DICHIARAZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO

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DICHIARAZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO
Allegato Doc's Magazine n.2 – Gennaio 2012
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Il dibattito italiano sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT)
Dott.ssa Vanna Maria Valori
Ormai da alcuni anni è aperto il dibattito parlamentare sulle problematiche di fine vita allo
scopo di introdurre nell’ordinamento giuridico italiano un testo unico, che possa trovare soluzioni
condivise su questioni complesse, che non sono solo quelle bioetiche. Per comprendere meglio le
motivazioni che stanno alla base dei vari disegni di legge (DDL) oggetto di commissioni di lavoro
dal 2006 e del provvedimento approvato alla Camera e in discussione al Senato, dobbiamo
richiamare alcune vicende che hanno preceduto e accompagnato il dibattito italiano, come la
proposta di diffusione della Biocard del 1990, il caso “Englaro”, avviato nel 1999, il parere del
Comitato Nazionale della Bioetica sulle Dichiarazioni anticipate di Trattamento (DAT) del 2003 e
il caso Welby del 2006.
Il percorso italiano inizia con la Biocard o “Carta dell’autodeterminazione”, promossa dagli
estensori con l’obiettivo di rendere il soggetto “padrone” delle proprie scelte terapeutiche,
permettendogli di decidere in anticipo i trattamenti cui vorrà o non vorrà sottoporsi nell’eventualità
di una futura perdita totale o parziale “della capacità di comprendere e di comunicare”. Questo per
evitare che “la medicina moderna prolunghi la vita del paziente in condizioni non dignitose”. Nelle
vicende successive sono emerse le varie criticità del tema e le argomentazioni ruotano attorno
all’idea che una persona in stato vegetativo sia priva di dignità umana, sulla validità del fatto che
“il rifiuto dei trattamenti espresso dal tutore sia anche espressione della volontà dell’interdetta
quando si trovava in stato di totale capacità e sulla libertà di decidere della propria vita fino a
pretendere il diritto di morire.
In questo panorama storico, i documenti che raccolgono le volontà anticipate sono stati
concepiti quindi non tanto come strumento per la protezione dei pazienti da condotte mediche non
proporzionate al caso clinico, quanto piuttosto come strumento di rivendicazione del primato
dell’auto-determinazione, anche qualora il suo presupposto − la competenza − non fosse più
presente.
Questi documenti vengono definiti − spesso in modo intercambiabile − “testamenti
biologici” o “testamenti di vita” (dall’inglese living will) o “direttive anticipate” (DA). In realtà,
con la dizione “testamenti biologici” o “testamenti di vita” si intende riprendere il concetto di
“morte naturale” ovvero la volontà di morire senza ricorrere a mezzi di sostegno vitale 1 con
riferimento generalmente, anche se non in modo esclusivo alla fase terminale della malattia. Si
tratta, dunque, di una chiara espressione della rivendicazione del cosiddetto “diritto a morire”.
Le “direttive anticipate” indicano, invece, una categoria generale di documenti che
contengono le preferenze dei pazienti circa gli interventi medici che essi vorrebbero per sé e di cui
i medici vengono chiamati a tenerne conto, con effetto vincolante, qualora il paziente stesso sia
incapace di intendere e volere. In questi documenti, si richiedono alcuni tipi di intervento mentre
se ne rifiutano altri, senza riferirsi necessariamente né agli interventi di rianimazione né alla
situazione del paziente morente e non implicando sempre - almeno in modo esplicito - una volontà
eutanasica.
SPAGNOLO AG. Testamenti di vita in BOMPIANI A (a cura di). Bioetica in medicina Roma: CIC Edizioni Internazionali;
1996: 340-355; ID. Testamenti di vita e decisori surrogati in NORIEGA J, DI PIETRO M.L (a cura di). Né eutanasia né
accanimento terapeutico. La cura del malato in stato vegetativo permanente. Roma: Lateran University Press; 2003:
75-103; SPAGNOLO AG, DI PIETRO ML. Testamenti di vita in GIUSTI G (a cura di). Trattato di Medicina Legale e Scienze
affini. vol. VII, Padova: CEDAM: 2005: 49-82.
