Il credente Bo e la letteratura come vita

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Il credente Bo e la letteratura come vita
TESTIMONIANZE
Il credente Bo e la letteratura
come vita
di Renato Bertacchini
Una caratteristica dell’uomo Carlo Bo, intellettuale cattolico, militante da oltre mezzo secolo – l’esordio a ventiquattro anni col
Jacques Rivière (1935) – era la singolare, estrema modestia rispetto al proprio lavoro. Benemerenze e qualifiche di dominio pubblico investivano la sua persona: caposcuola dell’ermetismo; docente di letteratura francese dal 1939 presso l’Università di Urbino; dal 1947 rettore dello stesso ateneo; senatore a vita per meriti
culturali dal 1984. Eppure, nonostante i riconoscimenti, nonostante i molteplici, diffusi interessi del critico letterario, del saggista, del commentatore civile e religioso, quasi tutti i suoi libri scarseggiano in giro. L’opera completa di Bo edita da Vallecchi resta
ferma a L’eredità di Leopardi (1964) e a La religione di Serra
(1967). E in libreria è già molto se si trova Sulle tracce del Dio nascosto, un Oscar Mondadori del 1984, che raccoglie 67 articoli di
meditazione postconciliare pubblicati sul Corriere della Sera.
Alla mobile, generosa disponibilità del pensiero di Bo, alla
chiarezza immediata con cui sorprendeva di colpo i segni culturali e morali dei tempi, si direbbe rispondessero per contrapposto
personale noncuranza, pratico disinteresse e comunque atteggiamenti di sospensione. A Bo importava meno raccogliere i suoi
scritti e ordinarli. E quando accettava di farlo, la raccolta e la redazione in volume venivano spesso eseguite da altri, da amici.
Questa non premura, questa carenza di iniziativa editoriale da
parte di Bo appartiene ad «uno spirito mistico di scrittore, che riversa interamente se stesso in ciascuno scritto seguente, epperò gli
appare superfluo e meramente mondano e ambizioso il momento
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dell’anteriorità», la faccenda del prima e del dopo. La spiegazione
di Oreste Macrì, che abbiamo citato, persuade a fondo, conviene
ad aprire la nostra lettura per la recente scomparsa di Carlo Bo, il
21 luglio 2001.
1. Lettore-monstre: tradizione cattolica francese (Jacques Rivière) e
mistici spagnoli
Oggi si confermano, prendono significato le laboriose vicende di
un’intera vita trascorsa all’insegna della meditazione e del silenzio, del leggere e dell’ascoltare. Pensose battute e proverbiali silenzi (all’ombra protettiva dell’immancabile sigaro) hanno governato per anni la presidenza di Bo al Premio Campiello. È rimasta
agli atti quella volta famosa in cui sbottò «ma perché scrivono libri così brutti?» Un prorompere ragionato, coltivato a lungo. Verso il 1930, tra i giovani collaboratori della rivista cattolica Il Frontespizio, il ligure Bo – nato a Sestri Levante il 25 gennaio 1911 – si
merita a Firenze l’appellativo di «Bo muto». Il cognome monosillabico Bo viene rifatto sul «Bue muto», con cui nel Duecento gli
studenti parigini chiamavano Tommaso d’Aquino, grande, bruno,
dall’aria appunto silenziosa e pacifica. Come contropartita alla riservatezza e al mutismo, il giovane Bo ha fama precoce di lettore
accanito. Il poeta e francesista Mario Luzi, compagno di strada
nell’esperienza ermetica, parla di lettore-monstre, dalle letture
enormi: Pascal, Bossuet, tutta la tradizione cattolica francese, Péguy, Claudel, Mauriac, Bernanos, Charles du Bos; nel periodo in
cui gli altri avevano letto qualcosa, «lui aveva divorato scaffali,
aveva tutte le disponibilità alla lettura». Per Bo erano comunque
fondamentali la lettura, l’ascolto, la meditazione e la decantazione
interna. L’intellettuale credente che soffre per l’assenza della figura umana nella letteratura e nella cultura risulta dal preciso, caldo
ricordo di Macrì relativo allo spirito religioso di Bo, fideisticamente esemplato da buon genovese sul papa «contadino» Giovanni XXIII (operante nella «Chiesa dei poveri») e sui mistici spagnoli: «Ogni scrittura di Bo ripostula i primordi e il destino dell’uomo. La sprovincializzazione, l’europeismo e oltre non furono
semplici istanze letterarie, ma spirito di tolleranza, comprensione,
fraternità, unitarismo per i quali si smantellavano ipocrisie, censure, burocrazie e diplomazie, eresie, concordati, terrori esterni del-
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la morte, del sesso, del peccato. Scrostati quei tegumenti, rimanevano nella loro purezza originaria le figure umane della carità, del
popolo di Dio, della speranza paradossale, fino al mistero di Gesù» (testimonianza di O. Macrì, nel volume curato da Giorgio Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, Garzanti, Milano
1986).
