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RASSEGNA STAMPA giovedì 12 febbraio 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE DIRITTI CIVILI BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Avvenire del 12/02/15, pag. 5 Una colletta per far ripartire Mare Nostrum Luca Liverani Se lo Stato non finanzia più il salvataggio dei migranti in mare, la Comunità di Sant'Egidio lancia una grande colletta nazionale per far ripartire l'operazione che ha salvato decine di migliaia di vite. L'atroce tragedia mobilita il mondo dell'associazionismo e delle ong, che invoca compatto la ripresa di Mare Nostrum, come chiedono assieme anche Caritas e Migrantes. «Lanceremo una raccolta di fondi a livello nazionale per ripristinare Mare Nostrum dichiara il presidente di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo -visto che lo Stato dice di non avere soldi. Una grande gara di solidarietà, nella quale anche lo Stato italiano e l'Ue dovrebbero fare la loro parte». Per il fondatore Andrea Riccardi «l'Europa deve farsi carico di ciò», ma questo «non può esimere l'Italia» che «non può soltanto attendere un segnale da Bruxelles». L'Ufficio nazionale comunicazioni sociali della Cei fa sapere che «l'ennesima tragedia del mare ha nuovamente confermato l'inadeguatezza dell'operazione Triton» e che «Caritas Italiana e Fondazione Cei Migrantes, insieme alle ong Albi, Amnesty International Italia, Centro Astalli, Emergency, Intersos, Save the Children e Terres des Hommes hanno chiesto con un comunicato congiunto un reale cambio di rotta nelle politiche sull'immigrazione: occorre aprire immediatamente canali sicuri e legali d'accesso in Europa. «Lampedusa è prima di tutto terra europea - commenta il presidente del Centro Astalli padre Camillo Ripamonti – ma l'Europa non ha risposto al grido dì un'umanità umiliata e calpestata da guerre e persecuzioni ». Per il superiore generale della Congregazione Scalabriniana padre Alessandro Gazzola «chi vive nelle periferie non rimane più a guardare la propria vita dissolversi e compie scelte disperate». Alla vicepresidente della commissione europea Federica Mogherini lanciano un appello comune Arci, Cgil, Uil e Libera, chiedendo «l’attivazione di canali d'ingresso regolari consentendo ai profughi di rivolgersi agli Stati e non ai trafficanti», e al premier Matteo Renzi di «riattivare Mare Nostrum in attesa che l'Ue modifichi le sue politiche » . Per Amnesty International «gli stati membri dell'Ue devono smetterla di nascondere la testa sotto la sabbia», «L’inerzia del governo italiano e della Ue è inaccettabile » anche per Save the Children che lancia una campagna su Twitter con l'ashtag #WhyAgain, perché di nuovo. «Tutti i bambini hanno diritto alla protezione - afferma l'Unicef - e più che mai quelli che fuggono da situazioni disperate». «Triton non è all'altezza e Mare Nostrum ha lasciato un vuoto significativo», denuncia l'Oim. Msf sottolinea «l'assoluta necessità del soccorso in mare perché non esistono alternative legali per raggiungere l'Europa». Da Radio Rai 1 - Radio Anch’io del 12/02/15 Radio anch'io del 12/02/2015 Radio Anch'io, in onda giovedì 12 febbraio alle 8.30 su Radio1 si aprirà con la tragedia Concordia: 13 gennaio 2012, 32 morti, decine di feriti, un disastro organizzativo, 2 ambientale, anche d’immagine. La procura ha chiesto 26 anni per il comandante Schettino. Ma non si può tacere su quello che è successo nel canale di Sicilia, al largo delle coste libiche, tra domenica e lunedi. Un naufragio spaventoso: i morti sarebbero oltre 300, i superstiti hanno parlato di 4 gommoni pieni di persone. E l’operazione Triton è tornata sotto accusa. Basta, dicono in molti, occorre ripristinare Mare nostrum. Tra gli ospiti: Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu – Unhcr; Vittorio Alessandro, ammiraglio – presidente Parco delle 5 Terre; Paolo Di Paolo, scrittore e giornalista – autore di "Scusi lei si sente italiano?"; Giovanni Maria Bellu, direttore associazione Carta di Roma, ex inviato di Repubblica e vicedirettore L'Unità; Filippo Miraglia, Vicepresidente nazionale ARCI e Mario Morcone, prefetto, capo del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Viminale. Link audio http://www.radio1.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-3c131dfc-0a9d4423-aa75-5e031c6aca36.html# Da il fatto24ore.it del 12/02/15 Nuova strage Mediterraneo: l'appello per riattivare Mare Nostrum Scritto da Giada Vicenzi L’operazione Mare Nostrum è finita a dicembre 2014 e gli effetti concreti e nefasti già si notano: un’altra strage di migranti a Lampedusa con oltre trecento morti nella notte tra il 9 e il 10 febbraio. Si apre così, con una nuova tragedia, il 2015 nel Mediterraneo, con centinaia di profughi morti, assiderati o annegati. Inevitabili le polemiche: «Triton non è sufficiente» sostengono le organizzazioni umanitarie, assieme ai partiti di sinistra, che puntano l'indice sulla decisione di Matteo Renzi e del suo governo di cancellare Mare Nostrum. Anche Arci, Libera, Cgil e Uil hanno rivolto un appello al Ministro degli Affari Esteri Federica Mogherini perché si adoperi per l’apertura di canali d’ingresso umanitari e al Presidente del consiglio Renzi perché riattivi l’operazione Mare nostrum. La tragedia, scrivono, «non può essere attribuita soltanto al cinismo di chi ha costretto queste persone a imbarcarsi nonostante il freddo invernale e le condizioni avverse del mare». Questa ennesima strage, secondo Arci, Libera, Cgil e Uil, «poteva essere evitata se il governo italiano non avesse deciso di sospendere Mare Nostrum, sostituendo un’azione dedicata alla ricerca e al soccorso in mare con l’operazione Triton, le cui finalità sono tutt’altre, e cioè il controllo e la sicurezza delle frontiere entro un raggio assai limitato». E, ricordando le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento su cosa debba intendersi per emergenza umanitaria, chiedonoall’Unione Europea e in particolare alla vice Presidente della Commissione Federica Mogherini di attivare canali d’ingresso regolari in grado di mettere in salvo i profughi, consentendo loro di rivolgersi agli Stati e non ai trafficanti. «Facciamo appello anche al Governo italiano affinché scelgala protezione delle persone anziché quella delle frontiere. Chiediamo al Presidente del Consiglio Matteo Renzi di riattivare l’operazione Mare Nostrum in attesa che gli Stati dell'Ue modifichino le loro politiche, consentendo l’accesso regolare e in sicurezza alle nostre frontiere a chi fugge da guerre e persecuzioni». 3 Una via che secondo Arci, Libera, Cgil e Uil è la sola praticabile per contrastare efficacemente la criminalità e i trafficanti di essere umani. http://www.trentino-suedtirol.ilfatto24ore.it/index.php/cronaca/1976-nuova-stragemediterraneo-l-appello-per-riattivare-mare-nostrum Da Huffington Post dell’11/02/15 Luciana Castellina Giornalista, presidente onoraria Arci Tutti in piazza sabato per Tsipras Sabato 14 febbraio una quantità di personalità e di organizzazioni - Cgil, Fiom, Arci, Attac, Flc-Cgil, Fp-Cgil, Rete della conoscenza, Act, Tilt, Forum italiano dei movimenti per l'acqua, L'altraEuropa, partiti della sinistra ed esponenti della sinistra di partiti che fanno ormai fatica a connotarsi come tali - tutti quelli, insomma, che avevano firmato l'appello 'Cambia la Grecia Cambia l'Europa' a favore del nuovo governo greco, si ritroveranno in piazza a Roma. Analoghe manifestazioni e sit in sono promossi in questi giorni in moltissime città italiane così come in altri paesi europei. Per dire che sarebbe fatale per l'Europa se a Bruxelles non capissero che occorre cambiare politica, a cominciare dal caso greco. La novità è che oramai una parte importante dell'opinione pubblica - anche tedesca, come dimostra fra l'altro il sostegno offerto dai sindacati di quel paese alle proposte di Syriza ha capito che le cose stanno assai diversamente da come i media l'hanno raccontata: non è la Grecia che deve chiedere un favore all'esecutivo dell'Ue, ma, al contrario, è questo esecutivo che deve chiedere scusa ai greci. Per aver sbagliato tutto: per essersi fidato - e per continuare a fidarsi - degli uomini che hanno fin qui governato la Grecia e per averli indotti a perseguire una linea che ha portato al disastro. Deve infatti essere chiaro che la catastrofe greca non è stata provocata solo dalla crisi ma anche dalla dissennata politica di bilancio e fiscale promossa dal governo Samaras. Tutto questo era evidente già dal 2008. Sebbene la troika fosse ben consapevole - lo ha anche dichiarato pubblicamente - che quel governo di Atene non solo aveva consentito un'impensabile esenzione fiscale ai più ricchi ma aveva addirittura falsificato i bilanci statali, essa ha continuato a dire che se alle elezioni Samaras non fosse tornato a vincere sarebbe stato un disastro. Dopo due anni di medicine "bruxellesi", nel 2010 il Pil del paese era già sceso di 10 punti. È allora intervenuta una consistente ristrutturazione del debito che però, anziché essere mirata alla ripresa dell'economia reale, è stata utilizzata sostanzialmente per ripagare i crediti privati detenuti dalle banche (quasi tutte tedesche), così ulteriormente allontanando ogni possibilità di ripresa. Il risultato: due anni dopo il Pil era crollato a meno 25 per cento e la disoccupazione a più 18, mentre nessuna, dico nessuna, riforma fiscale era stata avviata. Che le cose stiano proprio così lo riconoscono ormai non solo un largo numero di economisti stranieri di fama (buon ultimo John Galbraith), ma lo stesso Fondo Monetario Internazionale nel suo più recente documento. I veri colpevoli della drammatica situazione della Grecia sono dunque i suoi presunti salvatori e i loro complici ad Atene. Quelli che alla vigilia delle elezioni hanno gridato che se Syriza avesse vinto la Grecia sarebbe diventata come la Corea del Nord. Le ragioni per manifestare e gridare queste verità come si vede sono molte. Anche se a Bruxelles sono sordi. O meglio: cercano di nascondere le scelte che hanno compiuto per difendere specifici interessi che non hanno nulla a che vedere con quelli del popolo greco 4 e dell'Europa tutta con la predica filistea secondo cui chi ha preso in prestito danaro deve restituirlo. Ma se per ottenerlo prima ti ho strozzato è evidente che quel debito non potrò mai pagarlo. È come Melchisedech che se la prendeva col proprio asino perché, proprio quando gli aveva insegnato a non mangiare, era morto. Quel che il governo Tsipras oggi chiede, e con lui tutti quelli che stanno manifestando, è di aver almeno sei mesi di tempo per riparare ai guasti prodotti in sei anni dalla troika e dai precedenti governi greci. Per poter restituire, non per non farlo, sapendo che se invece si subisce il diktat della troika quel debito non potrà mai essere pagato. Perché la Grecia sarà morta. Come è stato ripetuto ormai da molti il problema è politico, non finanziario: e così la soluzione possibile. Da Radio Articolo 1 del 12/02/15 ore 15:30 Piazza del lavoro - Dalla parte giusta. Parla R. Bolini, Arci Da Repubblica Tv dell’11/02/15 In piazza per Tsipras, Ferrero (Prc) : ''Sabato corteo non solo per la Grecia, ma per tutti noi'' Un piccolo assaggio del corteo che sabato 14 febbraio sfilerà per le vie di Roma contro l'austerità e in favore della Grecia, c'è stato questo pomeriggio di fronte all'ambasciata tedesca. Diverse realtà della sinistra italiana come l'Arci, l'Altra Europa con Tsipras, Rifondazione comunista, hanno manifestato il loro dissenso verso le politiche dei governi europei. Il corteo del 14 febbraio, dal titolo ''Cambia la Grecia, cambia l'Europa'' partirà alle 14 da piazza Indipendenza. http://video.repubblica.it/economia-e-finanza/in-piazza-per-tsipras-ferrero-prc-sabatocorteo-non-solo-per-la-grecia-ma-per-tutti-noi/191690/190643 Da Left.it del 12/02/15 Sabato 14 febbraio a Roma #dallapartegiusta per il popolo greco Atene chiama. Si avvicina la manifestazione del 14 febbraio a Roma #dallapartegiusta. Cioè a sostegno del popolo greco e del tentativo di Alexis Tsipras e del suo ministro Yanis Varoufakis di rompere la politica dell’austerity della Troika. Per la giornata di oggi – durante la quale si svolgerà a Bruxelles l’importante riunione dei ministri delle finanze dell’Eurozona (Eurogruppo) – presidi, dibattiti, conferenze stampa e volantinaggi a Milano, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Follonica, Pisa, La Spezia, Genova, Rimini, Trieste, Padova, Cuneo, Pordenone, Udine, Asti, Lucca, MacerataBologna, Pescara, Parma, Ferrara, Trieste, Mestre, Treviso, Reggio Emilia, Terni, Siena, Livorno, Rovigo, Bari, Firenze, Macerata, Perugia, Biella, Alessandria, Riva del Garda, Rovereto, Trento, 5 Brescia, Ravenna, Ancona (ove alle 17.00 presso l’Anpi parleranno Luciana Castellina e Argiris Panagopulos ), Como. Domani 12 febbraio sarà la volta di Grosseto, Bergamo, Jesi, Passirano Franciacorta, Campobasso. Il 13 febbraio: Torino, Novara. Il presidio di Roma è previsto oggi, 11 febbraio, dalle ore 18.30 in piazza Indipendenza nei pressi dell’Ambasciata tedesca. Da dove, alle ore 14, di sabato 14 febbraio partirà la manifestazione nazionale che si concluderà con diversi interventi al Colosseo. Ci sarà una partecipazione attiva e numerosa dei Greci d’Italia alle mobilitazioni odierne. In particolare a Napoli interverrà il Presidente della Federazione delle Comunità e Confraternite Elleniche d’Italia Jannis Korinthios e il presidente della Società Fillellenica Italiana Marco Galdi. Alla manifestazione di sabato 14 hanno aderito la Cgil, Flc Cgil, Fiom, Arci, Act, Rete della Conoscenza, Forum dei movimenti per l’acqua, Tilt. E come testate Il Manifesto e Left. http://www.left.it/2015/02/11/sabato-14-febbraio-a-roma-dallapartegiusta-per-il-popologreco/ Da Repubblica.it (Roma) dell’11/02/15 Rialto Sant'Ambrogio, le associazioni: "No allo sgombero" Parte la mobilitazione per salvare il Rialto Sant'Ambrogio, gioiello del Ghetto che dopo una travagliata vicenda di occupazioni (nel 1999) e sgomberi (dal 2008), oggi ospita numerose associazioni e un centro di produzione culturale indipendente. Il 28 gennaio in via di Sant'Ambrogio è infatti arrivata una lettera del Dipartimento Patrimonio, Sviluppo e Valorizzazione di Roma Capitale per il "recupero coatto dell'immobile", concedendo 30 giorni per abbandonare la struttura. Secondo le associazioni - Rialtoccupato, Ass. ARCI Roma, Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua, Forum Ambientalista, Attac Italia, per citarne solo alcune - si tratta di "una vera e propria intimidazione atta allo sgombero di uno spazio legalmente assegnato e per ciò tutelato nella sua attuale destinazione d'uso a scopi sociali e culturali" come si legge in un duro comunicato. "La motivazione addotta dal Dipartimento Patrimonio fa riferimento ad una non chiara riunificazione degli spazi con la contigua Sovrintendenza" aggiungono sostenendo però che "ciò assume i contorni di una mistificazione della realtà, se si legge alla luce della delibera attualmente in discussione in assemblea capitolina, con cui la stessa Amministrazione mette in vendita un cospicuo numero di immobili tra cui anche il complesso monumentale del Sant'Ambrogio della Massima". Per questo chiedono "un incontro urgente con il Sindaco Marino e l'Assessore al Patrimonio Cattoi al fine di individuare una soluzione positiva a tale questione e dare attuazione all'iniziativa intrapresa 10 anni fa per la valorizzazione di questa esperienza di socialità". Non si può "cancellare un luogo pubblico, non statale, centro di sperimentazione culturale e sociale e per tanto svincolato dal mero fattore economico". Una vicenda, sottolineano, "non isolata, ma che si inserisce in una serie di analoghi provvedimenti che stanno colpendo altri spazi sociali della capitale". La storia dello stabile del Sant'Ambriogio della Massima che dal 2000, tramite un'ordinanza del sindaco, ospita decine di associazioni, non è semplice: prima un sequestro preventivo durato cinque anni, tre processi penali, assoluzioni, il dissequestro ordinato dal Tribunale nel 2014. Le associazioni si sarebbero dovute trasferite presso l'ex 6 autoparco dei Vigili urbani di viale delle Mura Portuensi, ma non è mai accaduto. In questi anni, in un palazzo trasformato in parte in locale e in parte in uffici, sono passati performer, compagnie teatrali, dj set, scrittori, attivisti per la promozione dei referendum sull'acqua pubblica e comitati. http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/02/11/news/rialto_sant_ambrogio_le_associazioni_ no_allo_sgombero-107055695/ Da Agenzia Dire dell’11/02/15 AUSER BERGAMO: PROGETTO “ABITO” PER STUDENTI E ANZIANI Gli studenti universitari fuori sede in cerca di un tetto, nei prossimi mesi avranno un’opportunità in più. Potranno vivere nell’appartamento di un anziano autosufficiente in cambio di un po’ di compagnia e un aiuto in casa. E’ stato presentato a Bergamo il progetto “Abito” promosso da Auser Bergamo in collaborazione con Terza Università, Proteo e Arci Fuorirotta di Treviglio e con il sostegno della Regione Lombardia. L’obiettivo è sperimentare nuove modalità abitative e stimolare scambi tra generazioni. E naturalmente aiutare gli anziani con un buon antidoto contro la solitudine. In una prima fase verranno raccolte le domande degli studenti e la disponibilità degli anziani e dei loro appartamenti. Poi si stabiliranno i contatti e gli “abbinamenti” che devono essere basati sull’empatia, la condivisione, l’aiuto reciproco. La prima fase sarà sperimentale e conta di coinvolgere almeno 30 soggetti. “Questo progetto- ha sottolineato Angelo Locatelli presidente Auser Bergamo- servirà per abbattere quel clima di diffidenza ed una certa cultura che spesso allontana i giovani dagli anziani. Inoltre ha una grande utilità sociale, aiuta i ragazzi e aiuta gli anziani a sentirsi meno soli”. Gli ultimi dati parlano di over 65 che a Bergamo sfiorano il 60% della popolazione, in crescita anche le iscrizioni all’università, in particolare dei “fuori sede” che necessitano di circa 1500 alloggi. Da Adn Kronos dell’11/02/15 Il 17 febbraio in Comune la presentazione dello Sportello Affido Familiare L’assessorato alle Politiche socio-sanitarie comunica che martedì 17 febbraio, alle 15.30, presso la Sala consiliare del Comune, sarà presentato il servizio “Sportello Affido Familiare” gestito dall’Associazione Krisalidea APS presso lo Spazio Famiglia. All’incontro interverranno, oltre l’assessore alle Politiche socio-sanitarie, Stefania Mariantoni, il referente dell’Area Famiglia e Minori della Regione Lazio, Antonio Mazzarotto, il già Garante regionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Francesco Alvaro, il referente del Gil Adozioni della Asl di Rieti, Antonella Brunelli, e la presidente dell’Arci di Rieti, Valeria Patacchiola. Parteciperanno anche alcune famiglie affidatarie che parleranno della loro esperienza sia nell’ambito dell’affidamento classico che del progetto sperimentale Famiglie Professionali. L’incontro sarà moderato dalla presidente dell’Associazione Krisalidea e coordinatrice dello Sportello Affido Familiare, Valeria Natali. Per maggiori informazioni sulla pratica dell’affido lo sportello è già a disposizione, previo appuntamento, il lunedì dalle 10 alle 13, il mercoledì dalle 16 alle 19 e il giovedì dalle 10 alle 13. Per ottenere un appuntamento è possibile contattare il 327/4971520 o scrivere all’indirizzo [email protected]. 