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Negli anni più recenti gran parte del dibattito bioetico sulle volontà anticipate si è, invece,
articolato attorno alcuni temi portanti, quali il rapporto medico-paziente, il concetto di autonomia,
le decisioni di fine-vita. In questo contesto si colloca la precisazione offerta dal Comitato
Nazionale di Bioetica (CNB) italiano, che introduce il termine “dichiarazioni anticipate di
trattamento (DAT)” in luogo di “direttive anticipate”, salvaguardando così la non vincolatività per
il medico.
Il CNB definisce infatti la DAT come «“un documento con il quale una persona, dotata
di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non
desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi
improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso
informato” .
In tale ampio documento, contenente un'analisi delle varie problematiche e terminante con
una serie di raccomandazioni, il cui rispetto garantisce la legittimità delle DAT, si afferma che le
dichiarazioni anticipate non possono contenere indicazioni «in contraddizione col diritto positivo,
le regole di pratica medica, la deontologia (...) il medico non può essere costretto a fare nulla che
vada contro la sua scienza e la sua coscienza» e che «il diritto che si vuol riconoscere al paziente
di orientare i trattamenti a cui potrebbe essere sottoposto, ove divenuto incapace di intendere e di
volere, non è un diritto all’eutanasia, né un diritto soggettivo a morire che il paziente possa far
valere nel rapporto col medico ( [...] ) ma esclusivamente il diritto di richiedere ai medici la
sospensione o la non attivazione di pratiche terapeutiche anche nei casi più estremi e tragici di
sostegno vitale, pratiche che il paziente avrebbe il pieno diritto morale e giuridico di rifiutare, ove
capace».
Nel dibattito attuale tutte le proposte successive ai casi pubblici italiani, sottendono
l’intento di evitare il c.d. “accanimento terapeutico” con un’estensione del principio di
autodeterminazione al di fuori di una concreta situazione patologica e vanno lette nel contesto di
un progressivo modificarsi della relazione medico-paziente. Ma oggetto di discussione o di
criticità sono anche altri argomenti, come la vincolatività delle disposizioni anticipate nei confronti
del medico e degli operatori sanitari, un concetto di “incompetenza” che non implica solo uno stato
di coma, la modificabilità o revocabilità delle volontà anticipate, la figura del fiduciario e la
regolamentazione del suo ruolo, la disciplina in caso di inadempimenti da parte dei soggetti
coinvolti nelle decisioni da prendere.
Su alcuni di questi punti e bene fare delle precisazioni. Quando si parla di rifiuto
dell’accanimento insieme al rifiuto delle cure che non costituiscono accanimento può emergere una
sorta di confusione ingannatoria. Ci riferiamo al “trasloco” dell’eutanasia “omissiva”, “passiva”,
“interruttiva” nell’ambito del rifiuto dell’accanimento terapeutico, interpretato esclusivamente in
chiave soggettivistica e/o come “superamento” di uno standard di qualità di vita, o nell’ambito
del rifiuto delle terapie/cure interpretato come “rifiuto della vita”.
