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Africa
ONU e sviluppo
«B
I vescovi chiedono
ene comune e sostenibilità»
sono al centro del messaggio
che i vescovi africani hanno voluto trasmettere ai leader mondiali e continentali riuniti all’ONU. Tra il 23 e il 25
settembre, a margine dell’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite a New
York, il Simposio delle conferenze episcopali d’Africa e del Madagascar (SCEAM) ha preso parte, con un documento,
alla discussione sugli Obiettivi di sviluppo
del millennio e sull’agenda da seguire dopo il loro raggiungimento, atteso per il
2015. In questo modello, i valori umani, «la
fede, la morale, la dignità della persona
umana, specialmente dei più poveri ed
emarginati» dovranno «occupare il centro
della scena per un vero paradigma di sviluppo dell’Africa», specifica la nota con
cui i presuli hanno annunciato l’invio di
una delegazione a New York.
I vescovi e le organizzazioni religiose loro «partner per lo sviluppo» chiedono anche di abbandonare «politiche
e programmi basati su visioni del mondo universalizzate» in favore di «processi
che mettano la loro pianificazione e la loro implementazione nelle mani dei popoli più coinvolti». È anche per questo motivo che il documento annunciato dal SCEAM non è stato presentato solo al consigliere speciale del segretario generale Ban
Ki-moon, Amina Mohamed, ai rappresentanti dell’Unione Europea e di molti stati
del vecchio continente, ma innanzitutto
ai leader africani.
In particolare, lo SCEAM ha voluto incontrare il presidente sudafricano Jacob
Zuma, quello del Ghana John Dramani
Mahama e il premier etiope Hailemariam
Desalegn, rappresentanti di tre dei paesi
che – pur tra disuguaglianze ancora evidenti – vivono i più significativi processi
di trasformazione e di crescita economica del continente. Ma la portata globale
dell’invito dei presuli – rappresentati dal
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Il Regno -
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attualItà
vicepresidente dell’organismo, l’arcivescovo di Kumasi Gabriel Justice Anokye, e
dal segretario generale, p. Joseph Komakoma – è stata evidente con il coinvolgimento anche di Ellen Johnson-Sirleaf,
presidente della Liberia e premio Nobel
per la pace e di Nkosazana Dlamini-Zuma,
che guida l’Unione Africana.
Quella dei vescovi non è stata l’unica
voce a sottolineare l’esigenza di un nuovo approccio allo sviluppo, un tema che
riguarda l’Africa in modo particolare: secondo il rapporto 2013 sugli Obiettivi del
millennio il continente deve affrontare
ancora «sfide serie, specialmente nel trasformare la crescita economica in adeguate opportunità di lavoro, migliorare la
fornitura di servizi, e ridurre al minimo le
disuguaglianze».
In questo senso l’appello dello SCEAM a coinvolgere direttamente le popolazioni locali nel processo è stato ampiamente condiviso dalle altre realtà ecclesiali che hanno partecipato agli incontri
organizzati in occasione dell’Assemblea
generale: a New York erano presenti, tra
le altre, delegazioni della Caritas internationalis, della Cooperazione internazionale per lo sviluppo e la società (CIDSE;
raggruppa 17 organismi cattolici) e di ACT
Alliance (a cui aderiscono organizzazioni
appartenenti a diverse Chiese cristiane).
Non lasciare
indietro nessuno
«Gli Obiettivi di sviluppo del millennio erano necessari, ma per molte ragioni, e in particolare per l’approccio “dall’alto” che è stato adottato, non sono riusciti a raggiungere i più poveri; anzi, in alcune occasioni potrebbero anche averli
emarginati», ha spiegato Michel Roy, segretario generale della Caritas internationalis. In particolare, ha proseguito, «un
effetto concreto della volontà di arrivare
ad alcuni obiettivi è stato quello di con-
centrarsi sulle persone più facili da raggiungere».
La richiesta della Caritas è stata quella di un «nuovo contratto sociale», basato sui diritti umani, sulla partecipazione e la centralità delle persone. Lo stesso concetto è stato espresso dagli esperti del CAFOD – l’equivalente della Caritas
in Inghilterra e Galles – che, anche in questo caso in continuità con l’azione dello SCEAM, ha chiesto un impegno diretto dei governi. L’obiettivo è quello di «alzare il livello delle ambizioni, in modo che
nessuno sia lasciato indietro». «La società civile mondiale – continua la nota diffusa dall’organizzazione britannica – non
accetterà un quadro di politiche che non
affronti le cause strutturali della povertà
e dell’ingiustizia».
La parola chiave, per molti degli intervenuti, è stata l’accountability, la responsabilità di chi mette in opera le politiche
di sviluppo. In particolare la delegazione del CIDSE, commentando il documento sul tema presentato dall’ONU, ha concentrato l’attenzione sul ruolo del settore privato. Il semplice invito «al mondo
dell’impresa a impegnarsi in pratiche “responsabili” offre ai privati pochi incentivi
a limitare il loro impatto negativo sull’ambiente o a rendere migliori le prospettive
che le persone hanno sulla realizzazione
dei propri diritti», ha sostenuto la ong. Di
nuovo, dunque, un appello è stato rivolto
ai governi e alle stesse Nazioni Unite, perché chiariscano la natura di quella «partnership globale» che dovrebbe permettere di raggiungere gli obiettivi di sviluppo.
Il riferimento all’Africa, dove secondo l’ONU «molti paesi sono ancora lontani dagli obiettivi», è esplicito in questa
richiesta: il CIDSE, in particolare, considera «una debolezza intrinseca dell’approccio basato sugli Obiettivi del millennio il
costante puntare il dito contro i paesi rimasti più indietro». Al contrario andrebbe riconosciuto «che paesi differenti sono partiti da basi differenti» e calibrare
su questa consapevolezza le nuove politiche. Secondo ACT Alliance, queste dovranno anche «integrare meglio la sostenibilità ambientale con lo sviluppo nazionale». Per questo, ha ribadito John Nduna, segretario generale dell’ACT, «è essenziale che le comunità locali partecipino davvero ai dibattiti a livello nazionale»
sul post-2015; da questo punto di vista, ha
concluso «le organizzazioni della società
civile, inclusi i gruppi e i leader religiosi,
possono dare un contributo di idee e di
innovazione».
D. M.
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