Il PCI verso la scelta europea. Estratti dal dibattito su

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Il PCI verso la scelta europea. Estratti dal dibattito su
 Il PCI verso la scelta europea. Estratti dal dibattito su Europarlamento e moneta unica Altiero Spinelli, Dallo Stato sovrano alla scelta comunitaria L'idea che i popoli europei dovrebbero costituire un’unica famiglia o comunità nella quale ciascuna nazione dovrebbe poter sviluppare le proprie peculiarità, ma tutte dovrebbero vivere in pace sotto leggi comuni, aperte alle reciproche influenze economiche e culturali, è un'idea antica, che si aggira come uno spettro in Europa praticamente dalla caduta dell'impero romano. Ma se lo spettro ha frequentato poeti, profeti, avventurieri, ideologi, esso è stato a lungo ignorato da politici e statisti, i quali hanno operato nel senso opposto, specie nel XIX e nella prima metà del XX secolo, quando si è andata costituendo l'Europa degli Stati sovrani, dei nazionalismi economici, politici e culturali, e delle due guerre mondiali. Solo durante il crollo dell'Europa dei nazionalismi si è cominciato a pensare che l'unità europea avrebbe dovuto essere non già un ideale da realizzare in un lontano e imprecisato avvenire, ma un obiettivo cui mirare alla fine stessa della guerra, quando si sarebbero dovuti affrontare i compiti della ricostruzione. La convivenza pacifica e civile fra la Germania e gli altri popoli europei, che non avrebbe dovuto consistere né nella trasformazione del popolo tedesco in un popolo dominato da altri, né nella restaurazione della grande nazione sovrana tedesca; la ricostruzione economica che avrebbe dovuto metter fine ai rovinosi nazionalismi economici del passato; la solidarietà fra le rinascenti democrazie europee divenute consapevoli della loro interdipendenza – tutto ciò contribuiva a far progettare modelli di organizzazione di un potere europeo che conciliasse le autonomie nazionali con la messa in comune di alcune fondamentali politiche. Fin dall'inizio, ancora durante il conflitto, appaiono tre modelli diversi di europeismo. Essi hanno in comune l'idea di un'unità che sia fatta dagli europei e crei un'Europa differente da quella dei nazionalismi, ma sono notevolmente differenti tanto per la soluzione che propongono, quanto per le loro radici politico‐culturali. Per alcuni statisti, la cui esperienza politica fondamentale era quella dello Stato nazionale sovrano, ma che il corso degli eventi aveva reso ben consapevoli del pericolo di una pura e semplice restaurazione nazionale, l'unificazione europea doveva essere essenzialmente una confederazione, una lega di Stati, i quali avrebbero conservato ciascuno la propria sovranità, ma che in ben determinati campi si sarebbero impegnati in modo permanente a svolgere la stessa politica, definendola e adottandola in consessi di rappresentanti dei rispettivi governi. Churchill e de Gaulle sono i più prestigiosi rappresentanti di questa visione, ma essa è assai largamente diffusa soprattutto negli ambienti diplomatici, poiché essa esige un minimo sforzo immaginativo e creativo per essere realizzata, non essendo altro che la formalizzazione dei rapporti che normalmente si stabiliscono fra Stati sovrani che si propongono di essere amici. Il secondo modello europeista è stato quello funzionalista. Esso è maturato nella mente di chi aveva fatto la grande esperienza amministrativa di quelle agenzie specializzate cui gli Alleati durante la prima e la seconda guerra mondiale avevano delegato l'amministrazione di alcuni grandi affari di interesse comune (ripartizione delle materie prime, sostegno delle 1 monete, comando militare unificato). Monnet, che era stato a capo di alcune di queste agenzie, intuì che questo metodo avrebbe potuto essere applicato anche per scopi di solidarietà pacifica, divenendo così lo strumento concreto dell'unificazione. Per amministrare nell'interesse comune il mercato del carbone e dell'acciaio, o l'energia