Altri misteri - Misteri d`Italia

Transcript

Altri misteri - Misteri d`Italia
Altri misteri
Il mostro di Firenze
Atto III: la pista esoterica
La villa dei misteri
QUELLA VILLA
IN FONDO AD UN VIVOLO CIECO
di Mario Spezi
“Un medico chiedeva a Pacciani di fare dei lavoretti...”.
Non era un gran che come inizio della nuova storia. Con quella frase, che
dissero di avere sentito dire a “Katanga” Lotti, tornava vent'anni dopo la
vecchia leggenda metropolitana, secondo la quale dietro il Mostro di Firenze
ci dovesse essere per forza un medico, “il chirurgo della morte”, meglio se
ginecologo, vista la zona anatomica violata dal maniaco.
Ora che gli esecutori erano considerati Pacciani e i compagni di merende, il
medico veniva riproposto come mandante. Il professionista avrebbe
commissionato i delitti, mentre il gruppo che prestava la mano d'opera
avrebbe ucciso come un solo maniaco, commettendo delitti uguali l'uno
all'altro, scegliendo vittime uguali, adottando lo stesso modo di sparare, di
tagliare, di muoversi sulla scena e senza mai lasciare nessuna traccia.
Usava sempre la medesima pistola e il medesimo coltello, come un maniaco
che si affeziona alle proprie armi feticcio. Mai che al gruppo fosse venuta
voglia di cambiarle, almeno la pistola, che era pure vecchia e difettosa. Gli
assassini spostavano sempre il cadavere della ragazza trascinandolo in una
zona bene esposta, ubbidendo tutti allo stesso impulso oscuro ed
esponendosi alla vista degli eventuali passanti.
C'era il vuoto, a questo punto, del delitto del 74, quello con il tralcio di vite
spinto nella vagina della vittima e nessuna amputazione. Che cosa erano,
allora, andati a fare se non prelevarono il trofeo? Perché quelle novantasette
punture di coltello sul corpo della ragazza? Che ordine aveva dato il medico?
Oppure loro avevano capito male? O dovevano fare un delitto di prova?
C'era il delitto del '68. Dicevano: “Ma quella è un'altra storia”. Però la pistola
era la stessa, le pallottole pure. In fondo anche la situazione delle vittime,
chiuse in una macchina a fare l'amore.
Erano le obiezioni che facevano gli scettici, e tra loro anche il giornalista
Mario Spezi che in più aveva il torto di scriverle, quelle cose. Gli inquirenti
non si lasciarono certo condizionare dalle critiche, tra l'altro decisamente di
minoranza, e lasciavano capire di avere di più, molto di più di quanto fosse
finito sui giornali. Loro, la storia, volevano continuarla, fino in fondo.
Fu allora - era il 14 luglio '99 - che il commissario Giuttari fu mandato a
dirigere l'Ufficio stranieri. O, come disse lui, fu buttato fuori dalla stanza di
capo della Mobile. Normale avvicendamento, dissero al ministero, ma
Giuttari non lo prese come un complimento e, questa volta, aveva davvero
ragione.
Non s'era mai visto un “superpoliziotto” all'Ufficio stranieri, anche perché di
lì non passava mai un giornalista.
Inoltre, Giuttari pensò che gli altri vedessero la sentenza di condanna dei
compagni di merende come la pietra tombale posta sopra tutta la storia del
Mostro, incluso Pacciani, perché andare avanti non era più utile a nessuno.
Allora protestò, dicendo che gli volevano chiudere la bocca, fece ricorso al
Tar, poi al consiglio di Stato, stritolò alcuni sigari tra i denti, ma vinse. Gli
dovettero ridare la poltrona dell'ufficio al primo piano all'angolo tra via Zara
e via Duca d'Aosta, quella di capo della Mobile.
Non gli lasciarono il tempo di scaldarla che gliela tolsero di nuovo,
spostandolo ancora all'Ufficio stranieri. Era come se quell'inchiesta sui
mandanti non dovesse essere fatta. I maligni, quelli che erano sempre stati
innocentisti, dicevano che qualcuno aveva paura che, a forza di metterci le
mani, uno maldestro, un apprendista stregone della criminologia, avrebbe
finito col far cadere tutto il castello di carte1.
I sostenitori di Giuttari, di Canessa e della loro inchiesta si indignarono
perché quel trasferimento era un siluro alla verità che non si voleva venisse a
galla.