7 http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/politica/2015/02/12/febbraio-comunepresentazione-dello-sportello-affido-familiare_UL8zD9ww8hHN6ZxBqvYYSL.html 8 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 12/02/2015, pag. 6 «Vai Alexis», la Grecia in piazza Le manifestazioni. In migliaia da Atene a Salonicco per sostenere il governo in Europa Ci si è messa pure la neve a sfatare l’ennesimo luogo comune che vuole il nord Europa sempre al freddo e, viceversa, il sud al calmo. Ad Atene ha fioccato intensamente per un paio di giorni, una coltre bianca ha ricoperto l’Acropoli ma questo non ha impedito alla piazza del Parlamento di riempirsi di manifestanti, questa volta arrivati a supportare la battaglia del governo Tsipras-Varoufakis per cambiare le politiche europee di austerity. Così la piazza che fino a qualche settimana fa era deputata alle contestazioni si è trasformata e i manifestanti l’hanno trovata sgombra, come già qualche giorno fa, da inferriate e poliziotti antisommossa. Un’impressione notevole per chi ha ancora negli occhi gli spiegamenti di forze del passato, i lanci di lacrimogeni e le manganellate. Tra i motivi di risentimento pure il rifiuto, da parte della Germania, del pagamento dei debiti di guerra richiesto domenica scorsa davanti al Parlamento di Atene da Alexis Tsipras. Il ministro degli Interni di Berlino Franck-Walter Steinmeier ha ricevuto ieri il suo omologo ateniese Nikos Kotzias, ribadendogli che il governo tedesco non ha alcuna intenzione di riaprire la parttita dei debiti di guerra (una questione che si era già posta in Italia al tempo della scoperta dell’ “armadio della vergogna” e per la quale proprio ieri un piccolo comune del Molise, Fornelli in provincia di Isernia, ha deciso di fare un’azione legale per la strage del 4 ottobre 1943, quando sei cittadini del luogo furono impiccati dai nazisti per rappresaglia). Ma il braccio di ferro vero, per il governo Tsipras, riguarda la possibilità di avere «più tempo» dall’Europa per poter fare le riforme promesse in campagna elettorale, come ha esplicitamente chiesto il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis nel suo tour per le capitali europee, la scorsa settimana. È su questo che si tratta ai livelli più alti delle istituzioni comunitarie e con i governi, e l’avversario più intransigente rimane ancora una volta la Germania, che non vuole saperne di concedere deroghe e sconti alla Grecia, a differenza della Francia che lavora a una mediazione (attraverso il commissario socialista Pierre Moscovici) per non far saltare tutto e rischiare di provocare un disastroso Grexit che, come ha fatto sapere ieri il governo portoghese, rischierebbe di avere conseguenze catastrofiche per l’intero processo di unificazione continentale e di consegnare su un piatto d’argento la vittoria alle destre più estreme (in Francia proprio nel collegio di Moscovici, considerato “sicuro” per la sinistra, domenica scorsa il Ps l’ha spuntata per appena un migliaio di voti sul candidato del Fronte Nazionale, che ha ottenuto una percentuale mai vista finora in una elezione politica, segno che la crescita non si è arrestata). Ma al momento il muro contro muro non pare aver fine: per il ministro delle Finanze di Berlino Wolfgang Schauble ci sono solo la troika e il rispetto del programma concordato con il precedente governo Samaras. Proprio i punti sui quali Tsipras non può cedere, pena perdere la faccia davanti agli elettori ad appena quindici giorni dal voto. Per far sentire la propria voce in questa difficile partita anche ai tedeschi, migliaia di supporter del governo Tsipras sono scesi in piazza ieri sera a piazza Syntagma e in altre città della Grecia, a cominciare da Salonicco e Patrasso. Manifestazioni di solidarietà con la Grecia si sono svolte anche in diverse città italiane. Da Venezia (dove pomodori, uova e fumogeni sono stati lanciati contro il consolato tedesco) a Firenze, fino a Roma, sono state prese di mira le sedi di rappresentanza del governo di Angela Merkel, in attesa della 9 manifestazione di sabato nella capitale, che si annuncia molto partecipata. A Milano si è svolto un presidio davanti alla sede di Bankitalia. Sul fronte europeo, invece, i movimenti anti-austerity si stanno organizzando per il Blockupy Frankfurt del 18 marzo prossimo, nella città tedesca che ospita la sede della Bce. Per dimostrare che Syriza e i greci non sono soli. Del 12/02/2015, pag. 6 Sabato 14 in campo la «macchina» Cgil: è la nostra battaglia In piazza . Ieri 54 presidi in tutta Italia. Per la manifestazione nazionale la confederazione "è mobilitata". Il segretario confederale Danilo Barbi: "L'austerità va battuta, l'esempio greco serve a tutta l'Europa. Noi facciamo politica in prima persona e in autonomia. Ancor di più ora che non abbiamo interlocutori" Massimo Franchi Cinquantaquattro presidi in giro per la penisola ieri hanno fatto dell’Italia una dei paesi che ha più aderito al #11F, la giornata di mobilitazione europea a sostegno del governo greco nel giorno della riunione all’Eurogruppo. Da Venezia a Napoli, passando per Trento e Roma, solo per citare i presidi più partecipati, i manifestanti si sono ritrovati sotto i consolati, le sedi della Duetsche Bank o della Banca d’Italia per far sentire la loro voce a sostegno della battaglia del governo Tsipras. Ma il vero appuntamento è quello fra due giorni a Roma per la manifestazione nazionale “Atene chiama”. A due giorni dal corteo che partirà da piazza Indipendenza alle 14 per arrivare al Colosseo, prende sempre più piede il ruolo della Cgil nell’organizzazione. Dopo l’adesione decisa all’unanimità nella segreteria di sabato — il giorno dopo di quella della Fiom — la confederazione è al lavoro per garantire successo alla manifestazione. «Moltissimi territori sono mobilitati e nonostante l’ostacolo dei tempi strettissimi, contiamo di dare la nostra mano», spiega il segretario confederale Danilo Barbi. Le ragione dell’impegno diretto della Cgil sono figlie della battaglia contro l’austerità che lo stesso Barbi porta avanti per la confederazione da anni. «Il piano del governo greco è in buona parte mirato proprio a ridurre l’avanzo primario che è stato imposto dalla Trojka e i fondi verranno usati per alleviare le sofferenze del popolo greco», sottolinea Barbi. La battaglia del governo Tsipras è dunque la stessa della Cgil e della confederazione dei sindacati europei — la Ces — che difatti ha aderito subito alla manifestazione, «compresi i sindacati tedeschi». «La vicenda greca ci insegna non solo che è necessario cambiare la politica economica e che l’austerità non sarà mai espansiva (il Pil è diminuito più del calo del deficit e ha paradossalmente aumentato il dedito), ma soprattutto che un’alternativa esiste ed esiste per tutta l’Europa», attacca Barbi. Il segretario confederale della Cgil è poi ottimista sul successo della proposta di Tsipras e Varoufakis: «L’idea di bond derivati legati alla crescita del Pil è tecnicamente complicata ma assolutamente percorribile e giusta. Del resto sono state proprio le banche private a ricontrattare i loro bond del debito greco perché col default non avrebbero visto un soldo, mi sembrerebbe singolare che non lo facessero gli Stati europei», commenta sarcastico. La battaglia è poi «soprattutto democratica perché è figlia della volontà del popolo greco». 10 «La rigidità della Germania e del resto d’Europa (il nostro governo più che rigido, è stato muto) deriva dal fatto che l’austerità è figlia della volontà di ridurre i salari e l’occupazione per ridurre i costi del modello sociale europeo», spiega Barbi. «E se vincerà la Grecia, non si vede perché anche Spagna e Italia non potranno rinegoziare i debiti e cambiare politica economica: ecco la vera partita in gioco». Una partita che la Cgil vuole giocare in pieno. Un protagonismo politico che segna una nuova stagione della confederazione. «La situazione politica è tale per cui abbiamo deciso di non porre limiti alla nostra azione politica. Al momento non ci sono sponde o interlocutori», spiega Barbi facendo riferimento sia al Pd che al fervore in atto a sinistra. «Noi abbiamo sempre fatto politica in prima persona e non per interposta persona. Detto questo vedremo cosa succede a sinistra, ma se la partenza è cercare uno Tsipras italiano, il problema è proprio il fatto che non c’è», chiude Barbi. 11 ESTERI Del 12/02/2015, pag. 1-6 Un’Ucraina federale, il sogno del Cremlino per allontanare l’ombra della Nato e della Ue BERNARDO VALLI SI SPARAVA ancora con rabbia a tarda sera nell’Ucraina orientale. Nelle stesse ore a Minsk, la capitale bielorussa, Vladimir Putin discuteva di una pace difficile con Angela Merkel e François Hollande. Con loro c’era anche Petro Poroshenko, il presidente ucraino. Il quale, lasciando Kiev, aveva minacciato di decretare la legge marziale per contenere la prepotenza politica e militare russa, nel caso la conferenza fosse fallita. Si capisce perché quando Putin gli ha teso la mano con un gesto virile, da atleta, lui l’ha stretta di fretta, come se scottasse. Prima di sedersi al tavolo rotondo (al quale noi telespettatori li abbiamo lasciati) i quattro avevano bevuto insieme un aperitivo e mangiato qualche fragola, scambiandosi sorrisi imbarazzati. Negli stessi istanti nel Donbass ai cinquanta morti delle ultime ventiquattro ore se ne aggiungevano altri. Prima di un possibile cessate il fuoco, di una tregua, i miliziani filo russi cercavano di conquistare più terreno, oltre ai cinquecento chilometri quadrati occupati nei mesi scorsi. L’esercito lealista non aveva retto alle loro offensive. Il confronto verbale di Minsk diventava ieri sera armato nelle province orientali ucraine. Ogni pezzo di terreno occupato pesava sul tavolo attorno al quale Putin discuteva con la coppia europea, Merkel-Hollande, affiancata da Poroshenko. I combattimenti furiosi tendevano a prendere il controllo del territorio in direzione della Crimea, annessa alla Russia dieci mesi fa. I secessionisti allargavano le loro autoproclamate repubbliche, destinate a diventare regioni autonome, attorno al tavolo di Minsk. La grande posta in gioco è infatti quella. La futura Ucraina sarà o decentralizzata come vorrebbero gli europei, oppure federale come vorrebbe Putin. Nei due casi, al di là della differenza semantica, le province in mano ai filo russi (Donetsk e Lugansk) diventeranno autonome, e dal livello di autonomia che otterranno potranno più o meno condizionare il potere centrale di Kiev. E impedirgli di aderire alla Nato e all’Unione europea. Non a caso alla parola “federazione” Petro Poroshenko si infuria. Quella è invece per Putin la parola chiave sulla quale ruota la trattativa. È tuttavia assai difficile che quel problema decisivo venga risolto subito. Dopo le indiscrezioni dei diplomatici impegnati nella preparazione del vertice, si aspetta qualcosa di più di un semplice cessate il fuoco. Forse una tregua. Difficile da realizzare, visti i combattimenti ancora in corso nell’Ucraina orientale. Le divergenze sono tante sul modo di fermare il conflitto, se esiste sul serio la volontà far tacere le armi. I confini su cui distribuire le forze di interposizione sono zigzaganti e controversi. Sono validi quelli dell’ultimo accordo di Minsk mai rispettato (settembre ‘14), oppure quelli tracciati dalle ultime conquiste dei ribelli filo russi? E come controllare i quattrocento chilometri di confine con la Russia, attraverso i quali passano e uomini e armo per i secessionisti? Di che nazionalità devono essere eventualmente i caschi blu o i militari dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa)? Putin li vorrebbe kazaki o bielorussi, o addirittura russi. Neanche per sogno dicono gli ucraini di Kiev. Ci sono poi i prigionieri da liberare. E i risarcimenti per i danni di guerra. La tregua o quel che uscirà dal vertice in corso, sempre che non frani in un fallimento, dovrebbe aprire col tempo spiragli di pace. Al momento si annuncia tuttavia un risultato 12 grigio. Né deludente né esaltante. Forse provvisorio ma indispensabile. Questo è l’esito che si attende dal vertice in corso a Minsk, mentre scrivo. Un fallimento porterebbe a un conflitto cronico nel cuore del nostro continente, con afflusso d’armi americane per arginare quelle russe (accompagnate da soldati) già sul posto. Ma i convitati essendosi presentati all’appuntamento di Minsk, si pensa a un imminente compromesso, eterna lampada magica della politica. Tutti devono salvare la reputazione. Angela Merkel e François Hollande, e con loro l’Europa, non possono deludere: protagonisti di una trattativa cruciale, in una grande crisi, per la prima volta senza i tutori americani, devono evitare almeno nell’immediato futuro la pericolosa estensione del campo di battaglia. In quanto a Putin non può perdere la faccia. Può fermare i secessionisti più scatenati che in dieci mesi hanno restituito la Crimea alla Russia, proclamato due “repubbliche” (di Donetsk e di Lugansk) e che adesso vogliono un’Ucraina federale, in cui poter condizionare il governo centrale di Kiev. Il presidente Putin può metterli per un po’ al passo. Quando vuole sa farsi ubbidire. Può frenare i loro slanci. Un’eventuale parziale intesa a Minsk aprirebbe una più ampia concertazione dalla quale il presidente russo potrebbe trarre tanti vantaggi. Gli americani sono destinati a ricomparire sulla ribalta delle trattative come nell’aprile scorso a Ginevra. Questo non dispiacerebbe troppo a Putin, che rimpiange spesso il passato imperiale sovietico, quando il Cremlino si confrontava direttamente con la Casa Bianca. Putin si sente sminuito nell’essere protagonista con gli europei di una crisi regionale. La telefonata di Barack Obama, che l’ha raggiunto alla vigilia del vertice, aveva il tono di un avvertimento severo. Gli ha ricordato implicitamente la possibilità di importanti forniture d’armi americane (droni, missili antiaerei, artiglieria pesante) all’esercito ucraino nel caso di un fallimento diplomatico europeo. Ma quell’intervento del presidente americano, invece di metterlo in guardia, deve averlo lusingato. Nel ciclone nazionalista che investe il Cremlino una chiamata dalla Casa Bianca attenua le frustrazioni. Gonfia i muscoli. Rimonta il morale. Allora facciamo ancora paura. Quanto alla minaccia di dare armi all’esercito di Kiev, proferita con insistenza a Washington, anche se non dal presidente, e più sommessamente in alcune capitali europee, appare a molti osservatori come una trappola per gli occidentali. E forse appare tale anche al Cremlino. Le forze armate ucraine sono rimaste sul piano professionale all’epoca sovietica, ossia tecnicamente in ritardo, da qui le sconfitte subite nel Donbass. Avranno quindi bisogno di padroneggiare le sofisticate armi americane. Nel frattempo i russi potranno intensificare l’appoggio già decisivo ai ribelli, e rendere necessario un intervento diretto degli alleati di Kiev. La prospettiva di una scalata militare ha spinto gli europei a tentare la pacifica offensiva diplomatica. La sola ragionevole. Anche se si profila dopo il vertice di Minsk (di cui non conosciamo ancora il risultato ma soltanto indiscrezioni sui preparativi) un’Ucraina destinata a una neutralità subita come una camicia di forza. Una neutralità, che pur salvando la sovranità sarà sottoposta al controllo di Mosca. Attraverso la forte autonomia delle province filorusse. del 12/02/15, pag. 3 Droni, aerei invisibili e armi elettroniche Così lo Zar si è preparato allo scontro In quindici anni spese militari raddoppiate e una serie di nuovi mezzi Ma i progetti più ambiziosi si sono arenati e mancano i fondi per l’ex Kgb Anna Zafesova 13 I separatisti filo-russi ora hanno anche l’aviazione. Dei Sukhoi-25 hanno bombardato le posizioni ucraine nell’epicentro dei combattimenti degli ultimi giorni a Debaltseve, e fonti separatiste sostengono che si tratta di aerei «trofeo» conquistati dagli hangar di Kiev. Come prima i kalashnikov, i blindati, i carri, i sistemi antimissile e i razzi multipli. Due pezzi dell’ex Armata rossa, gli eserciti russo e ucraino condividono in buona parte gli stessi arsenali, e spesso stabilire la provenienza