ALEJANDRO AMENABAR L`ULTIMO SPETTACOLO

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ALEJANDRO AMENABAR L`ULTIMO SPETTACOLO
CINEMA
ALEJANDRO AMENABAR
L’ULTIMO SPETTACOLO
A
lejandro Amenabar è un ectoplasma, molto
simile alle presenze che spesso hanno popolato i suoi film. Giovane se non giovanissimo, il cineasta dai natali cileni, ma d’adozione iberica, ha presto proiettato la sua carriera dallo
status di enfant prodige del cinema spagnolo a quello
di autore consolidato: corteggiato, riconosciuto e premiato anche ad Hollywood: mecca del racconto per
immagini in movimento. Già, ma cosa resta, oggi, dell’Amenabar pensiero, della sua poetica, delle sue opere? Prima di tutto la realtà dei fatti filtrata dalla fredda
infallibilità dei numeri, la stessa che resoconta di una
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carriera una volta di genere e instancabilmente produttiva (3 film tra il 1996 e il 2001, ovvero Tesis, Apri
gli occhi e The Others), tramutatasi all’improvviso in riflessiva, ponderata e meno riconoscibile (appena 2 le
pellicole dirette all’indomani di The Others, il pluripremiato Mare Dentro e il controverso Agorà) all’occhio di chi, magari troppo frettolosamente, aveva
provveduto ad etichettarlo come cineasta borderline
quasi, se non esclusivamente, a suo agio nelle dinamiche a metà tra horror e thriller. Hitchcockiano per vocazione, Alejandro Amenabar rappresenta molto di
più di un regista incline all’esercizio di stile, all’omaggio registico o alla sola citazione paracinefila, in quanto da sempre mosso da vettori poetici personali, individuabili in un’ossessione per la morte che non può
non essere ricondotta alla sua infanzia, ovvero alla fuga dal Cile di Pinochet per approdare nella Spagna
dell’immediato dopo Franco. Quello del cileno è un
cinema popolato da presenze ectoplasmiche, figure
che sfiorano, inseguono o subiscono la fine ultima:
fantasmi insomma, dai contorni sfuggenti proprio come il loro creatore, che sulla scena cinematografica
mondiale appare e scompare, non passando però mai
inosservato. La morte si diceva, a partire da Tesis vera
ossessione artistica di Alejandro Amenabar, scrupolosamente analizzata attraverso qualsivoglia possibilità la
settima arte conceda. L’esordio dello spagnolo consente al pubblico di familiarizzare con il leggendario fenomeno degli snuff movies, pellicole di fortuna realizzate con fare rozzo e destinate ad una ristrettissima cer-
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chia di danarosi spettatori, perversamente irradiati
dalla possibilità di assistere ad una reale e violenta dipartita messa in scena nello schermo domestico. Apri
gli occhi, tutt’ora il film più ostico e narrativamente
complesso mai diretto da Amenabar, riempie invece lo
schermo cinematografico attraverso le disavventure
mentali di un giovane sfigurato, somaticamente scomparso nel giorno del grave incidente. The Others, con
tutta probabilità l’apogeo creativo del regista, rilegge
senza timore reverenziale alcuno Giro di vite di Henry
James, classico della letteratura gotica, che Amenabar
utilizza come catarsi delle sue paure di sempre. Una via
di fuga insomma, tramite la quale liberarsi dell’infantile fobia del buio o del mai dimenticato terrore della
guerra. Raggiunto il successo anche internazionale
(Apri gli occhi e The Others spalancano ad Amenabar le
porte di Hollywood) l’autore opta per una brusca
quanto efficace conversione ad U: addio al genere di
riferimento, benvenuto ad un percorso melodrammatico che non rinuncia alla pellicola storica e in costume. Mare Dentro ed Agorà, benché lontanissimi dal
trittico elencato poche righe fa, conservano inalterate
le ideologiche linee guida, ponendosi, con argomenti
tanto simili quanto superficialmente diversi, come vero e proprio punto d’arrivo. Ramon Sampedro e Ipazia d’Alessandria infatti, altro non sono che vittime di
un’ideologia, di un totalitarismo, di una dittatura morale e ideologica. Se il primo lotta per un diritto alla
morte da consumarsi non clandestinamente, la seconda si trasforma in martire dell’ortodossia religiosa, col-
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pevole d’essere donna di scienza e non di fede cieca.
D’improvviso, proprio nel momento in cui il cambio
di forma sembra inevitabilmente condurlo ad uno
smarrimento d’identità, si rivela quindi il vero Alejandro Amenabar: mente libera e intransigente, costretto
ancora in fasce alla fuga da un totalitarismo e ora adulto, mai come prima accanito antagonista di ogni forma questo possa assumere; sia morale, politica, giudiziaria o religiosa. Quello di Amenabar è un cinema la-
tentemente politico, un messaggio subliminale trasportato dalla celluloide, incapace di non andare a bersaglio o di fare prigionieri. Sullo sfondo, naturalmente, continua a perseverare la paura ultima, quella della
morte, compagna di viaggio che seguita a porre l’autore di fronte ad ogni film come se fosse l’ultimo, quello definitivo.
Luca Lombardini
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