Ma torniamo agli anni Trenta. Nel nome del «genio italico» e
della romanità, la dittatura fascista blocca le fiduciose esperienze
primo-novecentesche (Slataper, Serra, Boine). Gli intellettuali sono divisi. Da un lato, i fiancheggiatori del regime ne sostengono
l’autarchia culturale e lo sprezzante antieuropeismo. Dall’altro, i
resistenti fanno della letteratura «europea» la loro preminente ragione di vita; raccolti intorno al Frontespizio, Letteratura, Campo
di Marte, inaugurano (dopo La Voce) la seconda stagione della civiltà letteraria fiorentina, interpretando l’esigenza di una letteratura «pura» o «ermetica» come più tardi si sarebbe detto. Tra i
neofiti di una letteratura sottratta alla retorica ufficiale e aperta a
«tutto l’uomo», Carlo Bo s’incammina presto, fin dagli anni universitari a San Marco.
Le quotidiane, pazienti e vastissime letture («il critico non deve avere che una preoccupazione: leggere, leggere, leggere») lo
portano a scoprire il clima interiore, le climat intérieur di autori
come Rivière e Sainte-Beuve. Opera prima di Bo, Jacques Rivière
(Brescia 1935) nasce dall’ascolto intimo, dalla purezza conoscitiva,
dal richiamo quasi mistico, agostiniano e pascaliano, ad una letteratura esistenziale «non contaminata dagli umori e dalle passioni
del momento». Ha poco più di vent’anni Bo quando tra il 1934 e
il 1936 scrive Delle immagini giovanili di Sainte-Beuve (pubblicato
poi nel 1938 per le edizioni fiorentine di Letteratura). Oggetto di
questa distesa, gremita monografia – sua tesi di laurea discussa con
Luigi Foscolo Benedetto – è il Sainte-Beuve splendido, insuperabile esponente della civiltà giansenistica; perfetto esemplare di vita intellettuale e insieme modello alternativo rispetto alla confusione e alla «miseria» della presente cultura italiana.
2. Gli autori e le opere, altrettante strade per conoscere noi stessi
Jacques Rivière, Delle immagini giovanili di Sainte-Beuve, Otto studi (1939), con interventi su Campana e Sbarbaro, Ungaretti e
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Montale, Quasimodo e Gadda: tre libri fondamentali, altrettanti
punti fermi nel lavoro di Bo, lettore e critico insoddisfatto, che rifiuta il sistema crociano. La poesia si comprende se si vive come
forza di dialogo, magari disordinato, ostile e «chiuso» le prime
volte. Bisogna dare credito alla figura umana, utilizzarne l’accento morale. Eppure proprio su questo terreno di accostamento alla
verità, in ordine al disinteresse politico e all’«eccessivo amore verso un ideale europeo», sono piovute addosso a Bo accuse di oscurità, di privilegiata, snobistica segretezza. Troppe fiancheggiature
simboliste, troppe persistenze in zone di assoluto, troppi giochi e
allusive evocazioni, si diceva.