nucleare, o un esercito comune, o una unione doganale, i singoli Stati avrebbero dovuto delegare ad una autorità sovranazionale alcuni aspetti delle loro sovranità amministrative, ma avrebbero pur sempre mantenuto la sovranità politica. Il pensiero segreto del grande amministratore Monnet era che alla lunga la burocrazia sarebbe stata più forte della politica, e dall'amministrazione europea di determinati interessi concreti sarebbe emersa un giorno, in qualche modo, la sovrastruttura politica europea. Il funzionalismo era qualcosa di più complesso e di più innovatore del confederalismo, ma era pur sempre qualcosa con cui gli statisti europei, almeno quelli dell'Intesa della prima guerra mondiale e gli Alleati della seconda, avevano già operato in anni difficili dell'esistenza dei loro Stati. Il terzo modello europeista è stato quello federalista. Era stato formulato fra le due guerre mondiali con notevole chiarezza da vari pensatori politici europei di ispirazione per lo più liberale; e non è difficile rintracciare la loro influenza su coloro che avrebbero ripreso questa bandiera durante e dopo la seconda guerra mondiale. Questa seconda generazione di federalisti si distingue dalla prima perché è impiantata nel radicalismo democratico che serpeggiava nella Resistenza, e non si pone il problema di come salvare i vecchi Stati liberali dall'ondata del nazionalismo, ma come ricostruire politicamente un'Europa distrutta e sommersa da quell'ondata. Il modello federalista propone di conservare e rispettare la sovranità degli Stati nazionali in tutte le materie che hanno dimensioni e significato nazionali, ma di trasferire ad un governo europeo – democraticamente controllato da un parlamento europeo, ed operante in conformità a leggi europee – la sovranità nei campi della politica estera, militare, economica e nella protezione dei diritti civili. Il modello federalista vede un vero e proprio Stato sovranazionale, parallelo agli Stati membri, ciascuno essendo sovrano nell'ambito delle sue competenze. Si trattava del modello americano e svizzero, che aveva dato prova della sua efficienza in vari paesi, e la cui versione europea presentata ora dai federalisti era di assai facile e penetrante comprensibilità astratta ma di assai ardua comprensibilità politica. Fuorché in Svizzera, il pensiero federalista era estraneo alla cultura politica, alle consuetudini, al linguaggio politico corrente di tutti gli statisti, di tutti i parlamentari, di tutti i partiti, di tutti i giornalisti d'Europa. Era assai facile dire che si era per gli Stati Uniti d'Europa, per un governo europeo, ma non appena da queste formule astratte si doveva scendere a precisare una qualche azione politica diretta a realizzare quell'obiettivo, le lingue balbettavano, le menti si offuscavano, la volontà vacillava, perché si trattava di cosa troppo radicalmente nuova, e perciò non solo seducente, ma anche inquietante. [«Politica internazionale», n. 6/7, giugno‐luglio 1978] 2 Nilde Jotti, Per quale Europa ci battiamo, intervista di Massimo Loche Come comunisti, siamo ben consapevoli dei nostri ritardi e delle difficoltà di arrivare a posizioni comuni sul piano europeo. Non vorrei sembrare troppo pessimista, ma in realtà ho l'impressione che sarà difficile arrivare alle elezioni del Parlamento europeo, di qui a un anno, con posizioni comuni. Voglio dire con questo che le posizioni dei partiti comunisti dei paesi che sono oggi nella comunità sono molto diverse. Questa diversità non è di poco conto poiché investe un punto fondamentale: quello della esistenza della Comunità europea e della necessità di lotta per la sua trasformazione. Noi affermiamo che è necessario lottare per una trasformazione della Cee al suo interno. I compagni francesi accettano l'esistenza della Cee anche se i loro obiettivi particolari sono diversi dai nostri. Altri partiti comunisti sono addirittura contrari alla Comunità in quanto tale. In una situazione come questa che fare? Io