Bellas Mariposas - Nuovo Cineforum Rovereto

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Bellas Mariposas - Nuovo Cineforum Rovereto
martedì 5 marzo 2013
Bellas Mariposas
Salvatore Mereu, Italia 2012, 100’
Quasi come una confessione.
Sguardo in macchina e voce
fuoricampo. Il flusso dei pensieri si incrocia, combacia e si
contraddice con quello che accade in Bellas mariposas, dal
romanzo omonimo di Sergio
Atzeni, un giorno nella vita di
due adolescenti, Cate e Luna.
Un viaggio nella periferia semideserta di Cagliari, tra palazzoni ingombranti e la spiaggia,
ma anche nei loro desideri,
provocazioni e ammiccamenti
sessuali e negli ombrosi spaccati familiari. Potrebbe essere
come un film in soggettiva,
contaminato da uno sguardo in
cui il realismo quotidiano diventa visionario, con la luce del
giorno e il buio della notte che
trasformano ogni inquadratura,
trasportando lo spettatore in un
universo magico come nella
sorprendente apparizione di
Micaela Ramazzotti nei panni
di una veggente.
Il film di Mereu non si ferma
davanti a niente, si pone come
una sfida anche estrema e anomala nel panorama italiano e
qui unisce idealmente tutti i suoni dell’adolescenza dell’ottimo
Sonetàula con l’esperimento/
laboratorio di Tajabone. Solo
nel finale qualcosa si rompe
con un’allegoria forse stonata
che però, proprio nel suo limite, conferma come quel frammento di vite delle protagoniste
e lo sviluppo dell’opera siano
in simbiosi. E in questo senso
il cinema del regista sardo
mette davvero in campo tutte
le forze che ha, confermando
la coerenza di un itinerario che
si rifiuta di seguire strade già
percorse.
Simone Emiliani
FilmTV
Ha molto coraggio il nuovo
film di Salvatore Mereu: Bellas
Mariposas è una convinta sfida
nel cinema italiano, e anche
un audace azzardo produttivo
(Gianluca Arcopinto tra i responsabili). Non sempre e non
tutto funziona in questa sorta di
ronde sarda con spruzzate di
realismo magico (e con una fenomenale Micaela Ramazzotti
veggente), ma quando va a
segno Mereu si conferma uno
degli sguardi più singolari e
inediti nel nostro panorama,
pur allontanandosi decisamente da forma e atmosfere della
sua opera più fortunata, il magnifico Sonetàula.
Una giornata nella vita di Cate
e Luna, entrambe 11enni alla
periferia di Cagliari, quasi una
reincarnazione bambina delle Lilli Carati e Gloria Guida
del perfido Avere vent’anni di
Fernando Di Leo: provocatrici
in erba, trascorrono le ore ad
ammiccare e scherzare pesantemente e pericolosamente con
i ragazzi e gli uomini più grandi del quartiere, dell’autobus
che le porta in spiaggia, delle
strade della città semideserta,
e così via. D’altra parte l’intero
loro immaginario è governato,
quasi ossessionato dal sesso,
che riempie i desideri e le
azioni dei coetanei che abitano gli stessi palazzoni-alveare,
e delle figure di famiglia, fratelli tossici e teppistelli e padri
erotomani tra spogliarelli sulle
reti private e palpeggiamenti
su mezzo pubblico. Quando
la massiccia tensione morbosa accumulata dal film sta
per esplodere trasformandosi
nell’inevitabile gesto inconsulto
di violenza (però stavolta non
indirizzato alle bambine, ma
diretto a Gigi, “l’innamorato”
di Cate), Mereu s’inventa una
notte surreale dove succede di
tutto, e tutte le traiettorie si ri-
baltano in qualche trovata bizzarra di troppo (si tratta senza
dubbio della sezione dell’opera che “tiene” meno), nel tentativo di chiudere la dimensione
allo stesso tempo corale e intima di Bellas Mariposas in una
specie di allegoria conclusiva
e “ferma”.
Fortunatamente, per tutta la
durata del film Mereu ha la
convinzione di non volersi fermare davanti a nulla, e di voler
mostrare e tirare in ballo apertamente ogni cosa, con una
schiettezza e una benedetta
sfrontatezza in quello che finisce letteralmente nell’inquadratura o nei dialoghi che al cinema avevamo potuto incontrare
forse solo in alcune commedie
messicane o spagnole di qualche anno fa. In questo il regista si dimostra miracoloso nel
lavoro con gli attori bambini
(come già si poteva riscontrare nel precedente Tajabone,
realizzato proprio nel corso di
un laboratorio scolastico tenuto
da Mereu), più che nelle suggestioni che provengono dalla
pagina scritta (di suo pugno),
alla quale avrebbe forse giovato la sfrondata di qualche
situazione .
