Volume 40 - Società Italiana di Pediatria

Transcript

Volume 40 - Società Italiana di Pediatria
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 1-45
editoriale
Malattie rare e farmaci non orfani
Infettivologia (a cura di P.-A. Tovo)
Malattie infettive emergenti in età pediatrica: uno scenario in continua evoluzione
Volume 40
157-158
Gennaio-Giugno 2010
Ricadute pratiche della resistenza agli antibiotici dei più comuni patogeni respiratori
Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatrica
Ematologia (a cura di R. Galanello)
Recenti progressi in ematologia pediatrica
Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti
Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie di ferro chelazione nella talassemia major
Frontiere (a cura di A. Cao, L.D. Notarangelo, A. Iolascon)
Il ritardo mentale associato al cromosoma X
Pacini
Editore
Medicina
Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA
Aut. Trib. di Milano n. 130 del 17/03/1971 - Stampa a tariffa ridotta - tassa pagata - Aut. Dirpostel Pisa n. 1/36131/4/1 del 10/09/1993 - Taxe perçue - Italia
Direttore
Pierpaolo Mastroiacovo, Roma
Componenti Comitato Direttivo
Generoso Andria, Napoli
Andrea Biondi, Monza
Antonio Cao, Cagliari
Giovanni Cioni, Pisa
Alberto Martini, Genova
Luigi Daniele Notarangelo, Boston
Luca Ramenghi, Milano
Fabio Sereni, Milano
Riccardo Troncone, Napoli
Redattore Capo
Marina Macchiaiolo, Roma
Comitato di Redazione
Salvatore Auricchio, Napoli
Stelvio Becchetti, Genova
Sergio Bernasconi, Parma
Andrea Biondi, Monza
Alessandro Calisti, Roma
Mauro Calvani, Roma
Antonio Correra, Napoli
Maurizio de Martino, Firenze
Pasquale Di Pietro, Genova
Alberto Edefonti, Milano
Renzo Galanello, Cagliari
Carlo Gelmetti, Milano
Achille Iolascon, Napoli
Riccardo Longhi, Como
Giuseppe Maggiore, Pisa
Paola Marchisio, Milano
Bruno Marino, Roma
Eugenio Mercuri, Roma
Paolo Paolucci, Modena
Franca Rusconi, Firenze
Redazione e Amministrazione
Pacini Editore S.p.A.
Via Gherardesca, 1
56121 Pisa
Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300
[email protected]
Volume 40
157-158
Gennaio-Giugno 2010
Stampa
Industrie Grafiche Pacini, Pisa
Invio gratuito per i Soci SIP.
Abbonamenti
Prospettive in Pediatria è una rivista trimestrale. I prezzi
dell’abbonamento annuo sono i seguenti:
Italia € 54,00; estero € 68,00; istituzionale € 54,00; specializzandi € 30,00; fascicolo singolo € 28,00
Le richieste di abbonamento vanno indirizzate a: Prospettive in Pediatria, Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1,
56121 Pisa – Tel. 050 313011 – Fax 050 3130300 – Email: [email protected]
I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196
a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la
spedizione della presente pubblicazione. Ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile
consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro
utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore
S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa.
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere
effettuate nei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico
dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art.
68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.
Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso
da quello personale possono essere effettuate a seguito di
specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta
Romana n. 108, Milano 20122, E-mail: [email protected]
e sito web: www.aidro.org.
© Copyright by Pacini Editore S.p.A.
Direttore Responsabile: Patrizia Alma Pacini
Finito di stampare nel mese di dicembre 2010 presso le
Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A., Pisa.
Pacini
Editore
Medicina
INDICE numero 157-158 Gennaio-Giugno 2010
editoriale
Malattie rare e farmaci non orfani
Alberto G. Ugazio....................................................................................................................................................................................... 1
Infettivologia (a cura di Pier-Angelo Tovo)
Malattie infettive emergenti in età pediatrica: uno scenario in continua evoluzione
Stefania Bezzio, Chiara Bertaina, Pier-Angelo Tovo................................................................................................................................... 3
Ricadute pratiche della resistenza agli antibiotici dei più comuni patogeni respiratori
Nicola Principi, Susanna Esposito........................................................................................................................................................... 10
Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatrica
Marta Cellai Rustici, Luisa Galli, Elena Chiappini, Maurizio de Martino................................................................................................... 15
Ematologia (a cura di Renzo Galanello)
Recenti progressi in ematologia pediatrica
Paolo Moi, Simona Campus .................................................................................................................................................................... 21
Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti
Marina Lanciotti, Michaela Calvillo, Sonia Bonanomi, Tiziana Coliva, Fabio Tucci, Piero Farruggia, Marta Pillon, Baldo Martire,
Roberta Ghilardi, Ugo Ramenghi, Daniela Renga, Giuseppe Menna, Angelica Barone, Giovanni Palazzi, Gabriella Casazza,
Francesca Fioredda, Carlo Dufour........................................................................................................................................................... 28
Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie di ferro chelazione nella talassemia major
Raffaella Origa, Renzo Galanello ............................................................................................................................................................ 35
Frontiere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon)
Il ritardo mentale associato al cromosoma X
Patrizia D’Adamo, Daniela Toniolo.......................................................................................................................................................... 41
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 1-2
editoriale
Malattie rare e farmaci non orfani
Nel 1997 si verificò una grave carenza di immunoglobuline umane per via endovenosa (IVIG). Colpì soprattutto il mercato statunitense
ma finì col coinvolgere anche i Paesi europei e, in misura dal più al meno rilevante, tutti i continenti.
Le immunoglobuline umane erano state introdotte in terapia nel 1952 da Ogden Bruton che aveva descritto quell’anno il primo deficit
primitivo dell’immunità, l’agammaglobulinemia di Bruton o XLA (X-Linked Agammaglobulinemia). Bruton non si limitò a osservare che
questi pazienti non sono in grado di produrre gammaglobuline; riuscì anche a sostituirle iniettando un emoderivato che qualche anno
prima, nel 1946, Edwin Cohn aveva ottenuto mettendo a punto il frazionamento alcolico del plasma: la frazione IIa, ricca appunto di gammaglobuline. Il trattamento con immunoglobuline umane rimane a tutt’oggi l’unico in grado di garantire la sopravvivenza dei soggetti
affetti da agammaglobulinemie congenite, un gruppo di malattie rare che comprende, oltre alla XLA, altre malattie genetiche accomunate
dalla incapacità del sistema immunitario di produrre anticorpi.
Perché si verificò la crisi del 1997? Anzitutto era andata gradualmente aumentando la domanda di IVIG. Era diventato evidente che molti
pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali ematopoietiche o a terapie immunosoppressive avevano bassi livelli di immunoglobuline sieriche e che li si poteva proteggere con la somministrazione di IVIG. Non solo. Nel 1981, Imbach aveva dimostrato che nei pazienti
con porpora trombocitopenica idiopatica (PTI), la somministrazione di alte dosi di IVIG portava ad una rapida normalizzazione del numero
di piastrine circolanti. Ma al contempo si era verificata l’epidemia di HIV, si era manifestata la pericolosità dell’HCV e della variante
umana della malattia di Creutzfeld Jakob, tutte trasmissibili con il sangue e gli emoderivati. Le autorità regolatorie statunitensi reagirono
imponendo una serie di misure precauzionali per la produzione e il controllo degli emoderivati che fecero salire notevolmente i costi di
produzione. Molti produttori chiusero gli impianti e la crisi divenne inevitabile. Si risolse nel giro di qualche anno grazie alla evoluzione
tecnologica dei metodi di produzione che passarono dal classico frazionamento di Cohn al frazionamento cromatografico facendo salire
la resa da 3-3,5 g a 4-4,5 g di immunoglobuline per litro di plasma; un aumento di produttività superiore al 25% che permise di ridurre
i costi di produzione e di far fronte alla crescita della domanda.
Perché occuparsi oggi di questa vicenda ormai vecchia e apparentemente superata? Perché nel corso di questi ultimi anni la domanda ha
continuato a crescere. Sono aumentate le indicazioni ed è cresciuto di conseguenza anche il timore che si finisca col non disporre delle
immunoglobuline indispensabili per la sopravvivenza dei bambini agammaglobulinemici. Cresce la domanda perché le IVIG si stanno
dimostrando efficaci nel trattamento di un numero crescente di malattie infiammatorie – basti per tutti l’esempio della Malattia di Kawasaki – e soprattutto nel trattamento di un gran numero di malattie neurologiche. Efficaci lo sono senz’altro nella terapia della Sindrome di
Guillain-Barré e di altre polineuropatie e neuropatie motorie. Ma a suscitare le migliori speranze – e simmetriche preoccupazioni – sono i
risultati ancora limitati e contraddittori ma certamente promettenti del loro impiego nel trattamento della Sclerosi Multipla e del morbo di
Alzheimer. Mentre per la Sclerosi Multipla i risultati degli studi più recenti sembrano ridimensionare le aspettative iniziali, per l’Alzheimer
vanno accumulandosi risultati molto promettenti. Nel 2011 si concluderà uno studio di fase III che dovrebbe fornirci prove di efficacia
conclusive o quanto meno molto significative.
Se questi studi dovessero provare l’efficacia delle IVIG nel trattamento dell’Alzheimer, la domanda andrebbe incontro a una impennata
senza precedenti e ci troveremmo di nuovo a fare i conti con un grave problema di scarsità. È bene che lo si affronti fin d’ora anche perché
il precedente del 1997 non è per nulla tranquillizzante: di fatto, le autorità sanitarie trascurarono il problema e la scarsità di immunoglobuline mise a repentaglio la vita di molti bambini – per giunta con documentate iniquità sociali – mentre proseguiva sostanzialmente
inalterato un impiego anche inappropriato delle IVIG. Da tempo sono state prodotte numerose linee guida sul corretto uso delle IVIG, ad
esempio nella PTI, ma è ben noto che vengono troppo spesso disattese e che il ricorso improprio a questo farmaco è molto diffuso. In
vista di una possibile crisi, le autorità sanitarie debbono predisporre fin d’ora un piano di allocazione delle risorse basato sulle evidenze
1
EDITORIALE
disponibili e su principi di equità. È necessario al contempo (non soltanto per le IVIG!) che a tutti i livelli della rete assistenziale vengano
resi operanti gli strumenti informatici necessari per favorire e verificare l’applicazione delle linee guida. Purtroppo il livello di informatizzazione della nostra rete sanitaria è in grave ritardo rispetto all’evoluzione sociale e tecnologica della “information society”. Lo è anche
rispetto a quello degli altri Paesi industrializzati.
La mia convinzione è che troppo tempo e troppe risorse vengano dedicati alla stesura di nuove linee guida, spesso inutilmente ripetitive.
Sarebbe meglio preoccuparsi della loro applicazione.
2
Alberto G. Ugazio
Presidente della Società Italiana di Pediatria
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 3-9
infettivologia
Malattie infettive emergenti in età pediatrica:
uno scenario in continua evoluzione
Stefania Bezzio, Chiara Bertaina, Pier-Angelo Tovo
Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza, Università di Torino
Riassunto
Le malattie infettive emergenti hanno un peso rilevante nell’ambito della sanità pubblica. Vengono qui analizzate alcune forme il cui scenario, in ambito
pediatrico, è sensibilmente mutato in anni recenti in italia. Mentre il numero di gravide HIV+ non si è sostanzialmente ridotto, il rischio di trasmissione
madre-bambino del virus è andato progressivamente diminuendo dalla seconda metà degli anni ‘90 in seguito all’utilizzo di una serie di misure preventive. Inoltre, grazie all’impiego precoce delle nuove terapie antiretrovirali la progressione della malattia si è sensibilmente attenuata. Nello stesso arco di
tempo, anche l’incidenza dell’infezione perinatale da virus dell’epatite C è diminuita, ma per il minor numero di gravide infette, mentre non sono disponibili
interventi preventivi. La tubercolosi ritorna in primo piano, soprattutto per i crescenti flussi migratori da paesi endemici; per quanto riguarda il suo trattamento, aumentano i ceppi di micobatteri resistenti ai farmaci tradizionali. In espansione nel nostro paese la sifilide, anche con casi di forme congenite.
È quindi necessario mantenere (o riattivare) lo screening universale delle gravide per sifilide. I casi di Chikungunya osservati in Italia sono un esempio di
globalizzazione di agenti infettivi e loro vettori. Aumenta il numero di bambini immunodepressi (sottoposti a trapianti d’organo o di cellule staminali o trattati
con chemioterapia o con anticorpi monoclonali o farmaci biologici); con conseguente incremento delle problematiche infettive connesse; la loro gestione
richiede una stretta collaborazione fra specialisti e pediatri di libera scelta.
Summary
Emerging infectious diseases (EIDs) represent a significant burden on global public health. Here we will consider a few EIDs whose scenario in infants and
children has changed substantially in recent years in Italy. The number of HIV+ parturients has not significantly changed over time. However, the motherto-child HIV transmission rate has fallen dramatically in the last 15 years, thanks to a variety of effective preventive measures; furthermore, HIV disease
progression in children has progressively decreased after the introduction of early highly active antiretroviral therapy. The incidence of perinatal HCV infection has also been decreasing, due to the lower number of infected pregnant women rather than to preventive interventions which are not available as
yet. Tuberculosis has become a relevant problem in our country, following immigration flows from endemic areas and because of the increasing number
of multi-drug-resistant strains. Syphilis cases have markedly increased in the new millenium, making universal screening in pregnant women, to avoid
congenital syphilis, necessary. Epidemics of Chikungunya in a few Italian regions is an example of globalisation of infectious agents and their vectors. The
number of children who undergo organ or stem cell transplantation or are treated with chemotherapy or immunosuppressive drugs, such as monoclonal
antibody or biological drugs, has increased. This has led to a rise in the number of severe or unusual infectious diseases that need a close collaboration
between specialists and family paediatricians.
Introduzione
Con il termine malattie infettive emergenti (emerging infectious diseases – EID) si definiscono non solo patologie infettive di recente
identificazione, ma anche quelle sostenute da agenti invasivi noti
che hanno mutato le loro caratteristiche usuali. Il quadro delle EID è
articolato e complesso; oltre a nuovi microorganismi (ad es. febbre
Lassa, Ebola, HIV, SARS) comprende anche germi rinvenuti in aree
geografiche diverse da quelle originarie o di provenienza animale,
ma che hanno nell’uomo un nuovo ospite. Altri ancora sono diventati
resistenti ad antibiotici ai quali erano tradizionalmente sensibili (ad
es. Tubercolosi, Stafilococchi, Streptococchi). Rientrano anche malattie con incidenza in marcato incremento per alterazione di fattori
ambientali o comportamentali, nonché patogeni che hanno sviluppato una diversa virulenza.
Le EID hanno un peso rilevante nell’ambito nella sanità pubblica.
La loro frequenza è aumentata nella seconda metà del XX secolo,
raggiungendo il picco negli anni ‘80, verosimilmente a seguito della
diffusione dell’HIV. A partire dalla seconda guerra mondiale il 60%
delle EID descritte (> 300) sono zoonosi, più di un terzo delle quali
è dovuto a patogeni presenti nell’ambiente rurale; rispetto a precedenti valutazioni, che ritenevano i virus i maggiori responsabili, in
oltre la metà degli eventi gli agenti etiologici sono risultati batteri o
rickettsie (Jones et al., 2008). Oltre alle mutazioni e ricombinazioni dei microorganismi, altri fattori hanno sensibilmente influenzato
l’evoluzione delle EID; fra questi rientrano la globalizzazione e la crescita demografica, l’urbanizzazione e lo sfruttamento del territorio.
I cambiamenti ambientali, quali le variazioni nella piovosità, temperatura ed umidità, che hanno determinato ad es. la tropicalizzazione
del clima alle latitudini intermedie, hanno ampliato l’habitat di alcuni
patogeni.
Obiettivo della ricerca
Essendo dispersivo e di scarso interesse analizzare tutte le malattie
infettive emergenti o ri-emergenti, prenderemo qui in considerazione solo alcune di quelle con maggiori implicazioni in ambito pediatrico, soprattutto quelle che hanno recentemente mostrato variazioni
significative nel nostro paese.
Metodologia della ricerca
La ricerca degli articoli rilevanti sulle EID in età pediatrica è stata
effettuata utilizzando diversi motori di ricerca:
3
S. Bezzio et al.
• PubMed: parole chiave “emerging infection disease and children”. Sono stati utilizzati i seguenti filtri “all child” e “publication from 1/01/2005 to present”.
• Per le linee guida sull’HIV è stato utilizzato il sito internet www.
aidsinfo.nih.gov.
• Per le linee guida sulla TBC è stato utilizzato il sito internet www.
who.int/en/.
• Per i dati epidemiologici italiani è stato utilizzato il sito internet
www.ministerosalute.it.
Infezione perinatale da hIV
A circa 30 anni dalla scoperta dell’AIDS, il rischio di contrarre l’infezione da HIV è ancora elevato in tutto il mondo. Ciò è dovuto al fatto
che l’attenzione al problema si è ridotta ovunque, mentre cresce
drammaticamente il numero di contagi da persone infette non diagnosticate. A fronte dell’incremento di nuove infezioni, si registra
una costante diminuzione dei casi di AIDS. Il miglior controllo della
progressione della malattia è dovuto alla disponibilità delle nuove terapie antiretrovirali combinate, che hanno trasformato la malattia in
una forma ad andamento cronico, cosa valida anche in età evolutiva
(Chiappini et al., 2009). In Italia, il quadro delle persone a rischio di
infezione si è sensibilmente modificato nel corso degli anni: inizialmente erano i tossicodipendenti la maggior categoria a rischio, oggi
questi rappresentano poco più di un quarto dei sieropositivi, mentre
la trasmissione avviene principalmente per via sessuale, sia etero
(44%) che omo/bisessuale (22%) (www.ministerosalute.it).
Il numero totale di bambini segnalati al Registro Italiano per l’infezione da HIV in età pediatrica dal 1984 al 2008 è stato di 9186; di
questi, 8939 (97,3%) sono nati da madre sieropositiva e fra di loro
1.481 sono risultati infetti. Da notare che, mentre il numero di partorienti sieropositive si è mantenuto costante o è aumentato in anni
recenti, i bambini con infezione perinatale sono nettamente diminuiti
a partire dal 1994. Ciò è dovuto soprattutto all’implementazione di
misure preventive in grado di bloccare la trasmissione verticale del
virus. Il tasso di trasmissione dell’HIV da madre a figlio si è infatti
progressivamente ridotto: dal 16,7% negli anni antecedenti il 1994
a meno del 2% negli ultimi anni. Questo fenomeno va attribuito ad
una serie di misure preventive quali:
1. Il trattamento antiretrovirale durante la gravidanza. Viene oggi
consigliato un regime con almeno tre farmaci, indipendentemente dalla carica virale e dal numero di linfociti CD4+. Le donne in
terapia prima della gravidanza devono continuarla. La profilassi
con solo zidovudina (ZDV) è controversa, ma può essere presa
in considerazione quando la viremia materna è inferiore a 1,000
copie/mL.
2. Il trattamento antiretrovirale al parto. è indicata l’infusione di
ZDV endovena (2 mg/kg nella prima ora indi 1 mg/kg/ora sino
al termine del parto) in tutte le donne, incluse quelle in terapia
antiretrovirale con tre farmaci.
3. Il taglio cesareo elettivo. La procedura è raccomandata alla
38esima settimana a tutte le gravide con viremia >1000 copie/ml (Perinatal HIV Guidelines Working Group, 2009), mentre è
dubbio il beneficio qualora la viremia materna sia indosabile al
parto.
4. Il trattamento antiretrovirale del neonato. È indicata una profilassi di 6 settimane con ZDV per os iniziata appena possibile dopo
la nascita (Tab. I). In alcune situazioni (donne viremiche al parto
oppure che hanno assunto terapia antiretrovirale solo durante il
parto o in caso di resistenze virali non note) alcuni suggeriscono
una profilassi con tre farmaci nel neonato (Working Group of
Antiretroviral Therapy and Medical Management of HIV-infected
children, 2009).
5. L’allattamento artificiale. La trasmissione post-natale del virus
attraverso il latte materno è responsabile, in caso di allattamento
prolungato, del 9-15% delle infezioni materno-infantili (Jackson
et al., 2009). Nei paesi dove i latti formulati sono sicuri e facilmente reperibili e dove non vi è rischio di utilizzo di acqua non
Tabella I.
Profilassi con Zidovudina in bambini nati da madre HIV positiva.
Età gestazionale
mg/kg/dose per os
mg/kg/dose e.v.
Frequenza
Settimane
≥ 35 settimane
2
1.5
Ogni 6 ore
6
30 > settimane < 35
2
1.5
Ogni 12 ore per le prime 2 settimane indi ogni 8 ore
6
< 30 settimane
2
1,5
Ogni 12 ore per 4 settimane indi ogni 8 ore
6
Tabella II.
Criteri da valutare per l’inizio della terapia antiretrovirale in età pediatrica.
Età
<12 mesi
Criteri
Indipendentemente dai sintomi clinici, dai parametri immunologici o della carica virale
1-5 anni
AIDS conclamato o sintomi moderati o gravi HIV correlati*
> 5 anni
Trattare
Asintomatico o sintomi lievi* e CD4 > 25% e HIV RNA> 100.000 copie/ml
Considerare il trattamento
Asintomatico o sintomi lievi* e CD4 > 25% e HIV RNA< 100.000 copie/ml
Non trattare**
AIDS conclamato o sintomi moderati o gravi HIV correlati*
Trattare
CD4 < 350 cellule/mm
Trattare
Asintomatico o sintomi lievi* e CD4 > 350 cellule/mm3 e HIV RNA> 100.000 copie/ml
Considerare il trattamento
Asintomatico o sintomi lievi* e CD4 > 350 cellule/mm3 e HIV RNA< 100.000 copie/ml
Non trattare**
Centers for Disease Control and Prevention, 1994.
Rivalutare i criteri clinici e laboratoristici dopo 3-4 mesi.
**
4
Trattare
Trattare
CD4 < 25% (indipendentemente dai sintomi o dalla viremia)
3
*
Raccomandazioni
Malattie infettive emergenti in età pediatrica
potabile per la preparazione, c’è l’indicazione all’allattamento
artificiale. In alcuni paesi in via di sviluppo, viste le scarse condizioni igienico-sanitarie e socio-economiche, si preferisce invece
consigliare comunque l’allattamento materno (John-Stewart et
al., 2009).
Come accennato, grazie all’efficacia delle nuove terapie antiretrovirali, iniziate sin dalle prime epoche di vita (Tab. II), la progressione della malattia si è sensibilmente attenuata, con morbilità e
mortalità nettamente diminuite (Chiappini et al., 2009; Working
Group on Antiretroviral Therapy and Medical Management of HIVInfected Children, 2009). I dati del Registro italiano stimano una
sopravvivenza a 13 anni del 95% nei bambini nati dopo il 1996. Il
regime terapeutico consigliato include 2 inibitori nucleosidici della
trascrittasi inversa associati ad un inibitore delle proteasi o a un
inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa (Working Group
on Antiretroviral Therapy and Medical Management of HIV-Infected
Children, 2009).
Infezione perinatale da HCV
Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel
mondo vi sono circa 170-200 milioni di soggetti con infezione da
epatite C (HCV). In Italia, la prevalenza degli infetti aumenta progressivamente con l’età e procedendo da Nord a Sud. La distribuzione per età suggerisce un probabile effetto coorte, per cui oggi
osserviamo gli esiti di un’epidemia avvenuta tra gli anni ’50 e l’inizio
degli anni ’80. Successivamente, l’incidenza dell’infezione da HCV è
andata progressivamente riducendosi nel nostro paese; passando
da 5 a 0,5 per 100.000 abitanti tra il 1985 e il 2002 (www.ministerosalute.it). Tale riduzione è attribuibile a diversi fattori: introduzione
dello screening obbligatorio nei donatori di sangue dal 1992; impiego di dispositivi medici monouso; adozione di pratiche più sicure
nelle procedure a rischio di contaminazione ematica (con contributo
determinante derivato dalle campagne anti-AIDS).
Anche in campo pediatrico si è assistito ad una diminuzione dell’incidenza di infezione da HCV. Dopo la scomparsa dell’infezione per
via trasfusionale, la trasmissione madre-bambino è diventata la
principale via di contagio. Sebbene siano stati individuati alcuni fattori di rischio per la trasmissione verticale del virus (Tab. III), nessuno
di questi è a tutt’oggi modificabile; motivo per cui non viene raccomandato lo screening sistematico delle gravide. Anche se mancano
evidenze a supporto, quando possibile, pare comunque prudente
evitare l’amniocentesi, l’utilizzo di strumenti invasivi al parto e la rottura prolungata delle membrane nelle gravide infette. Contrariamente all’HIV, il tasso di trasmissione madre-bambino dell’HCV è rimasto
costante negli anni (3-6%). Da notare che la trasmissione verticale
è associata alla carica virale materna, ma non esistono valori soglia
al di sopra o al di sotto dei quali si possa prevedere o escludere l’infezione del nascituro. Dal punto di vista diagnostico va ricordato che
solo un terzo dei bambini infettati sono viremici alla nascita, mentre
a 3 mesi l’80-90% risulta PCR positivo. I bambini con infezione perinatale da HCV sono asintomatici alla nascita e per lo più rimangono
tali nella prima decade di vita, con una crescita regolare. Il danno
epatico può però accentuarsi nel corso degli anni.
La diminuzione dei bambini infetti in anni recenti risente, quindi, anzitutto del blocco della trasmissione attraverso emoderivati; questo
ha comportato un minor numero di donne infette in età fertile e quindi un minor numero di neonati esposti. Inoltre, la co-infezione materna con HIV aumenta il rischio di trasmissione verticale dell’HCV;
l’attuale trattamento antiretrovirale delle donne HIV+/HCV+ può
contribuire a ridurre anche la trasmissione del virus epatitico.
Tabella III.
Fattori di rischio per la trasmissione materno fetale dell’HCV.
Fattore di
rischio
Sì
Evidenza di
associazione
Elevata
Elevata carica virale materna
Sì
Sufficiente
Taglio cesareo
No
Sufficiente
Parto vaginale
No
Sufficiente
Allattamento al seno
No
Sufficiente
Sesso femminile
Sì
Sufficiente
Amniocentesi
?
Insufficiente
Tossicodipendenza
?
Dati antitetici
Indici di citolisi in gravidanza
Sì
Insufficiente
Monitoraggio fetale invasivo
Sì
Insufficiente
Utilizzo di forcipe
Sì
Insufficiente
Lacerazioni perineali e vaginali al parto
Sì
Insufficiente
Episiotomia
No
Insufficiente
Rottura prolungata delle membrane
Sì
Insufficiente
Fumo di sigaretta
No
Insufficiente
Assunzione di alcolici
No
Insufficiente
Età meterna
No
Insufficiente
Genotipo di HCV
No
Insufficiente
Numero di gravidanze
No
Insufficiente
Prematurità
No
Insufficiente
Background genetico
Sì
Insufficiente
Variabile
Coinfezione HCV/HIV
Parallelamente, è cambiata anche la frequenza relativa del genotipo virale dei bambini con epatite, con una maggiore prevalenza dei
genotipi 3 o 4 rispetto all’1 (tipicamente associato al contagio per
via ematica) (Bortolotti et al., 2005). I risvolti terapeutici non sono
marginali, visto che il 3 e il 4 sono genotipi maggiormente sensibili
all’interferon; inoltre, il genotipo 3 ha maggiori possibilità di clearance spontanea nei primi anni di vita. La terapia con Peg-interferon
più ribavirina è oggi ampiamente utilizzata in adulti con infezione
cronica da HCV e più segnalazioni supportano tale trattamento anche in bambini (Kowala-Piaskowska et al., 2007; Jara et al., 2008).
Recentemente (Dicembre 2008) la FDA ha approvato l’utilizzo di tale
terapia nei bambini HCV+ di età superiore a 3 anni.
Tubercolosi
Nonostante sia una malattia prevenibile e curabile, la TBC costituisce una delle emergenze sanitarie più drammatiche nel mondo, con
notevole carico assistenziale, economico e sociale. L’incremento
negli ultimi anni è imputabile all’aumentata prevalenza di soggetti
sieropositivi per HIV, guerre e carestie nei paesi del terzo mondo,
migrazioni di massa, aumento dei fenomeni di farmaco-resistenza,
mancanza di adeguati programmi di screening e prevenzione (World
Health Organization, 2006).
Nei paesi ad elevata endemia tubercolare la percentuale di malattia in età pediatrica risulta elevata, favorita soprattutto da disagiate
condizioni socio-economiche e dalla malnutrizione. Nei paesi industrializzati la TBC pediatrica ha mostrato un trend in discesa a partire
dagli anni ’50; nell’ultimo decennio si è però registrata un’inversione
di tendenza, con stabilizzazione o addirittura incremento dei casi
(Dwight et al., 2006). In questi paesi, considerati “a bassa preva-
5
S. Bezzio et al.
lenza”, la TBC nei bambini è più frequente nelle minoranze etniche
socialmente ed economicamente svantaggiate.
In generale, va detto che la prevalenza di TBC in età evolutiva è sottostimata, in quanto solo in una minoranza di bambini la tubercolosi
attiva è bacillifera.
L’attuale situazione epidemiologica in Italia è caratterizzata da una
bassa incidenza nella popolazione generale, dalla concentrazione
della maggior parte dei casi in alcuni gruppi a rischio, in alcune
classi di età e dall’emergere di ceppi tubercolari farmaco-resistenti.
Tra i giovani (15-24 anni) l’incidenza di TBC è in leggero seppur
costante aumento (9 casi/100 mila nel 2007). Resta stabile, invece,
nella classe d’età 0-14 anni, con un’incidenza di 2-3 casi/100 mila
nei bambini 0-4 anni (www.ministerosalute.it).
Esiste una stretta correlazione epidemiologica tra TBC infantile e
dell’adulto. L’emergenza e la diffusione dei ceppi resistenti a isoniazide e rifampicina (MDR-TBC) rappresenta un problema sempre più
rilevante, sia in chiave terapeutica che preventiva. Un recente studio
europeo (Migliori, 2009) ha stimato un’incidenza annuale di 510.000
nuovi casi di MDR-TBC, in particolare provenienti dall’Est Europa.
L’incidenza maggiore si verifica, però, nell’Africa Sub-Sahariana. Il
fallimento del trattamento dei ceppi MDR contribuisce alla diffusione
di ceppi cosiddetti XDR (extensively drug-resistant), resistenti a più
farmaci di prima e seconda linea (MMWR, 2006). Le segnalazioni
di multifarmaco-resistenza nella popolazione pediatrica sono anedottiche (Migliori, 2007), ma la frequenza con cui sono giunti alla
nostra osservazione questi casi negli ultimi anni suggerisce che il
fenomeno sia sottostimato.
Sifilide
Con un’incidenza annuale di 12 milioni di nuovi casi nel mondo, la
sifilide è, dopo l’Aids, l’infezione sessualmente trasmessa con più
alto tasso di mortalità. Nei Paesi industrializzati l’incidenza della sifilide ebbe una drastica riduzione dopo la Seconda guerra mondiale,
grazie alla disponibilità di nuovi metodi diagnostici e al trattamento
con penicillina. Nelle ultime decadi la sua incidenza è di nuovo in
aumento, specie nei Paesi in via di sviluppo e nell’Est Europa.
Ogni anno nel mondo circa un milione di donne gravide è affetta
da sifilide. Le conseguenze sono devastanti: 460.000 aborti o morti endouterine, 270.000 casi di sifilide congenita e 270.000 nati
con basso peso o prematuri. Altre fonti parlano di almeno 500.000
bambini nati con la sifilide congenita. La prevalenza di donne infette varia sensibilmente nei singoli paesi (Chakraborty et al., 2008).
Trattandosi di una malattia a trasmissione sessuale, l’aumentata
incidenza implica un incremento anche fra le donne in età fertile
e quindi dei casi di sifilide congenita. Vista la possibilità di eliminare facilmente il rischio di trasmissione materno-fetale tramite
l’identificazione e la cura della madre infetta entro le prime 20
settimane di gestazione, la sifilide congenita non dovrebbe essere presente nel nostro Paese, ma così non è. Tutte le gravide
dovrebbero eseguire i test sierologici per la lue alla prima visita
prenatale (Tab. IV); tali esami dovrebbero eventualmente essere
ripetuti a 32-36 settimane o al parto. Tutte le donne che partoriscono prematuramente dopo le 20 settimane dovrebbero essere
testate per la sifilide ed in generale nessun neonato dovrebbe
lasciare l’ospedale se lo stato sierologico materno non è stato
definito (Wolff et al., 2009). Queste raccomandazioni non sono
però seguite da tutti i colleghi ostetrici e neonatologi (Riva et al.,
2006).
La lue congenita non sempre è riconoscibile alla nascita, poiché il
bambino infetto può essere asintomatico e la sierologia talora non
dirimente (Chakraborty et al., 2007). Le manifestazioni cliniche
della sifilide congenita vengono distinte in precoci (< 2 anni) e
tardive e vanno ricordate nelle diagnostica differenziale con varie
malattie che possono presentare quadri simili (Tab. V).
Nel neonato esposto, asintomatico, è necessario ricorrere alla
diagnostica di laboratorio (Tab. VI). La ricerca degli anticorpi è
complicata dalla presenza delle IgG materne, che scompaiono ad
un’età variabile fra 3 e 15 mesi. Data la complessità della diagnosi, visto il diffondersi della lue fra donne in età fertile, è essenziale
alzare nuovamente “la guardia” attraverso lo screening universale delle gravide, ricordandosi che non solo le donne immigrate da
zone ad alta endemia sono a rischio di patologie sessualmente
trasmesse.
Tabella IV.
Test sierologici per la diagnosi di sifilide in gravidanza.
Test non treponemici (poco costosi, di rapida esecuzione, utilizzabili come screening, utili per valutare la risposta alla terapia)
VDRL/RPR
Positivo: (a partire da 3-4 settimane dopo l’infezione)
→ titolo > 16 quasi sempre specifico
→ titolo < 16: a. falso positivo (gravidanza, patologia del connettivo, infezione)
b. cicatrice sierologica di infezione pregressa trattata
c. sifilide latente
Negativo
Attenzione a falsa negatività per lue secondaria o latente precoce (fenomeno prozona*)
Test treponemici (specifici, persistono per anni, non utili per valutare reinfezioni o risposta alla terapia)
- TPHA/TPPA
- Ig (IgG + IgM) EIA: test di screening
- FTA ABS (IgM) o WB IgM: casi selezionati; la presenza di IgM è indicative di infezione recente
VDRL = Veneral Disease Reference Laboratory
RPR = Rapid Plasma Reagine
Ig EIA = Enzime Immuno Assay
TPHA = Treponema pallidum Hemagglutination Assay
FTA ABS = Treponemal Antibody Absorption Test
WB = Western Blot
*
eccesso di anticorpo
6
Malattie infettive emergenti in età pediatrica
Tabella V.