penso che il modo migliore per noi di affrontare tali problemi sia di andare alle elezioni europee con programmi elaborati da ogni partito tenendo conto delle rispettive situazioni nazionali. Allo stesso tempo è necessario che almeno i grandi partiti aprano la campagna elettorale con un appello comune ai cittadini dell'Europa per affermare alcuni valori generali: la distensione, il disarmo, lo sviluppo economico che vada a favore dei lavoratori... […] L'eurocomunismo è una politica che incomincia a farsi. Al suo centro vi è la questione che tutti i partiti comunisti d'Europa occidentale si pongono: quali sono le vie di sviluppo al socialismo nelle concrete situazioni di ogni paese, vie che sono basate sulla libertà e la democrazia e che anzi fanno dei valori democratici una delle componenti essenziali della lotta per il socialismo. Ma l’eurocomunismo è fondato, non lo si deve dimenticare, sulla autonomia nazionale dei singoli partiti. Tale autonomia ispira dei programmi, dei contenuti rivendicativi, che andranno certo coordinati, nello svolgimento concreto della battaglia politica nelle istituzioni europee future, ma che per ora devono rispondere alle esigenze diverse dei diversi paesi d'Europa. Si tratta di un problema di carattere generale che riguarda tutti i partiti ed anche il nostro. Il sentimento nazionale è ancora molto vivo in Europa. Non dimentichiamo che, in questa zona del mondo, attraverso i secoli, ogni paese ha avuto una storia ben caratterizzata. Siamo di fronte a lingue, culture, nazioni diverse con un sentimento ben vivo e molto forte della propria identità. L'esasperazione di questi caratteri, unita all'urto degli interessi economici e politici, hanno portato in un passato non troppo lontano a guerre che hanno sconvolto il mondo. Il movimento operaio opponendosi a queste esasperazioni ha proposto in passato posizioni ingenuamente internazionaliste ed oggi si è appropriato del sentimento nazionale particolarmente nel corso dell'ultima guerra attraverso le lotte di liberazione nazionale antifasciste. Sono fatti che bisogna avere ben presenti e che spiegano la difficoltà di lavorare con posizioni comuni per un futuro diverso dell'Europa occidentale. È facile criticarci per non avere un programma unico dei partiti comunisti occidentali alle elezioni europee, è meno facile farlo se si guarda alla complessità della situazione del continente, e alle differenze oggettive tra i partiti delle altre «famiglie» che programmi e convegni comuni coprono di un velo, ma non nascondono. [«Rinascita», n. 28, 14 luglio 1978] 3 Giorgio Amendola, I partiti europei Il Pci attribuisce grande importanza alle elezioni europee come a un momento importante nel necessario processo di democratizzazione delle istituzioni comunitarie. Certo dipenderà dalla percentuale di votanti la possibilità di creare una fonte di legittimazione democratica capace di dare al Parlamento i poteri reali che oggi gli sono negati. Bisogna vincere – e non sarà facile – lo scetticismo e l’avversione di grande masse operaie e popolari alla costruzione di una Europa unita, e l’opposizione di ceti medi ancora dominati da antichi nazionalismi. Avrà grande importanza, quindi, il modo in cui verrà condotta la campagna elettorale. Fino ad oggi la Comunità europea è stata una costruzione dall’alto, frutto di intese tra gli stati e di mutevoli e precari compromessi. Tutti gli ambiziosi progetti di unificazione monetaria, economica, politica non sono stati attuati perché ciascuno Stato ha cercato di difendere, con paralizzanti e spesso ostruzionistiche battaglie, non tanto i particolari interessi nazionali, che sarebbe doveroso, ma ristretti interessi di settore e di corporazione, cedendo spesso alla volontà prevaricatrice di società multinazionali. L’attività della Comunità si è risolta in una cooperazione, limitata ed oscillante, tra Stati appena associati e divisi sulle principali questioni, anche economiche e monetarie. La Commissione