Profezia e sapienza. La testimonianza di Dietrich Bonhoeffer

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Profezia e sapienza. La testimonianza di Dietrich Bonhoeffer
Profezia e sapienza.
La testimonianza di Dietrich Bonhoeffer
di A.Gallas
docente di Storia della teologia all’Università Cattolica di Milano
Il primo grande volume dedicato a Bonhoeffer in Italia, firmato da Italo Mancini, apparve nella
collana "I nuovi padri" dell’editrice Vallecchi nel 1969, lo stesso anno in cui uscirono – presso un
editore "laico" come Bompiani – le traduzioni italiane di Resistenza e resa e dell’Etica. Parlare, a
quel tempo, di Bonhoeffer come di un "nuovo padre", poteva essere azzardato. Con questa
locuzione si veniva infatti a dire che la sua opera era talmente importante da costituire una ricchezza
per la cristianità nel suo complesso, al di là delle divisioni confessionali, e talmente profonda da
preparare l’avvenire della chiesa, oltre che delle chiese: un’opera dunque al di sopra delle mode,
capace di diventare un "classico".
Oggi quella definizione appare meno azzardata. La fortuna di Bonhoeffer ha conosciuto varie fasi,
periodi di una certa popolarità (se di popolarità in questo contesto si può parlare) e altri di una certa
dimenticanza. Anche se la sua opera più famosa, Resistenza e resa (dove sono raccolte le lettere
scritte dal carcere berlinese di Tegel), è stata pubblicata postuma solo meno di cinquant’anni fa, si
possono già contare almeno tre stagioni nella recezione del suo pensiero: la stagione della
secolarizzazione e della morte di Dio (con al centro le lettere dal carcere), la stagione della
spiritualità (con al centro Sequela e Vita comune); la stagione dell’etica politica (con al centro
l’azione e la riflessione sulla pace, la questione ebraica, la resistenza al nazismo). Ma il susseguirsi
di stagioni diverse nella fortuna di un’opera e l’emergere di sempre nuovi approcci di lettura –
ancorché, talvolta, parziali e selettivi – sono appunto il segno distintivo di un classico. Se
Bonhoeffer può esser considerato tale, molto più dunque che un autore semplicemente "ancora"
attuale, è perché il suo pensiero non si adegua a schemi, ambiti e definizioni consolidatesi nel
tempo, ma li mette in questione e li supera. Non annullandoli, ma semplicemente ponendo i
problemi con un nuovo rigore, scavando fino ad arrivare a quella profondità dove si impongono
nuovi parametri di giudizio, dove gli spiriti si dividono ma anche emergono radici comuni e punti di
convergenza fra tradizioni diverse.
Tutto questo in Bonhoeffer non avviene solo sul piano della teoria e della riflessione teologica.
Ogni lettore che si avvicini a lui resta colpito dal legame che collega la sua teologia alla sua
biografia e dall’integrazione tra pensiero e vicende personali. Ma, di più, la teologia di Bonhoeffer è
legata alla storia, al contesto culturale in cui egli è vissuto, perché è una teologia responsabile e
concreta, e non una dottrina astratta costruita su princìpi atemporali. D’altra parte, non si tratta
affatto di una teologia estemporanea legata a mode o fenomeni di breve periodo. Bonhoeffer si
misura con le emergenze del suo tempo scavando nella tradizione e nel passato, alla ricerca delle
radici del credo cristiano da un parte e della cultura occidentale dall’altra. In questo modo la storia
stessa acquisisce una rilevanza teologica. Dio è entrato nel mondo con l’incarnazione; ha conferito
alla realtà delle strutture profonde con la creazione. Non la superficie dei fenomeni, ma la loro
logica profonda rappresenta un dato che il teologo non può ignorare. Bonhoeffer chiama questa
logica profonda "l’esser reale della realtà": essa può essere individuata solo dallo sguardo
penetrante del sapiente che contempla le opere di Dio in tutta la loro estensione, anziché limitarsi
alla relazione individualistica tra Dio e l’anima, cioè a quella che nelle lettere dal carcere viene
criticamente definita come dimensione "religiosa" dell’esistenza.
A questa logica l’uomo di fede ubbidisce. Nella sequela, secondo Bonhoeffer, il credente segue
Gesù fin sul calvario, e proprio in questo modo conforma la propria vita alla struttura profonda della
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realtà, per quanto ciò possa apparire paradossale. Di conseguenza, se è possibile usare questa
espressione, la profezia di Bonhoeffer è una profezia sapienziale.
Prima di sviluppare più ampiamente questo argomento, conviene però soffermarsi su alcuni temi
dove il lascito di Bonhoeffer è particolarmente fecondo.
1. Pace e guerra
Proprio perché così strettamente legato alla storia il pensiero di Bonhoeffer conosce varie tappe.
