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David Mc Kiernan, ex comandante dell’esercito Usa, di recente sostituito dal
generale Stanley McChrystal, aveva ricevuto 20mila soldati di rinforzo. In autunno Obama dovrà decidere se inviarne altri 10mila. Le truppe occidentali
Afghanistan: l’occhio
e l’anima di un inviato
REPORTAGE
di Wojciech Jagielski
nel Paese arriverebbero così a 100mila uomini, praticamente come i russi
negli anni Ottanta. Finirà allo stesso modo? Un grande inviato polacco è an-
Corbis_J. Nicolas
dato sul posto per cercare di capire come sta andando la guerra
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el corso della decina di giorni che ho
trascorso in Afghanistan, in imboscate,
attentati e confronti a fuoco con i
guerriglieri sono morti dieci soldati della
coalizione occidentale (nel corso dell’anno i
caduti sono stati quasi sessanta), e qualche
decina di civili afghani, uccisi in attentati con
bombe e in sparatorie nelle burrascose
province di Helmand e Kandahar a Sud, a
Logar e a Nangarhar a Est del Paese. Anche nei
dintorni di Kabul ci sono stati due attentati con
bombe. A febbraio, nella capitale, i guerriglieri
hanno attaccato gli edifici del Ministero della
Giustizia, dell’Istruzione e della Direzione
delle carceri. A inizio marzo i talebani hanno
compiuto degli attentati suicidi di fronte
all’ingresso della più grande base militare
americana, Bagram.
Nella reception del mio hotel a Kabul alla
parete erano appese foto segnaletiche grigie e
sfocate scattate dai servizi segreti. Vi erano
ritratti gli attentatori, forse nascosti nella
capitale dove continuavano a complottare. Uno
dei ricercati aveva un cognome tedesco.
All’inizio di marzo il governo afghano ha
promesso diecimila dollari di ricompensa per
N
ogni informazione in grado di condurre
all’arresto dei talebani nascosti a Kabul.
Assorbita dalla propria vita quotidiana, la città
non sembrava far attenzione alle notizie
inquietanti sulla nuova guerra in arrivo, diffuse
dai quotidiani, dai comunicati radio, dalla
televisione. Intasata di automobili, soffocata da
nuvole di gas di scarico e da una polvere eterna,
la città sembrava interessata unicamente ai
preparativi per la festa del Navruz, il primo
giorno di primavera e inizio del nuovo anno.
Osservando gli abitanti della capitale, intenti
agli acquisti per il giorno di festa nei mercati
cittadini, la guerra in pieno svolgimento ad
appena un’ora di distanza sembrava del tutto
irreale. I caseggiati ricostruiti e le nuove case e
negozi innalzati in ogni angolo libero hanno
ricoperto del tutto le rovine, ricordo della guerra
civile degli anni Novanta combattuta a Kabul
dai mujaheddin vincitori dell’Unione Sovietica.
Solo il centro di Kabul sembra un campo
barricato, composto da numerose roccaforti. Una
di esse è Arg, il palazzo presidenziale, dove
governa e abita il presidente afghano Hamid
Karzai, in preparativi per le elezioni previste in
agosto. Altre fortezze circondate da barricate di
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Grazia Neri/AFP
cemento, sbarramenti di filo spianato e
innumerevoli posti di blocco armati sono
l’ambasciata Usa, il quartier generale degli
eserciti della coalizione occidentale, e Fort
Eggers, base militare degli eserciti americani a
Kabul.
Gli afghani non vi hanno accesso, così come
alla maggior parte delle strade del centro
cittadino, inframmezzato da innumerevoli
barriere e posti di blocco, che è possibile
superare solo possedendo lasciapassare speciali
e sottomettendosi a continue perquisizioni. Lo
stato di guerra de facto imposto in città fa sì
che gli afghani non si facciano vedere nelle
strade del centro, occupate dagli occidentali con
alloggi e uffici. Gli stranieri a loro volta,
paralizzati dai divieti emessi dai loro datori di
lavoro e dalle notizie di prossimi nuovi
attentati e rapimenti che circolano in città, non
si azzardano a mettere il naso fuori dalle loro
fortezze. Il risultato è che gli stranieri, un
tempo numerosi nelle rumorose e
movimentate vie di Kabul, oggi ne sono quasi
del tutto scomparsi.