Giuttari puntò i piedi, si ammalò, rimase lontano dalla Questura per
parecchio tempo, ma riuscì a seguire il suo piccolo esercito di avvocati. Passò
il tempo mettendosi a scrivere un romanzo, roba di serial killer fiorentini, e a
rileggersi le carte dell'indagine su Pacciani & Co.
Vinse una seconda volta, perché fu stabilito che lo spostamento all'Ufficio
stranieri sembrava una punizione, non una promozione come lui meritava, e
stavolta gli diedero un posto tutto per lui. Lo mandarono all'ultimo piano di
quel mostro di cemento chiamato, senza ironia, il Magnifico, a due passi
dall'aeroporto di Peretola, un sacco di grandi stanze vuote dove rimbomba
ancora oggi l'eco dei passi dei pochi occupanti. Inventarono un ufficio nuovo,
il Gides, Gruppo Investigativo dei Delitti Seriali, gli diedero anche una
squadra di agenti e i finanziamenti necessari.
Giuttari aveva varie cose su cui soffermarsi. C'era quella frase di Lotti, “Un
medico chiedeva a Pacciani di fare dei lavoretti...”, ma c'erano anche i soldi di
1
Lo sostiene lo stesso Giuttari ne II Mostro, attribuendone la paternità al sostituto procuratore Paolo Canessa.
Pacciani che non gli tornavano. Era stato accertato che Pacciani aveva in poco
tempo guadagnato troppo e senza spiegazioni, soprattutto se si metteva in
conto che per un sacco di anni era stato in galera. Risultava che dal 1979 al
1984 Pacciani aveva comprato a Mercatale due case da sessantun milioni e le
aveva ristrutturate. Va detto che “ristrutturare” per i' Vampa voleva dire fare
tutto con le proprie mani e con quello che trovava in giro, soprattutto nelle
discariche e nei cantieri incustoditi. Aveva comprato anche una macchina,
una Ford da sei milioni, e aveva pagato sempre in contanti. E sempre in
contanti, dal 1981 al 1987, aveva acquistato buoni postali per un totale di
centocinquantasette milioni e, ... fra il novembre 1985 e il maggio 1987, aveva
versato agli sportelli di tre diversi uffici postali altri cinquantasette milioni.
Quei soldi erano davvero troppi per un tipo come , i' Vampa. Però si
sarebbero potute trovare decine di spiegazioni, dal furto ai traffici illeciti di
qualsiasi cosa, ai risparmi fatti, come raccontarono le figlie, preparando cene
a base di scatolette di cibo per cani. Si scelse, però, di interpretarli come
l'osceno prezzo pagato dal mandante laureato in Medicina per i delitti e per i
feticci. Se, poi, Katanga e Torsolo non avevano in conto corrente niente di
sospetto, be', si sapeva che tra i compagni di merende il furbo era Pacciani.
Vanni, interrogato in merito, non rispondeva. Lotti non poteva rispondere
perché una cancrena fulminante a un piede l'aveva portato all'altro mondo a
raggiungere i' Vampa.
Comunque c'era di che lavorare, non si poteva certo chiarire tutto al primo
colpo.
L'indagine sui mandanti, partita da quella frase di Lotti e da quel dubbio sui
soldi di Pacciani, è ancora oggi coperta dal segreto istruttorio. Tutto quello
che è stato scritto ufficialmente è solo il risultato di “indiscrezioni” o fughe di
notizie; la responsabilità, insomma, di ciò che viene raccontato, cavolate
incluse, è solo dei giornalisti. Ufficialmente non è stato detto niente. Tutto o
quasi potrebbe essere smentito, o almeno corretto, in ogni momento.
Il problema maggiore, però, a raccontare questa ultima parte della storia è
che ogni capitolo sembra diverso da quello precedente e non si capisce se
devono essere tenuti tutti in vita o se l'ultimo sostituisce quanto detto prima.
Tutti insieme mettono a dura prova la capacità di sintesi di chiunque, perché
la scena è molto affollata, i personaggi assai diversi e spesso senza rapporti
apparenti tra loro. Le storie di ognuno sono complicatissime e non sono solo
slegate l'una dall'altra, ma a volte sembrano contraddirsi.
Il misterioso medico indicato da Lotti, per esempio, diventò un pittore.
