Presentazione dei risultati salienti della ricerca
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Presentazione dei risultati salienti della ricerca
CONVEGNO DI PRESENTAZIONE DI “TV JOB. LE PROFESSIONALITA’ DELL’AUDIOVISIVO IN LOMBARDIA” 5 luglio 2006, Triennale di Milano Presentazione dei risultati salienti della ricerca ALESSANDRA ALESSANDRI, Titolare Labmedia, Direttore della ricerca “Tv job” Presentazione dei risultati salienti della ricerca Grazie a tutti per essere venuti alla presentazione di questa ricerca, che come diceva il Professor Rampello è stata condotta da Multimediamente, Labmedia e Triennale di Milano, ed è stata da me diretta con la consulenza scientifica di Gaetano Stucchi e Fausto Colombo. Questa ricerca ha come oggetto l’audiovisivo lombardo. Ovviamente la dizione di audiovisivo è molto ampia e molto generica. Noi abbiamo voluto circoscrivere questa nozione e parlare in particolare del lavoro nelle emittenti televisive, nelle società di produzione e distribuzione audiovisiva. Abbiamo individuato i generi di interesse per la regione- perché ovviamente il mondo dell’audiovisivo è multiforme e molto articolato - e quindi in questo caso parliamo di intrattenimento, di infotainment, di news, di sport, di documentari, di animazioni, di fiction, e crossmedia, che hanno sede principale o secondaria in Lombardia. Questo era lo spettro di analisi della nostra ricerca. Perché abbiamo inteso in questo modo definire l’audiovisivo? Perché in Lombardia chiaramente l’audiovisivo si identifica più con la televisione che con il cinema, che ha una dimensione più prevalentemente laziale e romana, e perché ci interessavano in particolare, all’interno della catena del valore della produzione televisiva, i soggetti che si occupano dei contenuti: quindi produttori da una parte e editori, emittenti televisive dall’altra. Questa è stata la nostra focalizzazione. Quali erano gli obiettivi di questa ricerca? Tre principalmente: - Un obiettivo informativo-conoscitivo: siamo partiti con l’ipotesi, poi confermata nel corso dei lavori, che non ci fosse in questo settore una grande mole di informazione. Questo sia a livello di ingresso in questo mondo lavorativo, sia poi a livello di mobilità interna. Il nostro primo scopo è stato quindi quello di mettere a disposizione informazioni a chi volesse entrare e a chi volesse anche poi conquistare una posizione soddisfacente. Nel sito di Tv job, che sarà presto online, (ndr. www.tvjob.it), gli studenti potranno trovare il database delle aziende audiovisive che abbiamo censito, l’elenco dei mestieri audiovisivi - quelli della mappa citata- , e l’elenco di tutti i corsi professionali che conducono a questi mestieri. - Un obiettivo di sistematizzazione. L’audiovisivo, lo si dice spesso, è un mondo complesso, difficile da riordinare perché sfugge a classificazioni e sistematizzazioni. Però ci è parso interessante e importante provare a codificare almeno in parte alcuni primi dati, come ad esempio le job description dei mestieri e delle professionalità, perché senza questa prima operazione di codifica e di sistematizzazione, manca il patrimonio comune per la costituzione di una comunità professionale. Quindi l’obiettivo è quello di offrire un linguaggio comune che sia patrimonio condiviso di chi lavora in questo settore. - Un obiettivo di indagine sulle criticità. Abbiamo chiesto a lavoratori e aziende quali fossero i problemi in particolare sui versanti di formazione, placement e recruiting, organizzazione del lavoro, e abbiamo cercato per quanto possibile di indicare delle linee guida per il futuro. Accenno brevemente alla metodologia della ricerca, rimandando al volume per specifiche ulteriori di dettaglio: è stata essenzialmente una ricerca sul campo, sia quantitativa che qualitativa. Abbiamo somministrato questionari sia alle aziende audiovisive, quindi produttori e editori, sia ai lavoratori, sia agli uffici orientamento e placement, abbiamo intervistato le 20 aziende che ci sembravano più rappresentative di questo settore - molte sono qui presenti e le ringrazio di essere venute - abbiamo intervistato le associazioni di categoria