Esso evolve con l’evolvere delle situazioni, e questo è visibile soprattutto nella sua riflessione su
pace e guerra, dove vanno distinte tre fasi principali.
Nella prima – risalente alla fine degli anni Venti – Bonhoeffer affronta la guerra come eventualità
teorica e accoglie la soluzione classica: il comandamento di non uccidere e il Discorso della
montagna insegnano sì che non si deve resistere al male inflitto alla nostra persona, ma non che non
si possa e non si debba resistere al male che viene inflitto al nostro prossimo. La stessa guerra
d’aggressione può essere giustificata, se risponde ai bisogni primari di un popolo (teoria dello
"spazio vitale").
Nella seconda – intorno alla metà degli anni Trenta – egli affronta il problema quando la minaccia
di una guerra europea si profila già all’orizzonte ma appare ancora evitabile: in questa fase formula
la soluzione più radicalmente nonviolenta, contrapponendo pace e sicurezza ("Non c’è modo di
giungere alla pace per via della sicurezza... per la pace si deve rischiare, è una grande temerarietà...
Pace è il contrario di sicurezza"), e invocando un concilio ecumenico della pace (allocuzione di
Fanø, 28 agosto 1934). A questa allocuzione si è richiamato Carl Friedrich von Weizsäcker nel
famoso appello per un "concilio della pace" lanciato al "Deutscher Evangelischer Kirchentag" del
1985, che ha contribuito ad accelerare il movimento conciliare sfociato nelle assemblee di Basilea e
di Graz.
Nella terza fase – anni Quaranta – Bonhoeffer affronta la guerra come fatto ormai inevitabile, ed
ammette la legittimità, a determinate condizioni, di una partecipazione del cristiano alla guerra,
nonché del ricorso alla resistenza attiva per abbattere il tiranno. La posizione della seconda fase
viene così superata, ma senza per questo tornare alle posizioni iniziali. Allora, infatti, Bonhoeffer
aveva giustificato l’uso della forza quando esso avviene in "difesa dei miei" e del "mio popolo". Ciò
significa che la parte lesa in soccorso della quale è lecito intervenire è identificabile a priori in base
ai vincoli di sangue, alla storia, alla nascita di ciascuno. La situazione concreta in cui secondo
Bonhoeffer si deve valutare la legittimità del ricorso alla violenza, per non dare del quinto
comandamento un’interpretazione astratta, è dunque solo apparentemente una situazione aperta.
Nella terza fase invece il mio prossimo non è identificabile a priori, ma va individuato di volta in
volta in base alle condizioni storiche. La giusta causa, per la quale è lecito intervenire con le armi,
può essere allora anche quella di coloro che lottano contro il mio popolo; anzi, davanti alla
Germania di Hitler, la resistenza armata può essere addirittura doverosa per un cristiano, come
Barth aveva scritto al teologo cèco Hromádka, in una lettera aperta (il 18 settembre 1938, alla
vigilia della minacciata invasione della Cecoslovacchia) che suscitò grande scandalo nella Chiesa
confessante, ma che Bonhoeffer condivise. Bonhoeffer non ha elaborato una teoria della guerra
giusta; egli resta persuaso che anche partecipare alla guerra sul fronte della parte offesa comporti
una colpa oggettiva. Le sue riflessioni e le sue scelte indicano però una precondizione fondamentale
perché il problema della guerra giusta (o meglio: di una guerra cui un cristiano sia tenuto a
partecipare) si possa anche semplicemente porre, e cioè la reale apertura a riconoscere che la causa
giusta può essere quella del "nemico" anziché quella del mio popolo. Questo significa prendere sul
serio l’interrogativo di Gesù: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?" (Mt 12,48), che nella fase
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di Barcellona poteva avere solo un significato retorico. Da queste premesse Bonhoeffer trasse la
convinzione che la partecipazione alla resistenza implicava la disponibilità ad eseguire anche
personalmente un attentato contro Hitler, e definì "lusso morale" la tesi opposta sostenuta da un
altro membro della resistenza, Helmut James von Moltke (anch’egli giustiziato poi dai nazisti).
2. Stile ecumenico
Bonhoeffer ha avuto una straordinaria fortuna sul piano ecumenico. La sua è anzi una figura che
viene spesso letta come se fosse sovraconfessionale (con il rischio magari di separare il suo
pensiero dalla tradizione in cui è radicato). Il motivo di fondo che spiega questa fortuna è la sua
capacità di aprirsi ad influenze, a scambi, a rapporti a vasto raggio. Egli difficilmente appare, a chi
gli si avvicina dall’esterno, come un estraneo. Le critiche che egli rivolge ad extra, alle altre
confessioni e tradizioni, sono sempre accompagnate da critiche ad intra, alla sua confessione; non
ripetono passivamente le accuse tradizionali divenute luoghi comuni, ma nascono da un serio
impegno, esistenziale e teorico, di comprensione. Non sono dettate da risentimento, ma da senso di
fratellanza e da amore.
