Leggi il primo capitolo

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Il mio sole è nero
A Jordi, Susana e al “nostro” piccolo Jordi. Grazie
per essere sempre dall’altra parte della palizzata
pronti a saltarla ogni volta che è necessario.
A quegli amici che hanno gioito con me, che mi
hanno sopportato e hanno visto crescere giorno
dopo giorno i personaggi di questa storia fino a
vederli allontanare dalle mie mani, trasformati in
un punto finale.
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La grande virtù dell’arte della spada sta nella semplicità:
ferire il nemico nel momento esatto in cui ti ferisce.
movimento del jenjutsu
(La tecnica della sciabola)
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Prologo
Barcellona. Maggio 1981
Esiste un genere di persone che rifugge l’affetto e si rifugia nell’abbandono. María era una di queste. Perciò forse non voleva vedere nessuno,
perfino adesso, in quella stanza d’ospedale che era come il capolinea di
un tragitto.
Preferiva restare a guardare i lillà che le mandava Greta. I lillà erano i suoi fiori preferiti. Cercavano di sopravvivere nel vaso d’acqua con
l’eroismo di tutto ciò che è inutile. Ogni giorno i loro fragili petali appassivano, ma lo facevano con eleganza discreta, con il loro colore iridescente.
A María piaceva credere che anche la sua agonia fosse così: discreta,
elegante, silenziosa. Tuttavia lì c’era suo padre, seduto ai piedi del letto come un fantasma di pietra, un giorno dopo l’altro, senza dire né fare
niente se non osservarla, per ricordarle che non tutto sarebbe stato facile
come morire. E poi bastava che si schiudesse un po’ la porta per vedere
il poliziotto in divisa appostato nell’atrio che faceva la guardia alla stanza, per capire che tutto quel che era successo negli ultimi mesi non sarebbe stato cancellato, neppure quando i medici avessero scollegato la macchina che la teneva ancora in vita.
Quella mattina l’ispettore che seguiva il suo caso era venuto presto. Si
chiamava Marchán. Era un uomo gentile, date le circostanze, ma intransigente. Se gli dispiaceva per la sua condizione, non lo dava a vedere.
María era indagata dalla magistratura per diversi omicidi, mentre Marchán, che la credeva innocente, era però certo che avesse aiutato un detenuto a fuggire.
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«Il nostro amico si è già messo in contatto con lei?» le chiese con cortese freddezza. Marchán aveva con sé i quotidiani e li lasciò sul tavolino.
María chiuse gli occhi.
«Perché avrebbe dovuto farlo?»
Il poliziotto si appoggiò alla parete con le braccia incrociate sul petto.
Aveva la giacca sbottonata. Era pallido e appariva stanco.
«Perché è il minimo che possa fare per lei, considerando la situazione.»
«La mia situazione non cambierà, ispettore. E immagino che César la
veda nello stesso modo; sarebbe da sciocchi rischiare tutto per venire a
trovare una moribonda.»
Marchán inclinò la testa, osservando la figura ieratica dell’anziano seduto accanto alla finestra.
«Come sta oggi suo padre?»
María rivolse l’attenzione sull’uomo accanto alla finestra. La luce della strada illuminava in parte il suo viso invecchiato. Il labbro inferiore gli
pendeva inerte e un filo di bava gli era colato sulla camicia. María provò
un misto di rabbia e compassione. Perché continuava a restare accanto a
lei con i suoi muti rimproveri? Si strinse nelle spalle. Era difficile conoscere i sentimenti di una pietra.
«Non me lo ha detto. Se ne sta semplicemente lì a guardarmi. A volte
penso che continuerà così finché non gli si seccheranno gli occhi.»
Il poliziotto fece un sospiro profondo e osservò quella donna che una
volta era stata attraente, senza la testa rasata e senza tutti quei fili che la
collegavano a un monitor affollato di luci e grafici. Davanti a lei, Marchán
si sentiva come un minatore che scalpella una pietra con tutte le sue forze, ma come risultato ottiene solo di scheggiarla in miseri frammenti. «E
lei che mi dice? Mi racconterà quello che sa?»
«Naturalmente, ma non è facile. Ho bisogno di riordinare le idee.» María
Bengoechea aveva promesso all’ispettore di essere concisa, di attenersi ai
fatti e di evitare divagazioni, giri di parole e tutte quelle cose inutili che
affollano la cronaca nera dei giornali.
All’inizio aveva pensato che sarebbe stato semplice: aveva affrontato
la questione come se si trattasse di scrivere un promemoria; quella era la
sua specialità, la concisione, gli indizi chiari, i fatti provati; il resto non
le serviva. Tuttavia, era risultato più complicato del previsto. Stava parlando della sua vita, della sua stessa vita, perciò non riusciva a evitare di
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essere soggettiva e di mescolare fatti e impressioni, desideri e realtà; alla
fine, quella che doveva essere una relazione semplice e asettica si era trasformata in una seduta psicanalitica.
«Si prenda il suo tempo» disse il poliziotto, guardando il bloc-notes sul
tavolino, dove erano state appuntate solo poche righe. «Devo andare, ma
tornerò a trovarla.»
