La capra, l`agnello, l`acqua
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La capra, l`agnello, l`acqua
Vincenzo Mercante La capra, l'agnello, l'acqua Inviato da Vincenzo Mercante giovedì 20 marzo 2008 Incanta un piccolo capolavoro fra i 72 libri della Sacra Scrittura, quello di Tobia. Racconta che il giovane Tobia, per incontrare la futura sposa Sara, intraprende un lungo viaggio assistito da un angelo ed accompagnato da un cane. I tre, secondo il pensiero rabbinico, non solo hanno il respiro dei viventi, ma, attraversando pianure, boschi e fiumi, constatano che in qualche misura anche le piante, gli animali, le cose tutte provano dei sentimenti e sembrano trasmettere gemiti di pianto, di lode, di ringraziamento al Creatore, ma anche versare lagrime sommesse se a loro viene tolta la vita anzitempo. Con tali gesti vorrebbero far capire ai tagliatori furenti e sudati e ai cacciatori ingordi che “Dio anche con loro ha stabilito la sua alleanza come con ogni essere con gli uccelli selvatici e con tutti gli animali che sono usciti dall’arca di Noè”. Qualsiasi filo d’erba allora ha una sua voce, come il mare solcato dai cetacei e dai pesci che vi guizzano dentro, come il cielo punteggiato di astri, come le terre infuocate ed aride del Sinai e del Negheb, come le pianure di Esdrelon biancheggianti di messi. Il profeta Osea strappa a Dio questa promessa: “Farò un’alleanza con le bestie della terra, con gli volatili che solcano i cieli, con i rettili striscianti nella polvere; annienterò ogni spada, farò sparire l’arco e la lancia e tutti potranno dormire sicuri attorno ai loro focolari”. In questo idilliaco contesto “il lupo e l’agnello, la pantera e il capretto, il vitello e il leoncello, la mucca e l’orsa, il bambino che si trastulla sulla buca dell’aspide vivranno la pienezza dell’armonia, inneggiando al Principe della pace, mentre tutti i popoli forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci e non eserciteranno più nell’arte della guerra”. Avrà termine anche il dolore per il popolo ebraico? Quel dolore che trascina e travolge le generazioni da secoli potrà si dissolversi in “mai più deportazioni e stermini”? E se il capro espiatorio continuerà ad essere spinto nel deserto quale offerta sacrificale, il popolo ebraico mai più ricalcherà le piste segnate dai piedi sanguinanti degli schiavi avviati a scavare fossati e canali a Babilonia dietro il carro del trionfatore Nabucodonosor, e neppure la massa di rematori curvi sui remi delle grandi navi romane solcanti il Mediterraneo con le vele splendenti marcate dalle insegne di Tito atteso a Roma per celebrare il suo trionfo nella guerra giudaica del 70 dopo Cristo. I grandi massi e le maestose arcate del futuro anfiteatro Flavio o Colosseo per anni avrebbero odorato del sangue di oltre 30.000 ebrei, costretti sotto la sferza a squadrar pietre le mani sanguinanti e il cuore lacerato nel pensiero della patria perduta, di Gerusalemme incendiata e del Tempio fumante. Il gran sacerdote nello giorno dello Yom Kippur scaricava sul corpo del capro le colpe dell’intera nazione. Ma esistevano colpe nazionali così gravi da giustificare catene, deportazioni, annientamenti totali? Ti si caccia nella memoria l’olocausto bimillenario che, con la Shoa, ti riporta al satanico nell’uomo e alla cattiveria prepotente di troppi imperatori e conquistatori! “o Israele, amato e prediletto, sei stato condotto al macello per riportare il diritto alle nazioni, per intercedere per i peccatori, per caricarti dell’iniquità dei molti, per giustificare i tutti. Ma chi ti potrà giudicare colpevole”? Quel ferro spinato che stringeva i polsi dei Giudei avviati laceri verso Babilonia dai giardini pensili e lo