Segni e sintomi delle sifilide congenita precoce e tardiva.
Età
Sifilide congenita precoce
Apparato
Segni
Sistemici
Mucose
Distress neonatale
Anemia, piastrinopenia, ittero
Epatosplenomegalia, adenopatia
Polmonite
Glomerulonefrite
Mucosite (rinite)
Cute
Mucose
Sistemici
Osso
Rene
SNC
Occhio
Rash, lesioni ulcerose
Rinite ostruttiva
Epatosplenomegalia, adenopatia
Epatite, ittero
Anemia, piastrinopenia,
Osteite, osteocondrite (metafisi ossa lunghe, pseudoparalisi di Parrot)
Periostite (palato e setto nasale)
Sindrome nefrosica
Leptomeningite, idrocefalo, paralisi nervi cranici (III, IV, VI, VII), anomalie del liquor
Interessamento VIII nervo
Corioretinite, glaucoma
Neonato
2 settimane - 3 mesi
Sifilide congenita tardiva
Dopo 2 anni
(nel 40% dei bambini)
Osso
Occhio
Denti
Cute
SNC
Articolazioni di Clutton
(tumefazione simmetrica ginocchio);
facies atipica; gambe a sciabola
Cecità, cheratite parenchimatosa
Denti di Hutchinson
Ragadi periorali
Tabella VI.
Esami sierologici per diagnosi di sifilide congenita.
- IgM (FTA, WB):
se positivo
→ infezione congenita
se negativo
→ ripetere per escludere infezione o
sieroconversione tardiva
La presenza della zanzara tigre in alcune aree del nostro paese è un
esempio di come la globalizzazione possa interessare anche i vettori
di infezione. Infatti, essa giunse in Europa negli anni ’90 insieme a
generi di consumo trasportati in aereo dall’Asia e trovò ecosistemi
favorevoli anche alle nostre latitudini.
- VDRL o RPR: infezione congenita se titolo > 4 volte il titolo materno
- TPHA: utile per valutare la sieroreversione al follow-up.
VDRL = Veneral Disease Reference Laboratory
RPR = Rapid Plasma Reagine
TPHA = Treponema pallidum Hemagglutination Assay
FTA ABS = Treponemal Antibody Absorption Test
WB = Western Blot
Test non treponemici = VDRL e RPR
Test treponemici = TPHA/TPPA, FTA IgG/IgM
Chikungunya
La Chikungunya è una malattia causata da un alfavirus appartenente
alla famiglia Togaviridae che viene trasmesso tramite un vettore, la
zanzara Aedes albopictu (zanzara tigre). È caratterizzata da febbre elevata, rash, artralgia severa, soprattutto a carico delle articolazioni delle
dita delle mani e dei piedi. Non esiste alcuno specifico trattamento e
la terapia è sintomatica. È da tenere presente che è stato osservato
anche un meccanismo di trasmissione materno-fetale nel periodo perinatale con un elevato tasso di morbidità (Ramulf et al., 2007).
A partire dal 2004 si sono verificate una serie di epidemie in paesi
tropicali ed in India. Proprio da un viaggio in India tornò il caso indice che, nell’estate 2007, fu identificato all’origine dell’epidemia di
Chikungunya in Emilia Romagna, ove furono descritti 205 casi tra
le province di Ravenna e Cesena-Forlì in un periodo in cui vi erano
molte zanzare tigre nell’area del delta del Po (Rezza et al., 2007;
Seyler et al., 2008).
Infezioni in immunocompromessi
Le infezioni sono una delle maggiori cause di morbilità e mortalità
nei pazienti con deficit immunitario. Il numero di bambini con compromissione dei poteri di difesa a causa della malattia di base o
della terapia praticata (trapianti di cellule staminali, trapianti d’organo, chemioterapia, farmaci immunosopressori, inclusi anticorpi monoclonali e farmaci biologici) è cresciuto sensibilmente negli ultimi
anni. Tali pazienti sono ad alto rischio di malattie infettive gravi, sia
da patogeni comuni che, talora, da saprofiti. Altro problema rilevante, in questa categoria di pazienti, è la sempre maggior presenza di
foci epidemici da germi multiresistenti, causata dall’utilizzo estensivo (a volte improprio) degli antibiotici.
L’insorgenza di complicanze infettive può determinare ritardi nell’ideale successione dei cicli di terapia, causare effetti collaterali tossici e
peggiorare la qualità di vita dei pazienti, oltre ad incrementare i costi
dell’assistenza sanitaria. Le manifestazioni cliniche possono differire
sensibilmente dai quadri usuali e infezioni gravi possono esordire in
modo paucisintomatico. È pertanto essenziale riconoscere precocemente le patologie infettive e trattarle in maniera appropriata. Il
problema viene ad investire non solo i centri specialistici (Rubio et
al., 2009; Simon et al., 2008. Pinon et al., 2009; Wallis et al., 2009),
ma anche i pediatri di libera scelta. Onde garantire una gestione
ottimale di questi pazienti diventa sempre più necessaria una stretta
collaborazione dei pediatri del territorio con i centri specialistici.
7
S. Bezzio et al.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
Il trattamento con antiretrovirali in gravidanza, il taglio cesareo elettivo e l’allattamento artificiale riducono il rischio di trasmissione madre-bambino
dell’HIV. La sifilide congenita era un riscontro eccezionale nelle ultime decadi del secolo scorso in Italia, così come la tubercolosi nei bambini era
una malattia rara che rispondeva ai protocolli terapeutici tradizionali. Le infezioni in bambini immunocompromessi erano una problematica che
investiva in modo pressoché esclusivo i centri specialistici.
Cosa sappiamo adesso
L’infezione da HIV va sempre più diffondendosi per via sessuale fra le donne in età fertile. Varie sono le misure preventive in grado di ridurre la
trasmissione madre-bambino del virus; la loro adozione permette di abbattere al 1-2% il rischio di infezione perinatale. Il trattamento precoce con
antiretrovirali dei bambini infetti blocca la progressione dell’HIV. Per quanto attiene la trasmissione verticale del virus dell’epatite C, non vi sono
interventi preventivi, ma, dopo l’introduzione dello screening dei donatori di sangue, si è ridotto il numero di gravide infette. L’infezione perinatale
da HCV ha un decorso generalmente lieve nella prima decade di vita. La tubercolosi è tornata una malattia relativamente frequente; con un numero
crescente di casi da micobatteri farmaco-resistenti. Anche la sifilide è in sensibile aumento, specie fra donne immigrate da zone ad alta endemia
e la sifilide congenita ritorna una realtà da tenere in considerazione. Aumentano i bambini trattati con farmaci immunosopressori e quindi le problematiche infettive connesse.
Quali ricadute sulla pratica clinica
L’identificazione della gravida sieropositiva per HIV e l’utilizzo delle varie misure preventive vanno applicati in modo sistematico. Bambini con
infezione da HIV vanno trattati precocemente. Data la mancanza di possibili interventi preventivi non è consigliato lo screening delle gravide per
l’HCV. Va invece ripristinato lo screening universale della sifilide in gravidanza e nessun neonato dovrebbe essere dimesso senza conoscere la
condizione materna per la sifilide. La tubercolosi deve essere tenuta presente nella diagnostica quotidiana; non va trascurato l’emergere di ceppi
resistenti ai farmaci tradizionali. L’aumento dei bambini sottoposti a trapianto d’organo o di cellule staminali oppure in chemioterapia o in terapia
immunosoppressiva richiede una conoscenza delle problematiche infettive connesse anche da parte dei pediatri di libera scelta e una loro stretta
collaborazione con i centri specialistici.
Bibliografia
Bortolotti F, Resti M, Marcellini M, et al. Hepatitis C virus (HCV) genotypes in
373 Italian children with HCV infection: changing distribuition and correlation
with clinical features and outcome. Gut 2005;54:852-7.
Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Emergence of
Mycobacterium tuberculosis with extensive resistance to second-line drugs
-worldwide. MMWR 2006;55:301-5.
Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Revised classification
system for human immunodeficiency virus infection in children less than 13
years of age. MMWR 1994;43:1-20.
Chakraborty R, Luck S. Managing congenital syphilis again? The more things
change… Curr Opin Infect Dis 2007;20:247-52.
* Revisione sulla problematica emergente della sifilide in gravidanza e della
forma congenita, con indicazioni sulla terapia raccomandata nei diversi
paesi.
Chakraborty C, Luck S. Syphilis is on increase: the implications for child
health. Arch Dis Child 2008;93:105-9.
Chiappini E, Galli L, Tovo PA, et al. Five-year-follow-up of children with
perinatal HIV-1 infection receiving early highly active antiretroviral therapy.
BMC Infect Dis 2009;9:140.
* Conferma che la terapia precoce con antiretrovirali garantisce una
prognosi migliore a breve-medio termine nei bambini con infezione
perinatale da HIV.
Dwight AP, Garrett HW. Tuberculosis in children: an up-date. Adv in Pediatr
2006;53:279-322.
** Dettagliata analisi del problema tubercolosi in età evolutiva. Vengono
esposti i dati epidemiologici ed i maggiori risvolti clinico-terapeutici.
Jackson DJ, Goga AE, Doherty T, et al. An update on HIV and infant feeding
issued in developed and developing countries. JOGNN 2009;38:219-99.
Jara P, Hierro L, de la Vega A, et al. Efficacy and safety of peginterferonalpha2b and ribavirin combination therapy in children with chronic hepatitis
C infection. Pediatr Infect Dis J 2008;27:142-8.
John-Stewart GC. Strategic approaches to decrease breast milk transmission
of HIV-1: the importance of small things. J Infect Dis 2009;200:1487-9.
Jones KE, Patel NG, Levy MA, et al. Global trends in emerging infectious
diseases. Nature 2008;451:990-3.
** Accurata valutazione dei vari elementi che condizionano l’insorgenza e/o il
diffondersi delle patologie infettive emergenti, con analisi della letteratura a
partire dal 1944 e sintesi ponderata dei maggiori fattori di rischio connessi.
8
Kowala-Piaskowska A, Słuzewski W, Figlerowicz M, et al. Early virological
response in children with chronic hepatitis C treated with pegylated
interferon and ribavirin. Infection 2007;35:175-9.
Migliori GB, D’Arcy Richardson M, Sotgiu G, Lange C. Multidrug-resistant and
exstensively drug-resistant tuberculosis in the West Europe and United States:
epidemiology, surveillance and control. Clin Chest Med 2009;30:637-65.
* Viene affrontata in modo approfondito la crescente problematica dei ceppi
di micobatteri resistenti ai farmaci antitubercolari tradizionali nei paesi
Occidentali ed i risvolti clinico-terapeutici associati.
Migliori GB, De Iaco G, Besozzi G, et al. First tuberculosis cases in Italy
resistant to all tested drugs. Eurosurveillance 2007;12:20.
Perinatal HIV Guidelines Working Group. Public Health Service Task Force
Recommendations for use of antiretroviral drugs in pregnant HIV-Infected
women for maternal health and interventions to reduce perinatal HIV
transmission in the United States. 2009: 1-90. Available at http://aidsinfo.
nih.gov/ContentFiles/PerinatalGL.pdf.
** Linee guida aggiornate con descrizione dettagliata delle varie misure
profilattiche atte a ridurre la trasmissione madre-bambino dell’HIV.
Pinon M, Bezzio S, Tovo PA, et al. A prospective 7-year survey on central
venous catheter-related complications at a single pediatric hospital. Eur J
Pediatr 2009;168:1505-12.
Ramulf D, Carbonnier M, Pasquet M, et al. Mother-to-child transmission of
Chikungunya virus infection. Pediatr Infect Dis J 2007;26:811-5.
Rezza G, Nicoletti L, Angelini R, et al. Infection with Chikungunya virus in
Italy: an outbreak in a temperate region. Lancet 2007;370:1840-6.
Riva C, Alice A, Lazier L, et al. Increasing number of pregnancies at risk
for congenital syphilis in the new millenium in Nothern-Central Italy. Ital J
Pediatr 2006;32:201-7.
Rubio PM, Sevilla J, Gonzales-Vicent M, et al. Increasing incidence of
invasive aspergillosis in pediatric hematology oncology patients over the
last decade: a retrospective single centre study. J Pediatr Hematol Oncol
2009;31:642-6.
Seyler T, Rizzo C, Finarelli AC, et al. Autoctonus Chikungunya virus
transmission may have occurred in Bologna, Italy, during the summer of
2007. Eurosurveillance 2008;13:1-3.
Simon A, Schidgen O, Schuster F. Viral infections in paediatric patients receiving
conventional cancer chemotherapy. Arch Dis Child 2008;93:880-9.
Sudeep AB, Parashar D. Chikungunya: an overview. J Biosci 2008;33:443-9.
Wallis RS. Infectious complications of tumor necrosis factor blockade. Curr
Opin Infect Dis 2009;22:403-9.
Malattie infettive emergenti in età pediatrica
Wolff T, Shelton E, Session C, Miller T. Screening for syphilis infection in
pregnant women: evidence for the U. S. preventive services task force
reaffirmation recommendation statement. Ann Intern Med 2009;150:710-6.
*Viene ribadita l’utilità dello screening universale per sifilide delle gravide ai
giorni nostri anche in paesi a bassa endemia.
World Health Organization. Guidelines for the programmatic management
of drug-resistant tuberculosis. 2006. Available at http://www.who.int/tb/
publications/2008/programmatic_guidelines_for_mdrtb/en/index.html
*Linee guida sulla gestione terapeutica derivante dell’emergenza di ceppi di
micobatteri resistenti agli antibiotici di prima scelta (MDR-TB).
Working Group on Antiretroviral Therapy and Medical Management of HIVInfected Children. Guidelines for the use of antiretroviral agents in pediatric
HIV infection. 2009:1-139. Available at http://aidsinfo.nih.gov/ContentFiles/
PediatricGuidelines.pdf.
*Linee guida dettagliate sulla terapia antiretrovirale e sulle misure preventive
dell’HIV in età pediatrica.
Corrispondenza
Pier-Angelo Tovo, Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza, piazza Polonia 94, 10126 Torino. Tel. +39 011 3135800. E-mail: [email protected]
9
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 10-14
infettivologia
Ricadute pratiche della resistenza
agli antibiotici dei più comuni patogeni respiratori
Nicola Principi, Susanna Esposito
Dipartimento di Scienze Materno Infantili, Università di Milano, Fondazione IRCCS “Ca’ Granda Ospedale Maggiore
Policlinico”, Milano
Riassunto
Nel tempo le caratteristiche di sensibilità dei batteri agli antibiotici sono inevitabilmente destinate a mutare, di solito con la progressiva emergenza di resistenze.
L’emergenza di resistenze agli antibiotici ha variabile impatto sull’esito della terapia antibiotica usualmente considerata di scelta per le diverse patologie batteriche. Predire le conseguenze e il rischio di fallimento terapeutico non è sempre semplice, specie quando più germi tra quelli che possono determinare una malattia presentano resistenze contemporaneamente. Per evitare rischi, il pediatra deve attenersi alle raccomandazioni degli esperti, seguendo linee guida codificate
e adeguatamente sperimentate. In questa revisione, per comprendere l’impatto delle resistenze agli antibiotici nella pratica clinica vengono trattati esempi che
riguardano patogeni (Streptococcus pneumoniae, Streptococcus pyogenes, Haemophilus influenzae) e malattie (otite media acuta, rinosinusite, polmonite di
comunità, sepsi, meningite) di frequente riscontro nel bambino, oltre che le classi di farmaci (beta-lattamici, macrolidi) più usate nei primi anni di vita.
Summary
During the years, the characteristics of bacterial susceptibility to antibiotics are changing, usually with the emergence of antimicrobial resistance. The
emergence of antimicrobial resistance among the different pathogens may have a variable impact on the outcome of antibiotic treatment considered as
first line in different bacterial diseases. To predict the consequences and the risk of treatment failures is not always easy, especially when several pathogens among those which may cause a disease could show antimicrobial resistance. In order to avoid the risk of treatment failure, the pediatrician has to
consider experts’ recommendations and has to follow evidence-based guidelines. In this review, the impact of antimicrobial resistance in clinical practice
is presented with examples that regard pathogens (e.g., Streptococcus pneumoniae, Streptococcus pyogenes, Haemophilus influenzae) and diseases (e.g.,
acute otitis media, rhinosinusitis, community-acquired pneumonia, sepsis, meningitis) which are common in childhood as well as antimicrobial classes
(beta-lactams, macrolides) frequently used in the first years of life.
Introduzione
Nel tempo le caratteristiche di sensibilità dei batteri agli antibiotici
sono inevitabilmente destinate a mutare, di solito con la progressiva
emergenza di resistenze. Due sono le modalità con le quali un batterio può divenire resistente (van de Sande-Bruinsma et al., 2008). La
prima è legata a fenomeni naturali, quali la comparsa di mutazioni
genetiche che conferiscono al batterio proprietà biochimico-metaboliche inizialmente non presenti e tali da consentire la possibilità,
positiva per il batterio, di interferire sulle modalità di azione di una
o più classi di antibiotici. La seconda è, invece, strettamente dipendente dall’uso stesso degli antibiotici e rientra nel cosiddetto problema della pressione di selezione esercitata da questi farmaci sui
batteri. È chiaro, infatti, che, usando un antibiotico, si elimineranno
i batteri sensibili mentre verranno conservati quelli resistenti che
potranno moltiplicarsi senza alcuna interferenza e rendere evidenti
tutte le loro caratteristiche di patogenicità. La selezione secondaria
all’utilizzo è, senza alcun dubbio, il problema maggiore perché da
un lato è inevitabile, dato che l’uso degli antibiotici è indispensabile
per far fronte ad un alto numero di malattie altrimenti non guaribili,
dall’altro è, però, reso enormemente più rilevante dal fatto che questi farmaci sono usati troppo e male. Ciò comporta una pressione
di selezione assai più elevata del dovuto, una rapida emergenza di
resistenze e, in ultima analisi, anche la rapida perdita di efficacia di
farmaci che, con un uso più oculato, avrebbero potuto essere prescritti con successo molto più a lungo (Goossens, 2009) .
La segnalazione dell’emergenza di resistenze fa pensare ad inevitabili ricadute negative sull’efficacia degli antibiotici e tende a portare
il clinico a modificare gli schemi terapeutici fino a quel momento
10
usati, sostituendo gli antibiotici per i quali sono presenti problemi
con altri non ancora coinvolti nello stesso fenomeno (Macgowan AP
BSAC Working Parties on Resistance Surveillance, 2008). In realtà,
ciò non è sempre necessario e vi sono numerosissime segnalazioni
che per molti batteri e per molte forme morbose l’impatto delle resistenze è molto inferiore a quello che si poteva presumere. Per comprendere questo fenomeno bisogna capire la differenza tra resistenza in vitro, cioè in laboratorio, e resistenza in vivo, cioè nella pratica
clinica. In vitro la presenza di resistenza è rivelata dal fatto che il
quantitativo di un certo antibiotico necessario ad ottenere il blocco
della moltiplicazione batterica (minima concentrazione inibente –
MIC) o la morte stessa di un microrganismo (minima concentrazione
battericida – MBC) è aumentato ed è diventato superiore alle concentrazioni che questo stesso antibiotico raggiunge nel sangue dopo
somministrazione di dosi standard. Su questa base il microbiologo
segnala al clinico che vi sono probabilità che la risposta alla terapia
non sia più quella di prima e che, quindi, questa debba essere rivalutata e, se del caso, modificata. Ciò non significa che questo sia realmente obbligatorio perché in vivo i rapporti tra antibiotico e batterio
non sono gli stessi che si realizzano in laboratorio. Nell’organismo
le concentrazioni di farmaco che raggiungono il germe sono condizionate dalle caratteristiche dell’individuo, dalla sede dell’infezione
e dalla cinetica dell’antibiotico (Alpuche C et al., 2007). Inoltre, non
poca importanza nel condizionare le ricadute cliniche della resistenza ha anche il meccanismo che porta all’aumento di MIC e MBC
(Sahm et al., 2008). è possibile che per peculiari caratteristiche cinetiche o per particolari sedi di infezione, un antibiotico raggiunta
presso il batterio concentrazioni assai più alte di quelle presenti nel
Antibioticoresistenza e patogeni respiratori
sangue e che, quindi, un eventuale aumento della MIC e della MBC
abbia scarso o nulla significato. Ovviamente, è anche possibile che
proprio per il peso della cinetica e delle peculiare caratteristiche degli organi piccole variazioni della MIC e della MBC abbiano, invece,
conseguenze drammatiche.
A complicare la situazione pratica sta, poi, il fatto che non raramente
più batteri tra quelli che causano la stessa malattia possono sviluppare contemporaneamente resistenze diverse (Cornaglia et al., 2009).
Ciò finisce per rendere ancora più difficile decidere quale sia la terapia
più corretta e, parallelamente, sottolinea come assai spesso il clinico
debba affidarsi più che al suo ragionamento alle decisione di esperti
quando deve prescrivere un antibiotico ad un paziente.
Obiettivo della revisione
Questa revisione cercherà di dare informazioni utili a comprendere l’impatto delle resistenze agli antibiotici nella pratica clinica. Gli
esempi forniti riguarderanno i patogeni e le malattie di più frequente
riscontro nel bambino, oltre che le classi di farmaci più usate nei
primi anni di vita.
Metodologia della ricerca bibliografica effettuata
È stata condotta una ricerca bibliografica sulla banca bibliografica
Medline, utilizzando come motore di ricerca PubMed e come parole
chiave “antimicrobials”, “antibacterials”, “antibiotics” e “respiratory pathogen”. Sono stati posti i seguenti limiti: l’età dei pazienti
(“infant”, “children” e “adolescent”), la presenza di dati sull’impatto
clinico delle resistenze agli antibiotici (“respiratory infections” e “in
vivo resistance”) e gli anni di pubblicazione (2005-2009).
Dati salienti emersi dagli studi considerati
La resistenza di Streptococcus pneumoniae ai beta-lattamici
Una delle migliori dimostrazioni di come l’impatto clinico delle resistenze batteriche possa essere diverso a seconda della sede
dell’infezione è dato da quanto vale per S. pneumoniae (Dagan,
2009; Jacobs, 2008). È questo un patogeno capace di dare sia patologie semplici ma molto frequenti come otite media acuta (OMA),
rinosinusite o polmonite di comunità (CAP), sia malattie molto gravi,
anche se relativamente rare, come sepsi e meningiti. Per tutte queste patologie, fino a quando l’entità delle resistenze emergenti non
ha raggiunto percentuali consistenti, tutti gli esperti erano concordi
nell’affermare che l’uso di un beta-lattamico era certamente sufficiente ad assicurare la guarigione clinica del paziente nella stragrande maggioranza dei casi. In particolare, le linee guida seguite in
passato per queste patologie indicavano l’amoxicillina per via orale
a 50 mg/kg/die come farmaco di scelta per le forme respiratorie
e il ceftriaxone a 100 mg/kg/die per via endovenosa per sepsi e
meningiti. Quando i microbiologi hanno rilevato il progressivo aumento delle MIC dello pneumococco e hanno indicato la presenza,
oltre ai classici stipi sensibili alla penicillina con MIC largamente
inferiori a 1 µg/mL, anche di pneumococchi con MIC superiori a 1
µg/mL e addirittura a 4 µg/mL, la prima reazione dei clinici è stata
quella di cambiare le strategie terapeutiche, prendendo in considerazione altri farmaci con minore rischio di resistenze. In realtà, gli
studi clinici di efficacia delle vecchie terapie nelle nuove condizioni e
l’analisi delle caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche
degli antibiotici applicate alle diverse sedi di infezione e alle possibili
differenze di MIC dello pneumococco resistente hanno chiaramente
messo in evidenza che la necessità di cambiare gli schemi usati fino
a quel momento non valeva per tutte le malattie ma doveva essere
attuata solo in casi particolari.
Per esemplificare quanto sopra ricordato si consideri il problema
delle infezioni respiratorie da pneumococco. Nel caso dell’OMA e
della rinosinusite, l’innalzamento delle MIC, pur se relativamente
modesto, ha un certo grado di ricaduta sugli schemi terapeutici
anche se non provoca la sostituzione con l’amoxicillina con altri
farmaci (Block et al., 2007; Esposito et al., 2008; Greenberg et al.,
2008). Ciò dipende dal fatto che l’amoxicillina ha una penetrazione
solo discreta nell’orecchio medio o nei seni paranasali così che le
concentrazioni raggiunte dopo la somministrazione di dosaggi standard sono appena sufficienti a determinare in sede di infezione le
concentrazione di antibiotico utili a superare le MIC dei germi definiti
sensibili. Se queste si elevano, i dosaggi tradizionali non sono più
sufficienti ma basta aumentarli, circa raddoppiandoli, per determinare il raggiungimento nell’orecchio medio o nei seni paranasali di
livelli di farmaco utili ad eradicare anche pneumococchi con MIC
più elevate e, quindi, tali da essere definiti dai microbiologi come
resistenti. Ciò spiega perché le più recenti linee guida suggeriscono
che là dove esistano dimostrate percentuali di resistenza di S. pneumoniae alle penicilline si debbano usare dosaggi di amoxicillina di
70-90 mg/kg/die (American Academy of Pediatrics, 2004) (Tab. I).
Completamente diverso è, invece, il caso della CAP per la quale il
problema della difficoltà del raggiungimento in sede di infezione di
concentrazioni elevate di antibiotico non è presente. Il polmone è, infatti, largamente irrorato e il passaggio dei beta-lattamici nel secreto
bronchiale molto attivo al punto che nei bronchi si raggiungono livelli
di antibiotico anche superiori a quelli dimostrabili nel sangue. Le
concentrazioni determinate dagli usuali 50 mg/kg/die di amoxicillina
sono, di conseguenza, molto elevate e, quasi costantemente, sufficienti ad eradicare anche pneumococchi definiti resistenti. Qualche
difficoltà terapeutica può aversi solo quando siano presenti batteri
con MIC ≥ 4 µg/mL, evenienza questa estremamente rara. D’altra
parte, la mancanza di segnalazioni di evoluzione negativa di CAP da
pneumococchi con MIC elevata trattati con beta-lattamici utilizzati a
dosaggio standard ne è la dimostrazione migliore (Grant et al., 2009;
Lynch et al., 2009; Peterson, 2006).
Ancora differente è, per certi aspetti, il problema della terapia delle
sepsi e delle meningiti. Per quanto riguarda le sepsi, in cui la localizzazione batterica è esclusivamente ematica, non vi sono problemi
di sorta anche con bassi dosaggi di antibiotico se somministrati per
via endovenosa (Benito-Fernandez et al., 2007). Nel caso delle meningiti, invece, la barriera ematoliquorale rappresenta un ostacolo
estremamente difficile da superare e né la via endovenosa, né l’innalzamento del dosaggio permettono di raggiungere nel liquor livelli
utili ad eradicare S. pneumoniae in caso di MIC più alte di quelle dei
germi definiti sensibili. In queste situazioni, per assicurare la protezione del paziente a fronte di una malattia estremamente grave, il
Tabella I.
Terapia antibiotica dell’otite media acuta.
Farmaco di prima scelta
Amoxicillina (70-90 mg/kg/die in 2-3 dosi per 10 giorni)
Farmaci di seconda scelta (per bambini definiti “a rischio”)
Amoxicillina – acido clavulanico (70-90 mg/kg/die in 2-3 dosi per 10 giorni)
Cefalosporine
Macrolidi
11
N. Principi, S. Esposito
Tabella II.
Terapia antibiotica ragionata della meningite batterica.
Età
Batteri più spesso causa di meningite
Terapia di prima scelta
<1 mese
Streptococcus aglactiae, Escherichia coli, Listeria monocytogenes
Ampicillina più cefotaxima
1-3 mesi
Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis, Streptococcus agalactiae, Eschrichia Ampicillina più vancomicina, più ceftriaxone
coli, Listeria monocytogenes
o cefotaxima
3-23 mesi
Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis, Streptococcus agalactiae, Haemophi- Vancomicina più ceftriaxone o cefotaxima
lus influenzae, Escherichia coli
2-18 anni
Streptococcus pneumoniae, Neisseria meningitidis
classico ceftriaxone viene affiancato dalla vancomicina, antibiotico
per il quale rischi di resistenze di S. pneumoniae praticamente non
esistono (Tzanakaki et al., 2007; Weisfelt et al., 2007) (Tab. ii).
La resistenza di Streptococcus pneumoniae e di Streptococcus
pyogenes ai macrolidi
I macrolidi hanno per anni rappresentato la seconda scelta, dopo i
beta-lattamici, nella terapia delle infezioni respiratorie sostenute da
S. pneumoniae e nel trattamento delle infezioni da Streptococcus
pyogenes (SBEA), sia a livello faringotonsillare sia cutaneo. Purtroppo, negli ultimi 15 anni, almeno in alcune aree geografiche tra cui
l’Italia, sono comparse resistenze di entrambi questi patogeni, con
valori che hanno raggiunto, come nel nostro Paese, livelli prossimi al
50% (Mazzariol et al., 2007; Jenkins et al., 2008; Karlowsky et al.,
2009). È interessante sottolineare come tra i possibili meccanismi di
resistenza, i due principali, quello basato sul meccanismo di efflusso
codificato dal gene mef(A) e quello legato ad una modificazione del
target ribosomiale codificato dal gene erm (B) abbiano un impatto
pratico assai diverso (Tab. III). Il primo determina, infatti, una elevazione relativamente contenuta delle MIC di S. pneumoniae e di
SBEA, mentre il secondo le innalza di oltre 100 volte. Questo diverso
livello di resistenze impatta in modo assai differente sulla efficacia
della terapia antimicrobica nella patologia respiratoria sostenuta da
questi batteri considerando che i macrolidi hanno tutti la capacità
di concentrarsi in modo molto rilevante proprio nelle vie aeree, raggiungendo nelle varie sedi concentrazioni molto più alte di quelle
dimostrabili nel sangue.
Il problema della resistenza di Haemophilus influenzae
ad alcuni beta-lattamici
Come per S. pneumoniae, anche per H. influenzae non vi sono stati problemi di resistenza per molti anni. Anche per questo batterio,
però, a partire dalla fine degli anni ’80 si è assistito alla comparsa
di resistenza all’amoxicillina (Harrison et al., 2009). In questo caso
il meccanismo di resistenza ha subito escluso che vi fosse la possibilità, come osservato per alcune malattie da S. pneumoniae, di
superare il problema attraverso un aumento di dosaggio perché si
è visto che la resistenza dipendeva essenzialmente dall’assunta capacità del batterio di elaborare beta-lattamasi, enzimi capaci di distruggere l’antibiotico una volta che questo fosse venuto a contatto
con il patogeno. In questo caso l’emergenza di resistenze ha portato
alla sostituzione dell’amoxicillina come farmaco di scelta con penicilline protette da inibitori delle beta-lattamasi o con cefalosporine
beta-lattamasi resistenti. Lo studio delle caratteristiche di attività di
questi farmaci, insieme alla valutazione della loro capacità di raggiungere i focolai di infezione ha, tuttavia, chiaramente dimostrato
che il superamento delle resistenze poteva risultare assai più facile
con alcune rispetto ad altre molecole. Molto interessante a questo
proposito è quanto elaborato da Pichichero et al. (2008) che han-
12
Vancomicina più ceftriaxone o cefotaxima
no calcolato, sulla base dei riscontri microbiologici ottenuti in 233
bambini con OMA e in 5.000 simulazioni delle curve cinetiche di
10 beta-lattamici, quali farmaci fossero in grado di assicurare le
maggiori probabilità di successo nel trattamento dell’OMA sostenuta
da H. influenzae.
Il problema delle resistenze multiple
Come ricordato, talora possono emergere contemporaneamente resistenze di germi diversi, tutti capaci di dare le stesse patologie. È
questo il caso di alcune malattie più volte citate come OMA, rinosinusiti e CAP per le quali sono oggi segnalate resistenze sia di S.
pneumoniae che di H. influenzae (Barkai et al., 2009; Bradley et al.,
2008; Elliott, 2008). Come visto le due forme di resistenza richiedono approcci diversi, cosa che non creerebbe problemi se fosse possibile in ogni caso isolare il patogeno in causa ed adattare la terapia
alle nuove esigenze da questo richieste. In pediatria ciò è praticamente eccezionale perché il bambino poco collabora e l’isolamento
del materiale da coltivare è spesso, se non sempre, impossibile. In
un lavoro nel quale sono state considerate contemporaneamente
tutte le variabili relative ai diversi patogeni potenzialmente in causa
nel determinismo dell’OMA, Fallon et al. (2008) hanno sottolineato i
vantaggi derivanti dall’impiego di amoxicillina-acido clavulanico.
Opinione personale e interpretazione degli studi
considerati
La resistenza di Streptococcus pneumoniae ai beta-lattamici
Il problema della resistenza di S. pneumoniae ai beta-lattamici rappresenta una delle evenienze più comuni che il clinico deve affrontare.
Nel caso dell’OMA e della rinosinusite, abbiamo sopra spiegato perché raddoppiando i dosaggi di amoxicillina è possibile raggiungere
nell’orecchio medio o nei seni paranasali concentrazioni di farmaco
utili ad eradicare anche pneumococchi resistenti. Anche noi, quindi,
concordiamo con le più recenti linee guida che suggeriscono che là
dove esistano dimostrate percentuali di resistenza di S. pneumoniae
Tabella III.
Minime concentrazioni inibenti (MIC) verso i macrolidi di S. pneumoniae in rapporto al meccanismo di resistenza.
ERM B
MIC 90
Range
MEF E
MIC 90
RANGE
Eritromicina
Claritromicina
> 32
0,25-> 32
> 128
0,25-> 128
8
0,5-> 32
4
0,06-> 8
Antibioticoresistenza e patogeni respiratori
alle penicilline si debbano usare dosaggi di amoxicillina di 70-90
mg/kg/die.
Per la CAP, invece, non sono necessarie modifiche di quanto stabilito
prima dell’emergere delle resistenze, grazie al fatto che i beta-lattamici si concentrano in modo ottimale a livello polmonare e anche
con dosi standard di antibiotico è possibile superare le resistenze
più comuni.