Erano facili, superficiali condanne, pregiudizi che gli anni avvenire avrebbero smentito, secondo l’esatta previsione del Diario
aperto e chiuso 1932-1944 (Milano 1945): «L’oscuro di oggi è l’esempio di domani, la parte viva [...]». Mentre la retorica e la propaganda fascista glorificavano il presente storico politicamente
mussoliniano e imperiale, vantando i successi militari (impresa di
Etiopia) e sociali («si fondano le città»), gli ermetici, Carlo Bo,
Mario Luzi, Piero Bigongiari, Oreste Macrì, Alessandro Parronchi, avanzavano una silenziosa, segreta protesta, conducevano tenace la loro resistenza passiva al regime. Volontariamente appartati, chiusi dentro isole di severa vigilanza morale e disperata ricerca interiore, gli ermetici vivono in stato di esilio rispetto alla
realtà dell’epoca, in condizione di assenza nei confronti dei comandati «doveri» politici e sociali. E viceversa nutrono interessi
profondi, totali, assoluti per la vita dell’anima, per gli aspetti e i
problemi dell’esistenza umana, per le dimensioni spirituali, coscienziali – e non pratiche, non pubbliche – della persona. In regime di superbo nazionalismo e di presuntuosa autarchia culturale, la diversa familiarità con le letterature e le filosofie straniere, la
frequentazione dei simbolisti e dei surrealisti (Mallarmé, Eliot,
Gongora), l’attenzione rivolta all’esistenzialismo tedesco e francese (filosofia dell’angoscia, dello scacco che implica «l’idea dell’uomo solo») inducono gli ermetici al massimo della rarefazione analogica e verbale. Gli amici di Bo, i poeti Luzi, Bigongiari, Parronchi usano immagini metaforiche spoglie di ogni sentimentalismo
come naufragio, sfacelo, muro, aridità, strazio, greto, deserto, simboli figurativi che significano solitudine, esilio e assenza.
Allo svolgimento dell’ermetismo creativo collabora assiduamente la critica ermetica. Nuovi rapporti si instaurano tra autore
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e lettore. Il critico diventa partecipe della costruzione poetica, la
quale lievita appunto e si completa grazie all’intervento del critico
come scrittore, corresponsabile egli stesso dell’azione e della dicitura inventiva. Documento critico tra i più validi della stagione ermetica – insieme agli Esemplari del sentimento poetico contemporaneo di Macrì e agli Esercizi di lettura di Gianfranco Contini – resta il saggio di Carlo Bo, Letteratura come vita, apparso sulla rivista fiorentina Frontespizio, nel settembre 1938; poi negli Otto studi, dove ricorre il termine autoqualificante di «critica-scandaglio». Il saggio-manifesto di Bo attribuisce all’attività letteraria il
significato umile ed esigente, disperatamente profondo e resistenziale del «fatto interiore», necessario «per la conoscenza di noi
stessi», in netta contrapposizione all’idea dannunziana della «vita
come arte» (estetismo biografico del «vivere inimitabile») e alle
pressioni dello Stato etico, alla propaganda culturale e alle «veline» fasciste.
Riferiamo i passi memorabili di quel discorso-messaggio Letteratura come vita che segna la rottura di Bo da crociani e gentiliani:
«Rifiutiamo una letteratura come illustrazione di consuetudine e di
costumi, aggiogati al tempo, quando sappiamo che è una strada e forse la strada più completa per la conoscenza di noi stessi, per la vita
della nostra coscienza [...]. Per noi [letteratura e vita] sono tutt’e due,
e in ugual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per
raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi [...]. La letteratura è una condizione, non una professione. Non crediamo più ai
lettori gelosi dei loro libri [...]. Non esiste un mestiere dello spirito
[...]. La nostra letteratura sale alle origini centrali dell’uomo. [...]. È
la vita stessa e cioè la parte migliore e vera della vita [...]».
3. Responsabilità morale e prediche della domenica (sulle tracce del
Dio nascosto)
Dal nucleo conoscitivo e coscienziale della letteratura come vita si
diramano le fertili, sistematiche esplorazioni di Bo, instancabilmente verificate sui nuovi autori francesi, italiani e spagnoli, ancorati a quelle unità di centro, a quei tre poeti nazionali e «definitivi» che restano per lui Éluard (Poésie ininterrompu, uno dei testi
più frequentati), Ungaretti (i suoi diari poetici «sono il giornale
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essenziale delle forme essenziali della poesia») e Jiménez («noi abbiamo sentito violentemente il primo Jiménez perché toccati nel
giuoco di una profonda, sincera, unica nostalgia»). Escono nel
1940 i Saggi di letteratura francese, nel 1944 il Bilancio del Surrealismo, nel 1945 il Mallarmé, nel 1948 Madame Bovary. La saggistica italiana si arricchisce del Bontempelli (1943) e dell’Inchiesta sul
Neorealismo (1951). Al binomio Ungaretti-Bontempelli risponde
fedele l’altro binomio Ungaretti-Jiménez, che anima il versante
degli interessi iberici, dai Lirici spagnoli (1941) ai Narratori spagnoli (1941), alle Carte spagnole (1948).