Questa fortuna è particolarmente appariscente nel mondo cattolico. Non è un fenomeno del tutto
nuovo: già Barth aveva dichiarato di essersi sentito compreso "senza paragone più a fondo" nel
volume dedicatogli dal cattolico von Balthasar, che non "nella stragrande maggioranza" delle altre
opere sul suo pensiero. Christian Gremmels, che sta attualmente lavorando alla nuova edizione di
Resistenza e resa, ha cercato di spiegare la cosa richiamandosi ai contenuti del pensiero
bonhoefferiano che sono particolarmente vicini – quanto al tema e quanto allo svolgimento – alla
tradizione cattolica, in particolare su tre punti: chiesa, confessione dei peccati, preghiera (cui mi
pare si dovrebbe aggiungere almeno sacramento e sacramentalità). Ma anche Gremmels vede
giustamente che più dei contenuti determinati contano la Denkform, lo stile di pensiero,
l’atteggiamento interiore di Bonhoeffer nel confronto interconfessionale. Questo modo di pensare si
manifesta nella convinzione che le contrapposizioni confessionali, pur non essendo superate,
abbiano fatto però il loro tempo. In Resistenza e resa si legge che "le contrapposizioni tra i luterani
e i riformati (e in parte anche con i cattolici) non sono più autenticamente tali. Naturalmente è
sempre possibile ripristinarle e conferire loro del pathos, ma non fanno più presa. Non c’è nessuna
prova di questo, si deve semplicemente osare di venirne fuori" (Resistenza e resa, Cinisello
Balsamo 1988, p. 463). A questo passo si può affiancarne un altro, dove Bonhoeffer indica
precisamente nella ricerca delle radici comuni, cui abbiamo già accennato, la piattaforma per
superare le contrapposizioni: "Sto leggendo con molto interesse Tertulliano, Cipriano e altri padri
della chiesa. In parte sono molto più attuali dei riformatori e forniscono nello stesso tempo una base
per il dialogo evangelico-cattolico" (ivi, p. 201).
Giacché non si tratta di affermazioni isolate, ma di un atteggiamento di fondo, è facile capire perché
un cattolico non senta nel "diverso" Bonhoeffer un estraneo. Anzi, a un lettore cattolico può
capitare di imparare, proprio leggendo Bonhoeffer, ad amare di più la propria tradizione e di
imparare contemporaneamente a criticarla in modo più pertinente; e, viceversa, di imparare ad
amare e a criticare in modo più pertinente la tradizione di Bonhoeffer, il protestantesimo. Non
sembri un’esagerazione l’uso di un termine tanto impegnativo come "amare". Non c’è dubbio che
Bonhoeffer ha saputo amare il cattolicesimo ("...ho veduto ancora una volta che cos’è il
cattolicesimo, ed ho ripreso ad averlo molto caro"), così come ha saputo criticarlo con rigore (per il
prevalere dell’istituzione sulla Parola, per la concezione gerarchica dei ministeri, per l’idea di diritto
naturale, per la concezione della messa come sacrificio...).
Di questa correlazione critica-amore abbiamo una testimonianza chiara e sintetica nella lettera del
23 novembre 1940 scritta durante un soggiorno presso l’abbazia benedettina di Ettal in Baviera:
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"Torno appena adesso da una messa meravigliosa... anche se il percorso che parte dal nostro
sacrificio per Dio ed arriva al sacrificio di Dio per noi... mi sembra un percorso a rovescio. Ma devo
ancora capire meglio la cosa" (GS VI, 489). Qui la capacità di cogliere il positivo nel diverso (fino
addirittura ad entusiasmarsene: "una messa meravigliosa") va mano nella mano con la franca
indicazione degli aspetti negativi in esso presenti ("un percorso a rovescio") e, infine, con la
consapevolezza che il processo di comprensione deve faticosamente superare le reazioni immediate
e non arrestarsi all’applicazione di giudizi codificati ("devo capire meglio").
Il suo lascito maggiore all’ecumenismo consiste proprio in questo: nella correlazione tra critica ed
amore verso le altre tradizioni (il cattolicesimo in primo luogo, ma anche l’ortodossia, l’India e
Gandhi, la "religione" dell’antica Grecia...). Alla scuola di Bonhoeffer si impara che un
ecumenismo che sia meno di questo non è ecumenismo; e che la prima condizione per arrivare a
questo alto traguardo è ammettere – l’ammissione (tilstaaelse) kierkegaardiana! – che, se non ne
siamo capaci, non siamo capaci di ecumenismo.