Ma di Bellas Mariposas interessa in maniera decisamente maggiore tutto l’apparato
espressivo, anche complesso
con una arzigogolata stratificazione di incessante monologo
“a incastro” fatto in faccia alla
mdp dalla piccola protagonista, esplorazioni labirintiche
del borgesiano microcosmo di
periferia che sembra in costante mutamento ed espansione
sia verticale che orizzontale, e
un certo colorato bozzettismo
grottesco di miniritratti in appartamento di famiglia sottosopra.
Mereu cerca di stare dietro a
questa grossa macchina narrativa che ha imbastito: i piccoli
fallimenti dell’esperimento non
inficiano l’assoluta e lodevole
ambiziosità del tentativo.
Sergio Sozzo
Sentieri Selvaggi
7 settembre 2012
Bellas Mariposas è l’adattamento di un romanzo breve
di Sergio Atzeni che aveva
attirato l’attenzione di molti registi fin dall’epoca della sua
uscita. Alcuni la consideravano
una trasposizione impossibile.
Come hai trovato la chiave per
portarlo al cinema e quali erano le maggiori insidie del testo
d’origine?
Ho trovato la chiave leggendolo e rileggendolo, perché per
tanto tempo sono stato perplesso riguardo la sua potenziale
trasposizione cinematografica,
proprio per la sua natura di
scritto quasi sperimentale: si
tratta di un testo sostanzialmente privo di punteggiatura, senza dialoghi e senza un plot preciso, in forma di un lunghissimo
monologo. Lo vedevo come un
terreno insidioso, di pertinenza
esclusiva della letteratura, anche se poi, andandolo a scandagliare è possibile riscontare
un arco narrativo che si compie
nel corso di una giornata - “una
giornata particolare”, potremmo dire, per ricordare altre
giornate cinematografiche. L’idea mi è arrivata rileggendo
il finale, quasi un sottofinale,
quando la protagonista, Caterina, si rivolge direttamente a
un personaggio che parrebbe
essere il narratore stesso – stando anche alle indicazioni biografiche di Atzeni – e gli dice,
grosso modo, “non mi guardare così, io non sono interessata
a queste cose porche, non ci
sto a questo gioco”. In sostanza: pur rivolgendosi costantemente al lettore, a un certo
punto, chiama in causa il narratore stesso. È lì che mi sono
detto: l’unico modo per portare
al cinema Bellas mariposas è
rispettarne questa caratteristica. In quel momento ho deciso
di correre una gran quantità
di rischi, perché si trattava di
affidare la narrazione a una
ragazza giovane, non un’attrice professionista, facendo sì
che si rivolgesse allo spettatore
proprio come accadeva nel
racconto. Un terreno scivolosissimo dal quale non so ancora
oggi come sono uscito, perché
se è vero che l’accoglienza al
Festival di Venezia è stata molto calorosa, il vero banco di
prova resta il pubblico in sala.
Con la speranza che il film possa trovare una distribuzione...
Per di più ti muovevi
in un terreno poco
noto. Cagliari non
è la tua città. In che
modo ti sei avvicinato
a quest’ambiente
estraneo? Quali passi
hai compiuto in tal
senso?
Sono andato a Cagliari nel
2009 subito dopo aver ultimato la sceneggiatura del film,
per conoscere meglio la città in
cui è ambientato il libro, e in
particolare i quartieri popolari
di Sant’Elia e San Michele. Ho
pensato che il modo migliore
per farlo fosse quello di unire
gli intenti di ricerca all’attività
di educazione all’immagine
che da anni svolgo in parallelo alla regia. Ho cominciato a
insegnare in due scuole diverse
nel novembre del 2009 con
in testa l’idea di trovare volti
e corpi utili al casting del film
ma poi mi sono appassionato
così tanto ai ragazzi e alle loro
storie che abbiamo girato un
altro film, Tajabone, presentato
a Venezia due anni fa.
Come di consueto nel
tuo cinema, anche in
Bellas Mariposas il cast
è composto in maniera
eterogenea, mescolando
attori professionisti e
non.
Il processo è stato molto la-
borioso ed è partito da molto
lontano, da quell’esperienza
nelle scuole di cui ti ho detto,
un’esperienza che per me era
anche di appaesamento: lo
scopo non era solo quello di
lavorare al casting ma anche
prendere confidenza con il
luogo che intendevo raccontare, così da non sentirmici
estraneo. Non volevo certo
che il mio sguardo fosse quello
di un turista di passaggio e, in
questo senso, la scuola è stato
un ottimo viatico. Mi interessava capire come funzionava
quel mondo al suo interno, e
solo stando con i ragazzi mi
è stato possibile entrare anche
nelle loro case, in questi palazzi che, bada bene, erano
e restano inviolati dal cinema.