Mezzo svizzero e mezzo belga per di più, caratteristica che aveva il
vantaggio di agguantare un'altra leggenda metropolitana storica, quella del
Mostro calato dal Nord, da dove, era stato scritto, “i tetti hanno un'altra forma
e un altro colore di quelli toscani di cotto rosso”.
Poi, dicevano, era un pittore che dipingeva strane donne, peggio di Picasso,
addirittura con gli arti staccati. L'esperienza avrebbe dovuto insegnare ai
poliziotti di tenersi alla larga dai quadri, perché dai tempi delle pitture
attribuite a Pacciani decisamente la critica d'arte si era dimostrata non essere
il loro genere.
L'ipotesi investigativa che portò al pittore dovette aver preso forma durante
la malattia del commissario Michele Giuttari e le lunghe ore impiegate a
rivedere tutta la vicenda. Nel chiuso del suo studio dalle parti della Porta al
Prato il poliziotto ripercorse per l'ennesima volta la storia del Mostro, e
quando tornò alla guida del suo Gides, un'idea certa ce l'aveva: l'orribile saga
dei delitti sulle colline di Firenze era una vicenda di satanismo. Una potente
quanto oscura setta, della quale avrebbero fatto parte insospettabili
personaggi che nella vita sociale occupavano posti anche importanti, aveva
dato incarico a i' Vampa, Torsolo e Katanga di uccidere le coppie per
procurarsi il sesso delle ragazze, l'oscena, blasfema “ostia” che serviva per
celebrare i diabolici riti in onore di Satana che, in cambio, avrebbe elargito
loro potere.
Non è chiaro a questo punto se la setta satanica per iniziati upper class debba
essere messa al posto di quella per disgraziati che si sarebbe riunita, tra
puttane e compagni di merende, nella casa semidiroccata del mago Indovino,
oppure se quest'ultima debba essere considerata la copia povera della prima.
Bisognerà aspettare.
Ma, intanto la supersetta aveva anche un nome, Schola della Rosa rossa,
antichissimo quanto sconosciuto ordine diabolico che avrebbe attraversato
sotto traccia secoli di storia di Firenze, una sorta di perverso Priorato di Sion
al contrario, tutto caproni, pentacoli, messe e candele nere, omicidi rituali e
altari demoniaci.
Stando a chi dice di intendersi di quelle faccende, la Schola sarebbe una
loggia deviata di un antico ordine, l'Ordo Rosae Rubae et Aurae Crucis,
organizzazione massonica-esoterica discendente dalla Golden Dawn inglese
e, quindi, dal cattivissimo Aleister Crowley, il più grande satanista del
Novecento, autonominatosi “La Grande Bestia 666”, che negli anni Venti
fondò una sua Chiesa a Cefalù, l'Abbazia di Thelema.
C'erano tre elementi che, incrociati, avevano dato la certezza al commissario
Giuttari. Da una parte la traccia di un dossier preparato dal criminologo
Francesco Bruno, che aveva collaborato con i difensori di Pacciani nel
processo d'Appello e che, escluso che il contadino avesse la personalità per
essere il Mostro, aveva vagliato diverse ipotesi alternative.
Bruno era passato dal nobile fiorentino al geometra autodidatta, finendo per
sostenere la pista satanica, anche se da attribuire a un assassino solitario.
C'era poi, ad aumentare il mistero, che il dossier, commissionato a quanto
pare direttamente dal fu capo del servizio segreto, il Sisde, Vincenzo Parisi,
era sparito. Insomma non era mai arrivato alla Polizia o alla Procura di
Firenze. Morto Parisi, la faccenda diventò il sentiero su cui far correre,
all'italiana, sospetti di coperture o depistaggi. E se le trame si intessevano a
quei livelli, voleva dire che la setta era davvero potente.
Poi c'era una nuova superteste. Era Gabriella Carlizzi, piccola, bionda e
distinta signora romana che scriveva articoli sul suo sito Internet e aveva
pubblicato un paio di libri a sue spese.
Nel sito della Carlizzi uno spazio era riservato ai colloqui fra lei e la
Madonna di Fatima, faccenda che dava al suo intervento nella storia del
Mostro anche l'aspetto della lotta del Bene contro il Male.