María, rimasta sola, riprese il bloc-notes, fece uno sforzo per ignorare la presenza spettrale di suo padre e cominciò a scrivere, facendo finta
di essere serena: si ritrovò a filosofare due o tre volte sul senso della vita
e sul mistero della morte. Nel rendersene conto, cancellò quei paragrafi,
arrossendo. Non si vergognava per il fatto che il poliziotto li leggesse; a
quel punto, non aveva più importanza; la turbava constatare che ciò che
scriveva fosse davvero dentro di lei.
“Sono proprio così? Erano questi i miei sentimenti fino a qualche settimana fa?”
Allora lasciò il mondo delle ipotesi e tornò al mondo concreto. Ai fatti.
Doveva costringersi a quella disciplina, se voleva finire in tempo il resoconto di quanto era successo nei mesi precedenti. L’avrebbero operata di
nuovo, ma dall’espressione dei medici aveva capito che, con quel tumore,
ormai la davano per spacciata. La sua malattia rappresentava in un certo qual modo un percorso inverso, un riavvolgimento rapido dalla maturità all’infanzia. Avrebbe finito i suoi giorni incapace non già di scrivere,
ma di pronunciare il suo stesso nome; avrebbe balbettato come un bimbo per farsi capire e avrebbe dormito con il pannolone per non bagnare il
materasso. Osservò il vecchio sulla sedia a rotelle e rabbrividì.
«Sembra che in conclusione finiremo per intenderci, papà» mormorò
con un cinismo che feriva soltanto lei. Si chiese se insieme a quell’inevitabile oblio sarebbe arrivata anche, e almeno, l’innocenza. Non immaginava niente di più terribile che ridursi come suo padre: finire nel corpo di
una bambina ma con la testa della donna che ancora era.
Si sorprese della facilità con la quale dimenticava tutto quello che le era
costato tanto imparare per raggiungere quel punto della vita che si definisce “donna adulta”: sensata, serena, sposata, responsabile e con figli.
María non era niente del genere, non lo era mai stata: non era mai arrivata a essere il tipo di donna che gli altri si aspettavano. La sua malattia non
aveva nulla a che fare con quella impossibilità, perché si trattava piutto11
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sto di qualcosa di congenito. Aveva trentacinque anni, era un avvocato di
successo, separata, senza figli, e aveva vissuto con un’altra donna, Greta,
ma anche lei aveva finito per lasciarla, esasperata dalla sua incapacità di
amare veramente qualcuno. Stava affrontando un processo, indagata per
l’uccisione di diverse persone, la cui sentenza non sarebbe mai stata pronunciata, poiché Dio, o chiunque fosse a disporre del destino, aveva già
stabilito la sua colpevolezza senza appello.
Fondamentalmente erano questi gli elementi biografici che potevano
interessare. Avrebbe potuto riempire intere pagine con i numeri della sua
tessera sanitaria, della patente di guida, della carta d’identità, del telefono, con data di nascita, titoli di studio, master e specializzazioni, vita professionale, perfino gusti, colori preferiti, numero fortunato, taglia di reggiseno, numero di scarpe; avrebbe potuto allegare una fototessera dalla
quale, a seconda dei gusti, si sarebbe potuto decidere se era bella o brutta, bionda tinta o naturale, troppo magra o troppo bassa… I più attenti, o
i più romantici, avrebbero detto che aveva un’aria malinconica, e dedotto da quell’unico dettaglio che la sua vita sentimentale era stata un disastro… Ma alla fine avrebbero continuato a non sapere nulla di lei.
Con l’aiuto del deambulatore andò in bagno. Accese la luce. Una luce
al neon che si accendeva con lunghi e incerti bagliori: un istante il contorno si illuminava e quello dopo si inabissava nell’oscurità. Quel chiarore
momentaneo le permise di vedere il profilo di un corpo nudo e un volto
affollato di ombre inquietanti.
Aveva paura dell’estranea che l’abitava. Si riconosceva a stento. Un corpo pallido, con muscoli flaccidi, gambe fragili, il seno solcato da vene che
convergevano verso i capezzoli cadenti. Non aveva quasi più peli sotto
le ascelle e sul pube. Il sesso smorto, inservibile. Le sue dita toccarono le
cosce come meduse che lambivano una pietra. Non le sentiva. E la faccia… Dio mio, che cosa era successo alla sua faccia? Gli zigomi risaltavano come colline appuntite che tiravano le guance. La pelle appariva screpolata come un campo brullo, pieno di crateri scuri e molli. Il naso era
affilato, aquilino, con le narici rinsecchite. E non restava neppure l’ombra
della sua bella chioma. Solamente un cranio rasato con quattordici punti
di sutura sulla parte destra. Ma la cosa peggiore erano gli occhi.
“Dove sono? Cosa guardano? Cosa vedono?” Borse bluastre, le palpebre cadute, privi di luce. Con una stanchezza infinita, un’assenza definiti12
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va. Gli occhi di chi è spacciato, di una moribonda, di un cadavere. Eppure nonostante tutto, al di là della decrepitezza e della malattia, era sempre
lei. Poteva ancora riconoscersi. Forzò un sorriso. Un sorriso che era quasi
un gemito, un gesto di impotenza, di ingenuità.
Sì, non era ancora morta e continuava a essere padrona di quel che restava di lei.