sfarzose dimore persiane richiama per analogia la corda che invano la capra di Saba cercava forse di forzare oppure no, perché si era rassegnata forse al suo destino di incatenata. Ma il poeta, identificando animali e uomini, rinviene che il dolore è eterno, ha una voce e non varia e il belato è la regola della vita e perciò sente fraterna a sé e al popolo ebraico quella voce che testimonia il male di vivere di Montale. “Ho parlato ad una capra. Era sola sul prato, era legata. Sazia d’erba, bagnata Dalla pioggia, belava. In una capra dal viso semita Sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita”. (Saba Umberto, da Casa e Campagna). La capra quasi sempre è inquadrata in un gregge, costituito prevalentemente da pecore. Nella Bibbia la docilità naturale della pecora e la sua dipendenza dal pastore incarnano il rapporto stretto fra Dio e l’uomo. Anche nell’iconografia cristiana trionfa nell’arte paleocristiana soprattutto e nei mosaici bizantini la figura del Buon Pastore che reca sulle spalle la sua pecora in atteggiamento di sollecita paternità. “Gli agnellini poi li porta sul petto e conduce piano le pecore madri”. Fin dai tempi di Abele, non solo presso Israele, ma in tutto l’arco mediorientale, l’agnello era la vittima sacrificale per eccellenza; come nessun altro animale infatti si lascia condurre docilmente all’altare, emettendo appena deboli e sofferti belati. Il secondo Isaia, preso da inimitabile slancio lirico, canta una figura misteriosa che, interpretata in chiave messianica, assume i lineamenti precisi del Redentore che “maltrattato si lasciò umiliare senza aprir bocca; era come agnello condotto al macello che si lasciava immolare per la liberazione dell’intero gregge umano”. Gia nel libro dell’Esodo il sangue di un agnello, cosparso sugli stipiti delle case ebraiche, aveva allontanato la furia dell’angelo sterminatore che era invece penetrato in ogni edificio egiziano per sterminarne ogni primogenito. A perenne ricordo, la festa di Pasqua doveva annualmente fare rivivere la memoria nella comunità ebraica , la memoria http://www.vincenzomercante.it Realizzata con Joomla! Generata: 16 March, 2017, 11:56 Vincenzo Mercante dell’evento dell’esodo, principio di liberazione dalle sgrinfie del Faraone ed inizio di consacrazione al Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Ogni anno, la sera del 14 Nisan, i padri di famiglia immolavano nell’atrio del tempio di Gerusalemme un agnello di un anno, senza macchia, posto da Dio stesso a segno di salvezza, a simbolo di purificazione da ogni divinità pagana, a consacrazione di popolo prediletto. Il Vangelo di Giovanni insiste sul fatto che Gesù muore nella stessa ora in cui nel tempio venivano sgozzati gli agnelli e l’apostolo Paolo scrive che “Cristo infatti, nostra Pasqua, è stato immolato”. Anche sul trono apocalittico della gloria l’Agnello porta le stimmate del suo sacrificio, ma sta in piedi, è risorto, pronto a guidare i suoi fedeli alle fonti delle acque della vita (Ap 5, 6). Il compimento del regno di Dio viene paragonato a nozze, in cui Cristo nella figura di dell’agnello si unisce per sempre alla sua sposa, la comunità dei credenti (Ap 19. 