In caso di sepsi, invece, se la terapia è fatta per via endovenosa, le
concentrazioni raggiunte anche con bassi dosaggi sono sufficienti,
quale che sia la MIC dello pneumococco in causa, per risultare efficaci; al contrario, se ci si trova di fronte ad una meningite, viene
esasperato quanto già visto per l’OMA e la rinusinusite e non basta
nemmeno aumentare i dosaggi ma è necessario addirittura associare un secondo antibiotico al trattamento di scelta.
La resistenza di S. pneumoniae e di Streptococcus pyogenes
ai macrolidi
L’emergenza di resistenze sia di S. pneumoniae sia di SBEA ai macrolidi è bene dimostrativa di quanto giochi, oltre che la sede di
infezione, anche il tipo e l’entità delle resistenze nel condizionare
l’impatto clinico dell’informazione derivante dal laboratorio. Infatti,
se una patologia respiratoria è sostenuta da un batterio resistente
per meccanismo da efflusso la terapia standard ha grandissima probabilità di essere egualmente efficace, mentre l’opposto si verifica
in caso siano in gioco batteri con resistenza su base costitutiva. Sul
piano pratico, purtroppo, questa netta distinzione, che porterebbe a
diversificare la terapia solo in una parte dei casi, ha, tuttavia, poco
valore perché nel singolo paziente non è mai disponibile l’informazione sul tipo di resistenza in atto, cosicché il clinico, se non vuole
correre rischi, deve scegliere in ogni caso un farmaco diverso dalla
classe che con molta probabilità risulta resistente, indipendentemente dal meccanismo con cui si estrinseca la resistenza stessa.
Il problema della resistenza di Haemophilus influenzae
ad alcuni beta-lattamici
Un buon esempio della possibilità che l’emergenza delle resistenze
agli antibiotici porti ad un drastico cambiamento di terapia è dato da
quanto si riferisce a H. influenzae. Eliminato H. influenzae tipizzabile
dalla vaccinazione di massa con vaccino esavalente, oggi la patologia da H. influenzae è tutta legata alla forma non tipizzabile. È questo
un batterio cosiddetto di superficie perché eccezionalmente causa
forme invasive, mentre solitamente si limita a causare malattie respiratorie per contatto diretto sulla mucosa. Parte rilevante di OMA
e di rinosinusiti sono dovute, infatti, a H. influenzae non tipizzabile.
I dati raccolti proprio nei bambini con OMA indicano che cefpodoxima, ceftibuten a l’associazione amoxicillina-acido clavulanico hanno
la maggiori probabilità di superare in vivo le resistenze di questo
germe all’amoxicillina.
Il problema delle resistenze multiple
In caso di resistenze multiple, il pediatra non potrà che scegliere la soluzione che consente di coprire tutti i rischi possibili. Ciò spiega perché
a fronte di un caso di OMA, di rinosinusite o di CAP che si manifesti
in un’area geografica ad alta incidenze di resistenze a più antimicrobici da parte di diversi patogeni, in assenza di qualsiasi informazione
microbiologica, si finisca per utilizzare una terapia capace di coprire
contemporaneamente il rischio delle resistenze di S. pneumoniae e
quello delle resistenze di H. influenzae. Poiché l’amoxicillina resta il
migliore anti-pneumococco e l’associazione amoxicillina-acido clavulanico copre bene H. influenzae, è quest’ultima che trova in molte aree
geografiche la massima utilizzazione in pediatria.
Conclusioni e prospettive per il futuro
L’emergenza di resistenze agli antibiotici ha variabile impatto
sull’esito della terapia antibiotica usualmente considerata di scelta per le diverse patologie batteriche. Predire le conseguenze e il
rischio di fallimento terapeutico non è sempre semplice, specie
quando più germi tra quelli che possono determinare una malattia
presentano resistenze contemporaneamente. Per evitare rischi, il
pediatra deve attenersi alle raccomandazioni degli esperti, seguendo linee guida codificate e adeguatamente sperimentate. Il lavoro
dei prossimi anni dovrà essere quello di continuare a mantenere
un’attenta sorveglianza clinico-epidemiologica della circolazione dei
patogeni respiratori, monitorando l’antibioticoresistenza in rapporto
alle singole patologie così da identificare meglio le implicazioni pratiche di questo fenomeno. Inoltre, sarà fondamentale utilizzare un
approccio comune a livello Europeo che associ i dati microbiologici
alle linee guida sui trattamenti di scelta e che permetta di migliorare
le prescrizioni di antibiotici.
Dichiarazioni finali
Gli autori non hanno alcun conflitto di interesse da dichiarare che
possa avere influito nella preparazione del testo. NP e SE hanno
pensato alle tematiche da sviluppare; SE si è occupata della ricerca
bibliografica; NP ha steso una prima versione del testo e SE lo ha
completato e rifinito.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
La segnalazione dell’emergenza di resistenze dei patogeni respiratori ai comuni antimicrobici fa pensare ad inevitabili ricadute negative sull’efficacia
degli antimicrobici e tende a portare il clinico a modificare gli schemi terapeutici fino a quel momento usati, sostituendo gli antibiotici per i quali sono
presenti problemi con altri non ancora coinvolti nello stesso fenomeno.
Cosa sappiamo adesso
È stato dimostrato che per molti batteri e per molte forme morbose l’impatto delle resistenze è molto inferiore a quello che si poteva presumere. Questo
dipende dal fatto che la resistenza in vitro, cioè in laboratorio, non sempre corrisponde alla resistenza in vivo, cioè nella pratica clinica.
Quali ricadute sulla pratica clinica
Predire le conseguenze e il rischio di fallimento terapeutico non è sempre semplice, specie quando più germi tra quelli che possono determinare una
malattia presentano resistenze contemporaneamente. Per evitare rischi, il pediatra deve attenersi alle raccomandazioni degli esperti, seguendo linee
guida codificate e adeguatamente sperimentate.
13
N. Principi, S. Esposito
Bibliografia
Alpuche C, Garau J, Lim V. Global and local variations in antimicrobial
susceptibilities and resistance development in the major respiratory pathogens.
Int J Antimicrob Agents 2007;30 (Suppl. 2):S135-8.
Revisione sull’aumento di prevalenza della resistenza agli antimicrobici di
Streptococcus pneumoniae, Moraxella catarrhalis e Haemophilus influenzae.
American Academy of Pediatrics Subcommittee on Management of Acute
Otitis Media. Diagnosis and management of acute otitis media. Pediatrics
2004;113:1451-65.
* Linee guida esaustive e dettagliate che sulla base di evidenze scientifiche di
vario grado illustrano come diagnosticare e come trattare l’otite media acuta in
età pediatrica.
Barkai G, Leibovitz E, Givoni-Lavi N, et al. Potential contribution by nontypable
Haemophilus influenzae in protracted and recurrent acute otitis media. Pediatr
Infect Dis J 2009;28:466-1.
Benito-Fernandez J, Raso SM, Pocheville-Gurutzeta I, et al. Pneumococcal
bacteremia among infants with fever without known source before and after
introduction of pneumococcal conjugate vaccine in the Basque Country of Spain.
Pediatr Infect Dis J 2007;26:667-71.
Block SL, Doern GV, Pfaller MA. Oral beta-lactams in the treatment of acute otitis
media. Diagn Microbiol Infect Dis 2007;57 (3 Suppl.):S19-30.
Bradley JS, McCracken GH. Unique considerations in the evaluation of
antibacterials in clinical trials for pediatric community-acquired pneumonia. Clin
Infect Dis 2008;47(Suppl. 3): S241-8.
Cornaglia G, Rossolini GM. Firthcoming therapeutic perspectives for infections
due to multidrug-resistant Gram-positive pathogens. Clin Microbiol Infect
2009;15:218-23.
Interessante articolo che illustra le problematiche terapeutiche causate dalle
infezioni da Gram-positivi multiresistenti a più farmaci.
Dagan R. Impact of pneumococcal conjugate vaccine on infections caused
by antibiotic-resistant Streptococcus pneumoniae. Clin Microbiol Infect
2009;15(Suppl. 3):16-20.
Elliott SP. Antimicrobial-resistant pathogens: an emerging pediatric threat. Adv
Pediatr 2008;55:329-48.
Esposito S, Principi N; Italian Society of Pediatrics, Italian Society of Pediatric
Infectivology, Italian Society of Pediatric Allergy and Immunology, Italian Society of
Pediatric Respiratory Diseases, Italian Society of Preventive and Social Pediatrics,
Italian Society of Otorhinolaryngology, Italian Society of Chemotherapy, Italian
Society of Microbiology. Acute and subacute rhinosinusitis in children: guidelines
to diagnosis and treatment. J Chemother 2008;20:147-57.
* Linee guida italiane sull’approccio diagnostico-terapeutico alla rinosinusite in
età pediatrica.
Fallon RM, Kuti JL, Doern GV, et al. Pharmacodynamic target attainment of oral
beta-lactams for the empiric treatment of acute otitis media in children. Pediatric
Drugs 2008;10:329-35.
Goossens H. Antibiotic consumption and link to resistance. Clin Microbiol Infect
2009;15 (Suppl. 3):12-5.
* Revisione che riporta i dati di consume di antibiotici e di antibioticoresistenza
della European Surveillance of Antimicrobial Consumption (ESAC programme).
Grant GB, Campbell H, Dowell SF, et al. Recommendations for treatment of
childhood non-severe pneumonia. Lancet Infect Dis 2009;9:185-96.
* Linee guida sul trattamento della polmonite di comunità non grave in età
pediatrica, stese da di un gruppo di esperti identificato dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità.
Greenberg D, Hoffman S, Leibovitz E, et al. Acute otitis media in children:
association with day-care centers-antibacterial resistance, treatment, and
prevention. Paediatr Drugs 2008;10:75-83.
Harrison CJ, Woods C, Stout G, Martin B, Selvarangan R. Susceptibilities of
Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae, including serotype 19A,
and Moraxella catarrhalis paediatric isolates from 2005 to 2007 to commonly
used antibiotics. J Antimicrob Chemother 2009;63:511-9.
Karlowsky JA, Lagacé-Wiens PR, Low DE, et al. Annual macrolide prescription
rates and the emergence of macrolide resistance among Streptococcus
pneumoniae in Canada from 1995 to 2005. Int J Antimicrob Agents 2009;34:3759.
Jacobs MR. Antimicrobial-resistant Streptococcus pneumoniae: trends and
management. Expert Rev Anti Infect Ther 2008;6:619-35.
Puntuale articolo che illustra le difficoltà di scelta del trattamento antibiotico per
il clinico come conseguenza dell’emergenza delle resistenze agli antimicrobici
da parte di S. pneumoniae.
Jenkins SG, Brown SD, Farrell DJ. Trends in antibacterial resistance among
Streptococcus pneumoniae isolated in the USA: update from PROTEKT US Years
1-4. Ann Clin Microbiol Antimicrob 2008;7:1.
Lynch JP 3rd, Zhanel GG. Streptococcus pneumoniae: does antimicrobial
resistance matter? Semin Respir Crit Care Med 2009;30:310-38.
Interessante rassegna sui meccanismi di resistenza dei batteri alle diverse classi
di antibiotici, sull’epidemiologia e la diffusione dell’antibioticoresistenza, sui
fattori di rischio per l’acquisizione e la diffusione di ceppi batterici resistenti agli
antimicrobici, sull’impatto clinico dell’antibioticoresistenza e sulle strategie per
limitare la resistenza agli antimibiotici dei più comuni patogeni respiratori.
Macgowan AP, BSAC Working Parties on Resistance Surveillance. Clinical
implications of antimicrobial resistance for therapy. J Antimicrob Chemother
2008;62 Suppl 2:ii3-14.
Mazzariol A, Koncan R, Bahar G, Cornaglia G. Susceptibilities of Streptococcus
pyogenes and Streptococcus pneumoniae to macrolides and telithromycin: data
from an Italian multicenter study. J Chemother 2007;19:500-7.
Peterson LR. Penicillins for treatment of pneumococcal pneumonia: does in vitro
resistance really matter? Clin Infect Dis 2006;42:224-33.
Revisione della letteratura che valuta l’approccio di scelta alla polmonite
di comunità in rapporto alla diffusione di ceppi di S. pneumoniae antibiotico
resistenti.
Pichichero ME, Doern GV, Kuti JL, Nicolau DP. Probability of achieving requisite
pharmacodynamic exposure for oral beta-lactam regimens against Haemophilus
influenzae in children. Paediatric Drugs 2008;10:391-7.
* Interessante lavoro che confronta l’efficacia di diversi antimicrobici nell’otite
media acuta causata da H. influenzae.
Sahm DF, Brown NP, Thornsberry C, Jones ME. Antimicrobial susceptibility
profiles among common respiratory tract pathogens: a GLOBAL perspective.
Postgrad Med 2008;120 (3 Suppl 1):16-24.
Tzanakaki G, Mastrantonio P. Aetiology of bacterial meningitis and resistance to
antibiotics of causative pathogens in Europe and in the Mediterranean region. Int
J Antimicrob Agents 2007;29:621-9.
Revisione della letteratura sui principali patogeni causa di meningite batterica e
sulla loro suscettibilità agli antibiotici.
Van de Sande-Bruinsma N, Grundmann H, Verloo D, et al. Antimicrobial drug use
and resistance in Europe. Emerg Infect Dis 2008;14:1722-30.
* Interessante studio svolto in 21 paesi europei dal 2000 al 2005 che
ha dimostrato una correlazione tra utilizzo degli antibiotici nella pratica
ambulatoriale e resistenze antimicrobiche di Streptococcus pneumoniae ed
Escherichia coli.
Weisfelt M, de Gans J, van de Beek D. Bacterial meningitis: a review of effective
pharmacotherapy. Expert Opin Pharmacother 2007;8:1493-504.
Revisione sui principali patogeni causa di meningite batterica e sull’approccio
terapeutico di scelta.
Corrispondenza
Nicola Principi, Dipartimento di Scienze Materno Infantili, Università di Milano, Fondazione IRCCS “Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico”, via
Commenda 9, 20122 Milano. Tel. + 39 02 57992498. E-mail: [email protected]
14
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 15-20
Infettivologia
Nuovi markers di infezione batterica:
utilità clinica in età pediatrica
Marta Cellai Rustici, Luisa Galli, Elena Chiappini, Maurizio de Martino
Dipartimento di Scienze per la Salute della Donna e del Bambino, Università di Firenze
Riassunto
La diagnosi differenziale tra infezioni virali e batteriche in corso di febbre è complessa in età pediatrica. I tradizionali marcatori di infiammazione non permettono di identificare l’eziologia della flogosi e correlano poco con la gravità dell’infezione. Sarebbe, quindi, di grande utilità l’identificazione di uno o più marcatori
per la diagnosi precoce delle infezioni batteriche, allo scopo di intraprendere quanto prima una terapia antibiotica. I marcatori più frequentemente utilizzati e
sui quali esistono un maggior numero di studi sono rappresentati dalla conta dei globuli bianchi (GB) e dalla proteina C reattiva (PCR). Il dosaggio della procalcitonina e di alcune citochine, quali l’IL-6, l’IL-8 ed il TNF-alfa, sono attualmente in studio come marcatori precoci di infezione batterica in età pediatrica.
In questa revisione sono state valutate le prove più recenti sull’utilità clinica dei nuovi marcatori di infezione in età pediatrica.
Summary
Differential diagnosis between viral and bacterial infection in children may be challenging. Traditional laboratory tests poorly correlate with the severity of
microbial invasion and do not differentiate the aetiology of inflammation. White blood cells count and C-reactive protein dosage are the most frequently
used and studied markers of infection in children. Currently a marker for the early recognition of bacterial infection that could guide antibiotic treatment
is not yet available. Therefore, evaluation of procalcitonin, IL-6, IL-8 and TNF-alfa in serum or plasma are under investigation as early markers of bacterial
infection in pediatric population.
In this review we consider the most recent studies about clinical utility of these new markers of infection in pediatrics.
Introduzione
Nel caso di un bambino con febbre senza segni di localizzazione,
la precoce diagnosi differenziale tra infezione batterica o virale sulla sola base clinica resta difficile. Le indagini microbiologiche non
sempre sono in grado di identificare rapidamente l’agente in causa.
I lunghi tempi di attesa della risposta microbiologica fanno sì che
spesso la scelta di iniziare o meno una terapia antibiotica dipenda,
oltre che dalla clinica e dall’età del bambino, dai livelli ematici dei
marcatori di infezione.
La conta dei GB, il numero assoluto dei neutrofili e il valore della PCR
sono tradizionalmente utilizzati come indici di fase acuta e marcatori
di infezione batterica.
Nella diagnosi di infezioni batteriche invasive, i risultati disponibili
suggeriscono una sensibilità ed una specificità dei GB (per valori
compresi tra 15.000 e 17,100/μL) variabili, rispettivamente, tra 20%
e 76% e tra 58% e 100%. La capacità diagnostica del valore assoluto dei neutrofili (≥ 10.000 cellule/μL ) avrebbe una sensibilità e
specificità rispettivamente del 50-71% e del 76-83%.
Le più recenti linee guida internazionali, pertanto, raccomandano di
utilizzare dei valori riferimento di GB ≥ 15,000 cellule/μL e di neutrofili ≥ 10,000 cellule/μL come fattori discriminanti fra bambini che
possono essere rivalutati nel tempo e bambini che necessitano di
una terapia antibiotica immediata. Dato il basso valore predittivo di
questi parametri, nell’85-90% dei casi il pediatra sceglie di utilizzare
una terapia antibiotica anche quando non sia necessaria (Andreola,
2007). Questo comportamento contribuisce allo sviluppo di antibiotico resistenza, tossicità, reazioni allergiche e all’aumento dei costi.
La PCR è stato il marcatore di flogosi fino ad ora più largamente utilizzato (Sanders, 2008). I livelli ematici di PCR aumentano nettamente in corso di infezione batterica, ma anche in altre condizioni infiammatorie, quali le malattie intestinali croniche infiammatorie (MICI), le
artriti, le malattie autoimmuni o le miocarditi. La PCR, inoltre, può
essere elevata in certe infezioni virali, quali quelle da adenovirus,
e non sempre consente una diagnosi precoce di infezione, poiché
inizia ad innalzarsi dopo 12 ore dall’esordio del processo infiammatorio infettivo (Scirè, 2006). Uno studio recente ha riportato che, in
corso di infezione batterica grave, la sensibilità della PCR varia dal
68% al 92%, a seconda che il dosaggio ematico sia stato rilevato
nelle prime 12 ore di febbre o successivamente (Pratt, 2007).
Poiché i tradizionali marcatori di infezione non danno informazioni sulla causa dell’infiammazione e correlano poco con la severità
dell’infezione, negli ultimi anni sono stati valutati altri marcatori di
infezione batterica, in particolare la procalcitonina (PCT) e alcune
citochine, quali l’interleuchina 6 (IL-6), l’interleuchina 8 (IL-8) ed il
tumor necrosis factor (TNF-α) (Pratt, 2007).
La PCT è il preormone della calcitonina; è normalmente secreto dalle cellule C della tiroide in risposta all’ipercalcemia ed in condizioni
fisiologiche è indosabile nel sangue (Sakr, 2008). In corso di infiammazione la sua produzione da parte del fegato o di cellule mononucleate tissutali sembra essere stimolata dal rilascio di citochine o
lipopolisaccaride (Sakr, 2008).
La PCT è stata studiata per la diagnosi delle infezioni batteriche e la
sua accuratezza diagnostica varia nei diversi studi (Andreola, 2007).
Alcuni autori la considerano un marcatore eccellente nel discriminare le infezioni virali dalle batteriche, altri concludono invece che
la sua utilità diagnostica è simile a quella dei tradizionali marcatori
e che il suo dosaggio sierico ha un utilità clinica limitata (Andreola,
2007; Olaciregui, 2009).
In corso di infiammazione, l’IL-6 e l’IL-8 vengono prodotte prevalentemente da monociti, macrofagi e cellule endoteliali, ma particolari
condizioni come l’ipossia possono portare alla produzione di IL-6 e
IL-8 anche da parte di altre cellule (Caldas, 2008). Queste citochine
sono state utilizzate di recente come marcatori precoci di infezione
15
M. Cellai Rustici et al.
correlare con la gravità dell’infezione e, quindi, potrebbero essere
utili sia per scegliere una terapia antibiotica mirata che per verificarne l’efficacia (Verboon-Maciolelek, 2006).
Valore predittivo dei marcatori di flogosi nella diagnosi
differenziale tra infezioni batteriche e virali
Nella diagnosi differenziale tra infezioni batteriche e infezioni virali
la PCT e la PCR hanno una capacità diagnostica superiore rispetto alla conta dei globuli bianchi ed al numero assoluto di neutrofili
(Verboon-Maciolelek, 2006). Questi marcatori se comparati ai GB e
ai neutrofili ai loro valori soglia tradizionali (GB ≥ 15.000 cellule/μL;
N ≥ 10.000 cellule/μL) hanno una maggiore sensibilità e un maggior
valore predittivo negativo per infezione batterica invasiva (Andreola,
2007; Verboon-Maciolelek, 2006; Galetto Lacour, 2008).
Molti studi riportano una più alta sensibilità (88% vs. 75%) e specificità (81% vs. 67%) della PCT rispetto alla PCR nella diagnosi differenziale tra infezioni batteriche e virali (Verboon-Maciolelek, 2006).
Altre indagini suggeriscono che elevate concentrazioni sieriche di
PCT, TNF-α, IL-6 ed IL-8 abbiano una sensibilità e una specificità
maggiore rispetto alla proteina C reattiva, la conta dei GB e dei neutrofili nell’identificazione precoce di sepsi batteriche (Tab. I) (Caldas,
2008; Maciolelek, 2006; Galetto Lacour, 2008). In particolare, il riscontro di elevati livelli di IL-6 e IL-12 nel liquido cerebrospinale di
bambini con sospetta meningite sembra correlare con la diagnosi di
meningite batterica (Caldas, 2008).
La PCR sembra avere una sensibilità superiore rispetto alla PCT nella diagnosi di infezioni batteriche sistemiche, confermandosi, oltre
che un buon marcatore di infezione batterica, il marcatore più conveniente dal punto di vista economico (Tab. II) (Andreola, 2007).
In una recente meta-analisi in età pediatrica, la PCT da sola sembra avere una scarsa capacità diagnostica di batteriemia (Tab. III)
(Jones, 2007).
In uno studio su bambini al di sotto di 3 mesi con febbre senza segni
di localizzazione, il dosaggio combinato di PCT, PCR e GB aumenterebbe la capacità diagnostica di tali marcatori e se alle analisi di
laboratorio si aggiunge l’osservazione clinica l’accuratezza diagnostica aumenta ulteriormente (Tab. IV) (Olaciregui, 2009). Uno studio
recente di Galetto Lacour et al. su bambini con febbre senza segni
di localizzazione porta gli autori a suggerire l’utilizzo di uno score
Figura 1.
Incremento di alcuni mediatori della flogosi dopo iniezione di endotossina in soggetti sani.
Studio che valuta il ruolo di PCT, IL-6, IL-8 e PCR nella diagnosi precoce
delle sepsi neonatali ad insorgenza tardiva.
batterica, specie di sepsi in epoca neonatale (Caldas, 2008). Peraltro, il loro ruolo nella diagnosi differenziale tra infezioni batteriche e
virali è tuttora dubbio.
In alcuni esperimenti, condotti su volontari sani in cui è stata iniettata la tossina di Escherichia coli, è stato dimostrato che le concentrazioni sieriche di PCT, IL-6, IL-10 e TNF-α iniziano ad aumentare
precocemente (entro le prime 2 ore) e si normalizzano nel momento
in cui la PCR raggiunge il picco massimo, ovvero entro 24-48 ore
dall’inizio della terapia antibiotica (Fig. 1) (Scirè, 2006). Pertanto, rispetto alla PCR che inizia ad aumentare solo dopo 6 ore dall’inizio
del processo infiammatorio la PCT e le IL-6 e IL-8 offrirebbero un
vantaggio nel monitoraggio a breve dell’infezione e della risposta
alla terapia antibiotica in caso di infezione batterica (Scirè, 2006;
Verboon-Maciolelek, 2006). Inoltre tali parametri sembrerebbero
Tabella I.
Sensibilità, specificità, valore predittivo positivo (VPP) e negativo (VPN) dei singoli dosaggi di procalcitonina (PCT), proteina C reattiva (PCR),
interleuchina 6 (IL-6), interleuchina 8 (IL-8) e tumor necrosis factor (TNF-α) nella diagnosi di sepsi neonatale.
Marcatori
di infezione
% Sensibilità
(95% IC)
% Specificità
(95% IC)
VPP
(95% IC)
VPN
(95% IC)
*
°
*
°
*
°
*
°
PCT
69 (51-3)
-
82 (63-94)
-
83 (64-94)
-
68 (49-83)
-
PCR
65 (47-80)
79 (66-100)
52 (33-71)
87 (74-100)
63 (46-78)
91,7
54 (34-72)
70,0
IL-6
68 (50-82)
77 (65-90)
76 (56-90)
87 (73-100)
78 (60-91)
91,2
64 (46-80)
69,0
IL-8
84 (68-94)
-
52 (33-71)
-
72 (53-82)
-
74 (48-89)
-
-
74 (60-87)
-
82 (66-98)
-
86,7
-
66,7
TNF-α
* Valori soglia: PCR> 14 mg/L, PCT >0.5 μg/L, IL-6> 60 pg/mL, IL-8 > 50 pg/mL8
° Modificato da Caldas JPS, J Pediatr 2008
16
Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatria
Tabella II.
Sensibilità, specificità, Likelihood ratio positivo e negativo dei singoli dosaggi di proteina c reattiva (PCR), procalcitonina (PCT), conta dei globuli
bianchi (GB) e neutrofili (N) nella diagnosi precoce di infezioni batteriche invasive in bambini e lattanti febbrili.
Parametri
e Valori soglia
% Sensibilità
(95% IC)
% Specificità
(95% IC)
Likelihood Ratio
(95% IC)
Likelihood Ratio
(95% IC)
73,4 (63,3-82,0)
76,4 (71,3-81,0)
3,10
0,35
8,3 (80,0-94,0)
60,8 (55,2-66,3)
2,25
0,19
GB (10.470/mm3)
51,6 (41,0-62,1)
75,5 (70,3-80,2)
2,11
0,64
N (6.450/mm3)
29,9 (20,5-40,6)
78,4 (73,3-82,9)
1,38
0,89
PCT (>0,5 ng/mL)
PCR (>20mg/L)
Tabella III.
Sensibilità e specificità della procalcitonina (PCT) secondo la meta-analisi di Jones del 2007 nella diagnosi di batteriemia.
Studio per primo autore
Anno
Numero di bambini
Sensibilità (%)
(95% IC)
Specificità (%)
(95% IC)
PCT cut off
(ng/mL)
Fleischhack
2000
Lacour
2001
110
56,3 (33,2-76,9)
87,2 (79,0-92,5)
0,5
91
100,0 (51,0-100,0)
60,9 (50,4-70,5)
0,9
Han
Lacour
2003
90
87,1 (71,1-94,9)
49,2 (36,8-61,6)
0,5
2003
88
75,0 (30,1-95,4)
52,4 (41,8-62,7)
0,5
Prat
2004
65
100,0 (81,6-100,0)
83,3 (70,4- 91,3)
2,0
Ciaccio
2004
54
89,7 (73,6-96,4)
16,0 (6,4-34,7)
0,5
Tabella IV.
Sensibilità, specificità e valore predittivo positivo (VPP) e negativo (VPN) del dosaggio combinato di procalcitonina (PCT), proteina c reattiva (PCR),
conta dei globuli bianchi (GB) nelle infezioni batteriche invasive e nelle sepsi in bambini di età < 3 mesi.
Parametri e Valori soglia
% Sensibilità
(95% IC)
% Specificità
(95% IC)
VPP
(95% IC)
VPN
(95% IC)
Infezioni batteriche invasive:
GB (5000-15000), PCR (< 30 mg/L),
PCT (< 0,5ng/mL), buone condizioni
generali, stick urine negativo
96
(88-99)
35
(29-42)
32
(25-38)
96
(92-100)
Sepsi:
GB (5000-15000), PCR (< 30 mg/L),
PCT (< 0,5ng/mL), buone condizioni
generali, stick urine negativo
100
(74-100)
29
(24-35)
6
(3-9)
100
(96-100)
diagnostico di laboratorio, composto dal dosaggio di GB, PCR, PCT
e stick urine, unitamente ad uno score clinico, basato sulla Infant
Observation Scale, nella diagnosi precoce di infezioni batteriche invasive e come indice di terapia antibiotica. Il punteggio dello score
di laboratorio variava tra 0 e 9 in base ai dosaggi dei marcatori considerati e alla negatività od alla positività dello stick urine. I pazienti
con score maggiore erano a maggior rischio di infezioni batteriche
invasive e necessitavano di una terapia antibiotica immediata (sensibilità; 94%, specificità; 81%) (Galetto Lacour et al., 2008).
Bouadma et al., sulla base di in uno studio in adulti ricoverati in terapia intensiva hanno proposto un algoritmo diagnostico che considera il dosaggio sierico di procalcitonina come indicatore di infezioni
batterica severa e discriminante nell’utilizzo della terapia antibiotica
(Bouadma, 2010). Da sottolineare che i dati della letteratura sono
stati ottenuti prevalentemente in adulti, sarebbe quindi necessario
condurre indagini in pazienti pediatrici.
Sepsi neonatale
L’utilizzo della PCT come marcatore precoce di sepsi è influenzato in
età neonatale da diversi fattori (Lopez Sastre, 2007). In prima giornata
di vita ci può essere un aumento fisiologico della PCT in bambini sani
nati a termine o pretermine. La PCT dovrebbe pertanto essere dosata
a scopo diagnostico dopo la 48a ora di vita e diversi studi concordano
sulla necessità di utilizzare diversi valori soglia di PCT nel pretermine
e nel neonato. Inoltre, neonati con asfissia perinatale, emorragie intracraniche, pneumotorace o che siano stati rianimati possono avere
valori di PCT che non si differenziano da quelli di neonati settici dopo
48 ore dalla comparsa della sintomatologia. L’ipossiemia potrebbe
essere responsabile, da sola, dell’aumento della PCT. La somministrazione di antibiotici in epoca prenatale, perinatale e postnatale può
inficiare la relazione tra PCT ed infezione (Lopez Sastre, 2007).
Considerate queste variabili, la PCT appare un valido supporto nella diagnosi precoce di sepsi neonatale (Sanders, 2008; Olaciregui,
2009). In aggiunta al dosaggio della PCT, studi recenti suggeriscono l’importanza del dosaggio sierico precoce di IL-6 e IL-8 nella
diagnosi e come indicatori di severità nelle infezioni sistemiche da
Streptococcus piogenes, e più in generale, nelle sepsi in età neonatale (Verboon-Maciolek, 2006). Inoltre, nelle sospette sepsi precoci
(entro le 72 ore di vita) il dosaggio combinato dell’IL-8 e della PCR
sembrerebbe poter discriminare i neonati che devono essere sotto-
17
M. Cellai Rustici et al.
posti a terapia antibiotica immediata rispetto a quelli che possono
essere osservati nel tempo (Caldas, 2008). Purtroppo i costi di tali
dosaggi sono elevati e non tutti gli ospedali sono in grado di eseguirli
(Verboon-Maciolek, 2006).
Infezioni delle vie urinarie
Nei bambini circa il 5% delle infezioni batteriche è rappresentato
da infezioni delle vie urinarie. La febbre, i brividi, il dolore al fianco,
l’incremento dei livelli di PCR e di velocità di eritrosedimentazione
(VES) e dei GB sono i criteri tradizionali utilizzati nella diagnosi di
infezione delle alte vie urinarie, anche se il loro ruolo nella diagnosi
precoce di pielonefrite è dubbio (Huang, 2007).
La sensibilità della PCR nella diagnosi di pielonefrite varia dall’84%
al 94% (per valori rispettivamente > di 20mg/L e > di 40 mg/L),
mentre la sua specificità risulta bassa (dal 31% al 55%). I GB, in
base ai pochi studi pubblicati, sembrano avere minor sensibilità
(62%) e maggior specificità (63%) della PCR (Huang, 2007).
Negli ultimi due anni molti autori si sono concentrati sul ruolo della
procalcitonina e delle interleuchine 6 e 8 come marcatori precoci
di pielonefrite in bambini con sospetta infezione delle vie urinarie.
La PCT sembra essere più utile della PCR, dei GB e della VES nella
distinzione tra pielonefriti e infezioni delle basse vie urinarie (sensibilità 70,3-94,1%; specificità 82,6-89,7%) (Mohkam, 2008). In altri
studi, elevati livelli sierici di PCT, IL-6 e di IL-8 sembrano un fattore
predittivo negativo per lo sviluppo del danno renale (Mantadakis,
2009). Inoltre, il dosaggio urinario di IL-6 e IL-8 potrebbe essere utilizzato come test non invasivo nel monitoraggio delle infezioni delle
alte vie urinarie e della risposta al trattamento (Mohkam, 2008).
Infezioni delle vie respiratorie
La diagnosi microbiologica delle polmoniti acquisite in comunità e la
distinzione tra polmoniti da batteri tipici ed atipici e polmoniti virali
è difficile. A tale proposito, sono stati fatti molti sforzi per valutare il
significato dei risultati clinici, radiologici e dei marcatori infiammatori aspecifici (Don, 2009).
In corso di infezioni delle vie respiratorie è stato studiato sia il dosaggio singolo che combinato di GB, neutrofili, PCT, VES e PCR. Secondo Don et al. né il dosaggio singolo né la loro combinazione sono
aiuto nella diagnosi differenziale tra polmoniti batteriche e virali.
Valori più elevati di tali indici di flogosi sembrerebbero correlare con
la presenza, alla radiografia del torace, di infiltrato alveolare e con
una maggior compromissione clinica generale, sebbene anche l’associazione tra marcatori di flogosi (PCR, PCT, VES e GB) e radiografia
del torace non sia dirimente nella diagnosi differenziale tra polmoniti
batteriche e virali (Don, 2009).
