contro per la revocazione - Il Diritto Amministrativo

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contro per la revocazione - Il Diritto Amministrativo
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N. 04660/2011REG.PROV.COLL.
N. 02205/2011 REG.RIC.
R E P U B B L I C A
I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2205 del 2011, proposto da:
Ministero dell'Economia e delle Finanze - Comando Generale Guardia di Finanza
- Centro Reclutamento G. di F., rappresentato e difeso dall'Avvocatura, domiciliata
per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Rolando Pusceddu, rappresentato e difeso dagli avv. Gianuario Carta, Felice
Ancora, con domicilio eletto presso Felice Ancora in Roma, via Rovereto N. 18;
per la revocazione
della sentenza del CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV n. 08020/2010, resa tra le
parti, concernente RISARCIMENTO DANNI PER GIUDIZIO DI NON
IDONEITA' ARRUOLAMENTO GDF
Visti il ricorso per revocazione e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Rolando Pusceddu;
Viste le memorie difensive;
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Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 19 aprile 2011 il Cons. Oberdan
Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Ancora e l'avv. dello Stato Greco;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con il ricorso in esame, il Ministero dell’economia e delle finanze – Comando
generale Guardia di Finanza, chiede la revocazione della sentenza 11 novembre
2010 n. 8020, con la quale questo Consiglio di Stato, sez. IV, in accoglimento
dell’appello proposto dal sig. Pusceddu Rolando, ha condannato detto Ministero al
risarcimento del danno cagionatogli dal provvedimento con cui era stato giudicato
non idoneo all’arruolamento nella Guardia di Finanza.
Secondo la sentenza impugnata, la ragione della ritenuta illegittimità del
provvedimento di non idoneità (annullato in un precedente giudizio) “non è stata
affatto ravvisata nella erroneità del giudizio medico – scientifico circa il carattere
invalidante della patologia riscontrata nel candidato (betatalassemia o anemia
mediterranea) . . . bensì nella erronea applicazione della normativa regolamentare
in materia di imperfezioni fisiche e patologie suscettibili di precludere
l’arruolamento”, posto che il D.M. 3 febbraio 1992 non comprende, tra le
patologie ed imperfezioni impeditive all’arruolamento, la betatalassemia (laddove
questa era contemplata dal previgente D.M. 21 dicembre 1997). Tale mancanza di
previsione, se non esclude in toto un possibile giudizio di inidoneità anche per tale
patologia, avrebbe però reso “necessaria una più analitica e puntuale motivazione
sul perché queste venivano giudicate invalidanti”.
Da ciò è conseguita la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno,
determinato in una somma pari al 50% delle retribuzioni che sarebbero state
corrisposte nel periodo decorrente dalla data del provvedimento di inidoneità
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all’attualità, con corrispondente regolarizzazione della posizione contributiva e
previdenziale, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, per la parte
eccedente la prima.
Avverso tale decisione, il Ministero dell’economia propone ora ricorso per
revocazione, ritenendo sussistere errore di fatto revocatorio, ex art. 395 n. 4 c.p.c.,
poiché il ricorso in appello del Pusceddu non è stato correttamente notificato.
Infatti, a fronte di quanto disposto dall’art. 11 R.D. n. 1611/1933, il Pusceddu ha
notificato il ricorso, non già all’amministrazione presso l’Avvocatura generale dello
Stato in Roma, bensì presso la sede dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di
Cagliari.
Ciò avrebbe comportato che il ricorso in appello avrebbe dovuto essere dichiarato
inammissibile, considerato anche che l’amministrazione non si è costituita in
giudizio, non producendosi dunque alcun effetto sanante.
In conclusione, l’amministrazione ha comunque argomentato, in relazione ad una
possibile fase rescissoria, in ordine alla infondatezza dell’appello.
