l`esperienza: più estesa del sistema nervoso
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l`esperienza: più estesa del sistema nervoso
RICCARDO MANZOTTI VINCENZO TAGLIASCO L’ESPERIENZA: PIÙ ESTESA DEL SISTEMA NERVOSO 1. INTRODUZIONE Alfred North Whitehead (1925, 48) ha scritto che: Quando si analizza la filosofia di un’epoca non si deve dirigere l’attenzione esclusivamente su quelle posizioni che gli autori sentono il bisogno di difendere esplicitamente. Ci sono alcune ipotesi o metafore che vengono accettate implicitamente. Queste ipotesi appaiono così ovvie che la gente non si rende conto che le usa e che ci potrebbero essere delle alternative alle stesse. In ogni disciplina vi sono presupposti impliciti che rendono possibile la ricerca e la indirizzano verso certi obiettivi: questi presupposti costituiscono la cornice all’interno della quale ogni epoca crea i propri modelli sulla realtà. A volte, sono erronei ed è necessario considerare delle alternative per progredire nella comprensione di certi fenomeni. Da oltre un secolo, l’approccio scientifico alla mente si scontra contro una serie di difficoltà che sembra rendere insolubile il problema del rapporto tra la coscienza e il corpo. Per esempio, Jerry Fodor (1992, 5) scrive che: «Nessuno ha la minima idea circa il modo in cui qualcosa di fisico possa essere cosciente. Nessuno sa nemmeno che forma dovrebbe avere una teoria della coscienza che spieghi come sia possibile che qualcosa di fisico sia cosciente». Analoghe critiche di principio alla comprensibilità della coscienza sono state avanzate da molti altri autori da punti di vista diversi (McGinn 1989; Trautteur 1995; Harnad 2003). Nonostante questa persistente vaghezza, molti neuroscienziati reputano, senza prove scientifiche certe, che l’esperienza cosciente debba «emergere» dall’attività nervosa del sistema nervoso centrale. Per esempio, Giulio Tononi (2004, 1) non esita a chiedersi «perché la coscienza sia generata da certe parti del cervello, come il sistema talamo-corticale e non da altre parti, come il cervelletto?». In modo analogo Cristof Koch (2004, 177) è convinto che «la coscienza sia il risultato dell’attività del cervello, anzi di un suo sotto-insieme». Come conciliare la sicurezza SISTEMI INTELLIGENTI / a. XX, n. 3, dicembre 2008 405 di queste direzioni di ricerca con la totale assenza di punti fermi a cui faceva riferimento Fodor e, come lui, molti altri? L’idea che, in qualche modo, il sistema nervoso (o sottoinsieme) sia sufficiente a produrre la coscienza non è l’unico presupposto tacito nel campo della coscienza. Esistono altre ipotesi non dimostrate e parecchie metafore comunemente accettate che influenzano le linee di indagine. Alcune di esse riguardano non soltanto la coscienza, ma la concezione del mondo fisico nel suo complesso. Sia pure in modo estremamente sintetico, vale la pena di elencarle e di metterle in discussione (Bickhard e Terveen 1995; Bennett e Hacker 2003; Rockwell 2005). In questo articolo metteremo in evidenza una serie di presupposti accettati implicitamente da molti; presupposti che, sospettiamo, non abbiano avuto, almeno finora, alcuna conferma scientifica. Se si definisce anzitempo e infondatamente quale dovrebbe essere la risposta a un problema, si rischia di non poterla mai trovare. Si racconta dell’ubriaco che aveva perso le chiavi di casa e le cercava sotto la luce di un lampione. Passa un vicino di casa e chiede: «Perché cerchi le chiavi sotto il lampione? Le hai perse lì?». L’ubriaco risponde: «No, ma qui ci vedo». Cercare la coscienza nell’attività neurale potrebbe essere analogo a cercare le chiavi sotto la luce del lampione. Non è la prima volta che una o più metafore finiscono con il condizionare la ricerca scientifica. Per esempio, secondo Edwin Hutchins (1995), il computazionalismo è stato viziato dall’avere assunto quale modello accettabile della mente l’attività di particolari figure socialmente e cognitivamente limitate quali i calcolatori umani che, prima dello sviluppo dei calcolatori elettronici, eseguivano calcoli aritmetici. Una metafora sociale che ha finito per influenzare la ricerca scientifica. Prima di esaminare i presupposti che, secondo noi, non sono fondati, vorremmo suggerirne uno che riteniamo irrinunciabile e, pur non avendo alcun modo di dimostrarlo, desideriamo aderirvi: l’esperienza cosciente – qualsiasi cosa sia – deve corrispondere a qualche fenomeno fisico, si tratta di capire quale. Come ha scritto Arthur Eddington (1929/1935): «l’esperienza cosciente e il mondo fisico sono fatti della stessa materia». In un certo senso, del mondo fisico, conosciamo in modo diretto solo quella parte che corrisponde alla nostra esperienza cosciente. Il resto del mondo fisico è conosciuto per via indiretta, attraverso le alterazioni e le modificazioni di quella parte del mondo fisico che coincide con la nostra esperienza cosciente. Questo dominio della conoscenza è stato sistematizzato sotto forma di conoscenza scientifica. La domanda sulla natura della coscienza (o esperienza fenomenica) può essere tradotta nella domanda circa quale fenomeno corrisponde, nella descrizione scientifica, a ciò che è la nostra esperienza? Tuttavia per comprendere la portata di tale domanda è necessario considerare esplicitamente alcuni assunti ancora vaghi per 406 quanto riguarda la nostra conoscenza del mondo. Non solo il ruolo del cervello in quanto necessario e sufficiente non è mai basato su evidenze scientifiche (Bennett e Hacker 2003; Thompson 2007), ma anche una serie di altri assunti andrebbero presi in considerazione e discussi criticamente in quanto giocano un ruolo chiave nella comprensione della natura dell’esperienza: i confini temporali, i confini spaziali, i confini causali, le caratteristiche dell’esperienza cosciente, la nozione di rappresentazione, la separazione tra soggetto e oggetto, l’ambiguità della metafora input-output, il dogma del fossato galileiano tra esperienza e fenomeni fisici, l’esistenza di immagini che medino tra la percezione visiva e il mondo in quanto tale. Ognuno di questi punti corrisponde a un passaggio chiave nella discussione sulla natura dell’esperienza. In questo articolo, non possiamo, è evidente, trattare ciascuno di essi esaustivamente e con completezza. Tuttavia crediamo sia importante elencarli sia pure brevemente per dare un’idea dei molti punti ancora non dimostrati sui quali si regge la ricerca sulla natura dell’esperienza. Per evitare fraintendimenti, sottolineiamo che il bersaglio di questo primo paragrafo non sono tanto gli studi sulla coscienza in genere, quanto la specifica tesi che il sistema nervoso centrale (o parte di esso) sia condizione sufficiente della coscienza. Benché tale tesi abbia numerosi e importanti difensori, siamo ben consapevoli che altri approcci non condividono tale assunto. Per esempio, le varie correnti esternaliste cui avremo occasione di accennare, rifiutano con forza tale tesi ed è in tale direzione che avanzeremo una nostra personale posizione. 1.1. Confini temporali Quali sono i confini temporali di un fenomeno fisico? Quanto lungo può essere un fenomeno fisico? Potremmo prendere in considerazione un continuum di fenomeni fisici di diversa durata: a un estremo fenomeni brevissimi (ma non di durata nulla; quali il decadimento di un bosone, lo scambio di fotoni tra particelle molto vicine, la vita media di un top quark) descritti dalla meccanica quantistica, all’altro estremo fenomeni che avvengono su scala geologica o astronomica (lo scioglimento di un ghiacciaio, la formazione di una catena montuosa, la collisione tra due galassie, la vita di una stella, la formazione di un pianeta). Quale scala corrisponde ai fenomeni rilevanti per la coscienza? Come facciamo a sapere quale dimensione temporale è utile ai fini dei processi fisici corrispondenti alla nostra esperienza cosciente? Le neuroscienze assumono che l’esperienza emerga dall’attività corticale. Tuttavia come definire i confini temporali di questa attività? Perché un certo intervallo temporale dovrebbe essere significativo? Al di sotto di una certa soglia temporale, è evidente, l’attività neurale non esiste. 