della Comunità, invece di essere il supremo organo di direzione, ha funzionato come segretariato generale del Consiglio dei ministri, privato di reali poteri di iniziativa e di decisione. Se le prerogative degli Stati associati sono state in questo modo formalmente rispettate, in realtà gli interessi degli Stati più deboli sono stati ignorati ed offesi. In mancanza di una volontà democratica che rappresentasse la maggioranza delle forze politiche e sociali esistenti nella Comunità, si è imposta prepotente la volontà degli Stati più forti, in particolare del direttorio franco‐tedesco. Sono le riunioni del cancelliere tedesco e del presidente della Repubblica francese a decidere delle questioni più impegnative. La difesa formale delle prerogative degli Stati aderenti non ha impedito che gli Stati più deboli dovessero subire la legge dei più forti. L'Italia ha dovuto, in particolare, piegarsi, nel campo, ad esempio, della politica agraria e della politica regionale, di fronte alla coalizione degli Stati più forti. In questa situazione, o ci si rinchiude nella gelosa difesa delle vecchie prerogative nazionali – in un mondo fondato sull'interdipendenza, nel quale ogni sovranità è già pratica‐
mente condizionata e basta una oscillazione del dollaro o del prezzo del petrolio a determinare chiusure di fabbriche e disoccupazione – o si marcia verso la creazione di un nuovo potere multinazionale. Le elezioni del Parlamento europeo debbono rappresentare l'inizio di un capovolgimento della situazione attuale, e permettere che la volontà dei popoli liberamente espressa col voto riesca a spezzare il vecchio giogo degli egoismi particolari, degli interessi settoriali e ostacolare la ricerca di posizioni di egemonia nell'ambito della Comunità Europea. Perciò i comunisti italiani, nell'attività da loro svolta nel Parlamento europeo, hanno auspicato la formazione di un «potere nuovo» comunitario. Un potere nuovo, multinazionale, che possa affrontare con nuove strutture e con nuovi metodi di lavoro i problemi che i singoli Stati non riescono, con palese evidenza, a risolvere: moneta, credito, energia, sanità, ricerca scientifica. Non si tratta di creare un nuovo Stato supernazionale con tutti i poteri dei vecchi Stati nazionali centralizzati, ma un organo nuovo, che trovi una base democratica nella elezione di un Parlamento eletto a suffragio universale, che abbia reali poteri di controllo e di decisione. È previsto che il nuovo Parlamento avrà poteri 4 essenzialmente consultivi. Ma molto dipenderà, tuttavia, dalla sua forza rappresentativa, dalla sua composizione politica, dalla volontà politica che lo animerà, dall'impegno e dall'autorità degli uomini che lo comporranno, se la nuova assemblea potrà conquistarsi poteri che oggi le sono negati. I comunisti italiani si sono sempre battuti per un ampliamento dei poteri del Parlamento. Del resto negare, anche in prospettiva, al Parlamento europeo una crescita dei suoi poteri, significa svalutare già in partenza il significato delle elezioni. Perché scomodarsi per eleggere un organo a cui si vuole continuare a negare la possibilità di funzionamento? [«Rinascita», n. 39, 6 ottobre 1978] 5 Giorgio Napolitano, Come restare con l’Europa La scelta, non solo della permanenza nella Cee, ma di un attivo impegno nel processo di integrazione europea resta per noi ben ferma come grande scelta politico‐ideale e come precisa, qualificante opzione di politica internazionale. Ma questa riaffermazione non può bastare, né per il Pci né per nessun altro partito: sia nel senso che occorre specificare il giudizio che si dà sulla Comunità qual è stata finora, e quale oggi è, e sulle esigenze di democratizzazione, di revisione, di sviluppo che per essa si pongono, sia nel senso che occorre verificare se esista un rischio reale – per effetto di determinati «comportamenti» dell’Italia, al di là delle intenzioni politiche – di «distacco» del nostro paese dall'Europa. D'altra parte, nel momento in