Si è costituito in giudizio il Pusceddu, che ha preliminarmente eccepito
l’irricevibilità per tardività del ricorso per revocazione, per essere stato il medesimo
notificato
oltre
sessanta
giorni
dopo
la
notificazione
della
sentenza
all’amministrazione nel suo domicilio reale (disposta il 7 gennaio 2011 e ricevuta il
17 gennaio 2011, a fronte della notifica del ricorso avvenuta il 23 marzo 2011). Ha
comunque concluso per l’infondatezza di quanto rappresentato nel ricorso, con
riferimento al giudizio di appello.
All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.
DIRITTO
2. Il ricorso per revocazione è fondato e deve essere accolto, nei limiti e con le
conseguenze di seguito esposte.
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L’art. 41, comma 3, Cpa dispone che “la notificazione dei ricorsi nei confronti
delle amministrazioni dello Stato è effettuata secondo le norme vigenti per la difesa
in giudizio delle stesse”.
E’ appena il caso di ricordare che l’art. 11, primo comma, R.D. 30 ottobre 1933 n.
1611 (nel testo introdotto dall’art. 1 l. n. 260/1958), prevede che “tutte le citazioni,
i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad
ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni
amministrative o speciali, od inerenti ad arbitri, devono essere notificati alle
amministrazioni dello Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui
distretto ha sede l’Autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa, nella
persona del Ministro competente”.
Inoltre, l’art. 10, comma 3, l. 3 aprile 1979 n. 103, prevede che “l’art. 1 della legge
25 marzo 1958 n. 260, si applica anche nei giudizi dinanzi al Consiglio di Stato ed
ai Tribunali Amministrativi Regionali”.
Non vi possono essere, quindi dubbi, stanti l’espresso rinvio operato dal Codice e
la vigenza delle citate leggi speciali, che le notificazioni degli “atti istitutivi di giudizi
che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative” devono essere effettuate
non presso il domicilio reale dell’amministrazione statale, ma presso il domicilio
eletto ex lege presso l’Avvocatura dello Stato.
Inoltre, quest’ultima deve essere individuata in relazione al distretto in cui ha sede
l’autorità giudiziaria adita, di modo che, nel caso in cui il ricorso sia proposto
innanzi al Consiglio di Stato, la domiciliazione ex lege dell’amministrazione statale
è presso l’Avvocatura generale dello Stato in Roma.
Alla disciplina ora illustrata non si sottraggono il ricorso in appello e, più in
generale, i mezzi di impugnazione,
- sia in quanto la predetta disciplina speciale non limita affatto le particolari
disposizioni sulla domiciliazione al solo giudizio di I grado (anzi, il citato art. 10 l.
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n. 3/1979, espressamente enuncia l’applicabilità della regola anche per il giudizio
innanzi al Consiglio di Stato),
- sia in quanto l’art. 38 rende espressamente applicabili “anche alle impugnazioni e
ai riti speciali” le disposizioni del Libro II (se non espressamente derogate), tra le
quali rientra il già citato art. 41, comma 3, e quindi la applicabilità della speciale
disciplina inerente la domiciliazione delle amministrazioni statali.
Non può, quindi, trovare accoglimento quanto dedotto dal Pusceddu, laddove
afferma che l’art. 41, comma 3, non estende la disciplina speciale alla
“notificazione delle sentenze”.
A tal fine, oltre a quanto già esposto, occorre osservare che l’art. 92, comma 1, Cpa
prevede il termine “breve” di sessanta giorni per le impugnazioni “decorrenti dalla
notificazione della sentenza”, mentre, in difetto di notificazione, per il ricorso per
Cassazione e per il ricorso per revocazione nei casi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5, è
previsto il termine “lungo” di “sei mesi dalla pubblicazione della sentenza”.
Orbene, l’art. 92 disciplina, nell’ambito del processo amministrativo, la “cosa
giudicata formale”, allo stesso modo in cui dispone, per il processo civile, l’art. 324
c.p.c.. Ciò comporta che, al fine di ottenere il passaggio in giudicato della sentenza,
per effetto della conseguita improponibilità di ulteriori mezzi di impugnazione, la
parte che a ciò ha interesse (normalmente, la parte vittoriosa nel grado di giudizio)
è tenuta a notificare la sentenza non già nel domicilio reale dell’amministrazione,
bensì nel suo domicilio eletto ex lege, impedendosi, in caso contrario, il decorso
del termine “breve” per il passaggio in giudicato della sentenza.