3. La questione ebraica. Lo sguardo verso oriente
Bonhoeffer ha vissuto in prima persona, come molti suoi coetanei, la crisi della cultura europea del
primo dopoguerra. Questa crisi aveva coinvolto profondamente il cristianesimo, e particolarmente
quel mondo "cristiano-borghese", come lo ha chiamato Löwith, di cui già gli spiriti più acuti
dell’Ottocento – da Kierkegaard, a Nietzsche, a Dostoevskij – avevano percepito l’imminente
dissoluzione. La diagnosi di Bonhoeffer ha talvolta la radicalità e la perentorietà della profezia: in
una lettera del febbraio 1932 egli parla della "fine" della cristianità occidentale come di un evento
inevitabile. La chiesa e il cristianesimo appaiono a Bonhoeffer coinvolti fino all’intimo nella crisi
dell’Occidente perché hanno perso, per il simbiotico legame con questa civiltà, la dimensione
innovativa, "rivoluzionaria", che originariamente portavano con sé. Per questo egli ritiene che per
cercare una via d’uscita bisogna guardare lontano, verso Oriente. "In realtà, il cristianesimo ha
origine in Oriente, ma noi lo abbiamo occidentalizzato provocando quella distruzione di cui oggi
facciamo esperienza", scrive alla nonna Julie nel 1934. Resterà solo un progetto quello accarezzato
per molti anni di conoscere personalmente Gandhi e di condividere l’esistenza comunitaria dello
Ashram (la comunità dove Gandhi conduceva vita comune con i discepoli), ma la consapevolezza
delle deformazioni che il cristianesimo subisce identificandosi in modo esclusivo con una civiltà è
una delle ragioni che pongono la questione ebraica al centro della sua opera.
La sua prima presa di posizione in proposito risale all’aprile del 1933, cioè a circa due mesi di
distanza dall’ascesa di Hitler al potere. In essa egli critica non solo la discriminazione all’interno
della chiesa degli ebrei battezzati, ma anche quella del cittadino ebreo da parte dello stato.
Bonhoeffer è probabilmente il primo teologo a impostare il problema con questa chiarezza e con
tanta ampiezza, e ciò gli procurerà incomprensione ed isolamento anche da parte della stessa Chiesa
Confessante (di cui faceva parte), cioè dell’area del protestantesimo tedesco che non aveva aderito
alla politica ecclesiastica del regime.
Oltre ad affrontare la dimensione politica della questione ebraica, Bonhoeffer imposta alcune linee
di una teologia cristiana dell’ebraismo che anticipano temi affrontati oggi dal dialogo ebraicocristiano, come ad es. l’idea della irrevocabilità dell’elezione di Israele e il riconoscimento del
significato rivelativo dell’esistenza del popolo eletto nella storia (mentre negativa è la sua posizione
circa l’idea di uno Stato ebraico). Si ha un crescendo su questa linea, fino a quando nelle lettere dal
carcere viene formulata la tesi per cui è necessario imparare a leggere la Bibbia a partire dall’Antico
Testamento anziché dal Nuovo. Poiché, d’altra pare, egli non mette in discussione l’impostazione
cristocentrica, che condivide con la "teologia dialettica" e anzitutto con Barth – pur con notevoli
punti di differenziazione –, viene posto sul tappeto il problema oggi più scottante nel dialogo
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ebraico-cristiano. L’abbozzo di soluzione che si può trovare nei suoi ultimi scritti consiste nel
conferire alla stessa cristologia tratti "ebraistici": un punto su cui finora gli studi su Bonhoeffer non
hanno prestato forse la dovuta attenzione. È a questo punto che dobbiamo riprendere il discorso
sulla dimensione sapienziale del pensiero di Bonhoeffer cui abbiamo fatto cenno all’inizio.
4. Una prospettiva sapienziale
Per prospettiva sapienziale intendiamo qui quella prospettiva – testimoniata dalla letteratura
sapienziale ebraica e in altre tradizioni antiche – che consiste nel considerare il mondo come un
complesso di cose, relazioni ed eventi sorretto da un ordine immanente (riconducibile più o meno
direttamente a Dio). Il sapiente si interroga sulle regole che presiedono alla vicenda umana (dal
contesto più immediato, quello familiare, a quello più ampio della sorte dei popoli e delle nazioni),
cerca di individuare le costanti e le varianti, e fissandole in massime, in proverbi, in racconti, in
consigli concorre alla formazione di un sapere che si accresce sulla base dell’esperienza delle
generazioni, e nel quale le linee di condotta vengono determinate a partire dalla validità ed efficacia
verificate dall’esistenza stessa.