Non si possono cioè ascrivere nell’ambito di accanimento terapeutico delle terapie
proporzionate e appropriate. Molto dibattito c’è stato in merito alla possibilità di esprimere le
volontà in ordine alla nutrizione o idratazione artificiale, che non possono considerarsi in linea di
massima cure futili. In effetti già oggi, senza bisogno di una legge ad hoc, l’accanimento
terapeutico è inaccettabile e pertanto da evitare sia che il malato lo rifiuti, sia che il malato lo
richieda. A prescindere dalla volontà del disponente, al medico è vietato deontologicamente ogni
tipo di oltranzismo nei trattamenti. Il nuovo Codice di Deontologia Medica, nell’art. 16, prevede
che “ il medico debba astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non
si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato”. Ciò che si configura come
accanimento va valutato caso per caso, in base ai dati biomedici, per arrivare ad un giudizio di
proporzionalità o sproporzionalità del trattamento e di adeguatezza o inadeguatezza del loro uso in
relazione al raggiungimento dell’obiettivo. Questa valutazione diventa completa all’interno di una
lettura medico-paziente improntata sull’alleanza terapeutica, che tiene presenti i bisogni e gli
aspetti soggettivi attinenti al malato. Si potrà così formulare un giudizio di ordinarietà e
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straordinarietà dello stesso trattamento, anche a fronte della stessa condizione clinica. Il
cambiamento della relazione medico-paziente ha progressivamente portato al superamento della
storica obbligazione alla beneficialità (modello paternalista) verso l’autonomia del paziente, con
un sempre più evidente slittamento dalla ricerca del bene del paziente verso l’esercizio della libera
scelta del malato. La stessa informazione medica ha acquistato il mero significato di mettere il
paziente in condizioni di poter scegliere (modello autonomista), soprattutto dopo la trasformazione
degli ospedali in aziende, sempre più protese verso l’ottica del malato come cliente. A detrimento
del rapporto terapeutico imperniato sulla fiducia, certamente da recuperare, si è venuto delineando
il modello contrattualista. Ma di fronte alle cure come contratto il medico può assumere
comportamenti da medicina difensiva, allo scopo di prevenire possibili conseguenze legali.
Riguardo poi al concetto di “incapacità decisionale o “incompetenza”, che farebbe scattare,
una volta accertata le volontà espresse anteriormente, il punto critico è capire se tale stato è
temporaneo o irreversibile allo stato delle conoscenze scientifiche. Il contesto in cui si forma la
volontà è molto importante; va distinta infatti la volontà attuale, che è informata e circostanziata,
misurandosi con la situazione reale e concreta della malattia o del trauma, dalla volontà anticipata,
che oggettivamente non può esserlo data la distanza cronologica della manifestazione di malattia.
Questa diversità, che rende le due volontà qualitativamente diverse, presenta dei problemi laddove
la scelta anticipata di rinuncia ai trattamenti implica la scelta anticipata del morire. Spesso infatti,
nell’esperienza di molti operatori sanitari, il rifiuto delle cure, nell’attualità della malattia o del
trauma, può anche esprimere una richiesta di aiuto, di disagio psicologico o essere motivato da
paura, dolore, sofferenza o solitudine. In questo senso una profonda e autentica relazione umana e
professionale può essere di valido aiuto al paziente, rendendolo capace di superare le difficoltà e
cambiare le sue idee.
Tuttavia vi sono numerosi fattori in grado di interferire con i cambiamenti delle idee e dei
desideri dei pazienti; i soggetti che redigono le DAT sembrano costituire un subset a maggiore
stabilità nelle preferenze; tale stabilità è risultata essere associata talora ad un atteggiamento
rilevato basalmente di rifiuto dei trattamenti, talora ad un desiderio iniziale di approcci terapeutici
più interventistici. Altri fattori rilevanti nell’associarsi alla variabilità delle preferenze sono le
variazioni di condizione di salute dal cambiamento del contesto in cui sono espresse, quale può
essere il ricovero ospedaliero, da variazioni delle condizioni psicologiche, dalla comparsa di
ideazione suicidaria, da mutamenti del supporto sociale, dal tempo che intercorre tra le valutazioni
dei desideri di cura, dalle informazioni acquisite circa le procedure di rianimazione.
È comunque significativo che nonostante i numerosi possibili fattori predittivi di
fluttuazione delle preferenze individuati in letteratura, una significativa percentuale dei soggetti
mostri variazioni nelle preferenze di trattamento non prevedibili in un arco temporale di 2 anni.
L’instabilità dei desideri per quanto riguarda le future terapie potrebbe teoricamente essere
superata dall’aggiornamento delle D AT.