Tale conclusione, desumibile dagli artt. 41, comma 3 e 92 Cpa e dall’art. 324 c.p.c.,
è ulteriormente rafforzata dalla dizione dell’art. 10, comma 3, l. n. 3/1979, il quale
prevede che la speciale disciplina della domiciliazione “si applica anche nei giudizi
innanzi al Consiglio di Stato ed ai Tribunali Amministrativi Regionali”, con ciò
non riferendosi solo all’ipotesi in cui l’amministrazione sia evocata in giudizio, ed
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agli atti a ciò finalizzati, ma anche, più in generale, ad ogni notificazione di atti
afferenti ai predetti giudizi, e quindi anche alla notificazione di sentenze, onde
farne decorrere i termini di impugnazione.
Da quanto finora esposto, consegue:
- in primo luogo, la reiezione della eccezione di irricevibilità per tardività del
ricorso per revocazione proposto dal Ministero dell’economia. Non essendo, per le
ragioni già chiarite, la notificazione della sentenza del Consiglio di Stato presso il
domicilio reale dell’amministrazione statale atto idoneo a far decorrere il termine di
sessanta giorni per la proposizione dei mezzi di impugnazione (quindi anche per la
revocazione cd. “ordinaria”), occorre applicare il diverso termine di “sei mesi dalla
pubblicazione della sentenza” (ex art. 92, co. 3 Cpa), con la conseguente, rilevata
tempestività del ricorso;
- in secondo luogo, la fondatezza del ricorso per revocazione, sussistendo a tutta
evidenza l’errore di fatto revocatorio, ex art. 395 n. 4 c.p.c, per non essere stato
l’appello al Consiglio di Stato avverso la sentenza del TAR, notificato
all’amministrazione presso l’Avvocatura generale dello Stato (in luogo
dell’avvenuta notifica presso l’Avvocatura distrettuale, domiciliataria ex lege nel
giudizio di I grado), e per non essere stato ciò rilevato – a fronte del difetto di
costituzione dell’amministrazione, e quindi in assenza di fatti “sananti” – da questo
Consiglio di Stato.
3. Affermata, quindi, la sussistenza dell’errore di fatto revocatorio e la fondatezza
del proposto ricorso per revocazione, il Collegio deve verificare quali siano gli
effetti della positiva conclusione della fase cd. rescindente del giudizio per
revocazione, laddove l’errore di fatto revocatorio consista in un difetto di notifica
(entro il perentorio termine previsto dal Codice) del ricorso in appello, senza che
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l’amministrazione, costituendosi, abbia sanato la nullità afferente alla instaurazione
del contraddittorio.
L’amministrazione ricorrente ritiene che “alla revocazione della sentenza de qua
non può che far seguito – stante l’evidenziato difetto di notifica (non sanato) – la
declaratoria di inammissibilità dell’avversario ricorso in appello, con conseguente
intangibilità della sentenza di I grado”.
Il Collegio non condivide tale avviso e ritiene che l’accoglimento del ricorso per
revocazione, laddove l’errore di fatto consista nell’omesso rilievo da parte del
giudice del difetto di notifica del ricorso in appello, comporti esclusivamente la
“rescissione” della sentenza impugnata e la nuova celebrazione del giudizio di
appello, questa volta con contraddittorio integro, così consentendo anche alla parte
già ingiustamente pretermessa l’inviolabile esercizio del diritto di difesa.
E’ ben noto che la Corte Costituzionale, con sentenza 26 giugno 1967 n. 97, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, co. 1, R.D. n. 1611/1933, nella
parte in cui esclude che l’intervenuta costituzione in giudizio dell’amministrazione
sani la nullità della notifica.
A tale situazione, si riferisce anche, in via generale, l’art. 156, co. 3, c.p.c., in base al
quale “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a
cui è destinato”.