La sapienza è dunque una conoscenza esperienziale che non appartiene al singolo, ma è patrimonio
di una entità collettiva o comunitaria. Poiché essa tramanda indicazioni che la "lunga osservazione
dei processi" ha dimostrato efficaci per il buon vivere comunitario, le indicazioni sapienziali
appaiono come legate alla natura stessa delle cose, alla legge inerente che presiede al loro sviluppo,
alla struttura interna che le articola. Il sapiente è colui che possiede uno sguardo capace di percepire
questa struttura profonda della realtà; il sapere che egli acquisisce attraverso questa percezione e
attraverso la memoria delle esperienze passate lo aiuterà, assieme a coloro che seguono il suo
insegnamento, a riuscire bene nella vita. Per questo il sapiente appare contemporaneamente come
l’uomo giusto e come il benedetto da Dio.
L’interesse di Bonhoeffer per questa prospettiva dipende dal fatto che egli vede nel concetto di
legge intrinseca una categoria che supera da una parte l’estrinsecismo dell’etica astratta delle norme
e dei princìpi, e dall’altra l’immanentismo dell’etica secolarizzata, quell’e-tica che – come aveva
già osservato nell’inverno 1931/32 – consiste nel semplice servile adattamento dell’agire alle leggi
immanenti delle cose. Ma il concetto di legge gli serve anche per collegare la prospettiva
sapienziale a quella cristologica.
5. Cristo, "la legge del reale"
Il concetto sapienziale di legge non si limita ad indicare il decalogo inteso come codice di norme.
La legge – o, più propriamente: la Torà – in molti contesti dell’Antico Testamento non ha un
significato nomistico, ma indica l’ordine universale voluto da Dio, fondato sulla creazione. Per
questo il comandamento viene presentato come qualcosa che non raggiunge l’uomo proveniendo da
lontano, ma che gli è da sempre vicino, vicino al cuore e alla bocca. Questa linea, le cui premesse si
ritrovano già nella tradizione deuteronomistica, si sviluppa al punto che in Sir 24 (ma, secondo altri,
anche nel salmo 19) la Torà viene identificata con la sapienza creata prima dei secoli, che ha preso
dominio su ogni popolo e nazione. Implicitamente in Prov 8, Giobbe 28 e poi esplicitamente nella
tradizione extratestamentaria, essa viene identificata con il piano di Dio secondo cui è costruito il
mondo. Nel Midrash Rabbah la Torà è paragonata ad un architetto e al progetto di cui questi si
serve per erigere un palazzo.
Nel vocabolario di Bonhoeffer il termine "legge", tra i vari significati che riveste, ne ha spesso uno
che si avvicina alla concezione sapienziale della Torà. Questo significato acquista un rilievo sempre
maggiore nel corso dell’evoluzione del suo pensiero.
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In questa accezione, il termine legge serve a render conto in termini teologico-cristologici della
struttura della realtà. Come abbiamo visto, Bonhoeffer parla di "leggi" del reale; se ci si ferma però
al riconoscimento di queste leggi non si va oltre una fenomenologia sapienziale, che non si occupa
del perché la realtà sia così costituita. La cristologia cosmologica giovannea e deuteropaolina da
una parte (cf. le citazioni di Gv 1 e Col 1, che Bonhoeffer non considera una "speculazione" come
fa Bultmann, citazioni che costituiscono il nucleo di citazioni bibliche in assoluto più frequenti
nell’Etica), e l’incarnazione (intesa come "entrare di Dio all’interno della realtà") dall’altra,
convergono nell’individuare in Cristo questo perché. Bonhoeffer può affermare così non soltanto
che "le leggi dell’agire storico derivano dal centro della storia", cioè da Cristo, ma addirittura che
Cristo è la legge del reale, "das Gesetz des Wirklichen". Questa definizione si avvicina fortemente
alla concezione sapienziale della Torà, pur con tutte le differenze che derivano dal fatto che
Bonhoeffer opera a partire da una prospettiva cristologica. L’idea che Cristo è la legge del reale non
è comprensibile se non si assume che Bonhoeffer integra l’identificazione tra Cristo e sapienza,
presente nel Nuovo Testamento, con l’identificazione tra sapienza e legge, propria, come abbiamo
visto, della tradizione sapienziale veterotestamentaria.
Ma qui si presenta un ostacolo: com’è possibile collegare la prospettiva sapienziale,
fondamentalmente ottimistica, che prevede la benedizione di Dio come garanzia di una vita felice
per il giusto, con una cristologia che pone al proprio centro la theologia crucis, com’è per molti
aspetti quella di Bonhoeffer?
Le sentenze sapienziali, specialmente quelle che prevedono un rapporto adeguato tra azione e
risultato, cioè una sorte fausta per il giusto e infausta per gli stolti e gli empi, sono realistiche
"perché parlano sulla base di esperienze che in una società ben compaginata si sono effettivamente
dimostrate valide". Ma queste sentenze "non funzionano più" in un contesto di "instabilità sociale".
Questo fatto delimita il loro ambito di validità. Per questo motivo si è parlato di "crisi" nella fase
più tarda della tradizione sapienziale in Israele, in particolare in Giobbe e Qoèlet.