Altri autori hanno suggerito che la PCR da sola è un indice di polmonite batterica migliore rispetto alla conta dei GB e dei neutrofili,
dimostrandosi significativamente più elevata nelle polmoniti batteriche rispetto alle virali. Al contrario, secondo Khan e coll. la PCT
avrebbe una maggior accuratezza della PCR nella diagnosi precoce
di polmoniti batteriche acquisite in comunità (sensibilità rispettivamente 89% vs. 79%) (Khan, 2010). In altri studi, invece, la procalcitonina e la PCR sembrano offrire le stesse informazioni rispetto
diagnosi eziologica delle infezioni delle vie respiratorie (Don, 2009).
Per quanto riguarda il ruolo di alcune interleuchine, l’aumento dei
livelli sierici di IL-4 e IL-8 sembrerebbe correlare con infezioni virali
severe, in particolare quelle da Adenovirus (Moro, 2009).
Infezioni ossee ed articolari
Nella diagnosi delle infezioni ossee ed articolari il gold standard
è rappresentato dall’isolamento del microrganismo responsabile
18
dell’infezione direttamente dalla biopsia ossea o dal liquido sinoviale.
La sensibilità di questo esame in età pediatrica varia però dal 30%
al 90% (Faesch, 2009). La febbre, la presenza di elevati livelli di PCR
e VES associati a valori di GB >13.000/mm3 possono essere di aiuto nella diagnosi di queste infezioni, ma non sono sufficientemente
specifici. I GB possono infatti risultare nella norma in circa l’80% dei
pazienti. Negli ultimi anni sono stati condotti due studi nel tentativo
di definire il ruolo di altri marcatori sierici, fra i quali la PCT, nella diagnosi delle infezioni ossee ed articolari. Il primo studio, condotto da
Butbul-Aviel ha evidenziato che la PCT in corso di osteomieliti aveva
una sensibilità del 43,5% e una specificità del 100% dimostrandosi
un buon supporto nella diagnosi differenziale tra osteomieliti e artriti
settiche (Pediatr Emerg Care 2005). Il secondo studio riporta che
il dosaggio della PCT non era di nessun aiuto nella diagnosi delle
osteomieliti (Faesch, 2009). Tuttavia, gli studi fino ad ora condotti
non sono sufficienti a definire con chiarezza il ruolo della PCT come
marcatore di infezioni ossee ed articolari (Faesch, 2009).
Infezioni nei bambini immunodepressi
Nei pazienti neutropenici la febbre è definita come una singola misurazione orale della temperatura maggiore di 38,3°C od una temperatura maggiore o uguale a 38°C per più di un ora (Sakr, 2008). La
presenza di febbre non è però specifica per infezione, né indicativa
della sua eziologia e può essere causata o influenzata dall’assunzione di alcuni farmaci o da situazioni non infettive (Sakr, 2008).
Un’infezione nei pazienti neutropenici può pertanto essere molto
difficile da diagnosticare ed il trattamento antibiotico empirico deve
essere iniziato precocemente per evitare la rapida evoluzione verso
complicanze o il decesso (Sakr, 2008).
Studi su adulti neutropenici hanno dimostrato che essi sono in grado
di produrre elevate quantità di PCT in caso di infezioni batteriche
acute e che l’attività della malattia oncologica sottostante, il danno
tissutale indotto dai chemioterapici e la neutropenia non inducono
alcun aumento della PCT. Tuttavia, secondo studi recenti i livelli sierici di PCT e PCR aumenterebbero in corso di trasfusione di granulociti, graft-versus-host-disease (aGvHD) ed utilizzo di anticorpi
monoclonali (per es. Alemtuzumab) (Dornbusch, 2008).
Sakr in una recente revisione su pazienti neutropenici ha suggerito
che la PCT potrebbe essere più utile della PCR nella diagnosi differenziale delle sepsi rispetto alle cause non infettive di febbre (Sakr,
2008). Al contrario Santolaya et al. in un studio multicentrico hanno
evidenziato che in pazienti febbrili di età ≥ 12 anni neutropenici il riscontro di valori di PCR ≥ 90 mg/L e di IL-8 ≥ 200 pg/mL sono buoni
indicatori di sepsi non clinicamente evidente nelle prime 24 ore di
ospedalizzazione (Santolaya et al., 2008). Il riscontro di valori elevati
di PCT, IL-6 e IL-8 entro 24-48 ore dalla comparsa della febbre in
bambini immunocompromessi sembra quindi un indice affidabile di
infezione batterica. Gli studi in età pediatrica non sono però sufficienti a stabilire con certezza il ruolo della PCT e delle citochine
nell’identificazione precoce di sepsi batteriche in bambini neutropenici (Santolaya, 2008).
Ruolo della procalcitonina in condizioni di flogosi non infettiva
L’incremento dei valori sierici di PCR, PCT è stato osservato anche in
condizioni infiammatorie non indotte da infezioni batteriche (Scirè,
2006; Dornbush, 2008). Un’elevata concentrazione di PCT, IL-6, IL-8,
TNF-α e INF-γ è stata infatti osservata nella sindrome da risposta
infiammatoria grave o severe systemic inflammatory response syndrome (SIRS) in assenza di sepsi batterica (Scirè, 2006).
Gli studi sono scarsi nelle vasculiti. Due lavori in età pediatrica
sull’andamento della PCT nella malattia di Kawasaki (MK) sono con-
Nuovi markers di infezione batterica: utilità clinica in età pediatria
trastanti. Per alcuni autori la PCT sarebbe il miglior indice predittivo
della formazione di aneurismi coronarici in corso di malattia, mentre per altri non avrebbe alcun significato predittivo (Okada, 2004;
Catalano-Pons 2007). Secondo Okada et al. su una casistica di 25
bambini la PCT sarebbe un indice utile per la diagnosi differenziale
della MK da infezioni virali e da altre patologie autoimmuni. ma non
da infezioni batteriche (Okada et al., 2004).
Nelle malattie sistemiche autoimmuni (come per esempio il lupus
eritematoso sistemico e l’artrite reumatoide), la PCT è stata valutata
solo su pazienti adulti e sembra elevarsi solo in caso di sovrainfezione batterica (Scirè, 2006).
Vi sono pochi lavori sul ruolo della PCT nelle MICI e le diarree di
altra natura in bambini. Da tali studi emerge che la PCT e la PCR
sono molto più elevate in caso di diarrea di origine batterica che in
corso di riacutizzazione di MICI (Korczowski, 2004). Il valore sierico
di PCT risulta sovrapponibile nella diarrea di origine virale e nella
riacutizzazione di MICI. Peraltro, in uno studio su adulti, era stato
proposto l’utilizzo della PCT come marcatore sierologico di attività
della malattia. Attualmente, nella diagnosi di riacutizzazione di MICI
la PCR risulta essere il marcatore più utile, in quanto è un predittore
di riacutizzazione e, in caso di rettocolite ulcerosa, è un fattore prognostico negativo per colectomia (Moscandrew, 2009).
Conclusioni
I valori di GB, neutrofili e PCR sono i parametri di laboratorio attualmente più utilizzati in pediatria nella diagnosi di infezione batterica
in un bambino febbrile senza segni di localizzazione. La PCR e la
PCT sembrano essere marcatori di infezione batterica più sensibili e specifici rispetto alla conta dei GB ed il valore assoluto dei
neutrofili.
Nelle infezioni batteriche invasive senza apparenti segni di localizzazione la PCR da sola non è in grado di identificare i bambini con
sepsi (Sanders, 2008). Molti studi su neonati e bambini sottolineano
che l‘incremento dei livelli sierici di PCT è predittivo di infezione batterica grave e che la sensibilità e la specificità di questo marcatore
sono più elevate rispetto alla PCR nella differenziazione tra infezioni
batteriche e virali (Verboon-Maciolek, 2006; Galetto Lacour, 2008).
Il dosaggio isolato della PCT risulta però avere una scarsa capacità
diagnostica per infezioni batteriche localizzate o sistemiche (Jones,
2007). In particolare, nelle prime il dosaggio della PCT non sembra
apportare ulteriori informazioni diagnostiche rispetto ai tradizionali
marcatori di infezione. Il suo valore predittivo aumenta solo in caso
di condizione invasiva, come osservato in corso di infezioni delle vie
urinarie, in cui elevati livelli sierici di PCT sembrano correlare con la
presenza di danno renale.
Gli studi sul ruolo delle interleuchine, in particolare IL-6 e IL-8, nella diagnosi precoce di infezione batterica, suggeriscono che il loro
impiego potrebbe essere utile in corso di pielonefrite e sepsi in epoca neonatale. I dati sono però ancora insufficienti per definire l’importanza di questi marcatori nella diagnosi di infezioni batteriche. A
causa degli elevati costi e del tipo di metodica non tutti gli ospedali
possono inoltre beneficiare di tali indagini.
Nei pazienti immunocompromessi elevati livelli di PCT, PCR, IL-6 ed
IL-8 entro 24-48 ore dalla comparsa della febbre sembrano essere
un indice affidabile di infezione batterica, sebbene siano necessari
ulteriori studi al riguardo (Dornbusch, 2008).
Il marcatore di laboratorio in grado da solo di guidare la diagnosi e la
scelta terapeutica in bambini febbrili non è ancora stato identificato.
L’osservazione clinica resta di fondamentale importanza nella diagnosi precoce di infezione batterica. Il dosaggio combinato di diversi
marcatori di infezione, fra cui la PCT e la PCR, potrebbe tuttavia
essere utile, soprattutto nella diagnosi precoce di sepsi nei neonati e
nei lattanti (Okada, 2004). Nello studio di Galetto Lacour e coll., l’utilizzo di uno score diagnostico di laboratorio associato ad uno score
clinico nella diagnosi precoce di infezioni batteriche invasive e come
indici di terapia antibiotica ha dato buoni risultati. Recenti studi in
adulti hanno proposto il dosaggio sierico di PCT come discriminante
nell’inizio della terapia antibiotica ed il monitoraggio della risposta
alla terapia in corso di infezione batterica sistemica. Sarebbero utili
ulteriori approfondimenti in età pediatrica.
Nuovi potenziali candidati come marcatori di infezione batterica
sembrerebbero essere la lattoferrina, le mieloperossidasi, la neopterina e le prostaglandine. Lo scarso numero di studi in adulti e bambini e il ristretto numero di pazienti osservati non permette di valutare
il ruolo di questi parametri ai fini diagnostici.
Box di orientamento
Cosa si sapeva prima
Nei bambini febbrili la conta dei globuli bianchi, la PCR e il numero assoluto di neutrofili sono i marcatori di laboratorio più utilizzati nella diagnosi di
infezione batterica. Questi marcatori non sono in grado di dare informazioni sull’eziologia dell’infiammazione e sulla gravità dell’infezione.
Cosa sappiamo adesso
La PCR e la PCT sono marcatori di infezione più accurati rispetto alla conta dei globuli bianchi e al valore assoluto dei neutrofili nella diagnosi di infezione batterica in età pediatrica.
Il dosaggio combinato di questi markers offre una maggior performance diagnostica in bambini con sospetta sepsi, soprattutto in epoca neonatale.
I dosaggi delle interleuchine 6 e 8 potrebbero essere di supporto nella diagnosi precoce di sepsi neonatale e nel monitoraggio del decorso clinico in
presenza di pielonefriti e sepsi.
Cosa fare nella pratica clinca
L’utilizzo combinato di GB, neutrofili e PCR offre un buon supporto diagnostico alla clinica in bambini con febbre senza segni di localizzazione.
Il dosaggio della PCT in aggiunta a questi parametri è utile in fase precoce di infezione ed in condizioni particolari come le unità di terapia intensiva
neonatale e i dipartimenti pediatrici di emergenza di fronte a neonati e lattanti febbrili.
Dati i costi elevati dei dosaggi sierici delle interleuchine e la scarsità di dati in letteratura non è ancora possibile determinare il ruolo di questi parametri
nella diagnosi di infezione batterica.
19
M. Cellai Rustici et al.
Bibliografia
Andreola B, Bressan S, Callegaro S, et al. Procalcitonin and c-reactive protein as
diagnostic markers of severe bacterial infections in febrile infants and children
in the emergency department. Pediatr Infect Dis J 2007;26:672-7.
** Studio relativo al valore predittivo di PCT, PCR, GB e neutrofili in corso di
infezioni batteriche gravi in bambini di età compresa tra 7 giorni e 36 mesi con
febbre.
Bouadma L, Luyt CE, Tubach F, et al. Use of procalcitonin to reduce patients’
exposure to antibiotics in intensive care units (PRORATA trial): a multicentre randomised controlled. Lancet 2010;375:463-74.
* Vedi testo (studio commentato).
Butbul-Aviel Y, Koren A, et al. Procalcitonin as a diagnostic aid in osteomyelitis
and septic arthritis. Pediatr Emerg Care 2005;21:828-32.
Caldas JPS, Marba STM, Blotta MHS, et al. Accuracy of white blood cell count,
C-reactive protein, interleukin-6 and tumor necrosis factor alpha for diagnosing
late natal sepsis. J Pediatr 2008;84:536-42.
Catalano-Pons C, André MC, et. al. Lack value of procalcitonin for prediction of
coronary aneurysms in Kawasaki disease. Pediatr Infect Dis J 2007;26:179-80.
Don M, Valent F, Korppi M, et al. Differentiation of bacterial and viral communityacquired pneumonia in children. Pediatr Int 2009;51:91-6.
** Vedi testo (studio commentato).
Dornbusch HJ, Strenger V, Sovinz P, et al. Non-infectious causes of elevated
procalcitonin and C-reactive protein serum levels in pediatric patients with hematologic and oncologic disorders. Support Care Cancer 2008;16:1035-40.
Faesch S, Cojocaru B, Hennequin C, et al. Can procalcitonin measurement help
the diagnosis of osteomyelitis and septic arthritis? A prospective trial. Ital J Pediatr 2009;35:33.
Galetto Lacour A, Zamora SA, Gervaix A. A score identifying serious bacterial infections in children with fever without source. Pediatr Infect Dis J 2008;27:654-56.
** Vedi testo (studio commentato).
Huang DT, Huang FY, Tsai TC, et al. Clinical differentiation of acute pyelonephritis from lower urinary tract infection in children. J Microbiol Immunol Infect
2007;40:513-7.
Jones AE, Fiechtl JF, Brown MD, et al. Procalcitonin test in the diagnosis of bacteremia: a meta-analysis. Ann Emerg Med 2007;50:34-41.
** Più recente meta-analisi condotta anche su pazienti pediatrici che riporta
l’accuratezza diagnostica della PCT nella diagnosi delle batteriemie.
Khan DA, Rahman A, Khan FA. Is procalcitonin better than C-reactive protein
for the early diagnosis of bacterial pneumonia in children? J Clin Lab Anal
2010;24:1-5.
Korczowski B, Szybist W. Serum procalcitonin and C-reactive protein in children
with diarrhoea of various aetiologies. Acta Paediatr 2004;93:169-73.
Lopez Sastre, Perez Solis et al. Evaluation of procalcitonin for diagnosis of neonatal sepsis of vertical transmission. BMC Pediatrics 2007;7:9.
Mantadakis E, Plessa E, Vouloumanou EK, et al. Serum Procalcitonin for prediction of renal parenchymal involvement in children with urinary tract infections: A
meta-analysis of prospective clinical studies. J Pediatr 2009;155:875-81.
** Recente meta-analisi condotta sull’utilità della procalcitonina nella diagnosi
di danno renale in bambini con infezioni delle vie urinarie. In questo lavoro sono
stati analizzati più di 10 studi pubblicati tra il 1998 e il 2008.
Mohkam M, Karimi A, Karimi H, et al. Urinary interleukin-8 in acute pyelonephritis of children: a before-after study. Iran J Kidney Dis 2008;2:193-6.
Moro MR, Bonville CA, Suryadevara M, et al. Clinical features, adenovirus types,
and local production of inflammatory mediators in adenovirus infections. Pediatr
Infect Dis J 2009;28:376-80.
Moscandrew ME, Loftus EV Jr. Diagnostic advances in inflammatory bowel disease (imaging and laboratory). Curr Gastroenterol Rep 2009;11:488-95.
Okada Y, Minakami H, et al. Serum procalcitonin concentration in patients with
Kawasaki disease. J Infect 2004;48:199-205.
Olaciregui I, Hernández U, Muñoz JA, et al. Markers that predict serious bacterial
infection in infants under 3 months of age presenting with fever of unknown
origin. Arch Dis Child 2009;94:501-5.
* Vedi testo (studio commentato).
Pratt A, Attia MW. Duration of fever and markers of serious bacterial infection in
young febrile children. Pediatr Int 2007;49:31-5.
* Primo studio relativo all’accuratezza diagnostica del dosaggio di GB, neutrofili e
PCR in base alla durata della febbre nei bambini con infezione batterica grave.
Sakr Y, Sponholz C, Tuche F. The role of procalcitonin in febrile neutropenic patients: review of the literature. Infection 2008;36:396-407.
Sanders S, Barnett A, Correa-Velez I, et al. Systematic review of the diagnostic
accuracy of C-reactive protein to detect bacterial infection in non hospitalized
infants and children with fever. J Pediatr 2008;153:570-4.
* Revisione più recente sull’accuratezza diagnostica della PCR nella diagnosi
delle infezioni batteriche in bambini non ospedalizzati.
Santolaya ME, Alvarez AM, Aviles CL, et al. Predictors of severe sepsis not clinically apparent during the first twenty-four hours of hospitalization in children
with cancer, neutropenia, and fever: a prospective, multicenter trial. Pediatr Infect Dis J 2008;27:583-43.
* Vedi testo (studio commentato).
Scirè CA, Cavagna L et al. Diagnostic value of procalcitonin measurement
in febrile patients with systemic autoimmune disease. Clin Exp Rheumatol
2006;24:123.
Verboon-Maciolek MA, Thijsen SF, Hemels MA, et al. Inflammatory mediators for the diagnosis and treatment of sepsis in early infancy. Pediatr Res
2006;59:457-61.
Corrispondenza
Maurizio de Martino, Dipartimento di Pediatria, Università di Firenze Diparimento di Medicina Pediatrica, Ospedale Pediatrico Anna Meyer, viale Pieraccini
24, 50139 Firenze. Tel. +39 055 5662494 - +39 055 418211. Fax +39 055 4221012. E-mail: [email protected]
20
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 21-27
Ematologia
Recenti progressi in ematologia pediatrica
Paolo Moi, Simona Campus
Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologie, Università di Cagliari, Ospedale Regionale per le Microcitemie
Riassunto
Tra le novità in ematologia pediatrica emerse nella letteratura recente abbiamo scelto di presentare i progressi nell’identificazione di geni regolatori
dell’emoglobina F culminati con la scoperta del ruolo chiave svolto dal fattore Bcl11A. Studi funzionali hanno evidenziato che BCL11A agisce da repressore
dell’espressione γ-globinica e regola lo switching delle emoglobine, imponendosi come il principale modificatore della gravità clinica della β-talassemia
e dell’anemia falciforme. Tra le altre novità segnaliamo i progressi nella diagnosi delle delezioni estese del cluster α-globinico resi possibili dalla messa
a punto della tecnica MLPA e l’identificazione di patologie talassemiche da difetti genici in trans generalmente codificanti per fattori di trascrizione. Importanti progressi si sono realizzati anche nella scoperta di nuove anemie microcitiche genetiche associate o meno a turbe del metabolismo del ferro ed
emocromatosi. Per completezza abbiamo incluso nella revisione anche alcuni difetti genetici descritti solo in modelli animali che ci attendiamo anticipino
la descrizione della corrispondente patologia umana.
Summary
Among the most recent advances in the field of pediatric hematology, we selected to report the identification of genes that regulate the expression of hemoglobin F. We highlighted the discovery of the crucial role played by BCL11A, a repressor of the γ-globin gene expression that regulates the hemoglobin
switching and appears to be the most important modifier of the clinical severity of β-thalassemia and sickle cell disease. We next report recent progresses
in the diagnosis of large deletions of the α- and β-globin gene clusters made possible by the development of the Multiplex Ligation-dependent Probe
Amplification (MLPA) assay. Further advances have been made in the identification of regulatory genes that are responsible for thalassemias not linked to
the β-globin gene cluster. Finally, we present the discovery of novel genetic microcytic anemias with or without hemochromatosis that were possible only
after the discovery of the corresponding defect in animal models.
Novità nel campo della β-talassemia
e delle emoglobinopatie
Identificazione dei più importanti regolatori dell’emoglobina
fetale modificatori genetici della β-talassemia e dell’anemia
falciforme
La β-talassemia è caratterizzata da notevole variabilità nell’espressione clinica. È noto che la gravità clinica della malattia è influenzata
oltre che dal tipo di difetto genico anche da condizioni genetiche in
grado di compensare lo sbilanciamento della sintesi globinica indotto dalla talassemia. La coereditarietà dell’α-talassemia e/o la persistenza ereditaria di emoglobina fetale (HPFH) sono gli esempi più
noti di miglioramento clinico attribuibile al compenso dello squilibrio
globinico. Nello sforzo di identificare nuovi geni modificatori, gli studi
principali sono stati per decenni rivolti all’individuazione di fattori regolatori dell’espressione dell’emoglobina fetale. Fino a 2 anni
fa, queste ricerche avevano condotto all’identificazione di numerosi
fattori di trascrizione, ma non avevano (Camaschella et al., 2007)
consentito di scoprire nuovi geni modificatori della β-talassemia.
Negli ultimi 2 anni, approcci di genetica di popolazione hanno invece portato alla scoperta di alcuni fattori regolatori dell’emoglobina
fetale che sembrano spiegare gran parte della variabilità clinica sia
della talassemia che dell’anemia falciforme.
Studi genetici
In un primo studio d’associazione su scala genomica condotto su una
popolazione d’individui distinti in alti o bassi produttori di cellule contenenti emoglobina fetale (F cellule), il gruppo della Thein in Inghilterra ha evidenziato che polimorfismi del gene BCL11A, appartenente
alla famiglia degli Zn finger, erano fortemente associati con variazioni
nel numero di F cellule circolanti (Menzel et al., 2007). Nello stesso
studio si confermava anche l’associazione tra numero di F cellule e
una regione intergenica tra i geni HBS1L-MYB, mentre un terzo locus
con forte associazione sul cluster dei geni globinici era probabilmente da riferire al polimorfismo XmnI sul promotore γ-globinico, già noto
per la sua influenza sulla produzione di emoglobina fetale. Quasi contemporaneamente l’associazione del gene BCL11A con la quantità di
emoglobina fetale è stata confermata sulla popolazione sarda in uno
studio d’associazione su scala genomica molto più ampio (Uda et al.,
2008). In questo studio la significatività più alta dell’associazione era
con polimorfismi del gene BCL11A e si confermavano le precedenti
associazioni sul cluster globinico e sulla regione HBS1L-MYB.
Evidenze su modelli cellulari e murini
Utilizzando RNA interferenti BCL11A-specifici, Sankaran et al. hanno
dimostrato che l’azione fisiologica di BCL11A è quella di sopprimere
la produzione di catene γ-globiniche e quindi dell’emoglobina fetale
(Sankaran et al., 2008). In uno studio più recente (Sankaran et al.,
2009), gli stessi autori confermavano in vivo la funzione repressiva
di BCL11A sui geni γ-globinici in modelli murini ottenuti dall’incrocio
di topi knock out deficienti in BCL11A con topi transgenici contenenti l‘intero cluster β-globinico umano (β-YAC). Nei topi composti
genetici β-YAC /BCL11A null non si verificava il normale evento della commutazione delle emoglobine da fetali ad adulte (hemoglobin
switching) e si osservava una persistenza elevata di emoglobina fetale nell’età adulta. Queste osservazioni, oltre che chiarire uno dei
misteri più affascinanti della regolazione dell’emoglobina, gettano le
basi per una possibile futura terapia della β-talassemia e dell’anemia falciforme con antagonisti o inibitori della proteina BCL11A.
Evidenze cliniche
Infine, l’importanza dei geni BCL11A e MYB è stata consolidata da
osservazioni cliniche in soggetti umani. In Sardegna, polimorfismi del
21
P. Moi, S. Campus
gene BCL11A hanno mostrato un’associazione fortemente significativa con la diversa evoluzione clinica della β-talassemia (Uda et al.,
2008). Infatti, la variante omozigote C/C del polimorfismo intronico di
BCL11A è stata rinvenuta nel 19% delle forme attenuate (talassemia
intermedia), ma solo nel 4% delle forme gravi (talassemia major). La
distribuzione asimmetrica sicuramente non casuale (p = 6,49 x106) in gruppi omogenei per le altre variabili genetiche note, supporta un chiaro effetto migliorativo della variante genica sulla gravità
della malattia. L’associazione di polimorfismi BCL11A con l’elevata
emoglobina fetale è stata confermata in una coorte di 1242 soggetti
afro-americani con anemia falciforme (Uda et al., 2008).
In una coorte ancora più estesa comprendente individui brasiliani con
anemia falciforme, i polimorfismi dei geni BCL11A, MYB e XmnI erano fortemente associati con la riduzione della frequenza degli episodi
dolorosi attribuibili a crisi falcemiche (Lettre et al., 2008). Considerando che il numero di episodi dolorosi è strettamente correlato con
la gravità della malattia, la presenza dei polimorfismi genetici può essere utilizzata per la predizione della gravità dell’anemia falciforme.
In Sardegna uno studio simile, condotto su individui β-talassemici,
ha dimostrato che la combinazione di polimorfismi protettivi dei geni
BCL11A, HBS1L-MYB e dell’α-talassemia spiega l’evoluzione favorevole che si osserva nella maggior parte dei soggetti sardi con talassemia intermedia, rendendo conto del 75% della variabilità fenotipica
osservata (Galanello et al., 2009). Ciò induce a ipotizzare che, anche
in questo caso, la caratterizzazione genotipica sarebbe d’ausilio al
clinico nella decisione spesso difficile riguardo all’inizio della terapia
trasfusionale nei soggetti talassemici con evoluzione clinica a cavallo
tra la forma intermedia e la major. Le analisi genetiche e cliniche fin
qui effettuate inducono a ritenere che i geni regolatori fetali recentemente scoperti siano i più importanti determinanti della variazione
genetica nella quantità di emoglobina fetale e che la rimanente quota
di varianza genetica non ancora spiegata sia da distribuire tra numerosi altri geni contribuenti ciascuno con piccoli effetti.
Anemie microcitiche genetiche di recente
caratterizzazione
Le cause più frequenti di anemia microcitica sono la carenza di ferro
e lo stato di portatore di α- o β-talassemia. Più raramente l’anemia
microcitica è attribuibile a difetti genetici che interferiscono con il
metabolismo del ferro o dell’eme. Questi difetti, pur riconosciuti da
tempo come entità cliniche distinte, solo recentemente sono stati
chiariti nei loro meccanismi molecolari. La recente accelerazione nella conoscenza della patogenesi di queste malattie è stata possibile
solo dopo che il gene responsabile è stato identificato in modelli animali pre-esistenti o artificialmente creati dall’uomo con l’inattivazione genica per ricombinazione omologa. I difetti genetici che causano
anemie microcitiche sono strettamente interconnessi con i difetti del
metabolismo del ferro che è riassunto schematicamente in Figura 1.
Per un approfondimento sulle anemie microcitiche genetiche si rimanda all’esaustiva e aggiornata revisione pubblicata su Haematologica (Iolascon et al., 2009).
Talassemie atipiche
β-talassemia maior o intermedia da interazione β-eterozigosi/
duplicazione del cluster dei geni α-globinici (αααα/ααα o
αααα/αα)
Le anemie microcitiche con fenotipo β-talassemico rappresentano da sempre un capitolo estremamente affascinante e complesso
dell’ematologia pediatrica.
22
Tabella I.
Anemie microcitiche genetiche di recente definizione molecolare.
A. Talassemie atipiche
• β-talassemia da interazione β-eterozigosi/ quadruplicazione cluster
geni α-globinici
• Talassemie da difetti in geni regolatori o modificatori
–– β-talassemia eterozigote da difetto GATA-1
–– β-talassemia eterozigote da difetto EKLF/KLF1
–– β-talassemia eterozigote da difetto TFIIH
–– Malattia da emoglobina H da difetto ATR-X
–– α-talassemia da difetto del gene AHSP
B. Anemie emocromatosiche sideroblastiche
• Difetto di ALAS
• Difetto ABCB7
• Difetto di Glutaredoxina 5
C. Anemie emocromatosiche non sideroblastiche
• Difetto DMT1
• Difetto mitoferrina*
D. Anemie sideropeniche genetiche
•
•
•
•
•
Difetto TMPRSS6 (IRIDA)
Difetto di Efestina*
Difetto STAT5A/B*
Difetto Sec15L*
Difetto di IRP2*
* Fenotipo descritto solo in modelli animali
Classicamente le β-talassemie sono causate da mutazioni autosomiche recessive nel gene che codifica per le catene β-globiniche
dell’emoglobina con deficitaria produzione di emoglobina adulta
α2β2 (HbA) e conseguente eritropoiesi inefficace. La ridotta o assente produzione di catene beta determina uno sbilanciamento del rapporto esistente tra catene alfa e beta prodotte a livello di precursori
eritroidi con eccesso relativo di catene alfa (α/β > 1). Quest’ultime,
essendo altamente instabili, tendono a precipitare già allo stadio di
eritroblasti determinando un danno di membrana e conseguente eritropoiesi inefficace.
L’entità dello sbilanciamento, variabile da soggetto a soggetto, condiziona il fenotipo, estremamente variabile, dei pazienti affetti da
β-talassemia. Accanto allo stato di portatore asintomatico (talassemia minor) si ritrovano le forme con lieve-moderata anemia non
trasfusione-dipendente (talassemia intermedia) fino ad arrivare alle
forme classiche con anemia grave trasfusione-dipendente (talassemia major).
L’estrema eterogeneità fenotipica riscontrata nelle sindromi talassemiche può essere spiegata dai molteplici meccanismi molecolari
implicati, purtroppo solo in parte noti, che sono in grado di influenzare il rapporto di produzione tra catene alfa e non alfa. Il fatto di
co-ereditare un’α-talassemia o, al contrario, una triplicazione dei
geni alfa e/o di presentare un aumento dell’emoglobina fetale (HbF)
consentirebbe così di attenuare o aggravare il fenotipo atteso, sulla
base del solo genotipo al locus beta.
Negli ultimi anni, l’avvento di metodiche di biologia molecolare ad
alta risoluzione come la Multiplex ligation-dependent probe amplification (MLPA) ha permesso di spiegare perché alcuni pazienti che
risultavano essere “semplici” eterozigoti per la β-talassemia potessero presentare un fenotipo intermedio o major.
Nel 2008 veniva riportato il caso di un paziente con trait β-talassemico
che presentava un fenotipo intermedio di gravità inaspettata, tale da
richiedere regolari emotrasfusioni (Harteveld et al., 2008). Le indagini
Recenti progressi in ematologia pediatrica
molecolari al locus alfa avevano permesso di identificare un riarrangiamento con triplicazione dei geni α-globinici che, in associazione
alla condizione di eterozigosi β°/β, non poteva tuttavia giustificare
un quadro clinico così severo. È noto infatti, come l’eccesso di un
singolo gene α, sia in grado solo di generare un’anemia lievemente
più pronunciata nel paziente eterozigote per β-talassemia (TraegerSynodinos et al., 1996). La disponibilità dell’MLPA, ha consentito
l’identificazione nello stesso paziente di una duplicazione segmentale estesa, con quadruplicazione dei geni alfa, sull’altro cromosoma
16 (αααα/ααα). Il contributo di 3 geni α-globinici sovrannumerari,
consentiva così di spiegare l’elevato sbilanciamento biosintetico tra
le catene globiniche prodotte.
Nel 2009, sempre grazie all’impiego dell’MLPA, è stato possibile di-
mostrare che alcuni pazienti sardi eterozigoti per β-talassemia, ma
affetti da talassemia intermedia, avevano un cluster alfa duplicato
associato con un normale cluster alfa sull’altro cromosoma (αααα/
αα) (Sollaino et al., 2009) e non un’interazione β°/β silente come
fino ad allora ritenuto. In questi individui la maggior gravità dello
squilibrio biosintetico si attribuisce alla maggior estensione della
duplicazione del cluster α-globinico che include anche le regioni enhancer (HS40) a monte dei geni α. La doppia dose di stimolo dell’enhancer duplicato sui geni α-globinici a valle potrebbe spiegare la
talassemia major con soli 6 geni α in luogo dei 7 geni α descritti nei
pazienti precedenti. Ai fini della consulenza genetica è importante
sottolineare che questa combinazione genetica comporta la possibilità di trasmissione autosomica dominante della β-talassemia con
Figura 1.
Omeostasi sistemica del ferro e regolazione dell’espressione dell’epcidina. Il ferro è assorbito per opera del trasportatore divalente di metalli 1
(DMT-1) dagli enterociti duodenali col concorso della ferroreduttasi Steap-3 ed esportato nel plasma dalla ferroportina col concorso della ferrossidasi Efestina. Nel plasma il ferro viaggia legato alla transferrina (Tf) e viene captato dal recettore della transferrina1 (TfR1) da tutti i tessuti
incluso il midollo osseo, dove è utilizzato per l’eritropoiesi. Gli eritrociti senescenti vengono captati dai macrofagi della milza e il loro ferro riciclato
nel plasma. Il ferro plasmatico in eccesso rispetto alla capacità legante della transferrina si deposita nel fegato. L’epcidina, un ormone peptidico
secreto dal fegato, regola l’assorbimento enterico, il riciclo e la mobilizzazione del ferro macrofagico legandosi alla ferroportina e determinandone
la internalizzazione e degradazione nei lisosomi. Il gene HAMP, che codifica per l’epcidina, è attivato in risposta all’eccesso di ferro o da citochine
infiammatorie quali IL6. L’aumento del ferro e della transferrina plasmatica determinano la stabilizzazione del recettore transferrinico 2 (TfR2)
dovuta alla traslocazione della proteina dell’emocromatosi (HFE) dal TfR1 al TfR2. Il complesso TfR2-HFE si associa con l’emojuvelina (HJV), un corecettore di proteine morfogenetiche dell’osso (bone morphogenetic proteins, BMPs) facilitandone l’attivazione della via segnale BMPR/R-SMAD/
SMAD4 che conduce alla stimolazione dell’espressione del gene HAMP. Alcune BMPs attivano la via segnale indipendentemente dall’azione del
complesso HFE/HJV/TfR2. La riduzione della concentrazione di ferro stimolerebbe le proteasi TMPRSS6/matriptasi-2 o furina alla digestione della
HJV e al conseguente distacco della forma solubile di emojuvelina (sHJV) che blocca il recettore BMP. L’espressione di epcidina è possibile per
una via alternativa in cui IL6 o altre citochine, interagendo con il recettore IL6R, fosforilizzano e attivano STAT3 (signal transducer and activator of
transcription 3).