«Sono io. Ancora. María. Ho trentacinque anni» disse a voce alta, come se
volesse far paura all’ombra del fantasma che si affacciava dall’altra parte.
Pochi esseri umani reggono il proprio sguardo, perché di fronte allo specchio accade un fenomeno strano: guardi ciò che vedi, ma se scruti oltre la
superficie ti assale la scomoda sensazione che sia il riflesso a guardare te,
con insolenza. A domandarti chi sei. Come se fossi tu l’estraneo, e non lui.
Tornò a letto strascicando le pantofole. Il corpo le pesava, malgrado si
perdesse dentro il camice bianco dell’ospedale. Accese il televisore. Le
notizie la intontivano. Si succedevano come se nulla potesse fermare gli
eventi. Come se quegli stessi eventi fossero più importanti di coloro che
ne erano i protagonisti. La giornalista Pilar Urbano era collegata da quello stesso parlamento che i golpisti avevano assaltato a febbraio. Scorrevano le foto di Tejero, di Milans del Bosch, di Armada e degli altri congiurati: tutti arroganti, sicuri di sé.
Publio non era tra loro, non c’erano né la sua fotografia né il suo nome.
Tantomeno si accennava alla famiglia Mola.
Non ne era sorpresa; era consapevole di come funzionavano quelle
cose. César Alcalá l’aveva avvisata di non farsi illusioni: «Questa nostra
democrazia è come una bambina viziata che sa già dove nascondere la
sua merda anche se non ha ancora imparato a camminare»; però María
non poteva evitare una punta di amarezza nel constatare che tutta quella sofferenza, che tutte le morti avvenute nei mesi precedenti non erano
servite a niente.
Si rese conto che anche suo padre seguiva il notiziario. Non era sicura che capisse qualcosa, ma notò che gli brillavano gli occhi e che le sue
mani stringevano con forza i braccioli della sedia a rotelle.
«Ormai non vale la pena di preoccuparsi, non credi?» gli disse María.
Suo padre reclinò un po’ la testa e la guardò con occhi arrossati. Balbettò qualcosa che María non volle ascoltare.
Cambiò canale. Un attentato dell’Eta a Madrid. Un’auto in fiamme sul13
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la Castellana, fumo. Gente che gridava piena di odio e di impotenza. Le
vittime dell’olio di colza mostravano le loro deformità all’ingresso di un
tribunale; ricordavano le scene dei mendicanti poliomielitici davanti alle
chiese. Politici che agitavano il crocefisso contro la legge sul divorzio, altri che sventolavano la bandiera repubblicana. Il mondo girava in fretta,
la gente si proteggeva con stendardi e slogan. Spense il televisore e tutto
quel rumore scomparve.
Nella stanza color crema tornò la quiete. Il sacchetto della flebo, i passi
delle infermiere dietro la porta chiusa. Immaginò che il poliziotto di guardia fosse sempre lì, a dormicchiare annoiato su una sedia, domandandosi che senso avesse sorvegliare una moribonda.
Entrarono due infermiere per lavarla. María si mostrò gentile, e anche
se sapeva che era inutile, chiese una sigaretta.
«Fa male alla salute» le risposero. María sorrise e loro arrossirono davanti alla palese stupidità della frase.
Doveva essere il contrario. Doveva essere lei ad arrossire quando la lavavano con una spugna come se fosse un bambino. Ma non fece niente,
si lasciò rigirare come un pezzo di carne da una delle due, mentre l’altra prendeva la sedia del padre e lo spingeva fuori dalla stanza, cosa che
María apprezzò, sollevata. L’infermiera le lavò le ascelle, i piedi, le cambiò il sacchetto della flebo, e per tutto il tempo non fece che parlare dei
suoi figli, di suo marito e della sua vita. María la ascoltava con gli occhi
chiusi, desiderando che la smettesse.
Cambiarono le lenzuola. Non avevano odore. Questo era inquietante.
Nella stanza non c’erano odori. I medici dicevano che era a causa dell’operazione. Aveva interessato quella zona del cervello. Un mondo senza odori era un mondo irreale. Non profumavano neppure i lillà che le aveva
mandato Greta quella mattina. Li vedeva soltanto, al lato del letto. María
li guardava per ore. Sembravano freschi, con gocce di umidità sospese sullo stelo e sui petali. Si inclinavano verso la luce che entrava dalla finestra.
Forse volevano fuggire, uscire all’aperto. Come María. Come tutti quelli
che avevano agonizzato nello stesso letto prima di lei. Per questo c’erano
le grate. Per evitare tentazioni. Anche se nel suo caso non erano necessarie.
Per suicidarsi ci vuole coraggio. Quando la vita non è più una scelta, non
bisogna lasciare che il caso ti strappi via l’ultimo gesto degno che ti rimane. Questo l’aveva imparato dai Mola; ma María non avrebbe mai saltato.