407 Gli spikes neurali richiedono tempo per poter trasmettere informazione. Se prendessimo in considerazione un intervallo di tempo di lunghezza nulla (o comunque inferiore al tempo necessario al completamento di un singolo spike), il cervello non avrebbe uno stato riconoscibile: la sua attività è distribuita nel tempo, probabilmente in modo asincrono rispetto alle diverse funzioni e aree corticali (per esempio, Moutoussis e Zeki 1997; Zeki e Bartels 1998). L’esperienza cosciente corrisponde a un fenomeno fisico che si estende in un certo intervallo temporale? Quale intervallo? Per esempio, quando facciamo esperienza di un colore a seguito di un breve stimolo visivo, quanto è durato il fenomeno fisico corrispondente all’esperienza cosciente? Siamo sicuri che coincida con la finestra temporale corrispondente all’attivazione delle ultime strutture neurali coinvolte, oppure richiede un intervallo più ampio? Quando ricordiamo qualcosa accaduto molti anni fa, qual è la durata del fenomeno fisico che coincide con la nostra esperienza del ricordo? Dobbiamo prendere in considerazione solo gli ultimi spikes di una complessa attività neurale? Soltanto una certa finestra temporale? Tutta l’attività neurale intercorsa tra la percezione dello stimolo e il momento del ricordo? 1.2. Confini spaziali Un problema analogo si pone circa i confini spaziali di un fenomeno fisico. Se è relativamente facile isolare spazialmente i confini di un fenomeno fisico sulla base di discontinuità di materiali, in base a quale criterio possiamo distinguere i fenomeni fisici legati all’esperienza cosciente rispetto a quelli accessori, ancillari o contingenti? Come si è detto, è opinione diffusa che la coscienza «emerga» dall’attività corticale. Ma perché escludere l’attività neurale del talamo o del cervelletto o quella del sistema nervoso periferico (e, infatti, molti autori la includono)? Perché escludere l’attività esterna al sistema nervoso? Spesso pare che soltanto l’attività chimica interna ai neuroni possa essere presa in considerazione: perché? Finora nessuno è stato in grado di dimostrare che esiste una relazione necessaria tra l’onda di potenziale generata dalla pompa di sodio-potassio (peraltro continuamente mediata da reazioni chimiche diverse quali quelle legate ai neurotrasmettitori intersinaptici) e l’esperienza cosciente. Nella letteratura scientifica si accetta spesso la validità di confini spaziali che, almeno finora, non hanno un fondamento scientifico né teorico né sperimentale: quali la corteccia, il sistema talamo-corticale, il cervello nel suo complesso, il sistema nervoso centrale e periferico, il corpo, il sacco-pelle. Perché limitare i fenomeni legati all’esperienza cosciente ai limiti spaziali di certe strutture biologiche (Devor 2002)? 408 Dove si trova il fenomeno fisico che corrisponde alla mia esperienza del mondo e quali sono i suoi confini spaziali? È puntiforme? È esteso? È interno a qualche organo? 1.3. Confini causali La realtà fisica può essere segmentata secondo molti criteri. Un criterio è quello temporale. I fenomeni fisici iniziano e terminano. Tuttavia si deve essere in grado di definire delle condizioni di inizio e di fine. Un altro criterio è spaziale (legato alla forma o alla materia). Il mio corpo si estende fino a un certo punto, dove la materia di cui è fatto termina bruscamente ed inizia l’atmosfera circostante. Tuttavia, come si è accennato prima, questi criteri non sono così evidenti. Tuttavia, esiste un altro criterio (tra i tanti) per segmentare la realtà: suddividere causalmente il flusso di eventi. In questo modo (estremamente complesso, non ne ignoriamo i rischi e i possibili trabocchetti) è possibile individuare confini causali (Davidson 1969/1980; 1980/2001; Fine 1982; Hacker 1982; Bennett 1996; Casati e Varzi 1996). L’esperienza cosciente presuppone l’idea di causalità. La nostra esperienza è inserita causalmente in un flusso di eventi: di alcuni è l’esito, di altri è la condizione necessaria (e forse sufficiente). Gli eventi neurali sono inseriti in un contesto causale che si estende oltre i limiti del corpo. Eventi esterni al sistema nervoso sono causa della sua ontogenesi (per esempio durante lo sviluppo delle connessioni nervose tra i neuroni della corteccia) e, in ogni momento, ne influenzano l’attività interna (apro gli occhi e ciò che si trova davanti al mio naso determina delle attivazioni all’interno della mia corteccia occipitale). Ma ogni evento ha una lista infinita di antecedenti causali. In base a quale criterio definire i confini causali dell’esperienza cosciente? E perché isolare una certa porzione? Perché la connessione causale tra neuroni deve essere considerata in qualche modo coesa, mentre la connessione causale tra i fotoni e il rilascio di rodopsina nella retina non è usualmente inclusa tra i fenomeni legati all’esperienza? E perché escludere i fenomeni fisici esterni al corpo dell’individuo? E quelli precedenti agli oggetti percepiti? Dove ha inizio e dove si arresta una catena causale? 1.4. Proprietà dell’esperienza cosciente vs. proprietà del mondo fisico Quali sono le caratteristiche dell’esperienza cosciente? Siamo sicuri che non siano parte del mondo fisico? Siamo sicuri di non utilizzare un’ontologia erronea del mondo fisico? Per esempio, è un luogo comune della letteratura sulla mente il fatto che l’esperienza cosciente abbia una prospettiva in prima persona, mentre il mondo fisico sarebbe descrivi409 bile solo secondo una prospettiva in terza persona. Infatti, un approccio diffuso consiste nel cercare di «naturalizzare» i fatti dell’esperienza, ovvero cercare un modo per descrivere in terza persona i contenuti fenomenici (in modi molto diversi hanno cercato di percorrere questa via: la psicofisica, Dennett 1991/1993; Varela 2000). Eppure esistono moltissimi processi fisici, per esempio quelli visivi che, pur essendo fisici, coincidono con una certa prospettiva, ovvero sono legati da una relazione causale limitata e selettiva (Manzotti 2006a). Simmetricamente, tutti i fenomeni fisici da noi conosciuti sono – direttamente o indirettamente – parte di esperienze soggettive (altrimenti non potremmo parlarne); sono conosciuti attraverso la partecipazione a processi in prima persona. E se la separazione tra prospettiva in prima persona e in terza persona fosse l’esito di due modi di descrivere la stessa? L’idea che il mondo fisico non abbia qualità è opinabile. Noi ne facciamo esperienza e noi siamo, fino a prova contraria, parte del mondo fisico. Anche per le altre proprietà, tradizionalmente attribuite all’esperienza cosciente e non al mondo fisico, si potrebbero avanzare simili dubbi. Per esempio, perché escludere che il mondo fisico sia costituito anche da quelle qualità di cui la nostra esperienza è composta? Se quelle qualità non corrispondessero a qualcosa di fisico, a che cos’altro potrebbero corrispondere? Perché pensare che l’esperienza in quanto tale abbia proprietà diverse dal mondo fisico? 