7). Il tema delle nozze si risolve secondo il libro dell’Apocalisse in quello della Gerusalemme celeste, sposa dell’Agnello (Ap. 21, 9). Ma già nel profeta Osea circa verso la metà del secolo VIII Dio è presentato come sposo d’Israele per indicare la profondità e l’intimità dell’alleanza che unisce il popolo eletto al suo Signore. I giorni della letizia nuziale coincidono con il tempo della vita di Gesù e si prolungano per tutto il tempo della Chiesa, fino al glorioso ritorno del Cristo che, dall’alto della sua maestà, separerà i capri dagli agnelli. La cristianità si è impadronita subito della figura dell’agnello, stilizzandolo nelle catacombe, raffigurandolo maestosamente mansueto nei catini absidali e sui capitelli di tante chiese non solo paleocristiane. Maestri rimangono i mosaicisti bizantini che sia nel territorio e nella città di Ravenna sia nella Sicilia normanna - a Monreale, Cefalù, e nel palazzo reale di Palermo - lasciarono ai posteri insigni esempi di mirabili cicli musivi, in cui l’agnello, seppure a volte in trono, spande all’intorno una nota di serena mansuetudine e innocente umiltà. E nelle liturgie di tutte le stagioni, le maestose cattedrali, le chiese di stile romano e gotico, ed anche le semplici parrocchiali riecheggiano delle supplici preci e dei possenti canti dell’Agnello divino che toglie i peccati del mondo. Per le popolazioni dell’Arabia il cavallo era certamente l’animale più amato e desiderato. Immagine di spirito bellicoso e di fierezza in quanto sempre pronto per la corsa e per la battaglia era segno di ricchezza ed ostentazione di potere. In tutte guerre, e non solo nell’antichità, la cavalleria costituiva l’arma vincente di tutte le battaglie. Ma il destriero veloce e superbo è stato da sempre l’orgoglio di ogni comandante in capo: splendido nella sua bardatura rendeva più carismatica la figura del generale che passava in rassegna le truppe. Infiniti sono poi i monumenti equestri a perenne memoria di condottieri famosi, da Alessandro Magno a Garibaldi. Già presso i popoli mesopotamici i cavalli bianchi indicavano il dio della luce, i neri erano attributi della dea della notte. Il dio greco Helios percorreva il cielo su una bianca quadriga. Astante, dia della fecondità e della guerra dei semiti, era denominata “signora dei cavalli”. Il grande storico greco Erodoto lasciò scritto che i Persiani lo usavano per le divinazioni. Secondo la Bibbia i cavalli hanno incarnato le potenze angeliche e, quando Dio si erge giudice del cosmo, appaiono i cavalli apocalittici apportatori di guerra, fame e morte. Eppure per i beduini della Mecca e di Medina, ma soprattutto per le tribù arabe sparse a macchia sull’assolato deserto arabico, era l’acqua l’elemento vitale, necessario alla sopravvivenza in un ambiente ostico e bruciato da un sole cocente. Il profeta Muhammad ha sviluppato nel Corano un’originale simbologia dell’acqua, ben sollecitato dalle sue esperienze di carovaniere. In Arabia i pozzi assicuravano i pascoli ai nomadi, favoriva gli insediamenti nelle oasi, determinavano i tracciati per le carovane. “Per contro la mancanza di acqua ha plasmato i caratteri, le consuetudini e l’abilità di uomini ed animali, adusi alla difficile arte del sopravvivere muovendosi in deserti sassosi e sabbiosi. Il profeta ha quindi elaborato una semantica dell’acqua con finalità religiose peculiari e il Corano la nomina 63 volte nei 6236 versetti”. Come nelle altre due religioni abramitiche, anche nel Corano l’acqua, come elemento della creazione, è un segno meraviglioso dell’armonia e dell’ordine del cosmo che testimoniano l’Unità e l’Unicità di Dio misericordioso. “Egli è Colui che invia i venti come annuncio che precede la sua misericordia; facciamo scendere poi dal cielo un’acqua pura, per vivificare con essa la terra morta e dissetare molti degli animali e degli uomini che ho creato”. Come il susseguirsi del giorno e della notti, i venti, i tuoni, la pioggia e la vita che rinascono in una terra arida sono segni della potenza di Allah. Come la pioggia ridà la vita ad una terra morta così la rivelazione riporta alla vita dello spirito le anime degli uomini avvolte nella notte dell’indifferenza, del paganesimo e della miscredenza” (Sura 25, 48.49 con