Nell’ottavo anno dell’intervento armato in
Afghanistan, gli americani e i loro alleati
occidentali preannunciano “una nuova
apertura”. Il nuovo governo di Washington,
che ha ottenuto in eredità dai predecessori la
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_Il presidente Obama (nell'altra pagina), che ha avuto in eredità la guerra
in Afghanistan, vuole rimediare agli errori e alle negligenze del predecessore George W. Bush
guerra in Afghanistan, vuole rimediare agli
errori e alle negligenze di George W. Bush e
dei suoi cortigiani, che hanno dimenticato
l’Afghanistan per invadere l’Iraq. «Abbiamo
dimostrato di essere stati troppo ottimisti, di
aver creduto troppo presto che la guerra in
Afghanistan fosse già vinta una volta per
tutte», ammette l’ambasciatore Usa a Kabul
William Braucher Wood. «Non abbiamo
neanche valutato nel modo giusto la forza e la
determinazione dei talebani». «La facile
vittoria del 2001 ha fatto sì che l’Occidente
minimizzasse i problemi afghani», aggiunge
Christopher Alexander, vice capo missione
Onu in Afghanistan.
Sulle alture rocciose alla periferia di Kabul,
lungo la strada per Jelalabad, nel caldo sole
primaverile si esercitano le reclute dell’esercito
regolare afghano negletto da Bush e dai suoi
ministri. Nei prossimi mesi si radunerà a
Kabul anche l’intero esercito dei consiglieri
americani, che aiuteranno i ministri afghani a
governare il Paese. I consiglieri militari
addestreranno in tutta fretta esercito e polizia
REPORTAGE
Olycom/Rex Features
afghani che, nel giro di qualche anno,
dovrebbero arrivare a contare quasi mezzo
milione di persone e potrebbero
tranquillamente dare il cambio agli americani e
consentir loro di ritirarsi.
La pazienza e l’ottimismo degli afghani scema
di anno in anno. I sondaggi condotti negli
ultimi mesi dai media occidentali e dalle
organizzazioni umanitarie dimostrano che i
due terzi degli abitanti dell’Afghanistan
ritengono che le cose nel loro Paese stiano
peggiorando. Cinque anni fa, quando per la
prima volta nella storia avevano tenuto libere
elezioni, fino a tre quarti riteneva di star
andando nella direzione giusta. Oggi persino lo
stesso presidente Karzai, debitore degli
americani e, fino a poco tempo fa, loro
protetto, ammette che i suoi rapporti con la
Casa Bianca non sono mai stati così freddi.
Gli afghani sono allarmati dalle reiterate
dichiarazioni dei comandanti occidentali sulla
necessità di discutere con i talebani, addirittura
di condividere con loro il potere. «Un accordo è
possibile solo con chi riconosce il nuovo
governo afghano», sottolinea l’ambasciatore
Usa a Kabul William Wood. «Non
consentiremo a nessuno di conquistare il
potere con la forza. Le cose sarebbero diverse
per chi decidesse di confrontarsi in regolari
elezioni. Ma per ora non mi sembra che i
talebani abbiano questo desiderio».
«Se ci saranno dei talebani che vorranno
deporre le armi, riconoscere la costituzione e il
nuovo regolamento dell’Afghanistan, non
potremo impedir loro di tornare alla vita
normale. Non vedo però alcuna possibilità di
accordarci con quei guerriglieri che
combattono in nome della guerra santa»,
aggiungeva il generale McKiernan. «E in
genere non uso neanche l’espressione
“conciliazione con i talebani”».
Anche i talebani rifiutano qualsiasi offerta di
patteggiamento, nessun accordo è possibile,
sostengono, finché gli eserciti occidentali non
si ritireranno dall’Afghanistan.
Gli afghani temono però che l’Occidente in
preda ai suoi problemi economici cercherà in
ogni modo di ritirarsi da questa guerra. Le
truppe di rinforzo dovranno spezzare la
resistenza talebana o almeno indebolirla fino a
farla pervenire a un accordo. E se ciò non
avverrà i comandanti occidentali, con denaro e
con promesse di potere, tenteranno di
convincere capi tribali come Gulbuddin
Hekmatyar, veterano delle guerre partigiane
degli anni Ottanta e Novanta, a discutere con
Karzai e a entrare nella nuova coalizione di
governo. Un governo che, disponendo già di
un esercito numeroso e ben addestrato,
potrebbe combattere da solo contro i talebani
irriducibili. A Kabul vi è chi ritiene che questo
scenario possa realizzarsi ancora entro la prima
scadenza della presidenza Obama.