1.5. Nozione di rappresentazione In qualche modo la nostra mente rappresenta il mondo esterno. Noi facciamo esperienza di qualche cosa. Non siamo chiusi in un abisso solipsistico. Com’è possibile? La tradizione vuole che il rappresentato e la sua rappresentazione siano due entità separate e distinte. Si tratta di uno degli interrogativi più difficili a cui portano quasi tutti gli approcci alla mente. La nozione di rappresentazione è qui intrecciata con quella di intenzionalità in senso brentaniano. Secondo la tradizione, i nostri stati mentali ci fanno fare esperienza del mondo senza essere il mondo. Franz Brentano aveva suggerito che tale capacità corrispondesse all’intenzionalità propria del mentale, ovvero al fatto che gli stati mentali sono aperti verso qualcosa che va oltre essi stessi. Ma la sua famosa definizione non ha risolto niente, ha soltanto messo in luce l’apparente paradossalità della mente che è a un tempo separata e unita (o, in un contesto diverso, identica e diversa) ai suoi contenuti. Questa concezione tradizionale della rappresentazione affonda le sue radici nell’uso, forse improprio, delle rappresentazioni create dall’uomo: statue, quadri, codifiche interne alla memoria di un calcolatore. Si tratta di entità che non sono rappresentazioni in se stesse, ma piuttosto perché inserite in un contesto relazionale da una comunità di esseri umani (anche 410 le rappresentazioni funzionali soffrono dello stesso problema, Bickhard 1998). Una vasta letteratura ha mostrato che un oggetto fisico (o stato della materia), per essere una rappresentazione deve essere scelto e interpretato da un soggetto. La firma svolazzante che io traccio in fondo a un assegno è una mia rappresentazione solo quando si trova inserita in una serie di convenzioni tra soggetti. L’opera Marylin Monroe di Andy Wharol rappresenta Marylin Monroe soltanto perché si trova in relazione con soggetti dotati di un opportuno sistema visivo e di certi ricordi. 1.6. Separazione tra soggetto e oggetto Il corpo del soggetto è separato dal corpo dell’oggetto. Non ci sono dubbi in proposito: il pioppo cipressino che vedo nel prato dietro casa mia è sicuramente distinto dal mio corpo. Ma ciò implica anche che il soggetto sia separato dall’oggetto? Siamo sicuri che l’insieme dei fenomeni fisici che corrispondono alla mia mente non comprenda anche fenomeni fisici che si trovano nel pioppo e, nell’aria, tra noi due (radiazioni elettromagnetiche, riflessioni, interazioni tra atomi e fotoni)? In fin dei conti, quando io faccio esperienza del pioppo, il pioppo fa parte della mia esperienza, anche se limitatamente a un certo punto di vista. Il fatto di pensare che non faccio veramente esperienza del pioppo, ma di un’immagine o impressione del pioppo, potrebbe essere un vizio storico. Se mi si chiede di indicare di che cosa faccio esperienza, non indico un punto della mia corteccia o un’immagine o rappresentazione del pioppo, ma il pioppo in mezzo al prato. Il soggetto e l’oggetto – quando l’uno fa esperienza dell’altro – sono uniti in qualche senso forte che sembra contraddire il senso comune che ne prescrive la separazione basandosi sulla separazione dei corpi. Quali sono i confini spaziali, temporali e causali dei due poli di questa relazione problematica? 1.7. L’ambiguità della metafora dell’input-output Dalla pubblicazione dell’opera di Shannon e Weaver (1949), è dominante un modello di informazione secondo il quale certi sistemi ricevono ed emettono una strana entità, detta informazione. Si tratta di una metafora, presentata qui in modo consapevolmente rozzo, ma una metafora talmente convincente che ha finito per invadere numerosi campi. La teoria dei sistemi, l’informatica, le neuroscienze e numerose altre discipline fanno uso della metafora dell’input-output. Com’è noto, in un sistema che tratta informazione non c’è nulla che entra e nulla che esce. La metafora è fallace. Quando si mangia, quando si riceve corrente elettrica, quando si respira, quando si espletano le funzioni corporee, il sistema «mette dentro» e «pone fuori» qualcosa. Ma consideriamo adesso 411 un sistema input-output quale il cervello: il cervello è chiuso dentro la barriera ematoencefalica. Riceve nutrienti, emoglobina e plasma attraverso il sangue (input) e libera sostanze di scarto ed emoglobina ossidata (output). Tutto questo però non è il tipo di interscambio al quale ci si riferisce quando si studia il cervello come sistema che elabora l’informazione. Che cosa entra all’interno del cervello? La risposta canonica è «informazione», ma si tratta di una risposta ambigua perché, come tutti sanno, l’informazione non è qualcosa di fisico che si possa dire sia dentro o fuori di un oggetto fisico. Forse l’equivoco nasce quando, per inviare dell’informazione, si doveva mandare del materiale di supporto (come quando, tutt’oggi, si inviano lettere scritte o CD di dati o di musica). Tuttavia nel cervello (e in molte tecnologie informatiche odierne) non si invia materiale. Si propagano relazioni causali analoghe alle onde che si espandono sulla superficie di uno stagno prima tranquillo. Le onde si trasmettono senza che si trasmetta materia. Il cervello è più simile allo stagno che non a un ufficio postale del secolo scorso. Che cosa succede allora? Il cervello modifica la propria struttura causale in risposta a quello che succede esternamente ed internamente. Queste modifiche sono interpretate assumendo che qualcosa, l’informazione, sia entrata nel sistema. Si tratta di una metafora fuorviante. Una critica complementare a quella presentata in questa sede è stata recentemente fornita da Susan Hurley (2008)1. L’informazione non entra e non esce, piuttosto il corpo umano (e in particolare il sistema nervoso), sfrutta e, a volte, modifica la propria struttura causale. Tra il comportamento e gli stimoli esterni esistono relazioni di causa. 1.8. Il fossato galileiano 2 La tradizione galileiana e cartesiana vuole che esista uno iato incolmabile tra le entità dell’esperienza e le entità del mondo fisico. Tuttavia, questo fossato non è così evidente né nella percezione fenomenologica e nemmeno nella percezione ingenua. È concepibile che possa esistere un modello della percezione, magari erede e continuatore della percezione diretta (Holt, Marvin et al. 1910; Gibson 1979/1999) che possa valicare il fossato. Siamo sicuri che le qualità percepite siano create dalla mente e non siano invece parte dell’arredo del mondo? In realtà, anche se fossero 1 Per questo riferimento siamo debitori all’attenta revisione di Fabio Paglieri. Ho udito per la prima volta l’espressione «fossato galileiano» da parte di Walter Gerbino nel convegno di Roma. Fin da subito, mi è sembrata esprimere con grande efficacia e sintesi il carattere della separazione tra mondo fisico e mondo fenomenico (nota di Riccardo Manzotti). 2 412 create dalla mente – e supponendo che la mente sia frutto di un processo fisico – si dovrebbe comunque concludere che il mondo fisico contiene qualità, a meno di non reputare che l’esperienza sia fuori dal mondo fisico; una posizione difendibile soltanto da dualisti di sostanza (Lavazza 2008). Al contrario, il fatto stesso che facciamo esperienza di certe qualità dovrebbe farci concludere che le qualità sono parte della realtà fisica (Strawson 2003; 2006). La fisica ha utilizzato una descrizione del mondo fisico basata sulle quantità e sulle relazioni tra fenomeni fisici. Il fatto che tale descrizione sia priva di aspetti qualitativi non implica che tali aspetti qualitativi non esistano e non siano parte dei fenomeni presi in esame (Eddington 1929/1935; Honderich 2006; Strawson 2006). Non sappiamo qual è la qualità di un oggetto al di fuori di un certo processo, ma perché dovremmo pensare che il processo, che ci permette di entrare in relazione con quell’oggetto, non abbia la qualità di cui facciamo esperienza quando la nostra esperienza è costituita da quel processo? La descrizione quantitativa del mondo fisico non esclude la sua natura qualitativa. Una descrizione indicale non esclude un valore semantico. Il fatto di numerare certi fenomeni, non annulla le loro proprietà. Certo, finora si è cercato di far corrispondere all’esperienza due domini forse insufficienti: l’attività neurale o il mondo esterno considerato indipendentemente dal tipo di relazioni stipulato con i corpi dei soggetti che ne fanno esperienza. Però questo non esclude che esista un dominio di fenomeni, eventi o processi fisici tale da avere le stesse proprietà dell’esperienza e del mondo fisico così come è esperito e così come è il punto di partenza per la imponente costruzione epistemica offerta dalla scienza. 