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A volte veniva a trovarla il sacerdote dell’ospedale. Era una visita di
routine, uguale a quella che facevano di primo mattino i medici con le
loro cartelle e il seguito dei giovani studenti tirocinanti. Quel prete aveva
lo stesso atteggiamento. María immaginava che portasse sotto il braccio
una lista con i moribondi del giorno, o magari che segnasse con una piccola croce le stanze di quelli alle soglie del grande passo. Doveva pensare che in quel passaggio definitivo i pazienti fossero più deboli, più impressionabili e sensibili ai suoi argomenti su Dio e sul destino. Per il resto,
non era un uomo sgradevole. Persino a María piaceva ascoltarlo, in realtà
solo perché si chiedeva cosa avesse potuto indurre un uomo così giovane
a consegnare tutta la sua vita a un’illusione. Portava la sottana e il collarino. Una sottana severa, discreta, con i bottoni chiusi fino ai piedi. Quel
giovane sacerdote preconciliare non sembrava sentirsi colpevole di niente, meno che mai dell’imminente morte di María. Invece, quando lei confessò di non credere in Dio, la guardò con una pena sincera, con una comprensione della sua paura che commosse María.
«Non importa. Che tu ci creda o no, sei a un passo dalla Grazia, dall’immortalità accanto a Lui.»
María lo scrutò perplessa. Privo di dubbi, senza un accenno di cinismo
o di ipocrisia, il sacerdote le chiese di pentirsi dei propri peccati.
«Dicono che ho ucciso un uomo, padre. E che l’ho fatto con le mie mani.
Lei ci crede?»
«Conosco la storia, María, tutti la conoscono. Ogni cosa avrà il suo peso
sulla bilancia, e Dio è misericordioso.»
«Come fa a parlare così? Davvero crede che esista un Giudice Supremo che ci valuta dall’alto?»
«Sì, lo credo sinceramente. Questa è la mia fede.»
«E perché il suo giudice non si decide a scendere per dare una mano, invece di permettersi di stabilire ciò che è bene e ciò che è male dal suo trono?»
«Non siamo bambini ai quali si dice cosa debbano fare. Siamo esseri
liberi e, in quanto tali, affrontiamo le conseguenze delle nostre azioni.»
«Sinceramente, padre, credo che nessuno abbia dato il permesso a questo
suo Dio di chiedermi conto delle mie azioni.»
«Quello che credi tu, o quello che credo io, non cambia la certezza delle cose. Presto sarai nella Vita Eterna, e tutto acquisirà senso» rispose lentamente il sacerdote.
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María gli chiese perché un uomo desidera l’immortalità.
«Perché mangiare? Perché continuare a respirare? Perché continuare
a bere in questo bicchierino di carta? Perché continuo a prendere queste
capsule colorate? Perché non mi arrendo? Vorrei fermare tutto. Metterci un punto. L’immortalità, chi la vuole? Un ciclo continuo di nascita e
morte, la replica infinita della stessa agonia senza alcun motivo. La morte è qualcosa che accade a chi è vivo. È il prezzo che bisogna pagare. E
Dio non ha niente a che vedere con questo. Dio bisogna lasciarlo in pace.
La colpa è dei fluidi, della chimica che si rivolta contro il proprio corpo, della genetica, della fragilità umana. Non esistono dèi né eroi. Solo
miasmi. Basterebbe accettarlo, e tutto sarebbe molto facile per me. Ma
non ci riesco.»
«Non riesci a rassegnarti perché in te esiste qualcosa di divino, una parte di Dio. Pensa alla tua vita, fai un esame di coscienza, e vedrai che non
tutto è stato così male» le disse il sacerdote. Poi le diede un buffetto sulle
mani, come un arrivederci, e se ne andò, lasciando dietro di sé le sue parole e il suo aroma di chiesa antica.
Con il passare dei giorni lo stato di salute di María peggiorò. Trascorreva la maggior parte del tempo sedata, per sopportare i dolori, e quando
ogni tanto recuperava lucidità, desiderava solo chiudere gli occhi e continuare a dormire, anestetizzare i ricordi che si affastellavano nella sua
mente senza alcun ordine.
Fu in uno di questi stati, tra il sogno e la veglia, che ricevette, o credette di ricevere, una strana visita. Sentì una mano dalle dita fredde e sottili stringere la sua, tremante di febbre. Al tatto era rugosa e ruvida, attraversata da spesse vene che parevano volere uscire fuori dalla pelle. Una
voce lontana, calma e calda le chiedeva di svegliarsi. Quella voce s’infilò
nei suoi sogni e la costrinse ad aprire le palpebre.
Non c’era nessuno. Era sola nella stanza. Una corrente d’aria fredda entrava dalla finestra socchiusa. Pensò che era stato solo un sogno, un delirio provocato dalla febbre. Si girò di lato per riprendere sonno, ma in quel
momento vide, accanto al comodino, una piccola busta chiusa con il suo
nome. L’aprì con dita tremanti. Conteneva una breve lettera:
“Ricorda le parole del samurai. Non esiste onore né disonore nella spada, ma solo nella mano che la impugna. Va’ in pace, María.”
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Riconobbe immediatamente la grafia minuta e serrata. Era la grafia di
un fantasma.
Aprì il cassetto del comodino e prese una vecchia foto seppiata.
Era il ritratto di una donna quasi perfetta, tanto da sembrare irreale.