precisa di un’arma è possibile soltanto guardando il numero di matricola. Ma ora nel Donbass circolano anche armamenti nuovi di zecca, che l’antiquato esercito ucraino non possiede, accusa il comandante delle truppe americane in Europa Frederick Hodges: «Dalle attrezzature e uniformi risulta evidente che nella zona di Debaltseve è in corso un diretto intervento russo». Nuovi armamenti Il generale americano già nei giorni scorsi aveva detto che nell’Est ucraino fanno la loro apparizione armi moderne, il frutto delle spese militari raddoppiate nei 15 anni di regno di Vladimir Putin al Cremlino. I carri armati T-80 di ultima generazione, i razzi multipli Smerch e Tornado, come quelli che hanno colpito mercoledì Kramatorsk con munizioni a grappolo (violazione certificata dagli osservatori della Osce), i complessi antiaerei Panzir, Strela e Pion avvistati intorno a Donetsk, ma soprattutto strumenti di guerra moderni come i droni e l’equipaggiamento per la guerra elettronica. Secondo Keir Giles, esperto del Conflict Studies Research Centre di Oxford, citato dalla Bbc, la Russia aveva scoperto di essere carente in questo campo durante la guerra in Georgia nel 2008, che ha mostrato – nonostante la mostruosa sproporzione di potenziali bellici – quanto l’esercito russo fosse indietro in certi settori. Droni in volo Sette anni dopo sul Donbass volano droni russi e i jammer russi oscurano efficacemente le vecchie radio ucraine, e ne intercettano le posizioni rendendole vulnerabili al fuoco. E poi ci sono i complessi missilistici Buk, come quello che viene incriminato per l’abbattimento del Boeing malese nel luglio scorso, con le stazioni mobili di puntamento, responsabile della distruzione del 70% dell’aviazione militare ucraina. Una macchina militare che ora viene testata nel poligono ucraino e che, secondo Hodges, tra due-tre anni raggiungerà il massimo del suo potenziale, compreso lo schieramento dei nuovi tank «Armata» e dei caccia «invisibili» Pak-50. Anche se le notizie dal fronte russo non sono tutte rassicuranti. Ieri il ministero della Difesa ha sospeso i voli dei caccia Sukhoi-24 dopo che uno dei velivoli di questo tipo si è sfracellato nella regione di Volgograd. I due piloti sono quasi sicuramente morti e sulle cause dell’incidente per ora c’è un fitto mistero. Test falliti sui missili Nei mesi scorsi numerosi test dei nuovi missili con testate nucleari che dovrebbero andare a sostituire l’ormai invecchiato arsenale sovietico sono falliti. E ieri il «Kommersant» ha rivelato che la Russia non ha più un sistema spaziale di intercettazione di un eventuale attacco nucleare. Gli ultimi satelliti geostazionari Oko sono stati disabilitati per vecchiaia all’inizio del 2015, e il lancio del nuovo sistema Tundra è stato rinviato per l’ennesima volta dal 2013 perché non ancora pronto, ha rivelato una fonte delle truppe strategiche russe. Mosca per ora resta protetta da un ipotetico attacco soltanto dai radar di terra. E la crisi economica non aiuta: per quanto le spese militari siano rimaste esenti dagli ultimi tagli, segnali di tempi duri giungono dalla polizia e perfino dall’ex Kgb, dove stanno riducendo stipendi e personale. 14 del 12/02/15, pag. 3 Basi a Cipro, gas a Turchia e Grecia La carta mediterranea del Cremlino Il feeling con Atene per rompere l’isolamento strategico Maurizio Molinari I ministri degli Esteri di Russia e Grecia si incontrano a Mosca nel segno di convergenze su crisi Ucraina e duelli con l’Ue: è la conferma che il Cremlino guarda al Mediterraneo Orientale come nuovo fronte di espansione strategica ai danni dell’Occidente. Il linguaggio dei plenipotenziari è esplicito. «Le sanzioni occidentali alla Russia a causa dell’Ucraina sono controproducenti», afferma il greco Nikos Kotzias e l’anfitrione Sergei Lavrov aggiunge: «Potremmo darvi aiuti economico-finanziari se l’Ue non lo farà». Come dire, su Ucraina e politiche economiche Atene può diventare interlocutore privilegiato di Mosca in Europa, sfruttando l’anello più debole dell’Ue per scompaginare l’assedio voluto da Washington e Bruxelles. I ministri di Tsipras a Mosca Il tappeto rosso al Cremlino per i ministri di Atene - è in arrivo la prossima settimana quello della Difesa - diventa così il tassello di un mosaico più vasto che include investimenti nell’esplorazioni di gas al largo di Nicosia, accordi energetici con Ankara e Gerusalemme sommati a esercitazioni navali multilaterali con Grecia, Israele e Cipro: mosse nel Mediterraneo Orientale che descrivono il tentativo di fare leva su sicurezza ed energia al fine di creare un network di intese regionali a ridosso del Mar Nero, ovvero della crisi in Ucraina. «I russi si muovono a piccoli passi, tastando le acque ovunque possono per verificare come rafforzare le propria influenza», spiega una fonte diplomatica da Nicosia, indicando un «momento di accelerazione» in quanto avvenuto a fine ottobre con l’invio della nave anti-sottomarina «Kulakov» in manovre congiunte con unità greche, cipriote e israeliane. In quell’occasione le navi dei quattro Paesi hanno simulato operazioni sottomarine e di soccorso a piattaforme energetiche off-shore aggiungendo una dimensione di sicurezza all’interesse di Mosca per lo sviluppo del gas naturale nelle acque di Cipro e Israele. I 3,5 miliardi di dollari di prestiti russi per sviluppare le esplorazioni cipriote e il forte interesse di Gazprom nel giacimento israeliano «Leviathan» puntano a trasformare la Russia in un partner finanziario di primo piano del progetto di sviluppare risorse sottomarine che potrebbero trasformare la Grecia nel portale per l’export verso l’Europa del Sud. La scommessa su Ankara Tentare di inserirsi nella cooperazione energetica greco-israelo-cipriota si accompagna alla scommessa economica sulla Turchia di Recep Tayyp Erdogan, sebbene sia ai ferri corti con Atene, Nicosia e Gerusalemme. A dimostrarlo è stato il ceo di Gazprom, Alexey Miller, siglando in dicembre ad Ankara un memorandum d’intesa per la costruzione di un importante oleodotto off-shore nel Mar Nero verso la Turchia puntando a moltiplicare l’export verso quello che è già il secondo più importante cliente europeo. Nella volontà di «tastare le acque» su tutti i fronti, in una regione in costante fibrillazione, si inseriscono le indiscrezioni della «Rossiiskaya Gazeta» sull’offerta a Cipro di ospitare una base aerea e una navale della flotta russa, a cui al momento è rimasta in quest’area solo la testa di ponte di Tartus sul litorale siriano ancora nelle mani di Assad. Il ministro degli Esteri cipriota, Ioannis Kasoulides, nega che il presidente Nicos Anastasiades possa sfruttare la visita a Mosca di fine febbraio per siglare un simile patto. Ma l’offerta russa a Cipro Paese Ue, non Nato - probabilmente è stata già formulata, a conferma di un approccio 15 «molto energico della diplomazia russa» come riassume un diplomatico europeo a Tel Aviv, osservando che «solo 48 ore fa» Putin ha siglato con Abdel Fattah Al Sisi l’accordo per la prima centrale nucleare egiziana. Del 12/02/2015, pag. 12 Braccio di ferro all’Eurogruppo “Si lavora per un compromesso” Troika, cambiano i controllori Nessuna intesa dopo sette ore di colloqui, rinvio a lunedì Accordo con l’Ocse. E la Russia promette aiuti finanziari ANDREA BONANNI Si è chiusa senza un accordo dopo quasi sette ore di discussione la riunione dei ministri dell’eurogruppo sulla crisi greca. «Abbiamo fatto progressi, ma non abbastanza per firmare un documento congiunto», ha commentato il presidente dei ministri dell’eurozona, Dijsselbloem. A quanto risulta, la delegazione greca non ha, per il momento, accettato di sottoscrivere una dichiarazione in cui di fatto avrebbe chiesto la proroga del programma di salvataggio europeo, con tutte le condizioni che esso comporta. Ma il ministro Yanis Varoufakis si è detto ottimista sulla possibilità che un accordo venga raggiunto alla prossima riunione dell’eurogruppo, lunedì. Anche il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan ha usato termini incoraggianti: «È stata una discussione fruttuosa. A tratti un pochino troppo franca nei toni, ma sono ottimista. Proseguiamo la conversazione lunedì». Oggi il primo ministro greco, Alexis Tsipras, avrà modo di saggiare la determinazione dei suoi interlocutori al vertice dei capi di Stato e di governo che discuterà anche della crisi greca. Intanto ieri ad Atene Tsipras ha incontrato il responsabile dell’Ocse, Angel Gurria, per cercare di ottenere l’appoggio e la consulenza dell’organizzazione nella definizione del programma di riforme. Il primo nodo, che deve essere risolto entro la nuova riunione dell’eurogruppo convocata lunedì prossimo, è la proroga o meno del programma europeo di assistenza alla Grecia, che scade a fine mese. Il governo Tsipras non vuole chiedere un prolungamento perché esso comporterebbe l’accettazione del Memorandum concordato con la Troika, che prevede una serie di tagli alla spesa, riforme e aumenti delle tasse. Tuttavia, senza proroga del programma, la Grecia resterebbe priva di finanziamenti e si troverebbe in bancarotta. Ieri Varoufakis ha lanciato la proposta di un «prestito-ponte» per dieci miliardi di euro, che consentirebbe al Paese di arrivare fino all’estate e negoziare nel frattempo un accordo complessivo con i suoi creditori. Per ottenerlo, il governo greco sarebbe disposto ad accettare circa il settanta per cento delle misure già comprese nel memorandum. Ma non vuole più negoziare con la Troika e punta ad ottenere l’autorizzazione di ridurre l’avanzo primario del bilancio dal tre per cento, previsto per quest’anno, all’1,5 per cento. Ieri però, le posizioni degli europei non sono apparse molto concilianti. Per loro il Memorandum che fa parte del programma di assistenza va sostanzialmente rispettato. E l’unico modo in cui la Grecia può ottenere nuovi finanziamenti è domandando una proroga del programma. «Ognuno è libero di fare quello che vuole, ma un programma esiste già. O viene portato a compimento, o non abbiamo più un programma», ha tranciato netto il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble. Anche se tutti si dicono favorevoli alla permanenza di Atene nell’euro, sono in molti a ritenere che questo risultato non deve essere raggiunto a qualsiasi prezzo. «Penso 16 che tutte opzioni siano aperte — ha spiegato il ministro lussemburghese dell’economia, Pierre Gramegna — i greci hanno detto che vogliono restare nell’euro, dobbiamo prendere per buona questa loro dichiarazione ma questo comporta degli obblighi. Vedremo». Più duro ancora, il suo collega austriaco ha invitato bruscamente il governo greco «a farla finita con le provocazioni». Da parte sua il governo greco ha cercato di rafforzare la sua posizione negoziale inviando il ministro della difesa a Mosca, dove ha incontrato il ministro degli esteri russo Lavrov. Proprio nel giorno in cui a Minsk Merkel e Hollande cercavano un’intesa con Putin per fermare la guerra in Ucraina, Atene si è detta «contraria» alla politica di sanzioni contro la Russia. In cambio ha ricevuto la promessa che Mosca «prenderà in considerazione» eventuali richieste di aiuto finanziario da parte greca. Ma queste manovre non sembrano aver prodotto grande impressione tra gli europei, al di là di una comprensibile irritazione. E oggi, al vertice dei capi di governo che si terrà a Bruxelles, Tsipras avrà difficoltà a far valere un eventuale veto greco contro nuove misure per far pressione su Mosca. Per il momento, insomma, la Grecia sembra con le spalle al muro. Le uniche concessioni che gli europei appaiono disposti a fare sono puramente formali. Non si dovrebbe parlare più di troika, ma di un negoziato con «i rappresentanti delle istituzioni», che però restano sempre la Commissione, il Fondo monetario e la Banca centrale. La proroga del programma di assistenza potrebbe essere definita una «proroga tecnica», che i greci potrebbero ribattezzare «accordo-ponte». Ma la sostanza del Memorandum, e delle condizioni in esso contemplate, per il momento non viene messa in discussione. Tocca a Tsipras decidere se accettare queste condizioni o guidare il Paese fuori dalla moneta unica. Del 12/02/2015, pag. 13 Posizioni ora meno lontane ma il nodo è il memorandum ETTORE LIVINI Meno quattro giorni al D-Day. L’Eurogruppo, come previsto un po’ da tutti, si è chiuso con una fumata grigia. Lunedì, senza un’intesa, la Grecia rischia di dare l’addio all’euro. E da oggi ad allora, mentre la sabbia corre nella clessidra, Atene e i suoi creditori dovranno lavorare di lima per trovare – se possibile – i compromessi necessari a siglare “un accordo che metta d’accordo tutti”, come chiedono da sempre i protagonisti del negoziato. Quante probabilità ci sono di quadrare il cerchio? «Ognuno dovrà fare dei sacrifici», ha suggerito Jacob Lew, segretario al Tesoro Usa. E da questo punto di vista – dicono quasi tutte le fonti vicine alle trattative – c’è la volontà e la possibilità di trovare un terreno comune su cui dialogare. Il diavolo però sta nei dettagli. E visti i toni accesi e le promesse di queste ultime ore, il vero problema sarà trovare una formula semantica ed estetica per firmare una pace vendibile sia in Germania («O la Grecia accetta il memorandum della Troika o è finita», ha garantito Wolfgang Schaeuble ai suoi concittadini) che sotto il Partenone. Dove la gente – come ha promesso Tsipras - si aspetta che l’era dell’austerità sia davvero alle spalle e di memorandum non vuol più sentir parlare. La verità è che negli ultimi giorni, al di là delle frasi ad effetto per il palcoscenico domestico, le posizioni di Atene e dell’Europa hanno già iniziato ad avvicinarsi. Il governo Tsipras ha mandato in archivio la richiesta di una conferenza europea sul debito, ha moderato i toni sul taglio al debito e ha persino ribaltato lo stop alla privatizzazione del 17 Pireo. Segnali di fumo raffinati, colti però al volo dagli sherpa di Bruxelles che hanno convinto i falchi del rigore ad aprire qualche spiraglio. Sul ruolo della Troika, per dire, insiste ormai solo Schaeuble mentre il resto della Ue sembra pronta a studiare nuove forme di supervisione per la Grecia. E persino Jeroen Djisselbloem si è presentato ieri «pronto ad ascoltare le proposte di Yanis Varoufakis». Un bel passo avanti per chi fino a poche ore prima sosteneva che l’unico piano sul tavolo era quello concordato con Ue, Bce e Fmi. L’orologio del resto obbliga tutti ad essere realisti. Sul tavolo dell’Eurogruppo si discute infatti quanto costerà ancora ai creditori tenere Atene nell’euro. Mentre i danni di una sua uscita (malgrado in molti esorcizzino lo spettro sostenendo che il rischio contagio non c’è più) rischiano di essere incalcolabili. Dove si possono avvicinare ancora le parti? Gli spifferi dell’Eurogruppo danno qualche indicazione precisa: Tsipras ad esempio potrebbe accettare di rinviare alcuni dei costosissimi “interventi umanitari immediati” previsti nel programma elettorale di Syriza. L’ha già fatto posticipando la revisione dello stipendio minimo e del ripristino della tredicesima ai pensionati. E potrebbe subordinare quelli irrinunciabili a una tempistica concordata con i creditori. Ue, Bce e Fmi invece – malgrado i mal di pancia tedeschi – potrebbero concedere qualche mese di tempo da Atene per presentare le sue proposte. Mettendo mano nello stesso tempo al portafoglio per garantire ossigeno al Partenone. L’ipotesi è lo sblocco degli 1,9 miliardi di profitti della Bce sui titoli di stato ellenici e magari il via libera a nuove emissioni di titoli di Stato. Superato lo scoglio del 28 febbraio (giorno in cui scadrà il vecchio programma della Troika) le parti potranno lavorare assieme per mettere a punto le misure – lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, meritocrazia nel pubblico impiego e modernizzazione della macchina dello Stato – su cui il programma di Syriza in qualche caso è molto più vicino alle corde dei creditori di quello di Antonis Samaras. E a ridefinire – operazione che tutti sanno inevitabile – il profilo del debito ellenico, nella speranza che la ripresa dell’economia e dell’occupazione renda il tutto più facile. Nessuno, naturalmente, si illude che tutto possa filare così liscio. Il vero collo di bottiglia – dicono molti - è quello che si dovrà superare in queste ore. Ed è un nodo “linguistico”. L’intesa, vista dalla Grecia, dovrebbe segnare l’addio definitivo al memorandum della Troika. Vista da Berlino invece dovrà sembrare esattamente l’opposto: cioè la prosecuzione, con qualche timida concessione, dei programmi concordati negli anni scorsi. Soluzione che alla fine Tsipras potrebbe essere costretto a mandar giù pur di incassare i soldi per tenere in piedi il paese. Si vedrà. Il tempo stringe. E non a caso anche chi tifa contro l’accordo si è affrettato a mettere sul tavolo le sue carte. «Siamo pronti ad aiutare Atene se ce lo chiede» ha detto ieri il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov. Il premier cinese Li Keqiang ha invitato Tsipras in Cina. Il premier di Atene invece corre sul filo. Il 75% del paese è con lui, dicono i sondaggi, ma il 72% vuole rimanere nell’euro. Il compromesso con Bruxelles si troverà mischiando bene assieme come in un cocktail questi due ingredienti. del 12/02/15, pag. 2 di Salvatore Cannavò Quelli che tifano Tsipras: anche il sindacato tedesco contro Angela 18 Alexis Tsipras sembra accerchiato da tutti i governi europei e quindi dai loro paesi. Però la solidarietà e la vicinanza che ha raccolto da quando ha preso la guida della Grecia non è trascurabile. Soprattutto se proviene dalla Germania. L’appello La Grecia una chance per l’Europa, non una minaccia reca come prima firma quella di Reiner Hoffmann, presidente della Confederazione sindacale tedesca, la Dgb: “Il terremoto politico avvenuto in Grecia – si