Analogo principio è ora affermato, proprio con riferimento alla nullità della
notificazione, dall’art. 44, co. 3, Cpa (applicabile anche ai giudizi di impugnazione,
ex art. 38 Cpa), secondo il quale “la costituzione degli intimati sana la nullità della
notificazione del ricorso”.
Anche la giurisprudenza amministrativa, sia pure non univocamente, ha ammesso
la sanatoria della nullità del ricorso per difetto di notifica, per effetto della
costituzione in giudizio dell’intimato, con conseguente esclusione di pronuncia di
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inammissibilità del ricorso per decorso del termine decadenziale (Cons. Stato, sez.
V, 10 marzo 2009 n. 1384; sez. VI, 10 settembre 2007 n. 4747).
Orbene, come è noto la revocazione comporta una fase rescindente, nell’ambito
della quale il giudice esamina la fondatezza del ricorso e, una volta riscontratala,
revoca la sentenza impugnata; ed una fase rescissoria, nella quale il giudice procede
ex novo al giudizio, emendato della causa che ha determinato la revocazione della
sentenza già pronunciata.
Se tale è lo schema tipico del giudizio di revocazione, ne consegue che, qualora la
parte proponga ricorso per revocazione al solo fine di far rilevare la nullità della
notifica del ricorso in appello, il giudice non può esimersi dall’espletamento della
cd. fase rescissoria, ed in questo nuovo giudizio la parte, in origine pretermessa,
risulta costituita, proprio per effetto del proposto ricorso per revocazione, così
sanando la nullità della notifica.
Tale risultato non è affatto irrilevante o privo di effetti, in quanto ciò che la nullità
della notifica ha comportato è stata la violazione del diritto di difesa della parte
non ritualmente evocata in giudizio; per effetto del ricorso per revocazione, il
giudizio risulta ora ritualmente instaurato ed il giudice può ora esaminare i motivi
del ricorso in appello, anche alla luce delle controdeduzioni della parte appellata,
così come può esaminare l’eventuale appello incidentale da questa proposto.
D’altra parte, se la mancanza dell’integrità del contraddittorio e la lesione del diritto
di difesa determinano, ex art. 105 Cpa, la rimessione della causa al primo giudice
(non potendo la parte incolpevole perdere un grado di giudizio), in modo analogo
l’accoglimento del ricorso per revocazione invocante la (non rilevata) nullità della
notifica del ricorso in appello, determina la nuova celebrazione del (grado del)
giudizio a contraddittorio integro e nel pieno rispetto del diritto di difesa.
Da ultimo, è utile ricordare che anche la regola della notifica all’amministrazione
statale presso la Avvocatura dello Stato che ha sede nel medesimo distretto ove ha
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sede il giudice adito, costituisce un’eccezione alla regola generale espressa dall’art.
93 Cpa, secondo il quale “l’impugnazione deve essere notificata nella residenza
dichiarata o nel domicilio eletto dalla parte nell’atto di notificazione della sentenza
o, in difetto, presso il difensore o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto
per il giudizio e risultante dalla sentenza”.
Tale deroga alla disciplina generale, che costituisce un evidente favor, riconosciuto
all’amministrazione statale in sede processuale, al fine di meglio consentirne il
diritto di difesa, ben può essere considerata ragionevole, in considerazione degli
interessi pubblici dei quali l’amministrazione statale è portatrice. Nondimeno,
l’applicazione di tale regola deve trovare i giusti contemperamenti, non potendo
essa risolversi in una compressione del diritto alla tutela giurisdizionale del privato
nei confronti della pubblica amministrazione statale, e ciò attraverso una
applicazione rigida e formale, che, impedendo di giudicare nel merito, si risolva in
una non ammissibile compressione del diritto di difesa.