23
P. Moi, S. Campus
un meccanismo finora sconosciuto in quanto entrambi gli alleli determinanti la talassemia possono provenire dallo stesso genitore.
Sono infatti conosciuti casi di individui affetti da talassemia major
nati con la trasmissione ereditaria appena descritta da coppie in cui
un membro aveva talassemia intermedia e l’altro era ematologicamente normale.
Talassemie da difetti in geni regolatori o modificatori
β-talassemia eterozigote da difetto GATA1 (associata a porfiria
eritropoietica e piastrinopenia)
La porfiria eritropoietica congenita (congenital erythropoietic porfiria, CEP) è una rara patologia a trasmissione autosomica recessiva
causata da difetti dell’enzima Uroporfirina-sintasi (UROS). Il difetto
conduce ad accumulo intraeritrocitario e tessutale di un metabolita
alternativo chiamato uroporfirina I (URO I) responsabile del quadro
clinico di anemia emolitica e fotosensibilità.
Nella maggior parte dei difetti UROS, l’analisi molecolare del gene
ha permesso l’identificazione di mutazioni puntiformi intrageniche.
Nel 2001 è stata descritta anche la presenza di mutazioni puntiformi a livello del promotore eritroide-specifico del gene URO-sintasi
(Solis et al., 2001) in pazienti con fenotipo classico di CEP semplici eterozigoti per le mutazioni classiche. Le nuove mutazioni del
promotore occorrevano in siti di legame di consenso di GATA-1, il
fattore di regolazione più importante dell’eritropoiesi. Sulla base
della precedente osservazione, nel 2007 è stato descritto un caso
di CEP ancora più interessante (Phillips et al., 2007). In un soggetto
di sesso maschile con fenotipo classico di CEP (dermatite bollosa
fotosensibile e aumento delle porfirine urinarie), ma con un’anemia
microcitica ipocromica con fenotipo talassemico e piastrinopenia, in
luogo dell’usuale anemia emolitica, si è scoperto che la mutazione
non era sul gene UROS, né sui geni globinici, ma era in trans nello
Zn finger del gene GATA-1 (R216W). 
β-talassemia eterozigote da difetto EKLF/KLF1
Recentemente, un’anemia diseritropoietica precedentemente idiopatica è stata attribuita ad una mutazione eterozigote non conservativa, Glu325Lys, nello Zn finger del fattore di trascrizione eritroide
specifico EKLF (Singleton et al., 2009).
L’anemia associata è di tipo normocromico normocitico con esordio
precoce ed è di severità tale da richiedere trasfusioni regolari. Nel
sangue periferico si riscontrano inclusioni atipiche eritrocitarie e la
persistenza delle globine embrio-fetali (ζ, ε e γ) con 40% di HbF. La
mutazione riduce notevolmente l’espressione del gene β-globinico
senza modificare il legame di EKLF al DNA.
Oltre che in fattori di trascrizione eritroide specifici quali GATΑ-1 e
EKLF, difetti di fattori di trascrizione responsabili di anemie microcitiche talassemiche sono stati precedentemente descritti in altri 2
fattori di trascrizione che, pur essendo espressi ubiquitariamente,
esercitano un controllo preferenziale sui geni α- o β-globinici.
Il primo è il difetto del gene ATRX (α-thalassemia mental retardation syndrome x-linked) che associa un quadro sindromico di ritardo
mentale ad una malattia da emoglobina H (Gibbons et al., 1995). Il
secondo è il difetto del gene TFIIH che determina tricotiodistrofia e
un quadro clinico di β-talassemia minor (Viprakasit et al., 2001).
Infine è stata recentemente descritta anche una forma di
α-talassemia umana legata al difetto nel gene modificatore AHSP
(Pissard et al., 2009), una proteina chaperone con funzioni stabilizzatrici sulle catene α-globiniche. Un difetto missenso Val56Gli allo
stato omozigote determina instabilità della proteina AHSP, riduzione
di 2-3 volte dell’affinità per le catene α-globiniche e anemia emoli-
24
tica di tipo microcitico ipocromico. Paradossalmente, il difetto in un
gene modificatore produce un’anemia più severa dei difetti strutturali dei geni α-globinici.
Anemie emocromatosiche sideroblastiche
Le anemie sideroblastiche sono caratterizzate da ipocromia periferica con emocromatosi e sideroblasti ad anello nel midollo osseo evidenziabili con la colorazione al Blu di Prussia (Camaschella, 2008;
Sheftel et al., 2009). Il patognomonico anello che contorna i nuclei
degli eritroblasti è formato da mitocondri infarciti di ferro. I sideroblasti sono la conseguenza di difetti in proteine mitocondriali che
regolano il metabolismo del ferro o delle protoporfirine (Fig. 2).
L’anemia sideroblastica legata all’X è provocata da difetti della prima
tappa biosintetica delle protoporfirine, il difetto di δ-aminolevulinico
sintasi 2 (ALAS2), l’isoforma eritroide specifica situata sul cromosoma X. Sono noti sia un modello di zebrafish (sauternes, sau) (Brownlie et al., 1998), che un modello murino (Yamamoto and Nakajima,
2000). L’anemia è di tipo microcitico ipocromico con sideroblasti
midollari ad anello che, paradossalmente, si producono quando residua una debole attività enzimatica, ma non nel difetto totale. Il
ferro non incorporato nella protoporfirina si deposita sotto forma di
ferritina nei mitocondri perinucleari generando specie di ossigeno
altamente reattive (Reactive oxygen species, ROS) e morte cellulare
precoce (Cazzola et al., 2003).
L’età d’esordio è variabile e, non trattata, conduce a morte il soggetto in giovane età per emocromatosi di grado elevato sproporzionata
rispetto al numero di trasfusioni ricevute.
In caso di splenectomia sono presenti in circolo siderociti. Poiché le
mutazioni geniche sono spesso situate nel dominio d’interazione con
il cofattore piridossalfosfato, una parte di queste anemie sideroblastiche risponde al trattamento con piridossina (Cotter et al., 1999).
Anemia sideroblastica con atassia legata all’X
Questa sindrome è dovuta al difetto del gene trasportatore ABCB7
(Allikmets et al., 1999), implicato nel trasporto dei cluster ferro-sulfurici dal mitocondrio al citosol. L’anemia ipocromico-microcitica è
per lo più modesta ed è quasi sempre preceduta dall’atassia progressiva truncale legata a degenerazione spino-cerebellare. Il ferro
si accumula nei mitocondri e la protoporfirina libera aumenta nel
siero (Bekri et al., 2000). Per analogia con l’atassia di Friedreich, responsiva alla terapia ferrochelante (Boddaert et al., 2007), si ritiene
che l’accumulo di ferro sia la probabile causa della degenerazione
neuronale.
Anemia sideroblastica da difetto di Glutaredoxina
Le glutaredoxine sono piccole proteine dei cluster ferro-sulfurici
con attività disulfide ossidoreduttasica. Il difetto di glutaredoxina 5
(GRX5) comporta accumulo di ferro mitocondriale e di ROS. La sua
assenza nel modello shiraz di zebrafish, determina una grave anemia ipocromica, blocco dell’ematopoiesi definitiva e letalità embrionaria (Wingert et al., 2005). Nell’unico caso umano finora descritto,
il paziente presentava anemia microcitica sideroblastica progressiva
con l’età fino alla trasfusione-dipendenza (Camaschella et al., 2007).
L’anemia era parzialmente responsiva alla terapia ferrochelante con
desferroxiamina.
Anemie emocromatosiche senza sideroblasti
Difetti del trasportatore DMT1
Il difetto del gene DMT1 è stato inizialmente descritto nel modello
murino mk (Fleming et al., 1997) e nel ratto belgrade (Fleming et al.,
Recenti progressi in ematologia pediatrica
Figura 2.
Localizzazione subcellulare delle proteine i cui difetti determinano anemie genetiche microcitiche negli esseri umani o in modelli animali (*). Sono
rappresentati i vari percorsi del ferro intracellulare: l’assorbimento intestinale, l’esporto e il legame alla transferrina, la riduzione a ferroso e l’ossidazione a ferrico, la cattura della transferrina dal TfR1, l’ internalizzazione di TrF1 e Tf, il trasferimento del ferro alla ferritina o ai mitocondri e il
riciclo dellaTf e TfR1. La localizzazione di DMT-1 nei microvilli e di efestina sulla membrana basale è specifica degli enterociti. Negli epatociti, la
ceruloplasmina (non visualizzata) sostituisce l’efestina nella funzione di ossidoriduzione del ferro ferroso esportato dalla ferroportina. Nella figura
è anche schematizzato la regolazione operata dalle IRP tramite legame alla 5’UTR che inibisce la traduzione o il legame agli IRE della 3’UTR che
stabilizza l’mRNA e aumenta l’espressione deI RNA bersaglio. I difetti associati ad emocromatosi sono sottolineati. Abbreviazioni: TfR1: Transferrrin
receptor 1; Tf: Transferrina; GRX5: glutaredoxina 5; DMT-1: Divalent metal transporter 1; Stat5a/b: Signal transduction and activation of transcription 5; Steap-3: Transmembrane epithelial antigen of the prostate 3; TMPRSS: Type 2 transmembrane serine protease 6; IRP2: Iron responsive
protein 2;ALAS: delta-Amino-Levulinic-Acid Synthase; CFS: Cluster ferro-sulfurici.
1998). Entrambi i modelli hanno un difetto dello stesso codone proteico e la stessa mutazione G185R che cade nel dominio transmembranoso della proteina trasportatrice. Il conseguente blocco dell’assorbimento intestinale e del riciclo del ferro macrofagico determina
in entrambi gli animali una grave anemia microcitica e ipocromica.
L’anemia microcitica da difetto DMT1 esiste anche in zebrafish che,
come d’uso nei difetti ematologici in questo modello di pesce, prende il nome di un vino (chardonnay, cdy) (Donovan et al., 2002).
Il difetto DMT1 è stato finora descritto in soli 3 soggetti umani. Nei
difetti genici gravi, l’anemia è presente fin dalla nascita con microcitosi e marcata ipocromia (Mims et al., 2005). L’anemia è paradossalmente associata ad aumento degli indici di sovraccarico di ferro con
saturazione della transferrina e ferritina elevate ed emocromatosi
epatica precoce. L’anemia risponde alla terapia con eritropoietina
(Pospisilova et al., 2006), ma non alla ferro-chelazione. Il meccanismo del sovraccarico marziale non è stato ancora chiarito.
Il difetto di mitoferrina non è stato ancora identificato in patologia
umana e verrà descritto nella sezione successiva sui modelli animali.
Anemie sideropeniche genetiche
Difetto del gene TMPRSS6 (IRIDA)
TMPRSS6 o matriptasi-2 è una proteasi serinica transmembranosa
prodotta principalmente nel fegato. Il difetto umano è stato recentemente descritto sulla scia della definizione del corrispondente modello murino (Du et al., 2008), il topo Mask, che associa un’anemia
microcitica ad alopecia truncale del manto pilifero. Anche nei pazienti umani (Finberg et al., 2008), l’anemia è di tipo ipocromico microcitico, ma a differenza del topo mask è totalmente refrattaria alla
terapia con ferro solfato orale (IRIDA, iron refractory iron deficient
anemia) e solo parzialmente responsiva alla terapia marziale per via
parenterale (Melis et al., 2008). Il marcatore biochimico di questa
condizione è il paradossale incremento dell’epcidina pur in presenza
di basse concentrazioni plasmatiche di ferro. L’inibizione dell’epcidina operata dal TMPRSS6 è dominante su tutti gli altri segnali di
stimolo della sua espressione. L’effetto TMPRSS6 sull’epcidina non è
diretto, ma mediato da altri fattori ancora sconosciuti. L’insufficiente
25
P. Moi, S. Campus
risposta alla terapia parenterale è verosimilmente attribuibile alla
difettosa gestione del ferro macrofagico indotta dal difetto TMRSS6
(Beshara et al., 1999).
Anemie sideropeniche in modelli animali
Alcune anemie genetiche sono tuttora riconosciute solo in modelli
animali naturali o artificiali. La scoperta delle corrispondenti malattie umane ancora ignote può essere favorita dalla conoscenza dei
fenotipi animali.
L’Efestina è una ferrossidasi della membrana degli enterociti che
catalizza la conversione del ferro ferroso esportato dalla ferroportina in ferro ferrico destinato al legame con la transferrina (Fig. 2). Il
topo sla (sex-linked anemia) deficiente in Efestina sviluppa anemia
ipocromica microcitica.
La cattura del ferro transferrinico circolante ad opera dei precursori eritroidi è facilitata da una ferroreduttasi endosomica (Steap3,
6-transmembrane epitelial antigen of prostate) che fa l’operazione
inversa rispetto all’efestina convertendo il ferro ferrico in ferroso.
Difetti del gene Steap3 provocano un’anemia microcitica ipocromica
simil-sideropenica nel modello murino naturale nm1054. Un altro
gene orfano di malattia umana è STAT5A/B, che stimola l’espressione del recettore della transferrina 1 (TrR1) e quindi la cattura del
complesso ferro-transferrina da parte di tutte le cellule dell’organismo. Il difetto STAT5A/B nel topo è anch’esso causa di anemia
ipocromica microcitica di origine genetica. Il processo esocitosico
della transferrina libera è invece mediato dal complesso della esocisti, costituito da 8 proteine aderenti alla membrana plasmatica o
alla vescicola endosomica che mediano il traffico di vescicole Golgimembrana. Il difetto nella proteina vescicolare Sec15L è responsabile di un’anemia microcitica da ridotto riciclo della transferrina in un
modello murino di anemia ipocromica microcitica (hbd, hemoglobindeficit).
Il ferro emico, proveniente dal riciclo endosomico dei globuli rossi
degradati, è trasferito dalla proteina DMT1 della vescicola endosomiale nel citoplasma e da qui esportato dalla ferroportina nella circolazione generale (Fig. 1) o traghettato dalla mitoferrina (SLC25a37)
nei mitocondri per essere incorporato nell’eme o nei cluster ferrosulfurici. Il difetto della mitoferrina nel modello di anemia frascati in
zebrafish impedisce l’incorporazione del ferro nella protoporfirina IX
e determina una grave anemia ipocromica microcitica con arresto
differenziativo allo stadio di eritroblasti.
Infine una ulteriore anemia microcitica murina è causata da difetti
del gene IRP2 (Iron Regulatory Protein 2). La proteina IRP2 è un regolatore post-trascrizionale della concentrazione del ferro intracellulare. L’aumento della concentrazione del ferro induce la degradazione proteasomica di IRP2. Il legame di IRP2 (o dell’omologa IRP1)
agli elementi responsivi (IRE, Iron Responsive Elements) posti sull’
RNA dei trascritti genici in 5’ inibisce l’espressione genica, il legame
agli IRE in 3’ ha invece attività stabilizzante l’RNA e quindi stimolante la produzione di quella proteina. L’assenza di IRP2 per difetto
genetico simula un’inesistente aumento concentrazione di ferro con
deviazione del metabolismo verso la riduzione del suo assorbimento, captazione e utilizzazione cellulare, determinando un’anemia sideropenica reattiva.
Box di orientamento
Geni regolatori dell’emoglobina fetale
Dopo anni di ricerche sono stati finalmente identificati i principali geni regolatori della produzione dell’emoglobina fetale.
La scoperta rende possibile lo sviluppo di farmaci modulatori della sua espressione che avrebbero utilità terapeutica nella talassemia e nell’anemia
falciforme.
L’analisi dei genotipi dei geni regolatori dell’HbF consente già oggi di formulare previsioni sull’evoluzione clinica della talassemia e dell’anemia falciforme e assiste nella difficile decisione sull’eventuale inizio della terapia trasfusionale nella β-talassemia clinicamente border line tra intermedia e
major.
Talassemie atipiche
Classicamente le β-talassemie sono causate da mutazioni del gene β-globinico trasmesse con modalità autosomica recessiva. La disponibilità di
metodiche di biologia molecolare ad alta risoluzione (MPLA) ha permesso di definire la patologia molecolare di condizioni talassemiche prima inspiegabili e di comprendere come pazienti semplici eterozigoti per la β-talassemia potessero presentare un fenotipo da moderato a grave in relazione al
sovrannumero di geni α-globinici (αααα/ααα o αααα/αα).
La scoperta apre problematiche nuove nella consulenza genetica per β-talassemia quando un membro della coppia sia affetto da talassemia intermedia o major con difetto in un solo gene β-globinico. In questo caso non è possibile escludere a priori il rischio di talassemia major nei figli per la possibile
trasmissione della β-talassemia con 2 alleli recessivi ereditati da un solo genitore.
Talassemie da difetti in geni regolatori
Per lungo tempo è stata ipotizzata l’esistenza di talassemie da difetti in trans ai geni globinici. Negli ultimi anni sono state identificate le prime condizioni
talassemiche, generalmente sindromiche, attribuibili a difetti in geni che codificano per fattori di trascrizione sia eritroido-specifici (GATA1 e EKLF) che
ubiquitari (ATRX e TFIIH).
Ancora più recente è la descrizione di una condizione di α-talassemia da difetto in un gene modificatore (AHSP).
Nuove anemie microcitiche genetiche
Sulla scia della definizione di difetti genici responsabili di anemie in modelli animali sono stati individuati i corrispondenti difetti genetici per un discreto
numero di malattie umane a fenotipo eritropoietico.
Queste scoperte hanno contribuito a chiarire nuove tappe del metabolismo del ferro e la patofisiologia di alcune anemie ipocromiche microcitiche.
Abbiamo incluso per completezza anche una breve descrizione dei difetti animali che sono tuttora orfani della corrispondente malattia umana.
26
Recenti progressi in ematologia pediatrica
Bibliografia
Allikmets R, Raskind WH, Hutchinson A, et al. Mutation of a putative mitochondrial iron transporter gene (ABC7) in X-linked sideroblastic anemia and ataxia
(XLSA/A). Hum Mol Genet 1999;8:743-9.
Bekri S, Kispal G, Lange H, et al. Human ABC7 transporter: gene structure and
mutation causing X-linked sideroblastic anemia with ataxia with disruption of
cytosolic iron-sulfur protein maturation. Blood 2000;96:3256-64.
Beshara S, Lundqvist H, Sundin J, et al. Pharmacokinetics and red cell utilization
of iron(III) hydroxide-sucrose complex in anaemic patients: a study using positron emission tomography. Br J Haematol 1999;104:296-302.
Boddaert N, Le Quan Sang KH, Rotig A, et al. Selective iron chelation in Friedreich
ataxia: biologic and clinical implications. Blood 2007;110:401-8.
Brownlie A, Donovan A, Pratt SJ, et al. Positional cloning of the zebrafish
sauternes gene: a model for congenital sideroblastic anaemia. Nat Genet
1998;20:244-50.
Camaschella C. Recent advances in the understanding of inherited sideroblastic
anaemia. Br J Haematol 2008;143:27-38.
** Puntuale revisione sulla patologia molecolare delle anemie sideroblastiche.
Camaschella C, Campanella A, De Falco L, et al. The human counterpart of zebrafish shiraz shows sideroblastic-like microcytic anemia and iron overload.
Blood 2007;110:1353-8.
Cazzola M, Invernizzi R, Bergamaschi G, et al. Mitochondrial ferritin expression in
erythroid cells from patients with sideroblastic anemia. Blood 2003;101:19962000.
Cotter PD, May A, Li L, et al. Four new mutations in the erythroid-specific 5-aminolevulinate synthase (ALAS2) gene causing X-linked sideroblastic anemia: increased pyridoxine responsiveness after removal of iron overload by phlebotomy
and coinheritance of hereditary hemochromatosis. Blood 1999;93:1757-69.
Donovan A, Brownlie A, Dorschner MO, et al. The zebrafish mutant gene
chardonnay (cdy) encodes divalent metal transporter 1 (DMT1). Blood
2002;100:4655-9.
Du X, She E, Gelbart T, et al. The serine protease TMPRSS6 is required to sense
iron deficiency. Science 2008;320:1088-92.
* Il modello animale che ha consentito la definizione molecolare delle IRIDA.
Finberg KE, Heeney MM, Campagna DR, et al. Mutations in TMPRSS6 cause ironrefractory iron deficiency anemia (IRIDA). Nat Genet 2008;40:569-71.
Fleming MD, Romano MA, Su MA, et al. Nramp2 is mutated in the anemic Belgrade (b) rat: evidence of a role for Nramp2 in endosomal iron transport. Proc
Natl Acad Sci USA 1998;95:1148-53.
Fleming MD, Trenor CC, 3rd, Su MA, et al. Microcytic anaemia mice have a mutation in Nramp2, a candidate iron transporter gene. Nat Genet 1997;16:383-6.
Galanello R, Sanna S, Perseu L, et al. Amelioration of Sardinian beta0 thalassemia by genetic modifiers. Blood 2009;114:3935-7.
Gibbons RJ, Picketts DJ, Villard L, et al. Mutations in a putative global transcriptional regulator cause X-linked mental retardation with alpha-thalassemia (ATRX syndrome). Cell 1995;80:837-45.
* Prima descrizione di una forma di talassemia da difetto in trans ai geni globinici.
Iolascon A, De Falco L, Beaumont C. Molecular basis of inherited microcytic
anemia due to defects in iron acquisition or heme synthesis. Haematologica
2009;94:395-408.
*** Revisione aggiornata e completa dei difetti genetici responsabili di anemie
microcitiche negli esseri umani e neivari modelli animali.
Lettre G, Sankaran VG, Bezerra MA, et al. DNA polymorphisms at the BCL11A,
HBS1L-MYB, and beta-globin loci associate with fetal hemoglobin levels and
pain crises in sickle cell disease. Proc Natl Acad Sci USA 2008;105:11869-74.
* Associazione Bcl11A on severità delle crisi dolorose nei soggetti falcemici.
Melis MA, Cau M, Congiu R, et al. A mutation in the TMPRSS6 gene, encoding a
transmembrane serine protease that suppresses hepcidin production, in familial
iron deficiency anemia refractory to oral iron. Haematologica 2008;93:1473-9.
* Identificazione della mutazione nel gene TMPRSS6 nelle famiglie sarde precedentemente utilizzate per la definizione del locus cromosomico.
Menzel S, Garner C, Gut I, et al. A QTL influencing F cell production maps to
a gene encoding a zinc-finger protein on chromosome 2p15. Nat Genet
2007;39:1197-9.
** Prima descrizione dell’associazione tra Bcl11A e HbF.
Mims MP, Guan Y, Pospisilova D, et al. Identification of a human mutation of DMT1 in a patient with microcytic anemia and iron overload. Blood
2005;105:1337-42.
Phillips JD, Steensma DP, Pulsipher MA, et al. Congenital erythropoietic porphyria due to a mutation in GATA1: the first trans-acting mutation causative for a
human porphyria. Blood 2007;109:2618-21.
Pissard S, Vasseur C, Toutain F, et al. Unstable Alpha Hemoglobin Stabilizing Protein as a cause of thalassemia: proof of concept Blood 2009;114:191.
Pospisilova D, Mims MP, Nemeth E, et al. DMT1 mutation: response of anemia
to darbepoetin administration and implications for iron homeostasis. Blood
2006;108:404-5.
Sankaran VG, Menne TF, Xu J, et al. Human fetal hemoglobin expression is
regulated by the developmental stage-specific repressor BCL11A. Science
2008;322:1839-42.
* Evidenze sperimentali che BCL11A agisce da repressore gamma-globinico in
colture primarie eritroidi umane.
Sankaran VG, Xu J, Ragoczy T, et al. Developmental and species-divergent globin
switching are driven by BCL11A. Nature 2009;460:1093-7.
** Descrizione del ruolo di di BCL11A nella regolazione dello switching delle
emoglobine in vivo nell’incrocio tra topi beta/YAC contenenti l’intero cluster
beta-globinico umano e topi null per BCL11A.
Sheftel AD, Richardson DR, Prchal J, et al. Mitochondrial iron metabolism and
sideroblastic anemia. Acta Haematol 2009;122:120-33.
Singleton BK, Fairweather VS, Lau W, et al. A novel EKLF mutation in a patient
with dyserythropoietic anemia: the first association of EKLF with disease in man
Blood 2009;114:72.
Solis C, Aizencang GI, Astrin KH, et al. Uroporphyrinogen III synthase erythroid
promoter mutations in adjacent GATA1 and CP2 elements cause congenital
erythropoietic porphyria. J Clin Invest 2001;107:753-62.
Sollaino MC, Paglietti ME, Perseu L, et al. Association of alpha globin gene quadruplication and heterozygous beta thalassemia in patients with thalassemia intermedia. Haematologica 2009;94:1445-8.
* Descrizione dei vari fenotipi dell’eterozigosi beta associata ad duplicazioni del
cluster alfa-globinico.
Traeger-Synodinos J, Kanavakis E, Vrettou C, et al. The triplicated alpha-globin
gene locus in beta-thalassaemia heterozygotes: clinical, haematological, biosynthetic and molecular studies. Br J Haematol 1996;95:467-71.
Uda M, Galanello R, Sanna S, et al. Genome-wide association study shows BCL11A associated with persistent fetal hemoglobin and amelioration of the phenotype of beta-thalassemia. Proc Natl Acad Sci USA 2008;105:1620-5.
** Identificazione dell’associazione tra Bcl11A e HbF e del ruolo clinico di BCL11
nel miglioramento clinico della beta-talassemia.
Viprakasit V, Gibbons RJ, Broughton BC, et al. Mutations in the general transcription factor TFIIH result in beta-thalassaemia in individuals with trichothiodystrophy. Hum Mol Genet 2001;10:2797-802.
Wingert RA, Galloway JL, Barut B, et al. Deficiency of glutaredoxin 5 reveals Fe-S
clusters are required for vertebrate haem synthesis. Nature 2005;436:1035-39.
Yamamoto M, Nakajima O. Animal models for X-linked sideroblastic anemia. Int
J Hematol 2000;72:157-64.
Corrispondenza
Paolo Moi, Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologie, Università di Cagliari, Ospedale Regionale per le Microcitemie, via Jenner s/n, 09121
Cagliari. Tel. + 39 070 6095500/663. Fax +39 070 503696. E-mail: [email protected]
27
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 28-34
ematologia
Le neutropenie congenite in pediatria.
Novità e aggiornamenti
Marina Lanciotti1, Michaela Calvillo1, Sonia Bonanomi2, Tiziana Coliva2, Fabio Tucci3,
Piero Farruggia4, Marta Pillon5, Baldo Martire6, Roberta Ghilardi7, Ugo Ramenghi8,
Daniela Renga8, Giuseppe Menna9 , Angelica Barone10, Giovanni Palazzi11,
Gabriella Casazza12, Francesca Fioredda1, Carlo Dufour1
Gruppo Neutropenie, CSS Insufficienze Midollare dell’AIEOP (Associazione Italiana
Ematologia Oncologia Pedaitrica)
Unità di Ematologia, Dipartimento Emato-Oncologia Pediatrica, Istituto G. Gaslini, Genova; 2Clinica Pediatrica
Università di Milano “La Bicocca”, Monza; 3Unità di Emato-Oncologia, Ospedale Pediatrico Meyer, Firenze; 4Unità
di Emato-Oncologia, Ospedale Pediatrico G. Di Cristina, Palermo; 5Clinica Pediatrica di Emato-Oncologia, Università
di Padova; 6Dipartimento di Pediatria, Università di Bari; 7Clinica Pediatrica De Marchi, Università di Milano; 8Unità
di Ematologia, Dipartimento di Pediatria, Università di Torino; 9Unità di Ematologia Pediatrica, Ospedale Pausillipon,
Napoli; 10Unità di Emato-Oncologia Pediatrica, Ospedale Universitario di Parma; 11Unità di Emato-Oncologia
Pediatrica e TCS, Ospedale Universitario di Modena; 12Unità di Emato-Oncologia Pediatrica e TCS, Ospedale
Universitario di Pisa
1
Riassunto
Le neutropenie congenite comprendono un gruppo eterogeneo di patologie caratterizzate da un basso numero di neutrofili maturi circolanti e da un’aumentata
suscettibilità alle infezioni, principalmente batteriche e fungine. Nell’ultimo decennio sono stati fatti notevoli progressi nella comprensione delle cause genetiche che
sono alla base sia delle forme sindromiche sia di quelle non sindromiche e nuovi geni malattia sono stati identificati e caratterizzati (HAX1, Ak2, G6PC3). Da queste
scoperte ha preso il via anche un miglioramento delle conoscenze dei meccanismi attraverso cui tali lesioni geniche determinano la neutropenia, meccanismi che
richiamano in maniera diretta o indiretta, attraverso la Unfolded Protein Response, l’eccesso di apoptosi. Sotto il profilo della gestione del paziente, Il G-CSF, rimane il
trattamento elettivo, determinando una risposta efficace in oltre il 90% dei soggetti trattati. Conosciamo ora di più sul suo ruolo nell’evoluzione clonale di tali malattie
che di per sé sono pre-cancerose. In effetti sia la dose sia la durata del trattamento sono fattori che si sono dimostrati in grado di aumentare il rischio di MSD/LMA
nei pazienti trattati. Da qui il consiglio di evitare dosi nell’ordine dei 10-20 mcg/kg/die specie se per tempi prolungati e di effettuare un monitoraggio annuale o più
frequente in caso di elementi negativi, della funzione midollare inclusiva di morfologia, citogenetica e studio delle mutazioni del recettore del G-CSF.
Summary
Congenital neutropenia comprises a heterogeneous group of disorders collectively characterized by paucity of mature neutrophils leading to recurrent infections,
malignancies and hematological disorders. In recent years, progress have been made with respect to the elucidation of genetic causes underlying sindromic and
non-syndromic variants. The identification of several novel genetic defects (e.g. HAX1, Ak2, G6PC3) has shed light on the pathophysiology of congenital neutropenia.
These findings promoted a better knowledge of the pathophysiology on hereditary neutropenias mainly involving, either directly or indirectly via Unfolded
Protein Response, increased apoptosis in the target cells. Regarding the management of the patient, G-CSF still remains the first choice treatment, providing
a response rate higher than 90% among treated subjects. We now know more about the pro-clonogenic potential of G-CSF since it has been shown that
both dose and treatment duration unfavourably impact on this risk. Hence the recommendations of trying to avoid doses of 10-20 mcg/kg/day particularly
for long periods and to set up a yearly, or even more frequent in case of adverse events, marrrow function monitoring plan including morphology, cytogenetics and G-CSF receptor mutation analysis.
Obiettivo della revisione
Questa revisione si propone di riassumere le caratteristiche cliniche
e genetiche delle neutropenie ereditarie dando rilievo sia alle recenti nuove identificazioni dei geni coinvolti nell’insorgenza di alcune
neutropenie congenite sia alle nuove conoscenze sul loro meccanismo patogenetico.
Metodologia della ricerca
Tramite PubMed è stata condotta una ricerca con le seguenti parole
28
chiave: congenital neutropenia, G-CSF, G-CSF receptor mutations.
Talvolta la ricerca è stata ristretta agli articoli di revisione.
Introduzione
Nel 1950 viene descritta per la prima volta da Rolf Kostmann la
Neutropenia Congenita “Severa” autosomica recessiva. Per circa 50
anni il difetto molecolare alla base di questa patologia è rimasto
enigmatico. La clonazione del gene G-CSF nel 1987 e il successivo utilizzo in clinica della proteina ricombinante, ha profondamen-
Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti
protein response (UPR) secondo il quale modifiche della struttura
proteica causate dalle mutazioni del gene porterebbero ad un accumulo di proteina nel reticolo endoplasmatico. Questo processo
innescherebbe una serie di reazioni che hanno come fine ultimo
l’eliminazione e quindi l’apoptosi della cellula che in questo caso è il
promielocita. Ciò spiegherebbe il caratteristico blocco della maturazione mieloide (Kollner et al., 2006).
te modificato il destino di pazienti con questa patologia, ma solo
nell’ultimo decennio con la scoperta dei vari geni coinvolti si sta
lentamente facendo luce sul meccanismo patogenetico delle neutropenie congenite.
Classificazione
Con il termine neutropenie congenite si intende un gruppo eterogeneo di malattie ereditarie (Schaffer et al., 2007) caratterizzate da
neutropenia da moderata a grave, associate a ricorrenti e frequenti
infezioni batteriche sistemiche che si manifestano già nelle prime
settimane di vita. Nella popolazione caucasica la neutropenia è definita lieve se i neutrofili periferici sono fra 1500 e 1000/mmc, moderata fra 1000 e 500/mmc e grave se minore di 500/mmc.
Clinicamente la neutropenia può essere isolata o far parte di una
sindrome in cui è associata ad altre condizioni patologiche che possono coinvolgere diversi organi.
In questa revisione le neutropenie congenite saranno suddivise in
forme congenite gravi o severe (traslando il termine dalla dizione inglese) (NCS) propriamente dette, che a loro volta possono associarsi
ad altri sintomi (Tab. I) e forme in cui la neutropenia fa parte di un
contesto sindromico più ampio (Tab. II).
NCS da mutazioni di HAX1 (SCN3, OMIM# 610738)
Recentemente mutazioni bialleliche del gene HAX1 sono state descritte in pazienti con NCS ad ereditarietà autosomica recessiva,
meglio conosciuta come sindrome di Kostmann (Klein et al., 2007).
Pur essendo state descritte numerose funzioni e localizzazioni, la proteina HAX1 ha una predominante localizzazione mitocondriale, dove
esercita un controllo sull’integrità della membrana interna e regola
l’apoptosi. Il meccanismo attraverso il quale la mancanza di questa
proteina provochi NCS non è chiaro. La posizione della mutazione
all’interno del gene può dare origine ad un diverso fenotipo clinico.
Le mutazioni che interessano solo il trascritto 1 danno NCS, quelle
che coinvolgono anche il trascritto 2 causano NCS associata a sintomi neurologici e ritardo psicomotorio (Germeshausen et al., 2008;
Lanciotti et al., 2010). Ciò è dovuto ad una maggiore espressione del
trascritto 2 nel tessuto neuronale (Germeshausen et al., 2008).
Neutropenie congenite gravi o severe
Le NCS comprendono un gruppo di disordini geneticamente eterogenei (Tab. I), caratterizzati da grave neutropenia con ricorrenti
infezioni batteriche che si manifestano già nei primi mesi di vita e
arresto della maturazione mieloide alla fase di promielocita/mielocita. È considerata una sindrome pre-leucemica (Welte, 1997).