Lei non ha mai detto se riceveva le sue informazioni esclusive direttamente
dall'alto dei cieli oppure da qualche fonte più terrena, ma affermava di
sapere un sacco di cose di tutti i più clamorosi gialli italiani, dal caso Moro al
delitto di via Poma, da quello di Arce alla storia dei pedofili nostrani attivi in
Belgio. Dietro, sempre loro, gli adepti della Schola della Rosa rossa.
Era l'estate del 2001, l'anno dell'11 settembre, anzi, era proprio quel giorno.
Le Due Torri si erano appena accartocciate su se stesse, che ai giornali arrivò
un fax della signora Carlizzi: “Sono stati loro, quelli della Rosa rossa. Ora
vogliono colpire Bush!”2.
La Carlizzi divenne, lo disse lei nelle sue stesse deposizioni, la superteste
dell'accusa. È certo che riempì pagine e pagine di verbali sulle imprese della
sua setta nascosta tra le dolci colline di Firenze. Certo che per ore, per
giornate intere, in Questura la stettero a sentire. Lei disse che le avevano
concesso anche la scorta, perché quelli erano pericolosi e avrebbero fatto di
tutto per metterla a tacere. Vero o falso, di sicuro le diedero credito,
dimenticando, forse, che la signora si era già presa una condanna per avere
scritto anni prima che il Mostro di Firenze era lo scrittore Alberto Bevilacqua,
evidentemente segretamente affiliato alla Rosa rossa.
Il terzo elemento che fece pensare a Giuttari di trovarsi in mezzo a una
straordinaria storia esoterica e criminale furono alcune pietre.
A distanza di oltre dieci anni si era presentato un testimone, un guardacaccia
che lavorava nella zona di Sesto Fiorentino, dalla parte opposta, cioè, di San
Casciano rispetto a Firenze, che raccontò un'altra storia inquietante. Disse
che, pochi giorni prima del delitto degli Scopeti, aveva visto i due turisti
francesi piantare la tenda in un bosco da lui sorvegliato. Li aveva mandati
via, avvertendoli del pericolo. Ebbene - affermò - pochi giorni dopo notò,
2
Cfr. Alessandro Cecioni e Gianluca Monastra – Il mostro di Firenze – Nutrimenti, 2002.
proprio dove erano stati i francesi, dei cerchi di pietra, alcuni concentrici, che,
sicuramente, avevano significati esoterici se non diabolici.
L'altra pietra che convinse Giuttari era il fermaporta che il colonnello Olinto
Dell'Amico aveva raccolto, tanto per non trascurare niente, a qualche decina
di metri dal punto dove, nell'ottobre 1981, erano stati uccisi due ragazzi. Per
il commissario quella pietra era qualcosa di molto diverso e di molto più
grave. La definì una “piramide tronca a base esagonale che serve a mettere in
contatto il mondo terreno con gli Inferi”3. Per lui, quella pietra non era uno dei
tanti oggetti che si ritrovano in campagna, ma la firma che gli assassini
avevano lasciato sul delitto.
Gli investigatori dovettero incrociare le pietre, la storia dell'ipotesi esoterica
del criminologo Bruno e la Rosa rossa della Carlizzi, per arrivare alla
conclusione che, visto che i sicari erano di (…), la sede, o almeno una delle
sedi, della diabolica setta non doveva essere lontana dal fino allora felice
paese toscano. E, infatti, credettero di scoprire che la sede era stata
involontariamente segnalata alla Polizia addirittura da due adepte,
evidentemente non troppo furbe, proprio qualche anno prima. Il solito
documento che non era stato giustamente valutato.
Era accaduto che, nella primavera del 1997, due donne, madre e figlia, (…),
che gestivano come casa di riposo per anziani una villa in mezzo a un piccolo
parco, (…), si erano rivolte alla Squadra Mobile. Un loro ospite, un vecchio
pittore svizzero, un certo C. F., era sparito all'improvviso e aveva lasciato non
solo un gran disordine nella sua stanza, ma un sacco di roba sospetta. Roba
che poteva avere a che fare con il Mostro di Firenze, dicevano le due donne.
C'erano quei brutti disegni di figure femminili con le braccia, le gambe e le
teste staccate, c'era un blocco Skizzen Brunnen, proprio la stessa marca di
quello che aveva Pacciani, c'era una pistola. Le due donne avevano messo
tutto in una scatola e l'avevano dato alla Polizia.