legge – è un’opportunità non solo per questo Paese afflitto dalla crisi, ma anche per ripensare e rivedere in modo sostanziale la politica economica e sociale dell’Unione europea”. Il testo è siglato anche dalle sigle sindacali di categoria, molto importanti anch’esse negli equilibri politico-sociali della Germania: il sindacato dei Servizi, Ver. di, il più grande d’Europa, quello delle Costruzioni, Agricoltura e Ambiente, Ig. Bau, il sindacato dei Trasporti, Evg, dell’Alimentazione, Ngg, dell’Educazione, Gew e quello della metallurgia, IgMetall. “I miliardi che sono confluiti verso la Grecia sono stati utilizzati soprattutto per la stabilizzazione del settore finanziario”, scrivono i sindacati tedeschi ricordando che “il Paese è stato spinto da una brutale politica di austerità verso la più profonda recessione”. “NESSUNO DEI PROBLEMI strutturali del Paese è stato risolto, continua il documento che propone di “negoziare seriamente e senza ricatti con il nuovo governo greco per aprire nuove prospettive economiche e sociali per il Paese che vadano oltre la fallimentare politica di austerità”. Anche perché “la sconfitta alle urne dei responsabili delle politiche adottate finora in Grecia è una decisione democratica che va rispettata a livello europeo”. Dunque, “bisogna dare una chance al nuovo governo e la continuazione del cosiddetto percorso di ‘ riforme ’ adottato finora, significa negare di fatto al popolo greco il diritto ad attuare nel proprio Paese un cambiamento di rotta della politica che è stato democraticamente legittimato”. Una presa di posizione molto rilevante se si considera il ruolo e il peso del sindacato nella società tedesca. Con oltre 6 milioni di iscritti la Dgb svolge ancora un ruolo importante negli equilibri della Spd, la socialdemocrazia che è in calo da tempo ma che governa il paese nella coalizione con Angela Merkel. Il sindacato, inoltre, gode della Mitbestimmung, il modello di cogestione che consente alle organizzazioni dei lavoratori di sedere nei Consigli di sorveglianza delle grandi aziende e di avere, quindi, una forte superficie di contatto con il mondo imprenditoriale. Reiner Hoffmann ha preso parola subito dopo le proposte avanzate dal ministro dell’Economia greco Yanis Varoufakis, giudicando positivamente l’intenzione di non chiedere più il semplice annullamento del debito ma di optare per un’opzione più ragionevole come il legame tra il tasso di interesse e la crescita economica del paese. Ma il presidente della Dgb apre anche all’ipotesi di una Conferenza europea sul debito in modo “da ristabilirne la sostenibilità e conseguentemente stabilizzare la zona euro”. La Dgb non si è mossa in solitudine perché sulla strada del sostegno alla Grecia si è incamminata anche la Confederazione europea dei sindacati (Ces). La sua presidente, Bernadette Segol, si è pronunciata in questo senso la scorsa settimana: “È vitale per la democrazia in Europa che sia rispettata la volontà chiaramente espressa dal popolo greco di mettere fine all’austerità”. In questo contesto si comprende meglio anche la decisione dell’italiana Cgil di schierarsi apertamente dalla parte di Tsipras e di fare propria la manifestazione che si svolgerà sabato prossimo a Roma in solidarietà con la Grecia. LA LISTA DEGLI AMICI di Syriza quindi si allunga anche se si distingue per la sua eterogeneità. Ieri, ad esempio, Beppe Grillo ha proposto alla stessa Syriza e alla spagnola Podemos di farsi promotori di una mozione al Parlamento europeo per una Conferenza internazionale sul debito. Ipotizzando anche l’adesione di forze di destra come la Lega Nord e il Front national di Marine Le Pen. La quale, alla vigilia delle elezioni greche, si era pronunciata a favore di Tsipras. Ma la Grecia può contare anche sui buoni auspici di Barack Obama che dal giorno della vittoria della sinistra greca sta spingendo l’Europa per 19 offrire un compromesso accettabile. E poi c’è la Russia. Lo scambio di cortesie è stato molto visibile ieri, proprio durante la riunione dell’Eurogruppo. Il ministro degli Esteri russo ha aperto alla possibilità di “aiuti finanziari” diretti mentre la Grecia si è opposta alle sanzioni contro Mosca sulla vicenda ucraina. Del 12/02/2015, pag. 23 Is, Obama chiede al Congresso l’ok alla guerra È la prima volta dalla domanda formale di autorizzazione all’uso della forza fatta da Bush nel ‘92 Niente “vaste operazioni terrestri come in Iraq e Afghanistan”, ma sì ad azioni mirate di commando FEDERICO RAMPINI «Lo Stato Islamico, se non contrastato, è una minaccia che va ben oltre il Medio Oriente, può arrivare fino al territorio degli Stati Uniti». Barack Obama chiede poteri speciali, di fatto la dichiarazione di uno stato di guerra, sia pure con limiti e scadenze: tre anni, passati i quali sarà il suo successore a dover verificare se i jihadisti sono stati debellati. Si chiama “autorizzazione per l’uso delle forze armate degli Stati Uniti”. Con una lettera al Congresso e un annuncio alla nazione ieri pomeriggio, il presidente spiega che «la sicurezza nazionale è in gioco», ma con una coalizione all’attacco «l’Is perderà». È la prima volta che il Congresso viene chiamato a dare al presidente questi poteri di guerra in modo così formale e solenne, dopo il precedente del 2001-2002: allora, in seguito alla strage delle Torri Gemelle, furono votate leggi dai contorni molto ampi che diedero il via alle guerre in Afghanistan e Iraq. Stavolta invece l’atto di guerra ha delle restrizioni precise, lo stesso Obama non vuol consegnare “carta bianca” a chi gli succederà. Perciò il presidente insiste su queste limitazioni: «No a guerre di lungo termine, no alle vaste operazioni di combattimenti terrestri come quelle che abbiamo condotto in Iraq e in Afghanistan ». Sul fronte sirianoiracheno, a combattere i jihadisti del Grande Califfato «devono essere mobilitate forze locali, non le truppe americane». È la linea da non oltrepassare: «Niente scarponi americani sul terreno ». Blitz aerei, bombardamenti dall’alto, droni, ma non un dispiegamento di soldati che esporrebbe l’America a nuove vittime, all’inevitabile escalation in caso di rovesci contro l’avversario. Tocca all’esercito regolare iracheno, ai peshmerga curdi, ai ribelli siriani, il compito dei combattimenti terrestri. Però Obama inserisce delle eccezioni. Sono dettate anche dall’emozione provocata dopo le decapitazioni di ostaggi Usa, l’ultima esecuzione di una giovane donna impegnata nell’azione umanitaria; nonché l’allarme mondiale suscitato dalla strage di Charlie Hebdo a Parigi. Nella legge che sottopone al Congresso, Obama elenca i casi e le modalità in cui anche gli americani si spingerebbero sul territorio siriano. «Occorre flessibilità per condurre operazioni di combattimento terrestre in circostanze limitate: i salvataggi di personale americano e alleato; l’uso di commando speciali per colpire i dirigenti dell’Is; le operazioni di intelligence; le perlustrazioni sul terreno per localizzare i bersagli dei raid aerei; l’assistenza alle forze alleate ». L’annuncio di Obama rivela il tormento del “guerriero riluttante”. Il presidente si sente costretto ad alzare il tiro contro la minaccia jihadista, soprattutto dopo le esecuzioni di ostaggi americani e gli attentati all’estero. Il fronte del pericolo si allarga: proprio ieri gli Stati Uniti hanno dovuto chiudere la loro ambasciata nello Yemen. E perfino il ritiro delle 20 ultime truppe dall’Afghanistan viene rallentato di fronte all’imminente “offensiva di primavera” dei Taliban. Obama sente di dover dire questa verità alla nazione e al Congresso: la battaglia contro i jihadisti va affrontata con mezzi adeguati. Non vuole continuare l’escalation strisciante di una guerra “non dichiarata”, che era in atto da cinque mesi con oltre 2.000 raid aerei. Non vuole neppure legarsi le mani: l’autorizzazione chiesta al Congresso non si limita strettamente ai territori di Siria e Iraq, lascia aperta la possibilità di inseguire e colpire forze jihadiste “associate all’Is” ovunque nel mondo. La legge di guerra che Obama presenta al Congresso, menziona esplicitamente l’uccisione della 26enne Kayla Mueller e di altri tre ostaggi (un quinto cittadino americano, prigioniero in Siria, sta rischiando la stessa fine). Le prime reazioni indicano un consenso bipartisan, con sfumature e riserve. La maggioranza repubblicana sembra disponibile a votare questa legge, semmai la critica perché troppo timida. «Se autorizziamo l’uso della forza militare — dice il leader della Camera, il repubblicano John Boehner — il presidente deve avere tutti i mezzi necessari per vincere questa battaglia ». Il presidente della Commissione Esteri del Senato Bob Corker, anche lui repubblicano, invita Obama a «definire una strategia chiara per debellare la minaccia dello Stato islamico», e si dice convinto che «assolveremo il nostro dovere costituzionale con un voto bipartisan». Le voci più critiche arrivano da sinistra. Il deputato californiano Adam Schiff, della Commissione di vigilanza sui servizi segreti, si dice «preoccupato per la mancanza di limiti geografici a questa campagna militare, e la definizione troppo elastica delle forze alleate». Cioè quelle che i soldati Usa dovrebbero assistere, formare, soccorrere anche a costo di scendere “con gli scarponi” sul terreno insidioso di questa nuova guerra. del 12/02/15, pag. 4 Yemen, occidentali in fuga dai ribelli Washington evacua l’ambasciata Francesco Semprini Gli Stati Uniti temono che lo Yemen diventi la prossima Libia. E, con l’incubo di un altro attacco come quello che costò la vita all’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi nel 2012, hanno decretato lo stato di emergenza e ordinato la chiusura dell’ambasciata Usa a Sana’a. Subito seguiti dagli alleati occidentali, come Gran Bretagna e Francia, che hanno ordinato l’evacuazione delle rappresentanze diplomatiche nella capitale. Mentre Italia e Germania hanno rivolto un appello ai concittadini rimasti nel Paese per casi di assoluta necessità, ad andarsene quanto prima. L’allarme dell’Onu «Siamo sull’orlo di una guerra civile», ha dichiarato l’inviato delle Nazioni Unite, Jamal Ben Omar, ribadendo la preoccupazione della comunità internazionale per le sorti di uno Stato spaccato, con la rivolta degli sciiti Houthi che ha cacciato il governo e Al Qaeda e l’Isis che si ritagliano spazi sempre più ampi. Negli Stati Uniti la rivolta a guida sciita viene guardata con attenzione, ma anche con un certo interesse. I ribelli Houthi, giunti nei mesi scorsi dai territori del Nord, hanno preso possesso della capitale, ponendo fine da gennaio al potere del presidente Abed Rabbo Mansur Hadi. In altre regioni del Paese è forte la resistenza delle popolazioni e dei clan sunniti, che accusano gli Houthi di essere una diramazione dell’Iran. Da Sana’a a Parigi 21 Gli Houthi, tuttavia, sono agli occhi degli Stati Uniti una garanzia contro il proliferare delle attività terroristiche che vedono nel braccio di Al Qaeda nella Penisola arabica (Aqab), il principale regista di una fucina di jihadisti pronti a sferrare attacchi in tutto il mondo occidentale. È qui che si sarebbero indottrinati e formati gli attentatori di Parigi, come i kamikaze che hanno operato in territorio americano dal 2009 ai nostri giorni. È originario dello Yemen l’imam Anwar al-Awlaki, ispiratore e formatore degli jihadisti che hanno sferrato attentati dinamitardi ad alto tasso tecnologico negli Usa. Ecco perché, nonostante tutte le preoccupazioni del caso, Washington tratta con una certa attenzione la crisi yemenita. E a rendere ancor più complicata la situazione vi è la presenza di un forte movimento secessionista nel Sud, che vorrebbe la creazione di uno Stato separato, come quello esistito fino al 1990. Migliaia di sostenitori delle milizie sciite hanno manifestato nelle vie di Sana’a gridando slogan di «Morte all’America» e «Morte a Israele», uno scenario che ricorda quello della rivoluzione iraniana del 1979. Meglio gli sciiti a Al Qaeda Ma in realtà, secondo fonti di intelligence, ci sarebbero da tempo contatti tra le forze di opposizione Houthi e gli stessi americani, uniti dal medesimo obiettivo di contrastare l’avanzata qaedista nella Penisola arabica. Questo è il motivo che darebbe un certo margine di manovra alle milizie sciite, la cui corsa verso Sana’a ha visto due giorni fa la conquista della città di Radda, nella provincia centrale di Al Bayda, al termine di un violento scontro tra forze governative e ribelli. 22 INTERNI del 12/02/15, pag. 10 Salta la trattativa sulle riforme Seduta a oltranza alla Camera La scelta anti-ostruzionismo del Pd, che concede alle opposizioni il voto finale a marzo Francesca Schianchi «Ho fatto tante nottate in discoteca, posso farne qualcuna anche qui…», sospira la deputata renziana Alessia Morani a metà pomeriggio, dopo che nella riunione del Pd il capogruppo Roberto Speranza ha avanzato l’idea di un’interminabile seduta fiume sulla riforma costituzionale. Un’ipotesi che si concretizza in serata, come soluzione all’ostruzionismo delle opposizioni: una maratona di voti a oltranza che inchioderà i deputati a Montecitorio fino alla fine dei voti, presumibilmente sabato, qualche migliaio di emendamenti e di caffè dopo. Aggirare l’ostruzionismo «Se vogliono discutere nel merito ci siamo, se no siamo pronti ad andare avanti con buon senso e tenacia, perché noi le riforme le facciamo», garantisce il premier-segretario Matteo Renzi. «Sono sei mesi che è in corso il dibattito costituzionale alla Camera», ricorda, ma «il problema è che non vogliono discutere nel merito, desiderano fare polemiche e ostruzionismo», lamenta. Il regolamento della Camera consente a ogni inizio seduta di aggiungere alla legge nuovi subemendamenti: le opposizioni ne hanno già presentati circa tremila, per non permettere loro di moltiplicarli oltre, al Pd viene l’idea della seduta fiume. Si va avanti notte e giorno in un’unica, infinita seduta, che può avere solo brevi sospensioni tecniche. Una giornata di trattative Un’ipotesi che, sperano fino a sera nel Pd, dovrebbe servire come arma di pressione per trovare una mediazione con le opposizioni. Le trattative sono serratissime: più tempo per discutere e disponibilità del governo a rinviare il voto finale a marzo, in cambio dell’impegno a ritirare gli emendamenti ostruzionistici. Una proposta che viene fatta a tutte le minoranze, dal M5S a Sel alla Lega a Forza Italia, allontanatasi dal percorso delle riforme con la rottura del patto del Nazareno («con Berlusconi i rapporti non sono positivi», ammette Renzi). Dubbi nel Pd «Spero non si debba ricorrere alla seduta fiume: sarebbe una soluzione procedurale a un problema politico», scuote la testa nel tardo pomeriggio Stefano Fassina. Per proporre quella via d’uscita, Speranza ha riunito i suoi deputati alle tre del pomeriggio. E hanno tutti convenuto che potrebbe essere l’estrema ratio. Ma non sono mancati interventi critici, come quello dello stesso Fassina, che pone un problema politico: «Se la gabbia del patto del Nazareno con Fi è saltata, dovremmo provare ad allargare la maggioranza sulle riforme ad altri». Interviene con qualche dubbio Gianni Cuperlo, e anche il veltroniano Walter Verini, per sottolineare alcune forzature e rigidità che forse si sarebbero potute evitare. E c’è anche chi, come il presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano, ricorda problemi pratici: «Entro il 13 la mia Commissione deve dare i pareri sui decreti del Jobs act, come facciamo se siamo bloccati in Aula?». Voto finale a marzo 23 Dalle opposizioni chiedono modifiche al testo che il governo non è disposto a concedere. Dopo ore di trattative, alle dieci di sera Lega e Fi ritirano i propri emendamenti. Ma non lo fa il M5S. Si continua a discutere, si sospende l’Aula. Si convoca una riunione dei capigruppo: la proposta del Pd è seduta fiume per terminare gli emendamenti entro sabato e rinvio del voto finale a marzo. Una concessione che dovrebbe garantire la permanenza in Aula anche delle opposizioni notte e giorno: necessaria, per il numero legale. del 12/02/15, pag. 10 “Comando, fatica e ambizione” Renzi contro i tabù della sinistra Il premier parla agli allievi ufficiali dei carabinieri: e si lancia nell’elogio dell’uomo solo alla guida Fabio Martini Dall’ incipit, un po’ irrituale, si intuisce che non sarà il solito discorsetto. Davanti ai vertici dell’Arma dei carabinieri, riuniti per l’apertura del corso allievi ufficiali, Matteo Renzi esordisce così: «Vorrei cogliere questa occasione, col suo permesso signor Comandante generale, non per lanciarmi in una dissertazione dentro i confini nazionali...». E da quel momento il presidente del Consiglio si produce in una sequenza di espressioni spiazzanti: l’elogio del concetto di comando («non è una parolaccia»), ma anche l’apologia della «paura», della «fatica» e dell’«ambizione» di chi si trova a prendere una decisione. In altre parole, un argomentato panegirico dell’«uomo solo al comando». Alla fine, una demolizione sia dell’etica della irresponsabilità, tipica della mentalità italiana, ma anche della fobia del comando: un discorso col quale Renzi ha smontato un altro pezzo della cultura politica della sinistra italiana. Discorso, con qualche passaggio da presidente americano, nel quale Renzi ha mixato patriottismo e politica. Esordio retorico sulla cerimonia dell’alzabandiera, ma poi Renzi va al sodo: «In Italia c’è tradizionalmente un racconto per cui comandare è quasi una parolaccia» e questo soprattutto per ragioni storiche («una dittatura vissuta come ferita non risarcita») da esorcizzare. Dice Renzi: «Quante volte si dice: attenzione all’uomo solo al comando! Un’espressione che in realtà non ha nulla di militare né di politico ma è stata usata da un radiocronista» per raccontare «l’epica ciclistica di