Igor a Deyr ez

Transcript

Igor a Deyr ez
Deyr az-Zor
Nel primo pomeriggio presi un pullman diretto a Deyr az-Zor. Spesso, staccate dalla
strada ma non lontane, c’erano tende di pastori con greggi nei pressi.
Poco prima di passare nella città di el-Hàssake un grosso branco di ovini, guardato
da vari uomini donne e cani, attraversò la strada, bloccando il traffico per parecchi
minuti. Per un momento mi prese l’impulso di scendere e restare un po’ coi pastori.
Un tempo non avrei esitato. Ora, invece, prevalse la pigrizia e mi accontentai di
pensare che l’avrei fatto in futuro. Oltre a questo, il finestrino non dava altro. Ero
ben uso a quelle viste. Feci caso di non aver visto dromedari. Un tempo era frequente
incontrarli, anche a piccoli branchi.
La stazione dei pullman di Deyr az-Zor era accanto a piccole alture che fungevano
da cimiteri. Le grandi tombe, fitte fitte, a distanza apparivano incastonate nelle
pendici, quasi senza interstizi. Lasciai la stazione per rivedere il bel ponte sospeso
sull’Eufrate con la sua ampia vista sul fiume. E vi tornai rapidamente cercando un
mezzo per Aleppo. Partiva dopo un’ora, ma per fare il biglietto avevo bisogno di
un’autorizzazione dall’ufficiale del locale posto di polizia. Questi mi chiese da dove
venivo, quanto ero stato in città, cosa avevo fatto, dove intendevo andare, nome del
padre, della madre, dello spirito santo. A un mio cenno di disappunto, l’ufficiale
sorrise dicendo ch’era prassi senza importanza. Compilò veloce il modulo che
dovevo consegnare alla biglietteria.
Mi sedetti in attesa a un tavolino esterno del bar, davanti a un tè, masticando semi di
zucca. E osservando la fauna attorno. A un tavolino nei pressi un signore dalla
candida gallabìyya sorvegliava due donne in costume di pesante velluto che a loro
volta cercavano di badare a cinque bambini con poca differenza d’età che correvano
schiamazzando tra i tavolini. Più in là una ragazza carina con hijàb e gli occhi
segnati dal kohl parlava fitta, piegata verso un giovane militare che l’ascoltava serio
tenendole una mano. Di tanto in tanto un ragazzo del locale passava con un secchio
d’acqua spruzzando il pavimento senza mancare i piedi degli avventori.
L’autobus partì puntuale, dopo un ultimo controllo dei documenti da parte del
poliziotto di prima che, riconoscendomi, sorrise e mi lasciò perdere.
Poco dopo la partenza, come sempre, l’addetto ai servizi di bordo distribuì i
bicchierini di plastica che poi passò a riempire d’acqua con una bottiglia, già di
Pepsi Cola, le cui incrostazioni certificavano un lungo onorato servizio.
Passai le circa quattro ore di viaggio per lo più in dormiveglia con accanto un
giovane che invece dormiva della grossa e spesso crollava su di me. Con la solita
sosta a metà strada per un tè, un caffè, un panino. Un bisogno.
Quando, dopo le ventitré, vidi che stavamo entrando ad Aleppo e il giovane accanto
a me prese a dar segni di vita, gli chiesi se conoscesse qualche alberghetto andante.
Munìr si svegliò del tutto, incuriosito da questo àjnabi, straniero cioè, che lo
interpellava non in inglese. Sì, ne conosceva. Ma, se mi andava e mi accontentavo,
1
potevo andare a dormire nel suo alloggio, dove abitava con un gruppo di studenti
apprendisti presso una scuola che li preparava nella meccanica delle automobili e
alla loro riparazione. Ringraziai, ma non volevo disturbare. Non insistette e io
probabilmente mi evitai una nottata incasinata.