In circa il 30% dei pazienti la causa genetica non è ancora nota, ciò
suggerisce che, in aggiunta a quelli noti, altri geni, finora sconosciuti,
possano essere coinvolti nel meccanismo patogenetico della NCS.
NCS da mutazioni di ELA2 (SCN1, OMIM#202700)
Le mutazioni del gene ELA2, codificante la proteina elastase 2, sono
responsabili del 50-60% dei casi di NCS. La trasmissione è ad ereditarietà autosomica dominante ma spesso si manifesta in modo
sporadico (Horwitz et al., 2007).
L’elastase 2 è una serina proteasi esclusivamente espressa nei neutrofili dove viene accumulata nei granuli primari che caratterizzano
in modo particolare lo stadio maturativo di promielocita (Dale et al.,
2000). Diverse ipotesi sono state fatte per spiegarne il meccanismo
patogenetico (Horwitz et al., 2007; Xia et al., 2008; Lanciotti et al.,
2009), fra queste la più accreditata si basa sul modello dell’unfolded
NCS da deficit di G6PC3 (SCN4, OMIM#612541)
Mutazioni del gene G6PC3 (glucosio-6-fosfatase subunità catalitica
3) sono state recentemente identificate in un gruppo di pazienti con
NCS con associate teleangectasie venose e malformazioni cardiache
ed urogenitali (Boztug et al., 2009). La proteina G6PC3 catalizza la
defosforilazione del glucosio-6-fosfato, è localizzata nel reticolo endoplasmatico ed è largamente espressa. La proteina mutata provoca
stress del reticolo endoplasmatico dovuto al suo accumulo con conseguente innesco della UPR descritto per le mutazioni del gene ELA2.
Il perché questo meccanismo interessi in particolare i neutrofili non
è ancora chiaro. Nessuno dei pazienti con deficit di G6PC3 presenta
ipoglicemia o acidosi lattica come avviene per i pazienti affetti da
glicogenosi di tipo Ib (GSD-Ib). La scoperta del gene G6PC3 come
causa di NCS ha contribuito alla spiegazione della neutropenia anche
nella GSD-Ib (vedi oltre). Nonostante le due proteine causanti le due
malattie facciano entrambe parte dello stesso ciclo metabolico, non è
ancora del tutto chiaro come siano funzionalmente collegate.
NCS X-linked (XLN, OMIM#300299)
Rari casi di neutropenia congenita grave a trasmissione X-linked
sono associati a mutazioni attivanti del gene WAS che codifica per la
proteina WASp che regola la polimerizzazione dell’actina nelle cellu-
Tabella I.
Neutropenia congenita severa.
Patologia*
Gene
Ereditarietà
Caratteristiche cliniche
NCS1
ELA2
AD o sporadica
Aumentato rischio MDS-LMA
NCS2
GFI1
AD
Forma rarissima, solo due famiglie descritte
NCS3
HAX1
AR
Sintomi neurologici, ritardo psicomotorio
NCS4
G6PC3
AR
Malformazioni cardiache e urogenitali. Teleangectasie venose
NCS-X-linked
WAS
X-linked
Monocitopenia e immunodeficit (diminuito rapporto CD4+/CD8+, linfopenia
con riduzione dei NK e alterata capacità fagocitante e proliferativa
Neutropenia ciclica
ELA2
AD o sporadica
Neutropenia con andamento ciclico di circa 3 settimane
AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva.
* classificazione OMIM (Online Mendelian Inheritance in Man)
29
M. Lanciotti et al.
Tabella II.
Neutropenie congenite associate ad altre condizioni patologiche o sindromiche.
Neutropenia associata ad immunodeficienza
Disgenesia reticolare
Gene
Ereditarietà
AK2
AR
CXCR4
AD
X-linked Ipogammaglobulinemia
BTK
X-linked
Deficit di CD40 ligando o Iper IgM
CD40L
X-linked
Ipoplasia Cartilagine-capelli
RMRP
AR
PNP
AR
LYST
AR
RAB27A
AR
Sindrome WHIM
Deficit di purina nucleoside fosforilasi
Neutropenia associata ad immunodeficienza e ipopigmentazione
Sindrome di Chédiak Higashi (tipo 2)
Sindrome di Griscelli (tipo 2)
Sindrome di Hermansky-Pudlak (tipo 2)
Deficit di P14
AP3B1
AR
MAPBPIP
AR
SBDS
AR
Neutropenia associata a malattie metaboliche
Sindrome di Shwachman Bodian Diamond
DNA Mitocondriale
-
Glicogenosi IB
Sindrome di Pearson
G6PT
AR
Sindrome di Barth
TAZ
X-linked
FAS, FAS-L, Caspase 8,10
AD o Sporadica
COH
AR
DKC1, TERC TERT, TINF2NOP10, NHP2
X-linked, AD AR
RPS 14, 16, 17, 19, 25. PL 5, 11, 35 A
AR, AD o Sporadica
FANCA, B, C, D1, D2, E, F, G, I, J, L, M, N
AR e X-linked
Neutropenia associate a malattia autoimmune
ALPS (Sindrome autoimmune linfoproliferativa)
Neutropenia associate a malformazioni
Sindrome di Cohen
Neutropenia associate ad insufficienza midollare
Discheratosi congenita
Anemia di Blackfan Diamond
Anemia di Fanconi
AD: autosomica dominante; AR: autosomica recessiva.
le emopoietiche (Devriendt et al., 2001; Ancliff et al., 2006). Le mutazioni di WAS sono anche causa della Sindrome di Wiskott-Aldrich
e della forma più lieve definita XLT ( X-linked trombocitopenia), a
seconda che la lesione genetica determini una completa assenza o
ridotta produzione della proteina e/o della sua attività. Le mutazioni
che portano alla NCS X-linked provocano invece una iperattivazione della proteina che comporterebbe una mitosi difettiva con conseguente soppressione della granulopoiesi. A questa forma di NCS
possono essere associati: monocitopenia e immunodeficit (diminuito
rapporto CD4+/CD8+, linfopenia con riduzione dei NK e alterata capacità fagocitante e proliferativa).
Neutropenia ciclica (OMIM#162800)
Questa forma di neutropenia è caratterizzata da andamento ciclico
della conta dei neutrofili con periodicità di circa 21 giorni e nadir
frequentemente al di sotto di 0,2x109/L. Nelle fasi di neutropenia il
paziente può presentare malessere, febbre, infezioni della cute, afte
orofaringee e linfoadenopatie. Nella maggior parte dei casi questa
alterazione della granulopoiesi è determinata da mutazioni del gene
ELA 2 (Horwitz et al., 1999; Dale et al., 2000). La trasmissione è
autosomica dominante ma sono stati descritti anche casi sporadici
causati da mutazioni de novo (Dale et al., 2002). Con poche eccezioni, la maggior parte delle mutazioni di ELA2 è specifica per NCS o
neutropenia ciclica, suggerendo una correlazione genotipo-fenotipo
(Bellanné-Chantelot et al., 2004). Ad oggi non è ancora chiaro il
meccanismo per cui mutazioni di ELA2 possono dare NCS o neutro-
30
penia ciclica. Vi è qualche evidenza di un disturbo della cellula staminale, indicato dall’oscillazione in alcuni casi anche di piastrine ed
emoglobina. È stata documentata inoltre un’aumentata frequenza di
apoptosi dei precursori che si evidenzia con il nadir dei neutrofili nel
sangue periferico (Horwitz et al., 2007).
Neutropenie congenite sindromiche
Nell’impossibilità di descrivere tutte le sindromi in cui la neutropenia può essere presente (Tab. II) verranno brevemente descritte solo
quelle in cui la neutropenia è una importante caratteristica clinica.
Per approfondimenti si consiglia la lettura di revisioni dedicate alle
specifiche patologie (Rezaei et al., 2009).
Disgenesia reticolare (OMIM #267500)
È una forma grave di immunodeficienza combinata dove la neutropenia severa è associata a leucopenia, deficit dell’immunità cellulare e umorale ed assenza di tessuto linfoide con agenesia del timo.
Il midollo osseo di questi individui mostra un caratteristico arresto
della maturazione mieloide allo stadio di promielocita. La malattia
può essere anche associata a sordità neuro-sensoriale bilaterale.
Recentemente è stata trovata la causa genetica di questa malattia che è dovuta a mutazioni omozigoti del gene AK2 che codifica
per l’enzima adenilato chinasi (Pannicke et al., 2009). La proteina
è selettivamente espressa nei neutrofili e nei leucociti dove interviene nei processi di differenziamento oltre che nella regione
Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti
vascolare dell’orecchio interno, ciò che spiega le manifestazioni
cliniche della malattia.
cesso dell’UPR e conseguente aumento dell’apoptosi dei neutrofili
(Kim et al., 2008).
Sindrome WHIM (OMIM #193670)
Sindrome di Barth (OMIM #302060)
La sindrome di Barth è una malattia metabolica, X-linked, caratterizzata da cardiomiopatia, neutropenia, miopatia scheletrica, difetto
di crescita e 3-metilglutaconicaciduria (Barth et al., 2004). Tuttavia il
quadro clinico può avere un’espressione variabile e si può presentare progressivamente o all’improvviso. Nella maggior parte dei casi la
malattia si manifesta durante l’infanzia. La presentazione iniziale più
comune è l’arresto cardiaco. È causata dalla mutazione del gene TAZ
che codifica per un enzima, tafazzina, fondamentale per la sintesi
della cardiolipina. Non è ancora noto il meccanismo responsabile
della neutropenia.
La sindrome WHIM è l’acronimo di verruche (warts), ipogammaglobulinemia (hypogammaglobulinemia), infezioni (infections), ipercellularità del midollo osseo (myelokathexis) (Gorlin et al., 2000) Si tratta
di una rarissima sindrome genetica a trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da neutropenia cronica associata a ipercellularità del midollo osseo. La neutropenia può essere da moderata a grave,
è associata ad iperplasia neutrofila midollare e morfologia bizzarra
dei neutrofili che presentano vacuoli citoplasmatici e nuclei abnormi
con fini filamenti che connettono i nuclei lobari. L’esordio clinico di
solito avviene durante la prima infanzia con infezioni batteriche ricorrenti. La sindrome WHIM è dovuta a mutazioni eterozigoti del gene
CXCR4, che codifica un recettore delle chemochine particolarmente
espresso nelle cellule ematopoietiche (Balabanian et al., 2005).
Glicogenosi tipo Ib (OMIM #232220)
È un disordine metabolico causato da un deficit del sistema di trasporto dell’enzima glucosio 6 fosfato traslocasi che è coinvolto sia
nella glicogenolisi che nella gluconeogenesi. Caratteristiche sono le
alterazioni metaboliche (ipoglicemia, iperlattacidemia, iperlipidemia
e iperuricemia), epatomegalia, scarso accrescimento e osteopatia.
La neutropenia e l’alterata funzionalità dei neutrofili sono associate
a infezioni ricorrenti, aftosi orale e infezioni intestinali. Questa malattia è causata da mutazioni del gene G6PT che codifica per una proteina che trasporta il glucosio-6-fosfato nel reticolo endoplasmatico
dove viene idrolizzato a glucosio. In modo simile al deficit di G6PC3
le mutazioni di G6PT provocano un accumulo della proteina ed un
“intasamento” del reticolo endoplasmatico innescando quindi il pro-
Sindrome di Cohen (OMIM #216550)
È un disordine autosomico recessivo ad espressività variabile, le cui
caratteristiche principali sono dimorfismi cranio-facciali, anomalie
delle mani e dei piedi, obesità, ipotonia, ritardo mentale. L’ampia varietà della sintomatologia clinica, lascia aperto il dubbio che non tutti i
casi di sindrome di Cohen corrispondano alla stessa condizione. È stata suggerita l’esistenza di due tipi di sindrome di Cohen, uno associato
a neutropenia e l’altro senza. È causata da mutazioni bi alleliche del
gene COH1 codificante una proteina transmembrana che può essere
coinvolta nella selezione e nel trasporto vescicolo-mediato delle proteine all’interno della cellula (Kolehmainen et al., 2003).
Diagnosi
Il percorso diagnostico di un nuovo caso di neutropenia prevede innanzitutto una approfondita anamnesi. I punti salienti per una corretta valutazione sono riassunti nella Tabella III.
Tabella III.
Valutazione iniziale in un paziente con neutropenia.
Anamnesi
• Fisiologica: prestare particolare attenzione a malattie virali, assunzione di farmaci in gravidanza e decorso del periodo neonatale.
• Familiare: indagare l’origine geografica, se ci sono altri membri della famiglia che presentano neutropenia e infezioni gravi, o malattie ematologiche
e se presente consanguineità.
• Patologica prossima e remota: con attenta valutazione del momento di insorgenza della malattia, presenza di anomalie congenite, assunzione di
farmaci, e descrizione dettagliata degli eventi infettivi da un punto di vista quali-quantitativo (numero, tipo, sede e ricorrenza degli episodi infettivi
come: afte, gengiviti, peridontiti, infezioni cutanee, ascessi, otomastoiditi, polmoniti e raccolte ascessualizzate). Puntualizzare il principio attivo, la via
di somministrazione e la durata della eventuale terapia antibiotica.
• Farmacologica: rilevare il tipo e la durata dell’esposizione a farmaci.
Esame fisico
• Bassa statura, malnutrizione, anomalie scheletriche.
• Anomala pigmentazione cutanea, unghie distrofiche, leucoplachia, verruche, albinismo, capelli sottili, eczema, infezioni cutanee, adenopatia, organomegalia
Emocromo con formula leucocitaria e percentuale di reticolociti
• Confermare la presenza di neutropenia, valutazione della morfologia dei neutrofili, valutazione dell’aumento o decremento dei reticolociti, delle piastrine e dei linfociti.
• Se la neutropenia si risolve, ma è ricorrente ripetere 2-3 volte alla settimana per 6 settimane l’emocromo con la formula leucocitaria e la morfologia.
Altri test di laboratorio di prima linea
• Test di Coombs
• Dosaggio Immunoglobuline seriche (IgA, IgG, IgM)
• Immunofentipo periferico
• Test virologici (Epstein-Barr virus, citomegalovirus, virus respiratorio sinciziale, parvovirus, HSV1 e 2 ecc. in base alle indicazioni cliniche)
• Test di funzionalità epato renale e glicemia
• Anticorpi antineutrofilo indiretti
In base ai risultati dei test di prima linea coniugati con le indicazioni cliniche, la diagnostica potrà orientarsi sulle forme sindromiche o sulle forme di NCS
propriamente dette nelle quali la morfologia midollare metterà in evidenza un blocco maturativo della linea mieloide allo stadio di pro mielocita/mielocita.
31
M. Lanciotti et al.
È molto importante determinare se il paziente presenta una neutropenia isolata o associata con anemia e trombocitopenia. Il deficit di
più tipi cellulari spesso riflette una più generalizzata sindrome da
insufficienza midollare (anemia aplastica, anemia di Fanconi) o un
processo di infiltrazione del midollo come avviene nelle leucemie.
Dato il numero elevato di geni le cui mutazioni possono dare neutropenia è di fondamentale importanza un’attenta valutazione clinica
che possa indirizzare una diagnosi genetica mirata.
Trattamento della neutropenia congenita
Il G-CSF (Granulocyte Colony-Stimulating-Factor), fattore di crescita
dei neutrofili, stimola la proliferazione e differenziazione dei precursori
mieloidi, favorisce la demarginazione delle cellule mature e la loro
sopravvivenza. Il G-CSF è quindi il trattamento di prima scelta per i
pazienti con neutropenia congenita grave (Zeidler et al., 2000). L’impostazione e le modifiche del trattamento con G-CSF è consigliabile
vengano effettuate dal centro ematologico pediatrico di riferimento.
La quasi totalità dei pazienti risponde a dosi giornaliere di 3-10 ug/
kg, con la normalizzazione del numero dei neutrofili circolanti. Fra
gli effetti collaterali del G-CSF vanno menzionati dolori ossei, piastrinopenia, epatomegalia, vasculiti cutanee. Non sono riportati rischi di
malformazioni o influenze negative sull’accrescimento e sullo sviluppo sessuale.
Sono considerati non responsivi al G-CSF quei pazienti che non raggiungono un numero sufficiente di neutrofili per il controllo delle infezioni o coloro che richiedono alte dosi di G-CSF per ottenere tale
obiettivo. Un recente studio (Rosenberg et al., 2006) ha identificato in
8 ug /kg/die la dose mediana oltre la quale è aumentato il rischio di
evoluzione clonale. Nella pratica corrente si sconsiglia di utilizzare il
G-SCF a dosi nell’ordine di 10-20 ug/kg/die e di considerare resistenti
coloro che necessitano di tali dosaggi soprattutto se per tempi lunghi
e non occasionalmente. I pazienti non responsivi o resistenti alla terapia con G-CSF sono candidati al trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Il trapianto è indicato anche in quei pazienti che sviluppano
malattie clonali come mielodisplasia (MDS) o leucemia mieloide acuta
(LMA). L’acquisizione di mutazioni del recettore del G-CSF (CSF3R),
nei pazienti trattati con G-CSF non è indicazione di per sé al trapianto
di midollo osseo poichè dal momento del rilievo di tale mutazione alla
possibile evoluzione clonale può trascorrere anche più di un decennio.
Per tutti i pazienti trattati con G-CSF è raccomandata una valutazione annuale del midollo osseo alla ricerca di eventuali modifiche della
morfologia, della citogenetica e dell’eventuale insorgenza di mutazioni
del CSF3R, come allarme” di evoluzione clonale”.
Al momento non è documentato alcun vantaggio dalla profilassi antibiotica. In occasione di episodi infettivi è consigliabile, ove possibile,
allestire una diagnostica laboratoristico (emocromo con formula)-microbiologica. Qualora questo non sia possibile, è consigliabile terapia
antibiotica empirica ad ampio spettro (amoxicillina + acido clavulanato, ciprofloxacina, ceftriaxone) indipendentemente dal valore dei
neutrofili e dall’eventuale trattamento in atto con G-CSF.
Evoluzione clonale
La neutropenia congenita grave è considerata una sindrome pre-
32
leucemica. Il registro internazionale delle neutropenie congenite severe (SCNIR) ha pubblicato uno studio su 374 pazienti in trattamento
continuativo con G-CSF (Rosenberg et al., 2006). In cui l’incidenza
cumulativa di leucemia è risultata pari al 21% dopo 10 anni di trattamento. Il rischio di sviluppare MDS/LMA aumenta in modo significativo durante il periodo di osservazione dal 2,9% per anno dopo i 6
anni di trattamento, all’8% per anno dopo i 12 anni. Inoltre il rischio di
sviluppare MDS/AML aumenta con la dose di G-CSF somministrata.
Pazienti meno responsivi al trattamento (che richiedevano in questo
studio dosi giornaliere di G-CSF superiori a 8 μg/kg/die), presentano
un’incidenza cumulativa di MDS/LMA pari al 40% dopo 10 anni rispetto all’11% osservato nei pazienti più sensibili al trattamento. La
scarsa risposta al trattamento sarebbe quindi un rischio aggiuntivo
allo sviluppo di LMA. La progressione in LMA è stata però descritta
anche in epoca pre-G-CSF, ma data l’elevata mortalità (42% entro
l’età di 2 anni) per cause infettive, il rischio reale di sviluppare MDS/
LMA non era calcolabile. L’impiego del G-CSF ha portato in questi
pazienti ad un drastico aumento della sopravvivenza, e non è chiaro
se anche la durata della sopravvivenza contribuisca all’aumento della incidenza di progressione leucemica (Welte, 2006).
La trasformazione clonale avviene sia in NCS causate da mutazioni
di ELA2, che in quelle causate da mutazioni di HAX1 o WAS. Non
si conoscono casi di progressione leucemica in pazienti con NCSG6PC3 mutato (Boztug et al., 2009) nè è chiaro il ruolo dei geni causanti la malattia nella progressione verso MDS/LMA. Va sottolineato
però che in pazienti con neutropenia ciclica causata da mutazioni
del gene ELA2 e trattati con G-CSF non si sono riscontrati casi di
trasformazione clonale, contrariamente a quanto riportato in pazienti
con NCS-ELA2 mutata.
È invece assodato il ruolo rivestito dalle mutazioni del recettore del
G-CSF nello sviluppo di MDS/LMA. In modelli murini mutazioni del
G-CSFR mediano risposte proliferative e di resistenza all’apoptosi
ma non di tipo differenziativo. Inoltre l’80% dei pazienti che sviluppa leucemia presentano mutazioni in questo gene. Il tempo che
intercorre fra l’acquisizione della mutazione e lo sviluppo della leucemia varia notevolmente. Alcuni pazienti presentano mutazioni del
recettore del G-CSF solo nelle cellule leucemiche, altri presentano
mutazioni del CSF3R singole o multiple per anni prima di sviluppare
la neoplasia.
Conclusioni
Le neutropenie congenite gravi costituiscono un gruppo notevolmente eterogeneo di malattie rare alcune delle quali precancerose.
Negli ultimi 10 anni sono stati identificati numerosi geni malattia ciò
che ha portato alla comprensione dei meccanismi patogenetici che
chiamano spesso in causa la unfolded protein response e l’eccesiva apoptosi. Nonostante il contributo al rischio di trasformazione
leucemica, il G-CSF riveste ancora un ruolo chiave ed insostituibile
nel trattamento della malattia, producendo nei soggetti trattati una
risposta soddisfacente in più del 90% dei casi.
L’identificazione di nuovi geni coinvolti nei meccanismi patologici
della neutropenia e la migliore comprensione dei meccanismi molecolari che ne sono alla base, sono fondamentali per lo studio di nuovi
farmaci che possano modificare questi meccanismi.
Le neutropenie congenite in pediatria. Novità e aggiornamenti
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
• Con il termine neutropenie congenite si intende un gruppo eterogeneo di malattie ereditarie caratterizzate da neutropenia da moderata a grave,
associate a ricorrenti e frequenti infezioni batteriche sistemiche a comparsa nelle prime settimane di vita.
• La neutropenia poteva essere isolata o far parte di una sindrome in cui era associata ad altre condizioni patologiche coinvolgenti diversi organi.
• Solo di alcune forme si conosceva il difetto genetico causa della malattia, ma non il meccanismo molecolare.
• Il G-CSF (Granulocyte Colony-Stimulating-Factor), fattore di crescita dei neutrofili, stimolando la proliferazione e differenziazione dei precursori
mieloidi e favorendo la demarginazione delle cellule mature e la loro sopravvivenza, era il trattamento elettivo per i pazienti con neutropenia
congenita grave.
• I pazienti trattati con G-CSF hanno un rischio maggiore di sviluppare malattie clonali quali mielodisplasia e leucemia mieloide acuta.
• I pazienti non responsivi o resistenti alla terapia con G-CSF sono candidati al trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Il trapianto è indicato
anche in quei pazienti in cui avviene una evoluzione clonale.
Cosa sappiamo adesso
• Sono stati individuati numerosi geni le cui mutazioni sono alla base della neutropenia.
• Di alcuni geni è stato individuato il meccanismo molecolare e di altri è stato per ora ipotizzato.
• Un’aumentata e incontrollata apoptosi è ritenuto uno dei meccanismi più importanti alla base della neutropenia. All’aumentata apoptosi conduce
anche l’accreditato meccanismo patogenetico di Unfolded Protein Response.
• Il G-CSF rimane il trattamento elettivo delle neutropenie congenite.
• Sappiamo di più sul rischio di evoluzione clonale che esso determina. Tale rischio nei pazienti trattati con G-CSF aumenta in modo significativo dal
2,9%/anno dopo i 6 anni all’8% /anno dopo i 12 anni di terapia. Anche la dose di G-CSF può influenzare il rischio di evoluzione clonale.
Quali ricadute sulla pratica clinica
• Si sconsiglia di raggiungere dosi di G-CSF nell’ordine di 10-20 mcg/kg/die specie se per periodi lunghi. In soggetti che necessitano tali dosaggi
nel lungo periodo, può essere considerato il trapianto di cellule staminali ematopoietiche in rapporto alla disponibilità di un donatore (familiare o
no) compatibile.
• Per tutti i pazienti trattati con G-CSF è raccomandata una valutazione annuale del midollo osseo per identificare modifiche della morfologia, della
citogenetica ed eventuali insorgenze di mutazioni del recettore del G-CSF come “allarme” di evoluzione clonale.
• L’identificazione di nuovi geni coinvolti nei meccanismi patologici della neutropenia e la migliore comprensione dei meccanismi molecolari che ne
sono alla base sono fondamentali per lo studio di nuovi farmaci che possano modificare questi meccanismi.
Bibliografia
Ancliff PJ, Blundell MP, Cory GO, et al. Two novel activating mutations in
the Wiskott-Aldrich syndrome protein result in congenital neutropenia. Blood
2006;108:2182-9.
Balabanian K, Lagane B, Pablos JL et al. WHIM syndrome with different
genetic anomalies are accounted for by impaired CXCR4 desensitization to
CXCL12. Blood 2005;105:2449-57.
Barth PG, Valianpour F, Bowen VM. X-linked cardioskeletal myopathy and
neutropenia (Barth Syndrome). An update. Am J Med Genet 2004;126A:349-54.
Bellanné-Chantelot C, Clauin S, Leblanc T et al. Mutations in the ELA2 gene
correlate with more severe expression of neutropenia: a study of 81 patients
from the French Neutropenia Register. Blood 2004;103:4119-25.
Boztug K, Appaswamy G, Ashikov A, et al. A syndrome with congenital
neutropenia and mutations in G6PC3. N Engl J Med 2009;360:32-43.
* Prima identificazione del gene G6PC3 come responsabile di NCS 4.
Dale DC, Bolyard AA, Aprikyan A. Cyclic neutropenia. Semin Hematol
2002;39:89-94.
Dale DC, Person RE, Bolyard AA, et al. Mutations in the gene encoding neutrophil
elastase in congenital and cyclic neutropenia. Blood 2000;96:2317-22.
* Prima identificazione di mutazioni del gene ELA2 in pazienti con NCS1.
Devriendt K, Kim AS, Mathijs G, et al. Constitutively activating mutation
in WASP causes X-linked severe congenital neutropenia. Nat Genet
2001;27:313-17.
* Primo lavoro in cui è riportato che il gene WAS può provocare anche
X-linked neutropenia.
Germeshausen M, Grudzien M, Zeidler C, et al. Novel HAX1 Mutations in
patients with severe congenital neutropenia reveal isoform-dependent
genotype-phenotype associations. Blood 2008;111:4954-57.
* Il lavoro evidenzia una correlazione genotipo-fenotipo legate alle diverse
mutazioni del gene HAX1.
Gorlin RJ, Gelb B, Diaz GA, et al. WHIM syndrome, an autosomal dominant
disorder: clinical, hematological and molecular studies. Am J Med Genet
2000;91:368-76.
Horwitz M, Benson KF, Person RE, et al. Mutations in ELA2, encoding neutrophil
elastase, define a 21-day biological clock in cyclic haematopoiesis. Nat
Genet 1999;23:433-6.
* Prima identificazione del gene ELA2 come responsabile di una forma di
neutropenia.
Horwitz M, Duan Z, Korkmaz B, et al. Neutrophil elastase in cyclic and severe
congenital neutropenia. Blood 2007;109:1817-24.
* Interessante lavoro di revisione della letteratura.
Kim SY, Jun HS, Mead PA. Neutrophil stress and apoptosis underlie myeloid
dysfunction in glycogen storage disease type Ib. Blood 2008;111:5704-11.
Klein C, Grudzien M, Appaswamy G, et al. HAX1 deficiency causes autosomal
recessive severe congenital neutropenia (Kostmann disease). Nat Genet
2007;39:86-92.
* Identificazione del gene responsabile della Sindrome di Kostmann (NCS 3).
Kolehmainen J, Black GC, Saarinen, et al. Cohen syndrome is caused by
mutations in a novel gene, COH1, encoding a transmembrane protein with
presumed role in vesicle-mediated sorting and intracellular protein transport.
Am J Med Genet 2003;72:1359-69.
* Identificazione del gene COH1 come responsabile della syndrome di
Cohen.
Kollner I, Sodeik B, Schreek S, et al. Mutations in neutrophil elastase causing
congenital neutropenia lead to cytoplasmic protein accumulation and
induction of the unfolded protein response. Blood 2006;108:493-500.
** Primo lavoro che identifica il meccanismo UPR per cui mutazioni di ELA2
danno NCS 1.
Lanciotti M, Caridi G, Rosano C, et al. Severe Congenital neutropenia: a
negative synergistic effect of multiple mutations of ELANE (ELA2) gene. Br J
Haemat 2009;146:573-82.
* Utilizzo di modelli di bioinformatica per lo studio del meccanismo
patogenetico di una doppia mutazione di ELA2.
Lanciotti M, Indaco S, Bonanomi S, et al. Novel HAX1 mutations associated
to neurodevelopment abnormalities in two Italian patients with severe
congenital neutropenia. Haematologica 2010;95:168-9.
Pannicke U, Honig M, Hess I, et al. Reticular dysgenesis (aleukocytosis) is
33
M. Lanciotti et al.
caused by mutations in the gene encoding mitochondrial adenylate kinase
2. Nat Genet 2009;41:101-05.
* Identificazione del gene responsabile della disgenesia reticolare.
Rezaei N, Moazzami K, Aghamohammadi A, et al. Neutropenia and primary
immunodeficiency diseases. Intern Review of Immunol 2009;28:335-66.
* Interessante lavoro di revisione della letteratura.
Rosenberg PS, Alter BP, Bolyard AA, et al. The incidence of leukemia and
mortality from sepsis in patients with severe congenital neutropenia
receiving long term G-CSF therapy. Blood 2006;107:4628-35.
* Dati dello SCNIR (registro internazionale delle NCS).
Schaffer AA, Klein C. Genetic heterogeneity in severe congenital neutropenia:
how many aberrant pathways can kill a neutrophil? Curr Opin Allergy Clin
Immunol 2007;7:481-94.
Welte K, Zeidler C, Dale DC. Severe congenital neutropenia. Semin Hematol
2006;43:189-95.
Welte K. Severe chronic neutropenia: pathopshysiology and therapy. Semin
Hematol 1997;34:267-78.
Xia J, Link DC. Severe congenital neutropenia and the unfolded protein
response. Curr Opin In Hematol 2008;15:1-7.
Zeidler C, Boxer L, Dale DC, et al. Management of Kostmann syndrome in the
G-CSF era. Br J Haematol 2000;109:490-95.
Corrispondenza
Marina Lanciotti, Unità di Ematologia, Dipartimento Emato-Oncologia Pediatrica, Istituto G. Gaslini, largo Gerolamo Gaslini 5, 16147 Genova. E-mail:
[email protected]
34
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 35-40
ematologia
Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie
di ferro chelazione nella talassemia major
Raffaella Origa, Renzo Galanello*
Unità di Ricerca Clinica, Fase 1 s.r.l, Azienda Ospedaliera Brotzu, Cagliari; * 2a Clinica Pediatrica e DH Talassemia
Età Evolutiva, Università di Cagliari, ASL8
Riassunto
Nei 5 anni considerati in questa ricerca bibliografica (Gennaio 2005-Dicembre 2009) sono emersi articoli di grande rilevanza per quanto riguarda la terapia
ferrochelante nella talassemia. Se 10 anni fa, infatti, il primo farmaco ferrochelante orale, il deferiprone, ha affiancato la desferrioxamina nel trattamento
del sovraccarico di ferro, negli ultimi 5 anni si è assistito allo sviluppo di un nuovo ferrochelante orale, il deferasirox, in commercio in Italia dal 2007 e alla
diffusione della terapia di associazione sequenziale e combinata di desferrioxamina e deferiprone. L’introduzione di metodi non invasivi per la misurazione
dell’accumulo di ferro nel fegato, negli organi endocrini e soprattutto nel cuore, sono alla base di studi osservazionali, prospettici e randomizzati che hanno
valutato l’efficacia dei ferrochelanti, in monoterapia e in combinazione nel ridurre il sovraccarico d’organo le complicanze secondarie all’accumulo marziale e nel prolungare la sopravvivenza. La disponibilità di diversi farmaci ha modificato la strategia ferrochelante anche nei bambini. È emerso che l’età,
l’apporto trasfusionale, il grado e la sede dell’accumulo di ferro, le complicanze già presenti, la risposta alla terapia e la compliance sono oggi le variabili
da considerare nell’individuare la terapia ferrochelante migliore, personalizzata e “ritagliata” sul singolo paziente.
Summary
In the last five years (January 2005-December 2009), very relevant original studies have been published on iron chelation therapy in thalassemia major.
Three chelators are now available, desferrioxamine, the first oral iron chelator deferiprone, and deferasirox, recently licensed in many countries. The most
important studies recently published have evaluated the efficacy of the chelators as monotherapy and in combination in terms of reduction of iron overload
in different organs, improvement of complications, and survival.
It appears that the management of transfusion dependent thalassemia has been revolutionized by the availability of accurate and non-invasive methods
for assessing iron load in the heart and liver and by the option of tailoring chelation according to the degree of iron load, medical history, patient’s age,
transfusional regimen, compliance and responsiveness to treatment.
Introduzione
La terapia trasfusionale continuativa per il trattamento dell’anemia
cronica nella talassemia major conduce inevitabilmente all’accumulo di ferro per l’incapacità dell’organismo di eliminare il ferro
introdotto con le trasfusioni. Il primo farmaco ferrochelante, la desferrioxamina (DFO), sviluppato oltre 40 anni fa, ha contribuito significativamente ad aumentare la sopravvivenza e a ridurre le complicanze nella talassemia (Zurlo et al., 1989). Molti pazienti, tuttavia,
non possono o non vogliono essere trattati con la DFO. Nei paesi in
via di sviluppo, infatti, la sua disponibilità è limitata dagli alti costi e,
nei paesi occidentali, la modalità di somministrazione ne condiziona
pesantemente l’accettabilità, soprattutto in bambini e adolescenti.
Per la sua scarsa biodisponibilità orale e la breve emivita plasmatica
(circa 30 minuti), infatti, la DFO deve essere somministrata per via
parenterale (in genere sottocute) in infusione lenta (almeno 8-12 h)
per 5-7 giorni/settimana. In un certo numero di pazienti, inoltre, la
compliance è condizionata dalla comparsa di effetti collaterali locali
e generali, come reazioni nel sito di infusione, ipoacusia neurosensoriale per le alte frequenze, tossicità oculare e ossea (Cunnhingham et al., 2004).