1.9. Lo specchio, metafora ingannevole Spesso si è paragonata la mente a uno specchio. Non a caso, la metafora ricorre in opere di filosofia della mente, testi di psicologia, manuali di neuroscienze, film e novelle (da Rorty 1979 al film Matrix 1998). Eppure si tratta di una metafora assai ingannevole (Eco 1985). La natura dei fenomeni legati alla riflessione è assai complessa. Spesso si reputa che lo specchio duplichi la realtà, creando un’immagine speculare. Si può dimostrare che non è così. Si può sostenere che, ciò che si reputa essere un’immagine speculare, è soltanto un modo diverso di vedere gli oggetti. Quando guardiamo uno specchio, vediamo un’immagine riflessa di qualcosa (poniamo un albero) oppure vediamo questo qualcosa? Una lunga tradizione e una terminologia confusa tendono a farci ritenere che, quando guardiamo uno specchio, riteniamo di vedere un’immagine; quasi che si tratti di un insieme di forme e colori «spalmato» sulla sua superficie. Ma lo specchio non è né lo schermo di un computer, né uno 413 schermo televisivo, né un muro su cui sono proiettate delle immagini, né un quadro. È qualcosa di completamente e fondamentalmente diverso. Quando guardiamo la superficie dello specchio, vediamo qualcosa che è indissolubilmente dipendente da noi stessi. Spostandoci vediamo cose diverse. Dato che, in ogni istante, potrebbero esserci diversi osservatori di quello stesso specchio, dovremmo supporre che sullo specchio si trovino altrettante immagini. Teoricamente lo specchio potrebbe essere osservato da un numero infinito di osservatori posti a distanze e in posizioni diverse. Ognuno percepirà un’immagine diversa. Se, quindi, accettassimo l’idea che sullo specchio si trova un’immagine, dovremmo concludere che sullo specchio si trova un numero infinito di immagini. Non va bene: stiamo usando la metafora sbagliata per descrivere la realtà. L’idea che esista una separazione tra il mondo esterno e la sua immagine (veicolata da quadri, affreschi, schermi televisivi e informatici) è fuorviante: sullo specchio non c’è nessuna immagine. Attraverso lo specchio, noi vediamo oggetti che altrimenti non potremmo vedere, il che è diverso dal fatto di vedere immagini di tali oggetti. Anche se siamo abituati, fin da piccoli, a usare espressioni del tipo «l’immagine riflessa dallo specchio», si tratta di una terminologia fuorviante. Lo specchio altera la normale connessione causale della realtà fisica: non crea immagini intermedie, fornisce un percorso alternativo. Quando mi guardo allo specchio, vedo me stesso, anche se l’ordine geometrico dei punti che mi costituiscono è stato invertito rispetto alla superficie dello specchio: la successione nuca, occhi e punta del naso della realtà diventa punta del naso, occhi e nuca nello specchio. Lo specchio non inverte la destra con la sinistra, né l’alto con il basso, piuttosto riorganizza l’ordine con il quale vediamo il mondo: per questo motivo crediamo che avvenga l’«inversione» rispetto alla destra e sinistra. 1.10. Vedere senza immagini Nel mondo delle neuroscienze, spesso si leggono articoli che trattano di «immagini mentali», «immagini corticali», «immagini retiniche», «immagini computazionali» (Stanley, Li et al. 1999; Thirion, Duchesnay et al. 2006; Kay, Naselaris et al. 2008). Tuttavia non è affatto ovvio che esistano immagini intermedie tra noi e il mondo. Non è chiaro se vediamo il mondo attraverso immagini oppure il mondo direttamente. Come si è detto esistono immagini costruite dall’uomo: quadri, affreschi, schermi di personal computer. Tuttavia, queste rappresentazioni non possono essere proposte come modello accettabile dell’esperienza visiva poiché si cadrebbe nel famoso regresso infinito. Nel tradizionale dibattito sulla natura delle immagini mentali (Kosslyn 1987; 1988; Pylyshyn 2003), ci si interroga sulla natura descrittiva o pittorica dei veicoli rappresentativi, 414 ma non si dice nulla circa il modo in cui tali veicoli si trasformino in esperienza visiva. Tale dibattito non contribuisce a capire se, alla fine, le rappresentazioni neurali producano «immagini mentali». Al contrario, molti esperimenti dimostrano che la nostra percezione visiva è costituita da insiemi di elementi che individuiamo e riconosciamo (O’ Regan 1992; Logothetis e Sheinberg 1996; Simons e Chabris 1999; Zeki 2001, oltre al capitolo pertinente in Manzotti e Tagliasco 2008b). La presenza della proiezione di determinati oggetti sulla retina (o addirittura della corrispondente informazione a livello di prime aree visive corticali) non determina automaticamente il fatto di farne esperienza (Rock e Mack 1998; Simons e Chabris 1999; Dulany 2000). Inoltre, il concetto di immagine, in quanto entità intermedia che fa da tramite per i processi visivi, è molto problematica nel momento in cui la si voglia trasferire ad altre modalità sensoriali. Dobbiamo forse supporre che esista un suono mentale? Una pressione fisica mentale? Un profumo mentale? Un sapore mentale? Perché introdurre un’entità intermedia tra il mondo esterno, vero oggetto e bersaglio della nostra percezione, e l’attività neurale interna al sistema nervoso? E perché pensare che sulla retina esista un’immagine? Sulla retina non esiste nessuna immagine, solamente attività chimica che trasduce l’impatto dei fotoni in concentrazione di rodopsina. Anche nella corteccia visiva, per quanto se ne sa, non esiste alcuna immagine; soltanto attività neurale. 2. UN PUNTO DI PARTENZA DIVERSO: IL PROCESSO FISICO Come abbiamo accennato nel precedente paragrafo, i vari approcci che hanno tentato di spiegare l’esperienza cosciente non sono per nulla innocenti e sono condizionati da una lunga serie di metafore e assunti non sempre empiricamente fondati. In questo paragrafo, vogliamo accennare a un possibile candidato fisico per l’esperienza; un candidato che potrebbe offrire una spiegazione circa l’ontologia fisica opportuna della mente. Iniziamo con una descrizione che non ha alcuna pretesa di rigore, ma che potrebbe servire a fornire un’idea intuitiva. Siamo di notte, in una camera completamente buia. Solo un led giallo e luminoso brilla al centro della stanza. Fissiamo con un solo occhio questo led. Una catena ininterrotta di processi fisici si estende dal led luminoso alla nostra corteccia, passando attraverso vari sotto-processi intermedi quali i fotoni, la concentrazione della rodopsina nei fotorecettori, i centri neurali periferici, il chiasma ottico, gli innumerevoli passaggi tra spikes neurali ed emissione di neurotrasmettitori tra i collegamenti sinaptici. Dove si trova l’esperienza del giallo? Una posizione ingenua consiste nel ritenere che si trovi nel led. Si tratta di una forma di realismo ingenuo che oggi non è difeso praticamente 415 da nessuno. Il led, inoltre, ha molte altre proprietà, emette radiazioni non visibili (per esempio nell’infrarosso), produce un debole campo elettromagnetico e un ancor più debole campo gravitazionale, libera una quantità molto piccola di sostanze chimiche nell’aria circostante e reagisce, molto debolmente, alle molecole che entrano in contatto con esso. Di tutto ciò, facciamo esperienza soltanto di una proprietà particolare che corrisponde, in qualche modo non lineare, alla distribuzione di frequenza delle onde elettromagnetiche emesse. Un’altra possibilità, molto più frequentemente presa in considerazione, consiste nel ritenere che il led sia fisicamente esterno alla nostra esperienza mentre l’esperienza – al pari di altri fenomeni fisiologici quali la digestione, il metabolismo o il ciclo di Krebbs – sia interno all’organismo e, in particolare, all’interno del sistema nervoso. È l’ipotesi prevalente nel contesto delle neuroscienze. Tuttavia finora non si è trovata alcuna attività neurale che possegga le caratteristiche della nostra esperienza. Molto banalmente, nell’attività neurale non c’è niente di giallo. Quando i neuroscienziati cercano i correlati neurali della coscienza si muovono in questa direzione (per esempio nel caso delle immagini bistabili cercano attività neurali che varino con la stessa frequenza dei contenuti dell’esperienza). Non è detto che abbiano ragione. Per risolvere queste difficoltà, proponiamo una soluzione alternativa. L’esperienza potrebbe corrispondere all’intero processo percettivo parzialmente esterno sia al cervello, sia al sistema nervoso nel suo complesso, e persino al corpo del soggetto. Si tratta di un processo che avviene grazie al sistema nervoso, ma che, rispetto a esso, è molto più esteso nel tempo e nello spazio. Quali sono i vantaggi di questa scelta? Intanto il processo così definito (fig. 1 e fig. 2) contiene il mondo esterno che non deve essere ri-prodotto all’interno del sistema. Si può evitare il difficile problema della rappresentazione, del rapporto intenzionale e della creazione di significato. Ma un altro vantaggio consiste nel fatto che tale processo effettivamente contiene qualche cosa di giallo. Anzi, possiamo dire che questo processo consente a quell’insieme di rapporti tra frequenze elettromagnetiche (che corrisponde al contenuto della nostra percezione del giallo) di accadere e quindi di esistere. In altri termini, questo processo non corrisponde al led giallo in se stesso, ma al led giallo nella misura in cui entra in relazione con il nostro sistema fisico. Kantianamente, il processo corrisponde al giallo fenomenico e non al led noumenico. Se ci si concede una citazione un po’ idiosincratica di alcuni termini cari alla fenomenologia, il processo preso in esame sarebbe allo stesso tempo il noema e la noesi, l’oggetto intenzionale e l’atto intenzionale, l’esperienza e l’esperito. Ci rendiamo conto, e lo anticipiamo, che molti dei problemi che abbiamo sollevato nel precedente paragrafo non troveranno una risposta 416 FIG. 1. Tra il mondo esterno e l’attività corticale esiste una continuità fisica. Perché prendere in considerazione soltanto un frammento di questa complessa serie di attività? Forse il processo fisico nella sua interezza è un valido candidato per l’esperienza. FIG. 2. Esistono vari sottoinsiemi di processi fisici. Non c’è nessun motivo a priori per preferire uno all’altro. Tuttavia, a posteriori, potremmo scoprire che uno di essi si presta a corrispondere alle proprietà dell’esperienza, meglio degli altri. nelle prossime pagine. Ne siamo consapevoli. Per esempio, che cosa definisce i confini del processo cui facciamo riferimento? Non può essere sufficiente un semplice appello al fatto che alcuni processi appartengono al soggetto. Si tratterebbe di una affermazione circolare. Il nostro obiettivo, in fase di articolazione, punta a trovare delle condizioni causali che possano definire, in piena autonomia, l’esistenza di nervature, confini e limiti nel flusso dei processi (Manzotti e Tagliasco 2008b). 417 3. SPIEGAZIONI A CONFRONTO Perché dovremmo accettare l’idea secondo cui l’esperienza è identica a un processo fisico parzialmente esterno al corpo del soggetto piuttosto che aderire all’ipotesi proposta dai neuroscienziati secondo cui l’esperienza emerge da o coincide con l’attività neurale? Proviamo a generalizzare il problema: esiste un fenomeno (l’esperienza) e si cerca di spiegarlo cercando di riconoscere la sua identità con altri fenomeni. Confrontiamo l’attività neurale con il processo fisico delineato in precedenza. Nella storia della scienza esistono parecchi esempi in cui fenomeni inizialmente considerati diversi si sono rivelati identici. Quando si è capito che vapore, acqua e ghiaccio erano, in un certo senso, la stessa cosa, si è compiuto un importante passo avanti e lo stesso è accaduto in molti altri casi quali elettricità e magnetismo, fuoco e reazioni di ossidazione, spinta idrostatica e pressione, movimento delle molecole e temperatura. Ovviamente tutti questi fenomeni sono, e in modo non banale, diversi. Affermare che «il fuoco è una reazione di ossidazione» significa fornire una spiegazione soddisfacente ossia proporre qualcosa che è, in un modo appropriato, uguale e diverso al fenomeno che si vuole spiegare. Nella storia della scienza, trovare questa identità tra fenomeni, apparentemente diversi, è stato di grande importanza in quanto ha consentito di affrontare un certo problema da punti di vista diversi. A volte i fenomeni paiono diversi perché sono descritti con strumenti epistemici diversi e da punti di vista alternativi. In un certo senso, «spiegare» vuol dire passare da «un particolare» a «un altro particolare», operazione che permette di arrivare a una categoria più generale che comprenda entrambi i «particolari». Due o più fenomeni particolari sono ricondotti a un unico principio generale (le entità «vapore», «acqua» e «ghiaccio» sono ricondotte alle «molecole di H2O») la cui valenza in termini di potere esplicativo, ovvero epistemica, consiste proprio nel ridurre il numero di entità a cui fare riferimento. Facciamo riferimento all’analogia con la temperatura e la sua identità con la velocità media delle molecole. Prima dell’800, la temperatura (come oggi l’esperienza) era un mistero: non aveva spiegazione. Quando si cominciò a notare una parentela tra la temperatura e i fenomeni che erano descritti attraverso la cinematica dei gas si avanzò l’ipotesi che, nei gas, il fenomeno «temperatura» fosse identico al fenomeno «velocità media delle molecole». Si riuscì così a spiegare il fenomeno temperatura identificandolo con un altro fenomeno. Ma come si era riusciti a capire che due fenomeni, studiati e descritti da tradizioni completamente diverse, erano la stessa cosa? Uno dei criteri che fu utilizzato per essere certi di questa identità (tra fenomeni che erano stati descritti utilizzando modelli e tradizioni 418 molto diverse), fu il confronto tra le proprietà dei due fenomeni: qualcosa di simile alla tabella 1. Tutte le caratteristiche della temperatura erano condivise dalla velocità media delle molecole. Procediamo nel confronto in modo analitico. Un gas a temperatura maggiore esercita una pressione maggiore e anche un gas le cui molecole abbiano una maggiore velocità media esercita una pressione maggiore. Anche il passaggio tra stato solido, liquido e gassoso può essere interpretato sotto forma di diversa velocità e composizione di un insieme di molecole. Lo stesso può dirsi di altri fenomeni quali la conduzione e la convezione. Alla fine del confronto non si trova nessuna proprietà del primo fenomeno che non sia condivisa dal secondo e si può concludere che sono identici. TAB. 1. Confronto tra due fenomeni apparentemente diversi, ma in realtà identici Pressione Passaggio di stato Conduzione Convezione Altre proprietà Temperatura Velocità media delle molecole Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Ritorniamo al caso dell’esperienza e proviamo ad applicare questo stesso criterio (esemplificato dalla temperatura). Quali sono le caratteristiche proprie dell’esperienza che danno alla comunità scientifica tanto filo da torcere? Seguendo la linea accennata prima e sulla base della letteratura disponibile (Dennett 1991; Chalmers 1996/1998; Ramachandran 2003/2006; Koch 2004) possiamo dire che l’esperienza è caratterizzata dalle seguenti proprietà: avere qualità, rappresentare il mondo esterno, intenzionalità, unità, prospettiva in prima persona. Uno degli aspetti più elusivi dell’esperienza è rappresentato dalla sua qualità. Provare una certa esperienza è associato a una certa qualità (visiva, uditiva, tattile, ma non solo). La qualità corrisponde al fatto che ogni esperienza è distinguibile dalle altre: un’esperienza visiva è distinguibile da una auditiva; una certa esperienza cromatica è distinguibile da un’altra. Per quanto concerne la capacità di rappresentare, l’esperienza serve per descrivere, per rappresentare, gli eventi del mondo esterno. I colori sono attribuiti alle superfici, i suoni agli eventi sonori, i sapori ai cibi. Attraverso l’esperienza, siamo in grado di conoscere il mondo esterno. Come è possibile? Se l’esperienza non rappresentasse il mondo esterno saremmo per sempre solipsisticamente chiusi in noi stessi. La terza caratteristica da prendere in esame, l’intenzionalità, è la capacità di riferirsi ad altro da sé (Brentano 1874/1997; Albertazzi 2006; 419 2007). Essa è alla base della possibilità di riferirci semanticamente a stati o eventi del mondo esterno (Searle 1983). Per alcuni autori, la capacità di rappresentare e l’intenzionalità coincidono. L’unità o unitarietà è una caratteristica spesso attribuita a tutta la nostra esperienza: l’unità del percetto e l’unità delle percezioni. L’unità del percetto si riferisce al fatto che la nostra esperienza è costituita da unità: un volto, un sapore, un colore. Inoltre, in ogni istante, tutte le nostre esperienze sembrano comporsi in un momento di esperienza che caratterizza il nostro presente di soggetto. Infine l’esperienza è caratterizzata da una prospettiva in prima persona. Quando facciamo esperienza del mondo, in ogni nostra esperienza è implicitamente contenuto il nostro punto di vista, la nostra prospettiva. In quello che vediamo, sentiamo, odoriamo, gustiamo è implicitamente contenuto il punto di vista del soggetto. La fisica e le scienze forti utilizzano una prospettiva in terza persona per spiegare la natura. Come passare, mediante le tecniche e le metodologie della fisica, alla prospettiva in prima persona caratteristica dell’esperienza? Nella tabella 2 si mette alla prova l’ipotesi dell’identità tra l’attività neurale e l’esperienza. Prendiamo in considerazione le qualità che riconosciamo all’esperienza. Per esempio il fatto che un’esperienza visiva corrisponda a un colore giallo. L’attività neurale corrispondente non condivide questa proprietà: i neuroni sono grigi, con qualche iniezione di blu, viola e rosso. In altri casi, la discrepanza tra le qualità dei neuroni e quelle dell’esperienza è ancora più drammatica: i neuroni non potranno mai avere qualità quali il suono, il gusto, l’odore. TAB. 2. L’attività neurale è un candidato per l’esperienza? Avere qualità Rappresentare il mondo esterno Intenzionalità Unità Prospettiva in prima persona Esperienza Attività neurale Sì Sì Sì Sì Sì No Sì/No? No No No Quanto al fatto di rappresentare le proprietà del mondo esterno non è affatto ovvio come sia possibile che lo stato elettro-chimico di una area corticale possa essere un’adeguata rappresentazione di un suono, di un sapore, di uno stato di cose esterno al cervello. Anche se oggi si comincia a capire qualcosa circa il modo nel quale un’area corticale gestisce l’informazione, non sappiamo nulla circa il modo nel quale si possa rappresentare il mondo esterno se non affidandoci a una ipotetica codifica mutuata dalla consuetudine con i calcolatori elettronici. L’intenzionalità, ovvero il fatto che qualcosa si riferisca a qualcosa d’altro, non è contemplata dall’attività neurale che, in quanto tale, non 420 è altro che una serie di reazioni chimico-elettriche interne al cranio. Nessuno sa dire perché, per esempio, l’attività nel cervello ha intenzionalità, mentre quella nei reni o nel fegato non manifesta questa proprietà (Putnam 1975/1993; Fodor 1976). La situazione non migliora per quanto riguarda l’unità della nostra esperienza: l’unità dei percetti e l’unità complessiva dell’esperienza soggettiva. L’attività neurale è suddivisa in molteplici reazioni chimiche ed elettriche separate temporalmente e spazialmente. Unirle equivale a quello che, nella letteratura, è definito il binding problem (Revonsuo 1999; Eagleman e Sejnowski 2000; Bayne e Chalmers 2003). Nessuno è finora riuscito a indicare un meccanismo convincente. Francisc Crick (1994) aveva proposto un meccanismo basato sulla sincronizzazione a 40 Hz, ma non si è rivelato convincente. Infine, l’esperienza è ritenuta dotata di quello che si dice una prospettiva in prima persona, ovvero il fatto che ogni esperienza è vissuta da un certo punto di vista. L’attività neurale avviene e basta, non è caratterizzata da questa proprietà. Come si vede la colonna di verifica sulla sinistra è quasi completamente negativa. Non ci si meraviglia del fatto che molti studiosi abbiano definito questo problema come «problema difficile». Proviamo ora a mettere alla prova il tipo di processo delineato in precedenza. Il risultato è nella tabella 3. Partiamo dal fondo. TAB. 3. La nostra proposta messa alla prova Avere qualità Rappresentare il mondo esterno Intenzionalità Unità Prospettiva in prima persona Esperienza Processo fisico Sì Sì Sì Sì Sì Sì/No Sì Sì Sì Sì I processi fisici che abbiamo suggerito come spiegazione dell’esperienza hanno una prospettiva in prima persona in quanto consistono in una relazione di causa ed effetto. Per esempio, un processo visivo non riguarda tutti i lati di un oggetto, ma soltanto quelli che possono interagire con il sistema visivo di un agente. A seconda delle caratteristiche di quel sistema visivo, il processo sarà diverso e i lati osservati dipenderanno dal punto di vista. I processi non possono fare a meno di contenere un punto di vista. I processi fisici hanno confini definiti spazialmente, temporalmente e causalmente? Ancora una volta la risposta è affermativa. Anzi i processi che abbiamo preso in esame accadono solo nella misura in cui producono un’unità di effetto. Una molteplicità di cause diverse producono un effetto congiunto. L’unità non è raggiunta attraverso un’artificiosa unificazione 421 di singole parti, ma a livello di processo (grazie al fatto che il processo produce un effetto congiunto). L’unità definisce i confini del processo (Manzotti e Tagliasco 2006). Anche l’intenzionalità è una proprietà traducibile in un processo. Tale processo mette in relazione aspetti diversi della realtà. La causa e l’effetto, che la tradizione considera separatamente, si trovano unite se considerate come due aspetti di un processo. Questa relazione è alla base dell’intenzionalità dell’esperienza. Per quanto riguarda la rappresentazione, abbiamo una soluzione nuova: non si ha più a che fare con momenti diversi (il mondo esterno e la sua rappresentazione neurale). Il rappresentato e il rappresentante sono due modi diversi di descrivere il medesimo processo. In questo modo, lo iato apparentemente incolmabile tra rappresentazione e rappresentato trova una soluzione. Infine, eccoci arrivati al primo punto, forse il meno intuitivo. Questo processo ha le stesse qualità della nostra esperienza? Quando guardiamo il led giallo nel buio della notte, dove si trova il corrispondente fisico della nostra esperienza del giallo? Il giallo della nostra esperienza è anche il giallo del processo? Il processo corrisponde a quell’aspetto del mondo a cui ci riferiamo quando facciamo esperienza del led giallo. Infatti, quando diciamo che facciamo esperienza di led giallo non indichiamo la nostra testa (dove i neuroscienziati ritengono che abbia luogo l’esperienza) e nemmeno il led noumenico fatto di campi elettromagnetici, barioni, leptoni e quant’altro; bensì proprio quegli aspetti del led giallo di fronte a noi che, interagendo con il nostro corpo, danno luogo a un processo fisico. Il giallo del mondo fisico fa parte del processo che noi suggeriamo essere identico all’esperienza. È vero che un fisico potrebbe descrivere il processo esclusivamente in termini quantitativi, ma questo non esclude la possibilità che quel processo nella sua interezza sia identico alla nostra esperienza. È chiaro che questo rapido confronto tra le proprietà salienti dell’esperienza e quelle dell’attività neurale è solamente abbozzato. Riteniamo possa però essere sufficiente a delineare una possibile direzione verso cui muovere una più approfondita analisi e confronto. 