompagna», «traduce», «riferisce», «intende», «mette sull’avviso»; nonostante la varieta delle azioni, agisce sempre per conto degli Spagnoli, mai per propria iniziativa; il suo agire e sempre dettato dalla volonta di Cort¡es. Grazie a Marina la comunicazione tra
Spagnoli e nativi e semplice, senza difetti n¡e incomprensioni, ma la facilita con cui la donna traduce appare sospetta.4 Mi sembra che nella prospettiva retorica che anima la Historia verdadera, la facilita della comunicazione
appaia non come un dato reale, ma piuttosto come un elemento funzionale all’edificazione letteraria della grande impresa. Prima dell’apparizione di
Donna Marina, Cort¡es e gli Spagnoli sembrano perduti. Jer¡onimo de Aguilar,
un sacerdote naufragato otto anni prima al largo delle coste dello Yucatan,
che fino all’arrivo della donna nel campo spagnolo aveva fatto da interprete,
non e piu in grado di assolvere la propria funzione: rimasto prigioniero tra i
nativi di lingua maya, non conosce le lingue del Messico che si stanno scoprendo e la sua funzione di interprete si esaurisce. Quando il bisogno degli
Spagnoli diviene impellente, ecco il «miracoloso» dono da parte di un cacicco della costa delle venti donne tra le quali c’ e la giovane Malinche. Donna
Marina appare nel momento di maggior bisogno linguistico e scompare dalla
vicenda quando il ruolo delle parole e oramai esaurito. Arriva al campo degli
Spagnoli quando i conquistadores si stanno avventurando nel dedalo culturale e linguistico del Messico interno; li accompagna e «abbandona» il campo
dopo aver tradotto, «per bocca di Cort¡es», l’ultimo discorso all’esercito di
soldati spagnoli e in larga parte tlaxcaltechi prima del decisivo assedio alla
citta di Tenochtitlan. Quando l’esercito si muove, Donna Marina e oramai
relegata in un angolo; nel racconto successivo di Bernal D¡ıaz del Castillo di
lei non vi e quasi piu traccia.
L’episodio della prima apparizione della donna e dunque di centrale importanza simbolica: Donna Marina arriva al campo come un dono che si confonderebbe tra i tanti oggetti se non fosse per la sua «eccellenza». Delle al4
Mariano Somonte, uno dei piu importanti biografi della Malinche, spiega che la donna
dovette conoscere perfettamente il nahuatl perch¡e era la lingua parlata nel suo paese d’origine. Nonostante, infatti, la Malinche provenisse da una zona estremamente distante rispetto al
centro del potere azteco, il piccolo villaggio di Painala gravitava in un’area di influenza mexica. Se dunque appare probabile che la Malinche parlasse correntemente nahuatl, la lingua
degli aztechi, e altrettanto probabile che nel corso della sua cattivita nel Tabasco, la donna
possa avere appreso anche la lingua maya parlata sulla costa orientale.
234
Sergio Botta
tre donne non si hanno notizie: il loro unico ruolo sara quello di preparare
il campo, curare le ferite, raccogliere la legna. Una funzione praticamente
irrilevante ai fini della costruzione letteraria dell’epopea. Il ruolo di Donna
Marina, invece, richiede notevoli caratteristiche: «donna Marina era di buon
aspetto, e svelta, e disinvolta ... in ogni circostanza diede prova di grande
valore e di ammirevole fermezza» (D¡ıaz del Castillo 1984: 72 e 120).
«Fermezza», «eccellenza», «grande valore» e anche «buon aspetto»
sono le caratteristiche necessarie affinch¡e Donna Marina possa assumere un
ruolo all’interno della vicenda. L’insistenza sulle qualita produce una sorta
di «idealizzazione meravigliata» che permette a Bernal D¡ıaz di «neutralizzare» l’iniziale alterita della donna:5 Marina puo essere cos ı pensata al di
fuori del suo contesto culturale originario tanto che anche il colore della sua
pelle sembra meno scuro di quello degli altri nativi (D¡ıaz del Castillo 1984:
73). Per questa ragione, Donna Marina viene accolta dagli Spagnoli come se
non possedesse un nome prima di arrivare al campo.6 Come i luoghi, le citta e le montagne incontrate lungo il cammino divengono spagnole attraverso
l’imposizione di un nome, cos ı anche Donna Marina e oggetto di un processo di cosmicizzazione itinerante.7 Solamente dopo aver distanziato la carica
caotica dell’alterita culturale, Donna Marina puo essere introdotta nel siste5
La meraviglia e una delle strategie retoriche maggiormente utilizzate da Bernal D¡ıaz.
Uno degli esempi piu interessanti e rappresentato dalle lunghe pagine che descrivono l’arrivo
degli Spagnoli a Tenochtitlan. L’atmosfera sospesa guida i lettori dal momento della visione
della citta dall’alto di un valico, fino al palazzo di Motecuhzoma (D¡ıaz del Castillo 1984:
45-48).
6
Nonostante le molte notizie riportate riguardo la vita della Malinche prima dell’arrivo al
campo spagnolo, Bernal D¡ıaz del Castillo non ritiene opportuno riferire il suo nome di nascita.
Questo atteggiamento non appartiene solamente al soldato: sembra quasi che l’unico dato
storico accertabile riguardo alla Malinche sia il fatto che nessuno si sia curato di tramandare
il suo nome.
7
Credo che queste poche riflessioni possano contribuire a rendere problematiche alcune
considerazioni, a mio avviso eccessivamente schematiche, di Tzvetan Todorov. La comunicazione orizzontale di cui parla lo studioso bulgaro, una comunicazione finalistica con gli
esseri umani che sarebbe alla base della vittoria spagnola, non sembra ancora in questa fase definitivamente acquisita. Anche nell’orizzonte di pensiero spagnolo persistono spazi per
una comunicazione tra gli uomini e il mondo, quella che secondo lo studioso apparterrebbe
esclusivamente agli aztechi. Eppure si vede in questo caso che gli Spagnoli, considerati come degli «specialisti della comunicazione umana» (Todorov 1982: 119), acquisiscono con
estrema fatica il dominio sull’interazione tra gruppi umani. Fu proprio la dominazione spagnola nel Nuovo Mondo, infatti, a dar vita a quella grande frattura nell’auto-rappresentazione
della propria cultura che mise in moto un processo di profondo ripensamento delle proprie
categorie. Si vedano Gruzinski 1988, Mazzoleni 1990 e 1999, Pagden 1982 e Surdich 1991.
Interpretare e essere interpretati: il caso della Malinche
235
ma culturale spagnolo e le sue qualita naturali possono trasformarsi, grazie
al battesimo, in un’eccellenza ‘morale’: «Poi diede a tutte il battesimo e a
quella signora che ho detto fu posto il nome di Marina; e veramente era una
grande cacicca e figlia di cacicchi e signora di vassalli, e questo ben appariva
dalla sua persona» (D¡ıaz del Castillo 1984: 71).
Il tema della nobilta e estremamente significativo: le buone disposizioni naturali possono infatti essere riscattate attraverso la funzione incivilitrice
dell’Occidente. Anche l’uso del termine reverenziale «Donna» mostra l’avvenuta trasformazione dell’eccellente cacicca in una persona. Se la donna e e pur vero che solamente grazie al battesimo quedotata di buone qualita,
ste possono essere messe realmente a frutto. Solamente allora, infatti, Bernal D¡ıaz puo raccontarci la vicenda della Malinche precedente all’arrivo nel
campo spagnolo (D¡ıaz del Castillo 1984: 73):
Suo padre e sua madre erano cacicchi di un paese chiamato Painala, che aveva altri
paesi sotto di s¡e. Mortole il padre quando era ancora bambina, sua madre si risposo con un giovane cacicco ed ebbe un altro figlio che, naturalmente, fu il preferito; per
poter poi lasciare a costui il caciccato, i genitori, di comune accordo, decisero di
affidare Marina a certi indiani di Xicalango e di far credere a tutti che fosse morta.
Essendo poi morta in quel tempo una figlia di una schiava, Marina prese il suo posto,
quelli di Xicalango la diedero a quelli di Tabasco e quelli di Tabasco a Cort¡es. Io
conobbi sua madre e anche il suo fratellastro, quando era gia uomo e comandava
in un paese insieme con la madre, perch¡e anche il secondo marito della donna era
gia morto. Tutt’e due si fecero in seguito cristiani, la donna si chiamo Marta e il
figlio Lazzaro; e io me li ricordo molto bene, perch¡e nel 1523, dopo la conquista di
Messico, passai con Cort¡es per Xicalango. In quanto a Donna Marina, il comandante
la portava sempre con s¡e e cos ı essa prese parte a tutte le guerre della Nuova Spagna,
di Tlaxcala e di Messico. Era una donna di molta autorita e comandava su tutti gli
indiani della Nuova Spagna.
Il commento finale di Bernal D¡ıaz appare davvero ambiguo. Il soldato e perfettamente consapevole del fatto che Donna Marina fu relegata al margine al termine della vicenda. Dopo la fallimentare spedizione di Cort¡es verso
il sud del paese, Marina viene dimenticata e scompare dalla cronaca, tanto
che e difficile anche ricostruire una data plausibile della sua morte. L’autorita di cui sta parlando Bernal D¡ıaz sembra piuttosto di tipo morale. I temi
della trasformazione di Donna Marina in bene di scambio, deldella nobilta,
la sua conseguente vita da schiava e del risolutivo arrivo al campo spagnolo
236
Sergio Botta
lo
sembrano funzionali all’edificazione di un personaggio eroico. La nobilta,
abbiamo gia notato, e semplicemente una «buona disposizione»: se in essa
e pur vero che nella logica cavallesono contenuti in potenza valore e abilita,
resca che ispira la scrittura del racconto, la nobilta va provata attraverso gesta
eroiche. Non e un caso che la famiglia d’origine di Donna Marina non riconosca affatto il suo valore potenziale; esso dovra esprimersi a fianco degli
Spagnoli solamente dopo il battesimo. Ancor prima del sacramento, la trasformazione in bene di scambio e la conseguente vita come schiava avevano
infatti privato l’eroina dei suoi diritti nobiliari di nascita. La donna viene confusa con una schiava, scacciata dalle sue terre (come il Giuseppe biblico) e
acquistata infine dagli Spagnoli che, riconoscendone le buone disposizioni,
le permettono di esprimere quella rettitudine morale che sarebbe altrimenti
rimasta in potenza. Ecco quindi una spiegazione dell’ambigua affermazione
di Bernal Di¡az: la rinnovata statura di Marina garantisce il comando spirituale «sugli indiani della Nuova Spagna». La vicenda infatti acquista una risoluzione circolare nell’episodio in cui la donna si trova, a distanza di anni, di
fronte a sua madre e al suo fratellastro (D¡ıaz del Castillo 1984: 73-74):
I due poveretti avevano una gran paura che li avesse fatti venire per ammazzarli, e
disse loro di non aver paura e
piangevano che facevano pena; ma Marina li consolo,
che in quanto al passato era sicura che quando l’avevano mandata via da Xicalango
non sapevano quel che facevano. Ad ogni modo era disposta a perdonare e li rimando al loro paese con molti preziosi regali. In quanto a lei era contentissima di essersi
fatta cristiana, di aver avuto un figlio dal suo signore Cort¡es e di essersi sposata con
un hidalgo come Juan Jaramillo.
Quelli che un tempo apparivano come «grandi cacicchi e vassalli» sembrano ora dei poveri miserabili che «piangono e fanno pena». Il battesimo
ha ultimato la trasformazione: la nuova fede cristiana, di cui Donna Marina e contentissima, rende possibile, attraverso il perdono, il riscatto della
sfortunata vicenda personale, ma anche metonimicamente dell’intero mondo
nativo.
Il racconto di Bernal D¡ıaz mostra dunque come anche per gli uomini di
cultura spagnola l’incontro con il Nuovo Mondo rappresenti un momento di
confronto profondo con le proprie categorie. Il continuo riferimento ai temi
cavallereschi e al patrimonio cristiano rende meno salda quella pragmatica
comunicazione interumana finalizzata alla conquista militare che caratterizzerebbe l’approccio degli Spagnoli. La conquista del Messico non mise in
Interpretare e essere interpretati: il caso della Malinche
237
opera una semplice padronanza tecnica della comunicazione, e credo debba
essere necessariamente tenuta in considerazione «la natura delle pratiche di
rappresentazione che gli europei portarono con loro in America» (Greenblatt
1991: 29).
Alla Donna Marina creata da Bernal D¡ıaz si oppone la complessa tradizione interpretativa di origine nativa, alla quale purtroppo non posso che fare
brevissimi accenni. La vicenda vista con gli occhi dei nativi viene tramandata
nel Libro XII del Codice Fiorentino, un gigantesco tentativo politico e spirituale di sistemazione della cultura azteca.8 A partire dal 1547, Bernardino
de Sahag¡un raccolse, attraverso la voce dei giovani nativi alfabetizzati nel
Collegio francescano di Tlatelolco, le storie e le testimonianze di un mondo
oramai scomparso. Il racconto, profondamente riveduto e corretto da Sahag¡un tra il 1550 e il 1555, rappresenta il testo piu vicino a moduli narrativi
precolombiani e quello maggiormente in grado di testimoniare una precoce
«visione dei vinti».
La Malinche appare come un essere sconcertante, lo straniamento prodotto dalla sua presenza e profondissimo. Anche in questo caso la donna assolve la funzione di interprete, ma ben piu gravi sono le conseguenze del suo
operato. Malinche traduce una lingua barbara che ha il potere di uccidere la
terra. Ma il fatto che piu colpisce il narratore e la scelta compiuta da «una
donna di questa terra» di guidare i «nuovi venuti» contro la sua stessa gente.
Anche questo testo viene considerato come fonte assolutamente credibile per la ricostruzione della biografia della donna; ci troviamo invece nuovamente di fronte a una profonda sistemazione a posteriori degli avvenimenti
e a un profondo ripensamento delle proprie categorie di indirizzo del reale.
La scelta di Malinche puo essere considerata sconvolgente dal punto di vista politico soltanto dopo una riflessione sull’arrivo degli Spagnoli. Il mondo
nativo fino ad allora politicamente frammentato, culturalmente eterogeneo e
non puo ancora pensarsi coprivo di una concezione assoluta dell’alterita,
me un tutt’uno: un’umanita al di fuori dai limiti conosciuti non e del resto
fino a quel momento prevedibile n¡e pensabile. La Malinche puo essere interpretata come «una donna di questa terra» solamente in seguito ad un’amara riflessione sugli avvenimenti e sul proprio destino; e puo apparire come la rivelazione di una storia condivisa che unisce per la prima volta nella
8
Le complesse vicissitudini del manoscritto e della sua realizzazione non possono essere analizzate in questa sede. Per una introduttiva analisi critica all’opera del francescano, si
vedano i lavori di Baudot 1977, Monaco 1997, Todorov 1982 e Todorov e Baudot 1988.