I tempi in cui Bonhoeffer ha vissuto sono stati tutt’altro che tempi di ordinata vita sociale. Egli li ha
considerati tempi di totale sovvertimento dei valori, in cui il male non ha semplicemente sopraffatto
il bene, ma ne ha usurpato la figura, presentandosi sotto l’apparenza della giustizia. Davanti ad un
tale scompaginamento dei concetti etici di riferimento, la disponibilità a rischiare una scelta non
sostenuta dalla tradizione diventava una premessa indispensabile dell’agire giusto. Per questo
motivo la difesa delle leggi essenziali delle cose, secondo la linea sapienziale, viene integrata
nell’Etica con la trattazione del "caso limite", ossia di quella situazione che nasce quando gli
ordinamenti della vita sociale vengono "sistematicamente" manipolati e alla quale si può far fronte
solo con la "libera responsabilità", cioè con la capacità di individuare linee di comportamento al di
fuori di quelle indicate dall’etica valida nei tempi ordinari: una assunzione di responsabilità che
Bonhoeffer chiama "ultima ratio".
Nelle lettere dal carcere il problema diventa più radicale perché qui Bonhoeffer non si misura più
con un tempo di crisi tragico, ma di breve periodo; proprio perché il suo destino personale è ormai
deciso, egli è spinto ad orientare lo sguardo più lontano e a misurarsi con una deriva epocale: quale
fondazione teologica è ancora possibile dare alla struttura della realtà, alle leggi ad essa inerenti,
quando – nel contesto della disumanità dilagante, del male che sembra non conoscere ostacoli – a
Dio non si può più pensare, almeno non in primo luogo, come al creatore, né come all’incarnato,
bensì come a "colui che si lascia scacciare dal mondo"? Come a colui che, nel mondo, manifesta la
propria debolezza e impotenza? Ci può ancora salvare questo Dio?
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6. Il Dio che si lascia scacciare dal mondo
A questa domanda Bonhoeffer non è riuscito a dare se non frammenti di risposta, che però
possiamo cercare di ricomporre, perché indicano con relativa chiarezza come sarebbe stato
compaginato il "tutto", qualora il lavoro avesse potuto trovare compimento e la morte per
impiccagione non avesse troncato l’esistenza di Bonhoeffer.
La risposta tuttavia non è difficile da individuare, se ripensiamo a quanto abbiamo detto: lo stesso
"lasciarsi scacciare di Dio dal mondo" fornisce alla realtà quella struttura che il sapiente riconosce
come ad essa inerente, e la cui origine, nei tempi di stabilità dei valori, è ricondotta dalla riflessione
teologica al Dio creatore o all’incarnato. In altre parole, lo spazio evacuato da Dio non è uno spazio
amorfo, ma uno spazio in cui restano impressi i segni della storia da cui esso nasce. Nelle lettere da
Tegel Cristo è la legge del reale non più in base alla sua partecipazione alla creazione, bensì in
quanto è il Dio che si lascia scacciare. Quando, ricercando l’origine della struttura della realtà,
l’attenzione è condotta a spostarsi dal creatore e dall’incarnato al Dio che ci abbandona, ha luogo
anche una reinterpretazione della struttura stessa del reale. La legge della realtà ha adesso il suo
momento saliente nel lasciarsi scacciare e nell’esistere-per-altri di Dio in Cristo. Di conseguenza, la
libertà da se stessi fino alla morte non è distacco (stoico, religioso, ascetico) dal mondo, ma è la
modalità d’esistenza che aderisce più profondamente alla realtà, è vita conforme alla realtà, cioè è
vita sapiente.
Questa esistenza adeguata, conforme, commisurata alla realtà è chiamata da Bonhoeffer
"partecipazione alla sofferenza – o anche: all’impotenza – di Dio nella vita del mondo". È questo il
modo di esistere attraverso il quale "si diventa uomini, si diventa cristiani". Cristiani, perché questa
esistenza è partecipazione alla passione di Dio in Cristo; uomini, perché essa corrisponde alle leggi
essenziali della realtà. Perciò questa partecipazione alla sofferenza di Dio, che costituisce il
rovesciamento di tutto ciò che "l’uomo religioso si attende da Dio", è "qualcosa di integrale, un atto
che coinvolge la vita", al contrario della religione, che è sempre qualcosa di parziale. L’"esistereper-altri" è l’opposto della rinuncia alla propria identità; è la via attraverso la quale l’uomo diventa
ánthropos téleios, uomo pienamente tale. L’essere pienamente uomini e l’essere pienamente
cristiani vengono in questo modo a coincidere. Benedizione e croce non si escludono, ma si
implicano a vicenda.