Fausto Coppi». E qui parte il contrattacco, musica per le orecchie dei carabinieri: «Il comando è un servizio al Paese che non dura per sempre ma ha un termine e dunque non è al servizio delle persone ma delle istituzioni». Smaltito il primo messaggio - parlando a braccio ma seguendo il filo di un testo che aveva preparato in anticipo - Renzi è arrivato a un altro concetto non rituale in un discorso da cerimonia: «Quando vi dicono: al comando non sarai mai solo.... Bene, sappiate che non è così: nel comando c’è una componente di solitudine». E a questo punto il premier ha «estratto» la citazione di uno scrittore, Dino Buzzati: «Poco più in là della sua solitudine, c’è la persona che ami». Citazione letteraria, ma che per una volta non è parsa appiccicaticcia: «Ciascuno di voi, poco più in là della vostra solitudine, ha una dimensione affettiva, ma lasciatemi dire che anche nella gestione della vostra solitudine c’è un pezzo della vostra formazione...». Un inedito Renzi intimistico, associato al consueto Renzi volontaristico, che si concede un tric-trac finale, di nuovo spiazzante: «Io vorrei augurarvi tanta fatica, lo so che non si augura la fatica; vorrei augurarvi tanta paura e lo so che non si augura la paura, ma come 24 ha detto Nelson Mandela, il coraggio non è la mancanza di paura, è avere paura e vincerla». E finalmente: «Vorrei augurarvi tanta ambizione: slegata da un disegno collettivo e da una capacità di relazione, l’ambizione è un male, ma intesa come desiderio di puntare in alto, è tipico di chi appartiene ad una grande storia». Prolungati applausi dagli uomini in divisa. del 12/02/15, pag. 14 Aut aut di Berlusconi a Fitto. Lui: che fai, mi cacci? L’ex premier: «Ha quindici giorni per decidere, o sta dentro o sta fuori. E se va da solo non arriva all’1,3%» L’ipotesi della sospensione dal partito. L’eurodeputato contrattacca: stai sbagliando tutto un’altra volta ROMA La prima volta gliel’ha detto in faccia, stavolta in contumacia. Non c’era Raffaele Fitto, da europarlamentare nemmeno ne aveva diritto, alla riunione dei gruppi parlamentari di ieri, e non c’era nessuno della sua folta pattuglia di parlamentari, che hanno ostentatamente disertato la riunione. Ma Silvio Berlusconi il suo «ti caccio» lo ha pronunciato lo stesso, anche se per ora sotto forma di ultimatum: «Non si può andare avanti così. In un partito c’è una minoranza e una maggioranza, si vota, chi perde si adegua. Ho usato tutta la mia pazienza, per mesi, ora basta, Fitto e i suoi decidano: hanno una settimana, quindici giorni massimo, poi o stanno dentro e se ne vanno». Giurano i suoi che l’uscita non fosse premeditata, e smentiscono la ricostruzione che nel documento sulla linea politica poi fatto votare ci fosse un passaggio — poi cancellato — che alludeva e che avrebbe permesso la cacciata dei ribelli. Ma il dibattito — più d’uno ha stigmatizzato l’assenza e anche i voti in libertà dati dai fittiani — il nervosismo per giorni pesantissimi, hanno portato Berlusconi a sfogarsi contro l’ex governatore — «Se va da solo con una lista sua, dicono i sondaggi, non arriva all’1,3%» — e a ipotizzare un provvedimento concreto: «Mi dicono che si potrebbe arrivare alla sospensione per tre mesi». Mentre alcuni parlamentari obiettavano che, da Statuto, la sospensione non sarebbe prevista, e mentre Matteoli e poi Minzolini bloccavano col loro intervento il tentativo di voto per alzata di mano sollecitato da Berlusconi sulla possibile espulsione-sospensione dei fittiani («Non possiamo dividerci, siamo già pochi!»), ecco arrivare la nota stupita di Fitto. «Perché dovremmo essere cacciati? Perché facciamo opposizione? Perché abbiamo avuto ragione sulle riforme e, purtroppo, su tutto il resto? Perché troviamo surreale il passaggio in due giorni da “Forza Renzi” a “Forza Salvini”?». Fitto, che preferisce essere «antipatico e non abile nello sport dell’ossequio a corte», convinto che non esistano né gli organi né le ragioni per decretare una sua espulsione o sospensione, continua a battere sul tasto della perdita di consensi elettorali e degli errori: «Ancora una volta stai sbagliando tutto». E incalza: «Ancora non ci hai detto cosa faremo sulle riforme». Sì perché nella lunga riunione sfogatoio Berlusconi non ha chiarito come voterà FI: «Decideremo alla fine», dipenderà da quante eventuali modifiche ai testi di riforma costituzionale e legge elettorale saranno recepiti dal governo. Una linea — votata all’unanimità — ancora non definita dunque, nonostante l’ex premier abbia ribadito che il patto del Nazareno non c’è più, e non certo per colpa di FI ma di un Pd che «si è rimangiato la parola data», arrivando a imporre una «scelta non condivisa» su una «persona degna» come comunque è Mattarella. 25 Un tragico errore il Nazareno? Se è così, Berlusconi se ne prende la «responsabilità, che è tutta mia, io ho deciso, è stato un gesto nobile il mio, ci avevo creduto», per questo basta adesso con le «recriminazioni» e i processi, perché bisogna guardare avanti. A un partito choccato dalla ricerca immediata dell’abbraccio con la Lega, Berlusconi assicura che non ci saranno cedimenti: con il Carroccio l’alleanza va avanti da anni («Ora saranno anti-euro, ma vi ricordo che prima erano secessionisti...») e proseguirà, ma FI avrà sempre «un ruolo centrale, mai subordinato», e non accetterà «alcun diktat, né sui candidati né sulle alleanze: non esiste che loro vincono il Veneto e noi perdiamo la Campania...». P.D.C. del 12/02/15, pag. 15 Così la fronda aspetta le urne per scatenare il «big bang» La rabbia del leader contro l’ex pupillo: è me che vuole azzerare ROMA Quello che gli fa più male, dice continuamente ai suoi, è non capire «cosa vuole davvero Fitto: gli ho offerto tutto, tutto, ma ha sempre e solo detto no». Ma probabilmente la verità è un’altra: Silvio Berlusconi dentro di sé sa benissimo cosa vuole Fitto, solo che gli riesce difficile perfino esprimerlo. Lo sa da mesi che con l’ex governatore ribelle non c’è più spazio per una mediazione che accontenti tutti, nonostante continui a provarci, nonostante insista nell’offrirgli ruoli sempre più di prestigio, «scegli tu quale» ha ripetuto anche negli ultimi incontri in cui il dialogo si è fatto sempre più serrato, e sempre più tra sordi. Berlusconi sa, insomma, che l’unica cosa che Fitto potrebbe accettare è quella che lui non può dargli: un partito «normale», scalabile, dove tutte le cariche sono in discussione, perfino quella indiscutibile. La sua. E ieri, quando la miccia è stata accesa da chi nel gruppo gli ha chiesto se era possibile continuare così, con gente che nemmeno «si presenta e vota come gli pare», Berlusconi ha detto ciò che gli fa male pure pensare: «Fitto chiede l’azzeramento? Ma lo dica chiaramente che vuole il mio, di azzeramento!». Fitto, ovviamente, si guarda bene dal dirlo. Ma non c’è mossa che non appaia orientata all’obiettivo che Berlusconi paventa. Intanto, il grande capo non lo chiama più leader ma, come è accaduto giorni fa, «icona». Non lo mette in discussione, ma cerca di cancellare passo dopo passo il suo mondo. Lo fa chiedendo l’azzeramento, appunto, di ogni organo, carica, decisione che da Berlusconi promana. Lo fa contestando la linea del fondatore, attribuendo gli errori non a lui ma a chi «gli sta intorno, e gli dice sempre di sì portandolo al disastro». Lo fa, soprattutto, immaginando che la via imboccata dall’ex premier porterà in tempi brevi — le Regionali potrebbero essere l’appuntamento clou — al big bang di FI e di chi l’ha condotta finora. E, a quel punto, solo chi come lui non si sarà in qualche modo «contaminato» con il gruppo di potere di Arcore o di San Lorenzo in Lucina o del Parlamento potrà raccogliere il bastone del comando ed esercitarlo per ricostruire l’area moderata. In questo cammino si inserisce l’iniziativa dei «Ricostruttori» — primo appuntamento a Roma il 21 del mese, che sarà seguito da altri eventi in parecchie città d’Italia —, così simile all’apparenza a quello dei «Rottamatori» di Renzi. E in questa strategia si capiscono gli strappi continui, il controcanto, la dichiarata contrarietà a tutto e su tutto che fa impazzire Berlusconi. 26 Ormai, i due non sono d’accordo più su nulla, nemmeno sulle ricostruzioni. «Questa persona — così ha chiamato il ribelle Berlusconi — mi ha chiesto di convocare un ufficio di presidenza non allargato ma con gli aventi diritto: l’ho fatto e lui non è venuto, e ha tenuto in contemporanea una conferenza stampa!». «È falso! Gli ho detto che quell’organo doveva azzerarlo, e comunque non mi aveva neanche invitato», la replica. «A questa persona avevo chiesto di farmi una relazione con dei suggerimenti su come democratizzare il partito, mai avuta risposta». «Ma quale relazione, io gliel’ho detto chiaro: azzerare tutto, ed eleggere tutto dal basso. Lo dico in pubblico e in privato». Uscirne diventa arduo, regole chiare non ce ne sono, tutto può succedere. Berlusconi continua a chiedere in giro se esiste un modo per liberarsi di Fitto e dei suoi, gli hanno spiegato che no, servono i probiviri, ma «forse una sospensione si potrebbe fare», e ieri ci ha provato anche a far votare ai suoi l’idea: parecchie mani si sono alzate fino a quando il saggio Matteoli — magari ricordando la drammatica rottura con Fini — non ha fermato tutti con un intervento per chiedere «l’unità». E dire che ogni volta lo ripete: «Non voglio fare di lui una vittima, avrebbe solo da guadagnarci». Ma tra vittime e carnefici, quando parla di Fitto, per Berlusconi è ormai difficile vedere la differenza. Del 12/02/2015, pag. 16 La tentazione del premier: “Se rinviamo la delega si può trattare meglio sulle riforme” GOFFREDO DE MARCHIS E’ IL giorno in cui Matteo Renzi si ferma, smette di correre e apre a una doppia trattativa, sul decreto fiscale e sulle riforme. Lo fa a modo suo. Fissando tempi certi, rilanciando subito un ultimatum sulla legge costituzionale in discussione alla Camera. «Vogliamo una risposta entro la sera. Se è negativa, procediamo con lo strumento della seduta fiume». Ma è lo stesso premier, la mattina, ad attivare Maria Elena Boschi e Roberto Speranza per aprire un “corridoio” diplomatico con Forza Italia e la Lega in modo da far sparire i 3 mila subemendamenti, numero peraltro sempre in crescita visto che quel tipo di modifica si può presentare in qualsiasi momento. Ieri, per dire, Brunetta ne ha presentati altri 175, praticamente uno fotocopia dell’altro. Ostruzionismo puro. «Facciamo il possibile per evitare l’accusa di riforme approvate a colpi di maggioranza. Poi però andiamo avanti», ha spiegato Renzi ai suoi “ambasciatori”, affidandogli il mandato di pace. Senza però accettare di essere messo in scacco da Forza Italia, di bloccare il processo. E quando la risposta è stata un no, il Pd ha rispinto sull’acceleratore. Un lungo rinvio è invece arrivato sul decreto fiscale e sulla norma più contestata, la non punibilità sotto l’evasione del 3 per cento dell’imponibile, quella della “manina”, quella del blitz alla vigilia di Natale, quella ribattezzata salva Silvio. «Facciamo decantare la situazione », è stato il ragionamento del premier. «Non è il caso di mettersi controvento all’opinione pubblica», è il ritornello ripetuto a Palazzo Chigi. Correre a perdifiato verso il consiglio dei ministri del 20 febbraio significa anche spalancare le porte a un nuovo scenario di scontro dentro l’esecutivo e con una parte delle forze politiche, minoranza del Pd inclusa. Nei giorni scorsi infatti Renzi ha ricevuto il nuovo testo dal ministero dell’Economia e leggendolo ha scoperto che era stato «ripulito» dalle norme maggiormente contestate compresa la soglia del 3 per cento. Bisognava quindi, come la volta scorsa (era il 24 dicembre scorso), far intervenire la “manina”, aprire un contenzioso con Piercarlo Padoan e i tecnici di via XX settembre, rimettere il governo al centro di una 27 bufera, piccola o grande che fosse. Meglio aspettare. Nel frattempo si può organizzare meglio tutto il sistema perché sia davvero possibile, come ha spiegato il premier a Skytg24, recuperare le cifre evase fino in fondo. Anche con la non punibilità ma facendo scattare sanzioni pecuniarie veramente efficaci. In più, l’appuntamento del 20 si era caricato veramente di troppe aspettative e non tutte si potevano soddisfare. Finora Renzi ha ammesso un solo errore nei suoi 11 mesi di governo: l’inasprimento fiscale per le partite Iva. Bene, il Tesoro aveva promesso di risolvere il caso già nel decreto Mille proroghe poi aveva dovuto fare marcia indietro. L’obiettivo allora era correggere lo “sbaglio” nel decreto fiscale all’esame la prossima settimana. Ma gli uffici hanno fatto presente che nulla era cambiato nelle ultime ore: mancava la copertura per il Milleproroghe e manca la copertura per intervenire adesso. Stavolta Renzi non ha forzato, pur convinto che «la norma del 3 per cento non riguarda Berlusconi e questo ormai è chiaro» e che la cosa più importante «sia recuperare i soldi punendo economicamente gli evasori». Però non era il momento di ripetere un braccio di ferro. Con Padoan e con una parte del suo governo, perché i Giovani turchi di Matteo Orfini e Andrea Orlando gli avevano espresso la loro posizione: valutiamo bene tutte le opzioni e prendiamo tempo, se necessario. A fare definitivamente chiarezza è arrivata una «tecnicalità », come la chiama l’ex sindaco di Firenze. Non è detto infatti che approvare il decreto il 20 avrebbe consentito di rientrare nei tempi della delega fiscale, che scade il 27 marzo. Fra passaggi vari (esame non vincolante delle commissioni competenti e vaglio istituzionale) il rischio era di sforare il termine. Chiedere una proroga è la soluzione per «far decantare» la vicenda e preparare al meglio il dossier. Superata la partita del Quirinale, Renzi è alla prese con la ridefinizione degli equilibri della maggioranza. Ha bisogno, in questo momento, di rinsaldare i bulloni fuori dal recinto del patto del Nazareno. Di mettersi al centro di un nuovo assetto che comprende a pieno titolo i dissidenti del suo partito, i fuoriusciti del Movimento 5 stelle, i nuovi arrivi nel Pd. La direzione di lunedì è il primo passaggio per mettere alla prova un sistema che da una parte ha rafforzato la leadership del premier e dall’altra ha portato Forza Italia a sfilarsi da un ruolo di sponda che andava oltre le riforme. Quando Renzi ripete «abbiamo i numeri anche da soli» in qualche modo deve fare i conti con questo cambio di quadro. Il rinvio del decreto silenzia la polemica nel Pd. «Io continuo a pensare che il decreto andava approvato con una robusta correzione. Dopo di che, se lo slittamento consente una maggiore riflessione e la cancellazione di concetti inaccettabili, meglio così», dice Stefano Fassina. Un rinvio che evita il testo votato il 24 dicembre, spiega l’ex viceministro, non può non essere una buona notizia. Del 12/02/2015, pag. 7 Negazionismo, aggravante della legge Reale. Il Senato approva Eleonora Martini La parola Shoah entra per la prima volta nella legge italiana. Dopo un lungo e travagliato iter, ieri il Senato ha approvato senza emendarlo il testo di legge proposto dalla commissione Giustizia che introduce l’aggravante del negazionismo al reato di odio razziale etnico e religioso contemplato nella legge Reale-Mancino. Se il ddl, che ieri ha ottenuto i sì di 234 senatori, 8 astensioni e 3 no, verrà approvato anche dalla Camera, alle pene previste dall’articolo 3 della legge 654/1975 sarà applicabile un’aggravante fino a tre anni di reclusione per chiunque neghi pubblicamente «in parte o del tutto» la Shoah, i crimini di genoci28 dio, di guerra o contro l’umanità, come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale. Abbandonata dunque l’ipotesi di inserire una nuova fattispecie nel codice penale, come prevedeva il testo precedente proposto dalla commissione quando era prevista la sede deliberante, il ddl, che si compone di un unico articolo, tenta però anche di arginare i rischi di perseguire i reati di opinione, circoscrivendo la rilevanza penale solo all’istigazione pubblica — anche attraverso i mezzi informatici e il web — del razzismo e della xenofobia. Allo stesso tempo, la pena massima per chi istiga pubblicamente a commettere delitti derivanti dall’odio, dalla discriminazione e dal negazionismo, viene ridotta da cinque a tre anni. Un provvedimento, quello di ieri, accolto da Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, come «un baluardo per la difesa della libertà di tutti». Soddisfatto anche il direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, Efraim Zuroff : «Sono leggi importanti, specialmente nei paesi dove la Shoah ha avuto luogo», commenta. Anche se si rammarica che ancora «la Shoah abbia bisogno di protezione legale». A Gattegna, il presidente del Senato Pietro Grasso ha inviato una lettera definendo la giornata di ieri «importante per le Istituzioni del nostro Paese». Istituzioni che mostrano così l’intenzione a «compiere un ulteriore e decisivo passo nel contrasto a tutte le forme di offesa alle vittime e di negazione di quella terribile pagina della nostra storia che è stata la Shoah». Ma l’«amplissima maggioranza» con cui è stato approvato il testo di legge, «quasi all’unanimità», come ricorda lo stesso Grasso, non ha contenuto però il voto della senatrice a vita Elena Cattaneo che, pur definendo i negazionisti dei «ciarlatani», gente che «specula sulla pelle e sul dolore degli altri», ha deciso di astenersi per non rischiare, spiega, di dar loro il ruolo di martiri incompresi. «Facciamoli parlare — dice — e li sbugiarderemo punto dopo punto, ma all’interno di una sede scientifica». D’altronde, aggiunge Cattaneo, «nei paesi che hanno adottato leggi contro il negazionismo, i media sono diventati cassa di risonanza per queste teorie». Per la scienziata, poi, «non è ammissibile imporre limiti alla ricerca e allo studio di una teoria». Più o meno con le stesse motivazioni si sono astenuti gli altri due: Carlo Giovanardi del Ncd e Enrico Buemi del Psi. Per Grasso invece «il Senato ha svolto un lavoro meticoloso, esplorando e approfondendo tutti gli aspetti» «di una materia così complessa e giungendo infine alla stesura di un testo condiviso ed equilibrato», che ha saputo «mantenere intatta la libera espressione delle opinioni e della ricerca storica». del 12/02/15, pag. 15 Si vota: le regole del gioco cambiano in 7 Regioni su 7 Dal premio «ad personam» alla tagliola anti piccoli le leggi che fanno infuriare le opposizioni Milano Si litiga anche sulle regole del gioco. In vista del voto di maggio per le Regionali, le discussioni non riguardano solo chi scenderà in campo (candidati e alleanze), ma anche le leggi elettorali. I consigli delle sette Regioni chiamate alle urne le stanno riscrivendo, o lo hanno appena fatto. E, quasi ovunque, maggioranza e opposizione si lanciano reciproci strali: l’accusa che si sente, spesso, è che chi pregusta la vittoria voglia blindarla. Alcuni interventi sono necessari: bisogna adeguarsi al taglio del numero dei consiglieri. E stanno scomparendo, sull’onda degli scandali sulle spese pazze, i listini bloccati. Però, avviata la riscrittura, tutto è possibile. 