cui si preparano le elezioni per il Parlamento europeo, per la prima volta a suffragio diretto, si deve comprendere che solo affrontando questi problemi, solo entrando nel merito dell'esperienza e delle prospettive della Cee, e ponendole in rapporto con le più scottanti questioni di politica economica e sociale aperte nel nostro paese, si possono interessare grandi masse di lavoratori e di cittadini al discorso sull'Europa, si può dare sostanza e forza di persuasione all'idea di una rinnovata scelta europeistica da parte dell'Italia. […] Ci si trova in effetti – la campagna elettorale europea può contribuire a dare di ciò più larga consapevolezza – dinanzi a mutamenti di grande portata nell'economia e nel commercio mondiali e dinanzi a prospettive di ulteriori, progressive modificazioni nella divisione internazionale del lavoro. La risposta dell'Italia a questi processi, all'interno dei quali sono venute crescendo anche le differenziazioni e le contraddizioni tra i paesi capitalistici avanzati, non è pensabile al di fuori di una ribadita e rinnovata collocazione europeistica, di un’azione di respiro europeo e mondiale, rivolta a stimolare lo sviluppo dell'integrazione tra i paesi della Cee e ad incidere sugli indirizzi di tale sviluppo, e insieme rivolta a contribuire alla fondazione di un nuovo ordine economico internazionale. Che cosa deve intendersi per rilancio del processo di integrazione europea? A nostro avviso – questa è stata la risposta del convegno di Roma – la portata e i caratteri della crisi che ha investito i paesi industrializzati sollecitano il passaggio a una fase nuova dell'integrazione, il cui elemento caratterizzante non può che essere un reale coordinamento delle politiche economiche. Tale coordinamento è condizione indispensabile per poter realizzare un organico e razionale adeguamento della struttura produttiva dei paesi della Cee alle tendenze in atto nella divisione internazionale del lavoro: esso deve proporsi di combattere insieme inflazione e stagnazione, di promuovere la piena occupazione e un sostanziale riequilibrio economico all’interno della Comunità, favorendo un più intenso sviluppo dei paesi più deboli e, a questo scopo, modificando – fra l’altro – quelle politiche comunitarie che hanno finora operato a vantaggio dei paesi più forti. […]
A noi pare indispensabile legare a queste questioni quella della creazione di un’area monetaria europea (che va peraltro impostata in funzione di una più ampia collaborazione – con gli Stati Uniti e non solo con essi – per la costruzione di un nuovo sistema monetario internazionale). È difficile dire in questo momento se nell'immediato vi si riuscirà, e se nelle prossime settimane si creeranno le condizioni per l'adesione dell'Italia a un eventuale accordo monetario comunitario. Ma è proprio muovendo nella direzione da noi indicata che 6 si rilancia realmente il processo di integrazione europea nel suo complesso e che si opera – per quel che riguarda in particolare l'Italia – affinché essa «resti» con l'Europa. Il pericolo di un «distacco» dall'Europa – e cioè, in sostanza, di un ulteriore allontanamento dell'Italia dai livelli di sviluppo e di efficienza dei paesi più avanzati della comunità – può infatti venire da un aggravarsi delle debolezze strutturali e degli squilibri propri della nostra economia e da un incepparsi di quello sforzo di risanamento e riqualificazione del settore pubblico, di graduale «rientro» dall’inflazione che si sta faticosamente perseguendo da qualche anno nel nostro paese: ebbene, questo pericolo, si fronteggia, sul piano comunitario, attraverso politiche decisamente rivolte a favorire un riequilibrio tra aree «forti» e aree «deboli» e attraverso un accordo monetario che tenga seriamente conto delle diversità esistenti tra le situazioni economico‐finanziarie dei paesi membri e si ispiri perciò a criteri di grande flessibilità. Prevalenti restano naturalmente gli impegni da portare avanti sul piano