Si tratta di luoghi ad alto tasso
delinquenziale e ti assicuro che
non è facile avervi accesso,
perché lì la gente deve potersi
fare i propri comodi e non sono
ammessi sguardi indiscreti. La
convivenza prolungata con tutti quei ragazzi, poi, ti porta a
rimodulare un’idea di casting
che hai sulla carta in partenza
ma poi va adeguata alla realtà
e alle facce che ti trovi davanti. Anche perché i luoghi in cui
Atzeni ha ambientato il racconto non sono più gli stessi in cui
vive la gente di cui parla. Questo è stato il grande problema
di fondo: il quartiere aveva perso quella identità e riconoscibilità che gli aveva dato l’autore.
Contemporaneamente mi sono
reso conto che i quartieri popolari in qualche modo si assomigliano tutti, anche perché non
sapendo ancora se avrei girato
il film a Cagliari, sono andato
a Tor Bella Monaca – un po’
l’equivalente di Sant’Elia a Cagliari o Secondigliano a Napoli – e ho capito che anche lì
esistevano le stesse dinamiche,
lo stesso modo di abbigliarsi
dei ragazzi, e lo stesso modo
di truccarsi delle ragazze, la
stessa musica a palla ovunque.
Come mai dubitavi di
girare il film a Cagliari?
Per una ragione puramente produttiva. La difficoltà di girare
un film in Sardegna non è mai
venuta meno, perché è chiaro
che non girare a Roma significa avere una troupe in trasferta e perdere tutta una serie di
vantaggi, a cominciare dal fatto di poter ricorrere ai noleggi
dei mezzi in modo modulare,
a seconda delle esigenze del
momento. Ma anche se a un
certo punto posso aver preso in
considerazione l’ipotesi di girare altrove, in cuor mio non ho
mai voluto fare a meno dell’ambientazione sarda, perché se
è vero che tutte le periferie in
qualche modo si assomigliano,
il film volevo farlo a Cagliari.
È straordinario come,
tanto nel libro di
Atzeni quanto nel
tuo adattamento,
si raccontino
contesti familiari di
abbrutimento ma con
il sorriso sulle labbra,
con uno sguardo che
non è mai cinico o
compiaciuto ma ironico
e compassionevole. Uno
sguardo che si sforza
di abbracciare tutti allo
stesso modo, anche
perché nessuno ha mai
davvero la coscienza
completamente pulita...
Devo dire che la capacità di
Atzeni di trattare in maniera lieve una materia così dura è stata tra le qualità che mi aveva
maggiormente sedotto fin dall’inizio. Come dici tu, si raccontano cose terribili e ho cercato
di obbligarmi a questa lievità,
e dal momento che trovare la
misura non è stato facilissimo
credo che, in questo senso, il
cast abbia ricoperto un ruolo
fondamentale. Nei volti doveva essere iscritta la capacità
di sorridere anche di fronte
a eventi drammatici. Sapevo
che la scommessa si sarebbe
giocata proprio lì e infatti nel
comporre il gruppo degli attori
ho fatto un lavoro ancora più
ossessivo che in passato, incrociando ripetutamente le possibilità, riunendo i candidati per
capire se, a parte le capacità
dei singoli, funzionasse anche
l’insieme. Non che questo bastasse ad assicurare la riuscita
della messa in scena, perché in
Bellas mariposas non è facile
trovare appigli drammaturgici.
Se ci fai caso, il testo procede
come certo teatro di Checov,
dove si assiste a una serie di
eventi che apparentemente
sembrano non portare avanti
l’azione più di tanto, finché
alla fine non accade qualcosa,
anche di poco conto, che getta
una nuova luce sui personaggi,
e con questo colpo d’ala l’autore in genere ti restituisce anche
un senso ultimo e più profondo
del racconto. Credo che nel testo di Atzeni si possa riscontrare la stessa, sottile qualità. Tutto
ciò aggiunge ulteriori problemi
nel momento in cui lavori con
attori esordienti o non professionisti, perché non ci sono eventi
scatenanti, capovolgimenti di
fronte, non accade mai niente
di così importante per cui la
trama stessa trascina l’attore e
il personaggio ma c’è invece
un incedere lieve – se vuoi da
racconto picaresco –, e tutto
rimane sotto traccia, mai realmente visibile, e a quel punto
ti può salvare solo l’amore per
la storia che stai raccontando.