Ove ciò fosse, occorrerebbe dubitare della legittimità costituzionale degli artt. 11
R.D. n. 1611/1933 e 10, l. n. 103/1979, di modo che degli stessi – pur riconosciuti
ragionevoli - non può essere data se non una interpretazione costituzionalmente
orientata che, sulla scorta della citata sentenza n. 97/1967 della Corte
Costituzionale, bilanci la deroga alla disciplina generale della notificazione degli atti
con la sanabilità della nullità della notifica per mezzo della intervenuta costituzione
in giudizio.
E ciò è quanto accade anche nella fase rescissoria del giudizio di revocazione, per
effetto dell’accoglimento del relativo ricorso.
4. Il Collegio, esaminato il ricorso in appello e le deduzioni del Ministero
dell’economia (pagg. 16 – 20 del ricorso) ritiene di non doversi discostare dalle
conclusioni cui era giunta la (revocata) sentenza n. 8020/2010, dovendosi
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accogliere l’appello del Pusceddu, con conseguente riforma della appellata sentenza
del TAR Sardegna, 13 dicembre 2005 n. 2273.
Il ricorrente Pusceddu nel 1992 ha partecipato a un concorso per l’arruolamento
nel Corpo della Guardia di Finanza all’esito del quale, pur avendo superato tutte le
prove, è stato giudicato fisicamente non idoneo perché affetto da “emopatia della
serie rossa” (e cioè da betatalassemia, o anemia mediterranea).
Il T.A.R. della Sardegna ha annullato tale provvedimento con sentenza n..
1187/1994, confermata da questa Sezione con decisione n. 1937/2003.
Nel
presente
giudizio,
il
signor
Pusceddu
ha
chiesto
condannarsi
l’Amministrazione al risarcimento del danno cagionatogli dal suo illegittimo
operato, sul rilievo che il lungo lasso di tempo decorso rendeva ormai impraticabile
una tutela per equivalente. La sentenza impugnata nella presente sede ha però
respinto la domanda attorea, reputando insussistente l’elemento psicologico della
colpa dell’Amministrazione.
Il primo giudice ha sostenuto l’insussistenza della colpa dell’Amministrazione sul
rilievo che solo in epoca successiva a quella del provvedimento lesivo (che è del 7
aprile 1993) le conoscenze scientifiche sull’affezione “betatalassemia” (o “anemia
mediterranea”) sarebbero progredite al punto da escluderne il carattere invalidante
e preclusivo dell’arruolamento per i soggetti, come l’odierno appellante, che ne
risultassero “portatori sani”.
Tuttavia, al contrario di quanto affermato nella sentenza impugnata, risulta fondata
la prospettazione di parte appellante secondo la quale, come è dato evincere dalla
lettura delle sentenze con cui si è definito il giudizio di annullamento del
provvedimento di inidoneità (in particolare, la n. 1937/2003 di questa Sezione), la
ragione della ritenuta illegittimità di tale atto non è stata affatto ravvisata
nell’erroneità del giudizio medico-scientifico circa il carattere invalidante della
patologia riscontrata nel candidato, bensì nell’erronea applicazione della normativa
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regolamentare in materia di imperfezioni fisiche e patologie suscettibili di
precludere l’arruolamento.
In particolare, l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione si è sostanziata
nell’erronea applicazione del decreto ministeriale 3 febbraio 1992, contenente
l’elencazione delle predette imperfezioni e patologie, nell’ambito del quale non
erano ricomprese le affezioni riconducibili alla suindicata “betatalassemia”; si è
altresì aggiunto che, pur non essendo esclusa in toto la possibilità di un giudizio di
inidoneità anche per patologie non ricomprese nell’elencazione de qua, in tal caso
sarebbe stata necessaria una più analitica e puntuale motivazione sul perché queste
venivano giudicate invalidanti (ciò che non è avvenuto nel caso di specie).
Inoltre, come correttamente sottolineato dall’appellante, il silenzio del d.m. 3
febbraio 1992 sulle patologie ematiche del tipo di quella che qui interessa assumeva
maggior significato a fronte del fatto che il previgente d.m. 21 dicembre 1987,
invece, riportava fra le patologie ritenute invalidanti la “talassemia senza
espressione emolitica”: ciò che a fortiori dimostrava l’intento del legislatore di
escludere dette patologie dal novero di quelle impeditive dell’arruolamento.