Nella vallata di Jalrez, in provincia di
Wardak, gli americani addestrano l’esercito
arbakaj, composto esclusivamente da giovani
pashtun. Altri reparti saranno addestrati in
altre province, anzitutto in quelle che
attraversano la più importante via di
comunicazione del Paese, quella che, passando
da Kandahar, porta da Kabul a Herat.
La chiamata di leva tribale, unita alla
collaborazione dei comandanti talebani di
rango inferiore, dovrebbe costituire uno dei
modi per vincere la guerra in Afghanistan. Si
ritiene che l’inventore di questa tattica sia il
generale 56enne David Petraeus. Prima di
assumere la posizione di comandante degli
eserciti Usa in Medio Oriente e in Asia
meridionale, Petraeus era comandante in capo
in Iraq, dove cambiò completamente il destino
della guerra. Il generale David McKiernan, ex
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Olycom_S. Jonhatan/Sipa Press
comandante degli eserciti della coalizione
occidentale in Afghanistan, recentemente
sostituito dal generale McChrystal, in Iraq era
suo sottoposto.
La base del successo del generale Petraeus in
Iraq nel 2007 è consistita nell’essere riuscito a
ottenere 30mila truppe di rinforzo dagli Stati
Uniti, ma anzitutto nell’aver attirato dalla sua
parte guerriglieri iracheni e milizie etniche,
che hanno smesso di lottare contro gli
americani e, in cambio di denaro, armi,
sostegno militare e potere, si sono rivoltati
contro l’ex alleato, Al Qaida. Ora Petraeus
tenta di ripetere in Afghanistan il successo
avuto con le milizie etniche in Iraq.
«Non sono milizie etniche, e non siamo stati
noi a crearle», spiegava Mc Kiernan. «È
un’idea del governo afghano».
Nei vari distretti i soldati di leva devono venir
indicati dagli anziani, dai mullah e dai leader
politici. Nell’esercito arbakaj possono venir
arruolati solamente i migliori, i più forti, i più
onesti, coloro che non hanno mai commesso
alcun crimine. La shura, il consiglio degli
anziani del distretto, deve garantire e
rispondere di loro di fronte al governo di
Kabul e agli americani. La shura deve anche
controllare che nell’esercito arbakaj vengano
rappresentate in modo onesto tutte le
popolazioni, i clan e le famiglie che abitano il
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_Fra le reclute addestrate dagli americani sulle alture nei dintorni di Kabul non
ci sono volontari di milizie etniche locali, per evitare problemi con i talebani
distretto.
Il Ministero della Polizia a Kabul deve dare alle
reclute uniformi e fucili, e gli istruttori
americani nel giro di otto settimane insegnano
loro come usare le armi, come ubbidire agli
ordini, e in genere come far parte di un esercito.
Chi termina questo corso militare accelerato
(l’addestramento di un soldato regolare dura
qualche mese) viene incaricato dall’esercito e
dalla polizia di controllare l’ordine nel distretto
natale e lungo le strade che lo incrociano, di
combattere i talebani e di spiarli in favore degli
americani. Come compenso i soldati
dell’arbakaj ricevono 120 dollari al mese e un
fucile; in ogni distretto in grado di formare un
esercito regolare il governo afghano e gli
americani costruiscono strade, ponti, pozzi,
scuole e centri sanitari. «Si tratterrà più che
altro di pattuglie di compaesani che non di
milizie etniche, che in Afghanistan suscitano
pessimi ricordi», aggiunge l’ambasciatore Usa
William Wood, ammettendo di aver proclamato
la leva generale perché l’esercito governativo
afghano, sempre troppo poco numeroso e
ancora poco efficiente in battaglia, non è in
REPORTAGE
Corbis/epa
grado di cavarsela da solo contro i talebani.