L’esercizio dell’autonomia da parte della persona, quindi la capacità di elaborare scelte
dotate di significato, presuppone un’adeguata comprensione della natura sia dei trattamenti
(indicazioni, controindicazioni, limiti, efficacia, possibili eventi avversi), sia della situazione
clinica in cui i trattamenti possono trovare applicazione. A tal fine l’acquisizione di informazioni
corrette sotto il profilo medico-scientifico è requisito essenziale, che non può né deve venire meno
nonostante l’obiettiva difficoltà a trattare un numero elevato di procedure e di scenari clinici. La
redazione delle DAT è un processo che dovrebbe iniziare dalla volontà del soggetto e terminare
nella redazione di un documento scritto. L’intero percorso dovrebbe essere preceduto da una
complessa fase di apprendimento, chiarificazione, elaborazione concettuale e linguistica di un
numero non indifferente di concetti medico-scientifici. Dal punto di vista teoretico è già
prevedibile che il processo di redazione delle DAT possa incontrare difficoltà o errori a vari livelli.
Una difficoltà aggiuntiva deriva dalla scarsa conoscenza circa la reale probabilità di sopravvivenza
dopo una rianimazione cardiopolmonare da parte dei medici.
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L’enorme flusso d’informazioni ricevuto dal pubblico, spesso su un piano subliminale con
alcune serie televisive ambientate nel mondo medico, non è estraneo alla genesi di convinzioni
erronee. Teoricamente il preventivo colloquio col medico potrebbe risolvere il pregiudizievole
deficit conoscitivo del paziente. Nel processo di formazione dei propri convincimenti il medico
dovrebbe altresì considerare che le modalità di presentazione dei dati − illustrando i risultati di un
trattamento in termini di percentuali di successo o di fallimento − influiscono sulle preferenze del
paziente.2 Ma anche quando la redazione delle DAT è preceduta dal colloqui col medico
l’apprendimento effettivo delle procedure risulta in genere scarso.
In una verifica, effettuata in un contesto di cure primarie coinvolgendo 56 medici e
altrettanti pazienti con una prognosi quoad vitam a 5 anni del 75%, realizzata mediante
registrazione audio-video dei colloqui tra medico e paziente riguardo le D AT, è risultato che il
tempo dedicato all’argomento è stato mediamente di 5,6 minuti (intervallo: 0,9 - 15 minuti)
durante il quale il medico ha parlato per 3,9 minuti (intervallo: 0,6 – 10,9 minuti) e il paziente per i
restanti 1,7 minuti (intervallo: 0,3 – 9,6 minuti). 3 Almeno qualche possibile intervento è stato
menzionato nel 96% dei colloqui, ma la descrizione degli interventi citati è avvenuta solamente nel
27% dei casi e solo col 16% dei pazienti il medico si è preoccupato di accertarsi della
comprensione degli interventi. I valori personali del paziente, gli obiettivi dell’assistenza e le
ragioni per le preferenze sono stati affrontati nel 71% dei casi. Espressioni usate dai pazienti come
essere un “vegetale” non sono state chiarificate. Il 63% dei medici ha consigliato al paziente di
discutere le preferenze coi fiduciari da loro indicati. Sorprendentemente tutti i pazienti, al termine
del colloquio, hanno giudicato “un buon lavoro” quello svolto dal medico. 4
L’assenza di un consenso sufficientemente relato, informato e circostanziato rappresentano
secondo alcuni autori gli elementi di problematicità del testamento biologico. 5 Le DAT non
includerebbero quell’elemento di fiducia alla base della relazione tra medico e paziente che
dovrebbe essere elemento fondativo dell’autentico consenso informato. 6 Proprio per ripristinare
questa cerniera di fiducia si è ritenuto utile ed opportuna l’istituzione di un fiduciario indicato dal
paziente, da lui delegato a rappresentarlo nelle decisioni che riguardano l’assistenza sanitaria nel
caso egli non sia più in grado di assumere autonomamente le proprie decisioni.