Aleppo
Scendemmo assieme e c’incamminammo lungo una strada larga, di gran traffico
nonostante l’ora, in direzione di un piccolo moderno grattacielo d’una decina di
piani. Era l’hotel Amìr – mi diceva l’amico – di qualche pretesa, ma se cercavo
qualcosa di andante, l’avrei trovato un po’ più in là, in una laterale nei pressi.
Ci salutammo e poco dopo, seguendo le indicazioni, trovai la laterale e subito
l’insegna di un albergo. Troppo vicino alla strada trafficata.
Passai al secondo, il fùnduq Farùq, diceva la targa. Salii al primo piano per una
scaletta di legno, entrando in un’ampia sala rettangolare, male illuminata, con vari
divani alle pareti. Di fronte all’entrata, una scrivania dietro alla quale un vecchio
dai bei baffi bianchi mi osservava incuriosito. InSu un divano accanto sedeva un
ragazzino. Tutt’e due ben svegli, evidentemente in mia attesa. Chiesi se c’era un
letto. Sì. Quanto costava? Duecento e cinquanta lire siriane, quattro euro. Solo?
L’uomo allargò le braccia, palme in su, alzando la testa come per dire: così è se
t’accontenti. Mi accontentavo puntando al buio. Gli diedi il passaporto. Lo prese
rovesciato in evidente difficoltà. Gli chiesi se potevo aiutarlo. Sì, per favore. Gli
porsi allora un biglietto da visita col nome e l’indirizzo in arabo.
Come il vecchio recepì la mia nazionalità, strabuzzò gli occhi: «Italiano? Ma perché
andate ad ammazzare i bambini in Iràq?» chiese con faccia addolorata e facendo il
gesto come di segarsi un braccio col taglio dell’altra mano tesa. Rimasi di sasso.
Non mi sarei mai aspettato di passare per cittadino di un Paese ammazzabambini.
Tergiversai che noi italiani si cercava di riportare la pace. «Ma ammazzate i
bambini!» Ma no! Si sbagliava. Oltre al fatto che la maggior parte del popolo
italiano era contrario alla presenza di nostre truppe in quel disgraziato Paese.
Contrasse la fronte, poco convinto. Poi tagliò: «Non importa, lasciamo perdere.»
Finì di compilare la sua scheda. Mi chiese il pagamento anticipato e mi indicò una
porta a vetri opachi dietro di sé. Era la mia stanza. «Buonanotte, che tu ti possa
svegliare nel benessere.»
«Anche tu.»
Una volta entrato nella stanza, mi resi subito conto che i quattro euro li valeva tutti.
Ma neanche mezzo di più. I due letti denunciavano un intenso uso senza che da
tempo fossero state cambiate lenzuola e federe dei cuscini, il cui antico biancore era
passato a un variegato grigiore. Peli e capelli sparsi completavano l’arredamento.
Ebbi un moto di disagio. Quando viaggiavo da studente, una ventina d’anni prima,
questo era lo standard medio dei miei alberghi e ostelli. Ma allora, intanto, avevo il
mio bel sacco-lenzuolo, il preservativo che, seppur leggero, mi isolava dall’ambiente
esterno, soprattutto psicologicamente. Ora non l’avevo e, diciamo, ero pure fuori
2
allenamento. Ma non me la sentivo di cercarmi un altro albergo a mezzanotte. Né di
mortificare, andandomene, l’anziano anfitrione lì fuori. Allora decisi che il lenzuolo,
almeno sotto il guanciale, doveva esser circa pulito. Lo alzai e ci infilai il cuscino
sotto. Poi, senza guardar oltre, mi distesi vestito com’ero. E mi addormentai subito.
Lo stridulo fracasso d’un piccolo motocarro mi svegliò ore dopo. Andai al bagno.
Stesso standard della stanza. La carta igienica, un’illustre sconosciuta. La corta
canna attaccata al rubinetto rasoterra dava acqua sia per una diretta pulizia intima
che in funzione di sciacquone. Tornai a dormire.
La mattina, fui svegliato dalla luce e dal traffico sostenuto della strada sottostante.