238
Sergio Botta
sconfitta le genti del Messico. La profonda crisi mito-politica rappresentata
dalla Conquista spagnola deve essere reinterpretata e assorbita dall’ordinamento culturale messicano. Le ragioni del fallimento devono essere iscritte
nelle proprie categorie di senso e le cause della sconfitta possono essere ricercate anche interrogandosi sul ruolo di Malinche. Ecco dunque che la scelta nativa del nome (in questa fonte la Malinche viene chiamata Malintzin)
non e dettata da intenti biografici (che abbiamo visto assenti anche in Bernal
D¡ıaz), ma da esigenze puramente interpretative. Il termine Malintzin deriva
dall’unione di un suffisso reverenziale -tzin e del nome calendariale Malinalli: il dodicesimo giorno del calendario divinatorio azteco. L’assegnazione di
un nome calendariale delineava le inclinazioni personali, il carattere, il ruolo che l’individuo avrebbe ricoperto durante tutta la vita.9 Ebbene il giorno
Malinalli era considerato funesto e disastroso. Si diceva che coloro che nascevano sotto questo segno erano «come bestie selvatiche» (Sahag¡un 1988:
251); sarebbero divenuti individui ribelli, sfortunati, e sarebbero stati privati
dei loro figli.
Se dunque gia la scelta del nome rappresenta una prima interpretazione
del ruolo della Malinche, la tradizione nativa tenta accostamenti anche con
le figure mitiche del proprio capitale simbolico. Il piu interessante e quello
con la figura nota come Mal¡ınal Xo¡ chitl. Nel tempo del mito essa rappresenta l’incarnazione al femminile di un potere ostile all’instaurazione di un
ordine azteco. La concretizzazione del potere regale sembra infatti dipanarsi
in un rapporto conflittuale e ambiguo con delle «donne della discordia» (si
veda Gillespie 1989 e Monaco 1998), che rivestono una funzione cruciale
in momenti di instabilita della dinastia. L’addomesticamento di queste cariche caotiche permette la realizzazione dei compiti del sovrano. In maniera
simmetrica debbono essere stati percepiti gli avvenimenti della Conquista:
un gruppo di esseri sconosciuti cancella la dinastia messicana e distrugge la
citta di Tenochtitlan. Questi «nuovi venuti» sono guidati da un’altra «donna
della discordia». Questa volta pero Malintzin, cos ı simile a Mal¡ınal Xo¡ chitl
per la carica distruttrice, non viene addomesticata e il tentativo di combattere i nuovi venuti fallisce. Malintzin decide di sedersi al fianco di Cort¡es e
realizza il suo destino (quello di Malinalli, la bestia selvatica portatrice di
9
Mi sono occupato dei rituali collegati alla nascita in un precedente lavoro nel quale ho
tentato di mostrare i profondi sviluppi dialogici creati da una sopravvalutazione delle supposte somiglianze tra i «battesimi» delle due culture. In questa negoziazione di significati entravano infatti in gioco le diverse accezioni che i due mondi davano del concetto di persona.
Si veda Botta 2002.
Interpretare e essere interpretati: il caso della Malinche
239
una parola distruttiva), e instaura, di fatto, una nuova dinastia. In una sorta
di ribaltamento, le ragioni della sconfitta sembrano gia essere scritte nel destino di Malintzin. La rilettura del proprio bagaglio culturale ha dato ai messicani una soluzione mito-logica della crisi mito-politica. Lo sconforto per il
destino fallimentare di una cultura nativa che inizia a pensarsi come un corpo unico produce anche la sovrapposizione con un’altra figura preispanica,
quella della dea Cihuacoatl che, mutando nome, dara vita a una delle figure
centrali della tradizione indigena messicana: la llorona, la donna che vaga
nella notte piangendo i suoi figli morti.10 Molti sono i punti di contatto con
Malintzin: si era gia detto che i Messicani credevano che i nati nel giorno
malinalli avrebbero certamente perso i loro figli.
Una volta che i furori della Conquista si sono placati, le riflessioni si incentrano intorno al nuovo ordine coloniale. L’incessante riplasmazione del
proprio passato ha condotto a riflessioni scaturite dalle proprie categorie e
puo fornire ora una spiegazione al presente e un indirizzo al futuro, mettendo irreversibilmente in moto il cambiamento. Sia per la cultura spagnola che
per quella nativa, la Malinche ha costituito un luogo adatto per la riflessione
sugli eventi. Nei decenni successivi, la sua vicenda, invece di acquistare maggiore consistenza storica, tende a trasformarsi «in un puro segno letterario»
(Messinger Cypess 1991: 2).
Nel XVII secolo, per Fernando de Alva Ixtlilx¡ochitl,11 membro di una
importantissima famiglia nobile nativa, Marina e una semplice interprete
largamente lodate
neanche piu degna di un titolo onorifico. Le sue qualita,
da Bernal D¡ıaz, si debbono interamente al battesimo. L’intera vicenda della Conquista viene riscritta in una prospettiva provvidenziale nella quale i
meriti della donna, come quelli di tutti i protagonisti, sono nulla di fronte al10
I racconti orali sulla llorona acquisiscono repentinamente una forma canonica. Horcasitas e Butterworth si sono occupati di produrre una sinossi di tutti i testi che contengono
accenni a questa figura. Dalle circa centoventi versioni storico-geografiche rintracciate, i due
studiosi ricostruiscono un intreccio standard del racconto: «La llorona era una giovane donna
divenne pazza e
indiana che aveva diversi figli illegittimi. Quando il suo amante la ripudio,
affogo i suoi figli in un fiume. Dopo la sua morte, la donna li cercava tutta le notte. Oggigiorno appare come un fantasma vicino ai luoghi acquatici o nelle strade urlando e piangendo»
(Horcasitas e Butterworth 1964: 221).
11
Fernando de Alva Ixtlilx¡ochitl nacque intorno al 1580 e scrisse le sue opere tra il 1600
e il 1640. «Ixtlilx¡ochitl discendeva dalla figlia di Cuitlahuac, penultimo tlatoani di Tenochtitlan, e da Ixtlilx¡ochitl, legittimo erede della dinastia di Texcoco. Entro nel Collegio di Santa
Cruz di Tlatelolco, nel quale, sin dai primi decenni della predicazione missionaria, erano stati
educati gli eredi delle piu importanti famiglie messicane» (Monaco 1997: 79).
240
Sergio Botta
la volonta divina che riscatta e promuove gli indios dando vita a un paese
cattolico privo di barriere.
Sul finire del XVIII secolo, il gesuita Francisco Javier Clavijero12 sviluppa i temi retorici dell’opera di Bernal D¡ıaz esplicitandoli in una prospettiva profondamente edificante: la cattiva sorte che ha costretto la donna a una
giovinezza infausta appare «necessaria a trasformare la principessa messicana in un agente attivo della Divina Provvidenza» (N¡un£ ez Becerra 1996: 42).
Non si tratta semplicemente di costruire una funzione narrativa all’interno di
un’epopea cavalleresca, n¡e di riscattare il destino dei nativi, ma di consacrare la Malinche a emblema della cristianita trionfante. Nel Messico unito dalla fede, Donna Marina viene elevata a madre spirituale ed eroina del nuovo
paese meticcio.
La costruzione di un’immagine esemplare della Malinche si mostrera pe ro di durata effimera. Il suo status di grande conquistadora inizia a declinare
esattamente nel momento in cui i Messicani cacciano gli Spagnoli nel 1821.
I protagonisti della costruzione della nazione messicana creano l’immagine, anche sessualmente esplicita, della chingada: la violentata, la donna che
tradisce la sua razza. In aperta polemica con il dominio spagnolo, la nuova
cultura messicana abbandona l’immagine eroica e salvifica di Donna Marina
e rielabora quegli elementi in una forma manifestamente negativa: la nuova
Malinche, che simboleggia il fallimento delle Americhe di fronte al dominio
europeo, e allo stesso tempo «Serpente e Eva Messicana; tentatrice e traditrice» (Messinger Cypess 1991: 9). Una prospettiva paradossale ribalta l’intera produzione discorsiva intorno alla Conquista: l’¡elite messicana, quasi interamente d’origine spagnola,13 interessata a costruire un’identita nazionale
fondata su una rivendicazione etnica che permetta di distaccarsi dal dominio coloniale, crea un’immagine ‘mitica’ di antieroina nazionale. Creando la
Malinche immagine della disfatta azteca si tenta un’esaltazione a posteriori
dell’antica cultura precolombiana14 che appare strumentale alla fondazione
su basi immaginarie della nascente nazione messicana.
12
Francisco Javier Clavijero (1731-1787), sacerdote gesuita, studio in Messico e successivamente vi insegno filosofia. In seguito all’espulsione dei gesuiti decretata dal re spagnolo
Carlo III nel 1767, si rifugio in Italia dove scrisse la Historia antigua de M¡exico (1780-1781)
e la Historia de California (1789). Clavijero mor ı a Bologna nel 1787.
13
nel 1864, di acclamare Massimiliano d’AsburLa stessa e¡ lite politica che decidera,
go Imperatore del Messico. La scelta di ‘importare’ dall’estero il sovrano era funzionale alla necessita di instaurare una monarchia messicana slegata da qualunque relazione con la
Spagna.
14
Si noti come i nazionalisti abbiano scelto il nome «Messico» per mettere in relazione
Interpretare e essere interpretati: il caso della Malinche
241
Nel 1959, infine, il Premio Nobel per la Letteratura, il messicano Octavio Paz,15 nel suo El laberinto de la soledad, interpreta la demonizzazione
della figura della Malinche come il segno di un’identita messicana fondata sulla chiusura verso l’altro. Condannando il tradimento della Malinche, i
Messicani rinnegano le loro origini e il loro ibridismo, condannano in blocco
la loro tradizione. La permanenza della figura della Malinche nell’immaginazione e nella sensibilita dei messicani attuali rivela come essa sia molto
piu che una figura storica. Questo ininterrotto processo ideologico sopravvive oggi in quella prospettiva contemporanea che, attraverso il recupero biografico della Malinche, intendere riscattare non solo la donna, ma il Messico
intero, dal destino opaco che la storia le avrebbe donato. L’insistente necessita di riscatto che induce a scrivere nuove biografie della Malinche non impedisce che la sua vicenda individuale continui ad essere di consistenza chimerica. E nella storia collettiva nazionale, invece, che la Malinche e apparsa dotata di una prepotente consistenza mito-politica e ha saputo contribuire
alla continua rifondazione dei valori e alla trasformazione politico-culturale
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la nuova nazione direttamente con il regno degli aztechi: i mexica. In un certo senso, trascurando l’enorme eterogeneita culturale e politica del Messico preispanico, sembrano seguire
la soluzione proposta dal Codice Fiorentino, che omogeneizza a posteriori la diversita etnica di quelle terre. Anche la bandiera messicana appare legata a simboli precolombiani. Al
centro del tricolore e ritratta infatti l’immagine della fondazione mitica della citta di M¡exicoTenochtitlan. Paradossalmente questa scelta, che intendeva legare l’intero paese al glorioso
passato azteco, fin ı per aumentare il risentimento nei confronti del governo centrale da parte
di tutti quelli, indiani o meticci, che non potevano riconoscersi nell’unita etnica, linguistica
e culturale rappresentata dai mexica.
15
Octavio Paz (1914-1998) e stato uno dei piu importanti poeti messicani del XX secolo. El laberinto de la soledad rappresenta uno dei testi chiave della moderna letteratura
ispanoamericana. Si tratta di una serie di saggi incentrati intorno al tema dell’identita nazionale messicana. Il testo, ancora oggi estremamente dibattuto, rappresenta un complesso
esempio di fusione tra il saggio morale, la filosofia della storia, l’antropologia, la psicologia
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242
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Dal rifiuto all’incontro: il popolo zingaro
nell’Italia centro-meridionale
nel Cinquecento e nel Seicento
Carlo Stasolla
Introduzione
Anche i recenti studi sembrano confermare che il primo popolamento
zingaro in Italia si e sviluppato lungo almeno due direttrici, una in provenienza da nord e una da sud, in un periodo all’incirca contemporaneo tra la
fine del XIV secolo e l’inizio del XV.1
L’ondata migratoria che interesso il Sud Italia e ancora ricostruibile solo indirettamente. E da ritenersi ormai certo che gli Zingari che abitano oggi
l’Abruzzo, il Molise, la Puglia, la Basilicata, la Campania e la Calabria siano
giunti via mare dalla penisola Balcanica e piu precisamente da zone ellenofone, come sembra attestare la loro lingua che e priva di imprestiti tedeschi
e slavi.2 Un documento che avvalora la tesi linguistica sono i resoconti del
Sinodo di Melfi e Rapolla che parlano di Zingari provenienti dalla Grecia e
osservanti i riti della Chiesa greca.3
Alcuni di questi gruppi sono forse arrivati prima del XV secolo: la storia
del pittore Antonio Solario detto lo Zingaro lo fa derivare da una famiglia
1
Il 1422 e convenzionalmente riconosciuto come l’anno in cui gli Zingari, guidati dal
ducha Andrea, fanno per la prima volta il loro ingresso in Italia. Non si possono tuttavia dimenticare le numerose tracce che suggeriscono una presenza zingara molto precedente a questo periodo. Un recente studio di M. Cassese attesta la presenza di famiglie zingare nella citta di Venezia gia nel Duecento (cfr. Cassese 2000). Nello stesso secolo nel Meridione italiano
e nel dominio di Genova vengono segnalati nomi di gruppi o persone derivanti dal termine
«Tigano» o «Cigano» (cfr. Wiener 1910).
2
A tal proposito e utile Piasere 1989.
3
Il vescovo Scaglia teme che la sospetta provenienza degli Zingari dalla Grecia orientale o dall’Egitto nasconda il pericolo di uno scisma o, peggio ancora, di un’adesione all’Islam (Melphiensis ac rapollensis ecclesiarum synodales constitutiones in quibus precipua ad
catholicam fidem, ad cleri mores, ad animarum reginem coeteraq. ad ecclesiasticam disciplinam spectantia disponuntur a r.mo Dedodato Scalia presule ... , Venetiis, apud Andream
Bobam, 1638, titulus II).
245
246
Carlo Stasolla
di Zingari calderai che si sarebbe stabilita a Penne, in Abruzzo, alla fine del
XIV secolo.4 G. B. Masciotta, uno storico del Molise, scrive che, rispetto
alle altre minoranze etniche, «l’infiltrazione piu antica e quella degli Zingari.
Gli Zingari nostrani, detti pure un tempo gizzi o egizi, denunciano l’origine
levantina e sono indigeni del tutto e da secoli. E tradizione che essi fossero
certamente accentrati a Ielsi, che sarebbe stata la loro capitale. Ielsi, nei piu vetusti diplomi feudali, e detta Gizzia e Terra Giptia in quelli del secolo XV.
Da Ielsi si diramarono poi, man mano, nei paesi fra il Fortore e il Biferno, e
questi fiumi oltrepassarono sparpagliandosi nelle adiacenze».5
E difficile credere che il popolamento dell’Italia meridionale abbia avuto quest’unica direzione a partire dal Molise e dall’Abruzzo. Probabilmente
altri gruppi sbarcarono direttamente in Puglia e Calabria, e forse anche in
Sicilia; ma su questo mancano dati e ricerche.
Certo e che le ondate migratorie iniziate in questi anni continuarono anche in seguito, ma e da ritenere che gia a partire dalla seconda meta del Quattrocento molti gruppi abbiano cominciato a restringere il loro nomadismo in
regioni circoscritte del Meridione italiano.
Per avere altre notizie bisogna aspettare il XVI secolo quando i vari Sta cominciano ad emanare bandi specifici
ti italiani, o singole municipalita,
contro gli Zingari.