29 In Campania è stata battaglia contro un emendamento, presentato dalla maggioranza di Caldoro, che voleva portare dal 3 al 10% la soglia di sbarramento per le liste singole. Una tagliola che avrebbe scongiurato le tentazioni di fuga dalle coalizioni (per esempio dei centristi) e alzato l’asticella per chi di alleanze non ne fa mai, come il M5S («Non ci lasceremo intimidire», ha risposto Di Maio). Poi quasi tutti, nell’opposizione, hanno gridato al «golpe». E la norma è stata ritirata. È invece ancora guerra in Puglia. Dove Michele Emiliano ha detto ai suoi, i consiglieri pd, che chi voterà contro la doppia preferenza uomo/donna potrebbe non essere ricandidato. E l’opposizione ha chiesto l’intervento del capo dello Stato: «Minacce inaccettabili. Secondo la Costituzione i consiglieri non possono essere chiamati a rispondere dei voti», per il capogruppo FI Ignazio Zullo. Ma lo scontro riguarda anche altro. Lo sbarramento, ora al 4%, che si vuole abbassare, o alzare, in base ai calcoli. E il premio di maggioranza: la tentazione del Pd è di collegare il bonus al vincitore (che varia: più voti prendi, più alto il premio) alle preferenze ottenute dal candidato presidente e non soltanto a quelle delle liste. Perché? A sentire l’opposizione, che parla di «legge ad personam», il motivo è che si prefigura che Emiliano prenda più voti della sua coalizione e si voglia far pesare il risultato. Intanto la legge tarda ad arrivare in consiglio. Così come tarda la legge elettorale in Liguria. Dove, da statuto, è necessaria una maggioranza qualificata (27 su 4o consiglieri) che non si è mai trovata: perché sull’abolizione del listino sono tutti d’accordo, ma quando ci si trova a votare l’accordo scompare. In Veneto è stata bagarre in Aula per l’approvazione, il 22 gennaio, della legge elettorale. Lo scontro riguardava la doppia preferenza di genere, che non è passata, e il vincolo dei due mandati per i consiglieri. Questo, sì, approvato, ma in versione soft: non sarà retroattivo, varrà dal 2025 e le ricandidature intanto sono salve. Renato Benedetto del 12/02/15, pag. 26 A rischio tra cavilli e rinvii il processo sulle case antisismiche L’Aquila, i dispositivi installati per rilevare i terremoti sono difettosi Cinque anni e non parte mai: l’ipotesi che il processo per gli isolatori a rischio delle C.a.s.e. «antisismiche» de L’Aquila, di rinvio in rinvio, finisca in prescrizione sta diventando un incubo. Quanti vivono in quelle abitazioni e gli italiani che pagarono cifre spropositate per la «ricostruzione modello» (sic…) hanno diritto a sapere: gli imputati sono innocenti? Vadano assolti. Ma se sono colpevoli devono pagarla. E pagarla cara. Un passo indietro. Venti giorni dopo il terremoto del 6 aprile 2009 il governo Berlusconi vara il progetto C.a.s.e. per costruire 19 «new town» per un totale di 4.600 appartamenti antisismici. Per capirci: moderne palafitte su innumerevoli pilastri che in alto, dove il «capitello» regge la piastra di cemento del pavimento, sono dotate di un meccanismo di acciaio in grado di attenuare con l’elasticità l’impatto delle scosse. Una soluzione giusta. Purché sia tutto scientificamente in regola. Sei mesi dopo, un’inchiesta di Ezio Cerasi e Claudio Borrelli su Rainews24 denuncia invece molti dubbi sulla affidabilità di una parte dei 7.368 «isolatori a pendolo scorrevoli» approvati dalla Protezione civile. Gianmario Benzoni, un ingegnere italiano che insegna da anni alla Università di San Diego, dove dirige il laboratorio di test antisismici della Caltrans, laboratorio 30 all’avanguardia mondiale data l’attenzione dedicata dalla California all’ipotesi del «Big One», spiega infatti che «la serie di test deve essere molto più estesa di quelle effettuate all’Eucentre di Pavia, perché l’isolatore a pendolo o funziona perfettamente o non funziona affatto». Salta fuori così che soltanto uno dei due fornitori degli isolatori, la Fip di Padova, ha ottenuto il «bollino» Eta ( European technical approval ) dopo aver superato i test di laboratorio che sollecitano le strutture simulando strappi tellurici in tre direzioni, come nei terremoti veri. E che i laboratori Eucentre di Pavia dove sono stati testati gli isolatori Alga, messi sotto accusa, hanno come referente lo stesso Gian Michele Calvi che ha la supervisione di tutto il progetto C.a.s.e. aquilano. Nell’aprile 2010 la magistratura rompe gli indugi, acquisisce il servizio giornalistico e apre un’inchiesta ipotizzando una turbativa d’asta e una frode in pubbliche forniture. Il tempo che le indagini mettano a fuoco le responsabilità e l’avvocato dell’azienda milanese Stefano Rossi, ricorda un’ Ansa , riconosce implicitamente che qualcosa non è andato per il verso giusto tanto che «parla di “oltre 2.000 dispositivi” che la stessa Alga intende sostituire prima dell’esito dell’incidente probatorio previsto ad ottobre». La perizia, scritta dai docenti Alessandro De Stefano e Bernardino Chiaia del Politecnico di Torino, è netta: gli isolatori forniti dalla Alga di Milano «presentano materiali diversi da quelli forniti in gara», l’acciaio non è come previsto di 2,5 millimetri ma solo di 2, esistono «criticità ai fini del funzionamento e della sicurezza» e altro ancora. I dispositivi, infatti, «hanno mostrato maggiore criticità, legata soprattutto al fenomeno “stick-slip”». Per banalizzare: sotto l’urto di un terremoto il meccanismo, se non è perfetto, può «ingripparsi». E a quel punto non serve a niente: «La campagna di test sul dispositivo Alga Assergi 1610 ha indotto un grave danneggiamento del dispositivo stesso spiegabile come conseguenza del fenomeno stick-slip». Per carità, aggiunge il perito, «nonostante ciò il dispositivo danneggiato si è rivelato sufficientemente robusto da giungere positivamente alla conclusione dell’intero programma del protocollo di “Serie 2”». Ma «la positiva performance di un isolatore danneggiato pone, in ogni caso, un interrogativo sull’affidabilità». Tanto più che le normative nazionali o europee vigenti «non sempre possono essere sufficientemente rappresentative e cautelative» perché «non includono componenti a frequenza relativamente elevata come quelle presenti nei terremoti reali». Le foto a pagina 98 della perizia, che pubblichiamo, dicono tutto: sotto sforzo nei laboratori californiani di San Diego, il meccanismo si è rotto. Nell’ottobre 2013 il tribunale aquilano scagiona la seconda azienda coinvolta nelle forniture e condanna a un anno di carcere (rito abbreviato) l’ex braccio destro di Guido Bertolaso e responsabile della realizzazione del progetto C.a.s.e. Mauro Dolce. Parallelamente, il gip rinvia a giudizio i due protagonisti principali, cioè il direttore dei lavori Gian Michele Calvi (già tirato in ballo per il contestatissimo disinquinamento alla Maddalena) e Agostino Marioni, l’amministratore di quella Alga Spa che fornì 4.899 degli isolatori finiti sotto inchiesta. Da quel momento, un tormentone. Convocazioni di testimoni e periti («andiamo avanti e indietro senza che ci facciano la grazia di avvertirci», accusa il sismologo Alessandro Martelli, dell’ International Seismic Safety Organization , uno dei primi a esprimere dubbi), richieste di aggiornamento per «mancata notifica», eccezioni procedurali, cavilli, rinvii… E non c’è verso che il dibattimento entri finalmente nel vivo. Essere pessimisti è il minimo: il processo per l’incendio di una grande pineta vicino alla città scoppiato nel 2007 a causa degli errori e della superficialità degli addetti di un cantiere autostradale, spiega sconfortato l’avvocato Lorenzo Cappa, che tutela i 31 terremotati del «Comitato 3 e 32», non è ancora arrivato all’udienza preliminare. Dopo quasi otto anni. Va da sé che il rischio che anche lo scandalo degli isolatori evapori nel nulla è sempre più alto: la legge prevede che il reato si prescriva entro un termine pari alla pena massima stabilita per il fatto, 5 anni nel caso dell’accusa di frode nelle pubbliche forniture di questo processo, sostengono gli ambientalisti. E sulle date si annuncia un braccio di ferro. Certo, spiega l’avvocato Cappa, possibili «eventi interruttivi» potrebbero portare a un allungamento fino a 7 anni e mezzo. Cassazione compresa, però. E per quella data, secondo AbruzzoWeb , «sarà già tanto se l’attuale giudice sarà riuscito a emettere la sentenza di primo grado…». Il punto è che non di parla di un processo qualunque. Per quanto fossero sfacciate le spese per altre «emergenze» aquilane, come le 45 ciotoline d’argento di Bulgari da 500 euro l’una o le penne stilografiche da 433 euro l’una per gli ospiti del G8, i soldi spesi per gli investimenti sugli isolatori antisismici sono molto più importanti. Dal loro funzionamento, dalla loro qualità, dalla loro manutenzione dipende la pelle stessa dei terremotati ai quali era stata garantita (oltre allo champagne nel frigo…) una sicurezza pressoché assoluta. Lo Stato deve mettere la faccia, in questo processo. E guai se, per sciatteria o per distrazione, la dovesse perdere… 32 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 12/02/2015, pag. 20 Corruzione, prescrizione più lunga Contro il reato anche un anno in più per l’appello. Oggi il governo presenta il testo, esclusi i processi in corso La protesta del Csm: serve una proroga per il taglio dell’età pensionabile dei magistrati LIANA MILELLA ROMA . Il falso in bilancio non è ancora chiuso, anche se si intravede una soluzione, soglia al 3%, e una pena più bassa (1-3 anni, anziché 2-6 anni), ma comunque una pena. M5S sfida il Guardasigilli Andrea Orlando sui tempi, ma la prossima settimana potrebbe essere quella buona. Si smuove subito, invece, la prescrizione. Lunga riunione in via Arenula, e apertura concreta sulla corruzione che potrebbe avere un tempo di prescrizione più lungo e soprattutto un anno in più per l’appello. Su questo Orlando apre. Oggi il governo presenta il suo testo, prescrizione sospesa dopo il primo grado e “processo” breve per appello (2 anni) e Cassazione (1 anno). Le novità non si applicheranno ai processi in corso e una norma transitoria lo renderà esplicito. I processi di Berlusconi non saranno toccati, a partire da quello di Napoli sulla compravendita dei senatori che “muore” in autunno. Un favore all’ex premier? Orlando spiega il passo del governo: «Per la prescrizione stiamo facendo esattamente quello che abbiamo fatto per tutte le altre norme, dalla corruzione alla responsabilità civile. Presentiamo il testo approvato il 29 agosto. Lì la norma transitoria c’era. Cambiare adesso sarebbe come commettere un fallo di reazione». Una battuta da leggere così: la norma c’era quando era in vigore il patto del Nazareno, toglierla ora sarebbe una reazione ostile alla svolta di Fi. Sarebbe pure un gesto inutile perché tanto, come dice la Pd Donatella Ferranti, «la nuova prescrizione non si applica ai processi in corso, in quanto norma più sfavorevole». Norma «ultronea» dice Ferranti, e tutti ne sono convinti, tant’è che il ministro, nella discussione sugli emendamenti che comincia oggi in commissione Giustizia della Camera, potrebbe decidere di eliminarla. Come gli garantisce Ferranti, autrice del ddl sulla prescrizione, e che ha sondato più di un noto giurista, «è escluso che si applichi ai processi in corso». Ncd, col sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa, vuole mantenerla. Veniamo alla corruzione. Dove il Pd — da Ferranti a Beppe Lumia — punta i piedi. Lumia chiede un doppio binario, prescrizione doppia per la corruzione rispetto agli altri reati. Ferranti sposa il testo Grasso, la prescrizione per la corruzione si calcola col massimo della pena più la metà, anziché un quarto. È contro Ncd perché, dice Costa, «ci sono già gli aumenti di pena del governo, avremo una prescrizione che passa da 10 a 15 anni, il 55% in più, non si può andare oltre». La novità su cui Orlando ha già aperto è prevedere per la corruzione un anno in più per il processo d’appello che potrà durare non solo due, ma tre anni. Ma il punto, come dice il responsabile Giustizia del Pd David Ermini, è soprattutto «chiudere in fretta, perché non si può più lasciare che il tempo sia il vero giudice dei reati». Nella riunione, contemporanea alla seduta del Csm con Mattarella, è rimbalzata la protesta del vice presidente del Csm Giovanni Legnini e del primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce sul taglio dell’età pensionabile, portata dal governo da 75 a 70, e che richiede al Csm 500 nomine. Legnini sollecita una proroga. Il governo non la 33 metterà nel decreto Milleproroghe. Il consiglio che arriva al Csm da via Arenula è: dimostrare che state lavorando in fretta, poi vedremo. del 12/02/15, pag. 12 Prescrizione, la riforma non sfavorirà Berlusconi Varrà solo per il futuro; e Silvio ha processi che stanno per estinguersi Francesco Grignetti Nel giorno della grande spaccatura del centrodestra, un piccolo sollievo per il Cavaliere arriva dal versante della giustizia: la maggioranza, al termine di un vertice alla Camera, alla presenza del ministro Andrea Orlando e del viceministro Enrico Costa, ha deciso che la riforma della prescrizione potrà valere solo per i reati del futuro. Il risultato concreto è che i conteggi più sfavorevoli agli imputati, come previsto dalla riforma, non incideranno nei processi in corso. E come si sa, un certo Berlusconi ha molte questioni giudiziarie aperte - a Napoli, come a Bari, e a Milano - diverse delle quali sono a un soffio dal cadere in prescrizione. Se gli avessero cambiato le regole in corsa, ne avrebbe ricavato più di un dolore. I processi di Berlusconi Certo, quella di ieri, presenti i capigruppo nelle commissioni Giustizia, è una decisione che inciderà su milioni di processi, non soltanto su quelli di Silvio Berlusconi. Impedirà di dover riconteggiare tutti i tempi di prescrizione nei dibattimenti in corso. Inevitabilmente però è ai processi di Berlusconi che si guarderà. Questo era ben chiaro anche a chi ha partecipato alla riunione. Appunto soppesando i pro e i contro, c’è stato chi ha fatto un ragionamento squisitamente politico: «Attenti, se ora all’improvviso decidiamo di far valere la riforma per i processi in corso e togliamo la norma transitoria ci sarà chi dirà che è la nostra rappresaglia contro Forza Italia che infrange il Patto del Nazareno. Meglio lasciare le cose come aveva deciso il governo già mesi fa». Una questione controversa Tecnicamente parlando, gli esperti di diritto avevano messo in luce che la modifica della prescrizione avrebbe avuto ricadute sia sul diritto sostanziali che processuale. Con esiti opposti. E qui nasceva la confusione. Ma allora, la riforma avrebbe sconvolto l’andamento dei processi in corso oppure no? I contrasti dei giorni scorsi La commissione Giustizia della Camera nei giorni scorsi - con il voto del Pd e di Scelta civica ma non quello di Ncd e scatenando le ire di Forza Italia - aveva voluto licenziare un testo che non prevedeva parola sul punto, lasciando intendere che la riforma avrebbe potuto anche intervenire sui processi aperti. Il testo del governo, invece, conteneva una norma transitoria per esplicitare che la riforma non avrebbe inciso sui procedimenti aperti, bensì soltanto su quelli futuri. Ora la maggioranza fa suo quel testo, frutto di una faticosa mediazione avvenuta dentro il governo, e fin qui platealmente appoggiato anche da Forza Italia in versione concertante. È stato deciso che il testo del governo diverrà un super-emendamento al ddl della commissione Giustizia. Restano in sospeso, comunque, alcuni dettagli non da poco. La proposta del governo allunga la prescrizione per il reato di corruzione, passandola da 10 a 15 anni e mezzo. Un 34 pezzo del Pd vorrebbe ancora di più, creando un doppio binario per i reati contro la Pubblica amministrazione. Ermini infastidito David Ermini, responsabile Giustizia del Pd, renziano di ferro, è visibilmente infastidito dal tono di certe polemiche. «Con la norma transitoria - scandisce - abbiamo specificato un andamento giurisprudenziale ormai consolidato da tempo». 35 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 12/02/2015, pag. 2 Nel Mediterraneo la morte dell’Europa Immigrazione. Un'altra ecatombe nel canale di Sicilia. Almeno 330 migranti sono morti inghiottiti dal mare dopo essersi imbarcati su quattro gommoni partiti dalla Libia. Sono stati minacciati con le armi e obbligati a sfidare un mare con onde alte fino a otto metri. Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, per l'ennesima volta lancia un appello disperato: "Non voglio più raccogliere morti, la nostra battaglia è quella di questi disperati, non so più a chi rivolgermi, so che il Papa ha già parlato ma forse farebbe bene a far sentire ancora la sua voce" Luca Fazio Ancora centinaia di cadaveri. Un altro omicidio di massa che verrà derubricato con un’alzata di spalle. La fossa comune che un giorno farà vergognare l’Europa e l’Italia è sempre il mare Mediterraneo. Diceva un tale con uno spiccato senso per la tragedia che se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro avrebbe affondato la sua barca. Domenica, nel canale di Sicilia, perso tra onde enormi, non c’era solo quel gommone avvistato dalla Guardia costiera con a bordo 105 persone. Ce n’erano altri tre. Due sono stati soccorsi da altre imbarcazioni proprio mentre sulla motovedetta 29 migranti stavano morendo di freddo: sul primo c’erano solo due persone, sul secondo sette. Ne mancavano almeno duecento: le imbarcazioni che salpano dalla Libia vengono sempre caricate a forza condannando a morte quasi sicura i migranti che tentano la fortuna anche con un mare impossibile. Un terzo è sparito nel nulla. A dare le giuste proporzioni di una tragedia che è inutile definire annunciata sono stati altri nove sopravvissuti che ieri all’alba sono sbarcati sulle coste siciliane. Hanno raccontato di un quarto gommone inghiottito dal mare. La conta finale dei cadaveri lascia senza parole. Sono trecentotrenta. Come a Lampedusa il 3 ottobre 2013, ma questa volta con meno lacrime. Quel giorno il ministro Alfano sentì almeno il bisogno di declamare: “A Lampedusa — disse — ho visto 103 corpi, ho visto una scena raccapricciante. Una scena che offende l’Occidente. Lampedusa è la frontiera dell’Europa, queste persone hanno sognato libertà. L’Europa deve reagire con forza e prendere in mano la situazione”. Dopo sedici mesi nulla è cambiato. Lampedusa è sempre più sola e l’idea della prossima estate mette i brividi. Il sindaco delle isole Pelagie, Giusi Nicolini, conosce la sua parte a memoria e per dovere non si stanca di ripeterla. La intervistano sul molo della sua isola, di fianco alle automobili parcheggiate che aspettano di caricare le bare dirette a Porto Empedocle. Solo di un uomo si conosce il nome, gli altri saranno un numero su una lapide. Il sindaco guarda la telecamera, ma non sa più a chi rivolgersi: “Questa tragedia dimostra a tutti che la situazione è gravissima, c’è una pressione molto forte, è la criminalità organizzata che decide quando e quanti farne partire, non hanno scrupoli. La primavera e l’estate saranno molto dure, io non voglio che la mia isola diventi il cimitero del Mediterraneo, non voglio più raccogliere morti. La battaglia di Lampedusa è quella di questi disperati, la loro salvezza è la nostra salvezza. Non so più a chi rivolgermi, il Papa ha già parlato ma forse farebbe bene a far sentire ancora la sua voce”. Il suo appello è destinato a cadere nel vuoto: “Spero che l’Europa capisca che i soldi di Triton potrebbero essere spesi in maniera più utile, per esempio facendo viaggiare in aereo chi ha diritto di asilo. Triton è un’operazione di polizia, 36 ma in questo momento nel Mediterraneo c’è una grande emergenza umanitaria, non l’invasione di un popolo armato. Se non si reagisce nella maniera giusta, finiremo per subire enormi tragedie come queste, che non devono diventare ordinarie”. I racconti dei sopravvissuti li abbiamo già ascoltati altre volte e per questo dovrebbero risultare ancora più insopportabili. “Da alcune settimane — hanno detto due ragazzi del Mali — eravamo in 460 ammassati in un campo vicino a Tripoli in attesa di partire. Sabato scorso i miliziani ci hanno detto di prepararci e ci hanno trasferito a Garbouli, una spiaggia non lontano dalla capitale della Libia. Eravamo circa 430, distribuiti su quattro gommoni con motori da 40 cavalli e con una decina di taniche di carburante”. Il mare faceva paura anche a riva, ma a quel punto nessuno avrebbe potuto rifiutarsi si partire per l’Italia. Più che un viaggio, i due maliani hanno raccontano un’esecuzione di massa: “Ci hanno assicurato che le condizioni del mare erano buone, ma in ogni caso nessuno avrebbe potuto rifiutarsi o tornare indietro: siamo stati costretti a forza ad imbarcarci sotto la minaccia della armi”. C’erano anche molte donne. E bambini. Altri testimoni hanno raccontato di essere stati presi a bastonate, derubati e caricati a forza. Poi, la tragedia. Un gommone è arrivato con il carico pieno (e ventinove morti assiderati). Dagli altri due sono uscite vive solo nove persone, l’ultimo è scomparso tra le onde. Per questa traversata ogni migrante ha pagato ai trafficanti 800 dollari, circa 650 euro. Flavio Di Giacomo dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) è tra quelli che hanno raccolto le testimonianze. “I migranti — ha riferito — sono tutti giovani uomini, l’età media è di circa 25 anni, provengono dai paesi sub sahariani, in particolare da Mali, Costa d’Avorio, Senegal e Niger. Per alcuni di loro la Libia era un paese di transito, mentre altri ci lavoravano da tempo, infatti parlano un po’ di arabo. Questa tragedia conferma ancora una volta come i trafficanti trattino i migranti, soprattutto i sub sahariani, come un carico umano senza valore. Hanno fatto partire oltre 420 persone con condizioni di mare assolutamente proibitive, di fatto mandando la gente a morire”. Nelle prime cinque settimane del 2015, da quando è in vigore l’operazione Triton, gli sbarchi sono aumentati del 60% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il peggio, se possibile, deve ancora venire. Del 12/02/2015, pag. 2 “Via a una mini-Mare nostrum”, il piano per fermare la strage FRANCESCO BEI Un nuovo, piccolo, dispositivo militare per evitare nuove tragedie. Una “mini-Mare Nostrum”, da affiancare a Triton, per un periodo limitato. In attesa che l’Europa faccia la sua parte. Al momento si tratta solo di un’ipotesi di studio, ma nel governo — dopo lo choc di quei trecento cadaveri dispersi nel canale di Sicilia — si sta valutando l’idea di affrontare l’emergenza migranti mettendo in campo nuovamente la Marina militare. Potenziando Triton, esattamente come venne fatto per tutto il mese di dicembre dopo la chiusura di Mare Nostrum. Nessuna decisione operativa è stata ancora presa, ma l’avvicinarsi della bella stagione e il prevedibile aumento delle partenze dalle coste libiche mette il governo di fronte a una decisione difficile. Renzi tuttavia respinge le richieste di tornare al dispiegamento della Marina come nel 2013. E bolla come «ciniche strumentalizzazioni » le richieste di ripristinare Mare Nostrum. Sondando i renziani non è difficile scoprire chi siano i bersagli del premier. Certo i grillini e Sel hanno cavalcato la polemica dopo la nuova 37 strage. Ma il premier ha soprattutto in mente i suoi avversari interni, che «non hanno perso un minuto per farsi sotto». Impossibile non pensare a Enrico Letta, silente da mesi, ieri di nuovo sulla scena con un tweet proprio dedicato a Mare Nostrum. O Pierluigi Bersani, che ha lanciato l’hastag #Ripristinaremarenostrum su Twitter, perché «da sotto il mare ci chiedono dove sia finita la nostra umanità ». «Mi vogliono caricare sulle spalle questi morti — si sfoga il premier in privato — ma tutti sanno bene che, se non si risolve il caos in Libia, queste tragedie sono destinate a ripetersi. Con o senza Mare Nostrum». E non è un caso se fonti del Viminale, d’intesa con palazzo Chigi, abbiano ricordato in serata che «per l’intero periodo in cui si è svolta l’operazione Mare Nostrum vi sia stato un numero complessivo di oltre 3.300 vittime». Insomma, non era quella la soluzione al problema, ma soltanto un’operazione umanitaria destinata a tamponare un’emergenza. Operazione peraltro estremamente costosa per un singolo paese come l’Italia: 300 mila euro al giorno, 9,5 milioni di euro al mese, 114 milioni di euro all’anno. Dunque che fare? Per Renzi la risposta deve essere necessariamente europea. Per questo oggi, benché il Consiglio europeo sia dedicato principalmente alla crisi Ucraina, il premier nel suo intervento ricorderà ai partner che la Libia è una ferita infetta che rischia di contagiare tutto il Continente. «Siamo tutti convinti che l’Italia da sola non ce la possa fare — spiega Nicola Latorre, presidente della commissione Difesa — ma dobbiamo evitare di delegittimare Triton fornendo pretesti a quei paesi che già l’hanno dovuta subire e non volevano nemmeno quella ». Per cui la strada diplomatica messa in campo dal governo punterà a rafforzare Frontex e dotarla di maggiori fondi e nuove regole d’ingaggio. In cambio l’Italia sarebbe disposta appunto a valutare, per un periodo limitato di tempo, un affiancamento di Triton con i propri mezzi. Sul fronte immigrazione Renzi ha schierato tutte le sue pedine sulla scacchiera. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ieri a New York ha chiesto il sostegno politico di Hillary Clinton. Anche per un’eventuale intervento internazionale in Libia. Ma in campo è scesa anche Federica Mogherini come Alto rappresentante per la politica estera Ue. Agli inizi di marzo Mogherini, che è anche vicepresidente della Commissione Junker, ha fissato un primo dibattito di orientamento sull’immigrazione. E i suoi uffici stanno svolgendo «uno studio di fattibilità » sul pattugliamento delle frontiere marittime europee, una funzione che andrebbe aldilà del mandato attuale di Frontex. «Dobbiamo lavorare — osserva Mogherini — su tutti i fronti. Interno, per il salvataggio in mare dei migranti e per fermare chi si arricchisce sulla disperazione altrui. E sul versante esterno, che è altrettanto complesso ed è anche un investimento sul futuro, su cui intendo impegnare i ministri degli Esteri». Il focus principale è sempre sulla Libia: «Se non risolviamo una volta per tutto conflitti nuovi o che da troppo tempo ormai devastano Medio Oriente e Nord Africa — penso alla Siria e alla Libia prima di tutto — non riusciremo a fare altro che rincorrere le emergenze». Del 12/02/2015, pag. 4 L’inchiesta. Mezzi ridotti, aree di sorveglianza ad appena 30 miglia dalle nostre coste. E i trafficanti di uomini che sfruttano la situazione “fuori controllo” di Tripoli costringendo i migranti a partire comunque. Ecco perché la missione europea che ha sostituito Mare Nostrum, due mesi dopo il suo inizio è già un fallimento 38 Dal caos della Libia ai mancati soccorsi tutte le falle di Triton FABIO TONACCI FRANCESCO VIVIANO Triton non funziona perché non poteva funzionare. Perché è nata come operazione di pattugliamento e non di soccorso, e tale è rimasta nonostante i morti. Perché i mezzi impiegati, inferiori per dimensioni e numero rispetto a quelli di Mare Nostrum, non bastano durante le emergenze nel Canale di Sicilia. E perché di quel “principio di deterrenza” su cui si basa, secondo il quale retrocedendo l’area sorvegliata a 30 miglia dalle coste italiane sarebbero diminuite le partenze dalla Libia, Eremias Ghermay, Abdel Raouf Qara e gli altri trafficanti se ne infischiano. LA SAR DI COMPETENZA Loro continuano a fare quello che hanno sempre fatto, Triton o non Triton: sulle spiagge libiche inzeppano un gommone di disperati a cui danno un satellitare e un numero di telefono da chiamare, quello della Guardia Costiera. Li costringono a partire anche se il mare è forza 8 e ci sono onde alte 9 metri, come è successo per i gommoni dell’ultima strage. Ora, in quel tratto di Mediterraneo, Frontex (agenzia europea che gestisce Triton), le convenzioni nautiche e gli accordi tracciano linee che dividono il mare in zone di soccorso: le Sar, aree Search and Rescue in capo a ogni Stato. Ma si sono rivelate inutili. Tocca alla capitaneria o alle altre forze di polizia italiane a intervenire. Un esempio? 8 febbraio: il primo gommone con 104 migranti (di cui poi 29 morti di freddo) intercettato da due motovedette italiane a 58 miglia a nord di Tripoli, il secondo (quello semi-affondato con sole 2 persone a bordo delle 105 partite) avvistato dall’aereo “Manta 10-03” della Guardia Costiera a 71 miglia a nord est da Tripoli, il terzo (con 7 superstiti) soccorso, oltre che da un mercantile di passaggio, da due motovedette della capitaneria più o meno alla stessa distanza. Fuori dalla Sar di nostra competenza. I DISPOSITIVI NAVALI La verità è che, con Malta senza risorse economiche e la Libia in mano alle katibe, bande tra le quali alcune «a forte connotazione jihadista», come sostiene un report della nostra intelligence, chi si prende l’onere dei soccorsi è sempre e solo l’Italia. Col risultato che Triton, entrata a regime il 1 gennaio 2015, finisce per ribaltare l’effetto cui puntava il ministro dell’Interno Alfano, ovvero responsabilizzare gli altri paesi Ue nel controllo del confine meridionale dell’Europa. «Triton non è all’altezza, l’Europa ha bisogno di un sistema di ricerca e salvataggio efficace», dice il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks. Triton, dunque, è un fallimento. Non disincentiva i migranti, non aumenta l’efficacia dei salvataggi. Lo dicono i fatti. Mare Nostrum costava al governo italiano 9 milioni di euro al mese, ma dispiegava, in una fascia che si allargava fino a poche miglia dalle coste libiche, una nave e due corvette della Marina militare, 2 pattugliatori, 6 elicotteri, 2 aerei droni e circa 700 militari. Triton la paga Frontex, però i finanziamenti sono di appena 2,9 milioni di euro al mese, divisi per i 17 paesi che offrono il loro sostegno. E il dispositivo navale varia a seconda dei soldi. Oggi dentro le trenta miglia attorno alla Sicilia, Lampedusa e Pantelleria ci sono 4 motovedette (2 della Guardia di Finanza e 2 della Guardia costiera), 2 pattugliatori (uno della Marina e l’altro islandese), 2 aerei (maltese e islandese), 1 elicottero della Finanza, 2 mini pattugliatori maltesi. «Nessuna carretta del mare può arrivare fino a lì», osserva una fonte del Viminale, «affondano tutte prima, a meno che non siano grossi barconi». Quindi il potenziale di soccorso di Triton è minimo, i suoi mezzi intervengono nei salvataggi fuori dalla zona di pattugliamento solo se chiamati nelle emergenze. “NON POTEVA FUNZIONARE” 39 Gli sbarchi, poi, sono cresciuti dal primo gennaio a oggi del 60 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014. Le crisi in Siria e in Libia stanno alimentando i flussi di etiopi, sudanesi, malesi, eritrei, siriani, intercettati sulle coste a est di Tripoli, nella zona di Gharabulli, da gente tipo Abdel Raouf Qara, comandante di un gruppi di fondamentalisti islamici che col business dei barconi porta soldi alla Jihad. Oppure l’etiope Eremias Ghermay, che un’indagine dello Sco ha individuato come uno degli organizzatori del viaggio del peschereccio affondato nell’ottobre 2013 a Lampedusa con quasi 400 morti. «Le nostre unità — spiega l’ammiraglio Giovanni Pettorino, del comando generale della Guardia Costiera — sono adeguate per navigare anche fuori dalla Sar, ma attrezzate per prestare cure mediche durante i trasferimenti a non più di 10-12 persone. Se ci troviamo con centinaia di naufraghi, come nei giorni scorsi, diventa impossibile». Nemmeno i mezzi dispiegati da Frontex sono equipaggiati per questo. Triton non funziona, perché non poteva funzionare. Del 12/02/2015, pag. 4 In Libia il business della disperazione L'altra sponda. Lo scontro tra i «governi» di Tripoli e Tobruk. Migranti tra due fuochi. Dagli scheletri nel deserto del Fezzan alle prigioni per migranti: la dura legge delle milizie Giuseppe Acconcia, Igor Cherstich I quattro gommoni che hanno provocato una delle più gravi stragi di migranti degli ultimi anni nel Mediterraneo partivano dalle coste libiche. «Non volevamo partire per il maltempo, ma i contrabbandieri ci hanno costretto minacciandoci con le armi in loro possesso», ha raccontato uno dei sopravvissuti. «Abbiamo trascorso gli ultimi giorni prima della traversata in un magazzino di Tripoli e lo scorso sabato ci hanno ammassati sulla spiaggia da dove ci siamo imbarcati», ha proseguito il giovane che ha confermato che alcuni di loro avrebbero pagato fino a 600 euro per la traversata. Nella totale assenza dello Stato, per le centinaia di milizie che si contendono le redini del paese la gestione dei flussi migratori è diventato un business irrinunciabile. Le bande armate controllano centinaia di prigioni, in cui sono stipati migranti in condizioni di miseria e abbandono. Molti dei miliziani sono accusati da organizzazioni locali per la difesa dei diritti umani di tortura e maltrattamenti. Queste dinamiche non sono nuove. Le insensate politiche anti-migratorie libiche hanno previsto per anni respingimenti sistematici nel deserto del Sahara. Nel 2008 fu il governo Berlusconi a firmare una serie di trattati riguardanti non solo l’approvvigionamento di gas, ma anche il contenimento dell’immigrazione. Gheddafi instaurò un sistema di pattugliamento costiero per contenere il traffico clandestino di disperati in fuga dai paesi sub-sahariani. I trattati contenevano però un errore allarmante: la Libia non aveva aderito alla Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951. Come documentato da numerose associazioni umanitarie, i migranti venivano detenuti in condizioni disumane, e spesso rispediti a casa attraverso il deserto del Fezzan. I report di Amnesty International hanno documentato questi piccoli grandi esodi correlati da testimonianze di stupri e uccisioni perpetrati dall’esercito libico. Viaggi senz’acqua e cibo che hanno riempito il deserto di scheletri. E così anche la Libia post-Gheddafi continua a essere un incubo per i migranti. Il governo islamista di Tripoli (per molti un organo costituito da islamisti che non ritiene legittimo il risultato delle elezioni del 25 giugno 2014) ha stracciato