Al colonnello Haight l’idea della leva generale
arbakaj piace molto. «Se riusciranno a
prendere il controllo delle loro vallate, i miei
soldati non saranno costretti a ripulirle
all’infinito dai talebani, che tornano non
appena noi ci allontaniamo», afferma. «Va
anche detto che su dieci guerriglieri, al
massimo due combattono contro di noi per
motivi religiosi o politici. Gli altri ci sparano
perché sono scontenti di come vanno le cose, o
semplicemente per denaro. I talebani sono in
grado di dare cento dollari a un ragazzotto
qualsiasi perché miri con un bazooka contro
una nostra pattuglia o perché dia fuoco a una
mina sistemata lungo una strada. Preferisco
che siamo noi a pagarli, e che i contadini
sparino ai talebani invece che a noi».
Fra gli afghani però l’idea di una chiamata
generale di leva fra i clan non suscita
entusiasmo ma orrore. Dopo la guerra contro
l’Unione Sovietica degli anni Ottanta, gli
eserciti etnici avevano portato il Paese alla
guerra civile e ridotto l’Afghanistan in rovina.
La prospettiva di far tornare al potere capi
tribali ripuliti e talebani convertiti dai dollari
suscita grande inquietudine fra gli afghani.
«Sono assolutamente contrario», dice il
generale Ali Ahmad, discendente del clan reale
pashtun dei Popalzai. Da quando, otto mesi fa,
ha assunto il comando del Centro per
l’addestramento dell’esercito afghano a Kabul,
per paura di venir ucciso non ha più visitato la
nativa Kandahar e i suoi familiari ricevono
lettere di minaccia dai talebani. Fra le reclute
addestrate dagli americani sulle alture nei
dintorni di Kabul non ci sono volontari dei clan
pashtun di Kandahar, né di alcun’altra
provincia a Sud del Paese. Laggiù i capi tribali
che collaborano con il governo di Kabul e con
gli americani vengono uccisi dai talebani.
Questi hanno eliminato centinaia di leader
tribali anche in Pakistan, dove in autunno il
governo aveva deciso di organizzare una
chiamata di leva generale fra i pashtun della
zona di frontiera. «Piuttosto che armare delle
milizie etniche è meglio addestrare più soldati»,
aggiunge il generale Ali Ahmad.
Il consigliere politico del colonnello Haight,
Matthew Sherman, ammette che in Iraq le
milizie etniche erano sfuggite a ogni controllo.
«Non ci siamo neanche accorti che erano
arrivate a contare oltre 100mila soldati», dice.
«In Afghanistan vogliamo che la leva riguardi
non più di 200-300 soldati per distretto».
Anche il vice comandante della polizia di Kabul,
al-hadz Chalilullah Dustjar, è contrario alle
milizie etniche. «Nei distretti controllati dalle
milizie la gente non saprà che farsene del
governo di Kabul», scuote la testa. «Se ora
armiamo i pashtun per combattere i talebani,
fra poco anche i tagiki, gli uzbeki, gli hazari
vorranno avere armi e la possibilità di formare
eserciti propri».
Mohammed Omar Zadran, veterano della lotta
partigiana contro l’Unione Sovietica e oggi
generale dell’esercito afghano, ricorda che
anche i russi, per combattere i mujaheddin,
avevano giocato la carta della chiamata di leva
generale fra i vari clan. I capiclan si erano
battuti finché il governo di Kabul era stato in
grado di pagarli. Quando il fiume di rubli si era
essiccato i capiclan alla testa dei loro potenti
eserciti avevano tradito il governo di Kabul e si
erano alleati con i mujaheddin, oppure avevano
tentato essi stessi la scalata al potere. «Gli
americani vogliono stare in pace durante le
elezioni presidenziali, previste in agosto», dice.
«Prima o poi si ritireranno dall’Afghanistan, e
ci lasceranno i capi tribali in eredità».
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Gli elicotteri si innalzavano appena sopra i
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AFGHANISTAN: L’OCCHIO E L’ANIMA DI UN INVIATO
Grazia Neri_S. Marai/AFP
tetti dei caseggiati afghani della periferia di
Kabul. Quasi appesi all’esterno, attraverso i
portelloni spalancati, i tiratori scelti puntavano
in basso le canne dei fucili. Kabul dista meno
di cento chilometri dalle altre postazioni degli
eserciti occidentali, ma i soldati si spostano in
elicottero per evitare agguati.