Magari era l’effetto della fotografia, l’attimo congelato. Sembrava un’attrice degli anni Quaranta. Il fumo usciva fluido dalla sua bocca, creando
volute bianche e grigie che le coprivano parzialmente gli occhi, dandole
un’aura di mistero. Teneva la sigaretta con delicata noncuranza, la mano
destra appoggiata alla guancia, tra l’indice e il medio, e il bocchino stretto tra due anelli. Fumava con piacere, ma senza voluttà, come se fosse
un’arte. Fumava consapevole del gesto. Il sorriso era strano. Come se le
sfuggisse dalle labbra, contro la sua volontà. Non sapeva dire, guardandola, se fosse un sorriso di tristezza o di allegria. In realtà, tutto in lei risultava evanescente, probabile ma incerto, come il fumo che la circondava.
Nell’osservare la foto, María si chiese che aria respirasse quella donna
misteriosa, la causa di tutto ciò che era accaduto; di cosa odorasse la sua
pelle, le gocce di profumo dietro le orecchie. Immaginò che fosse un aroma delicato, qualcosa che rimaneva sospeso nell’aria, come la scia della
sua presenza quando ormai non c’era più. Qualcosa di indeterminato, di
evocativo. Imponeva la legge del proprio desiderio, una blanda tirannia,
però definitiva; e al tempo stesso era prigioniera della sua bellezza, dei
suoi silenzi. Un cappello a tesa larga cercava di nascondere un ricciolo ribelle sulla fronte, mentre la foggia della giacca beige costringeva il suo
seno, generoso e turgido.
Senza fretta, María ridusse in piccoli pezzi quella foto dalla quale non
si era mai separata negli ultimi mesi. Andò davanti alla finestra aperta e
gettò i frammenti, che si dispersero nell’aria di quella mattina nebbiosa
del 1981.
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Capitolo 1
Mérida. 10 dicembre 1941
Faceva freddo e un manto di neve indurita copriva i binari del treno. Una
neve sporca, nera di fuliggine. Brandendo in aria la sua spada di legno,
un bambino contemplava ipnotizzato lo snodo delle rotaie.
I binari si dividevano in due. Uno dei tronchi portava verso ovest e
l’altro si dirigeva a est. Al centro dello scambio c’era una locomotiva ferma. Sembrava disorientata, incapace di prendere una delle strade che le
si aprivano davanti. Il macchinista sporse la testa dallo stretto finestrino.
Il suo sguardo incrociò quello del bambino, come se volesse chiedere a
lui che direzione prendere. Così immaginò il piccolo, che sollevò la spada e gli indicò i binari verso ovest. Non per qualche ragione. Solo perché
era una delle due opzioni possibili. Perché era lì.
Quando il capostazione alzò la bandiera verde, il macchinista lanciò dal
finestrino la sigaretta che stava fumando e scomparve nella locomotiva.
Un fischio stridente spaventò i corvi che si riposavano sui piloni della linea. La locomotiva si mise in marcia, sputando grumi di neve sporca dalle rotaie. Lentamente si diresse verso ovest.
Il bambino sorrise, convinto che fosse stato il suo segnale a decidere
la destinazione di quel viaggio. A dieci anni sapeva, senza possedere ancora le parole per spiegarlo, che era in grado di ottenere qualsiasi cosa si
proponesse.
«Andrés, andiamo.»
Era la voce di sua madre. Una voce morbida, piena di sfumature che si
potevano scoprire solo prestandovi attenzione. Si chiamava Isabel.
«Mamma, quando avrò una spada vera?»
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«Non hai bisogno di nessuna spada.»
«Un samurai ha bisogno di una katana vera, non di una mazza di legno» protestò offeso il bambino.
«Ciò che serve a un samurai è proteggersi dal freddo per non prendere
il raffreddore» replicò sua madre sistemandogli meglio la sciarpa.
In equilibrio su scarpe dai tacchi inverosimili, Isabel schivava gli sguardi e i corpi dei passeggeri sulla banchina. Si muoveva con la naturalezza di una funambola sul filo. Evitò una piccola pozzanghera nella quale
galleggiavano due cicche e riuscì con un saltello a non calpestare un piccione agonizzante che, cieco, si rigirava su se stesso.
Un ragazzo con un taglio di capelli da seminarista si scostò per fare posto a madre e figlio sulla panchina. Isabel si sedette accavallando le gambe
con naturalezza, senza sfilarsi i guanti di pelle, sottolineando ogni gesto
con la sottile sufficienza che ci si impone sentendosi osservati ed essendo abituati all’ammirazione.
In quella donna dalle gambe belle e lunghe, che sporgevano dalla gonna giusto all’altezza delle ginocchia, anche il gesto più volgare assumeva
la grazia di una danza perfetta e discreta. Piegando il fianco verso destra,
alzò appena il piede per pulire una goccia di fango che le aveva macchiato
la punta della scarpa.
Accanto a lei, premendosi contro il corpo della madre per riaffermarne il possesso, Andrés guardava con aria di sfida il resto dei passeggeri
che aspettavano il treno, pronto a infilzare con la sua spada il primo che
si fosse avvicinato.