rispettiva nota). Nella sura 8, 11 l’acqua è il mezzo del soccorso divino nei confronti dei musulmani per permettere loro la vittoria sui nemici: si noti per inciso che episodi simili sono presenti sia nella storia ebraica che cristiana. “E quando vi avvolse nel sonno come un rifugio da parte sua, fece scendere su di voi acqua dal cielo, per purificarvi e scacciare da voi la sozzura di Satana, rafforzare i vostri cuori e rinsaldare i vostri passi”. La pioggia, si dice in nota, cade per testimoniare la benevolenza di Allah sui combattenti per la causa islamica. La precipitazione ebbe due importanti conseguenze: una di ordine tattico e materiale, l’altra di ordine etico e spirituale. Compattò il terreno sabbioso sui si trovavano i musulmani evitando la polvere e trasformò in un lago di fanghiglia le posizioni avversarie, ostacolando la manovra degli uomini e dei cavalli. D’altra canto permise ai credenti di praticare la purificazione rituale maggiore conseguente un rapporto sessuale. Il testo fa notare che durante la caduta della pioggia i soldati furono immensi in una specie di sonnolenza, breve e profonda, per cui non si accorsero di nulla (meglio sarebbe dire che l’invento celeste venne adombrato, invisibile, anche se gli effetti furono visibili). http://www.vincenzomercante.it Realizzata con Joomla! Generata: 16 March, 2017, 11:56 Vincenzo Mercante L’acqua compare tra i beni e i tormenti escatologici. Diventa segno della risurrezione dei corpi, essendo la pioggia pure metafora della seconda creazione… “suscitiamo un nuvola, facciamo discendere l’acqua con la quale risuscitiamo ogni tipo di frutti. Così risusciteremo i morti” (7, 54.56). Elemento vitale per l’esistenza in un’Arabia desolata, l’acqua diviene il simbolo delle gioie paradisiache: “Nel giardino ci saranno ruscelli di acqua che mai sarà malsana, ruscelli di latte dal gusto inalterabile e ruscelli di vino delizioso a bersi, ruscelli di miele purificato. E ci saranno per loro ogni sorta di frutta e il perdono del loro Signore” (47, 15). Irrigato da fiumi, nel luogo paradisiaco pascolano greggi amabili, crescono frutteti deliziosi, sono presenti materiali preziosi, perché la gioia celeste è la sintesi e l’abbondanza delle gioie terresti. Riguardo all’inferno la tradizione islamica lo colloca sottoterra con sette gironi gerarchici e concentrici. I dannati subiscono la pena eterna, in una condizione che non si può definire né di vita né di morte. Il supplizio principale è il fuoco, ma anche l’acqua tormenta i dannati. Anticipazioni delle delizie paradisiache sono i magnifici giardini dell’Andalusia. I jardines de l’Alcàzar a Siviglia brillano per le terrazze ad aranci e palme che sfociano nel Barrìo de Santa Cruz, i cui patios trionfano di fiori, ornati da colonne, fontane e ferri battuti. Al patios de los Narajos era l’area delle abluzioni della moschea, come ricorda la fontana di epoca visigotica avvolta da alberi e fiori. A Cordoba il patios de los Narajos accoglie il visitatore con gli alberi di arancio e di palme in un tripudio di portici, archi moreschi e fontane, di cui una a grande bacino detta di Al Mansur richiama l’ambiente aristotelico nel quale il filosofo Averroè teneva lezione. A Granata i giardini del Generalife sfociano nel patio de la acequìa, attraversato da un canale cui fanno corona getti d’acqua. Il profumo dei mirti, dei cipressi, degli aranci e dei roseti avvolge il visitatore in un clima di distesa serenità paradisiaca. Ecco perché doverosa era sempre la preghiera di lode e di ringraziamento ad Allah per aver lasciato cadere sulla terra un lembo del suo regno celeste. http://www.vincenzomercante.it Realizzata con Joomla! Generata: 16 March, 2017, 11:56