4. FREQUENTI EQUIVOCI In una proposta come la nostra, che si propone di individuare un candidato per l’esperienza attraverso una revisione nel modo di considerare i fenomeni fisici sottostanti, le possibilità di equivocare sull’uso dei termini non sono poche. Riteniamo sia utile provare a chiarire fin da subito alcune possibili obiezioni che ci sono state frequentemente rivolte e che si basano su interpretazioni non corrette del nostro punto di vista. 422 Una prima obiezione riguarda una presunta confusione tra il piano dell’ontologia e quello della fenomenologia (o dell’epistemologia). In parole semplici, confonderemmo l’esistenza degli oggetti con la capacità del soggetto di interpretare il mondo secondo vari significati. Facciamo notare che il problema dell’esperienza nasce, tra i vari motivi, in quanto non si riesce a trovare un punto di contatto tra il mondo fisico e il mondo fenomenico (e, per estensione, con il dominio delle credenze, dei pensieri, dei giudizi, dei concetti). Fintanto che si riterrà che il dominio dei fenomeni fisici sia separato da quello dell’esperienza, non sarà possibile capire in che cosa consiste l’esperienza. Se l’esperienza può essere spiegata all’interno della cornice delle scienze naturali, è lecito aspettarsi che il mondo della fenomenologia corrisponda a qualche sottoinsieme del mondo fisico (Whitehead 1920; Eddington 1929/1935). Oggi, in prevalenza, le neuroscienze ritengono che tale sottoinsieme sia da cercarsi esclusivamente all’interno del sistema nervoso, delle sue attività e delle sue proprietà. Secondo la nostra proposta, il sottoinsieme fisico è più esteso del sistema nervoso e comprende anche parti dell’ambiente. Ovviamente un dualista di sostanze (o di proprietà) non accetterebbe questa posizione in quanto rivendicherebbe l’esistenza di mondi separati. Tuttavia, il dualismo ha notevoli problemi che non sono stati finora risolti. Non si tratta quindi di confusione tra piani, ma di un tentativo di mostrare come il piano ontologico e quello fenomenico non siano realmente separati, ma possano corrispondere a prospettive diverse sugli stessi fenomeni fisici. Una seconda obiezione, parzialmente collegata alla precedente, è l’accusa di idealismo o comunque di confondere il mondo fisico con le scelte compiute dagli osservatori. È un’osservazione ragionevole e comprensibile in quanto la tradizione ha sempre considerato il soggetto come se fosse separato dal mondo esterno. I processi nei quali il soggetto si è trovato coinvolto sono stati terminologicamente distinti dal mondo fisico attraverso l’uso di aggettivi – quali «cognitivo», «percettivo», «neurale», «mentale», «intenzionale» – che hanno indotto molti a trattarli come se fossero effettivamente disgiunti o distinti dal mondo fisico. In realtà, è evidente che un processo percettivo, per esempio, non può che essere prima di tutto un processo fisico. In questa accezione, i processi legati all’esperienza sono parte dei processi che, complessivamente, costituiscono la realtà fisica. L’idealismo non potrebbe essere più lontano dal nostro punto di vista, in quanto l’idealismo presuppone l’esistenza di un principio soggettivo autonomo e distinto dal mondo fisico che, in casi estremi, rimane anche l’unico (sia esso il soggetto trascendentale, il soggetto solipsistico o altre forme di soggetto). Nella proposta avanzata in questo articolo, il soggetto non è autonomo e non pre-esiste alla realtà. Il livello fondamentale suggerito è costituito da processi fisici che, nella loro interezza, ritagliano e definiscono porzioni di realtà. Queste porzioni di realtà corrispondono sia all’esperienza che facciamo del mondo, sia 423 alle cose di cui facciamo esperienza: le due cose non essendo nulla più che modi diversi di parlare dello stesso processo. Il soggetto, in questa prospettiva, è ontologicamente successivo al determinarsi della realtà in termini di processi fisici. Anche l’oggetto della nostra esperienza (inteso come entità fisica autonoma ed esistente a prescindere dal suo essere coinvolta in processi causali) è definito come esito dell’accadere di processi fisici. Anche il concetto di emergenza non fa parte del nostro bagaglio concettuale e non lo vediamo con particolare simpatia. Su questo punto condividiamo pienamente le critiche espresse da Jaegwon Kim (1993; 1998; 1999). Se Kim ha ragione, l’emergenza è un fenomeno puramente epistemico e noi siamo tentati di dargli ragione. Il problema dell’emergenza è che tende a risolvere il problema dell’esistenza di fenomeni e livelli diversi, attraverso una comparsa improvvisa e ingiustificata (se fosse giustificata non richiederebbe nessuna emergenza). Vogliamo essere particolarmente chiari a questo proposito. È perfettamente corretto utilizzare il termine «emergenza» per riferirsi a tutte quelle situazioni in cui un sistema fisico, attraverso la sua evoluzione, produce qualcosa che non era presente prima; per esempio le mappe neurali autorganizzanti, la cellula, un formicaio, un insieme di stelle che si aggregano formando una galassia. Ma questi esempi non riguardano la nascita di un nuovo dominio ontologico, bensì illustrano come, all’interno del dominio dei fenomeni fisici, siano possibili aggregazioni e combinazioni diverse. Al massimo, rispetto a un modo di descrivere i fenomeni, si ha la necessità di utilizzare nuove categorie. Ma in natura, per quanto se ne sa, non si conoscono casi genuini di emergenza: per esempio, una quinta forza fondamentale che si aggiungesse alle quattro oggi accettate (gravità, elettromagnetismo, forza nucleare debole, forza nucleare forte). Per noi, il soggetto e l’esperienza sono sicuramente più simili alla formazione di una galassia, o di un formicaio, che non all’emergenza in senso ontologicamente forte. E, coerentemente, supponiamo che il mondo fisico sia costituito da processi potenzialmente identici a quelli che costituiscono un soggetto. Il soggetto è particolare in quanto è un aggregato di processi che non ha pari e non richiede l’aggiunta o emergenza di uno speciale dominio soggettivo. L’uragano è un aggregato particolare di correnti d’aria e non richiede l’emergere di nessuna speciale proprietà «uraganica». Infine è stato obiettato che la nostra proposta non spiega veramente che cosa sia l’esperienza. In un certo senso è vero. Il nostro obiettivo, che crediamo comunque meritevole di indagine, è quello di localizzare i fenomeni fisici che corrispondono all’esperienza e, conseguentemente, che corrispondono alla mente. A quale fenomeno fisico corrisponde l’esperienza? Le neuroscienze suggeriscono l’attività neurale o le sue proprietà. Noi suggeriamo di considerare congiuntamente anche 424 gli eventi fisici che precedono l’attivazione corticale. Si tratta di una differenza non trascurabile che modifica i confini delle esperienze – e quindi della mente – oltre i confini del corpo. La verifica della nostra proposta dovrebbe consistere nell’individuazione di controesempi che non possono essere espressi in termini di processi fisici con queste caratteristiche. Un classico controesempio – finora mai verificato – che toglierebbe ogni possibilità di validità alla nostra teoria è rappresentato dalla possibilità del brain in a vat: se un cervello, isolato dal mondo esterno fin dalla nascita, potesse fare esperienza di suoni, colori, sapori, odori, altre sensazioni, la nostra proposta non potrebbe essere accettata. Si tratta di un esperimento