e i sindacati, e infine abbiamo fatto dei focus group con lavoratori. Questo per dirvi che ovviamente l’oggetto era talmente ampio che è stato difficile coglierlo appieno, cosi abbiamo provato a fare una ricognizione il più possibile ampia e sistematica. Qualche dato sul comparto audiovisivo lombardo. Innanzitutto che cosa c’è di audiovisivo in Lombardia?. I generi forti, prevalenti, sono spot pubblicitari, intrattenimento, news e sport, in parte l’animazione, le sitcom (la breve e la lunga serialità sono meno praticate in Lombardia), il crossmedia e i new media in generale. Meno presenti, come vi dicevo, il cinema, il documentario (poco rilevante in generale purtroppo in volume e in fatturato), e le soap, che non sono presenti in Lombardia (alcune c’erano e sono emigrate altrove, ed è questa una delle criticità di cui parleremo). Il numero delle aziende audiovisive lombarde è in crescita: soprattutto nell’ultimo quinquennio sono molto aumentate; il 60% del nostro campione ha meno di dieci anni di vita. Soprattutto quelle che si sono moltiplicate sono le case di produzione. Questo è un primo dato, scontato per chi conosce il settore, ma l’abbiamo proprio misurato con dati quantitativi: è il trend di esternalizzazione delle emittenti, cioè la tendenza secondo le quale gli editori progressivamente tendono sempre più a dare in outsourcing la produzione, confermato sia dal numero delle società di produzione – soprattutto le neonate – sia dal numero degli addetti, il cui numero cala tra gli editori e aumenta tra i produttori. Questo ha delle conseguenze dirette sul lavoro audiovisivo e sugli addetti. In Lombardia chi c’è? Ci sono 9 produttori tra i primi 27 per volume di produzione: cioè tra i primi 27 produttori di audiovisivo italiani, 9 hanno sede primaria o secondaria in Lombardia. Il leader è Magnolia, al terzo posto in Italia dopo Endemol e Fascino per volume di produzione. Prevalentemente ci sono aziende medio piccole (il numero medio di addetti è compreso tra 1 e 5), ci sono poche grandissime aziende – praticamente solo Mediaset e Sky – alcune medie come MTV Italia e Magnolia, e moltissime one man companies, quindi aziende, prevalentemente dedicate alla produzione di documentari, di piccolissime dimensione, direi “artigianali” – con la valenza positiva che questa parola può assumere. Le aziende grandi e medio-grandi tendono a specializzarsi soprattutto nei generi forti che sono la fiction e l’intrattenimento, mentre quelle piccole, che sono in difficoltà, soprattutto ultimamente tendono a diversificare le proprio attività e tra l’altro questo trend sembra confermarsi. Le aziende grandi e forti prevedono di espandersi ulteriormente in quanto a fatturati, mentre le piccole aziende – almeno un terzo di esse – prevedono di ridurlo ulteriormente. Gli addetti. Si tratta di un settore giovane. Un terzo dei lavoratori dell’audiovisivo ha meno di 30 anni, e questo è un dato interessante. Una considerazione importante è quella sull’inquadramento contrattuale degli addetti: le aziende ci hanno detto che solo il 30% dei loro addetti ha un contratto a tempo indeterminato; chiaramente si tratta di un settore in cui predomina la produzione a progetto, perché una produzione audiovisiva è un progetto per sua natura e quindi tutte le forme di lavoro “flessibili” o cosiddette “atipiche” sono molto diffuse in questo settore. Ovviamente la proporzione dei lavoratori flessibili o atipici varia a seconda della tipologia di azienda (ad esempio gli editori hanno più lavoratori subordinati rispetto ai produttori) e a seconda dei singoli reparti aziendali (quindi gli staff degli editori hanno un maggior numero di tempi indeterminati rispetto ai reparti produttivi che invece hanno bisogno di una maggiore flessibilità). Ovviamente l’interpretazione che di questo fenomeno di flessibilità produttiva si dà è diversa, a seconda se il punto di vista è quello delle società di produzione o quello dei sindacati. Noi abbiamo registrato due posizioni. Per i produttori il lavoro flessibile è funzionale all’efficienza produttiva ed è strutturale, il mercato dello show business non può che vivere di