Esclusione e rifiuto
La scarsa bibliografia zingara si e ampiamente soffermata sul moto di rigetto di questi anni assunto dai pubblici poteri di fronte ai gruppi nomadi di
passaggio. In generale gli studiosi che si interessano agli Egiziani, Zingani
o Boemi, tutti nomi con cui nelle varie epoche sono stati definiti gli Zingari,
conoscono della loro storia la legislazione adottata nella maggior parte degli
Stati contro questi stranieri considerati come pericolosi, inutili e non assimilabili. Anche gli studi piu recenti hanno accumulato altri dettagli sul sovrapporsi di queste disposizioni repressive. Le proibizioni delle autorita pubbliche ed ecclesiali riguardano soprattutto il soggiorno, ma anche il nomadismo
(divieto di spostarsi) e talvolta la sedentarizzazione (divieto di fermarsi, di
costruire case, di essere albergati). Divieto anche di spostarsi in gruppi superiori alle tre, quattro persone. Di fatto e l’esistenza stessa dello Zingaro in
4
5
Cfr. Colocci 1971: 219.
Masciotta 1914: 351.
Dal rifiuto all’incontro: il popolo zingaro
247
quanto tale ad essere proibita: lo scopo e la soppressione di coloro che sono
presi di mira dalle leggi.
Comune a tutta la legislazione europea di questi anni e il tentativo sia di
fissare le carovane zingare di passaggio, sia di sbarazzarsene attraverso l’espulsione. Fissarle voleva dire farle praticamente sparire fondendole con il
resto della popolazione. Ma gli Zingari oppongono il rifiuto piu radicale ad
ogni tentativo di assimilazione forzata ostinandosi a conservare il proprio stile di vita caratterizzato dal nomadismo. Non rimane cos ı che l’altra opzione:
l’espulsione e l’allontanamento forzato.
«S’ordina e comanda – recita un bando napoletano di fine Cinquecento
– che per il presente bando tutti i zingani, che si trovano in questa magnifica
e fedelissima Citta di Napoli e nel regno predetto, debbano fra il termine di
mesi due partirsi ed uscire fuori dal regno. Che nessuno ardisca di dare patente o licenza che possano stare n¡e risiedere e in nessuna parte del Regno da
e detti
ora in avanti ... e si abbia ad esigere irremisibiliter da chi contravvera,
zingani, che passato il detto termine di due mesi non saranno usciti fuori dal
regno, incorrano nella pena di sei anni di galera».6 Vengono inoltre decadute ed abrogate le patenti o licenze particolari ottenute «da Noi o dagli altri
Signori, Vicer¡e passati, di poter stare ed abitare nella detta Citta di Napoli, e
e luoghi del presente Regno».7
nelle altre Citta,
Le misure di bando, moltiplicatesi negli anni in tutte le terre del Sud, rimangono per la verita inoperanti quasi ovunque: gli Zingari scacciati passano
da un paese all’altro, da una provincia all’altra, fermandosi piu a lungo nelle
zone di confine, soprattutto dove queste offrono rifugi naturali, nelle foreste
o sulle montagne.
L’incontro
All’inizio del Seicento la citta di Napoli e una megacapitale in cui prevale
il carattere parassitario. La citta e densamente abitata da famiglie zingare da
tempo sedentarizzate, «habitatori – scrive il Capaccio – pero fuor le mura
e ’l loco dove dimorano, non tiene altro nome che di Cingari».8
della citta,
Qui questi ultimi esercitano i loro mestieri e svolgono le loro attivita anche
se pesa su di loro la fama di pessimi osservanti della pratica cristiana e di
concubinari.
6
Cit. in Zuccon 1979: 51.
Ibidem.
8
Capaccio 1634: 690.
7
248
Carlo Stasolla
Nel 1627, caso unico ed originalissimo, il cardinale di Napoli Boncompagno convoca il religioso padre Brancaccio per affidargli l’incarico di occuparsi della cura pastorale degli Zingari locali per «dar pascoli di vita eterna
a tal sorta di pecorelle sviate affatto e senza guida».9
Padre Brancaccio, gesuita, a seguito dell’incarico conferitogli dall’arcivescovo, si consacra totalmente alle famiglie zingare dimoranti a Napoli con
una cura sociale e pastorale straordinaria. Si reca anzitutto nel quartiere riservato agli Zingari, «fuori Porta Capuana», per esaminare «con diligenza i
gradi della consanguinita e affinita esistenti tra quella gente».10
Comincia con il dividere le famiglie secondo il cognome. Scopre che
molti Zingari non lo hanno e cos ı «il prese a sorte da’ Nomi propj degli strumenti del lor mestiere, come martello, spiedo, tanaglia, ed altri di cotal fatta».11 Quindi, per evitare che «la divisione fatta non tornasse alla primera
confusione, ottennesi dal Vicer¡e che uno degli zingari, sotto nome di capitano, invigilasse con autorita legittima ad impedire la coabitazione e comunicazione troppo intima di tale famiglie».12 L’esistenza di questa figura di
riferimento tra gli Zingari ci viene attestata anche dal Celano che, nel descrivere la citta di Napoli a fine Seicento, commenta: «Nella fine di dette case vi
e un luogo detto, i Zingari, perch¡e fu assegnato per abitazione a questa razza
e quarant’anni sono, ve n’abitadi gente, per farli abitar fuori della Citta;
no piu di cento famiglie; che aveano il loro capo e questo chiamato veniva
Capitanio».13
L’iniziativa piu valida del Brancaccio resta l’istituzione di un Oratorio,
sorto appositamente per le famiglie zingare, presso il Collegio del Carminiello della Compagnia di Gesu e denominato «Oratorio dell’Epifania del
Signore».14 La cappella diventa subito il punto di riferimento spirituale per
le tante famiglie che lo frequentano. Qui si recano le donne zingare per la
periodica confessione, alcuni ricevono la comunione, viene impartita una catechesi per i bambini. Ogni 9 gennaio una moltitudine di Zingari napoletani
si reca in processione in Oratorio per la confessione annuale e la successiva
comunione.
9
Santagata 1757: 424.
Manoscritto nell’Archivio della Compagnia di Gesu di Napoli, Santagata 1757: 302.
11
Barone 1703: 63.
12
Santagata 1757: 302.
13
Celano 1792: IV 211.
14
Il 6 gennaio, festa dell’Epifania del Signore coincide con il ritorno di Cristo dall’Egitto
«donde, dicono alcuni, che gli zingari traggono la loro origine» (Santagata 1757: 302).
10
Dal rifiuto all’incontro: il popolo zingaro
249
Nello stesso 1627 viene emanato nel Viceregno un durissimo bando antizingaro. Molti Zingari vengono espulsi, altri vengono gettati in prigione, le
famiglie divise, e forte e l’impressione suscitata presso i napoletani, abituati
oramai ad una convivenza pacifica. Padre Brancaccio svolge il ruolo di mediatore e di intercessore presso il popolo, i giudici, arrivando fino al Vicer¡e.
Nell’arco di poco tempo riesce ad ottenere «la sicurezza agl’innocenti, e lo
scemamento della pena a’ colpevoli visitati da lui ogni d ı nelle prigioni, e
provveduti ancora di convenevol vitto».15
Non e solo grazie all’opera del coraggioso gesuita che prosegue senza
traumi l’integrazione zingara nel territorio campano. Da piu parti viene riscontrata una particolare affinita che unisce il popolo napoletano a quello
sedentari in villaggi di camzingaro e molti Zingari diventano, qua e la,
E il caso di parecchie famiglie
pagna o nei sobborghi delle grandi citta.
che, soprattutto in Abruzzo e Campania, sono all’origine di interi quartieri
zingari.16
Altro esempio di gesuita impegnato tra le comunita nomadi ci viene proposto da un sacerdote di origine spagnola, P. Luigi La Nuza: «dato al mondo,
e alla Compagnia, esemplare di consumata perfeziomodello d’ogni virtu,
ne, comparve alla luce nel mille cinquecento novantuno, che fu appunto il
centesimo, dalla nascita del nostro santo Patriarca Ignazio».17
Ci troviamo nella Sicilia di fine Cinquecento. Nell’isola i poveri aumentano e i mendicanti vagano nelle campagne alla ricerca di cibo. Per far fronte
alle ondate di vagabondi nel 1555 sorge a Palermo un Ufficio di Carita e tra
il 1555 e il 1586 vengono istituiti in tutta l’isola ospedali, monti di pieta e
ospizi per i poveri.
Nonostante gli studi condotti nessun editto e decreto antizingaro e stato
rinvenuto negli archivi siciliani, e al 4 ottobre 1572, quando nel piano della
Marina viene impiccato tra le altre persone uno Zingaro di nome Giuseppe, si fa risalire la prima traccia di una presenza zingara sul territorio del
vicereame.18
gia da diversi anni frequentano i princiLe comitive zingare, in realta,
pali centri abitati dove sono temute per i loro furti, i loro inganni, le pratiche superstiziose che insospettiscono i pastori locali. Prova di cio e il sinodo
15
Santagata 1757: 426-27.
Cfr. De Vaux De Foletrier 1990: 205.
17
Frazzetta 1708: 1.
18
L’episodio e descritto da Zuccon 1979: 63.
16
250
Carlo Stasolla
di Mazara celebrato nel 1575 che intitola il XXXIII capitolo: «De Cingaris
admonendis».19
«L’esperienza insegna – viene detto – che gli egiziani, o zingari, interamente privi, eccetto il nome, della religione e della vita cristiana, dediti solo
al vino, alle superstizioni, ai falsi vaticini e alle menzognere divinazioni, ai
furti e alle rapine, alle loquaci adulazioni, alle stupidaggini, ai discorsi lascivi e bugiardi, ai giochi pure menzogneri, cercando di procurarsi del cibo
spesso turbano le menti dei semplici».
A questo punto sono due le indicazioni pastorali prescritte dal vescovo
Antonio Lombardo: l’espulsione e l’ammonimento. Alla severa esortazione:
«Desiderando vivamente di trovare rimedio a questo morbo, esortiamo paternamente tutti e singoli i magistrati della nostra diocesi, nell’amore di Gesu Cristo, di reprimere immediatamente questo genere di gente vagabonda sia
sia nelle regioni che nelle localita dove capiti essa si fermi, e di
nelle citta,
minacciare con opportuni rimedi di astenersi», segue il tentativo di trovare
una pacifica via di uscita: «Inoltre incarichiamo i Vicari dei vari luoghi di
ammonire tutti e singoli i predetti zingari di vivere cristianamente, affinch¡e
non siamo costretti a procedere ad una legittima correzione sia contro coloro che vivono empiamente, sia contro i superstiziosi o i sospetti di supersti essi non eviteranno le pene a
zione. Se i Vicari ritarderanno ad eseguire cio,
nostro giudizio».20
La paura della Chiesa di Mazara resta anzitutto legata alla diffusione di pratiche magiche di cui gli Zingari vengono considerati i principali
ambasciatori. Pratiche pericolose perch¡e poste come alternativa magica al
magistero ecclesiastico.
Nel 1575 la peste viene segnalata in Sicilia dove colpisce i grandi centri
urbani. L’epidemia giunge a Palermo con una galeotta che aveva gia infettato Sciacca e Messina. Quest’ultima, «porta della Sicilia non solo verso il
continente, ma anche verso l’oriente greco e turco», e posta in un clima e
in un ambiente umano «immersi in un vero e proprio mare epidemico, com’ e appunto il Mediterraneo».21 A Palermo il numero dei morti raggiunge
22 Gli Zingari, cos ı come i vagabondi e i mendicanti, rapprele seimila unita.
19
Constitutiones et decreta condita in plena synodo sub ill. et reverendisimo Domino Dom. Antonio Lombardo, episcopo mazariensi, Panormi, apud Jo. Matthaeum Maylam,
1575, cap. XXXIV, p. 2.
20
Ibidem.
21
Restifo 1985: 184.
22
Cfr. Perni 1892: 545.
Dal rifiuto all’incontro: il popolo zingaro
251
sentano i potenziali «untori» delle epidemie che si susseguono in questi anni
e sono quindi guardati con sospetto e paura.
Dopo le carestie del 1583 e del 1594 si hanno testimonianze di una grave «crisi di sussistenza» che colpisce il vicereame siciliano nel 1591-92. La
popolazione di Palermo si riduce del 5 per cento, quella di Catania e Siracusa
del 9 per cento, del 12 per cento quella di Messina e del 19 per cento quella
23
di Cefalu.
In questi critici anni vengono ripetute a Palermo le alzate di scudi contro i
vagabondi e gli ubriaconi che vengono cacciati al di la delle mura cittadine.
Resta tragicamente famoso il magro raccolto del 1606 che pone numerose
famiglie siciliane sull’orlo della fame.
Gli Zingari – zanni in dialetto – sono numerosi nell’isola. All’inizio del
secolo lo storico gesuita Aquilera ce ne offre un sintetico quadro assai poco
incoraggiante: «Vagabondi, di religione mal definita, selvaggi e lesti di ma vita promiscua assecondando piu i
no, razza agreste, senz’ombra di civilta,
propri istinti che ubbendo a leggi di sorta».24
Nel 1615 il pastore di Palermo, cardinale Doria, convoca un sinodo diocesano; nel capitolo «De Fidei professione» troviamo un capoverso dedicato
ai «Cingari vagum, ac fallax hominum genus». I parroci sono invitati a controllare se le genti zingare «conducano in tutto una vita come si conviene ai
cristiani o se facciano qualcosa contro i costumi e le prescrizioni della Chiesa
o se partecipino a riti nuovi».25
A onor del vero il tema dell’«ignoranza religiosa» non riguarda solo la
gens cingara, perch¡e ritorna dominante nelle regioni italiane del meridione
di questi decenni. Nelle relazioni di gesuiti, predicatori e catechisti in tutta
l’area dei vicereami di Napoli e Sicilia, ricorrono preoccupate le espressioni
in contrapposizione alle Indias de por
di India italiana o Indias de por aca,
26
cio e le Americhe. La domanda piu ricorrente resta: come si puo paralla,
lare di salvezza per tutti quei battezzati, che in realta sono ai loro occhi «tutti
del bosco», «pagani» o addirittura «infedeli»? E questo l’assillo di ecclesiastici e laici impegnati in queste difficili terre in una vera e propria «crociata
catechistica», da cui sorge la grande idea che un cristiano non puo procurarsi
23
Cfr. Aymard 1975: 212-13.
Cit. in Insolera 1996: 75.
25
Synodus dioecesana celebrata ab illustrissimo et reverendissimo Domini D. Joannettino Doria S.R.E. cardinali et archiepiscopo panormitano, Panormi, typys Angeli Orlandi et
Decii Cyrylli, 1615, pp. 8-9.
26
Cfr. De Martino 1961: 22-24.
24
252
Carlo Stasolla
la salvezza senza un minimo di conoscenze riguardanti la propria religione.
Per questa ragione puo accadere che un gesuita di questo periodo consigli al
superiore di far venire qui in tirocinio i novizi destinati alle missioni d’oltre
oceano, poich¡e un eventuale buon adattamento dimostrato in Italia meridionale avrebbe significato capacita di adattamento anche per le Indias de por
27
alla.
Accanto ad una profonda ignoranza religiosa, in tutta la Sicilia e da registrare la sopravvivenza tenace e multiforme di un paganesimo rivestito di
paramenti cristiani. Paganesimo rafforzato dalle tensioni sociali ed economiche provocate dai difficili momenti, resi piu aspri da una epidemia di peste
che viene registrata in Sicilia nel 1624-25 e subito circoscritta all’isola.