inverificabile, almeno allo stato attuale delle conoscenze. Tuttavia, si possono escogitare casi meno irrealizzabili, che però potrebbero falsificare o verificare la nostra ipotesi. Non c’è niente di meglio del classico problema della pianta che cade nella foresta per chiarire alcuni aspetti della nostra proposta. Se non c’è alcun essere umano (e supponiamo per comodità nessun animale capace di fare esperienza), la caduta della pianta fa rumore? Tra i molti, il fisico Richard P. Feynman se lo chiede e risponde con sicurezza di sì (Feynman, Leighton et al. 1963, vol. 3, 2-8). Tuttavia questa domanda trascura un interrogativo preliminare che potrebbe modificare la risposta: che cosa è il rumore? Se riteniamo che il rumore sia costituito da onde di pressione nell’aria, la pianta fa rumore cadendo. Ma il rumore, così come noi ne facciamo esperienza, è qualcosa di diverso: non è semplicemente un’onda di pressione. Le onde di pressione, in quanto tali, sono un fenomeno fisico che ha tante proprietà diverse, molte delle quali non fanno parte dell’esperienza del rumore. Il rumore non è l’onda di pressione in quanto tale, ma piuttosto il processo fisico che avviene tra un’onda di pressione e un sistema nervoso; un processo fisico complesso e articolato che è mediato dall’aria, dalle cellule ciliate, dai nuclei cocleari, dalle aree corticali. Quando una pianta cade succedono tante cose, alcune di queste richiedono condizioni opportune. Per esempio, se non ci fosse aria, le onde di pressione non potrebbero aver luogo. Se non ci fossero le cellule ciliate, le onde di pressione non potrebbero produrre effetti dentro il sistema nervoso, e così via. Il particolare insieme di proprietà fisiche di cui facciamo esperienza nei confronti della caduta della pianta è possibile soltanto quando tutte queste condizioni fisiche sono presenti. Il rumore non può essere soltanto l’onda di pressione, in quanto l’onda di pressione ha molte caratteristiche che non sono parte del rumore. Il rumore deve essere il processo nel suo complesso. Quindi possiamo riprendere in esame la domanda iniziale: quando una pianta cade se non c’è nessuno fa rumore? La risposta è, pace Feynman, negativa: il motivo è che il rumore è un processo che richiede: una fonte di sollecitazioni meccaniche (la pianta che cade), dell’aria, dei trasduttori, un sistema nervoso, delle aree neurali in grado di selezionare e produrre un effetto 425 in risposta a quel particolare sottoinsieme di proprietà che è all’origine del rumore. Tutto ciò insieme costituisce quella cosa che chiamiamo rumore e che per noi è tanto fisico quanto mentale. Più in generale possiamo dire che un oggetto è caratterizzato da molte proprietà che dipendono da condizioni esterne. Per esempio, riflettere la luce secondo una certa curva di riflettanza è possibile solo quando l’oggetto è effettivamente irradiato da una fonte luminosa. Le proprietà dell’oggetto sono affordances che dipendono dalle interazioni che hanno effettivamente luogo. Dato che le interazioni possibili sono teoricamente infinite (reazione a tutte le tipologie possibili di radiazione incidente, interazione con tutte le forme concepibili, profilo di risposta a onde meccaniche e pressorie di intensità e frequenze diverse, e così via), ha poco senso considerare l’oggetto in isolamento. Tra queste infinite proprietà soltanto alcune sono parte della nostra esperienza e si tratta, guarda caso, di quelle che, per avere luogo, richiedono un sistema con le caratteristiche fisiche dell’osservatore. Non facciamo esperienza degli oggetti a prescindere dalle loro interazioni con noi. Non abbiamo accesso alla struttura atomica della realtà. L’esperienza del mondo corrisponde ai modi, molto limitati, nei quali gli oggetti producono effetti sulla base delle nostre caratteristiche fisiche. Non possiamo conoscere o fare esperienza di niente altro. Se definiamo le proprietà degli oggetti in questo modo è evidente che, per avere luogo, è necessario che un essere umano (o sistema fisico naturale/artificiale con proprietà causali equivalenti) si trovi presente. Senza qualcuno (inteso come sistema fisico con certe caratteristiche) le onde di pressione non sono rumore. Il rumore inizia nell’aria e finisce nell’area corticale di uno spettatore. 5. ESTERNALISMO E MENTE Se mettiamo in discussione gli assunti citati nel primo paragrafo – la separazione tra soggetto e oggetto, il fatto che l’esperienza fenomenica abbia proprietà diverse dal mondo fisico, l’idea che i fenomeni fisici corrispondenti alla coscienza siano interni al sacco-pelle e ristretti a una certa finestra temporale – possiamo abbozzare un punto di vista alternativo che potremmo definire «esternalismo radicale». Nel recente, e meno recente, passato molti autori hanno preso in esame posizioni affini (Mach 1886/1975; James 1905; Holt 1914; Eddington 1929/1935; Putnam 1975/1993; Burge 1986; O’ Regan e Nöe 2001; Rowlands 2003; Nöe 2004; Wilson 2004; Rockwell 2005; Honderich 2006; Hurley 2006; Thompson 2007); hanno cercato di capire se l’esperienza cosciente non dipenda da fenomeni fisici più estesi (nel tempo e nello spazio) della sola attività nervosa. Tuttavia, molti di questi autori hanno accettato un’ontologia del mondo fisico limitata a oggetti in relazione causale. È una visione del mondo fisico molto limitata che 426 spesso costringe a supporre l’esistenza di un dominio funzionale parallelo e, in certa misura, alternativo rispetto a quello della realtà fisica: è il caso dell’enattivismo di Kevin O’Regan o di Alva Nöe (O’ Regan e Nöe 2001; Nöe 2003) e della mente estesa di Andy Clark e David Chalmers (1999). Anche la posizione dell’embodied cognition (Varela, Thompson et al. 1991/1993; Thompson 2007) rimane ancorata all’idea che i processi fisici rilevanti avvengano all’interno del corpo (anche se riconosce l’importanza di accoppiare tali processi con l’ambiente esterno). Inoltre l’embodied cognition tende a considerare l’esperienza non come qualcosa di fisico, ma piuttosto come qualcosa di epistemico lasciando aperta la domanda circa la sua natura ontologica. Per esempio, Evan Thompson (2007, 11) spiega che: «l’idea centrale dell’approccio embodied è che la cognizione consista nell’esercizio di abili conoscenze nell’azione situata e incarnata». Tuttavia, pur nelle differenze, si tratta di un punto di vista molto affine a quello difeso nel presente articolo. A sua volta, il mondo fisico, che spesso si suppone chiaramente definito in opposizione al problematico mondo mentale, da che cosa è costituito? Siamo sicuri che il mondo fisico sia effettivamente costituito dagli oggetti a cui spesso ricorrono i filosofi e gli studiosi della mente (tavoli, sedie, celle di memoria)? La fisica ci fornisce un quadro molto diverso: il mondo fisico è costituito da eventi e processi in un flusso continuo. Per questi e altri motivi, suggeriamo di prendere in esame un punto di vista esternalista che vede il soggetto e l’oggetto come due modi diversi di descrivere la medesima realtà fisica; un processo esteso, nello spazio e nel tempo, oltre i limiti temporali e spaziali che il senso comune attribuisce ai corpi (Manzotti e Tagliasco 2001; 2008a; Manzotti 2006a; 2006b). Questo insieme di processi fisici sarebbe identico (e non un semplice correlato) all’esperienza cosciente. Si tratterebbe di una strategia che potrebbe superare i limiti del dualismo. Siamo consapevoli che restano aperti molti aspetti dell’esperienza che richiederanno ulteriori analisi; tra i principali ricordiamo la memoria, il sogno, le after images, le allucinazioni e, in generale, tutti i casi di esperienza o percezione non diretta. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Albertazzi L. (2006), Immanent Realism. An Introduction to Brentano, Berlin, Springer. Albertazzi L. 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