Avevo letto una
precedente versione
della sceneggiatura e
mi sono accorto che hai
lasciato fuori tutta una
componente surreale,
se vogliamo chiamarla
così, che faceva
capolino qua e là nel
testo. Come mai?
Le ragioni sono esclusivamente
di carattere produttivo. La parte a cui ti riferisci, ovvero tutti
quegli elementi che avrebbero
dovuto preparare al finale con
l’arrivo della maga, e dunque i
momenti con i gatti che avevo
previsto ci fossero fin dall’inizio, è stata per forza di cose
moderata. Perché non avevamo il tempo di istruire un gatto
a fare quello che avevamo in
mente né, tanto meno, la possibilità economica di animarlo in
digitale, perché se anche i costi
non sono alti come in passato,
i preventivi erano pur sempre
al di fuori del nostro budget. E
credo sia un peccato, perché
tenevo molto all’aggiunta di
quella tonalità.
Da Ballo a tre passi
a Bellas mariposas,
passando per
Sonetaula, continui a
trovare nell’infanzia
e nell’adolescenza un
terreno d’elezione per i
tuoi racconti. Come mai
ami così tanto questa
fase della vita?
Potrei dirti che si tratta di una
fase che mi trovo alle spalle e
che quindi sento di poter raccontare, perché mi ci sento a
mio agio e sono convinto che
si debba sempre partire da
quello che si conosce. Si tratta
di una fase straordinaria, in cui
tutto assume una grande importanza, quasi decisiva, e a livello emotivo fornisce tantissima
materia al cineasta. A me poi
piace particolarmente il mondo
della scuola e avendo periodicamente insegnato, a contatto
con i ragazzi, credo di aver
imparato a conoscerli bene e
compreso come che si possono
ottenere le chiavi d’accesso al
loro mondo.
A proposito di lavorare
su quello che si conosce:
pensi di continuare a
raccontare la tua terra
o senti il desiderio di
avventurarti oltre i
confini dell’isola?
Credo che arroccarsi e farsi
limitare dai confini geografici
di un luogo, con il rischio anche di esaurirne le potenzialità
visive, sia inutile. Ho rivoltato
la Sardegna come un calzino e
anche se credo che ci sia ancora molto da raccontare penso
che una volta che hai filmato,
fotografato un dato luogo, quel
luogo muore e allora subentra
la necessità di trovarne altri.
Sarebbe davvero da stupidi
confinarsi alla sola Sardegna,
e non avendo ancora fatto programmi per il futuro credo che
saranno le storie a portarmi in
una direzione piuttosto che in
un’altra. È chiaro che, a caldo, dopo un film come questo, il primo posto dove sono
andato a cercare nuove storie
è ancora una volta la letteratura sarda, ma in maniera non
esclusiva. Ho letto da poco un
bellissimo romanzo, Devozione di Antonella Lattanzi, una
giovane autrice pugliese pubblicata da Einaudi. È la storia
d’amore tra due tossicomani,
molto intensa, straordinaria.
Ma pensare di adattarlo vorrebbe dire mettersi in una posizione produttiva molto difficile,
ancora una volta radicale, perché per ottenere un risultato degno in questo senso dovrei fare
delle scelte estreme. Non che
io mi lasci spaventare da certe
scelte. Se credo fino in fondo in
una cosa non ho paura a mettermi completamente in gioco
e sono convinto che quando si
è spinti da una passione vera
e profonda i modi per fare un
film si trovino sempre. Aveva ragione Rossellini quando diceva
“o faccio quest’inquadratura o
crepo”.
La scommessa più
grande, con Bellas
Mariposas, è stata di
carattere produttivo,
visto che per la prima
volta hai realizzato
un’opera finanziata
quasi interamente
dalla tua società
di produzione,
la Viacolvento.
Immagino si sia
trattata di una grande
soddisfazione ma
vorrei che mi parlassi
anche delle eventuali
controindicazioni legate
a una scelta del genere.
C’è da dire una cosa: in
qualche modo mi sono sentito
obbligato a fare così, perché
dopo due film non avevo guadagnato una forza contrattuale
tale da potermi presentare a
un produttore e farmi finanziare un film come questo. Tieni
presente che l’idea che avevo,
sin dall’inizio, era quella di girare il film in un certo modo:
rispettandone il piano linguistico, utilizzando quasi esclusivamente attori non professionisti,
etc. Un film, dunque, che già
sulla carta si metteva fuori dal
mercato – sempre ammesso
che ci siano delle ricette che ne
garantiscano l’accesso. Quindi
era fondamentale essere sorretti da un convincimento forte, e
io questo film volevo farlo a tutti
i costi, sapendo che sarebbe
stato un percorso a ostacoli
che non è ancora terminato,
visto che il film, a oggi, non ha
ancora trovato una distribuzione. Detto questo, è chiaro che
il poter decidere tutto in prima
persona ti offre un’enorme libertà e, apparentemente, un grande vantaggio, perché nessuno
si può opporre alle tue scelte.