«Stai attento con quell’aggeggio, ti farai male o lo farai a qualcun altro»
disse Isabel. Le sembrava stupido che Guillermo alimentasse quella strana
fantasia di suo figlio. Andrés non era come gli altri bambini della sua età,
per lui non esisteva differenza tra l’immaginazione e il mondo reale, ma
suo marito si divertiva a comprargli ogni genere di giocattoli pericolosi…
Gli aveva perfino promesso di regalargli una spada vera! Prima di uscire
di casa, aveva tentato di togliergli le sue figurine di guerrieri, ma Andrés
si era messo a urlare come un pazzo, così, per paura che svegliasse l’intera casa e che la loro fuga precipitosa venisse scoperta, aveva acconsentito
a fargliele portare. In ogni caso, non gli levava gli occhi di dosso. Appena
possibile se ne sarebbe disfatta, come aveva intenzione di fare con tutto
quello che aveva a che vedere con suo marito e con la sua vita precedente.
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In quella tarda mattinata del dopoguerra, attraverso i finestroni della
stazione penetrava un inverno diverso. Gli uomini camminavano a capo
chino, tesi, con lo sguardo perso nell’infinito per evitare di incrociarlo con
sconosciuti. La guerra era finita, ma si faceva fatica ad abituarsi al nuovo
silenzio e a coniugarlo con quel cielo senza aerei né sibili di bombe che cadevano come stelle filanti. Negli occhi delle persone era ancora annidato
il dubbio, scrutavano le nuvole, temendo di rivivere il terrore delle esplosioni, le corse per rifugiarsi in una cantina mentre la sirena dell’allarme
suonava emettendo brevi muggiti che facevano venire la pelle d’oca. Gli
uni e gli altri si adattavano lentamente alla sconfitta o alla vittoria, a non
accelerare il passo, a dormire di notte senza troppi soprassalti. A poco a
poco la polvere si depositava sulle strade, le macerie e i calcinacci venivano rimossi, eppure, nonostante non risuonasse più la sigla del bollettino di guerra della Radio Nacional, si era instaurata un’altra guerra sorda, fatta di sirene della polizia e di nuove paure.
In quella guerra successiva alla battaglia, Isabel aveva perso tutto.
Tra i passeggeri lungo i binari si diffondeva velocemente una macchia
oleosa che puzzava di pidocchi, di cicoria, di tessere di razionamento, di
bocche senza denti e di lerciume sotto le unghie, tingendo le loro vite di
colori grigi e spenti. Solo alcuni, pochi, si rilassavano sulle panchine del
binario, un po’ appartati, godendosi con gli occhi chiusi e l’espressione fiduciosa la pallida luce del sole che si riverberava sulla neve.
Andrés osservava con diffidenza. Non sentiva di far parte del mondo
dell’infanzia. Sentiva di essere sempre appartenuto al circolo degli adulti. E all’interno di quel circolo, a quello di sua madre, dalla quale non si
separava neppure nei sogni. Le strinse con forza la mano, senza capire perché si trovassero in quella stazione, ma intuendo che si trattava di
qualche motivo grave. Sua madre era nervosa. Lui avvertiva la sua paura
attraverso il guanto.
Sulla banchina fece irruzione un gruppo di giovani “camicie azzurre”.
Erano sbarbatelli e sfoggiavano con orgoglio ispirato al fondatore della
Falange, José Antonio Primo de Rivera, il loro simbolo, giogo e frecce sul
petto, intimidendo i presenti con i loro canti e i loro sguardi bellicosi, anche se la maggior parte non aveva né l’aspetto né l’età per aver combattuto in nessun campo di quella guerra che era ancora brace fumante per
troppe famiglie.
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Il ragazzo che aveva ceduto a Isabel un po’ di spazio sulla panchina si
immerse nella contemplazione dei propri piedi, stringendo fra le ginocchia la valigia di legno chiusa da una corda, evitando gli sguardi di sfida dei falangisti.
Il piccolo Andrés invece, affascinato dalle camicie azzurre e dai loro
stivali alti, saltò giù dalla panchina, salutando quelle uniformi così familiari. Non poteva captare l’atmosfera d’angoscia provocata dalla presenza di quei ragazzotti, né il tremito fra la gente che si avvicinava sempre
più ai binari. A casa sua, il bambino aveva visto da sempre uniformi come
quelle. Suo padre ne sfoggiava una, e anche suo fratello Fernando. Loro
erano i vincitori, diceva suo padre. Non c’era niente da temere. Niente.
E tuttavia quella gente sulla banchina si comportava come un gregge
di pecore sospinte verso il precipizio dai lupi che le circondavano. Alcuni
falangisti costrinsero i passeggeri a salutare con il braccio in alto e a cantare Cara al sol. Andrés ascoltava il ritornello dell’inno di Juan Tellería, e le
sue labbra, così abituate a quei discorsi, lo ripetevano inconsapevolmente. L’impulso era diventato riflesso:
Volverá a sonreír la primavera
que por cielo, tierra y mar se espera.
Arriba, escuadras a vencer
que en España empieza a amanecer…
Sua madre, invece, cantava Cara al sol senza l’entusiasmo di una volta.
Il suo desiderio di pace, come quello di tanti altri, era solo un’illusione.
In quel momento si sentì il fischio di una locomotiva e tutti si agitarono, sospinti da una corrente invisibile.