nazionale. Se si vuole fare uscire l'Italia dalla crisi, occorre impegnarsi ben più coerentemente di quanto non si sia fatto sinora, qui nel nostro paese, in una politica di rigore. Non si sfugge a esigenze di grande severità e capacità innovatrice, a problemi complessi e ardui di produttività e di competitività: non vi si sfugge, qualunque sia l'esito del negoziato per un accordo monetario europeo. Non ci si può in nessun caso illudere che regga ancora a lungo una «via italiana alla competitività» basata su un sostenuto tasso di inflazione e su svalutazioni ricorrenti o striscianti, sull’«economia sommersa» e sul lavoro nero. Nessuno può seriamente pensare che restando fuori di un determinato accordo monetario europeo si possano eludere scelte spinose di risanamento e rinnovamento sul piano della politica economica nazionale; né d'altra parte si può puntare sull'adesione del nostro paese a un qualsiasi accordo monetario per costringere certe forze sociali e politiche italiane a subire sacrifici non ispirati a principi di giustizia e a fini di cambiamento. Gli strumentalismi di questo o quel segno debbono cedere il passo a una valutazione obiettiva della proposta conclusiva che ci sarà sottoposta in materia monetaria, ferme restando comunque la nostra opzione europeistica e la nostra scelta dell'austerità. [«Rinascita», n. 45, 17 novembre 1978] 7 Luigi Spaventa, Queste ragioni sconsigliavano un ingresso affrettato Consideriamo ora le questioni che riguardano più specificamente l’Italia. Nel momento in cui si era chiamati a decidere se convenisse o meno aderire ad un accordo di stabilità di cambio con altre economie, occorreva considerare le condizioni iniziali che la caratterizzano. In primo luogo, nell’ambito della Cee siamo, con l'eccezione dell'Irlanda, l'economia con il più basso livello di reddito pro‐capite, con le massime differenze regionali di sviluppo, con la disoccupazione più elevata, con la struttura industriale più fragile. In conseguenza dobbiamo cercare di realizzare un tasso di crescita del reddito, e soprattutto degli investimenti, più elevato di quella degli altri paesi. In conseguenza, data la propensione ad importare, il tasso di sviluppo delle nostre esportazioni, per pagare le maggiori importazioni necessarie, dovrebbe essere più elevato di quelli altrui, oppure dovremmo poter contare su stabili entrate in conto capitale; alternativamente, si dovrebbe cercare di ridurre il costo del reddito prodotto internamente in termini di importazioni. In secondo luogo, nonostante i progressi compiuti, persiste una notevole differenza di inflazione di costi e prezzi fra l’Italia e le altre economie europee. Nella migliore delle ipotesi, l’accostamento alla media europea potrà essere solo graduale, a causa della forza dei fattori inerziali e della difficoltà di rovesciare le aspettative; sarà comunque impossibile, sia per noi sia per gli altri paesi, adeguarsi al ritmo di inflazione previsto per la Germania; (come ha indicato il professor Mario Monti, in un'ipotesi per noi relativamente favorevole, la differenza d'inflazione nel triennio è di circa 12 punti rispetto alla media degli altri paesi Cee e di 21 punti rispetto alla Germania). La situazione monetaria internazionale è oggi in uno stato di profonda incertezza, soprattutto per quanto riguarda i rapporti di cambio fra marco e dollaro. Che cosa avverrebbe, in un sistema monetario che consista sostanzialmente solo di un accordo rigido di cambio, non integrato dalla definizione di obbiettivi di crescita né temperato da un'attribuzione di obblighi proporzionata alla forza relativa delle diverse economie, se si verificasse nuovamente un indebolimento del dollaro? Il marco subirebbe pressioni al rialzo accentuate da movimenti speculativi. Le valute ad esso agganciate subirebbero rivalutazioni effettive. Nel caso della lira, tali rivalutazioni risulterebbero ancora maggiori in termini reali: ossia in rapporto all'evoluzione differenziale di costi e