La porta-finestra dava al balcone da cui si vedeva stagliato nel cielo il bianco
edificio dell’hotel Amìr illuminato dal sole.
Il lavandino presso il gabinetto era formato mignon e il sapone era quello in polvere
da bucato nella sua scatola aperta il cui senso d’untume che lasciava nelle mani non
si toglieva neanche lasciando scorrere sopra l’acqua per un quarto d’ora. Mi venne
da pensare che – con tutto il famoso sapone d’Aleppo in giro per tutta Aleppo, in
saponette di forma varia – in questo albergo di Aleppo si usava il sapone industriale
da bucato in polvere “che lava così bianco che di più non si può”. Boh! Allora,
rapida passata di pura acqua a mani e viso. Mi asciugai col mio fazzoletto. Poi presi
la borsa e me ne uscii senza incontrare anima viva.
Cercai invano un baretto per un tè. Trovai invece la locale moschea degli Omayyadi,
col suo alto minareto in restauro. Più in là un antico caravanserraglio, il Khan elwazìr del XVII secolo, dal gran portale con i suoi blocchi di pietra bianca e nera, che
fanno tanto mammelucco, e il simpatico piccolo edificio all’interno del cortile con
delle finestre di legno scolpito. Di fronte al Khan, la moschea mammelucca dei
Pistacchi, dalle belle iscrizioni.
In fondo alla larga strada, contro sole, appariva la silhouette delle alte mura della
cittadella che rivedevo a quasi vent’anni di distanza. Ne seguii il periplo esterno
soffermandomi a fotografarne tutti i particolari, cogliendo anche qualche scorcio
attorno, una casetta tradizionale, una piccola moschea. E immagini di vita: una
donna con cappotto lungo ai piedi e velo nero ferma a un angolo; un piccolo
lustrascarpe al lavoro; dei muratori in bilico su un improbabile ponteggio. Un
carretto di cocomeri trainato da un asino col padrone che pubblicizzava a gran voce
la propria merce: «Dooolci le angurie nostraneee.»
Questo delle grida dei venditori ambulanti era un fenomeno che si manteneva nelle
città siriane. Nella stessa Damasco, in una mattinata, da casa se ne sentivano
passare non meno di una decina. Per lo più venditori di frutta e verdura. Ma anche
di bombole di gas, di salviette, di scarpe, di piccoli capi di vestiario, di latte fresco
dalla campagna.
3
La cittadella, sul colle di roccia dai fianchi anneriti, manteneva tutto il suo antico
fascino.
Ricordai che all’esterno dell’entrata, durante i miei primi viaggi, c’era sempre un
vecchio venditore di sapone di cui ci aveva parlato anche il Prof e da lui battezzato
Abu Sabùn. Del vecchio e del suo banchetto non c’era ovviamente più traccia, ma i
saponi-sasso si vendevano sempre nel vicino suq. Qui, secondo un giovane saponaio
del suq, per il bucato funzionavano sempre meglio dei moderni detersivi, che pur
teneva in vendita, e restavano i migliori per le abluzioni corporali. Avrebbe dovuto
dirlo al padrone del fùnduq Farùq.
Ero dunque entrato nel famoso suq coperto, molto più simpatico e caratteristico degli
stessi suq di Damasco. Le teorie di negozietti alternavano prodotti artigianali
tradizionali ad altri di fattura industriale: plastiche, finte pelli. Beh, anche le
kufìyyeh erano evidentemente in tessuto sintetico, pur mantenendo il loro effetto. Ma
nel negozietto accanto, i tondi cordoncini, i neri ‘iqàl per trattenere quelle kufìyyeh
sulla testa, erano ancora attorcigliati a mano.
Nella botteghetta successiva appariva il logo giallo-rosso della Kodak e la scritta in
arabo: film Kodak in vendita qui. Poi tinozze e catini, coloratissime spugne, sandali.
Tutto rigorosamente di plastica.