Davanti al permanere di tali rischi un’azione pastorale, che rappresenta
e anche una delle ragioni principali del sorgere della Compagnia di Gesu,
costituita dalle missioni al popolo. Sono svolte in campagna come in citta e rivestono la funzione di risvegliare e approfondire la vita cristiana senza
trascurare gli aspetti catechistici.
Figlio di don Juan e di donna Leandra, P. Luigi La Nuza vive l’infanzia tra Palermo e Saragozza per poi essere accolto tra i gesuiti nel noviziato
di Messina. Terminati gli studi teologici a Palermo vive trent’anni di attivita apostolica straordinaria come predicatore itinerante in tutta la Sicilia. Si
muove da Trapani a Siracusa, da Licata a Catania: «vedeansi talvolta radunate, da varj villaggi ad udirlo, otto, e dieci mila persone, senza riguardo di
stagione aspra, e di viaggio lungo di molte miglia, sol per assicurarsi, come
dicevano, d’un vero atto di contrizione, con una predica del Padre».28 Nel
1643 lo troviamo a Messina, da dove il 21 luglio scrive a P. Fiorenza una lettera nella quale descrive la sua tattica pastorale usata per riscuotere successo
tra gli zanni (Zingari). «Il La Nuza chiamava il capo (degli Zingari ndr) e
patteggiava con lui: lasciare la donna che non era sua, e lui, La Nuza, non
gli impedira di fare i suoi affari; se non la lascia, con la sua presenza gli impedira di vendere dissuadendo i clienti!».29 Il suo rapporto con le famiglie
zingare non e occasionale. Il gesuita si interessa degli schiavi mussulmani,
delle prostitute (le chiama «le mie dilette convertite»), dei malati e dei carcerati, e «coopero co’ Superiori della Compagnia, a far che s’assegnassero
a mendici, e a zingari, i quali vivevano quasi scordati di loro stessi, e luogo
27
L’espressione e di Braido 1991: 15.
Ibidem, p. 39.
29
Insolera 1996: 17.
28
Dal rifiuto all’incontro: il popolo zingaro
253
da radunarsi, e ’l Padre, che la Domenica gl’istruisse nelle cose dell’anima,
e coltivasseli con la frequenza de’ Sacramenti».30
La cura zinganorum accennata dal Frazzetta viene descritta meglio da
P. Vitale che ci testimonia: «(P. La Nuza ndr) predicava agli zingari, fondo per loro una Congregazione Mariana sotto la guida della Compagnia. Col
permesso dell’arcivescovo di Palermo, riun ı questa gente nella Congregazione Mariana della ‹Vergine che fugge in Egitto› e col tempo ebbe anche una
Chiesa. Era la Congregazione Mariana dei fabbri ferrai, dato che la maggior
parte di essi era esperta in quel mestiere».31 L’angusto oratorio e inizialmente posto sotto il palazzo reale nella via dell’Alberghiera, e solo dopo il 1680
la Congregazione viene dotata di una Chiesa.
Resta sconosciuta la storia e lo sviluppo dell’istituzione, che nel ’700 ritroviamo denominata dal Caetani come un ritiro per prostitute convertite alla
penitenza.32
Con l’inizio della guerra dei Trent’anni l’intero Meridione, Sicilia inclusa, e chiamato ad un massiccio sforzo finanziario per sostenere la monarchia
di Madrid nell’estenuante conflitto. A partire da questi anni la storia del vicereame siciliano diventa «una storia di balzelli, di donativi, di ‹arrendamenti›,
in una parola di fiscalismo, e, di conseguenza, anche una storia di rivolte».
Nella Palermo del 1647 si vive una terribile carestia che spinge il popolo ad
una rivolta schiacciata nel giro di un mese.
I sinodi palermitani del 1633, del 1652 e del 1679 ripetono alla lettera
quanto formulato anni prima dal cardinale Doria riguardo il vigile controllo
dei parroci da esercitarsi nei confronti della condotta morale dei «Cingari».
Per il resto resta solo il silenzio a farci pensare ad un graduale e poco traumatico inserimento delle compagnie zingare nella struttura sociale siciliana.
Negli anni che seguono, nei documenti civili ed ecclesiastici dell’isola i toni paiono meno aspri e minacciosi e la problematica meno complessa, contrariamente a quanto avviene contemporaneamente negli altri Stati italiani
ed europei. Il processo di integrazione con il resto della popolazione sembra
seguire il suo corso senza particolari ostacoli, tanto che presto il nome «Zingaro» finira con il designare chiunque esercitasse il mestiere di calderaio e
di ferraio.
30
Frazzetta 1708: 165.
Cit. in Insolera 1996: 76.
32
Caetani 1788: 312-15.
31
254
Carlo Stasolla
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Induizzati, degenerati, da convertire
Interpretazioni del buddhismo newar
della valle di Kathmandu
Chiara Letizia
Abstract
Traditional Newar Buddhism of the Kathmandu Valley has two features that set
it apart from other varieties of Buddhism: the first is the absence of monks and the
second is its rigid caste structure. During the XIV century, the institution of celibate
monks has been replaced by the institution of hereditary Buddhist priests who serve
the same functions as their Brahman counterparts. The life of the individual as well
as the community is regulated by a multitude of complex rituals, many with an easily
recognizable Hindu origin.
Many western scholars have concluded that Newar Buddhism is corrupt and degenerated or that it is Hinduism in all its aspects but the name. Such descriptions
presuppose the (mythical) idea of a pure and original Buddhism.
In the first decades of XX century Theravada Buddhism arrived to Nepal, rejecting the Newar Buddhism with the ultimate aim of reorienting it towards the ‘original’ pattern still existing in countries like Ceylon or Burma. Theravada Buddhism
has introduced a change in the self-image of the Newar Buddhists, through direct
conversion or through its indirect influence. On the other hand, Theravadin makes
use of rituals of Newar Buddhism, deviating from the time-honoured pattern they
preach.
This study critically analyses the use of categories of purity, orthodoxy and the
myth of originality. Both Theravada missionaries and western scholars’ interpretations of Newar Buddhism are made on the basis of these categories, external to the
object to be converted or studied.
Introduzione
Il mio intervento riguarda il buddhismo newar. I Newar sono gli abitanti
piu antichi della valle di Kathmandu e rappresentano al giorno d’oggi il 5%
della popolazione nepalese.1
1
Sui Newar, si veda Toffin 1984 e 2000, e Gellner 1986, 1989a e 1989b.
257
258
Chiara Letizia
La societa newar e organizzata secondo un sistema di caste bicefalo: alla
sommita della gerarchia si hanno da un lato i brahmani e dall’altro la casta di
¡ akya e i Vajr¤ac¤arya, chiamati collettivamente
operatori rituali buddhisti, gli S¤
«Bare».
Vorrei proporre oggi alcune riflessioni sui giudizi che sono stati espressi sui buddhisti newar, giudizi che nel titolo ho riassunto con i termini:
induizzati, degenerati, da convertire.
Con il termine «induizzati», mi riferisco al fatto che il buddhismo newar
ha preso in prestito la maggior parte delle divinita hindu, i riti hindu del ciclo
della vita dalla nascita al matrimonio e la divisione in caste.
Con il termine «degenerati», mi riferisco al fatto che studiosi occidentali
antichi e recenti, partendo dal presupposto di un buddhismo originario, hanno rilevato le corruzioni e degenerazioni di quello nepalese, in una visione
che definirei «involuzionistica ».
Con l’espressione «da convertire», mi riferisco infine al recente arrivo
in Nepal dei monaci missionari della tradizione Therav¤ada, di formazione
cingalese, birmana e tailandese, che propongono di dare un nuovo e radicale
orientamento al buddhismo newar; si registra un numero sempre crescente di
conversioni, possibili solo all’interno della progressiva occidentalizzazione
del Nepal e della perdita dei codici di senso della cultura newar.
Induizzazione
Vediamo quali sono gli elementi che hanno fatto parlare di un buddhismo
induizzato.
Nel buddhismo newar non ci sono piu monaci: i membri delle alte caste buddhiste newar, chiamati collettivamente «Bare», sono i discendenti dei
monaci che nel XIV secolo abbandonarono il celibato e diedero origine a delle famiglie che s’installarono nei monasteri. Da quel momento, solo i figli
di padre e madre Bare possono divenire membri della comunita monastica
mediante un rito d’iniziazione, il bare chuyegu (Gellner 1988). La comunita monastica, in origine aperta a tutti, e cos ı divenuta un gruppo di discendenza patrilineare, organizzato secondo le regole di purezza rituale e inserito in
una gerarchia di caste buddhiste, delle quali costituisce il vertice. Inoltre, i
membri di una sottocasta dei Bare, i Vajr¤ac¤arya, possono operare come preti
di famiglia grazie ad una seconda iniziazione (¤ac¤ah luyegu); essi dispongono di una clientela ereditaria presso la quale celebrano i riti domestici dietro
compenso, esattamente come i brahmani. La somiglianza delle loro funzioni
Induizzati, degenerati, da convertire
259
e tale che i Vajr¤ac¤arya sono stati definiti «Buddhist Brahmans» (Greenwold
1974a).
Non e incorretto dire che il buddhismo newar e induizzato; tuttavia, mi
sembra che alla base di questo giudizio vi sia la convinzione che esistano due
realta fuori della storia, buddhismo e hinduismo, ognuna con una serie di caratteristiche, rispetto alle quali si vorrebbe collocare il buddhismo newar. Le
categorie «hinduismo» e «buddhismo» andrebbero utilizzate con una certa cautela perch¡e una storia millenaria e pluriculturale difficilmente si lascia
incasellare in un’etichetta di comodo.
Prendiamo l’esempio dell’hinduismo: questo termine, anzich¡e individuare una religione piu o meno organica, ricopre un universo estremamente
composito e discontinuo. Non e mai esistita un’autorita pan-indiana che abbia codificato e difeso un sistema dogmatico/rituale unitario. Come ha scritto
von Stietencron (1989), «hindu» fu un termine usato inizialmente dalla dinastia Moghul per denominare i sudditi non musulmani; gli Inglesi mutuarono
la parola dall’amministrazione persiana e la interpretarono come termine designativo dell’appartenenza ad una determinata religione. Infine, il termine
fu adottato dagli stessi indiani per costituirsi in nazione indipendente:
Il movimento d’indipendenza e la lotta per l’unita nazionale, non potendo appoggiarsi n¡e su un’unita linguistica, n¡e su un’unita razziale o politica precedente al dominio straniero, immagino un’unita religiosa, ricavata dall’insegnamento scientifico
occidentale che veniva ad essere l’unico elemento con il quale la lotta di liberazione
poteva legittimare l’auspicata unita nazionale ... Furono semplicemente compressi diversi sistemi religiosi che non avevano alcuna sacra scrittura in comune in una
« camicia di forza» per la quale si conio il termine di « induismo » ... Cio che tutti
chiamano induismo, facendone la terza religione del mondo per il numero di presunti seguaci, non va annoverato tra le vere e proprie religioni: si tratta infatti di una
o cultura, che comprende piu religioni.2
civilta,
Se poi si va sul campo, si scopre che queste categorie, magari comode per
lo studioso, non sono operanti presso la cultura studiata. Cos ı, ad un occidentale che chieda a un Newar se sia buddhista o hindu, puo capitare di ricevere
in risposta un enigmatico «s ı » (Gellner 1992: 41). Molti studiosi hanno tratto la conclusione che fossero i Newar ad essere confusi, invece di capire che
la domanda era mal posta, o meglio posta secondo una logica estranea alla
2
Stietencron 1989: 40-41.
260
Chiara Letizia
cultura osservata. In Nepal, buddhismo e hinduismo si sono a tal punto compenetrati che e difficile al giorno d’oggi distinguere cosa sia proprio dell’una
o dell’altra ‘religione’: nella valle di Kathmandu vi sono divinita comuni, riti
e luoghi di culto che si equivalgono nell’idioma comune del tantrismo. Gli
¡
‘hinduisti’ (¡sivam¤arg¤ı, «coloro che seguono la via di Siva»)
e i ‘buddhisti’
(buddham¤arg¤ı, «coloro che seguono la via di Buddha»), sono riconoscibili
– e percio sono definiti – dall’operatore rituale che usano.3 Fin da ora possiamo osservare che il criterio di appartenenza ad una religione o all’altra e rituale e non dottrinale.
Mentre le basse caste si rivolgono indistintamente a brahmani e a preti buddhisti, a livello delle alte caste newar la distinzione tra buddhismo e
hinduismo e netta. Gli operatori rituali buddhisti devono definire la propria
differenza rispetto ai brahmani, ma anche sottolineare la loro pari competenza rituale. Ora, io credo che cio che e stato definito come un processo d’induizzazione del buddhismo newar, possa essere meglio considerato come un
utilizzo di elementi hindu funzionale alla costruzione di un’identita dei ‘preti’ buddhisti rispetto alla loro controparte brahmanica. L’identita dei Bare e costruita attorno a due poli: da una parte lo statuto di monaci che li contraddistingue, e dall’altra un’appropriazione del sistema hindu di caste, perch¡e,
di fatto, questa comunita monastica e divenuta una casta.
Ora, come ho cercato di dimostrare in un precedente lavoro (Letizia
2000), e possibile a mio avviso trovare la messa in scena di questa doppia
identita nel rito d’iniziazione bare chuyegu, che rende i giovani Bare membri della loro casta. In questo rito, i bambini sono iniziati come monaci e osservano le regole della vita monastica per quattro giorni, al termine dei quali
abbandonano l’abito del monaco per scegliere la vita di capofamiglia. Questo rito segue la falsariga del parallelo rito d’iniziazione dei Newar hindu.
La procedura rituale ripete e ingloba tutti gli elementi del suo modello hindu
per poi superarlo: il capofamiglia che e prodotto da questo rito buddhista e ‘piu speciale’ di quello hindu perch¡e e anche un monaco. A mio parere, gli
elementi mutuati dall’hinduismo non sono dei semplici prestiti o contaminazioni dovuti al fatto che il buddhismo newar si trovava in un ambiente hindu;
essi sono mutuati ed inseriti in un sistema che si pensa differente e superiore
rispetto al modello hindu cui si e ispirato.
3
I membri di bassa casta buddhista offrono un culto tanto alle divinita buddhiste quanto
a quelle hindu, e la loro vita differisce assai poco da quella delle caste ¡sivam¤arg¤ı: i Balami,
ad esempio, si rivolgono a preti buddhisti per alcuni rituali e a brahmani newar per degli altri
(Toffin 1984: 229).
Induizzati, degenerati, da convertire
261
L’autorita spirituale messa in scena durante il rituale permette di acquisire maggiore credibilita rituale rispetto alla massa dei Newar che indistintamente si riferiscono per i loro rituali ad un brahmano o ad un Vajr¤ac¤arya.
Con questo rapido esempio intendo semplicemente osservare l’esigenza di
lasciare da parte un giudizio generico ed esteriore di «induizzazione», al fine
di comprendere la reale utilizzazione degli elementi hindu presi a prestito da
parte della cultura studiata.
Degenerazione
Dal punto di vista dell’ortodossia
Il buddhismo newar e stato spesso considerato come una degradazione
del buddhismo autentico. Questa interpretazione si trova nell’opera di Hodgson (1874). Secondo l’autore, il «buddhismo autentico» (genuine Buddhism) e caratterizzato dai seguenti elementi: l’uguaglianza dei membri della
comunita monastica, l’apertura del monastero a tutte le caste e, soprattutto,
la presenza di monaci.
