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Silvio d’Amico, È morta Dina Galli, in Le cronache 1914/1955, Palermo, Novecento,
2005, vol. V, tomo II, pp. 431-434
Ci sono dei lettori che debbono arrivare ai quarant’anni per capire l’arte, poniamo d’Alessandro Manzoni.
Io dovetti addirittura passare quell’età per capire l’arte di Dina Galli.
Allorché ero molto giovine, poche cose mi stupivano quanto il largo entusiasmo, e diciam pure l’idolatria,
di cui l’attrice, allora in pieno fiore, era circondata. A ripensarci più tardi, credo che in una tale antipatia
avesse la sua parte, senza che io me ne rendessi conto, l’ostilità per il detestabile repertorio a cui, fra il
primo e il secondo ventennio del nostro secolo, ella s’era dedicata: dico quel deteriore, posciadistico
teatro francese (e i suoi derivati anche italiani) propinato con gran diletto al pubblico borghese da una
serie di ditte famose, dove da principio il suo fu un nome fra tanti, sinché a forza di perdere questo o quel
collega, finì col rimanere solo (da prima Sichel-Galli-Guasti-Ciarli-Bracci; poi Galli-Guasti-Ciarli-Bracci;
poi Galli-Guasti-Ciarli; poi Galli-Guasti; poi soltanto Galli); salvo a risalire, dalla splendid isolation
dell’età media, ai compromessi con nuove società (e cioè Galli-Gandusio, Galli-Viarisio-Besozzi,
eccetera, eccetera).
Ma intorno al 1915 io ansioso com’ero, a teatro, di artisti che largissero una rivelazione, da pochi fra i
nostri maggiori avevo delusioni quanto da lei. Andare a un suo spettacolo per me significava (allora)
rinunciare all’imprevisto: sapevo a priori che avrei trovato sempre la stessa Dina, o monella o donnina
galante, con quegli indentici giochi d’occhi (i suoi grandissimi occhi, che una volta mi venne fatto di
paragonare irriverentemente a due uova al tegame), e quelle stereotipate smorfiette, e quegli eterni
sgambetti.
Sennonché gli esperti non erano niente d’accordo con me. E non soltanto i giovani critici d’allora: come il
diplomatico Cardarelli, il quale pur sotto le specie dell’ironia si attentava tuttavia a riconoscere lo spirito,
il gusto, l’eleganza, che ai suoi occhi la rendevano senz’altro ‘adorabile’; o come lo scrutatore Adriano
Tilgher che, tutto dedito all’ideologia del ‘nuovo teatro’, ma poco propenso a occuparsi d’attori, faceva
eccezione per tessere le lodi di lei. Ma dico i gloriosi veterani del palcoscenico: Edoardo Boutet che mi
borbottava: «sì, qualche ragione forse l’avete, però, fino a un certo punto»; e Ruggero Ruggeri, che mi
ammoniva cautamente ad aprire bene gli occhi su certe straordianarie qualità di lei; e infine Eleonora
Duse, che un bel giorno mi dichiarò senz’altro: «ma se è la nostra più grande attrice!».
Da che cosa dunque la mia cocciutaggine giovanile, refrattaria alla sentenza dei giovani colleghi e dei
maestri anziani, finì col doversi dichiarare, in pubblica confessione, stritolata e vinta? Fu quando, nel
secondo ventennio del secolo, io mi misi a curiosare al di là dell’alpe, e dall’oceano, percorrendo in lungo
e in largo tutti i paesi del nostro continente, e facendo capolino anche in alcuni del nuovo. Scoprii allora
nelle scene di quei paesi, oltre a tante belle cose che adesso non ridico, attori e attrici insigni: taluno dei
quali sosteneneva degnamente, o per eccezione vittoriosamente, il confronto con parecchi dei nostri
migliori. Ma, nel genere della commedia leggera, non un’attrice trovai
ripeto: non a Parigi non a
Vienna non a Berlino non a New York; e vi faccio grazia dei paesi minori che valesse la nostra Dina.
Scoprii, dico, l’autenticità della sua verve. Scoprii, in quelle formule che il suo fisico m’aveva fatto
apparire sempre identiche, una piccante varietà. Scoprii soprattutto il dono d’una strordinaria giovinezza,
ch’ella mantenne sino all’età più tarda. Il teatro grazie al Cielo non è il cinema; non ha bisogno che un
vecchio sia proprio vecchio, né che una bambina sia una vera bambina: chiede semplicemente - ma
necessariamente - un aiuto all’illusione: questione, soprattutto, di spirito. Ora sta di fatto che quel fuoco
che Dina aveva addosso, e ch’ella comunicava con inimitabile foga al suo pubblico permise ancora a lei
cinquantenne e sessantenne e passa, di dar vita a figure (o magari a manichini) di donne giovani, o
addirittura adolescenti, con una vena, con un brivido, con una luccicante energia, di cui molte trentenni
erano incapaci. La vedemmo ragazzina insidiata da vecchi viveurs, ballerinetta corteggiata dai
commendatori, una volta addirittura sorellina di due autentiche dodicenni e tredicenni (le sorelle Adriani):
e il miracolo era tuttavia credibile. Poi, nei momenti migliori, la sua comicità arrivava all’umorismo vero:
forzando i limiti dei suoi poveri testi, si colorava di patetico, si confessava sentimento, trepidazione,
sbigottimento, pudore.
Ma anche in altre parti, comprese quelle di donna matura o di vegliarda, anche parodiando le vecchie dive
della rivista, la sua vena rimase, fino all’ultimo, così spiritata e pepata e indiavolata, da far concludere che,
di tutte le nostre attrici comiche, la più giovane era lei, Dina. Davvero in questo momento, nel nero
silenzio della notte, non so pensarla distesa sul suo ultimo giaciglio, chiuse per sempre quei suoi occhi
immensi, composte e tacite per sempre quelle sue parlanti mani, congiunte su quel suo petto scarno: Dina,
distributrice di gioia, sparita così all’improvviso.