Il treno entrò in banchina, riducendo la velocità con il cigolio vaporoso dei freni e separando i due marciapiedi della stazione con il suo corpo
metallico. Ne sporgevano teste di ogni foggia, con berretti, con cappelli,
nude, e decine e decine di mani appoggiate ai finestrini. Quando il capostazione alzò la bandiera rossa e il controllore aprì il portello, i passeggeri si mescolarono con le loro carabattole, con le loro voci, mentre i padri
dirigevano la sistemazione negli stretti vagoni e le madri trascinavano i
figli per non perderli nel tumulto della folla. Per un attimo la quotidianità e la concitazione soppiantarono la falsa calma di prima, sostituendola
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con il sudore della necessità. Nel giro di cinque minuti si sentirono due
fischi, luce verde, e il treno tossì, si spinse in avanti prendendo l’abbrivio, sembrò lì lì per fermarsi, poi finalmente si mise in marcia, lasciandosi alle spalle i marciapiedi della stazione, nudi e silenziosi, avvolti in una
nube di fumo.
Isabel non salì su quel treno. Non era quello che stava aspettando.
Madre e figlio rimasero mano nella mano sul marciapiede deserto, con
il fiato che diventava condensa uscendo dalle labbra livide, nella luce
azzurrata del giorno che filtrava dalle nuvole bianche e compatte. Lo
sguardo di Isabel seguiva il vagone del treno, che si addentrava nel biancore fino a sparire.
«Signora, si sente bene?»
La voce maschile suonò molto vicina. Isabel sussultò. Per quanto l’uomo
si fosse allontanato di qualche centimetro dal suo viso, si sentiva l’alito cattivo dovuto a qualche carie o a una gengiva malata. Era il capostazione.
«Aspetto il treno delle quattro» rispose Isabel con una voce che sembrava volersi nascondere.
L’uomo alzò lo sguardo da sotto la visiera del berretto e consultò l’ora
sull’orologio ovale appeso al muro.
«Quello è il treno che va in Portogallo. Manca più di un’ora e mezza»
la informò con una certa perplessità.
Lei cominciò a temere la curiosità di quel tipo; non gli vedeva le mani,
ma ne immaginava le dita unte di grasso sotto le unghie.
«Sì, lo so, però mi piace stare qui.»
Il capostazione guardò Andrés senza espressione. Si chiese cosa facesse lì una donna con un bambino di dieci anni, in attesa di un treno che ci
avrebbe messo ancora tanto ad arrivare. Concluse che doveva essere una
delle tante matte disseppellite dalla guerra. Doveva avere una sua storia,
come tutti, ma non gli interessava ascoltarla. Per quanto fosse sempre facile consolare una donna dalle gambe così belle.
«Se desidera un caffè» disse, questa volta ronfando come un grosso gatto, «lì, nel mio ufficio, posso offrirle un buon torrefatto, niente a che vedere con la cicoria che servono al bar.»
Isabel declinò l’invito. Il capostazione si allontanò, ma lei ebbe la sensazione che si voltasse un paio di volte a esaminarla. Fingendo una tranquillità che era ben lungi dal provare, raccolse la sua piccola borsa da viaggio.
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«Andiamo dentro. Prenderai freddo» disse al figlio.
Nella stazione almeno non facevano male i polmoni quando si respirava. Cercarono un posto dove sedersi. Lei posò il cappello sulla panca e
si accese una sigaretta inglese, la infilò nel bocchino e aspirò il fumo dolciastro. Suo figlio si estasiava vedendola fumare. Non avrebbe visto mai
nessun’altra donna farlo con quella eleganza.
Isabel aprì la valigetta e prese uno dei suoi taccuini con la copertina lucida. Dalle pagine cadde il foglio sul quale il professor Marcelo le aveva
annotato l’indirizzo della casa di Lisbona.
Non pensava di nascondersi lì per troppo tempo, giusto il necessario per
trovare un passaggio su qualche bastimento che portasse lei e Andrés in Inghilterra. Le dispiaceva per il povero professore. Sapeva che se Guillermo
o Publio avessero scoperto che Marcelo l’aveva aiutata a fuggire, se la sarebbe vista brutta. In un certo senso si sentiva colpevole: non gli aveva
detto tutta la verità, soltanto il necessario per convincerlo, obbiettivo, d’altra parte, raggiunto con facilità. La menzogna in quel momento era una
scorciatoia necessaria. Sapeva da sempre che Marcelo era innamorato di
lei, e non era stato complicato girare le cose a suo favore, anche quando
aveva messo in chiaro con il professore che i suoi sentimenti non andavano oltre una sincera amicizia.
«Sempre meglio avere la tua amicizia che non avere niente» le aveva detto lui, con quell’aria da poeta povero che hanno i professori di provincia.
Isabel rimise via l’indirizzo e incominciò a scrivere. Ma era nervosa.
Incalzata dal tempo, irritata con il suo istinto che veniva a mancarle nel
momento in cui ne aveva più bisogno, lo faceva senza la consapevolezza
estetica né la passione abituale, guidando le parole sul foglio con l’indice,
scuotendo via la cenere della sigaretta che era caduta tra le pagine. Avrebbe
dovuto scrivere a Fernando la sera prima, ma temeva la reazione del suo
figlio maggiore; in certe cose era come il padre. Sapeva che non avrebbe
capito perché stava scappando, e temendo che cercasse di impedirglielo,
aveva deciso di scrivergli quando fosse stata già abbastanza lontana:
Caro figlio, caro Fernando,
quando ti arriverà questa lettera, dovrei già essere molto lontana con
tuo fratello. Per una madre non esiste pena più grande che lasciarsi alle
spalle chi ha partorito con dolore e felicità; capirai quanto mi senta tri24
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ste, e questa tristezza aumenta quando penso che sto separando Andrés
da te nel momento in cui ne ha più bisogno; tu sai quanto me che è un
bambino speciale, che ha bisogno del nostro aiuto, e che ti ammira e ti
ascolta. Solo tu sei capace di calmare i suoi attacchi di rabbia e di obbligarlo a prendere le sue pastiglie. Ma dal momento che, dopo quello che
è successo, non posso continuare a rimanere in questa casa, la casa di
tuo padre, devo fuggire.