I limiti di questa opzione terapeutica sono evidenti considerando
gli studi dei primi anni 2000 tesi a valutare la sopravvivenza e le
complicanze dei pazienti trattati con DFO. In uno studio inglese (Modell et al., 2000), il 50% dei pazienti considerati morivano prima di
raggiungere i 35 anni. In Italia, nello studio pubblicato da BorgnaPignatti et al. nel 2004, il 68% dei pazienti era vivo a 35 anni e il
67% dei decessi era dovuto a patologia cardiaca. La prevalenza di
cardiopatia era del 10% in 341 pazienti seguiti negli Stati Uniti, con
età compresa tra 1 e 55 anni, e del 23% tra i 128 con età superiore
ai 25 anni (Cunningham et al., 2004). In tutti gli studi citati, le complicanze secondarie all’accumulo di ferro più frequenti erano quelle
endocrine (ipogonadismo ipogonadotropo, ipotiroidismo, ipoparatiroidismo, alterato metabolismo glucidico).
Un momento fondamentale nella storia della ferrochelazione è
stata l’approvazione da parte delle Autorità Regolatorie del primo
farmaco ferrochelante orale, il deferiprone (DFP), nel 1995 in India
e nel 1999 in Europa. Il DFP è rapidamente e completamente assorbito dopo somministrazione orale, raggiunge il picco plasmatico dopo 1 ora e ha un’emivita di 160 minuti. Le sue proprietà
farmacologiche, ed in particolare il coefficiente di partizione, che
indica la velocità di assorbimento e la quantità di farmaco assorbita, e il basso peso molecolare (139 Da) avevano fatto ipotizzare
che il DFP potesse attraversare liberamente le membrane cellulari. Studi comparativi hanno dimostrato che, a dosi comparabili,
l’efficacia del DFP nel rimuovere il ferro corporeo è simile a quella della DFO con un buon profilo di accettabilità in pazienti con
scarsa compliance alla DFO (Maggio et al., 2002). L’agranulocitosi
è l’effetto collaterale più grave associato all’assunzione del DFP,
con un’incidenza intorno all’1% dei pazienti (Cohen et al., 2003).
Effetti collaterali più comuni ma meno rilevanti sono i disturbi
gastrointestinali, artralgia, deficit di zinco e fluttuazione dei livelli
di transaminasi.
35
R. Origa, R. Galanello
Nel 2002 Anderson et al. hanno introdotto una nuova metodica per
la misurazione non invasiva del ferro miocardico, la risonanza magnetica nucleare (RM) con la tecnica del T2*, i cui valori sono inversamente proporzionali alla concentrazione di ferro: valori di T2*
inferiori a 8 ms indicano un grave sovraccarico di ferro cardiaco,
valori compresi tra 8 e 20 msec un sovraccarico moderato, mentre
valori superiori a 20 msec sono ritenuti normali. La valutazione del
sovraccarico di ferro e della funzione cardiaca in 15 pazienti in
trattamento a lungo termine con DFP e in 30 pazienti trattati con
DFO, ha evidenziato un accumulo di ferro cardiaco significativamente inferiore nel gruppo in DFP e una frazione di eiezione del
ventricolo sinistro (FEVS) significativamente più elevata, suggerendo una maggiore efficacia del DFP nel rimuovere il ferro cardiaco.
Questa analisi era confermata nel 2003 dal lavoro retrospettivo
di Piga et al. che dimostrava una più lunga sopravvivenza e una
minore incidenza di disfunzione cardiaca in 54 pazienti trattati
con DFP per almeno 4 anni rispetto a 75 pazienti trattati con DFO.
Wonke et al. nel 1998 hanno riportato che la terapia combinata
con DFP assunto giornalmente e DFO per via sottocutanea 2-6
giorni/settimana determinava una notevole riduzione dei valori di
ferritina serica in 5 pazienti trattati precedentemente con solo DFP.
Successivamente studi metabolici che hanno valutato l’escrezione
totale (fecale e urinaria) di ferro hanno suggerito un effetto additivo
o anche sinergico (escrezione superiore a quella ottenibile con i
singoli chelanti) nell’escrezione di ferro con l’uso simultaneo dei
chelanti, con risultati soddisfacenti anche in pazienti poco responsivi ai singoli farmaci.
Nel 2003 sono stati pubblicati anche i primi trials con un secondo
chelante orale, l’ICL670, poi chiamato deferasirox (DFX), che in singola dose da 2,5 a 80 mg/kg appariva ben tollerato, con un’emivita
da 11 a 19 ore che ne supportava la monosomministrazione giornaliera e che, a dosi adeguate determinava una escrezione netta
di ferro (essenzialmente fecale) in grado di prevenire l’accumu-
lo di ferro nella maggior parte dei pazienti regolarmente trasfusi
(Galanello et al., 2003; Nisbet-Brown et al., 2003). Le principali
caratteristiche dei chelanti del ferro ora disponibili sono riassunte
nella Tabella I.
Obiettivo della revisione e metodologia
Il presente lavoro si propone di individuare gli studi pubblicati negli
ultimi 5 anni che per la loro rilevanza e il loro impatto sulla pratica
clinica, dovrebbero essere conosciuti da ogni medico che, anche in
centri non dedicati alla cura della talassemia e nelle strutture ospedaliere periferiche, si occupa dal punto di vista della terapia trasfusionale e/o chelante di bambini o adulti con talassemia. Questa
revisione si propone anche come uno strumento di aggiornamento
rapido e completo per il pediatra specialista in branche diverse da
quella trattata e per il pediatra generalista di ospedale o di territorio. Particolare attenzione è stata rivolta alle novità relative alla
sopravvivenza dei pazienti con talassemia, all’effetto dei chelanti
sulla cardiopatia e sulle complicanze endocrine e alle nuove opzioni
terapeutiche per l’età pediatrica.
Sono stati ricercati in Internet, su Medline, per mezzo di PubMed,
gli articoli degli ultimi 5 anni (Gennaio 2005-Dicembre 2009) che
contenessero le parole chiave iron chelation + thalassemia major,
deferiprone, deferasirox, and magnetic resonance + talassemia major. Degli oltre 200 articoli reperiti, sono stati privilegiati gli studi
prospettici randomizzati e controllati.
Novità in tema di DFP, di terapia alternata e combinata
DFP e DFO
Dopo i primi studi retrospettivi della prima metà degli anni 2000,
negli ultimi 5 anni è stata dimostrata inequivocabilmente la superiorità del DFP rispetto alla DFO nell’eliminare il ferro cardiaco e nel
Tabella I.
Riassunto delle caratteristiche dei ferrochelanti attualmente in commercio (da Cappellini et al., 2008, mod.).
Caratteristiche
Dosaggio consigliato (mg/kg/die)
Emivita
Desferrioxamina
Deferiprone
Deferasirox
20-60
50-100 (in genere ≥ 75 mg/kg/die
per ottenere un bilancio negative
del ferro)
20-30
20 min
2-3 h
16 h
Parenterale. Il trattamento standard
prevede l’infusione lenta per via
sottocutanea,
8-12 h 5-6 notti/settimana
Orale, 3 volte/die
Orale (tavolette da sciogliere in
acqua) in monosomministrazione
giornaliera
Urine, feci
Urine
Feci
Audiometria e visita oculistica
annuale
Valutazione auxologia ogni 3-6
mesi in fase di accrescimento
Emocromo con formula leucocitaria
ogni 7-10 gg
ALT ogni 3 mesi
Creatinina serica, proteinuria e ALT
mensile
Audiometria e visita oculistica
annuale
Vantaggi
Efficace
Conosciuto da oltre 40 anni
Può far regredire
la compromissione cardiaca
Può essere utilizzato col deferiprone
Molto efficace nel rimuovere il ferro
cardiaco
Può essere utilizzato con la
desferrioxamina
Monosomministrazione giornaliera
Svantaggi
Scarsa compliance
Potenziale tossicità ossea, visiva e
uditiva
Rischio di agranulocitosi, necessità
di emocromo ogni 7-10 gg
Necessità di monitoraggio della
funzione renale
Costo elevato
Dati a lungo termine non disponibili
Somministrazione
Escrezione del ferro
Monitoraggio
36
Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie di ferro chelazione nella talassemia major
proteggere il cuore dalle conseguenze dell’accumulo di ferro. Due
lavori sono particolarmente importanti a questo proposito. Nel 2006
è stato pubblicato il primo studio prospettico controllato in cui 61
pazienti con moderato accumulo di ferro cardiaco (T2* tra 10 e 20
msec), precedentemente trattati con DFO, sono stati randomizzati
o a continuare la ferrochelazione con DFO (43 mg/kg per 5-7 gg/
settimana), o a iniziare il trattamento con DFP 92 mg/kg/die (Pennell
et al., 2006). Dopo 6 e 12 mesi di trattamento, il T2* aumentava in
entrambi i gruppi ma in maniera significativamente maggiore nel
gruppo in DFP [+18 vs. +9% (p = 0,04) a 6 mesi e +27 vs. +13%
(p = 0,023) a 12 mesi], così come anche la FEVS (3,1 vs. 0,3%; a 12
mesi, p = 0,003).
Una significativamente maggior cardioprotezione del trattamento
con DFP è stata anche riportata in uno studio che ha raccolto i dati
sulla sopravvivenza e le cause di morte dei pazienti con talassemia
major seguiti in 7 centri italiani (Borgna-Pignatti et al., 2006). Sono
stati analizzati gli eventi cardiaci e la sopravvivenza in 359 pazienti
che tra il 1995 e il 2003 erano stati chelati con DFO e in 157 pazienti che durante questo periodo erano passati alla chelazione
con DFP. All’inizio dello studio, i due gruppi erano comparabili per
età e sesso e la ferritina serica era significativamente più alta nel
gruppo in DFP (1860 vs. 1461 ng/ml, p = 0,001). Sono stati osservati 52 eventi cardiaci, e tra questi 10 decessi per cardiopatia, nei
pazienti in DFO e nessuno nei pazienti in DFP.
Numerose sono le pubblicazioni sull’assunzione concomitante di
DFP e DFO, i cui risultati sono spesso difficilmente comparabili
perché il termine “terapia combinata” viene impiegato per indicare
differenti regimi di chelazione. Quando si parla di “terapia combinata” ci si dovrebbe invece più correttamente riferire all’assunzione di DFO e DFP nella stessa giornata, che può essere simultanea
(cioè DFP assunto prima di colazione, pranzo e cena e DFO infuso
durante il giorno) o sequenziale (cioè DFP assunto come sopra e
DFO infuso durante la notte). Il regime chelante alternato è invece
quello in cui i chelanti vengono assunti in giorni diversi. Dopo il già
citato studio di Wonke et al. (1998) e alcuni studi osservazionali
con un numero limitato di pazienti, il primo studio prospettico relativo al combinato è quello da noi pubblicato (Origa et al., 2005).
Settantanove pazienti con grave sovraccarico marziale (ferritina
serica > 3000 ng/ml) e scarsa compliance a DFO per via sottocutanea, sono stati trattati con DFP 70-80 mg/kg/die e DFO 40 ±
10 mg/kg 10-24 h per 2-6 gg/settimana. Il numero dei giorni di
infusione di DFO variava in base ai valori di ferritina. L’esposizione
totale alla terapia è stata di 201 pazienti/anno. Tre pazienti hanno
sviluppato agranulocitosi (1,5/100 pazienti/anno) e 7 neutropenia
lieve (3,5/100 pazienti/anno). Altri eventi avversi riportati sono stati
nausea, vomito, dolore addominale, aumento delle transaminasi e
artralgie, con frequenza non superiore a quella riportata in pazienti
in monoterapia con DFP. In 64 pazienti trattati per almeno 12 mesi
il valore di ferritina serica è diminuito da 5243 ± 2345 a 3439 ±
2446 ng/mL (p < 0,001). L’escrezione urinaria di ferro durante la
terapia combinata era doppia rispetto a quella in monoterapia con
DFO o DFP. In 20 pazienti che assumevano terapia cardiologica
all’inizio del trattamento, la FEVS è aumentata da 48,6 ± 9% a 57
± 6% (p = 0,0001) in 12-57 mesi, senza che venisse modificata la
terapia farmacologica per la cardiopatia.
Nel 2007, Tanner et al. hanno pubblicato uno studio controllato in
doppio cieco in cui sono 65 pazienti con accumulo di ferro moderato (T2* da 8 a 20 msec), già in terapia con DFO per via sottocutanea, sono stati randomizzati a ricevere anche DFP 75 mg/
kg/die (gruppo in trattamento combinato) o placebo, sempre per
via orale (gruppo in DFO). Il T2* cardiaco è aumentato in maniera
significativamente maggiore nel gruppo in combinato rispetto al
gruppo in DFO (incremento della media geometrica 1,50 vs. 1,24;
p = 0,02), come anche la FEVS (2,6% vs. 0,6%; p = 0,05). Anche
la ferritina serica ed il ferro epatico si sono ridotti maggiormente
nel gruppo in combinato (-976 vs. -233 ng/ml; p < 0,001 e 5,8 vs.
0,8 msec, p < 0,001, rispettivamente). Uno studio prospettico che
ha coinvolto 15 pazienti con talassemia major con siderosi miocardica severa (T2* < 8 msec) e disfunzione ventricolare sinistra o
scompenso cardiaco ha dimostrato inequivocabilmente l’efficacia
della terapia combinata (Tanner et al., 2008). Infatti il T2* cardiaco
è aumentato da 5,7 ± 0,98 msec a 7,9 ± 2,47 msec (p = 0,010), e
la FEVS è aumentata significativamente e rapidamente da 51,2 ±
10,9% all’inizio del trattamento a 65,6 ± 6,7%; (p < 0,001). Inoltre
durante i 12 mesi di trattamento, la ferritina serica è diminuita da
2057 a 666 ng/mL (p < 0.001) e il T2* epatico è aumentato da 3,7
± 2,9 msec a 10,8 ± 7,3 msec (p = 0,006). I risultati dello studio
suggeriscono che la terapia combinata è efficace non solo nel rimuovere il ferro cardiaco ma anche nell’aumentare la funzionalità
miocardica in pazienti con siderosi cardiaca severa e pertanto può
essere considerata una valida alternativa alla somministrazione
continua di DFO per via sottocutanea o endovenosa, senza i problemi ad essa correlata, quali ridotta compliance, complicanze infettive, trombotiche, da rottura e embolizzazione nel caso dell’impianto di catetere venoso centrale.
Farmaki et al. (2006, 2009) hanno dimostrato che il trattamento
combinato DFO e DFP è anche in grado di far regredire le complicanze endocrinologiche che, sebbene non mettano a repentaglio
come la cardiopatia la vita del paziente, sono ancora molto frequenti
e capaci di condizionare la qualità della vita. Il 44% dei 39 pazienti
con alterazioni del metabolismo glucidico si sono normalizzati dopo
5-7 anni di terapia combinata, su 18 pazienti con ipotiroidismo 10
hanno potuto sospendere la terapia con tiroxina e 4 hanno ridotto
significativamente la dose, 7 su 14 maschi ipogonadici hanno interrotto il trattamento con testosterone e 6 su 19 donne ipogonadiche
all’inizio della terapia combinata sono state in grado di concepire.
Per quanto riguarda l’efficacia del trattamento alternato, invece, in
uno studio randomizzato, Galanello et al. (2006) hanno messo a confronto il trattamento con DFO per 2 gg/settimana e DFP per 5 gg/settimana vs. la monoterapia con DFO 5-7 gg/settimana. Dopo 12 mesi
di trattamento, la ferritina serica è diminuita in maniera simile nei
2 gruppi (-248 ± 791 ng/ml nel gruppo in terapia alternata e 349 ±
573 ng/ml per il gruppo trattato col solo DFO; p = 0,58), come anche
la concentrazione di ferro intraepatico (-65 ± 615 vs. -239 ± 474 μg
Fe/g, p = 0,2). Più recentemente, Abdelrazik (2007) ha riportato che
il trattamento alternato con DFO e DFP è più efficace del solo DFO
nel ridurre la ferritina serica, migliorare la funzione miocardica e
promuovere l’escrezione di ferro urinario. Le differenze tra i due studi potrebbero essere dovute al differente numero di pazienti trattati,
al diverso numero di giorni di infusione di DFO, e ai diversi criteri di
inclusione in termini di età e ferritina. In uno studio prospettico 213
pazienti sono stati randomizzati a ricevere DFO e DFP alternati (105
pazienti: DFP 75 mg/kg/d per 4 giorni/settimana e DFO 50 mg/kg
per 8-12 ore per i rimanenti 3 giorni/settimana) o DFP (108 pazienti:
75 mg/kg/d tutti i giorni), con un follow up di 5 anni (Maggio et al.,
2009). La riduzione della ferritina serica è stata significativamente
superiore nel gruppo in terapia alternata (p = 0,005), mentre i risultati in termini di sopravvivenza, eventi avversi e costi non sono
risultati statisticamente diversi.
In definitiva, se la terapia combinata DFO + DFP può essere considerata un regime chelante intensivo indicato in pazienti con grave
sovraccarico di ferro, in particolare a livello cardiaco, il trattamento
37
R. Origa, R. Galanello
alternato con DFO e DFP appare più adatto al trattamento di pazienti
con accumulo di ferro moderato.
Due studi hanno valutato la sopravvivenza in pazienti in terapia
chelante combinata. A Cipro nel 1999, in seguito al riscontro di un
progressivo incremento della mortalità per cardiopatia negli ultimi
20 anni in pazienti in trattamento standard con DFO (p < 0,001), è
stata introdotta la terapia combinata nei pazienti a rischio di scompenso cardiaco (Telfer et al., 2006). La mortalità per cardiopatia
si è ridotta in maniera significativa a partire dal 2000 e l’analisi
multivariata ha evidenziato che la terapia chelante combinata era
l’unico fattore indipendente associato con l’aumento della sopravvivenza (Telfer et al., 2009). In uno studio multicentrico e randomizzato in 256 pazienti con talassemia major, è stata messa a
confronto la sopravvivenza di gruppi trattati con monoterapia con
DFO o con DFP, con terapia alternata DFP-DFO, o con DFP-DFO
combinato (Maggio et al., 2009a). Nessun decesso si è verificato
nel gruppo trattato con DFP in monoterapia o in combinazione con
DFO. Solo un decesso è avvenuto nel gruppo trattato con DFPDFO alternati (il paziente aveva avuto un episodio di scompenso
cardiaco un anno prima) e 10 decessi si sono verificati nel gruppo
trattato con solo DFO. I fattori di rischio maggiormente associati
al rischio di mortalità sono stati il trattamento con DFO, le complicanze da accumulo di ferro e l’interazione tra età e sesso (i maschi
sono risultati più a rischio delle femmine).
Un nuovo chelante orale: il deferasirox
Il DFX, entrato in commercio in Italia e nel resto dell’Europa nel
2007, è secondo la relazione dell’EMEA (European Medicines Agency) indicato per il trattamento del sovraccarico di ferro dovuto a frequenti emotrasfusioni (= 7 ml/kg/mese di globuli rossi concentrati)
in pazienti con beta talassemia major di età pari e superiore ai 6
anni. Inoltre nei casi in cui la terapia con DFO sia controindicata o
inadeguata, può essere prescritto a pazienti con altri tipi di anemia,
e bambini di età compresa tra due e cinque anni.
In base al profilo farmacocinetico e all’emivita (11-19h), DFX può
essere somministrato in un’unica dose giornaliera. La dose di 20-30
mg/kg/die, è risultata avere un’efficacia pari a quella di 40 mg/kg/
die di DFO nel ridurre la concentrazione di ferro epatico (Piga et al.,
2006). Studi successivi hanno evidenziato che l’apporto trasfusionale condiziona la risposta al DFX e, deve essere preso in considerazione nella scelta del dosaggio più appropriato anche in funzione
dell’obiettivo terapeutico, sia esso di ridurre o di evitare l’aumento
del sovraccarico di ferro (Cohen et al., 2008). Questo approccio è
stato utilizzato nello studio EPIC (Evaluation of Patients’ Iron Chelation), nel quale il dosaggio di DFX era adeguato ogni 3 mesi in 937
pazienti con beta talassemia major in funzione dell’andamento della
ferritina serica e delle variazioni nell’introduzione di ferro con le trasfusioni (Cappellini et al., 2008). I pazienti che ricevevano 30 mg/kg/
die mostravano la maggiore riduzione in termini di ferritina serica, e
i pazienti che ricevevano < 20 o = 20 < 30 mg/kg/die mantenevano
il bilancio del ferro. A lungo termine (follow up pari a 4,5 anni), il DFX
si è confermato efficace in funzione della dose e del regime trasfusionale anche in pazienti precedentemente trattati senza successo
con DFO o con DFP, per tossicità, scarsa risposta alla terapia o non
compliance (Cappellini et al., 2008) .
DFX è in genere ben tollerato. Gli eventi avversi più frequentemente
riportati sono dolore addominale, nausea, diarrea e vomito. Un terzo
dei pazienti presenta un aumento non progressivo della creatinina,
in genere dose-dipendente e spesso a risoluzione spontanea. Si raccomanda comunque di valutare la creatinina serica almeno 2 volte
38
prima dell’inizio della terapia e poi mensilmente, riducendo la dose
o interrompendo temporaneamente la terapia in caso di aumento
significativo.
Per quanto riguarda l’effetto del DFX sul ferro cardiaco, dopo promettenti esperimenti in modelli animali, i primi studi clinici sono in fase
di pubblicazione. In 114 pazienti con accumulo di ferro miocardico e
FEVS ≥ 56% trattati per un anno con DFX a dose media di 32,6 mg/
kg/die, il T2* cardiaco è aumentato da 11,2 msec ± 40,5% a 12,9
msec ± 49,5% (+16%; p < 0,0001), mentre la FEVS è rimasta invariata (da 67,4 ± 5,7% a 67,0 ± 6,0% (-0,3%; p = 0,53) (Pennell et
al., 2009). Nello stesso studio, in 78 pazienti senza accumulo di ferro
miocardico, il T2* cardiaco non si è modificato durante il trattamento
[da 32,0 msec ± 25,6% a 32,5 msec ± 25,1% (+2%; p = 0.57)]
e la FEVS è aumentata [da 67,7 ± 4,7% to 69,6 ± 4,5% (+1,8%;
p > 0,001)]. Ulteriori studi sono necessari per stabilire in maniera
inequivocabile se il DFX sia realmente efficace nel rimuovere il ferro
cardiaco, anche a dosi inferiori a quelle considerate.
Novità in tema di ferrochelazione in età pediatrica
La modalità di somministrazione del DFO è problematica specialmente in età pediatrica e adolescenziale ed i rischi legati al sovradosaggio o a ipersensibilità sono particolarmente rilevanti in fase
di accrescimento. L’introduzione dei chelanti orali ha costituito una
grande opportunità per questa categoria di pazienti. Il profilo di sicurezza del DFX per i pazienti pediatrici è paragonabile a quello degli
adulti sino a dosi di 30 mg/kg/die. La dose iniziale raccomandata e
le modificazioni di dose consigliate sono analoghe a quelle per i pazienti adulti (Piga et al., 2008), essendo simile il profilo di farmacocinetica. La dose di 10 mg precauzionalmente proposta nei primi studi
si è dimostrata insufficiente (Piga et al., 2006). Per quanto riguarda
il DFP, è da qualche mese in commercio anche in Italia la soluzione
orale, che permette di superare i problemi legati all’assunzione delle
compresse, nei bambini e negli adulti con problemi di deglutizione,
non solo aumentando ulteriormente il ventaglio terapeutico ma anche migliorando la qualità di vita.
Va comunque ricordato che i dati a disposizione sull’uso del DFP nei
bambini tra 6 e 10 anni di età sono limitati e non sono disponibili dati
sull’uso del DFP nei bambini di età inferiore ai 6 anni.
Conclusioni e prospettive per il futuro
Con l’avvento nella pratica clinica di metodiche non invasive per
la misurazione dell’accumulo di ferro soprattutto a livello cardiaco
(RM) e l’introduzione dei chelanti orali, è cominciata una nuova era
per i bambini e gli adulti con talassemia. Il DFP in monoterapia si
è dimostrato efficace nel ridurre la ferritina serica e l’accumulo di
ferro cardiaco e in combinazione con la DFO è capace di rimuovere
il ferro in eccesso negli organi coinvolti riuscendo, in un certo numero di casi, a far regredire la compromissione d’organo compresa la
cardiopatia anche in fase avanzata e di scompenso e le complicanze
endocrine. Il DFX è in genere efficace e ben tollerato e può essere
utilizzato in sicurezza anche nei bambini. La sopravvivenza è notevolmente aumentata e la talassemia è diventata, da malattia fatale,
patologia cronica. Pur in attesa di ulteriori chelanti affinché tutti i
pazienti possano essere adeguatamente trattati e ricordando che
in molti Paesi non ci sono le risorse per utilizzare il ventaglio terapeutico esistente, con i chelanti orali disponibili si può cominciare a
pensare a nuovi obiettivi come la prevenzione dell’accumulo di ferro
prevenendo così la cardiopatia e le altre complicanze dell’emocromatosi trasfusionale.
Nuovi farmaci ferrochelanti e nuove strategie di ferro chelazione nella talassemia major
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
I primi studi relativi al DFP avevano dimostrato che, a dosi comparabili, l’efficacia del DFP nel rimuovere il ferro corporeo è simile a quella della DFO
con un buon profilo di accettabilità. Le prime segnalazioni sulla terapia di combinazione con DFP e DFO suggerivano un effetto additivo o sinergico sulla
escrezione di ferro. Alcuni studi retrospettivi indicavano la possibilità che il DFP fosse più efficace della DFO nel rimuovere il ferro miocardico. Nel 1999
era cominciata la sperimentazione sull’uomo di un nuovo chelante orale, il DFX.
Cosa sappiamo adesso
Grazie alla diffusione della metodica del T2* con la risonanza magnetica, il DFP si è dimostrato inequivocabilmente superiore alla DFO nel ridurre il ferro
cardiaco. La terapia combinata DFP e DFO è una terapia intensiva capace di ridurre il ferro cardiaco ed epatico e, in molti casi, di far regredire la cardiopatia e le complicanze endocrine. Il DFX, in commercio in Europa dal 2006, si è confermato un farmaco efficace e in genere ben tollerato, utilizzabile
anche nei bambini. È importante modularne la dose in funzione delle variazioni di ferritina serica e dell’apporto trasfusionale.
... e nella pratica clinica
Il DFX può costituire un’alternativa alla DFO nei primi anni di vita. La risonanza magnetica e gli altri metodi non invasivi di misurazione dell’accumulo
di ferro devono guidare le scelte terapeutiche. La presenza di ferro miocardico deve far considerare l’introduzione del DFP, in monoterapia o in associazione con DFO. Questa opzione diviene prioritaria quando è necessaria una chelazione intensiva, come in presenza di un severo accumulo di ferro
miocardico e di cardiopatia clinica.
Bibliografia
Abdelrazik N. Pattern of iron chelation therapy in Egyptian beta thalassemic
patients: Mansoura University Childre’’s Hospital experience. Hematology
2007;12:577-85.
Anderson LJ, Wonke B, Prescott E, et al. Comparison of effects of oral DFP
and subcutaneous desferrioxamine on myocardial iron concentrations and
ventricular function in beta-thalassaemia. Lancet 2002;360:516-20.
** È il primo studio retrospettivo a suggerire (e con un metodo accurato e
ripetibile come la risonanza magnetica) la maggiore cardioprotezione del
deferiprone rispetto alla desferrioxamina.
Borgna-Pignatti C, Cappellini MD, De Stefano P, et al. Cardiac morbidity and
mortality in deferoxamine- or DFP-treated patients with thalassemia major.
Blood 2006;107:3733-7.
Borgna-Pignatti C, Rugolotto S, De Stefano P, et al. Survival and complications
in patients with thalassemia major treated with transfusion and deferoxamine.
Haematologica 2004;89:1187-93.
* Uno degli studi che analizza la sopravvivenza e la prevalenza di complicanze
prima dell’avvento dei chelanti orali.
Cappellini MD, Galanello R, Piga A, et al. Efficacy and safety of deferasirox
(Exjade®) with up to 4.5 years of treatment in patients with thalassemia major: a
pooled analysis (abstract). Blood 2008;112:5409.
Cappellini MD, Porter J, El-Beshlawy A, et al; on behalf of the EPIC study
investigators. Tailoring iron chelation by iron intake and serum ferritin: prospective
EPIC study of deferasirox in 1744 patients with transfusion-dependent anemias.
Haematologica 2010;95:557-66.
* Lo studio sottolinea la necessità di rivalutare periodicamente la dose di
deferasirox in funzione delle fluttuazioni di ferritina serica e dell’apporto
trasfusionale (ma questo è una norma di buona pratica clinica da tenere a mente
per ciascuno dei tre chelanti).
Cohen AR, Galanello R, Piga A, et al. Safety and effectiveness of long-term
therapy with the oral iron chelator deferiprone. Blood 2003;102:1583-7.
Cohen AR, Glimm E, Porter JB. Effect of transfusional iron intake on response to
chelation therapy in beta-thalassemia major. Blood 2008;111:583-7.
Cunningham MJ, Macklin EA, Neufeld EJ, et al. Thalassemia Clinical Research
Network. Complications of beta-thalassemia major in North America. Blood
2004;104:34-9.
Farmaki K, Tzoumari I, Pappa C, Chouliaras G, et al. Normalisation of total body
iron load with very intensive combined chelation reverses cardiac and endocrine
complications of thalassaemia major. Br J Haematol 2009 Nov 12. [Epub ahead
of print].
* È lo studio in cui si dimostra che gran parte delle complicanze da accumulo di
ferro sono reversibili con la terapia chelante intensiva.
Galanello R, Kattamis A, Piga A, et al. A prospective randomized controlled trial
on the safety and efficacy of alternating deferoxamine and DFP in the treatment
of iron overload in patients with thalassemia. Haematologica 2006;91:1241-3.
Galanello R, Piga A, Alberti D, et al. Safety, tolerability, and pharmacokinetics of
ICL670, a new orally active iron-chelating agent in patients with transfusion-dependent iron overload due to beta-thalassemia. J Clin Pharmacol 2003;43:56572.
** Lo studio che riporta i dati relativi alla prima sperimentazione sull’uomo del
deferasirox.
Galanello R, Piga A, Forni GL, et al. Phase II clinical evaluation of deferasirox,
a once-daily oral chelating agent, in pediatric patients with beta-thalassemia
major. Haematologica 2006;91:1343-51.
* I risultati della sperimentazione del deferasirox sui bambini, con importanti
conclusioni relative alla sicurezza, alla farmacocinetica e alla dose efficace.
Maggio A, D’Amico G, Morabito A, et al. DFP vs. deferoxamine in patients with
thalassemia major: a randomized clinical trial. Blood Cells Mol Dis 2002;28:196208.
** Recentissimo studio prospettico randomizzato che analizza la sopravvivenza
dei pazienti con talassemia in funzione della terapia ferrochelante.
Maggio A, Vitrano A, Capra M, et al. Long-term sequential DFP-deferoxamine
vs. DFP alone for thalassaemia major patients: a randomized clinical trial. Br J
Haematol 2009;145:245-54.
Uno studio rilevante per comprendere definizione, ruolo e limiti della terapia
sequenziale desferrioxamina e deferiprone.
Maggio A, Vitrano A, Capra M, et al. Improving survival with DFP treatment
in patients with thalassemia major: a prospective multicenter randomised
clinical trial under the auspices of the Italian Society for Thalassemia and
Hemoglobinopathies. Blood Cells Mol Dis 2009(a);42:247-51.
Modell B, Khan M, Darlison M. Survival in beta-thalassaemia major in the UK:
data from the UK Thalassaemia Register. Lancet 2000;355:2051-2.
Nisbet-Brown E, Olivieri NF, Giardina PJ, et al. Effectiveness and safety of ICL670
in iron-loaded patients with thalassaemia: a randomised, double-blind, placebocontrolled, dose-escalation trial. Lancet 2003;361:1597-602.
Origa R, Bina P, Agus A, et al. Combined therapy with DFP and desferrioxamine in
thalassemia major. Haematologica 2005;90:1309-14.
* Dopo molti studi aneddotici, lo studio che analizza vantaggi e rischi della
terapia combinata prima della diffusione della metodica del T2*, in un’ampia
popolazione di pazienti.
Pennell DJ, Berdoukas V, Karagiorga M, et al. Randomized controlled trial of
DFP or deferoxamine in beta-thalassemia major patients with asymptomatic
myocardial siderosis. Blood 2006;107:3738-44.
** Lo studio chiave (randomizzato e controllato) che ha dimostrato in maniera
inequivocabile la superiorità del deferiprone rispetto alla desferrioxamina nel
chelare il ferro cardiaco.
Pennell DJ, Porter JB, Cappellini MD, et al. Efficacy of deferasirox in reducing
and preventing cardiac iron overload in {beta}-thalassemia. Blood 2009 Dec 8.
[Epub ahead of print].
Piga A, Gaglioti C, Fogliacco E, et al. Comparative effects of DFP and
39
R. Origa, R. Galanello
deferoxamine on survival and cardiac disease in patients with thalassemia
major: a retrospective analysis. Haematologica 2003;88:489-96.
Piga A, Galanello R, Forni GL, et al. Randomized phase II trial of deferasirox
(Exjade, ICL670), a once-daily, orally-administered iron chelator, in comparison
to deferoxamine in thalassemia patients with transfusional iron overload.
Haematologica 2006;91:873-80.
Piga A, Kebaili K, Galanello R, et al. Cumulative efficacy and safety of 5-year
deferasirox (Exjade®) treatment in pediatric patients with thalassemia major: a
Phase II multicenter prospective trial. Blood 2008;11211abstr 5413.
Taher A, Sheikh-Taha M, Koussa S, et al. Comparison between deferoxamine
and DFP (L1) in iron-loaded thalassemia patients. Eur J Haematol 2001;67:30-4.
Tanner MA, Galanello R, Dessi C, et al. A randomized, placebo-controlled, doubleblind trial of the effect of combined therapy with deferoxamine and DFP on
myocardial iron in thalassemia major using cardiovascular magnetic resonance.
Circulation 2007;115:1876-84.
** Lo studio che ha dimostrato inequivocabilmente l’efficacia del trattamento
combinato nel rimuovere il ferro cardiaco.