freelance, le modalità di lavoro non possono essere impiegatizie, ma instabili e irregolari. Però la preoccupazione di sindacati e lavoratori è che il confine che si instaura tra flessibilità e precarietà, tra l’esigenza produttiva della discontinuità lavorativa e senso di precarietà dei lavoratori è davvero labile. Il Censimento dei mestieri. Innanzitutto premettiamo che il censimento dei mestieri e la classificazione delle professioni è un tentativo impervio. In Italia non c’era un lavoro sistematico, ed è quello che abbiamo tentato qui di fare; anche se quello che abbiamo scritto non sono naturalmente le tavole della legge, ci è parso importante fare un tentativo di sistematizzazione. È molto difficile fare codifiche in un settore così articolato ed eterogeneo. La dizione di “regista”, ad esempio, in televisione, nel cinema piuttosto che in pubblicità è molto diversa. E oltretutto il regista televisivo degli anni ‘80 non è il regista televisivo di oggi (il fatto che le figure si siano trasformate e non sempre in meglio è uno dei problemi). Inoltre nelle aziende medie piccole la distinzione tra ruoli e qualifiche è piuttosto labile. C’è spesso una disparità tra gli inquadramenti contrattuali dei lavoratori e le qualifiche da una parte e le mansioni sono effettivamente svolte dall’altra – questo ce l’hanno dichiarato i lavoratori stessi. E in generale anche le aziende più grandi, le aziende che hanno dimensioni di tutto rispetto (persino Mediaset) non usano gli organigrammi, le formalizzazioni per eccellenza del lavoro aziendale, rifuggendole come un elemento di rigidità. La nostra mappa è un tentativo di integrare tutte le filiere, tutte le tipologie di aziende e i generi produttivi dell’audiovisivo, articolando i mestieri audiovisivi sostanzialmente in tre aree: i mestieri della produzione di contenuto, i mestieri della gestione di contenuto, i mestieri ibridi. Ognuna delle tre aree è stata divisa poi in più ambiti. Quindi abbiamo censito in dettaglio 211 ruoli, tra vere e proprie figure professionali e mansioni specifiche. Nel sito, come dicevamo, gli studenti potranno trovare le job description di ogni singolo ruolo, e tutti i corsi che portano alla formazione di questi singoli ruoli. Abbiamo poi chiesto alle aziende quali fossero le figure professionali strategiche, quelle più importanti, considerate cruciali per il mantenimento della competitività aziendale, e ci hanno indicato in primis queste tre famiglie professionali: le figure commerciali, le figure produttive e le figure crossmediali (quelle che stanno al confine tra l’audiovisivo e i new media e le telecomunicazioni, le figure della convergenza). Quasi tutte le aziende ci hanno detto che molte figure professionali hanno subìto cambiamenti negli ultimi anni, anche profondi. A causa soprattutto di due fenomeni: - l’aggiornamento tecnologico imposto dalle nuove tecnologie e quindi l’addestramento tecnico richiesto; - la necessità di acquisire delle competenze supplementari anche in virtù della digitalizzazione, quindi per la tendenza a ibridare figure con competenze diverse che una volta erano distinte. Soprattutto le figure che si sono più trasformate negli ultimi anni sembrano essere – come emerge dalle interviste e dai focus - quelle del triangolo autoriale, in particolare quindi le figure chiave del prodotto audiovisivo, il cuore della troupe artistica: l’autore, il produttore e il regista. Il produttore interno alle reti, anche per il fenomeno già citato di esternalizzazione, è molto ridimensionato: è diventato un “fluidificatore di processo”, come è stato chiamato dalle aziende stesse, un uomo di relazione che media tra società diverse. Ovviamente questo è vissuto con una certa insofferenza da molti dei lavoratori delle emittenti. Il regista televisivo poi, rispetto ad esempio, a quello pubblicitario, che mutua la sua centralità dal cinema, è sempre meno rilevante ed è considerato sempre di più una figura tecnica. L’autore infine è diventato prevalentemente un adattatore di format: l’adattamento di format non è un’attività priva di una dignità professionale, ma questo significa che l’Italia non esporta