Giuttari ci tornò sopra e vide la faccenda diversamente. Le due donne, che
avevano chiamato la Polizia di loro volontà, da testimoni e magari parti lese
diventarono, sgomente, indagate. Già, anche perché il commissario scoprì
che Pacciani, che abitava più o meno a tre chilometri di distanza, aveva
lavorato per qualche tempo a (…).
Gli inquirenti sospettarono che l'ex casa di riposo per anziani di (…) potesse
essere stata il punto di riferimento della Rosa rossa, che avrebbe
commissionato a Pacciani e ai suoi compagni di merende i feticci da
utilizzare in riti satanici.
La stampa, con in testa La Nazione, ricominciò a battere la grancassa.
3
Questa tesi fu pubblicata in prima pagina sul Corriere della Sera. La stessa definizione è usata, nel verbale di
sequestro, per descrivere il fermaporta che fu sequestrato a Mario Spezi.
“Sotto accusa le titolari del ricovero. La villa dell'orrore. Sarebbero in un ospizio i
segreti del Mostro di Firenze”.
“’Dopo le dieci in quella villa nessuno poteva mettere più piede. Arrivavano diverse
persone e compivano riti magici e satanici.' A parlare è una delle ex infermiere di
(…) dove Pietro Pacciani, l'accusato storico degli omicidi del Mostro di Firenze, ha
lavorato come giardiniere. La Villa degli orrori ospitava al tempo dei delitti toscani
un ricovero per anziani dove per qualche mese ha soggiornato anche il pittore C. F.,
prima indagato per possesso illegale d'arma da fuoco e poi diventato il teste chiave
dell'inchiesta sui possibili mandanti degli omicidi del serial killer”.
Non solo teste chiave, l'ignaro pittore in giro da qualche parte per l'Europa,
era inquisito addirittura come mandante dei delitti. Lo scrivevano a tutta
pagina i giornali e nessuno si dava la pena di smentire.
Si misero a cercarlo dappertutto, anche con l'Interpol, fino a che lo trovarono
a Montelieu, un paesino della Costa Azzurra, a due passi da Cannes. Fu
allora che scoprirono che C. F. era venuto per la prima volta in Toscana nel
1996, undici anni dopo l'ultimo delitto del Mostro.
Comunque, F. decise di collaborare e fu portato a Firenze. C'era il problema
che, non solo per l'età avanzata, la sua mente apparve a molti qualcosa di più
che bizzarra.
“A (…)venivo drogato e chiuso in una stanza. Mi hanno rubato miliardi.
Succedevano cose strane, soprattutto la sera”, disse agli investigatori e parlava
delle due donne, madre e figlia, proprietarie della casa di riposo. Strano, si
sarebbe detto qualcuno, che due con quella roba sulla coscienza avessero
attirato l'attenzione della Polizia su di sé4.
Fu così che Giuttari e Canessa accusarono le due donne di sequestro di
persona e truffa. Perché, come scrisse La Nazione, “dalle deposizioni del vecchio
personale del ricovero sono venuti a galla indizi più importanti. In cinquanta pagine
di verbale sarebbero nascoste le prove di inquietanti segreti. Gli anziani ricoverati a
(…)vivevano abbandonati tra le loro feci e le loro urine senza l'indispensabile
assistenza. Di notte agli inservienti veniva assolutamente vietato di mettere piede
all'interno della villa che si trasformava in un punto di ritrovo dove venivano
celebrate messe nere. Giuttari sospetta che gli organi genitali e le parti di seno
amputati e asportati alle vittime dal Mostro siano serviti proprio per il compimento
di tali riti satanici”.
4
Deposizione di F.. Cfr. Alessandro Cecioni e Gianluca Monastra, op. cit.
Come facessero i dipendenti a sapere che venivano celebrate messe nere,
visto che era loro vietato parteciparvi, non fu spiegato, ma Villa (…) divenne
subito per tutti la Villa degli orrori.
Se lì si erano svolti i satanici e orribili riti della Rosa rossa, qualcosa doveva
pur essere rimasto. Non solo, ma se era così, doveva esserci da qualche parte,
inaccessibile e segretissimo, l'osceno tempio del sacrificio, l'autentica stanza
degli orrori. Bisognava trovarla, perché lì sicuramente dovevano essere
rimaste tracce significative, capaci di portare anche ai misteriosi adepti, di
certo gente molto più importante di quelle due donne, pure un po' strane.