Quest’ultima circostanza, ad avviso della Sezione, avrebbe dovuto avvertire
l’Amministrazione quanto meno della necessità di dedicare una particolare
attenzione alla motivazione posta a base del giudizio di inidoneità espresso nei
confronti dell’odierno appellante, e non può non essere ritenuta fortemente
indicativa, nella fattispecie, di una negligenza idonea e sufficiente a fondare un
giudizio di sussistenza dell’elemento della colpa dell’Amministrazione, integrativo
dell’ipotizzato illecito aquiliano; un elemento, quest’ultimo, che non discende
affatto, in modo automatico (e non condivisibile) dalla mera illegittimità dell’atto –
così come correttamente segnala l’amministrazione – ma che è appunto
conseguente ad una indagine sulla sussistenza della colpa che, per le ragioni
esposte, può ritenersi satisfattoria.
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Né rileva, alla luce delle considerazioni esposte, che la patologia della quale il
Pusceddu era affetto fosse reale (circostanza, peraltro, che non risulta negata),
posto che ciò che assume importanza è l’assenza di tale patologia dall’elenco di
quelle impeditive dell’arruolamento, di modo che una eventuale conclusione
negativa (come nel caso di specie) avrebbe avuto necessità di congrua motivazione.
Allo stesso modo, non può assumere rilievo, ai fini dell’esclusione della
responsabilità, né la circostanza che “per ben due volte codesto Consiglio di Stato
ha ritenuto seppur nella fase cautelare fondate le ragioni dell’amministrazione”, né
il fatto che, avendo le ordinanze cautelari spiegato i loro effetti, “per tutto tale
periodo non può parlarsi assolutamente di danno, poiché sicuramente
l’amministrazione era pienamente legittimata a non procedere all’arruolamento e
poi perché non possono esserle addebitati i tempi del processo”.
Quanto al primo aspetto, è del tutto pacifico che le considerazioni svolte dal
giudice in sede cautelare, in prima delibazione del fumus boni iuris del ricorso,
costituiscono una valutazione che si esaurisce nel mero ambito della fase cautelare
e che non impegna il giudizio nel merito, né è spedibile al di là dei limitati fini della
concessione (o del diniego) della misura cautelare.
Quanto al secondo aspetto, la tutela cautelare (richiesta dalla parte e non concessa
ex officio dal giudice), se produce l’effetto di conservare la res iudicanda integra
per il momento in cui interverrà la sentenza, medio tempore evitando pregiudizi
gravi ed irreparabili per la posizione giuridica della parte richiedente, non può al
tempo stesso costituire una esimente della (eventuale) responsabilità di
quest’ultima e della obbligazione risarcitoria ad essa connessa.
Alla luce dei rilievi che precedono, e tenuto conto della pacifica sussistenza degli
ulteriori elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. – essendo evidente
l’ingiustizia del danno in virtù della già accertata illegittimità del provvedimento di
inidoneità, ed essendo palese il nesso di causalità fra tale atto e il pregiudizio
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lamentato dall’appellante, che consiste nel mancato conseguimento di un
arruolamento dovuto, stante l’esito delle prove concorsuali -, s’impone la riforma
della sentenza impugnata con l’accoglimento della domanda risarcitoria proposta
dall’appellante.
In ordine alla quantificazione del danno risarcibile, e principiando dal lucro
cessante, non può accogliersi la richiesta di parte appellante, che ha chiesto
commisurarsi tale danno alle retribuzioni non percepite a partire dalla data del
mancato arruolamento.