format all’estero ma si limita solo a importarli, togliendo agli autori una capacità ideativa autoctona. Le competenze dell’audiovisivo. Sono sostanzialmente quattro: - artistico creative - tecniche - manageriali - relazionali In misura diverse sono presenti in tutte le professioni audiovisive. Abbiamo chiesto alle aziende quali erano per loro le più importanti tra queste, e ci hanno dato risposte molto diverse le reti televisive e i produttori. Le emittenti (ad esempio Mediaset) ci hanno detto che le competenze più importanti sono quelle relazionali, cioè quelle di processo, perché a loro non interessa avere in casa le competenze artistiche: hanno sempre avuto all’esterno gli artisti e cosi hanno all’esterno anche gli autori. Le case di produzione invece si concentrano sulle competenze tecnico specialistiche, quelle di prodotto. Hanno bisogno in particolare di gestire i talenti: la confluenza tra capacità manageriali e quelle artistiche è quello che fa del loro lavoro un buon lavoro. E qui vedete già una prima differenza tra le due tipologie di aziende. Sulle competenze è interessante confrontare due modelli: un modello artigianale e uno industriale. Quello industriale è quello che si chiama nei manuali di organizzazione “scientific management”: prevede una parcellizzazione del lavoro con mansioni semplici e limitate, una sorta di “catena di montaggio”, tipica ad esempio della soap opera. Vi cito come esempio uno degli organigrammi che abbiamo faticosamente ricostruito per questa ricerca, quello di una soap opera come “Vivere” o “Centovetrine”, per mostrarvi la complessità che un’organizzazione può avere in un contesto di tipo industriale. È una sorta di ritorno alla catena di montaggio di memoria tayloristica. Ci sono invece prodotti audiovisivi che hanno un’altra modalità organizzativa, più artigianale, cioè con poche mansioni che incorporano una vasta gamma di attività, quindi con pochi ruoli che fanno tante cose e con grande autonomia decisionale, e quindi richiedono un’integrazione di competenze, una multicompetenza. Questo vale soprattutto per documentario e breve serialità, che conservano modalità artigianali perché il triangolo autoriale è molto importante. Altri esempi di integrazione delle competenze sono nel campo giornalistico: come sapete il giornalista multimediale è chiamato a lavorare su più fasi della produzione e addirittura il videoreporter è chiamato a intervenire su tutti e tre gli step, dalla preproduzione alla postproduzione. E questo genera a volte prodotti di assoluto interesse e qualità (un esempio su tutti, “Report”). Ovviamente sono più specializzate le grandi aziende rispetto alle piccole, come sono più specializzate le mansioni tecniche rispetto a quelle artistico manageriali. I lavoratori e le aziende dicono che si va assolutamente verso una tendenza alla policompetenza, quindi è necessario che chiunque voglia entrare in questo settore si metta in quest’ottica, indipendentemente dalla specializzazione che a volte le scuole impongono. L’integrazione di competenze è una cosa positiva per i lavoratori, perché dà maggiore controllo sul prodotto e maggior senso di autonomia, ma il motivo per cui le aziende fanno ricorso a questo è soprattutto un’esigenza di risparmio. Criticità del settore. Abbiamo chiesto alle aziende e ai lavoratori quali sono le criticità riscontrate nel mercato occupazionale in questione. Le aziende ci hanno detto che c’è soprattutto un problema di formazione, e in secondo luogo anche di mancanza di canali di selezione specializzati e di mancanza di una certificazione delle competenze, ma in generale il problema è una scarsa qualificazione delle risorse disponibili e un alto costo del lavoro. Certo è che le aziende, tranne pochi esempi di aziende che veleggiano in contesti di mercato con un trend positivo, inquadrano il problema occupazionale in un contesto di mercato sfavorevole, e quindi in un quadro di problematiche più ampie del mercato audiovisivo. I lavoratori invece pongono l’accento sulla selezione. Per loro evidentemente è stato difficile entrare e per coloro che sono entrati è difficile cambiare ruolo all’interno