Date queste premesse, l’autore conclude che il buddhismo newar, senza monaci e con i suoi preti ereditari, e una forma moderna e corrotta di
buddhismo (Hodgson 1972: 63).
Lo stesso punto di vista e quello adottato da Oldfield (1880: II 72 e 131)
per il quale:
Buddhism in Nipal has sadly degenerated from the high standard of doctrine and
of discipline which was established by the Buddhist Church ... Its monastic institutions, with their fraternities of learned and pious monks, have long since disappeared; the priesthood has become hereditary in certain families, and the system of
¡ akya and the early Church as utterly repugnant to
caste, which was denounced by S¤
their ideas of social equality, has been borrowed from the Hindus, and is recognised
as blinding by all classes of Buddhists in the country. The reign of Buddhism is now
over in Nipal.4
Anche S. L¡evi (1905: II 26-27), che pur ha contribuito in una manie4
Anche D. Snellgrove (1957: 112) pensa che vi sia uno stretto legame tra questa degenerazione e il declino della struttura monastica; egli cita la seguente affermazione di Oldfield
(1880: II 131): «Nothing has contribued so much to the decline of Buddhism in Nipal as
the adoption of caste by the Buddhist Niwaris and the consequent decay of all the monastic
institution of the country».
262
Chiara Letizia
ra fondamentale alla conoscenza del buddhismo in Nepal traducendone infaticabilmente i testi, considera il buddhismo newar come una corruzione
e lamenta la sparizione dei monaci letterati e colti delle antiche universita buddhiste:
La population des viharas a tristement chang¡e; l’antique communaut¡e des moines
c¡elibataires, instruits et studieux, a disparu; elle a c¡ed¡e la place a des h¡eritiers indignes, les banras. Si les monast eres ont e¡ t¡e l’asile du recueillement et de la pri ere,
ils servent maintenant de logis a une multitude grouillante et tapageuse d’hommes,
de femmes, d’enfants entass¡es au d¡efi de l’hygi ene dans des chambres e¡ troites et
basses ou s’excercent des professions toutes mondaines, l’orfe vrerie, la sculpture,
les arts d¡ecoratifs; d’autres parmi les banras s’emploient au dehors comme charpentiers, comme fondeurs, comme pl¢atriers. La science se meurt, ou plut¢ot elle est
morte: un mis¡erable p¤uj¤ari, charg¡e par la communaut¡e du culte quotidien, vient mar¡ akyamuni des hymnes en sanscrit barbare
monner chaque jour devant la statue de S¤
qu’il ne comprend pas, ou reciter une section de la Prajna-paramita en Huit Mille
Stances qu’il comprend moins encore; c’est lui qui d¡etient les vieux manuscrits trac¡es jadis par de pieux copistes et qui laisse avec une indiff¡erence ahurie les temps
et les insectes consommer sur ces reliques leur œuvre de destruction.
A queste critiche, comprensibili nel cadre evoluzionista del XIX secolo,
se ne possono aggiungere anche molte altre ben piu recenti, come quella di
M. Slusser (1982: I 296) che si riferisce al rito d’iniziazione bare chuyegu,
in cui i giovani Bare vestono per quattro giorni gli abiti del monaco:
The ceremony of tonsure is one of the most picturesque, and touching, of Nepalese rites to observe, as little boys cheerfully submit to a host of indignities heaped
upon them by their elders. But that these elders have no understanding of the mockery they make of Buddhism, once the glory of the Kathmandu Valley, is saddening.
Justification for the mime is said to be provided by the sacred texts...
Il mito del buddhismo ortodosso
La nozione che s’intravede dietro queste critiche e quella dell’autenticita,
dell’ortodossia, del mito dell’origine, di uno stato perfetto e fuori del tempo
che si e degradato nella storia.
Induizzati, degenerati, da convertire
263
Ad un recente colloquio su Angelo Brelich, la relazione del prof. Cusumano era volta essenzialmente alla questione della «storiografia a rovescio» e della correlata ossessione delle origini.5 Le sue parole mi sembrano rispondere perfettamente all’approccio antistorico che abbiamo messo in
luce:
Oggetto di indagine storica non puo essere l’elemento isolato, ma il suo contesto,
ossia le relazioni tra i suoi elementi: dunque, non fatti isolati di per s¡e inesistenti,
ma fenomeni sociali in movimento, ossia il risultato di contatti, di contaminazioni,
in una parola di tutto cio che costituisce a livello storico il prodi rifiuti, di novita,
dotto delle esistenze umane e dei loro mutamenti. La storia e storia di contesti e di
« inventario delle differenze».
Illuminanti al nostro caso sono le parole di Brelich (1964-1965: 41) citate
dal prof. Cusumano nel corso della sua relazione:
Una storiografia orientata verso le sopravvivenze, i retaggi, i sostrati, verso le origini
remote e sempre una storiografia a rovescio, perch¡e la storia si fa seguendo i processi
di svolgimento secondo la loro reale corrente che e sempre nella direzione che dal
passato porta all’avvenire.
L’invito di Brelich e di rifuggire dalla storiografia alla rovescia, che e pura ricerca delle origini, delle radici, per volgersi invece all’individuazione dei processi creativi che da queste origini portano alle nuove forme nella
concreta religione storica studiata.
Le considerazioni storiche ispirate dalle parole di Brelich e Cusumano
permettono di considerare il buddhismo newar sotto un’altra luce. Una prima
considerazione fondamentale: il buddhismo originario non esiste in quanto
realta metafisica. Esso ha al suo attivo due millenni e mezzo di storia, nel corso dei quali si e diffuso nell’Asia del Sud, nell’Asia Orientale e in quella SudOrientale, e in questo processo di diffusione si e profondamente trasformato.
Non esiste un Papa buddhista, n¡e un’uniformita dottrinale. Se nella storia del
cristianesimo si puo parlare di ortodossia, e quindi di eresia, non lo si puo 5
N. Cusumano, «Una storiografia a rovescio: Angelo Brelich e la religione greca in Sicilia», relazione presentata al Convegno Angelo Brelich e la storia delle religioni: problemi e
prospettive; Roma, CNR, Istituto di studi sulle civilta italiche e del mediterraneo antico, 3-4
dicembre 2002.
264
Chiara Letizia
fare con altrettanta facilita per il buddhismo, che definirei, al pari dell’hinduismo, un’«ortoprassia», intendendo con questo termine la preminenza del
rito sulla credenza.
La parola buddhista abitualmente tradotta con «scisma», sanghabheda, significa letteralmente «rottura del sangha», della comunita dei monaci
(Williams 1989: 13). Nella storia del cristianesimo lo scisma e sempre dovuto a una differente interpretazione del dogma. Nella storia del buddhismo, invece, la frattura del sangha e sempre provocata da una questione di disciplina
monastica. Un monastero puo benissimo riunire dei monaci che sostengono
delle teorie differenti, finch¡e si comportano nella stessa maniera.
Il buddhismo che esisteva in India all’epoca dei primi documenti storici
del Nepal era gia un buddhismo profondamente trasformato rispetto alle sue
origini: la piu antica forma di buddhismo attestata in Nepal e il buddhismo
Mah¤ay¤ana, e, a partire dal XI secolo, il buddhismo Vajray¤ana che, gia solidamente installato in India e in Nepal, fu trasmesso dai monasteri nepalesi a
quelli tibetani.6 Una prospettiva piu costruttiva potrebbe essere quella di considerare il buddhismo newar non piu a partire da un criterio esteriore come
quello dell’ortodossia buddhista, ma all’interno del proprio contesto culturale, tenendo conto delle istituzioni della societa newar e dei suoi cambiamenti,
sfatando il mito dell’esistenza di un’Idea di buddhismo al di la della storia.7
Queste mie osservazioni vogliono essere un invito a comprendere che
l’approccio allo studio del buddhismo newar fa spesso uso, a volte inconsapevole, dell’idea di un buddhismo a prescindere dalle culture studiate, che
in fin dei conti ne ostacola la comprensione.
Conversioni
L’arrivo del buddhismo Therav¤ada in Nepal
I temi che abbiamo trovato negli scritti degli studiosi occidentali sopra
citati, vale a dire la corruzione del buddhismo newar, la sua disuguaglianza sociale, l’ignoranza della dottrina buddhista, si ritrovano nei discorsi dei
buddhisti Therav¤ada, intenti all’opera di proselitismo e conversione in Nepal.
Questa opera missionaria e stata rivolta essenzialmente ai buddhisti newar
6
Per una breve storia del buddhismo in Nepal dal periodo Licchavi fino ad oggi, si veda
Slusser 1982: I 270-306.
7
Uno dei primi a proporre questo cambiamento di prospettiva e stato S. Greenwold
(1974: 31).
Induizzati, degenerati, da convertire
265
per vari motivi, tra i quali citero solo il piu evidente. La costituzione nepalese proibisce la conversione ad una religione differente da quella della propria
famiglia: le pene inflitte ai missionari sono dure, dalla prigionia all’esilio.
Questa legge fu creata dal governo per proteggere la tradizione hindu dalle conversioni al cristianesimo e all’Islam; i monaci Therav¤ada sono riusciti
con qualche eccezione a scampare all’accusa di agire contro la legge perch¡e
la loro opera missionaria e rivolta appunto ai membri delle alte caste bud¡ akya e i Vajr¤ac¤arya. Dal punto di vista Therav¤ada, come
dhiste newar, gli S¤
in quella degli stessi Newar che si convertono, non si tratta di un abbandono della religione dei propri padri, ma di un ritorno allo stato originario e
purificato di essa.
I Theravadin affermano di non dover piantare nuovi semi in Nepal, ma
di dover solo lavorare un suolo gia buono, perch¡e gia buddhista; si tratta di
riportare i buddhisti nepalesi alla forma pura della loro religione.
Bench¡e il buddhismo Therav¤ada si proponga come buddhismo originale
e tradizionale, le sue aspirazioni di predicazione e proselitismo risalgono alla fine del XIX secolo e sono di chiara derivazione cristiano-occidentale. Il
buddhismo Therav¤ada che arrivava nella valle di Kathmandu, aveva gia conosciuto una grande trasformazione tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo in Ceylon, dove era stato razionalizzato, modernizzato, e riformulato in
senso nazionalista e missionario. Alla fine del XIX secolo il buddhismo in
Ceylon comincio a rivalutare il suo patrimonio culturale, nel tentativo di contrastare la dominazione europea con una nuova enfasi sui valori tradizionali.
La figura piu importante del movimento modernista fu l’Anagarika Dharmapala (1864-1933) che fondo la Maha Bodhi Society, la prima organizzazione internazionale buddhista che ebbe come primo scopo quello di unire tutti
i buddhisti nel programma di restauro dei luoghi di pellegrinaggio a Bodhgaya, il luogo d’illuminazione del Buddha. Col tempo la propagazione del
buddhismo divento il suo scopo principale. I primi monaci Therav¤ada che
vennero in Nepal per predicare appartenevano a questo movimento, e furono
inizialmente osteggiati dal governo nepalese.8
8
Negli anni ’30 e ’40 il tradizionale regime Rana in Nepal non guardava di buon occhio
i contatti dei buddhisti nepalesi con questa organizzazione e nel 1931 i monaci Theravada
vennero arrestati. Ancora una volta nel 1944 il primo ministro Juddha Shamsher ordino loro di
cessare ogni attivita (predicazioni, ordinazioni, celebrazioni di rituali e stampa di opuscoli in
newari) e li invito o scegliere tra il lasciare l’abito e l’esilio. Ma nel 1946 i monaci rientrarono
e solo quattro anni dopo usciva il giornale Dharmodaya che pubblico gli otto punti d’azione
che erano stati presentati alla World Buddhist Conference in Sri Lanka nello stesso anno:
266
Chiara Letizia
Mi sembra che il buddhismo Therav¤ada rappresenti una visione del mondo molto lontana da quella newar, e portatrice di valori occidentali; non a caso questo buddhismo ‘modernista’ ha operato un sempre crescente numero
di conversioni negli ultimi anni, nel corso dei quali la cultura newar sta disgregando i propri sistemi di senso a confronto con un’occidentalizzazione
imperante.
Per mostrare quanto questo nuovo buddhismo sia lontano dalle logiche
tradizionali del buddhismo newar citero alcuni esempi di confronto.
Categorie a confronto
Il Therav¤ada ha incontrato il favore dei buddhisti newar, ma l’adesione di
molti di questi ultimi e fatta ancora secondo una logica tradizionale. I Newar
laici combinano le due forme di buddhismo nel modo che segue: continuano
a visitare i centri tradizionali di culto e a celebrare i riti necessari nella data
prescritta, poi, quando ne sentono il bisogno, si rivolgono ai monaci e alle
monache Therav¤ada.
Questo atteggiamento e comprensibile solamente se si fa appello ancora una volta alla categoria di «ortoprassia», intendendo con questo termine
il fatto che il codice prioritario di questa cultura e la prassi, l’azione (rituale): un’eventuale adesione a credenze eterogenee non intacca il rituale. Da
un punto di vista ortodosso, il comportamento di un devoto che si reca talvolta al monastero Therav¤ada e talvolta al tempio Vajray¤ana crea il problema dell’inconciliabilita delle due credenze; quest’ultimo e pero un problema
squisitamente occidentale, posto dal buddhismo Therav¤ada e non da quello
tradizionale.
Prendiamo a titolo d’esempio un caso etnografico riportato da Leve
(2002: 847). Un nuovo devoto Therav¤ada invita i monaci per il suo compleanno, perch¡e essi celebrino una Buddha p¤uj¤a e cantino dei testi per augurargli
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Aprire scuole buddhiste in tutto il Nepal;
costruire un monastero (vihara) in ogni citta;
pubblicare i testi canonici in nepali e newari;
educare i Nepalesi a propagare il buddhismo;
pubblicare un giornale in inglese ed uno in lingua nepali;
persuadere le autorita nepalesi a preservare gli antichi monumenti buddhisti;
incoraggiare i buddhisti di altri paesi a visitare il Nepal:
agire contro le istituzioni che convertono la gente ad altre fedi (come i missionari
cristiani).
Induizzati, degenerati, da convertire
267
la buona sorte. Alla fine del rituale i monaci se ne vanno in cucina e il festeggiato si ritira nella sua stanza della preghiera dove conduce un rito Vajray¤ana, nel corso del quale si mangia pesce, carne e si consuma dell’alcol.
Uno dei monaci si affaccia alla porta e sorpreso alla vista della bottiglia di
liquore locale (raksi) aperta, comincia ad ammonirlo: «Non hai appena preso i cinque precetti (panca sila)? I sila sono: non uccidere, non rubare, non
mentire, non avere una condotta sessuale irregolare, e non bere alcol! E tu
non dovresti prenderli se non hai intenzione di mantenerli!».
Il festeggiato cade dalle nuvole. Non ha minimamente connesso la Buddha p¤uj¤a alla sua vita quotidiana. Egli ha inteso la Buddha p¤uj¤a con i precetti
come un atto strettamente rituale, e ha pensato che i suoi doveri terminassero nel momento in cui i monaci hanno smesso di cantare e sono andati in
cucina.
Con il tempo, questo stesso uomo e divenuto un appassionato praticante
della meditazione vipassana, e segue ardentemente tutte le pratiche che egli
sente come caratteristiche del puro buddhismo. Ha abbandonato ogni pratica
Vajray¤ana e tutti gli eventi sociali ad essa connessi. In una cultura in cui le
gerarchie e le relazioni sociali sono definite dal rito, quest’uomo di fatto ha
annullato la sua esistenza sociale all’interno delle caste newar.