7. Benedizione e croce
Nel Nuovo Testamento il giusto per eccellenza non gode nella sua vita terrena dei beni che il
sapiente predice a colui che segue il retto cammino indicato dalla legge delle cose, ma va incontro
alla maledizione sulla croce e alla espulsione dal mondo. Una soluzione per ristabilire l’armonia tra
Nuovo e Antico Testamento potrebbe essere quella di ricercare e sottolineare nell’Antico
Testamento le anticipazioni della sofferenza del giusto, come Bonhoeffer aveva già fatto indicando
nel cap. 53 di Isaia il luogo dove l’Antico Testamento giunge al suo "limite" e "rinvia" al Nuovo, e
come fa anche nella lettera del 28 luglio, sulla scia di alcune riflessioni svolte sul salmo 34 circa un
mese prima, ricordando come nell’Antico Testamento il "benedetto" debba molto patire. Ma questa
soluzione, da sola, rappresenterebbe ancora una lettura dell’Antico Testamento a partire dal Nuovo.
Perciò Bonhoeffer si muove contemporaneamente nella direzione opposta, e oltre a cercare la croce
nell’Antico Testamento, cerca anche la benedizione nel Nuovo Testamento; e, a rincaro, non nelle
pagine più distese e a prima vista più promettenti per una simile ricerca, come potrebbero essere le
lettere pastorali, o Giacomo, testi per altro verso da lui largamente utilizzati, bensì nel cuore stesso
dello scandalo del Nuovo Testamento, cioè proprio nella croce: "la differenza fra Antico e Nuovo
Testamento sta solo nel fatto che nell’Antico la benedizione racchiude in sé anche la croce, nel
Nuovo la croce racchiude in sé anche la benedizione". Il senso di questa frase va individuato
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proprio sulla base del significato assegnato alla croce nelle lettere immediatamente precedenti,
appunto quelle dove la croce è presentata come il luogo in cui Dio si lascia scacciare dal mondo.
Ma, se è così, Bonhoeffer sostiene in effetti che proprio questo lasciarsi scacciare contiene in sé la
benedizione. La croce è quell’evento in cui viene "rovesciato ogni essere umano", in cui il cor
curvum viene "convertito" nell’essere-per-altri. Questo evento conferisce senso all’esistere, è la
benedizione di Dio al mondo, in quanto è l’evento che conferisce al mondo quella struttura, quelle
leggi che "conservano" e "rinnovano" il mondo. Si tratta di leggi che portano inevitabilmente alla
croce coloro che imboccano il lungo itinerario verso la libertà ("Cristo, l’uomo-per-altri, perciò il
crocifisso"); ma esse sono quelle leggi che permettono la vita piena, "perfetta", nel contesto della
natura corrupta. Nel mondo decaduto, cioè nel mondo concreto della storia, l’uomo autenticamente
mondano è colui che non reprime le proprie passioni e sa trarre godimento dalla vita, ma che a
tempo debito dovrà però anche affrontare le sofferenze che nascono dall’esistere-per-altri; è l’uomo
la cui "profonda" mondanità è "piena di disciplina" ed è segnata (nel caso del cristiano) dalla
"conoscenza della morte e della resurrezione": costui è il benedetto, l’ánthropos téleios al quale Dio
riserva i beni del mondo e la pienezza dell’esistenza.
Le due linee (la linea sapienziale e la linea della croce, la centralità e l’impotenza di Dio nel mondo)
trovano a questo punto il loro momento di convergenza, e la morte, intesa come negazione della
vita, viene "inghiottita" dalla morte intesa come compimento di un’esistenza nella libertà "da se
stessi" per gli altri.
8. L’ultima tappa verso la libertà
Bonhoeffer è morto come un martire. Nei mesi immediatamente precedenti allo scoppio della
guerra egli si trovava negli Stati Uniti, e avrebbe potuto evitare di ritornare in patria, essendo già
chiara la sorte che lo attendeva. La decisione di ritornare fu la scelta consapevole di mettere a
repentaglio la propria vita, a motivo, ultimamente, della causa di Cristo. Ma questa disponibilità a
morire non è legata al disprezzo e nemmeno al distacco dalla vita. Nel 1942 egli scrive: "In questi
anni (gli anni della guerra) ci siamo abituati all’idea della morte, ma non per questo moriamo
volentieri; al contrario, gradiremmo poter vedere ancora qualcosa del senso di questa nostra
esistenza martoriata". Di conseguenza, gli sembrava inadeguato l’atteggiamento di chi affronta la
morte in modo eroico. Era animato dal desiderio di essere colto dalla morte "nel pieno della vita e
nella pienezza dell’impegno, non casualmente... o lontano dall’essenziale". Questo desiderio è stato
esaudito. C’è anche qui da mettere in evidenza il rapporto con la cristologia: la morte è sequela di
Cristo, e il regno di Cristo non è "un regno del cuore, ma un regno sopra la terra e su tutto
l’universo". È il regno di colui che è il "centro della vita". Precisamente per questo è un regno "per
il quale vale la pena di rischiare la vita", e per questo la morte è "l’ultima stazione" sulla via della
libertà:
Libertà, ti cercammo a lungo nella disciplina,
nell’azione, nel dolore.
Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio.
Sommario
Il pensiero e l’opera di Bonhoeffer hanno goduto di una fortuna alterna. Il fatto però che l’interesse
nei suoi confronti resista al mutare delle mode ne fanno ormai un classico del Novecento. Alla fine
degli anni Sessanta il dibattito si è concentrato sulla sua critica alla religione, spesso peraltro
interpretata in modo improprio. Ma sono numerosi i temi in cui egli ha lasciato un’eredità ancora
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viva: la questione della pace, l’ecumenismo, la questione ebraica, il recupero della tradizione
sapienziale da parte del cristianesimo.
Nota bibliografica
Gli scritti di Bonhoeffer sono ormai quasi completamente tradotti in italiano. La prima edizione di
Resistenza e resa risale al 1969; è stata riedita, in versione ampliata, nel 1988 (Cinisello Balsamo,
ed. Paoline). In Germania è in corso l’edizione completa (sigla: DBW), in 16 volumi: vengono
ripubblicati, in versione rivista e con un ampio apparato di note, anche gli scritti già apparsi in
precedenza. In italiano sono già usciti, presso la Queriniana di Brescia (nella collana "Opere di
Dietrich Bonhoeffer", sigla ODB): Sanctorum Communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia
della chiesa, 1994 (ODB 1); Atto ed essere. Filosofia trascendentale ed ontologia nella teologia
sistematica, 1993 (ODB 2); Creazione e caduta. Interpretazione teologica di Genesi 1-3, 1992
(ODB 3); Sequela, 1997 (ODB 4); Vita comune. Il libro di preghiera della Bibbia, 1991 (ODB 5);
Etica, 1995 (ODB 6). Sulla storia delle edizioni delle opere di Bonhoeffer, e sui criteri della collana
ODB si può vedere: A. Gallas, "Tutto questo è detto in modo molto acerbo e sommario...". Nota
intorno alla nuova edizione delle opere di Dietrich Bonhoeffer, "Hermeneutica" (1996), pp. 29-42.
Un’ampia e ben curata scelta degli scritti "minori" è stata pubblicata da M. C. Laurenzi, sempre per
la Queriniana, nel 1979, col titolo Gli Scritti (1928-1944).
Nella bibliografia secondaria resta fondamentale la grande biografia di Eberhard Bethge (Dietrich
Bonhoeffer. Teologo, cristiano, contemporaneo. Una biografia, Queriniana, Brescia 1975, 19952).
Importante (anche se per certi aspetti oggi superato) è il volume di Italo Mancini, Bonhoeffer,
Vallecchi, Firenze 1969, riedito dalla Morcelliana di Brescia nel 1995 con una postfazione di
Piergiorgio Grassi. Tra gli studi usciti negli anni Settanta (quando si cominciava appena ad uscire
dall’influenza della teologia "radicale") sono da ricordare: S. Sorrentino, La teologia della
secolarizzazione in D. Bonhoeffer, ed. Paoline, Alba 1974, e U. Perone, Storia e ontologia. Saggi
sulla teologia di Bonhoeffer, Studium, Roma 1976. Una nuova fase nella ricerca su Bonhoeffer si è
aperta con gli anni Novanta. Nel 1991 è uscito: L. Bagetto, Decisione ed effettività. La via
ermeneutica di D. Bonhoeffer, Marietti, Genova. Numerose opere sono uscite in occasione del 50°
anniversario della morte: A. Conci, D. Bonhoeffer. La responsabilità della pace, Dehoniane,
Bologna 1995; A. Gallas, Ánthropos téleios. L’itinerario di Dietrich Bonhoeffer nel conflitto tra
cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995; R. Wind, D. Bonhoeffer, Piemme, Casale
Monferrato 1995; inoltre, gli atti dei diversi convegni svoltisi in quella occasione: F. Ferrario (ed.),
Vorrei imparare a credere. Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), Claudiana, Torino 1996 (convegni di
Genova e Roma); Rileggere Bonhoeffer, "Hermeneutica" (1996), (convegno di Urbino); G. Ruggieri
(ed.), Dietrich Bonhoeffer. La fede concreta, Il Mulino, Bologna 1996 (convegno di Bologna); A.
Conci-S. Zucal (edd.), Dietrich Bonhoeffer. Dalla debolezza di Dio alla responsabilità dell’uomo,
Morcelliana, Brescia 1997 (convegno di Trento). Una "giornata bonhoefferiana" si è tenuta
all’Università Cattolica nel 1996; gli atti sono pubblicati in "Annali di Scienze religiose" 1 (1996)
(ed. Vita e Pensiero).
(in Credere Oggi n 102 nov/dic 1997)
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