Ben più suggestivi i colori soft nel suq delle spezie, dove mi soffermai a lungo a
fotografare le variegate polveri. Assieme agli altri prodotti esposti nei loro sacchi
aperti: vari tipi di tè, pepe, cannella, noce moscata, coriandro, cardamomo, cumino,
limoni secchi, farina di peperoni.
Altre spezie erano in grossi vasi di vetro, o anche di plastica, numerosi sugli scaffali.
Larghi bottiglioni da un gallone contenevano essenze e profumi.
Il qamardìn, la pasta d’albicocche disidratata, era impilata nelle sue piatte
confezioni accanto a sacchetti d’incenso e altri di mirra. Sacchetti di zibibbo. E
ancora grandi sacchi di fiori secchi da tisane e infusi, dai colori smorti, ma che messi
nell’acqua calda si sarebbero allargati a coprirne la superficie, riacquistando le loro
originali forti tinte.
Fra i negozietti m’apparve l’ampio portale di un hammàm. Quasi nuovo di zecca.
Appariva infatti restaurato da poco. Scendeva nel sottosuolo di una ventina di scalini
per giungere all’ampia sala d’entrata, con la sua fontana in mezzo. Dall’alto dov’ero
io, era un colpo d’occhio di caldi colori. I legni, da quello del portale a quelli
decorativi dell’interno, erano scolpiti con cura e la loro vernice li faceva brillare
alla luce dei numerosi lampadari, il più grande dei quali, in mezzo al soffitto, sopra
la fontana, aveva almeno una cinquantina di globi luminosi.
Uscii dal suq coperto e la luce del sole m’abbagliò per un attimo. E mi trovai subito
al bimaristàn Argùn, con la sua bellissima entrata decorata di iscrizioni e dai
muqàrnas, le modanature ad alveoli così caratteristiche dell’arte islamica che
qualcuno ha voluto paragonare a celle d’api.
4
Il bimaristàn, parola persiana, era un antico ospedale, in questo caso del XIV secolo,
e in particolare un asilo per malati mentali che venivano curati tra l’altro con la
terapia dell’acqua corrente di piccole fontane e ruscelletti artificiali, il cui gorgoglìo
era considerato terapeutico per quel tipo di patologie. M’ero ripromesso di
rivisitarlo, ma era la giornata di chiusura settimanale.
Come pure per il Museo archeologico dove m’ero diretto poco dopo. Nel vasto
cortile antistante all’entrata c’erano, come ricordavo, statue sparse, capitelli di
colonna e altri reperti di marmo che non avevano trovato posto all’interno. Forse
anche perché non di primaria importanza.
Un gruppetto di donne, tutte in milàya nera (così si chiama in Siria il chador, termine
persiano), erano sedute su un basso muretto all’ombra. Una di mezz’età mi sorrise.
Come mi avvicinai, allargando il sorriso mi chiese – in inglese – se ero inglese. No,
italiano. Sembrò delusa e il sorriso s’attenuò. Ma parlo arabo. Il sorriso riprese
vigore. Volle informarmi in anteprima che il museo era chiuso per riposo
settimanale. Anche loro erano venute da un paese vicino per far vedere il museo alle
due ragazzine, loro scolare. Infatti, mi informò, lei era insegnante d’inglese nella
scuola secondaria del loro paese come pure erano insegnanti le altre due signore.
Era andata male e ora si riposavano prima di fare un giretto e poi prendere il
minibus che le avrebbe ricondotte a casa. Le ragazzine mi osservavano sorridendo
lievemente, coprendosi a momenti la bocca con un lembo del loro nero mantello.
Feci loro qualche foto e si divertirono molto a rivederle un istante dopo nel display
della macchinetta digitale. Mi chiesero pure se potevano averle subito in formato
cartaceo. Risposi che non era possibile, ma che – se mi davano il loro indirizzo –
gliele avrei spedite. «Dio ce ne scampi» fu la risposta della maestra, che subito si
alzò imitata dalle altre del gruppo e, allontanandosi sorridendo, mi diede un: Allàh ti
accompagni. Non capii il “Dio ce ne scampi”.
5