Per avere maggiore incidenza sui buddhisti newar, negli ultimi anni i monaci Therav¤ada si stanno adoperando per offrire dei riti sostitutivi, in particolare le ordinazioni monacali temporanee. Questo e evidentemente un tentativo di sostituzione del rito d’iniziazione bare chuyegu con un’ordinazione Therav¤ada, perch¡e i due rituali hanno in comune la struttura formale di
un’ordinazione monastica a tempo determinato. Fino ad adesso non sono stati documentati casi in cui quest’ordinazione temporanea Therav¤ada sia stata
presa al posto del bare chuyegu. Questo perch¡e il bare chuyegu e un rito d’i chi non passa la
niziazione alla propria casta, al proprio ruolo nella societa:
propria iniziazione, perdera il suo status di casta e con lui lo perderanno i suoi
figli. In una cultura che non distingue il civile dal religioso, rinunciare al rituale equivale a perdere la propria identita culturale e sociale. Il buddhismo
Therav¤ada, invece, opera una distinzione tra il civile e il religioso, ponendosi
dunque in una logica estranea alla cultura tradizionale nepalese.
Continuiamo a riflettere sulla differenza tra le logiche del buddhismo
newar e di quello Therav¤ada.
La fondamentale critica che i Therav¤ada (e gli studiosi occidentali) muovono al buddhismo newar e una mancanza totale di preparazione dottrina-
268
Chiara Letizia
¡ akya e i Vajr¤ac¤arya compiono elaborate cerimonie accompagnandole: gli S¤
le con la recitazione di testi, ma la maggior parte di essi non conosce nulla
degli insegnamenti buddhisti che potrebbero spiegare quel rituale, cosa che
viene giudicata come un’imperdonabile mancanza. Ancora una volta, questa
critica deriva da una logica diversa rispetto al valore del rito. Nel buddhismo
newar, impregnato di tantrismo, il rito vale per se stesso, e non v’ e alcun bisogno di spiegazioni. L’intenzione dell’offerente o la comprensione del significato di un rito non e essenziale alla sua efficacia. Le frasi sanscrite che
il prete buddhista ripete davanti alla statua del Buddha hanno una funzione
di mantra, e sono potenti ed efficaci per il solo fatto di essere pronunciate: le
loro sillabe non sono mere portatrici di significato, ma evocano letteralmente
la divinita.
I buddhisti newar non sanno molto della dottrina buddhista: per loro, seguire il Buddha dharma equivale a sposare le figlie, far inziare i figli, venerare gli d ei e compiere gli appositi rituali per i propri morti. E in questo dharma
non v’ e alcuna corruzione, ma una cultura che fonda se stessa mediante un
sistema rituale.
Se nel buddhismo newar i praticanti non sentono l’esigenza di conoscere
il significato dottrinale dell’azione che stanno compiendo, nel Therav¤ada invece si osserva un’insistenza sul ruolo del singolo, che, sulle orme del Buddha, lavora con consapevolezza alla sua illuminazione. Il Buddha non e un dio,
ma un uomo che scopre il cammino verso l’illuminazione attraverso la sua
intelligenza e disciplina. Il rito non e considerato di per s¡e un mezvolonta,
zo di progresso spirituale, mentre grande enfasi e posta sulla consapevolezza,
la conoscenza, e i retti mezzi di agire. Tutti possono ottenere la liberazione
mediante un cammino che i monaci sono tenuti ad indicare.
I rituali del buddhismo newar hanno la stessa struttura e funzione dei riti del ciclo della vita (samskara) hindu: il loro valore sta nella performance
stessa, svolta in tempi, luoghi e modalita codificate. Il rito vale per se stesso
e non fa riferimento a nient’altro che a se stesso.
Invece, la Buddha p¤uj¤a Therav¤ada (in cui si afferma la tradizionale presa
di rifugio nel Buddha Dharma e Sangha e si fa voto di osservare i cinque
precetti) non e un rito nel senso tradizionale della parola, ma l’affermazione
mnemonica di un’intenzione morale, che presuppone una conoscenza e una
comprensione della dottrina.
Il Therav¤ada enfatizza la coscienza morale individuale, concepita come
un’entita autonoma. All’interno della cultura newar non e pensabile che una
Induizzati, degenerati, da convertire
269
basandosi sulla sua coscienza per decipersona si ponga fuori della societa,
dere cosa e morale, etico, o giusto, mentre nel buddhismo Therav¤ada questa
attitudine e richiesta ai devoti. L’essenza del buddhismo Therav¤ada e il cercare il proprio scopo ultimo senza intermediari, ed il corollario piu importante
ne e l’enfasi sulla responsabilita individuale. La religione e privatizzata, interiorizzata; il vero significato non e nel rito esteriore e pubblico ma in cio che avviene nella mente.
Scrive bene Leve (2002: 852):
In Nepal today, religion no longer commands Therav¤ada Buddhists to respect the
judgment of the community, nor does it instruct them that their chief ethical duties
lie relation to family, deities, ancestors, and king. Instead the pious are exhorted to
make their own decisions about ritual and right, and to vigilantly monitor and discipline themselves. This attitude represents a sharp critique of Newar civil society
and the socio-moral codes on which it is based.
Le differenze che abbiamo riscontrato fin qui possono essere schematizzate nel modo che segue:
Buddhismo Therav¤ada
ortodossia
distinzione civile/religioso
rito che va compreso e spiegato
condotta morale
uguaglianza
religione come fatto privato
proselitismo
Buddhismo Newar
ortoprassia
indistinzione civile/religioso
rito che giustifica se stesso
condotta rituale
gerarchia castale
religione come sistema di relazioni sociali
accesso riservato per nascita
Molti Newar buddhisti, entrando in contatto con i missionari Therav¤ada,
hanno cambiato la percezione che avevano della propria cultura, provando
vergogna di fronte alle critiche di degenerazione che venivano poste loro; alcuni di essi cominciano a guardare in maniera critica l’esecuzione di sacrifici
animali, la loro ignoranza della dottrina buddhista, gli elevati costi dei loro
rituali barocchi, la mancanza di una tradizione monastica e cos ı via.
Secondo i pronostici di D. Gellner (1986: 135-36), il Therav¤ada riuscira probabilmente a scalzare il sistema tradizionale newar. I giovani Vajr¤ac¤arya
spesso rifiutano di sottomettersi all’elaborata iniziazione che fara di loro gli
270
Chiara Letizia
operatori rituali di professione per famiglie di clienti, perch¡e, dicono, e difficile digiunare tutto il giorno come richiedono i rituali, c’ e scarsita di compenso, i laici mancano completamente di rispetto nei loro confronti, e cos ı
via. Solo coloro che non hanno scelta, che sono troppo incolti per cercare
qualche altro lavoro e sono troppo poveri per abbandonare i loro tradizionali clienti, continuano ad essere preti di professione. Conseguentemente il
rispetto dei laici per i Vajr¤ac¤arya diminuisce ancora, a favore di quello per i
monaci Therav¤ada.
Ci sono altri motivi che potrebbero portare molti buddhisti newar a preferire i monaci Therav¤ada. Essi parlano un linguaggio che sembra piu in armonia con il mondo moderno, e la loro dottrina non ha elementi esoterici: i
rituali sono semplici ed economici, se comparati con la complessita barocca
del buddhismo tradizionale nepalese, che prevede costosi e lunghissimi rituali, che agli occhi dei giovani colti sembrano sprechi di tempo e di soldi.
L’ultimo ostacolo sembra essere l’iniziazione alla propria casta, alla quale
non ci si puo sottrarre se non rinunciando alla propria esistenza nella societa tradizionale newar. Ma se, nel contesto di una progressiva occidentalizzazione e conseguente perdita di senso dei codici della cultura newar, anche l’essere membri della propria casta non sara piu cos ı importante, il buddhismo
Therav¤ada ha gia pensato una serie di rituali sostituitivi di quelli del ciclo
della vita.
Dopo aver rilevato le differenti categorie dei due buddhismi analizzati, torniamo all’approccio degli antropologi moderni, prendendo ad esempio
uno studioso, Heinz Bechert, il cui articolo (1992) verte significativamente
sul risveglio («revival») del buddhismo in Nepal. L’autore afferma in apertura che il buddhismo newar e rimasto limitato alla comunita newar. Poich¡e la
societa newar pensa il mondo mediante una serie di strumenti mitici e rituali
per fondare se stessa, non mi meraviglierei di questa limitazione: al contrario, troverei sorprendente che una religione che fonda la cultura newar, potesse essere facilmente diffusa ad altre etnie! Lo studioso scrive che il buddhismo newar soffre di una grave crisi spirituale; senza monaci, senza nessuno
che sappia dare insegnamenti per spiegare i testi e i riti, senza predicazione
e propagazione della dottrina, con la restrizione d’importanti rituali ai soli
buddhisti newar (Bechert 1992: 182).
Meraviglia che a parlare sia uno studioso e non uno dei missionari Therav¤ada. Le critiche del Bechert sembrano nascere piu da una prospettiva religiosa che non storico-antropologica. La necessita di spiegare ai devoti un
Induizzati, degenerati, da convertire
271
rito, ad esempio, e assolutamente fuori luogo in una tradizione dove il rito
giustifica se stesso. Non e un problema posto dalla cultura newar spiegare
la verita dottrinale di un rito d’iniziazione; la finalita della cultura newar e creare con l’iniziazione un membro della propria casta. La predicazione e
la propagazione della dottrina sono un problema assente dalla mente newar,
perch¡e il buddhismo newar esiste in quanto strettamente connesso alla societa che l’ha prodotto, ed e privo di senso al di fuori di essa. Un’altra mancanza
del buddhismo newar, descritta dall’autore nei termini di «disuguglianza»,
sarebbe la restrizione di importanti riti iniziatori ai soli membri della casta
¡ akya o Vajr¤ac¤arya; in un’epoca moderna di sempre crescente uguaglianza
S¤
sociale e culturale, dice l’autore, questa restrizione presta il fianco a molte
critiche. D’altra parte, ci si potrebbe chiedere per quale motivo un rito d’inizazione ad una casta dovrebbe essere aperto a tutti. Da un punto di vista
interno, tradizionale, le esigenze Therav¤ada e degli studiosi di storia del buddhismo sono non funzionanti, astratte. Una religione etnica non deve rispondere alle esigenze «spirituali» nel nostro senso del termine, n¡e alle esigenze
di uguaglianza, di conoscenza del vero dottrinale, o di propagazione della
dottrina. Le esigenze di una religione etnica sono identitarie e di fondazione
della propria cultura. Valori come l’uguaglianza (in una societa castale), la
propagazione della dottrina (in una religione limitata ad un’etnia) e l’importanza del significato dottrinale (in una ortoprassia), risultano semplicemente
non operanti.
Nella prospettiva di questo ed altri studiosi, le tradizioni religiose sembrano essere qualcosa di astratto dalla cultura, fino al punto da poter considerare intercambiabili delle forme culturali per il solo fatto di chiamarsi
«buddhiste». Ecco come lo studioso puo arrivare ad affermare che i Newar
avrebbero dovuto abbandonare il loro buddhismo morente, e avrebbero potuto trovare le risposte alle loro domande spirituali oltre che nel Therav¤ada, anche nel buddhismo tibetano, la cui dottrina e invece rimasta vivente (Bechert
1992: 182).
Questa comunicazione, molto piu che a descrivere il buddhismo in Nepal, mira ad essere un invito a rivolgere uno sguardo critico, storico ed
antropologico, alle categorie usate nell’interpretazione di questo fenomeno.
272
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Historiography and Nationalism:
A Match Made in Heaven
Murat Cem MengüÇc
Abstract
Popularity of writing history among the nationalists is well known. One obvious
reason for this is pre-nationalist history writing doesn’t analyze the past from the
perspective of nationalism. Also, nationalism re-writes history to establish a link
with the past, to prove a nation’s antiquity. Yet, it is obvious from the works of early
nationalists, a nation always needs to be constructed.
Historiography, on the other hand, examines the past, and the late nineteenth
century European historiography aspires to be an objective science in doing this.
As a case study, the transformation of the Ottoman historiography into Turkish Historiography (1850-1940) suggests that the late nineteenth century European historiography offered the best available scientific-narrative in which a nation can be
constructed. In fact, this scientific-narrative was so essential for constructing a nation that, to adopt nationalism meant to adopt the late nineteenth century European
historiography.
Those who are interested in power also favor the idea of control and try
to find ways to generate a mass consciousness to conform to their ideologies. From the late Calvin Klein commercials to the historic Leni Riefenstahl documentaries shot for the Third Reich, we have witnessed the last century was keen on propaganda and promotion. Although many books were
written about the dominion and domination of the masses for ideological
purposes, in terms of criticism, none of them matches a particular sequence
from Michelangelo Antonioni’s fantastic movie, Zabrisky Point. I am talking
about the famous climax where we watch an American refrigerator blown into the air, as Wonderbread packs and Heinz ketchup bottles spill over a desert
in slow motion. Antonioni destroys the content of the mass propaganda while
he records this destruction like propaganda in itself. His is the expression of
an honest wish to tear things inside out, so, at least a handful of audience
members may alter their views of the society in which they live in – in which
they confirm to a common cognition. The original intention of my study of
the material to which I came across at the Institute of Islamic Studies Library
277
278
Murat Cem MengüÇc
at McGill University was the same as Antonioni’s final gesture. This desire
was kindled from the opening pages of the document and continued until all
the volume was read. The book I am talking about contained almost all of the
proceedings of the First Turkish History Congress, held in July 2-11, 1932.
To understand my rage towards the arguments presented throughout the
Congress by the fervent supporters of Turkish nationalism you need to have
experienced the intimidations of this nationalist dogma throughout your
teenage years. Or, you can refer to the heydays of the nationalist historiography, I am sure once dominated the classrooms of your country. The lack of
quality in scientific knowledge and the level of ignorance regarding philosophy and human nature were simply obscene. Moreover, the views presented
during this congress later formed the core of Turkish historiography adopted
by the state and majority of the Turkish historians.
What is Turkish historiography? It is the way those who call themselves
Turks decidedly write their history. In general, it is possible, as stated by
Hugh Poulton, that there exists a Kemalist historiography – Kemal of course
referring to the founder of the Turkish Republic, Mustafa Kemal Atatürk. He
himself presented the outlines of the Kemalist historiography in a speech that
lasted 36 and a half hours, read in six days, during the second annual meeting
of Cumhuriyet Halk Partisi [Republican People’s Party], in October 15-20,
1927. In a sense The First Turkish History Congress was a nine days version
of the same nationalist, one sided and anti-pluralist view of history. On this
occasion, it was delivered by scientists and intellectuals, consisting of about
two dozen presentations, while Atatürk himself sat at a balcony and listened
to each one. During the Congress, those who raised their voices in criticism
of the methodology, or those who questioned the conclusions derived from
the presented data were silenced, shouted at and asked to apologize in public
for their contradiction of the nationalist “spirit” of the moment. The Turkish
History Association published the proceedings in a book that same year.
A brief examination of the material proved its general value as a document regarding nationalist historiography. The book is also an interesting
source for the evaluation of the early twentieth century perspectives on anthropology, sociology, linguistics, etymology and ethnography. But mostly,
it stands out as “the” document, which expresses the early Turkish Republic’s official position towards history, towards the idea of past, and towards
the idea of education through the use of history. The Congress itself emerges
as the venue in which the Turkish History Thesis was launched, that is, the
Historiography and Nationalism: A Match Made in Heaven
279
history Thesis that tried to establish Turkish people as the original race of the
human history.