Ma qui risiede anche il grande pericolo di una condizione
di questo tipo. Ad esempio:
ogni regista è istintivamente
portato a puntare quasi tutto
sulla ripresa e a trascurare la
post-produzione, o la promozione, perché è convinto che
la parte più difficile non sia
quella e non sia lì che si gioca
la riuscita dell’opera. E il dover
pensare a tutti gli aspetti organizzativi di un film, quindi non
solo a quelli puramente creativi, toglie tantissima energia
e attenzione in passaggi che
possono anche essere cruciali.
Mi è capitato spesso di dover
gestire momenti difficili della
messa in scena in coincidenza
con momenti altrettanto difficili
dell’organizzazione ed è allora che invochi la presenza di
un altro che si faccia carico di
questi problemi e in qualche
modo ti venga in soccorso. Perché vorresti dover pensare solo
alla scelta delle inquadrature e
delle luci, o come poter portare un attore alla giusta temperatura in una scena, e non a
quanti cestini devi far arrivare
sul set e a come esaurire il
programma di un figurante perché non te lo puoi permettere
il giorno dopo. Ma così non è
stato, e il film posso davvero
dire di averlo fatto da solo con
mia moglie (Elisabetta Soddu,
partner anche produttiva del
regista in Viacolvento, ndr) che
ha seguito il progetto al mio
fianco dall’inizio alla fine, passo dopo passo. A cose fatte,
credo che se si vuole realizzare film di questo tipo si è quasi
obbligati a fare come ho fatto
io, a meno che i traguardi raggiunti in precedenza siano tali
da poter chiedere tutto quello
che vuoi, ma quanti sono i registi italiani di oggi che possono
farlo?
Questa scelta ha inciso
in qualche modo anche
nel tuo modo di girare?
Ho avuto l’impressione
che in Bellas Mariposas
i movimenti di macchina
siano meno enfatizzati
rispetto al tuo film
precedente, Sonetaula...
Nel film ci sono molti piani-sequenza e il montaggio è quindi interno alla ripresa, perché
sono gli attori a condurre lo
sguardo da una parte all’altra,
mentre in Sonetaula ricorrevo
a un montaggio più classico,
se vogliamo. Da spettatore, in
linea di massima, mi piace la
magniloquenza di certi gesti
registici, ma quando mi metto
dietro la macchina da presa
invece tendo a censurare, perché sono convinto che le immagini debbano essere sempre
al servizio del racconto e non
prevaricarlo.
Anche la fotografia è
decisamente diversa.
Sai, oggi il digitale ha davvero spalancato enormi potenzialità. A partire da un girato
semplicemente “corretto”, puoi
reinventare la fotografia in fase
di post-produzione, cambiando
anche direzione rispetto a quella che avevi previsto in origine.
Un tempo, con i costi e i tempi
di un laboratorio, tutto questo
era impossibile e contava tantissimo l’esperienza prima del
set era determinante. Oggi,
paradossalmente, puoi persino
ricrederti, in fase di post-produzione. E la stessa cosa vale per
il montaggio.
Ma cosa è cambiato
nel mondo del cinema
italiano rispetto a dieci
anni fa, quando hai
cominciato? Sei più
ottimista o pessimista
rispetto agli esordi?
Intanto, dopo dieci anni, ho
qualche energia in meno ma,
detto questo, a essere profondamente cambiate sono le modalità di fruizione del film. Io
sono cresciuto con l’idea che
la sala fosse l’unico luogo deputato in cui vedere il cinema e
oggi non è più così: i ragazzi
vedono i film sullo schermo di
un computer o addirittura su
quello di un cellulare. E se forse
il modo di godere dei film è immutato, di certo è cambiata l’intensità con cui quest’emozione
si può sprigionare. Sarò un nostalgico ma credo che l’esperienza della visione in sala non
sia barattabile. D’altra parte è
cambiato radicalmente il modo
di vivere e di relazionarsi con
gli altri, perché non dovrebbe
cambiare il modo in cui si guardano i film?
Intervista di Alessandro Stellino
a Salvatore Mereu, Filmidee,
Settembre 2012