Tanner MA, Galanello R, Dessi C, et al. Combined chelation therapy in thalassemia
major for the treatment of severe myocardial siderosis with left ventricular
dysfunction. J Cardiovasc Magn Reson 2008;10:12.
* La dimostrazione che la cardiopatia talassemica, anche in fase avanzata, è
reversibile con la terapia chelante intensiva.
Telfer P, Coen PG, Christou S, et al. Survival of medically treated thalassemia
patients in Cyprus. Trends and risk factors over the period 1980-2004.
Haematologica 2006;91:1187-92.
Telfer PT, Warburton F, Christou S, et al. Improved survival in thalassemia major
patients on switching from desferrioxamine to combined chelation therapy with
desferrioxamine and DFP. Haematologica 2009;94:1777-8.
Wonke B, Wright C, Hoffbrand AV. Combined therapy with DFP and
desferrioxamine. Br J Haematol 1998;103:361-4.
* La prima segnalazione dei vantaggi dell’uso contemporaneo della desferrioxamina e del deferiprone.
Zurlo MG, De Stefano P, Borgna-Pignatti A, et al. Survival and causes of death in
thalassaemia major. Lancet 1989;2:27-30.
Corrispondenza
Renzo Galanello, 2a Clinica Pediatrica, Ospedale Regionale Microcitemie, via Jenner sn, 09121 Cagliari. Tel +39 070 6095508. E-mail: renzo galanello@
mcweb.unica.it
40
Gennaio-Giugno 2010 • Vol. 40 • N. 157-158 • Pp. 41-45
frontiere
Il ritardo mentale associato al cromosoma X
Patrizia D’Adamo, Daniela Toniolo*
Divisione di Neuroscienze e *Divisione di Genetica e Biologia Cellulare, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano
Riassunto
Il ritardo mentale è una patologia caratterizzata da disturbi cognitivi, linguistici, psicomotori, dell’adattamento sociale e dell’autonomia personale. Il ritardo
mentale ha una frequenza intorno al 2% e molte sono le forme associate al cromosoma X. In base alla localizzazione sul cromosoma e alle caratteristiche
cliniche, sono stati distinte 215 patologie, apparentemente diverse, legate al cromosoma X e caratterizzate da ritardo mentale. Sono stati identificati più
di novanta geni, ma mutazioni causative in questi geni spiegano solo una parte delle famiglie affette. Più comuni sembrano essere le microduplicazioni
di alcune regioni del cromosoma, in cui si trovano geni noti come MECP2 o GDI1. Non è ancora possibile una diagnosi molecolare delle diverse forme di
ritardo mentale. L’analisi della funzione dei geni per il ritardo mentale sta cominciando però a dare i primi risultati, suggerendo nuove molecole da utilizzare
per nuove terapie farmacologiche.
Summary
Mental retardation is a common disorder characterized by cognitive and behavioral deficits with onset before 18 years of age. Mental retardation has a
frequency of about 2% and X linked forms are quite frequent. Family studies and clinical characterization defined 215 different X linked disorders, affected
with mental retardation, and 90 genes have been identified. However causative mutations were found in only a portion of the X linked affected families.
More frequent appeared microduplications involving known genes, such as MECP2 or GDI1. A molecular diagnosis is not available for all the different forms
of X linked mental retardation. However functional studies are identifying new molecules that could be used for new pharmacological therapies of some
forms of mental retardation.
Introduzione
Il ritardo mentale (RM) è una patologia pediatrica causata da uno
sviluppo sub-ottimale del sistema nervoso centrale e delle funzioni
intellettive, caratterizzata da disturbi cognitivi, linguistici, psicomotori, dell’adattamento sociale e dell’autonomia personale. Il RM è
classificato in base al quoziente intellettivo (QI). Le forme più frequenti presentano un QI che varia da lieve (50 < QI < 70) a medio
(40 < QI < 50): molto più rare sono le forme di RM con un QI grave
(20 < QI < 40) o gravissimo (QI < 20) (Leonard et al., 2002).
A oggi, la diagnosi di RM è eseguita sul riscontro clinico di un disturbo
intellettivo con almeno due deviazioni standard rispetto alla norma,
corrispondente a un QI < 70, valutato con test quali le scale Wechsler e le Matrici di Raven, che permettono una valutazione del livello
d’intelligenza espresso in QI, e una stima delle capacità cognitive dal
punto di vista teorico-astratto (QI Verbale) e pratico-concreto (QI di
Performance). Sono parte della diagnosi di RM anche un’evidente incapacità da parte dell’individuo di integrarsi in un ambiente sociale
come l’ambiente familiare e lavorativo e infine l’insorgere della patologia prima dei diciotto anni d’età (Salvador-Carulla et al., 2008).
Nei paesi occidentali, la prevalenza del RM è del 2%. Sebbene l’eziologia del RM non sia ben definita, sia fattori genetici che ambientali,
durante il periodo pre-, peri- e post-natale, sono le maggiori cause
di alterazioni nello sviluppo e nel funzionamento del sistema nervoso
centrale e quindi di RM. Le cause genetiche, descritte come cambiamenti cromosomici strutturali o numerici e mutazioni in singoli geni,
contano per il 50% delle forme di RM moderato e/o severo, mentre
fattori ambientali quali malnutrizione e deprivazione culturale, hanno
soprattutto un ruolo nella patogenesi delle forme lievi (Raymond,
2006).
Nella banca dati OMIM (Online Mendelian Inheritance in Man: http://
www.ncbi.nlm.nih.gov/omim) ben 1462 voci contengono il termine
RM. All’interno di quest’enorme casistica si possono distinguere for-
me sindromiche in cui il RM è associato a altri caratteri, spesso tratti
somatici e clinici ben definiti, come la Sindrome d’Angelman (OMIM
105830), di Prader-Willy (OMIM 176270), di Rett (OMIM 312750), di
Down (OMIM 190685), e forme dette non-specifiche in cui l’unica
caratteristica è il RM. Lo studio e la diagnosi del RM sindromico sono
relativamente più semplici, perché possono basarsi su un numero
maggiore di sintomi e essere quindi più precisi. Più complicato è invece lo studio del RM non-specifico, poiché una definizione precisa
delle funzioni cognitive alterate non è per lo più possibile.
Molte sono le forme di RM associate al cromosoma X (Gecz et al.,
2009). Già nella prima metà del secolo scorso numerosi studi hanno riportato un eccesso di maschi tra i pazienti affetti da RM. In
particolare, nel 1938 Lionel Penrose pubblicò la famosa “Colchester
Survey”, una ricerca condotta in 1280 pazienti istituzionalizzati, in
cui osservò un numero molto più alto di uomini che di donne che
presentavano difetti cognitivi (Penrose, 1938): il rapporto tra maschi
e femmine era di 1.25:1. Tale rapporto fu in seguito suffragato da
numerosi studi effettuati in U.S.A, Canada, Australia ed Europa, nei
quali si osservò un eccesso di circa il 30% di maschi affetti da ritardo mentale (Drillien, 1967; Baird et al., 1985; McLaren et al., 1987).
Nel 1970, Lehrke studiò numerose famiglie dove solo i maschi erano
affetti da RM, e formulò l’ipotesi che il RM fosse un carattere genetico trasmesso come legato al cromosoma X e che diversi geni del
cromosoma X fossero coinvolti nella malattia (Lehrke, 1972). L’analisi d’associazione condotta con diversi marcatori su alcune di queste
famiglie ha confermato l’ipotesi. Inoltre, l’analisi d’associazione ha
dimostrato che famiglie diverse mappavano a porzioni diverse del
cromosoma X, confermando l’esistenza e il coinvolgimento di più di
un gene. In effetti, il RM legato all’X è una delle forme più comuni
d’alterazioni delle capacità cognitive. Il cromosoma X umano contiene solo il 4% dei geni dell’intero genoma umano, ma le patologie
associate a RM riconosciute sul cromosoma X sono il 12% (Ropers,
2008; Gecz et al., 2009).
41
P. D’Adamo, D. Toniolo
L’identificazione di geni per il ritardo mentale legato all’X
L’identificazione di geni responsabili di RM associato al cromosoma
X ha inizio negli anni ’90, quando solo 39 patologie caratterizzate da
RM erano state descritte, 17 delle quali vennero mappate su diverse
regioni del cromosoma X: XLMR genes: update 1990 (Neri et al.,
1991). Nel 1988 è stato pubblicato il primo locus del cromosoma
X associato a RM non-specifico (Suthers et al., 1988), MRX1, ed
è stata proposta la nomenclatura MRX per questo gruppo di geni.
Il primo gene identificato è stato FMR1, il gene responsabile della
Sindrome da X Fragile (Oberle et al., 1991; Verkerk et al., 1991;
D’Hulst et al., 2009).
Sono dovuti passare diversi anni perche venissero identificati i primi geni per il ritardo mentale non-specifico, GDI1 (D’Adamo et al.,
1998) e OPHN1 (Billuart et al., 1998). Gli studi genetici d’associazione identificavano regioni molto estese, anche 20-30 cM (centiMorgan) e spesso la significatività statistica non era molto elevata, date
le dimensioni relativamente piccole delle famiglie. Tuttavia, grazie
agli eccezionali sviluppi delle tecniche per la caratterizzazione di
riarrangiamenti cromosomici, quali traslocazioni bilanciate e piccole
delezioni, e soprattutto alla disponibilità di sempre maggiori e più
precise informazioni sull’organizzazione del genoma ed infine della sequenza completa del genoma umano, l’identificazione di nuovi
geni per il ritardo mentale è progredita in maniera costante.
Figura 1.
Ideogramma del cromosoma X con la posizione di 82 geni associati a
RM. I geni riportati in nero, sono responsabili di forme sindromiche. I
geni riportati in grigio, preceduti dal segno “+”, causano RM associato
a malattie neuromuscolari; quelli preceduti dal segno “*”, causano RM
non specifico. I numeri indicano le corrispondenti bande cromosomiche. La lista completa dei geni e la loro funzione sono riportate nei dati
supplementari (Tabella S1) in Chiurazzi et al., 2008.
42
Fino ad oggi, sono stati identificati 215 disordini pediatrici, caratterizzati da RM di cui 97 sono state mappati ad una porzione più meno
estesa del cromosoma X mediante analisi genetica di associazione
o per la presenza di riarrangiamenti cromosomici (Fig. 1; http://xlmr.
interfree.it/home.htm). Più di 90 geni sono stati fino da ora identificati grazie al risultato di un’estesa analisi genetica e l’identificazione di mutazioni in DNA raccolti da diversi consorzi internazionali.
Mutazioni in quasi 40 geni sono state trovate in famiglie affette da
RM non-specifico. Sorprendentemente, considerando il numero di
geni identificati, un gene responsabile è stato identificato soltanto
in circa il 50% delle famiglie analizzate. Complessivamente, quindi, i risultati di questa analisi indicano che ciascun gene spiega un
piccolo numero di famiglie affette e corrisponde in genere a non più
dello 0,2-0,5% dei casi: ci dobbiamo quindi aspettare un grande
numero di mutazioni rare o addirittura uniche in molti geni (Chiurazzi
et al., 2008). Poche sono le eccezioni. Una è il gene ARX che è stato
trovato mutato nel 9,5% delle famiglie testate (Gecz et al., 2006). In
particolare, una duplicazione di 24 bp nell’esone 2 (c.428_451dup)
è stata trovata in circa la metà dei casi studiati. Analisi degli aplotipi
associati in un numero abbastanza grande di pazienti ha dimostrato
che la mutazione sembra dovuta a eventi indipendenti e che si tratterebbe quindi di un “hot spot” di mutazione. Anche i geni CUL4B
(Tarpey et al., 2007; Zou et al., 2007), JARIDIC (Jensen et al., 2005)
e SLC6A8 (Hahn et al., 2002) sono stati trovati mutati relativamente
più frequentemente e ciascuno corrisponde a circa il 2-3% delle famiglie analizzate. Tenendo conto che le stime sono soggette ad errori di campionamento anche molto grandi, la frequenza di questi geni
in maschi con difetti cognitivi si aggirerebbe tra l’1% e lo 0,2%.
Questo ci porta ad una successiva considerazione che deriva
dall’analisi dei geni per il RM finora identificati: diversi di questi geni
sono stati trovati mutati sia in forme di RM non-specifico che in
diverse forme sindromiche. Quindi, la distanza tra i due tipi di RM è
molto piccola e potrebbe ancora diminuire a mano a mano che più
geni vengono identificati e le famiglie meglio caratterizzate clinicamente. Ci sono molti esempi dei geni responsabili di ritardo mentale
non-specifico sono stati ritrovati mutati anche in forme sindromiche
e viceversa (Frints et al., 2002; Gecz et al., 2009). Ne descriveremo
brevemente due.
ARX, un fattore trascrizionale espresso in cervello, pancreas e testicolo, è stato trovato mutato in almeno 7 diverse sindromi e solo in
parte la gravità della sindrome è associata alla gravità delle mutazioni (Gecz et al., 2006). Il gene MECP2, identificato come responsabile della Sindrome di Rett (RTT), codifica per un repressore della
trascrizione, che controlla l’organizzazione della cromatina e il processamento dell’RNA (Chahrour et al., 2007). RTT nella sua forma
tipica, si manifesta solo nelle femmine, intorno al primo anno di vita,
ed è ereditato come carattere dominante legato all’X. Mutazioni di
perdita di funzione del gene MECP2 causano RTT, la cui gravità (età
di insorgenza e intensità e numero di manifestazioni neuropsichiatriche) dipende in gran parte dalle modalità di inattivazione del cromosoma X. Nei casi in cui i due cromosomi X delle femmine non si
inattivano a caso in uguale percentuale, ma c’è uno sbilanciamento
a favore dell’espressione del gene MECP2 normale, è stato notato
un netto miglioramento dei sintomi di RTT, fino a casi che presentavano un RM non specifico. Nei maschi, questo gruppo di mutazioni
è causa di encefalopatie neonatale ed è di solito letale. Sono però
state descritte altre mutazioni, che non causano RTT nelle femmine,
ma possono causare forme diverse di RM e/o disordini psichiatrici
nei maschi. Anche in questo caso i fenotipi associati a mutazioni
del gene MECP2 sono estremamente variabili, da RM non specifico
moderato a RM grave con presenza di disordini psichiatrici.
Il ritardo mentale associato al cromosoma X
Infine dobbiamo citare un recente lavoro condotto da un consorzio
di laboratori (IGOLD Consortium) che ha affrontato direttamente con
un progetto su larga scala l’identificazione dei geni per il RM legati al
cromosoma X: sono stati infatti sequenziati tutti gli esoni di 718 dei
848 geni annotati (in Vega ed Ensembl/NCBI database) sul cromosoma X in 208 famiglie, selezionate perché caratterizzate da più di un
individuo maschio con RM e da un pattern di trasmissione compatibile con un’ereditarietà legata all’X (Tarpey et al., 2009). Questo enorme
lavoro ha portato all’identificazione di mutazioni causative in 8 nuovi
geni. Questo lavoro ha tuttavia anche evidenziato un grandissimo numero di mutazioni sia uniche sia ricorrenti. In alcuni casi le mutazioni
causavano interruzione di un trascritto e quindi eliminavano il prodotto genico ma non segregavano con il RM nelle famiglie in cui erano
state identificate: non ne potevano essere la causa. Infine sono state
identificate un gran numero di varianti sia di senso che sinonime
con un non chiaro significato biologico e clinico. Il lavoro dimostra i
vantaggi ma anche le difficoltà associate all’interpretazione di un tale
screening: da una parte rimane la possibilità che alcune delle famiglie di cui non è stato identificato il gene non siano portatrici di un RM
legato all’X oppure presentino mutazioni in regioni regolative dei geni
o in geni o porzioni di geni non ancora identificati (RNA non codificanti, microRNA e altro), dall’altra rimane aperto il problema di verificare
il ruolo di tutte le mutazioni che segregano col RM nelle famiglie e
che quindi potrebbero essere causative. Il più probabile scenario per
le cause genetiche del ritardo mentale legato al cromosoma X e più
in generale anche per quello autosomico è in ogni caso quello che
prevede molte mutazioni rare in molti geni diversi.
ne della trascrizione. Una frazione rilevante di queste proteine sono
coinvolte in processi fondamentali come il metabolismo cellulare,
il processamento di DNA e RNA, sintesi proteica, regolazione del
ciclo cellulare. Un gruppo abbastanza grande, di cui sono esempi
MECP2 e JARID1C è coinvolti nella regolazione trascrizionale e nel
modellamento della cromatina (Kramer et al., 2009). Un altro comprende numerosi regolatori ed effettori della GTPasi della famiglia
Rho, di cui è un rappresentante OPHN1 (Khelfaoui et al., 2007), che
controllano l’organizzazione del citoscheletro di actina e come conseguenza hanno una forte effetto sulla crescita dei neuriti. Tra le
GTPasi, sono trovate anche quelle della famiglia Rab e loro effettori e
regolatori, come RAB39B (Giannandrea, 2010) e GDI1 (Bianchi et al.,
2009), che controllano il traffico intracellulare. Anche le mutazioni in
geni di questo gruppo possono alterare la crescita/sviluppo dei neuriti e/o la formazioni delle sinapsi (Sudhof et al., 2008). Molti geni,
di diversa funzione, infine codificano per proteine che si localizzano
alla sinapsi e sembrano svolgere una funzione rilevante nel funzionamento della sinapsi stessa (per un approfondimento: http://www.
genes2cognition.org/). Alcuni di questi geni non sono stati implicati
solo in RM, ma anche in altre patologie cognitive e in particolare
nell’autismo, come le neuroligine (3 e 4) e la neurexina 1 (NRXN1),
che lega le neuroligine (Sudhof, 2008), o nella schizofrenia, come
ancora NRXN1 e APBA2 (Owen et al., 2009). Molti dei risultati della
ricerca degli ultimi anni sembrano quindi indicare come geni per
le funzioni cognitive possono essere alterati in diverse patologie e,
come è accaduto per altri gruppi di disordini, che le stesse alterazioni possono essere comuni a fenotipi anche molto diversi.
La funzione dei geni per il ritardo mentale legato all’X
Dei circa 90 geni identificati fino ad oggi, di alcuni si conosceva
una possibile funzione e di molti è stata studiata. Come riportato in
Figura 2, questi geni codificano per proteine coinvolte in una varietà
di funzioni biologiche: dalla traduzione del segnale alla regolazio-
Varianti strutturali e ritardo mentale
La complessità del quadro brevemente descritto nelle sezioni precedenti ci fa capire che siamo ancora lontani da quella diagnosi
molecolare di RM che potrebbe consentire di superare le difficoltà
diagnostiche dovute alla variabilità del fenotipo da una parte e alla
somiglianza clinica delle diverse forme di RM non-specifico. Tuttavia
alcuni risvolti pratici sono stati ottenuti dall’analisi della presenza
di piccoli riarragiamenti cromosomici tramite array-CGH, la tecnica
che permette l’identificazione di delezioni/duplicazioni anche molto
piccole e che coinvolgono uno o pochi geni (Lee et al., 2007) e che
sono state identificate piu volte come cause di disordini dello sviluppo. In particolare è stato trovato che microduplicazioni di alcune regioni del cromosoma X, in cui si trovano geni noti per il RM, causano
un’aumentata espressione di tali geni e potrebbero causare un alterazione del normale sviluppo cognitivo e il RM (Froyen et al., 2007).
Quattro “hot spot” di duplicazione sono stati identificati fino da ora.
Due coinvolgono regioni di grandezza variabile che comprendono
MECP2 e GDI1 rispettivamente (Carvalho et al., 2009; Vandewalle
et al., 2009). Una terza regione è stata identificata in Xp11.22, in
corrispondenza dei geni HSD17B10 e HUWE1 (Froyen et al., 2008).
Infine due regioni sono associate la prima a ipopituitarismo legato al
l’X (Solomon et al., 2004) e l’altra al gene PLP1, responsabile della
malattia di Pelizeus Merzbacher, un disordine della mielinazione associato con RM lieve (Woodward, 2008).
In tutti i casi studiati, le duplicazioni presentavano un fenotipo meno
severo delle mutazioni di perdita di funzione e si può prevedere che
questo tipo di riarrangiamenti cromosomici, anche de novo, possano
spiegare una parte dei casi di RM legato all’X per cui non è stato
ancora identificato un gene.
Figura 2.
Diagramma a torta che illustra la funzione biologica di gruppi di proteine
codificate dai geni per il RM fino ad ora identificati. L’annotazione corrisponde a quanto riportato nella banca dati delle funzioni delle proteine,
“Gene Ontology” (consultabile sul sito: www.geneontology.com).
Quali ricadute sulla pratica clinica?
Nonostante le nostre conoscenze sulle cause genetiche del ritardo
mentale siano molto progredite negli ultimi anni, con l’identificazione
43
P. D’Adamo, D. Toniolo
di un grande numero di geni, la conoscenza della storia familiare e
una visita accurata che includa una valutazione fenotipica e neurologica rimangono punti fondamentali per la diagnosi e per decidere su
eventuali studi genetici. A questo proposito, linee guida e procedure
valutative sono state messe a punto da Battaglia e Carey (Battaglia
et al., 2003) e van Karnebeek (van Karnebeek et al., 2005).
È entrato nell’uso generale che a un paziente che presenta RM, sia
prescritta l’analisi molecolare per l’espansione di tripletta responsabile dell’X fragile, e, in presenza di epilessia e/o distonia, venga
ricercata la mutazione ricorrente (dup24bp) nel gene ARX. In caso di
ritardo mentale non-specifico spesso viene fatta una ricerca di micro-riarrangiamenti cromosomici mediante “array CGH” che come
abbiamo visto può identificare duplicazioni comuni in regioni note
oltre che presumibilmente altre regioni cromosomiche coinvolte in
microriarrangiamenti “de novo”.
Tutte le analisi che vengono comunemente fatte portano in ogni caso a
identificare solo una piccola parte delle cause del RM mentre il numero di geni da studiare sarebbe grandissimo e in ogni caso troppo grande per le tecnologie disponibili. È vero però che ci stiamo avviando
verso nuove e molto più efficienti tecnologie di analisi della variabilità
genetica, che ci permetteranno di avere in maniera relativamente più
veloce informazioni di sequenza non solo su tutti i geni del cromosoma X, ma eventualmente anche su tutti i geni autosomici, che nel
frattempo potranno essere stati individuati (Ropers, 2008).
Bisogna però almeno brevemente ricordare che l’analisi della funzione dei geni per il RM sta cominciando a dare dei primi risultati anche
dl punto di vista di possibili terapie. È questo il caso della sindrome
dell’X fragile, il cui gene è stato identificato nel 1991 e rappresenta
la forma più comune di ritardo mentale e autismo (secondo le stime
più recenti la sindrome dell’X Fragile colpisce 1/2500 individui).
A livello molecolare la sindrome dell’X fragile è causata dall’espansione di una tripletta CGG nella porzione 5’ non codificante del gene
FMR1 che supera le 200 ripetizioni, e causa la metilazione e il silenziamento del gene. Il gene FMR1 codifica per un proteina, FMRP,
che può presentare diverse forme alternative, lega l’RNA, possiede
un segnale di localizzazione nucleare, un segnale di esportazione dal
nucleo e due domini “coiled coil” che partecipano a molte interazioni
proteina-proteina (D’Hulst et al., 2009).
Il ruolo principale di FMRP nel neurone sarebbe di legare diversi
RNA e portarli alla sinapsi, dove svolgerebbe una funzione di regolatore negativo della traduzione che avviene alla post-sinapsi,
in seguito a stimolazione neuronale. Complessivamente FMRP
sembra avere un ruolo importante nella plasticità sinaptica. In particolare è stato osservato che la mancanza di FMRP è associata
ad alterazioni della depressione postsinaptica scatenata dall’attivazione del recettore del glutammato (mGlur5), in accordo con il
ruolo di regolatore negativo della traduzione. Analogamente è stato
visto che FMRP sembra essere rilevante anche per la funzionalità
del sistema GABAergico, importante per molti dei disordini comportamentali associati alla sindrome, come iperattività, epilessia,
insonnia e altre. E stato suggerito quindi l’uso terapeutico di antagonisti di mGlur e del recettore di GABA che si sono dimostrati
relativamente efficaci in modelli animali e il cui uso clinico è in
corso di test (D’Hulst et al., 2009).
Box di orientamento
Cosa sapevamo prima
Il Ritardo Mentale (RM) è una patologia pediatrica causata da uno sviluppo sub-ottimale del sistema nervoso centrale e delle funzioni intellettive, caratterizzata da disturbi cognitivi, linguistici, psicomotori, dell’adattamento sociale e dell’autonomia personale. Il RM ha una frequenza intorno al 2% e
molte sono le forme associate al cromosoma X che spiegano l’eccesso di circa il 30% di maschi affetti da ritardo mentale.
Cosa sappiamo adesso
Fino ad oggi, sono stati identificate 215 patologie caratterizzate da RM legato al cromosoma X e sono state trovate mutazioni causative in più di novanta
geni. Ciascun gene spiega quindi un piccolo numero di famiglie affette e restano ancora molti casi (circa il 50%) di cui non si conosce l’eziologia. Più
comuni sembrano essere le microduplicazioni di alcune regioni del cromosoma, che provocano aumento del dosaggio genico di geni già noti, come
MECP2 o GDI1. Poiché le duplicazioni hanno in genere un fenotipo meno severo delle mutazioni di perdita di funzione ci si attende che questo tipo di
riarrangiamenti cromosomici, anche de novo, possano spiegare una parte rilevante dei casi di RM legato all’X, per cui non esiste ancora una causa.
Quali ricadute sulla pratica clinica
La complessità del quadro ci fa capire che gli enormi sviluppi delle nostre conoscenze non ci hanno ancora permesso di arrivare a quella diagnosi molecolare precisa che tutti attendiamo. Tuttavia ci aspettiamo che le nuove tecnologie di analisi della variabilità genetica e in particolare la possibilità di
sequenziare e analizzare genomi interi a costi accessibili, nel giro di qualche anno rivoluzioneranno la diagnosi del RM. Contemporaneamente, l’analisi
della funzione dei geni per il RM sta cominciando a dare dei primi risultati. Un esempio è la sindrome dell’X Fragile per cui sono in corso o programmati
dei test clinici che hanno lo scopo di testare antagonisti di proteine della sinapsi, alterate dalla mancanza del prodotto del gene FMR1, responsabile
della sindrome.
Bibliografia
Baird PA, Sadovnick AD. Mental retardation in over half-a-million consecutive
livebirths: an epidemiological study. Am J Ment Defic 1985;89:323-30.
Battaglia A, Carey. Diagnostic evaluation of developmental delay/mental
retardation: An overview. Am J Med Genet C Semin Med Genet 2003;117C:3-14.
Bianchi, V., P. Farisello, P. Baldelli, et al. Cognitive impairment in Gdi1-deficient
mice is associated with altered synaptic vesicle pools and short-term synaptic
plasticity, and can be corrected by appropriate learning training. Hum Mol Genet
2009;18:105-17.
Billuart, P., T. Bienvenu, N. Ronce, et al. Oligophrenin-1 encodes a rhoGAP protein
involved in X-linked mental retardation. Nature 1998;392:923-6.
Carvalho, C. M., F. Zhang, P. Liu, et al. Complex rearrangements in patients with
44
duplications of MECP2 can occur by fork stalling and template switching. Hum
Mol Genet 2009;18:2188-203.
Chahrour M, Zoghb HY. The story of Rett syndrome: from clinic to neurobiology.
Neuron 2007;56:422-37.
Chiurazzi P, Schwartz CE, Gecz J, et al. XLMR genes: update 2007. Eur J Hum
Genet 2008;16:422-34.
D’Adamo P, Menegon A, Lo Nigro C, et al. Mutations in GDI1 are responsible for
X-linked non-specific mental retardation. Nature genetics 1998;19:134-9.
D’Hulst C, Kooy RF. Fragile X syndrome: from molecular genetics to therapy. J
Med Genet 2009;46:577-584.
Drillien CM. The incidence of mental and physical handicaps in school age
children of very low birth weight. II. Pediatrics 1967;39:238-47.
Il ritardo mentale associato al cromosoma X
Frints SG, Froyen G, Marynen P, et al. X-linked mental retardation: vanishing
boundaries between non-specific (MRX) and syndromic (MRXS) forms. Clin
Genet 2002;62:423-32.
Froyen G, Van Esch H, Bauters M, et al. Detection of genomic copy number
changes in patients with idiopathic mental retardation by high-resolution
X-array-CGH: important role for increased gene dosage of XLMR genes. Hum
Mutat 2007;28:1034-42.
Froyen G, Corbett M, Vandewalle J, et al. Submicroscopic duplications of the
hydroxysteroid dehydrogenase HSD17B10 and the E3 ubiquitin ligase HUWE1
are associated with mental retardation. Am J Hum Genet 2008;82:432-43.
Gecz J, Cloosterman M, Partington D. ARX: a gene for all seasons. Curr Opin
Genet Dev 2006;16:308-16.
Gecz J, Shoubridge C, Corbett M. The genetic landscape of intellectual disability
arising from chromosome X. Trends Genet 2009;25:308-16.
Giannandrea M, Bianchi V, Mignogna ML, et al. Mutations in the small GTPase
gene RAB39B are responsible for X-linked Mental Retardation associated with
autism, epilepsy and macrocephaly. Am J Hum Genet 2010;86:185-95.
Hahn KA, Salomons GS, Tackels-Horne d, et al. X-linked mental retardation
with seizures and carrier manifestations is caused by a mutation in the
creatine-transporter gene (SLC6A8) located in Xq28. Am J Hum Genet
2002;70:1349-56.
Jensen LR, Amende M, Gurok U, et al. Mutations in the JARID1C gene, which is
involved in transcriptional regulation and chromatin remodeling, cause X-linked
mental retardation. Am J Hum Genete 2005;76:227-36.
Khelfaoui M, Denis C, van Galen E, et al. Loss of X-linked mental retardation
gene oligophrenin1 in mice impairs spatial memory and leads to ventricular
enlargement and dendritic spine immaturity. J Neurosci 2007;27:9439-50.
Kramer JM, van Bokhoven H. Genetic and epigenetic defects in mental
retardation. Int J Biochem Cell Biol 2009;41:96-107.
Lee C, Iafrate AJ, Brothman AR. Copy number variations and clinical cytogenetic
diagnosis of constitutional disorders. Nature Genet 2007;39(7 Suppl): S48-54.
Lehrke R. Theory of X-linkage of major intellectual traits. Am J Ment Defic
1972;76:611-9.
Leonard H, Wen X. The epidemiology of mental retardation: challenges
and opportunities in the new millennium. Ment Retard Dev Disabil Res Rev
2002;8:117-34.
McLaren J, Bryson SE. Review of recent epidemiological studies of mental
retardation: prevalence, associated disorders, and etiology. Am J Ment Retard
1987;92:243-54.
Neri G, Gurrieri F, Gal A, et al. XLMR genes: update 1990. Am J Med Genet
1991;38:186-9.
Oberle I, Rousseau F, Heitz D, et al. Instability of a 550-base pair DNA segment
and abnormal methylation in fragile X syndrome. Science 1991;252:1097-102.
Owen MJ, Williams HJ, O’Donovan MC. Schizophrenia genetics: advancing on
two fronts. Curr Opin Genet Dev 2009;19:266-70.
Penrose L. A clinical and genetic study of 1280 cases of mental deficit. London:
HMSO 1938.
Raymond FL. X linked mental retardation: a clinical guide. J Med Genet
2006;43:193-200.
Ropers HH. Genetics of intellectual disability. Curr Opin Genet Dev
2008;18:241-50.
Salvador-Carulla L, Berteli M. Mental retardation or intellectual disability: time for
a conceptual change. Psychopathology 2008;41:10-6.
Solomon NM, Ross SA, Morgan T, et al. Array comparative genomic hybridisation
analysis of boys with X linked hypopituitarism identifies a 3.9 Mb duplicated
critical region at Xq27 containing SOX3. J Med Gen 2004;41:669-78.
Sudhof TC. Neuroligins and neurexins link synaptic function to cognitive disease.
Nature 2008;455:903-11.
Sudhof TC, Malenka RC. Understanding synapses: past, present, and future.
Neuron 2008;60:469-76.
Suthers GK, Turner G, Mulley JC. A non-syndromal form of X-linked mental
retardation (XLMR) is linked to DXS14. Am J Med Genet 1998;30(1-2):485-91.
Tarpey PS, Raymond FL, O’Meara S, et al. Mutations in CUL4B, which encodes
a ubiquitin E3 ligase subunit, cause an X-linked mental retardation syndrome
associated with aggressive outbursts, seizures, relative macrocephaly,
central obesity, hypogonadism, pes cavus, and tremor. Am J Hum Genet
2007;80:345-52.
Tarpey PS, Smith R, Pleasance E, et al. A systematic, large-scale resequencing
screen of X-chromosome coding exons in mental retardation. Nat Genet
2009;41:535-43.
van Karnebeek CD, Jansweijer MC, Leenders AG, et al. Diagnostic investigations
in individuals with mental retardation: a systematic literature review of their
usefulness. Eur J Hum Genet 2005;13:6-25.
Vandewalle J, Van Esch H, Govaerts K, et al. Dosage-dependent severity of
the phenotype in patients with mental retardation due to a recurrent copynumber gain at Xq28 mediated by an unusual recombination. Am J Hum Genet
2009;85:809-22.
Verkerk AJ, Pieretti M, Sutcliffe JS, et al. Identification of a gene (FMR-1)
containing a CGG repeat coincident with a breakpoint cluster region exhibiting
length variation in fragile X syndrome. Cell 1991;65:905-14.
Woodward KJ. The molecular and cellular defects underlying PelizaeusMerzbacher disease. Expert Rev Mol Med 2008;10: e14.
Zou Y, Liu Q, Chen B, et al. Mutation in CUL4B, which encodes a member of
cullin-RING ubiquitin ligase complex, causes X-linked mental retardation. Am J
Hum Genet 2007;80:561-6.
Corrispondenza
Daniela Toniolo, Istituto Scientifico San Raffaele, via Olgettina 58, 20132 Milano. Tel. +39 02 26434764. E-mail: [email protected]
45
10% di sconto per acquisti on-line: www.pacinieditore.it
Pubblicato in esclusiva per l’Italia
a cura di PACINI EDITORE MEDICINA
Settima edizione italiana
Traduzione curata da B.M. Assael
PACINI EDITORE S.p.A.
via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa
Tel. 050 313011 • Fax 050 3130300
www.pacinimedicina.it
[email protected]