prezzi. Ne deriverebbe l'una di due conseguenze: o un ulteriore sacrificio della crescita, per ridurre le importazioni onde mantenere un livello di cambio irrealistico; oppure una svalutazione ripetuta, ma sempre tardiva rispetto alla perdita di riserve che si sarebbe nel frattempo verificata. Potrebbe invece consolidarsi una ripresa tendenziale del dollaro, dovuta non già ad un più rapido sviluppo delle economie europee, come sarebbe desiderabile, ma a tre altri fattori, tutti negativi: una riduzione dello sviluppo negli Stati Uniti; un aumento (già verificatosi) dei tassi d'interesse americani e dunque sul mercato dell’eurodollaro; il manifestarsi, con il consueto ritardo, degli effetti dell'avvenuta svalutazione sulla bilancia commerciale americana. In questo secondo caso, la nostra economia subirebbe un duplice danno dalla rivalutazione del dollaro: sulla bilancia commerciale a motivo del maggior costo delle importazioni di fonti di energia e di materie prime (che inciderebbe di più su noi, più dipendenti dall'estero, che sulle altre economie europee) e della maggiore competitività delle esportazioni americane; sul conto capitale, perché (come già sta avvenendo) si invertirebbe il movimento di fondi a breve, di cui abbiamo finora beneficiato, poiché si verificherebbe un differenziale a favore 8 del dollaro (anziché a favore della lira, come nell'ultimo anno) dei tassi di interesse corretti per le prospettive del cambio. Risulterebbe difficile, in questa ipotesi, impegnarsi a mantenere la parità con le altre valute europee e, ove l'impegno sia stato assunto, a mantenerlo per lungo tempo. Non è questione, nell'uno e nell'altro caso, di promuovere svalutazioni competitive. Si tratta piuttosto di impedire che il cambio assuma valori incompatibili con le differenze di condizioni iniziali e di esigenze fra i diversi paesi. Il cambio, è stato correttamente osservato, è la più endogena delle variabili, che non può essere trasformata in obiettivo, fine a se stesso, o in strumento da manovrare per il conseguimento di altri obiettivi. Gli svalutazionisti di altri tempi, neppure troppo lontani, sono oggi rivalutazionisti, illudendosi, in base al più recente dei loro modelli (ognuno di breve vita e diverso dal precedente) che con la rivalutazione si possa risolvere il problema della inflazione. Ma in realtà, o l’obbiettivo di un tasso di cambio troppo ambizioso finirebbe per essere vanificato da una serie di svalutazioni; oppure le riserve disponibili verrebbero dissipate non per finanziare una crescita maggiore, ma per tentare di sostenere una competitività minore. Alcune di queste preoccupazioni sarebbero venute meno se il sistema monetario europeo, pur nei suoi limiti, fosse stato costituito con spirito diverso e con modalità diverse; se modifiche di rilievo nella politica di bilancio e nella politica agricola avessero consentito un rafforzamento strutturale della posizione verso l'estero dei paesi più deboli; se si fosse garantito alle medesime economie un concorso consistente ai finanziamento degli investimenti; se il sistema fosse stato dotato dei necessari requisiti di flessibilità; se una effettiva simmetria fosse stata assicurata almeno negli obblighi d'intervento; se, in una parola, fossero state accolte, almeno in parte, le richieste considerate irrinunciabili non solo dal governo e dalle autorità monetarie, ma anche da molti che all'ultimo momento si sono messi a sostenere l’entrata ad ogni costo. Proprio questi ultimi, dimentichi di quello che avevano scritto sino alla settimana prima, sono apparsi alla fine, tanto più convinti della necessità di aderire all'accordo quanto meno favorevoli si palesavano le condizioni. Perseguire interessi di parte è lecito; ma è meno lecito farlo piegando ad essi la conoscenza tecnica e la dignità dell'analisi; ed è del tutto illecito compiere questi esercizi in materie che possono comportare costi tanto gravi per il paese. [«Rinascita», n. 49, 15 dicembre 1978] 9