Overall, the main problem with having the Congress as subject of research was the scarcity of secondary sources. There were no shortage of
studies on the relationship of nationalism and religion or nationalism and
language within the Turkish context, but, aside from the writings of Hugh
Poulton, BüÇsra Ersanlı and Etienne Copeaux, there seems to be no researches done on the Turkish History Thesis in its development period. Furthermore, most references to the Congress itself constitute only a few sentences,
undermining its relevance on the grounds of its absurdity.
Poulton’s work (Top Hat, Gray Wolf, and Crescent: Turkish Nationalism
and the Turkish Republic [1997]) is a good but limited source that addresses
the development of the Thesis in the space of about a dozen of pages. At most
§
it is an introduction to the subject. Ersanlı’s work, named Iktidar
ve Tarih:
Türkiyede “Resmi Tarih” Tezinin OluÇsumu (1929-1937) [Power and History: The Development of “Official History” in Turkey (1929-1937)] consists
of over two hundred pages completely dedicated to the development of the
Turkish History Thesis and its aftermath. Unfortunately, it is an extremely
confusing work that lacks structure and clarity. Yet, in a recent collection of
essays on historiography, edited by Fikret Adanır and Suraiya Faroqhi, a portion of Ersanlı’s work seems to have been translated and reedited as an outstanding essay (“The Ottoman Empire in the Historiography of the Kemalist
Era: a Theory of Fatal Decline”). In this essay Ersanlı focuses on the construction of the myth of the fatal decline of the Ottoman Empire. Obviously
it does not address the focus of my research, namely the Congress itself, and
historiography and nationalism in relation to each other.
This concern brings us to the work of Etienne Copeaux, and his 1994
doctoral dissertation De l’Adriatique a la mer de Chine: les repre¡ sentations turques du monde turc d’apre s les manuels scolaires d’histoire (19311993). Copeaux focuses primarily on the implementation of the Turkish History Thesis and addresses the development of the Thesis only in the introduction of his work. However, this introduction, which runs about fifty
pages, is extremely important for an evaluation of the Turkish nationalist
historiography.
Copeaux argues that the major source of Turkish nationalist historiography was Western Orientalism, French and German in particular. This is close
to the conclusions of my research, that Turkish nationalism was narrated and
280
Murat Cem MengüÇc
built through the medium of historiography and that the sources of the type of
historiography adopted during the construction of Turkish nationalism were
Western. Copeaux goes further and inquires about the infiltration of German
and French Orientalist ideas in particular. A careful reading of the proceedings proves him right, especially regarding the influence of French Orientalists such as Leo Cahun and Eugene Pittard. If need be, one only has to refer
to Dr. ReÇsit Galip’s presentation during the second day of the Congress to
extract dozens of other Orientalist sources, including German ones. Meanwhile, the difference between my research and Copeaux’ dissertation is in
scope and focus. While Copeaux mainly focuses on the post-1931 era and
the after effects of the Turkish History Thesis, my research focuses on the
pre-1932 period, that is, on the evolution of historiography and nationalism
leading to the Thesis.
Let us now go back to the consequences of the urge to blow up the
Turkish nationalist refrigerator and present the weaknesses, regarding the
methodology, scientific knowledge and philosophical wisdom. In order to
do this it was necessary to decide whether to present an Eastern or Western
background. In the end I chose to present the development of the Turkish
nationalist historiography in relation to a Western backdrop, that is a) in relation to the development of modern Western historiography, b) in relation
to the development of popular and state nationalism’s. Inevitably, both nationalism and modern historiography emerge as Western ideas. They were
both adopted for the construction of a Turkish nationalism. Yes, in the origins
of Ottoman historiography there was the particular example of Ibn Khaldun,
who first stated that history is a sub category of philosophy, and derived similar conclusions to Western historians such as Giambattista Vico. But, overall, the Turkish nationalist historiography was more clearly influenced by the
West and it chose to ignore the Ottoman historiography as much as possible. Meanwhile, the presentation of the proceedings of the Congress before
a Western background emphasized the separation of the Ottoman historiography and Turkish nationalist historiography even further. The emphasis was
to such degree that one had to ask, why did these two methods of historiography need to be separate? Could not the Ottoman historiography have produced a valid nationalist discourse? Why was the Western, non-Marxist in
particular, historiography had to be adopted in such vigor?
From Vico to Hegel, for hundreds of years, the Western philosophy of
history developed itself into a specific mode of thinking. By the time of so
Historiography and Nationalism: A Match Made in Heaven
281
called post-Hegelian era of philosophy, it was commonly assumed that a divine design and a “spirit” of some god-nature acted and engaged in human
history through the actions of chosen subjects. During the era of popular nationalism, outlined as post 1880’s by Eric Hobsbawm, the German historians
specifically emphasized this presence of god-nature and the idea of selected
people as agents of the fulfillment of history. Perhaps the idea was more ancient than even the Jewish tradition. In any case, pseudo religious in their
nature, this god-nature and chosen people concepts were always very dear
to nationalists. Interestingly neither the Habsburg, nor the Ottoman Empire
as centers of power were able to adopt or generate a house of god-nature, although one relied on Latin as its language and Christianity as its source of
wisdom, while the other promoted Islamist visions and at some point even
tried to implement a return to the Arabic as its lingua franca.
Changes of economic, geographic or ideological nature are justified
through history books. And the world changed from late 1800’s to early
1900’s a great deal. By the beginning of 1900’s, those who accepted the
triumph of nationalism, also accepted that history had to be rewritten, reconstructed in order to explain the occurring changes and moreover, needed to comply with the nationalist discourse of the moment – just as now
attempts are made to rewrite and reconstruct the past from queer, feminist,
post-modernist and what not manners.
In general, my research was an attempt to suggest a proper context in
which the Congress could be examined and presented in detail. The idea was
to focus on the period of critical thinking that led to the Thesis. However, a
new idea emerged as a result of the way in which the research was presented. If studied closely, one observed (on the basis of information presented
in the second chapter of my work) that Ottoman historiography underwent
a transformation before Turkish nationalism developed into a serious force.
Methodological inquiry into the past and the inclusion of a universal context in Ottoman history were major concerns for historians as early as Katip
Celebi
Ç
(d. 1675) and Naima (d. 1716). With the beginning of the reform era,
a concerted attempt to transform the discipline was made. Thus, as early as
1863, lectures on the philosophy of history were offered at university level.
Ottoman historiography, although already in a reformist mode, became
subject to the Turkish nationalism towards the end of the nineteenth century. Historians of the era were forced or were motivated to abandon the
roots of their discipline in order to adapt to the new nationalist context. This
282
Murat Cem MengüÇc
was a result of the official approach of the ruling elite from 1908 on. Later, the Turkish Republic’s views on the writing of history, the so-called Kemalist historiography, resulted also from an interest in imitating the nationalist mode of historiography observed from Western sources. By 1932, the
Congress proceedings clearly demarked the divide between the supporters
and the opposition. The camps were defined as those willing to help build
the nation and those unwilling to be co-opted. Is it not appropriate, therefore,
to ask whether historiography offers the most suitable medium in which to
construct a nation?
As far as the state and fervent supporters of nationalism are concerned,
all debate and intellectual struggle during the developmental era of Turkish
nationalism concluded in one final showcase on how to write history. And,
after all, how else can a new generation be persuaded that he or she belongs
to a certain nation, when that nation had only existed for a decade, how else
but by the construction of a history?
In his work titled Nations and Nationalism, Ernest Gellner draws our attention to the fact that an industrial society depends on cognitive and economic growth. Although Turkey was not fully an industrial society by 1932,
its state discourse was definitely industrialist as shown by Dilek Barlas’s
work entitled Etatism. The educational policies of most countries of that time
who aspired to become industrial societies targeted the cognitive growth of
their societies, because education is an extremely efficient tool in generating a uniform identity and behavioral patterns among the subjects of a state.
This is seen perfectly in our case. The Congress was originally designed as
a teacher’s conference on new history textbooks. It was then announced as
a congress of history. The meetings were a pseudo scientific declaration of
the indisputable Turkishness of the citizens of the new republic, which was
to be taught to the future generations.
Finally, one wonders why historiography is an effective tool in building
a collective consciousness, and to what does it owe its effectiveness? To talk
about the past simply implies the existence of a continuum between the now
and the past. Such a continuum implies actions and consequences of actions,
which in return explain how things became what they are. Thus the strength
is not in the discourse of a particular historiography, such as a nationalist one,
but in the simple act of telling, which acquires the interest of the listening parties. It is clear that a shared language and the symbolism of a shared faith can
be magnificent sources of inspiration for such occasions of story telling. But
Historiography and Nationalism: A Match Made in Heaven
283
also, a good story is one in which the listener can personally identify. In terms
of narrative, historiography is capable of following a homogeneous line, isolated from the rest of the surrounding events while reconstructing the past.
Much like a novel, it can follow a predetermined course, for a predetermined
effect. Also, Western historiography of the post 1850’s always claimed that it
was scientific. As a discipline of academic standing, it possesses an authority.
For nation builders, this combination is sublime. Not only can historiography
follow a predetermined, isolated, and uniquely Turkish story line, but it also
does this while scientifically attesting to the existence of a Turkish nation. At
such an interval a well-written history can change the course of history, as it
did in many European nationalist constituencies, including your country and
mine.
Let us consider the opening paragraph of Arnold J. Toynbee’s A Study of
History from this perspective, which was completed in 1946, in the aftermath
of World War Two:
Historians generally illustrate rather than correct the ideas of the communities within which they live and work, and the development in the last few centuries, and
more particularly in the last few generations, of the would-be self-sufficient national
sovereign state has led historians to choose nations as the normal fields of historical
study. But no single nation or national state of Europe can show a history which is
in itself self-explanatory.
Throughout the 1900’s until today, historians have served more than any
other academic discipline in the construction of less than self-evident nationalism’s. The proceeding of the First Turkish History Congress was a clear
example of this.
Was it all lies with which they filled our refrigerators? Did we only purchase false products from them? I believe it was mostly misconceptions that
were supported by pseudo scientific data. Wherever the necessary data became unavailable, they simply used lies. They were single minded, and held
a simple vision. They were not looking for truth. They were looking for what
they needed. We, who are accustomed to calling ourselves Turks, Italians and
what not, are often troubled when faced with the uncertain nature of Turkishness. This was not so for our founding fathers. They were aware of the
ambitious nature of their work. They knew that a nation had to be constructed. The acclaimed founder of the Turkish Republic, Mustafa Kemal Atatürk
284
Murat Cem MengüÇc
once clearly stated that “To write history is more important than to make
history.”
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‘Orientalism’ in Latin-American Prospect
Cristina De Bernardi, Eleonora Ravenna
Abstract
In Argentina, public University is being deeply affected by the neo-liberal policies. University matters are discussed as business affairs, inputs and quantifiable
products. The ‘academic subject’ is being transformed constantly and systematically; caught in a net of figures, points and reports, spurred by the pressing need
for financing (financing that nowadays does not exist); little by little, it is being intimidated in order to obstruct clearness and perspective. In this way, the government is also cutting out those fields of knowledge that are considered “useless.” The
repeated question is, Ancient History, what for?
In this paper we attempt to answer this question and go beyond it. We would try
to think about how to teach and how to do research work in Argentina, from a critical
theoretical methodological point of view and from an epistemological conception
that stresses that the construction of knowledge entails a conception of the ‘real,’ of
society, of the subjects and of knowledge itself.
We consider Ancient History to be an address from the present to the vestiges
of remote societies, and these vestiges are not ‘transparent.’ We will also think over
the idea of progress and the subliminal unique historical development that it means,
the Eurocentric implication of this and of the need to notice and respect the cultural
diversity/difference.
Research and teaching context
In the 90’s, the structure and trends of the public sector of Latin-American
countries suffered great transformations. The state machine was reduced and
its products, the public policies, changed their course and logic of design
and performance. Decentralization, appraisal and incorporation of practices
typical of private enterprise were imposed.
The national states’ policies, imposed to the university systems, followed
the same general tendency. This explains that even tautening the particular
conception of autonomy1 of many Latin-American Universities, those policies have been similar in the subcontinent. The new tools of coordination and
1
In 1918, the foundations of the stagnant argentine University were undermined. As a
285
286
Cristina De Bernardi, Eleonora Ravenna
regulation of the system explain the changing of a ‘supplier’ state – engaged
with the University development as another side of its active participation
in the social and economical activities2 – into a different one that we can
name as ‘manager’ state – because of the differences from the logic of the
University and akin to the private sector of Economy. Anyone who observes
the politics promoted by the national Latin-American states on the University systems will notice the instruments developed to impose those policies:
assessment of the ‘University products’ (goals, aims, effectiveness – particularly expressed in quantitative terms), incentives to research work, diversification of financial resources, encouragement of the relationship between
University and Undertaking, etc.3
Although it is possible to mark some achievements with these policies,
the new managerial ideas imply a severe stroke to the basic principles of the
organization and running of Universities.
Clearly, the University systems are encountering a threat that implies to
depend on the market forces and on being controlled technocratically. The
dependence on non state financial means, as those coming from sale of services to undertakings, may point research work to programs which have immediate, secure results and a direct application on market needs, reducing
University leeway to lead its own activities.
In this context the question Ancient History, what for? appears more frequently. We believe that answering it will lead us to a position in the logic
we are criticizing. This logic emphasizes that valid knowledge, that deserves
result of a movement achieved by young university students, came about what is known as
University Reform. It was based on a debate that took into account political matters as the
relationship University-Society and academic ones as Research work - University. The financial and scientific-pedagogical autonomy of University; the tripartite government – integrated
by university professors, graduated students and university students; competition for a chair
considering curriculum vitae and public examination; the ‘free professorship’ – an extension of the constitutional right to teach and learn – and the free assistance to lectures; university extent and workers-students solidarity were established. This Reform has influenced
other Latin-American Universities. See Alberto Ciria and Horacio Sanguinetti, La Reforma
Universitaria 1918-1983 (Buenos Aires: Centro Editor de Am¡erica Latina, 1983).
2
The Reform played an important role in the enlargement and consolidation of the middle class in Argentina and other Latin-American countries. It was the foremost impulse of a
powerful process of social promotion, by mean of education. That was the aspiration of the
European immigrants that were integrated to the Nation by the public education proclaimed
by 1420 Law (free, lay and obligatory education).
3
Nicol¡as Bentancur, “Las Pol¡ıticas Universitarias en Am¡erica Latina en los a£nos noventa: del Estado Proveedor al Estado Gerente,” http://www.argiropolis.com.ar/Betancur.html.
‘Orientalism’ in Latin-American Prospect
287
to be supported, is the one which has useful derivations. Another kind of research can be considered as a selfish idle pursuit that brings nothing to society. We know this is not true, so part of our determination is placed on reasking the question as well as giving sense to our work. So, we ask, Ancient
History, why?
Our assumptions
We can give different answers: because we like writing Ancient History.
We are interested in giving acceptable explanations, for example, on those
original processes that made some men decide that some of them had to subdue the others; that some had to work and others had to lead the formers’
work for their own benefit. Why some had the ability to create mental representations in which everybody found answers to their existential questions?