Infatti, come già in occasioni analoghe sottolineato da questa Sezione e condiviso
dalla prevalente giurisprudenza della Suprema Corte, in sede di quantificazione per
equivalente del danno in ipotesi di omessa o ritardata assunzione, questo non si
identifica in astratto nella mancata erogazione della retribuzione e della
contribuzione (elementi che comporterebbero una vera e propria restitutio in
integrum e che possono rilevare soltanto sotto il profilo, estraneo al presente
giudizio, della responsabilità contrattuale), occorrendo invece caso per caso
indicare e dimostrare l’entità dei pregiudizi di tipo patrimoniale e non patrimoniale
che trovino causa nella condotta illecita del datore di lavoro (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 6 luglio 2009, n. 4325; Cass. civ., sez. un., 14 dicembre 2007, n. 62282 e 21
dicembre 2000, n. 1324).
Tanto premesso, nel caso di specie se certamente è intuitivamente percepibile
l’esistenza di un pregiudizio materiale per effetto del mancato arruolamento,
occorre però tener conto del fatto che l’appellante, per il periodo di mancata
assunzione, non ha dovuto impegnare le proprie energie nell’esclusivo interesse
dell’Amministrazione, ma ha potuto rivolgerle alla cura di ogni altro interesse, sia
sul piano lavorativo che del perfezionamento culturale e professionale (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 29 ottobre 2008, nr. 5413; sez. V, 25 luglio 2006, n. 4645; C.g.a.r.s.,
20 aprile 2007, n. 361).
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Pertanto, il danno risarcibile può essere quantificato equitativamente e, in
applicazione del combinato disposto degli artt. 2056, commi 1 e 2, e 1226 c.c.,
determinato in una somma pari al 50 % delle retribuzioni che sarebbero state
corrisposte nel periodo decorrente dalla data del provvedimento di inidoneità (7
aprile 1993) a tutt’oggi, con esclusione di quanto a qualsiasi titolo percepito
dall’interessato nel medesimo periodo per attività lavorative; al riconoscimento
delle spettanze retributive si ricollega l’obbligo di regolarizzazione della posizione
contributiva e previdenziale (nei limiti innanzi precisati).
Le somme così determinate andranno incrementate per rivalutazione monetaria e
interessi compensativi al tasso legale, questi ultimi nella misura eccedente il danno
da svalutazione, da calcolarsi a partire dalla data di pubblicazione della sentenza.
Non può trovare accoglimento, invece, l’ulteriore domanda intesa al risarcimento
dei danni morali ed esistenziali che l’appellante assume di aver patito, siccome non
assistita dal sia pur minimo principio di prova.
Pertanto, non può aderirsi alla prospettazione dell’istante, secondo cui lo stato
depressivo (peraltro non documentato) accusato dal signor Pusceddu e il
conseguente ritardo nel reperimento di altro impiego sarebbero da ricondurre
causalmente alla frustrazione cagionata dalla vicenda amministrativa per cui è
causa, piuttosto che alle ordinarie e notorie difficoltà che affliggono il mercato del
lavoro, anche in territori come quello della Regione Sardegna.
In conclusione, occorre ordinare all’Amministrazione appellata, ai sensi dell’art. 34,
comma 4, Cpa, di formulare un’offerta risarcitoria sulla base dei criteri sopra
individuati, nel termine di sessanta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione
in via amministrativa della presente sentenza.
Qualora tra le parti non si raggiunga l’accordo sulla somma da corrispondere, alla
determinazione di questa provvederà questa Sezione in sede di ottemperanza, su
richiesta di parte.
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Stante la natura delle questioni trattate, e le particolari vicende del presente
giudizio, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed
onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione proposto dal Ministero
dell’economia e delle finanze (n. 2205/2011 r.g.):
a) lo accoglie e, per l’effetto, dispone la revocazione della sentenza del Consiglio di
Stato, sez. IV, 11 novembre 2010 n. 8020;
b) giudicando dell’appello proposto da Pusceddu Rolando (n. 2747/2006 r.g.), lo
accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza TAR Sardegna n. 2273/2005,
accoglie il ricorso in I grado, nei sensi di cui in motivazione;
c) compensa tra le parti le spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 aprile 2011 con
l'intervento dei magistrati:
Anna Leoni, Presidente FF
Sergio De Felice, Consigliere
Raffaele Potenza, Consigliere
Guido Romano, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 03/08/2011
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
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