So che ora mi odi. Sentirai cose orribili su di me. Sono tutte vere, non
posso mentirti. Può darsi che ora tu non capisca perché l’ho fatto, e può
darsi che non lo capirai mai. A meno che un giorno non ti innamori perdutamente e che questo amore non ti tradisca. Mi chiamerai cinica se ti
dico che quando sposai tuo padre, diciannove anni fa, l’età che hai tu
adesso, lo amavo tanto quanto amo voi. Sì, Fernando, lo amavo con la
stessa intensità con la quale più tardi sono arrivata a odiarlo e ad amare un’altra persona. Questo odio mi ha accecata a tal punto che non mi
sono resa conto di quanto accadeva intorno a me.
Non scappo per amore, figlio mio. Questo sentimento è morto per
sempre nel mio cuore. Se continuo a vivere è perché Andrés ha bisogno
di me. Non voglio giustificarmi, la mia stupidità non può essere perdonata. Vi ho messi tutti in pericolo, e molta gente soffrirà per la mia ingenuità; per questo non posso lasciare che tuo padre o il suo segugio
Publio mi catturino. Tu sei ormai un uomo, puoi prendere le tue decisioni e seguire la tua strada. Non hai più bisogno di me. Spero solo che
un giorno, quando sarà trascorso del tempo, potrai perdonarmi e capire che per amore si possono commettere anche le peggiori atrocità. Un
giorno, se avrai forza sufficiente, scoprirai la verità.
Tua madre, che ti amerà sempre, qualunque cosa accada,
Isabel
Qualcuno la osservava. Non era il capostazione. Ascoltò i passi che si
avvicinavano. Passi dal ritmo regolare. Pesanti. Isabel sollevò la testa. Davanti a lei si era fermato, a gambe larghe, un uomo corpulento.
«Ciao, Isabel.» La voce era discontinua. Una voce che calava di tono
per poi rinascere.
Isabel alzò lo sguardo. Che si posò con una pena infinita su quel viso
così noto, su quegli occhi una volta pieni di promesse che ora la scruta25
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vano insondabili. Suo malgrado, sentì ancora dentro di sé l’eco dei fremiti provati nell’intimità. Per una decina di secondi rimase ipnotizzata da
quelle grosse mani abituate al lavoro duro che l’avevano sollevata fino al
cielo per poi farla ricadere all’inferno.
«Così, sarai tu, dopo tutto.»
Evidentemente il capostazione l’aveva denunciata. Non poteva rimproverarlo. In quei tempi di patriottismo imbevuto di paura, tutti facevano a
gara per apparire fedeli servitori del nuovo regime.
Percepì l’esitazione dell’uomo e il suo sorriso da Mefistofele, l’amaro,
oscuro e tuttavia attraente principe del nulla.
«Meglio io che Publio o uno degli sgherri di tuo marito.»
Isabel fece una smorfia. Provava così tanta tristezza che a malapena
riusciva a trattenere le lacrime.
«E chi sei tu, se non il peggiore dei suoi sgherri? Uno sgherro traditore.»
«La mia lealtà è trasparente, Isabel. Non sto né con te né con tuo marito. Sto con lo Stato.»
Isabel si portò una mano al petto. Era terribilmente doloroso sentir parlare in quel modo l’uomo con cui aveva trascorso ogni notte per quasi
un anno, l’uomo al quale aveva dato tutto, assolutamente tutto, compresa la propria vita, perché solo così concepiva l’amore. E ora lui la barattava con una parola, con qualcosa di tanto astratto quanto inutile: lo Stato.
Ricordava le notti insieme a lui, quando le loro mani si cercavano
nell’oscurità e le loro bocche s’incontravano come fanno l’acqua e la sete.
Quelle notti rubate al sonno, fugaci e impregnate della paura di essere scoperta, erano state le più intense, le più felici della sua vita. Tutto era possibile, niente era proibito tra le braccia di quell’uomo che le aveva promesso
un mondo migliore. Ma ormai non poteva rimpiangere il proprio errore.
Altri prima di lei avevano sofferto il disamore, e molti altri avrebbero visto distrutte le proprie illusioni. Quello che succedeva a lei era già accaduto prima e sarebbe accaduto sempre. Ma il tradimento era così grande,
così spaventosa la devastazione che aveva sofferto il suo cuore, che non
riusciva ad accettarlo.
«Per tutto questo tempo mi hai usata per conquistare attraverso di me
la fiducia degli altri. Avevi pianificato tutto. Sapevi che ero la più accessibile e ti sei servito di me senza rimorsi.»
L’uomo guardò Isabel con freddezza.
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