A differenza dei “Falchi neri” americani, i
“Puma” francesi volano basso, staccandosi
appena da terra e quasi sfiorando le pendici
sassose e le cime innevate che circondano
Kabul. Le gole pietrose sembravano morte e
deserte. La siccità che di nuovo colpisce
l’Afghanistan trasforma le valli di montagna
in deserti rocciosi. Solo di rado il color
giallastro e polveroso onnipresente in
Afghanistan è ravvivato da macchie di verde,
oasi in fiore accanto ai fiumi e ai laghi
montani.
In un’oasi verde lungo il fiume Kabul, nelle
propaggini meridionali della catena
dell’Hindukush, fra i monti Suleiman e il
valico di Khyber, si trova la cittadina di Surobi.
Sulla rupe che la sovrasta, in un fortino
circondato da sacchi di sabbia, bunker di
cemento e filo spinato, stanno di guardia 700
soldati francesi. Il colonnello Franck Chatelus,
comandante del forte, dice che dalle torrette di
guardia può controllare alla perfezione non
solo la cittadina e la strada da Kabul a Jelalabad
e alla pakistana Peshvar che la attraversa, ma
anche gli accessi alle quattro valli che
confluiscono a Surobi. Due di queste, Tizin e
Djeg Dalaj, sono considerate tranquille, ma
nelle due rimanenti, Uzbin e Tagab, si
nascondono sempre i guerriglieri, che la fanno
da padrone nei villaggi e tramite i valichi
montani si avvicinano di soppiatto a Kabul.
«Se solo provassero ad attaccare Surobi o ad
attraversare la strada verso Kabul, li vedrei da
lontano», dice il colonnello Chatelus,
mostrando le lontane catene montuose. «Ma
anche loro vedono da lontano quando i miei
soldati escono in pattuglia. Avvertiti dalle loro
spie hanno due ore per sfuggirci. O per
tenderci un agguato». Lo scorso anno, in
un’imboscata nei pressi del villaggio di Sper
Kundai nella valle di Uzbin, in un unico
scontro violento morirono dieci soldati
francesi, venti rimasero feriti. In autunno, con
l’appoggio della polizia e dell’esercito afghano,
i francesi hanno pacificato la valle di Uzbin;
nella parte meridionale della gola non ci sono
più guerriglieri, ma a nord dei villaggi di Sper
Kundai e di Washa Kalai i talebani
spadroneggiano come prima. «I contadini locali
seminano papavero, e per gli anziani delle loro
tribù noi e il governo di Kabul siamo dei
nemici», ammette il colonnello Chatelus.
Il giorno prima, durante un’operazione di
pacificazione nella
Grazia Neri_M. Hossaini/AFP
gola di Alasaj era morto un altro soldato
francese, portando a ventisei il numero delle
perdite di questo Paese in Afghanistan. Gli
elicotteri chiamati in soccorso hanno ridotto in
macerie le abitazioni abbandonate da cui
sparavano gli assalitori. Sono morti quasi
trenta talebani.
Le cose stanno ancora peggio nella valle di
Tagab, in provincia di Kapis, in cui Kabul e il
comando della coalizione occidentale hanno
dislocato tremila soldati francesi. Contro di
loro e contro gli americani si battono i talebani
e i guerriglieri di Hekmatyar, guidati da uno
dei suoi migliori comandanti, Kashmir Chan. I
contadini pashtun della zona sono
apertamente ostili verso i soldati stranieri, e i
soldati dell’esercito governativo afghano e la
polizia non osano avventurarsi in quelle zone.
Verso la fine di gennaio, alla caccia di uno dei
comandanti talebani locali, il mullah Patang,
l’aviazione americana ha bombardato il
villaggio di Inzeri. Patang è morto, ma insieme
a lui anche quindici contadini, inasprendo
ulteriormente l’odio dei locali verso gli eserciti
occidentali.