Intessuto di confidenze critiche continue, Scandalo della speranza (Vallecchi, 1957) affronta gli eventi letterari, politici, sociali, morali del secondo dopoguerra: «verità decapitate», cedimenti,
letteratura strumentalizzata che «serve una verità politica» (leggi
Neorealismo) e letteratura «commerciale». Negli anni Sessanta,
quando la cronaca diventa impositiva e pesante, L’eredità di Leopardi (1964) e La religione di Serra (1967) battono e ribattono la
vigile, confermata idea della letteratura come vita: «L’arte non ha
né il compito né il dovere di migliorare la natura dell’uomo, ma
deve rispondere inequivocabilmente alla ricerca della verità».
Il rinnovato, persuaso richiamo alla «responsabilità morale»
comporta negli anni Settanta-Ottanta una duplice, risoluta dinamica di osservazione. Mentre denuncia gli «scrittori d’allevamento», mentre contesta la neoavanguardia, imputando al nouveau roman e alla poesia oggettuale nessi sempre più incerti, slittamenti e
dimissioni pericolose della letteratura rispetto ai valori fondamentali dell’uomo (verità, coscienza, fraternità), Bo scende tempestivamente sul campo di una diretta, allarmata conoscenza e verifica
religiosa. In pratica, parla di Dio agli uomini d’oggi, credenti (tiepidi) e agnostici (vanitosi). Pubblica sul Corriere della Sera le sue
prediche della domenica, prodotte ogni volta dalla «spinta della
notizia», sempre fedele al leggere. Del resto «Dio l’ho trovato sui
libri, l’ho scoperto e amato leggendo» confida, ulteriormente deciso, in un’intervista su Epoca nel marzo 1982. Il famoso A la trace de Dieu del suo Rivière ritorna nel significativo, quasi testamentario Sulle tracce del Dio nascosto (1984), un «calendario di
smarrimenti e di speranze, di abbandoni e di rimorsi».
Senza sottigliezze teologiche, con lucidità impietosa e col pietoso quotidiano sussidio delle «parole di vita eterna», l’ultimo Bo
chiaroveggente e lungimirante coglie, decifra i segni del tempo,
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vede in anticipo, commenta fenomeni e movimenti. Rievoca (e
rimpiange) gli apostoli e i profeti della nostra epoca: Romolo
Murri, Maritain, Don Orione, La Pira e la sua «utopia vissuta».
Sfilano tematicamente in Sulle tracce del Dio nascosto, come su un
Bloc-notes alla Mauriac, l’ecumenismo della Chiesa in cammino, i
nuovi delitti politici di Caino e la carità cristiana, la famiglia cattolica e la società civile, il progresso scientifico al vaglio della fede
e dell’etica ecclesiale. Dolore irrimediabile ma anche devota accettazione per il «caso» Moro: «Non ha soltanto pagato per gli altri, ha avuto – secondo il codice cristiano – il premio di rappresentare l’intera famiglia cristiana». Analogamente preziosa la lezione derivante dall’attentato a Papa Wojtyla: «Il Papa esce rafforzato ed esaltato da questa vicenda, essendo stato in qualche modo
scelto, privilegiato, tradotto e uguagliato nel dolore di tutti». Saggismo e meditazione dell’antico leader ermetico. Giornalismo militante in progress tra attualità e moralità. «Cristo non è cultura»,
aveva affermato Bo polemizzando con Vittorini nella stagione del
Politecnico. Con Sulle tracce del Dio nascosto, la luce e la fede del
messaggio cristiano entrano in conto, importano e valgono come
«fiamma tragica e alta di speranza e d’amore». Estrema confessione del credente Bo in data aprile 1996: «Sapere che Dio c’è ma
non dov’è. È il nostro dramma». Dalla letteratura come vita alla
tentazione inesausta del credere. Ancora e sempre lo scandalo
della speranza, nato, maturato e sofferto dallo scandalo originario
della Croce.
Renato Bertacchini