Intanto Giuttari cominciò a indagare su qualche personaggio di San
Casciano, gente in vista, altolocata, perché gli adepti della setta dovevano per
forza essere persone che contavano. Fra le tante vecchie denunce che
riempivano parecchi armadi in Questura, il poliziotto ne tirò fuori una che
era partita proprio da San Casciano5. Non era anonima, la firma era di una
certa Mariella Giulli, la moglie del farmacista del paese Francesco
Calamandrei. La donna era da anni precipitata nel tunnel della malattia
mentale, vera schizofrenia, tanto che era stata interdetta. Molti anni prima
aveva denunciato il marito come Mostro di Firenze e nel suo delirio, messo
nero su bianco, aveva raccontato che un giorno aveva addirittura trovato in
frigorifero i raccapriccianti feticci strappati alle vittime.
Nonostante l'assurdità della storia, a scanso di equivoci, c'erano stati allora
dei controlli e anche una perquisizione che avevano portato a escludere lo
sfortunato farmacista dalla lista dei sospettati.
Di nuovo, però, quel documento fu valutato diversamente, anche perché fu
messo in rapporto con un altro giudicato parecchio sospetto. Era la vecchia
denuncia che aveva fatto anni prima il farmacista, quando qualcuno aveva
dato fuoco alla sua Jaguar parcheggiata sotto casa, proprio in piazza Pierozzi,
in pieno centro del paese. Storiaccia di donne e di mariti scontenti, a quanto
pareva, niente a che fare con delitti e satanismo. A ogni buon conto la Polizia
andò a perquisire la casa del farmacista che si ritrovò nome e faccia
spiattellati sulle prime pagine. Risultato della perquisizione: ancora una
volta, zero.
Lo stesso destino fu riservato a un notissimo medico di San Casciano, che
aveva anche il torto grave di essere ginecologo, Giulio Zucconi, fratello di un
ambasciatore, pure lui, per via della parentela, finito sotto la lente
dell'investigatore del Gides. Sarebbe esistito un legame tra il medico, la villa
degli orrori e Pacciani. La Polizia sospettò addirittura che la moglie del
ginecologo, Maria Ines, fosse la protagonista di un oscuro episodio accaduto
il 26 gennaio 1996 in casa di Pietro Pacciani.
5
Mario Spezi possiede una copia della denuncia.
Era successo che una donna, bionda e distinta a quanto pare, fosse entrata
nell'abitazione del contadino, facendosi aprire la porta dalla moglie
Angiolina. La misteriosa visitatrice avrebbe dato un sonnifero alla vedova de
i' Vampa, per poter frugare tranquillamente nella casa del Mostro.
Gli inquirenti riconobbero nella moglie del ginecologo Zucconi la donna del
mistero e la informarono che era indagata per rapina. Per Giuttari la signora
Zucconi si sarebbe introdotta nella casa di Pacciani per fare sparire le prove
contro il marito.
I giornali - La Nazione, la Repubblica, il Corriere di Firenze - ricevettero
tempestivamente le informazioni sufficienti per titoli a cinque colonne.
Non molto tempo dopo, il ginecologo passò a miglior vita e molti a San
Casciano dissero, e dicono ancora, che morì di crepacuore.
Visti i deludenti risultati delle perquisizioni, l'attenzione della Polizia e della
Procura si concentrò tutta su (…). Obiettivo: la stanza degli orrori. Dopo una
sola giornata, gli uomini del Gides penetrarono in quello che ritenevano il
sancta sanctorum di tutte le nefandezze, il tempio dove, tra satanici orpelli,
erano state officiate le messe nere con annessa offerta al demonio dell’”ostia”
blasfema, il sesso strappato alle ragazze dal Mostro di Firenze.
Trovarono alcuni scheletrini di cartone, qualche pipistrello di plastica, di
quelli in vendita in qualsiasi cartoleria, e la conferma che quella era rimasta
la terra di Boccaccio e di Benigni. Il calendario, poi, si incaricò di ricordare
che mancavano pochi giorni a Halloween.
“Sicuramente un depistaggio”, commentò senza battere ciglio Giuttari, chiuso
nel suo cappotto nero una misura troppo grande. La Nazione riportò la frase
in un titolo.
L'indagine sembrò finita in un vicolo cieco.
Fonte: Mario Spezi e Douglas Preston – Dolci colline di sangue. Il romanzo del mostro di
Firenze - Sonzogno editore, 2006