Le valli di Tagab e Uzbin, l’intera provincia di
Kapis e il vicino Laghman sono da anni la
roccaforte del veterano delle guerre afghane, il
comandante Gulbuddin Hekmatyar, da diversi
anni alleato dei talebani. Alcuni anni fa, prima
di venir conquistata dai talebani, anche la
cittadina di Surobi era una sua roccaforte. Da
Surobi, Hekmatyar e i suoi guerriglieri, che
hanno fama di essere straordinariamente
crudeli, controllavano la strada strategica da
Kabul a Peshvar, la via principale degli
approvvigionamenti della capitale afghana.
Negli anni Novanta, quando in Afghanistan
infuriava la guerra civile, coloro che
viaggiavano da Kabul a Peshvar pregavano di
riuscire a superare Surobi nel minor tempo
possibile. Il nome della cittadina suscitava
angoscia non solo per i guerriglieri di
Hekmatyar, ma anche per ogni genere di
briganti che vi giungevano dalle vallate
circostanti per sequestrare, assassinare,
assaltare camion e automobili. Nell’autunno
del 2001, nei pressi di Surobi, uno dei
capibanda locali uccise quattro giornalisti
occidentali diretti verso Kabul liberata dai
talebani. Surobi è la porta per Kabul. Chi
comanda in questa cittadina detta le condizioni
alla capitale, in qualsiasi momento può tagliare
i rifornimenti di energia elettrica fornita a
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Olycom_S. Jonhatan/Sipa Press
Kabul dalla centrale idroelettrica del lago
Naghlu. «Per questo tutti cercano a ogni costo
di prendere il controllo della città e delle
vallate confinanti», dice il colonnello Chatelus.
«Il mio esercito ha reso sicura la strada da
Kabul a Jelalabad, ma qui il pericolo è ancora
così grande che i miei soldati non fanno
neanche un passo fuori dal fortino, e da tre
anni nessun rappresentante di organizzazioni
umanitarie è venuto a Surobi».
Volendolo o meno i soldati francesi hanno
assunto il compito di aiutare la popolazione
locale, di costruire ponti, strade e scuole.
«Costruisco delle strade perché i contadini
possano andare al mercato in maniera sicura e
veloce», dice Chatelus. «Ma lo faccio anzitutto
per i miei soldati. Dove non ci sono strade non
si possono scovare i guerriglieri e invece è
facile cadere in agguati e trappole».
Per l’apertura solenne della scuola restaurata
dai francesi sono venuti da Kabul il
comandante dell’esercito francese in
Afghanistan, il generale Michel Stollsteiner, e
lo stesso vice comandate in capo della
coalizione occidentale, il generale inglese James
Dutton. Di fronte alla scuola intonacata di
bianco si sono riuniti anziani barbuti con i
turbanti e bambini, a cui per l’occasione sono
state distribuite bandierine di carta con i colori
nazionali afghani, rosso, nero e verde.
Dalla valle di Uzbin è arrivato il sindaco locale,
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kazi Aziz Sajjed Sulejman. Non aveva
sufficienti parole di lode per i francesi. «Da
quando sono arrivati qui siamo al sicuro», dice.
«Un tempo non riuscivo a sentirmi tranquillo
neanche nel mio ufficio, ma oggi posso
spostarmi dove voglio, in tutta la vallata». Era
però da sei mesi che non andava nel villaggio
di Sper Kundaj. «È tutto a causa di Wakil
Sangin, che pur essendo deputato al
parlamento di Kabul aizza la gente contro di
me», si impunta il sindaco. «Wakil Sangin è un
criminale e andrebbe messo in prigione. Suo
fratello Mobin è un sequestratore, e suo
cugino, il mullah Abdul Aziz, sta con i
talebani. Lo sanno tutti, e nonostante ciò non
si può far niente, perché Wakil Sangin ha amici
influenti a Kabul».
Dopo avere ringraziato i generali per la scuola
e averli assicurati di quanto essa renderà felici i
bambini locali, i capiclan pashtun hanno
consegnato agli ospiti un elenco di richieste: un
computer, un tavolo e delle sedie, un motorino.
«E ci vorrebbe anche un muro», ha aggiunto
uno di loro. «Avete ricostruito la scuola, ma
avete dimenticato di costruirci intorno un
muro». «A cosa serve un muro intorno a una
scuola?», si è stupito il generale inglese
Dutton. «Perché i bambini non rompano a
sassate i vetri delle finestre – ha sorriso
indulgente il capoclan – bisogna costruire un
muro bello alto».