di questo settore, è difficile fare una crescita, un percorso professionale articolato, e quindi il problema numero uno per i lavoratori, dei tre che avevamo ipotizzato, è che mancano canali di selezione specializzati. Ma citano anche altre problematiche: i percorsi di carriera sono discrezionali, i compensi sono bassi e poco equi, ci sono poche informazioni e quindi poca trasparenza, molte barriere di accesso e un senso di precarietà diffuso; in generale si ritiene inoltre che ci sia scarsa attenzione da parte della propria azienda per le Risorse Umane. Un’ accusa di mancanza di progettualità e innovazione generale viene rivolta anche rispetto ai prodotti: quindi in realtà il problema non è solamente “vengo poco pagato”, o “il mio percorso di carriera non viene sufficientemente valutato”, ma “c’è poca attenzione delle aziende alla qualità dei prodotti”, “c’è poca Ricerca e Sviluppo”. L’offerta formativa. Abbiamo censito l’offerta formativa per cercare di capire, visto che le aziende parlavano di un problema di formazione, qual è la situazione delle scuole che portano a formarsi in questo settore. Abbiamo trovato tantissimi corsi di formazione in Lombardia: 171 corsi a tutti i livelli, dal post licenza media al post Laurea specialistica. Qualche breve considerazione: tutte le università lombarde tranne una citano i media tra gli sbocchi occupazionali. I Master costano tanto, molto più della media dei Master generici nel Nord Italia, e quindi evidentemente la domanda dell’utenza è alta, e le scuole possono contare su un grande appeal della loro offerta. Ultimamente crescono i corsi di laurea interfacoltà, ma paiono ancora internazionale e la partnership con le aziende. scarsamente valorizzate la dimensione Abbiamo confrontato l’offerta formativa dei corsi che abbiamo censito con la mappa dei mestieri per cercare di capire quali fossero le figure professionali che questi numerosi corsi formavano. L’80% dei corsi forma figure di produzione e non di gestione, nonostante le figure di gestione siano richieste dalle aziende, e in particolare formano alle mansioni registiche e autoriali. Ci sono pochi corsi per la gestione del contenuto, e pochi corsi sulle competenze manageriali rispetto ai corsi sulle competenze creative e tecniche. Questo probabilmente perché gli aspiranti lavoratori sono più attratti dalle figure artistiche, e perchè conoscono poco le altre figure. I lavoratori affermano che la formazione è servita per acquisire una forma mentis aperta e curiosa ma che si impara sostanzialmente lavorando: solamente il “training on the job” e il lavoro quotidiano sul campo determinano una conoscenza del settore audiovisivo. I lavoratori che hanno deciso di fare un corso professionale o un Master hanno detto di aver fatto questi corsi soprattutto per avere un network di contatti e di relazioni, più che per i contenuti didattici. Le aziende fanno altri rilievi sull’offerta formativa: dicono anzitutto che le scuole assecondano i desideri dei ragazzi, senza a volte valutare se ci sia una ricaduta occupazionale effettiva: questo varrebbe ad esempio per l’abbondanza di corsi registici, che non avrebbero capacità di assorbimento sul mercato. Le aziende dicono anche che i corsi sono poco selettivi, e che i requisiti di accesso dovrebbero essere più rigidi affinché i corsi abbiano un’effettiva qualità; che sono poco interdisciplinari (mancherebbe la dimensione di multi competenza) e troppo passivi, cioè che non insegnano a fare, a entrare subito in una dimensione operativa. Il placement. Tutte quelle attività che agevolano il passaggio dello studente al lavoro prendono il nome di “placement”. Ci siamo rivolti alle strutture di orientamento e placement presenti sul territorio, universitarie e non, e la metà di esse non si sono mai occupate di audiovisivo; in particolare 4 università che dichiaravano di avere l’audiovisivo tra i loro sbocchi occupazionali in realtà non hanno mai organizzato uno stage in una azienda del settore. Quindi evidentemente ci sono difficoltà di dialogo con le aziende: le aziende fanno fatica a relazionarsi con le scuole e le scuole a volte fanno fatica a strutture dei percorsi di dialogo più sistematico con le aziende. Lo stage è comunque una modalità presente in tantissimi corsi e gli stagisti sono una forza importante – fin troppo, verrebbe da dire - dell’organico delle aziende. Probabilmente gli stagisti sono molto più numerosi di quanto le aziende ci hanno dichiarato, visto che attualmente c’è un tetto numerico che è parametrato sui tempi indeterminati. 