We enjoy to study this one and other processes in that large entity named Ancient Near East,4 particularly in the lands of the rivers Euphrates and Tigris,
where men early created a culture that was maturing as the millennia passed
by. This happened through interactions, pacific as well as warlike; through
the ambition of those who governed and the suffering of the subdues, carried
by social forces they could not control. We are trying to unveil this process
from its shadows.
Furthermore, we want to do so from our own place, vindicating our training as historians: Social History. We respect and need the point of view of
assyriologists, philologists and archaeologists, but our assessment is global. From this point of view we feel the imperative to recover History as
‘life lived’ as J. L. Romero wanted.5 Lives lived by all men and women of
those long ago and far away spaces, were they either rich or poor, literate
or illiterate. Small lives left small hints, side by side with the important imprints of great lives. But the insignificant men who worked for the great men,
squeezed, leaving traces difficult to be seen. Traces that can only be understood if we believe that they actually existed. This proposal has always been
the aim of Social History.
There are other reasons to focus the past from this point of view: the questioning to a ‘Total History’ – far beyond the ideological tendencies of those
who propose the death of the great theoretical frames and generalizations –
4
Ancient Near East is a very provoking name. It implies to think on those geographical
spaces near and eastward... Europe!, and on a very remote past.
5
Jos¡e Luis Romero, La vida hist¡orica (Buenos Aires: Ed. Sudamericana, 1988).
288
Cristina De Bernardi, Eleonora Ravenna
and the mistrust on the ‘objectivity’ of History have opened a gap to new – or
not so new, but refreshed – ways of making History: Microhistory, History
of Subaltern Classes, History of Mentalities, History of Private Life, Cultural History, among others. This let us notice the influence of this epoch on the
work of historians. We can also see today how History has been penetrated
by the other Social Sciences. Literature (particularly the Speech Theory) and
Anthropology (with its singular look to the inside of society from the inside
of such society) have had great influence. We can apply these and other approaches to the Ancient Near Eastern studies because of the flowing status of
texts publishing and the fast and recent progress of philological knowledge
as well as excavation methods, as Liverani says.
Moreover, we can give another kind of answer, intimately overlapped
with that we have already mentioned. It is our epistemological position: our
conception of science, of History and of the scientists that make them.
We consider that History is an address to past from present; our point of
view is connoted by our concerns and experiences. We are involved in a social and academic field that conditions and guides us. When we make History
we not only debate about facts, hypothesis, methods or theories, but also, we
argue about true conceptions of the world, of the society, of mankind. This
conceptions come off a set of ‘basic assumptions’ as Alvin Gouldner named
them.6 They settle the limits of what can be expressed or can be thought and
of facticity, this means – the selection of facts and problems. So, there is always something else to say. Writing History is a task that never comes to an
end.
According to this point of view, we wonder what gives us the knowledge
of past processes of Ancient Near East. What can we get from the thousands
of recovered tablets from archives of palaces, temples and – in a less quantity
– from the non state compass? Beyond the specific aspects of great interest
that reveal us different facts of material, social, economic, intellectual and
even emotional life of men of those times, really remote if we date them –
but close to us when we can recognize ourselves in their eagerness, desires,
pains, struggles, miseries and greatness – it is also possible to obtain information that helps us in building the theoretical space of comprehension of
human societies in their regularities as well as in their diversities.
If we accept the common psychical system of man, at least from the ap6
Alvin Gouldner, La crisis de la sociolog¡ıa occidental (Buenos Aires: Amorrortu, 1979
[1970]).
‘Orientalism’ in Latin-American Prospect
289
pearance of Homo sapiens, it is possible to start from current experiences to
attempt to understand experiences from the past.7 There exist matrixes of experiences upon which human Histories have developed. Because of this, we
are looking for correspondences between the ancient and current phenomena, that although can conceal extreme differences, start from a common target: the permanent searching to solve subsistence; the processes of production increase and the unequal storing of surplus; the concomitant social differentiation phenomena; the appearance of the political power and the state;
the standardization of the intra-group and external relationship; the war; the
coming out of mental representations shared by a group; the handling of
those representations by the elites to transform them into identifying diacritic symbols in order to enforce their power; the legitimation process of the
institutions that guarantee the reproduction of unequal conditions, to mention only the veins of social fabric. Of course we are not proposing an unilinear History but the methodological possibility to compare what is regular
considering what is singular.
The regularities allow us to think about Ancient History. We consider in
this category certain common processes that appeared in different geographies and times. We understand that there are tendencies that developed independently, but which have similarities, enriched by their own specific nature.
It is enough to think about the processes of political power concentration that
become into a variety of forms that the state adopts.8 In Latin-American academic field, the recognition of such regularities is used to be expressed in the
Career Programs as Ancient History. It includes different subjects: Ancient
History of Asia and Africa, of Europe and of America.9
Otherwise, it is the consciousness of diversity what makes impossible
to continue thinking about human History as a series of successive stages
or levels that begin in the so called Ancient Near East, continue in Classi7
An excellent explanation in Barry Kemp’s work Ancient Egypt: Anatomy of a
Civilization (London: Routledge, 1987).
8
We would not take part in the controversy linked with the question about the existence
or not of the state before modern times. This polemic has not been important in Ancient Near
Eastern studies. But to reject the existence of the state before the Modern one, is to deny those
explanations that consider the process of political power concentration in ancient societies.
9
In USA, there are other trends that develop comparative studies. For example, the
Columbia School and the works of Karl Polanyi et alii: Comercio y mercado en los imperios
antiguos (Barcelona: Labor, 1976); more recently there are other scholars that consider different theoretical topics like: Center-Periphery relations, crisis, collapses, etc., that are studied
in different times and places.
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Cristina De Bernardi, Eleonora Ravenna
cal History, Medieval Times, Modernity, etc., in a sequence of replacements
that it is possible to recognize only in Europe, buy which does not explain
the historical developments of the ‘rest of the world.’ This interpretation not
only means to consider European History as the right way of human development, but also as the mirror where other societies should watch themselves
to march to a similar destination. As this position reduces the historical processes to sequences, they loose specificity. The survival of this way of thinking History shows that the old prejudices resist to disappear. Moreover, they
are supported by a world of almost unipolar power and by the imposition of
a unique thought. When economic models determine the social exclusion of
a large part of the population in each country and even of states and continents of ‘the world,’ we cannot be surprised by the reappearance – hidden
or open – of positions that years ago we called ‘Eurocentric’ and that now
– more precisely – we define as ‘westerncentric.’ We stress the cultural and
historical connotation that the idea of the West has.
This consciousness of regularities, specificity and intention is what makes
us attempt to build a theoretical space that has, as a point of departure, a conception of knowledge that has to be fit with praxis in order to change the established orders and not only to understand functions and processes. Instead
of appealing to the assessment neutrality of positivist science, we choose a
critical position and to be involved in social change.
We believe that our geographical and historical position as Americans,
and more specifically, Latin-Americans allows us to have a different focus:
free of ‘academicism’ and restricted by lack of means, that compels us to be
more creative. In this connection we could also point out that Latin America has developed its own epistemological position. Many scholars have formulated and restructured concepts and categories that contribute to the Social Sciences of the region and the world.10 To start from this regionalworld prospect is to acknowledge our searching, experimentation, construction and struggle ‘place,’ which complements another important one: the one
which proposes an alternative social-political paradigm of a new world, more
democratic, less unfair.
This position leads us to share our view with those historians who are
10
Some of these categories are: Independence, Order, Progress (and Development), Freedom, Revolution, Margination, Center-Periphery, Dependence, Colonialism. See: Pablo Gonzalez Casanova, “Reestructuraci¡on de las ciencias sociales: hacia un nuevo paradigma,” in
Pablo Gonzalez Casanova (ed.), Ciencias Sociales: algunos conceptos b¡asicos (M¡exico:
Siglo XXI, 1999).
‘Orientalism’ in Latin-American Prospect
291
concerned with social body – far beyond celebrities – and the emotional dimension of the historical process. Both topics make us focus on a decisive
point: social action. We understand it in its widest sense, this is for example
the capability to resist power, or the active identification with it. This allows
us to study the other side of the political power legitimation processes. These
are the questions and we want to find answers: Why? How? Who? Against
whom? Summarizing, which are the feelings that power provokes? Which
are the replies? What kind of dialogue between governors and governed –
still the most indirect – is necessary to disguise the costly effect of coercion in
its goal to subordinate wills? This perspective is one, of many other possible
bridges, to understand the present-past relationship.11
This task, so risky as well as exciting, compels us to avoid the strangeness
of language, the formalities of scribes and of the official texts in order to peep
at the actual life of the inhabitants of those regions and to attempt to distinguish the links between men and between men and things, not only taking
into account what the protagonists tell us about themselves.
Anyone related to ancient oriental studies knows that almost all textual sources were written by those who were involved with the state, and we
cannot discuss it. This assumption is more convincing as we go backwards in
time. This situation has conducted to oversize the state role in these societies
and to hide those voices that do not belong to the learned elite.
Ethnohistory may help us to recover these historical subjects. It is a practice developed by the Americanists in order to recover ‘the other,’ those men
and women who did not write their own History. This discipline arose due
to the methodological problems that the European sources set to American
History, because the voices of the indigenous nations were almost ‘translated’ in a foreign language and thought. Ethnohistory has taught us to discover the actual but rejected common men, and has trained us to look for hints
of their presence – including their ‘no-presence’ – in the available sources.
This practice is useful when we have to face that quasi omnipresent state in
the textual data of the Ancient Near East.
American historiography can also bring us other methodological prospects in our approach to those processes that were lived by those who remain
silent, because – as we have already pointed out – most of the societies did
11
Cristina De Bernardi, “La dimensi¡on emocional de los procesos colectivos en las
fuentes textuales de la Mesopotamia Antigua. Posibilidad de un rescate historiogr¡afico,”
¡
Estudios de Asia y Africa
38 (2002).
292
Cristina De Bernardi, Eleonora Ravenna
not develop a continuous writing system. Americanists have studied other
material that could contain significant social messages as the quipus – that
some Andean communities still use – and are being considered not only in
their numerical value. Other promissory research programs are studying the
textile motives, the palliares drawn in the Moche pottery. These new courses
may lead scholars to re-interpret data in other antique contexts. John Baines,
for example, has posited that the communities that were hidden by that great
state that was the Old Kingdom Egypt, could have maintained their identities
in the pottery motives, diacritic features that lately were eliminated when the
Egyptian state grew and imposed an homogeneous pottery stile.12
These new interpretative tendencies are part of the deep theoretical-methodological transformation of social sciences in the last years, that has
changed (and has been revitalized) from different theoretical, linguistic and
literary perspectives and also from the very history, the purely documental
conception of historiography. And it has gone farther: it points out the reassessment of the document as a very text, besides its classification, since
it is the producer society the one that culturally chooses the narrative to express relevant events. The scholar only retypes them from his own point of
view.13 We must start from a conception of historical document that widens
the horizon of interpretation. Traditionally, the ideal of the documental historiography has been an approach to the text as information about the past,
with the goal of rebuilding it with the larger likeness. This position is based
on the illusion that a neutral description of the facts without interpretation
is possible. Thus, it would be enough an accurate comprehension of the ancient languages to be able to penetrate into the narrated fact. This conception
also implies a belief in the neutrality and transparency of the language and
its background, that is a non historical conception of the historical truth. The
reconstruction of the past has to be a dialog between the historian and the
documents considered as texts, historical facts themselves. The reading and
interpretation of documents-texts implicate the historians in a process where
present and past are interrelated.14
12
John Baines, “Literacy, social organization, and the archaeological record: the case
of early Egypt,” in John Gledhill, Barbara Bender and Mogens Trolle Larsen (eds.), State
and Society: The emergence and development of social hierarchy and political centralization
(London: Unwin Hyman, 1988).
13
N. Bouvet, “El texto literario como documento hist¡orico,” Anuario 14 Escuela de
Historia (1989-90).
14
Hayden White considers that it is impossible to go across the texts to catch directly the
‘Orientalism’ in Latin-American Prospect
293
What has concisely been stressed, up to here, leads us to assert that, as
Latin-Americans, we can introduce renewed theoretical and methodological
prospects in the academic traditions firmly set; not only in the research field
but also in the teaching one.
Ancient History, why?
To some extent, this question has been answered along the paper.
We are for Ancient History because we do not have to auto-exclude from
any space of knowledge. It must not be a few people privilege. The lack of
means should not overrule our intellectual ability. We ought to fight against
this state of affairs. This claim is very strong among Latin-American ancient
historians.
We are for Ancient History because it allows us to find resemblances
and differences in the ways of solving problems that have worried humanity along its existence; it helps us to realize that all societies have been concerned in a change process that entail sequences and breakdowns that lead
to our present. It also compels us to think over our role in History.
We are for Ancient History because it allows us to understand today mental structures from their beginning. For instance, from the report of the classical sources (Herodotus, Xenophon, Thucydides, Diodorus Siculus, among
others) up to the present, we are able to observe the development of the
dichotomy between the East and the West.
We are for Ancient History because the ‘simple forms’,15 that were
‘real,’ because any cultural activity entails a language and a cultural matrix to operate. There
is no reproduction relationship or reflection between historical account and the facts, there is
only a metaphorical relation that suggests the reader a similarity between facts and processes
of past and the kind of accounts that we usually use to give cultural senses to our lives. The
facts become familiar to the reader not only because he has more information about them,
but also because they have been shown in a familiar way. This position has been incorporated by orientalists such as J. Asher-Grave and L. Asher: “From Thales to Foucault... and back
to Sumer,” in Jiri Prosecky (ed.), Intellectual life of the ancient Near East: Papers presented
at the 43rd Rencontre Assyriologique Internationale, Prague, July 1-5, 1996 (Prague: Oriental Institute, 1998); Hayim Tadmor and Moshe Weinfeld: History, Historiography and Interpretation: Studies in Biblical and Cuneiform Literatures (Jerusalem-Leiden: The Magnes
Press - Brill, 1987); Mario Liverani: “Political lexicon and political ideologies in the Amarna Letters,” Berytus 31 (1983); Jack M. Sasson: Studies in Literature From the Ancient Near
East (New Haven [CT]: American Oriental Society, 1984).
15
M. Liverani, El Antiguo Oriente. Historia, sociedad y econom¡ıa (Barcelona: Cr¡ıtica,
1995 [1991]), pp. 720-29.
294
Cristina De Bernardi, Eleonora Ravenna
shaped in those far away and long ago places, can be followed and their
influence is still alive.
We are for Ancient Near East History because senses, values, identities
that pervade us, as Christianity or Judaism, were originated there and even
today lead actions and solidarities and influence political decisions.
We are for Ancient History because as a Social Science makes us think
over the problem that means to join scientific knowledge to the humanistic
one and both to the construction of organizations and structures to make a
world of many no exclusive and respectful of diversity democracies. In order to build this new world, Social Sciences, among them History, will have
to pose the problems this challenge brings. These are some questions that
need new and deep answers: What do we have to teach? Whom? How many?
How? What for? What do we have to stress? What do we have to say about
the relationship knowledge-power, be able to - ought to? How and what do
we have to remember about History? How do we have to transfer to the society the so called upper, scientific, humanistic culture, making the Social
Sciences become the ‘construction of the social’ sciences?16
We believe we are making a difference in this way. Our determination,
the aid of foreign colleagues, our participation in this meeting, and communicational innovations, encourage us to continue in this task and to face the
challenge.
16
Gonzalez Casanova, “Reestructuraci¡on,” cit.