Un’attenta revisione della letteratura di R. Puccetti et al. ha consentito di valutare la
sussistenza di 5 presupposti fondativi della validità delle D AT:
1. i pazienti hanno valori e preferenze stabili nel tempo circa le terapie di sostegno vitale
2. i pazienti sono in grado di trasferire tali desideri nelle D AT,
3. i fiduciari sono in grado di interpretare correttamente i desideri dei pazienti,
4. i pazienti desiderano che la condotta clinica segua le indicazioni delle D AT,
5. i medici saranno in grado di modificare la loro condotta in ossequio alle DAT.
Tale ricerca, condotta nelle principali banche dati elettroniche (Medline, EMBASE, PASCAL Biomed)
ha portato a dei risultati molto interessanti. In realtà nessuno dei 5 presupposti teoretici esaminati
ha dimostrato un sufficiente livello di attendibilità. Le preferenze del paziente mostrano ampi ed
imprevedibili livelli di variabilità, peraltro crescenti nel tempo. Molto spesso i pazienti stilano le
MCNEIL BJ, PAUKER SG, SOX HC. JR ET AL. On the elicitation of preferences for alternative therapies. N Engl J Med.
1982; 306: 1259-1262; MAZUR DJ, HICKAM DH. Five-year survival curves: how much data are enough for patientphysician decision making in general surgery?. Eur J Surg. 1996; 162: 101-104.
3
TULSKY JA, FISCHER GS, ROSE MR ET AL. Opening the black box: how do physicians communicate about advanced
directives?. Ann Intern Med. 1998; 129: 441-449.
4
Ibid.
5
MALTONI M. Living will. J Med & Pers. 2007; 5: 97-100.
6
PROIETTI R. Il Testamento biologico - Direttive anticipate di trattamento. I problemi posti nella pratica clinica dalla
cura dei malati terminali (22 ottobre 2004). Padova; 2004 (accesso del 09.03.2009, a:
http://www.fondazionelanza.it/em/proietti.pdf).
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DAT in assenza di basilari conoscenze sia delle procedure che delle implicazioni delle scelte nei
diversi scenari clinici. La capacità di prevedere i desideri del paziente da parte dei fiduciari è
complessivamente scarsa ed in molti casi non avviene in misura più accurata di quanto reso
possibile dalla semplice casualità. Il pattern decisionale preferito dai pazienti consiste nella
capacità di condividere le decisioni da parte del medico e dei familiari. Infine la letteratura mostra
che i medici possono disattendere le DAT, non modificando le procedure standard, oppure che, nel
tentativo di uniformarsi a quanto espresso nelle DAT, possono mettere in atto condotte non
conformi ai migliori standard terapeutici e pregiudicare la salute dei pazienti.
In ambito medico succede spesso di trovarsi ad assumere decisioni in tempi rapidi: la
gravità e la irreversibilità delle decisioni richiedono la certezza e questa è vincolata alla sicurezza
nella conservazione del documento, che a sua volta ne riduce la facile ed immediata reperibilità.
Quanto più le DAT sono recepite come strumento “forte” di autodeterminazione e di autonomia,
tanto più si impongono al medico carichi ulteriori di lavoro; egli infatti deve recepire la notizia
dell’esistenza di un documento, deve talora attivarsi per apprenderne il contenuto, interpretarlo,
discuterlo con gli eventuali fiduciari e applicarlo al contesto clinico. Ciascuno dei passaggi è
soggetto all’errore connaturato alla fallibilità umana, in grado di contraddire proprio l’autonomia
auspicata. D’altra parte, se invece le DAT sono intese più come strumento per il miglioramento
delle cure e della qualità di vita del paziente, allora esse non possono sottrarsi all’analisi del profilo
rischio/beneficio/costi.
Ogni decisione verrebbe, allora, ricondotta a quella relazione medico-paziente che ha avuto
origine nel momento in cui la malattia ha portato il medico a professare la sua disponibilità alla
cura e nell’ambito della relazione medico-paziente l’assunzione di responsabilità è elemento
connaturale alla stessa funzione di medico.
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