8 lavoratori su 10 sono entrati nell’audiovisivo grazie ad uno stage, che è ormai una prassi consolidata per far incontrare la domanda e l’offerta ed è uno step indispensabile per completare il percorso formativo. Il recruiting Come si fa a entrare nelle aziende audiovisive? Per il 70% dei casi si entra per canali informali non strutturati, non sistematici, informali, per canali “relazionali”, diciamo “all’italiana”: per conoscenza diretta, per segnalazione, per passaparola. Mandare un curriculum via mail serve fino a un certo punto: nelle grandi aziende ne ricevono tantissimi (a Mediaset 10.000 l’anno!), nelle piccole e medie non c’è una raccolta e schedatura sistematica, non sono organizzati per farlo. È poi un settore dove non si fanno inserzioni sui quotidiani, ce ne sono pochissime. Ci è sembrato che il recruiting, che non è solo “selezione del personale”, tra l’altro, ma dovrebbe essere più in generale la “pianificazione dello sviluppo delle Risorse Umane”, non sia particolarmente sistematico nè pianificato in questo settore. Le società di selezione non si occupano di audiovisivo, anche se dopo l’ingresso di operatori multinazionali come Sky qualcosa in più è stato fatto. Di società di selezione specializzate non ce ne sono. Le poche che hanno fatto ricerche di personale in questo campo non si sono occupate di profili intermedi e produttivi, semmai di manager o di interinali. E quindi le aziende ritengono inadeguato il servizio offerto dalle società di selezione; sia le aziende che i lavoratori ritengono utile il ricorso e la nascita di eventuali attività di questo genere, affermando che se ci fosse una società di recruiting specializzata probabilmente vi farebbero ricorso. Un altro canale di reclutamento in teoria sarebbe Internet. Però in Italia l’audiovisivo fa poco ricorso a questo canale, solo il 10% delle aziende dice di utilizzarlo. Siamo andati a vedere ad aprile i siti delle 272 aziende per capire quante segnalavano le posizioni di lavoro aperte, e quindi con quanta trasparenza pubblicizzassero le occasioni di lavoro: solamente il 4% delle aziende audiovisive lo fanno. Questo dato lo abbiamo confrontato con la media europea che è il 33%, in Inghilterra addirittura il 52%. La BBC ha un portale intero dedicato al lavoro: qualche giorno fa siamo andati a curiosare e abbiamo visto che c’erano ben 104 annunci di lavoro, contro i 27 in tutte le 272 aziende lombarde censite!). BBC ha addirittura un intero servizio di “job alert” per cui il lavoratore che si registra ed è interessato a ricevere annunci, ad esempio, per la carriera produttiva, riceve una mail ogni volta che si apre una posizione in quel settore. Interessante confrontare tutto questo con le pagine “jobs” della Rai e di Telecom Italia Media: pagine bianche dove non compare nessuna posizioni aperte, nemmeno di stage. L’organizzazione del lavoro I lavoratori che si sono inseriti in questo settore accusano una certa disattenzione da parte della loro azienda. Anche medie aziende di grandi fatturati non hanno spesso nemmeno un addetto che si occupa delle risorse umane, c’è spesso solo un responsabile dell’amministrazione che gestisce gli aspetti amministrativi e non può ovviamente dare attenzione ai percorsi di carriera. È un problema di mobilità funzionale quello accusato dai lavoratori. Questo significa, per i ruoli creativi, che c’è poco ricambio generazionale. I percorsi di carriera e le retribuzioni sembrano essere discrezionali ed arbitrari, scarsamente meritocratici. Un benchmark internazionale è TF1. Questa azienda francese fa ampio uso di slogan propagandistici, come “il futuro di TF1 dipende dai suoi uomini”, piuttosto che “l’azienda deve avere i migliori uomini con i migliori stipendi che lavorano al meglio, quindi l’azienda fa il meglio”. Saranno anche slogan, ma non li abbiamo ritrovati in nessuna azienda italiana. Quali sembrano essere i temi di sfondo che riguardano l’audiovisivo lombardo? Anzitutto, temi territoriali, l’oggetto della seconda tavola rotonda. Non ci sono dei veri e propri distretti industriali nell’audiovisivo lombardo e c’è un rapporto non sempre fisiologico e felice tra le imprese e il territorio. I produttori lamentano lo scarso sostegno delle istituzioni ed è anche spia di questo il fatto che alcune imprese che prima erano localizzate in Lombardia si sono poi spostate in altre regioni dove hanno trovato maggiore sostegno istituzionale. È il caso di Mediavivere, che prima produceva “Vivere” a Como, e che oggi produce nella cittadella di Telecittà nel Canavese, dove hanno avuto ogni tipo di sostegno dalle istituzioni, dalla deroga sul numero degli stagisti, fino a facilitazioni economiche. Probabilmente il ruolo di Milano a livello territoriale per l’audiovisivo potrebbe essere maggiormente valorizzato per restituire il rilievo che merita. Il riferimento internazionale di eccellenza dal punto di vista del sostegno istituzionale è Skillset. Un organismo inglese che ha finanziamenti statali, privati ed europei. Il suo obiettivo è “assicurare che le industrie siano competitive avendo le persone giuste con le giuste competenze al posto giusto al momento giusto”. Un altro tema di sfondo è che i lavoratori parlano di un problema di qualità del prodotto che sono chiamati a fare, e di un problema di scarsa innovazione dei prodotti. In effetti un forte spirito di conservazione sembra aleggiare nelle emittenti televisive e il ricorso al format e al già fatto è prevalente. Il mancato ricorso a investimenti in Ricerca e Sviluppo, che invece, paradossalmente, in altri settori assumono un rilievo forte (ad esempio un’azienda come 3M investe il 7% del fatturato in Ricerca e Sviluppo), è indice che la comunicazione investe poco sull’innovazione e preferisce ripiegare su formule note e più tranquillizzanti. Chiudo sul tema del “make or buy”, cioè il tema della catena del valore: nel passato consisteva in una centralizzazione e integrazione verticale, per cui gli editori producevano quasi tutto in casa. Attualmente non è più questa la tendenza, e si tende alla parcellizzazione di questa catena; chi volesse entrare nel settore audiovisivo e volesse fare produzione attualmente dovrebbe entrare in una casa di produzione e non da un editore. L’editore ha rinunciato almeno in parte a produrre direttamente, e a volte ad avere anche un ruolo propulsivo nella scelta editoriale dei contenuti; spesso delega alle realtà magari più vivaci e dinamiche delle case di produzione esterne. Quindi un ricorso drastico all’outsourcing: citiamo il caso di Rai 2, che ha teoricamente sede a Milano, ma il 70% della programmazione non news lo appalta o lo acquista all’esterno; più in generale il problema del centro di produzione di Milano è che produce meno del 10% di quanto viene autoprodotto in Rai. In realtà ci sono varie interpretazioni sul fenomeno della esternalizzazione. I lavoratori delle emittenti dicono di essersi ridotti a fare i service dei produttori, e che gli editori si sono ridotti a fare i buyer rispetto ai produttori esterni. I produttori esterni lamentano però la mancanza di un vero e proprio mercato, di una vivacità di contesto che garantisca opportunità di crescita e sbocchi occupazionali e quindi creativi. Rispetto ai 1000 produttori inglesi la vivacità del nostro mercato è molto ridotta. Il vero conflitto non sembra perciò tanto quello tra editori e produttori, quanto l’oligopolio contro un vero mercato. Cioè la dialettica tra pochi soggetti dominanti – le emittenti generaliste, i grandi produttori le risorse artistiche strategiche da una parte - contro i piccoli e i medi soggetti, a tutti i livelli, che fanno fatica a entrare nel mondo del lavoro. La sfida e l’augurio che facciamo ai piccoli e ai giovani, è quello che abbiano maggior accesso a questo settore, e che si dia in futuro maggiore spazio alla ricerca, al rischio e alle piccole dimensioni.