l’accordo con il governo del Sudan che prevedeva una forza congiunta per la sicurezza delle fron40 tiere tra i due paesi africani. L’ex ministro della Difesa libico, il colonnello Abdul Razzaq alShihabi, per controllare la frontiera con il Sudan, aveva puntato sulla cooperazione con il governo italiano con l’intento di organizzare una copertura satellitare dell’area. Le coste libiche sono la strada più semplice per l’Europa per scafisti e contrabbandieri. A causa delle violenze e del caos, alimentati da potenze straniere che finanziano diverse fazioni nello scacchiere libico, il numero di migranti che ha tentato di lasciare il paese è andato crescendo. Tuttavia Amnesty ha puntato il dito anche contro le operazioni di Ricerca e soccorso in mare (Sar) e sul progressivo fallimento degli stati coinvolti, specialmente Italia e Malta, che non sono riusciti a raggiungere un accordo in merito all’estensione delle rispettive zone Sar. Da una parte lo scontro dei due governi di Tripoli e Tobruk, dall’altra la guerra che coinvolge i gruppi jihadisti per il controllo dei pozzi di petrolio (ieri sono state rinvenute a Bengasi 40 teste mozzate in aree controllate dai jihadisti) hanno azzerato qualsiasi controllo sui flussi migratori. È stata interrotta a causa degli scontri, la collaborazione libica con le operazioni Mare Nostrum e Triton per il contenimento dell’immigrazione clandestina, sottoscritta nel 2013 dall’allora ministro Mauro con al-Thinni, in quella fase ministro della Difesa libico. Oggi i migranti non sono più soltanto sub-sahariani, ma anche libici, e data la gravità delle lotte intestine, Amnesty ha recentemente chiesto che nessun paese li respinga. Infine, anche il controllo del greggio oscilla seguendo le complesse relazioni tra il governo cirenaico e quello tripolino. Formalmente la banca Centrale libica si è mantenuta neutrale decidendo di non incanalare i ricavi ufficiali del petrolio nelle casse di nessuna delle due amministrazioni. Di fatto però, Al Thinni, premier espressione del parlamento di Tobruk (formalmente sciolto dalla Corte suprema libica, ma di fatto operativo) è riuscito a inserire suoi collaboratori nella Società petrolifera nazionale. Di contro, il governo tripolino è riuscito a prendere il controllo di Al Sharara: il giacimento più grande del paese. Del 12/02/2015, pag. 4 Guerra e/o regimi dittatoriali, fuga dalla Siria e dall’Africa Geografia degli sbarchi. Cosa rivelano i dati del Viminale sugli "arrivi" nel corso del 2014 Gina Musso I dati del ministero dell’Interno sulla provenienza dei migranti transitati nel Mediterraneo durante l’ultimo anno, con l’Italia come prima destinazione, raccontano più dei conflitti su cui si concentrano i media abitualmente. A parte la Siria, che guida questa triste classifica, con 42.323 arrivi nel 2014. La guerra che sta lacerando ampie porzioni del paese e città importanti come Aleppo è sotto gli occhi di tutti. La fuga s’impone sotto il fuoco incociato dell’Isis, delle milizie qaediste e del cosiddetto Esercito libero siriano, oltre che delle truppe di Bashar al Assad. Nelle famiglie che sbarcano dopo la traversata colpisce una “compostezza” che si direbbe fuori posto: sono persone che in Siria godevano di un discreto welfare e di una certa disponibilità economica; nel momento in cui non riescono a vivere in sicurezza né a mantenere il loro status, prendono quello che possono e si mettono in viaggio. Via mare e via terra. Al dato vanno aggiunti quelli che dalla Turchia entrano in Europa attraverso la frontiera greca, con le acque del fiume Evros a trascinare via vite e speranze. L’Eritrea è assai più lontana e infinitamente meno “coperta” da giornali e tg , ma si piazza seconda con 34.329 “sbarchi” nel 2014. Da qui sono i giovani a fuggire: da un servizio mili41 tare obbligatorio che può durare tra i cinque e i dieci anni, da siccità, disoccupazione, incarcerazioni indiscriminate e torture per i dissidenti, e in generale dal clima di isolamento e paranoia alimentato da un regime che ha tradito tutte le speranze legate alla lotta del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo. Dopo l’indipendenza ottenuta dall’Etiopia nel 1993, un’assemblea costituente ha indicato in Isaias Afewerki il presidente che avrebbe dovuto gestire la transizione verso le prime elezioni libere. Dopo oltre vent’anni, non è successo niente. Chi prova a raggiungere l’Italia ha sempre un numero «preferito» nella rubrica del telefono, quello di un prete eritreo residente in Vaticano. Mussie Zerai dirige Habieshia, un’agenzia d’informazione e di mutuo soccorso. È soprannominato l’«angelo dei disperati» o considerato un istigatore d’immigrazione clandestina a seconda dei casi. Oltre a lanciare l’allarme quando riceve richieste d’aiuto dal mezzo del Mediterraneo o dal cuore del Sahara, ha più volte denunciato il tentativo da parte dell’ambasciata eritrea in Italia di schedare i fuggiaschi. Il 3 ottobre 2013 furono 366 gli eritrei annegati a Lampedusa. Nella dolente classifica stilata dal Viminale seguono due dati di difficile interpretazione, tanto sono generici: 25.023 persone con provenienze «altre» e a seguire 20.461 «sub-sahariani». Come se non lo fossero i cittadini del Mali (9.938), in fuga dalla crisi in cui versa il nord dopo un conflitto tutt’altro che risolto, che ha coinvolto finora l’esercito di Bamako, le armate jihadiste del Fronte al Nusra e del Mojao, il Movimento per la jihad in Africa occidentale, le milizie tuareg che vogliono l’Azawad indipendente e quelle “lealiste”. E da ultime le truppe d’élite dell’esercito francese. Con i civili presi come al solito nel mezzo. «Sub-sahariani» sono anche i 9.000 migranti originari della Nigeria, paese lacerato dall’offensiva sanguinaria di Boko Haram negli stati del nord-est ma anche dalla repressione di cui sono oggetto il Mend e chiunque si opponga allo sfruttamento senza scrupoli, né ambientali né umanitari, da parte delle multinazionali nella regione del Delta. Va aggiunto che anche dissidenti ad altro titolo potrebbero avere buoni motivi per cambiare aria. Per non dire dei migranti più classicamente “economici”. Il dato ovviamerte non considera coloro — la maggioranza — che arrivano con un visto turistico che poi viene lasciato scadere. Ma parliamo pur sempre del paese più popoloso d’Africa, coi suoi 170 milioni di abitanti. In questo senso sconcerta il dato del Gambia (8.707 persone “sbarcate” nel 2014), che di abitanti ne conta cento volte di meno ed è il più piccolo stato del continente. Ma in quanto ad arresti arbitrari e torture il governo di Yahya Jammeh non ha nulla da imparare dai grandi. Le perduranti politiche di occupazione e aggressione di Israele spiegano l’ottava piazza occupata dalla Palestina, con 6.802 “arrivi”. E i 5.756 giunti fin sotto la “Fortezza Europa” dalla Somalia sono niente, rispetto al tragico caos che nessuno è riuscito ancora a dipanare e al campo profughi più grande del mondo a Dadaab, Kenya, nel quale hanno trovato rifugio in 700 mila. Del 12/02/2015, pag. 1-33 La risposta sbagliata del premier GAD LERNER SOLO proteggendoci con una scorza di disumanità, accontentandoci di non vederli in faccia mentre annegano a centinaia e a migliaia nel nostro mare, possiamo soffocare il senso di vergogna suscitato dalla strage infinita del Canale di Sicilia. Ma resta la domanda: salvarne il più possibile rientra o non rientra fra i doveri della nostra civiltà europea? I trafficanti che in Libia depredano e poi spediscono nel mare in tempesta i loro volontari ostaggi paganti, su gommoni sgangherati, compiono evidentemente un atto criminale. Ma noi abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere per salvarli? L’altrui 42 crimine non fornisce un alibi a chi si fosse macchiato di omissione di soccorso. Ieri, balbettando per l’imbarazzo, i funzionari del Consiglio d’Europa hanno riconosciuto l’insufficienza del dispositivo Frontex. LAfinalità di Frontex è limitata al presidio delle frontiere di Schengen, entro un raggio di 30 miglia. Non a caso i suoi costi sono un terzo dell’operazione Mare Nostrum dispiegata dalla Marina Militare italiana al di là di quel limite, in acque internazionali. Grazie a Mare Nostrum, fino alla scadenza del 31 dicembre 2014, sono stati effettuati oltre cinquecento interventi e sono stati salvati più di centomila profughi, anche se purtroppo ne risultano ugualmente dispersi — dati del Viminale — più di tremilatrecento. Dunque non è una contesa ideologica, o peggio una strumentalizzazione politica, la contrapposizione del modello Triton al modello Mare Nostrum. Cinque unità militari italiane dotate di attrezzature ospedaliere (ricordate l’elogio di Napolitano alla dottoressa Petricciuolo che ha fatto nascere a bordo della nave Etna una bimba nigeriana la notte di Natale?) hanno sconfinato per quattordici mesi nel Mediterraneo. Per la verità lo hanno fatto anche a dicembre, sebbene la loro missione fosse ufficialmente scaduta. Ma ora, da gennaio, non lo fanno più, a seguito di una revoca che l’Ue peraltro non ci imponeva. Certo, nessuno può sostenere con certezza che un tempestivo intervento della nostra Marina Militare nelle acque internazionali avrebbe salvato la vita degli oltre trecento naufraghi, la notte di domenica scorsa. Anche se è probabile che avrebbe impedito la morte per congelamento di ventinove ragazzi imbarcati vivi sulle motovedette della Guardia Costiera, sprovviste di medici e ambulatori. Per questo avvertiamo che il governo italiano e il premier non si sono mostrati all’altezza del dramma in corso, e delle scelte immediate che esso impone. Non basta dire che il problema è la Libia, divenuta preda di clan jihadisti. È mortificante, poi, che la richiesta avanzata dalle organizzazioni umanitarie, dalla Chiesa e da alcuni esponenti del Pd — cioè l’immediata riattivazione di squadre di soccorso in acque internazionali — venga liquidata da Renzi come se si trattasse di una manovra antigovernativa. Chi se ne frega, scusate. Davvero la lotta politica può scendere a livelli di insinuazione così meschini? Giusto pretendere un coinvolgimento logistico e finanziario dell’Unione Europea, mostratasi fin qui campionessa di cinismo. Ma nel frattempo? Fonti del ministero della Difesa ammettono che nel giro di due o tre giorni al massimo, se il governo prendesse una decisione in tal senso, la nostra flotta potrebbe riprendere il presidio di cui tutti siamo andati orgogliosi. Quale motivazione po- litica o di bilancio (stiamo parlando di una spesa di centomila euro al giorno) si oppone a una decisione di carattere umanitario, se non forse l’imbarazzo di dover ammettere che la revoca di Mare Nostrum è stata una scelta avventata, magari dettata da calcoli di consenso? Eppure dovrebbe essere ormai unanimemente riconosciuta l’infondatezza della tesi secondo cui le missioni umanitarie creano un fattore di attrazione involontaria, spingendo i migranti a tentare la pericolosa traversata (che per loro rappresenta comunque il rischio minore). Il ministro Alfano ieri sera si trincerava dietro l’argomento della fatalità ineluttabile: «Non esiste e non può esistere un’operazione che sconfigga la morte in mare». È for- se questa la posizione del governo? Confermiamo la ritirata nelle nostre acque internazionali? È così che intendiamo il nostro ruolo di potenza mediterranea? Certo, Mare Nostrum è solo un tampone, più di una volta i nostri marinai sono arrivati troppo tardi. Ma è, questo, un buon motivo per desistere? Il flusso di profughi dalle zone di guerra, che secondo l’Unhcr nel 2014 ha portato almeno 218mila persone ad attraversare il mare Mediterraneo, non accenna a diminuire. Ciò impone scelte strategiche difficilissime per regolarlo, identificarlo, delimitarlo. Ostacoli insormontabili al momento impediscono la creazione di presidi internazionali per lo smistamento dei profughi sulla sponda sud del Mediterraneo. Ma ciò non deve impedirci di 43 riconoscere l’assurdità della situazione venutasi a creare col monopolio instaurato dai trafficanti sulla terraferma e sul mare. Un biglietto aereo da Tunisi a Roma costa 100 euro. Il traghetto, se ci fosse, ancora meno. Per la traversata della morte risoltasi in ecatombe, i passeggeri dei gommoni hanno pagato 650 euro ciascuno ai criminali. Il proibizionismo dissennato della comunità internazionale finisce per versare centinaia di milioni nelle tasche delle mafie e dei jihadisti. Subiamo la condanna a morte di centinaia di giovani, la cui età media — riferisce l’Unicef — oscilla fra i 18 e i 25 anni. E intanto lasciamo che finanzino un nemico ogni giorno più pericoloso. Se anche non bastasse la vergogna, dovrebbe spingerci ad agire l’istinto di autodifesa. Nella tragedia di cui siamo spettatori, il governo e la classe dirigente europea stanno recitando la parte di comparse senza passione, impaurite e mediocri. Del 12/02/2015, pag. 1-3 L’inciviltà europea Alessandro Dal Lago Dopo la strage dei gommoni, parlare di fatalità sarebbe osceno. Basta ricordare che dall’ottobre scorso si sono moltiplicati gli ammonimenti europei a salvare meno migranti possibile, soprattutto in aree lontane dai limiti dell’“Operazione Triton” (trenta miglia marine). Ha cominciato il governo Cameron, sostenendo che i salvataggi avrebbero incentivato l’immigrazione clandestina. Ha continuato a dicembre un capo operativo di Frontex, di nome Klaus Rosler, già dirigente della polizia bavarese (ma chi li sceglie questi tomi?), secondo il quale l’Italia è di manica troppo larga con gli stranieri che si avventurano in mare. L’Europa non vuole spendere per salvare vite umane e quindi migliaia e forse decine di migliaia di migranti potrebbero annegare con l’arrivo della buona stagione: questa è la banale verità, che contrasta con le affermazioni roboanti di Alfano, quanto l’operazione Triton (ma chi avrà escogitato un nome così idiota?) ha sostituito Mare Nostrum (altra bella siglia!), che era dotata di mezzi molto più consistenti. Solo Cameron o un poliziotto bavarese può credere o far credere che la prospettiva di annegare convinca gente del Mali, del Pakistan, dell’Eritrea, o di altri cento luoghi in cui si muore di fame o di guerra, a restare ad agonizzare a casa loro. Solo una tremenda, colossale ottusità, o qualcosa di infinitamente peggiore, può motivare quest’atteggiamento di chiusura verso le ragioni di una minima umanità e delle leggi del mare. Noi immaginiamo la disperazione dei nostri marinai che si sono visti morire assiderati, acanto a sé, ragazzi che si sarebbero potuti salvare se solo l’operazione Triton avesse previsto l’invio di navi più grandi a occorrere i gommoni. Noi sappiamo, perché l’hanno detto a destra e manca, che i nostri pescatori e la nostra gente di mare non dorme la notte al pensiero di quelli che sono annegati, annegano e annegheranno al di là dei limiti previsti dall’agenzia Frontex e dall’operazione Triton, che Dio le maledica entrambe. E qui si misura come l’ottusità e la miopia dell’Europa bottegaia si siano tramutate in delitti contro l’umanità. I sopravvissuti della strage dei gommoni hanno dichiarato che sono stati imbarcati sotto la minaccia delle armi dai miliziani in Libia. E questo non sorprende proprio, vista la situazione che il genio politico di Cameron, Sarkozy, Obama, per non tacere di Berlusconi hanno creato dalle parti di Tripoli, Derna e Bengasi. Ora, ignorare le conseguenze umane delle proprie insensate politiche è il principale tratto che accomuna l’accozzaglia di stati egoisti che va sotto il nome di Unione europea. Pensate solo alla povertà in Grecia, ai bambini senza latte, alla svendita delle infrastrutture di un intero paese che doveva essere punito per essersi indebitato. Un paese, la Grecia, il cui Pil rap44 presenta il 2 per cento di quello europeo e il cui debito potrebbe essere condonato senza danni per la Ue! Ma dietro l’indifferenza per le sorti dei greci e dei migranti che si avvieranno verso la morte c’è ormai un disprezzo assoluto, conclamato, trionfale per il diritto che un tempo si sarebbe chiamato delle genti. I soldi europei devono restare nelle banche, e non spesi per salvare vite umane, questo è il messaggio di Frontex, di Cameron, della troika, di Merkel, di Herr Rosler e di tutti quelli che si inchinano davanti alle ragioni dei più forti e dei più ricchi. Sarebbe questa la “civiltà europea” (parole di Renzi) per cui sono morte decine di milioni di esseri umani nella seconda guerra mondiale? 45 DIRITTI CIVILI Del 12/02/2015, pag. 36 Per la prima volta nella storia dei cartelli messicani cala il traffico della marijuana: grazie alla legalizzazione. L’effetto: meno reati, maggiori entrate nelle casse dello Stato, meno flussi di denaro criminale. È la sconfitta dei proibizionisti L’erba contro i Narcos ROBERTO SAVIANO PER la prima volta nella loro storia i cartelli messicani hanno visto precipitare la richiesta di marijuana. Entra in crisi un business miliardario che sino ad ora non aveva mai subito flessioni. I dati diffusi dalla polizia frontaliera americana (l’Us Border Patrol) non lasciano spazi a dubbi: la riduzione del traffico di erba nel 2014 è stata del 24% rispetto al 2011. Che è successo? Nessuno fuma più spinelli? Una stagione di arresti particolarmente efficace? La risposta è più semplice: ed è la legalizzazione delle droghe leggere in Colorado e nello Stato di Washington. La vendita legale di marijuana non ha solo creato una rivoluzione economica che ha portato oltre 800 milioni di dollari di nuovi introiti fiscali, ma ha anche iniziato a trasformare il tessuto criminale. La crisi delle organizzazioni a sud del Rio Grande che hanno sempre inondato gli Usa di erba è paragonabile alla crisi dei titoli del Nasdaq. I cartelli messicani non hanno mai abbandonato il business dell’erba, tutte le organizzazioni storiche che oggi sono egemoni nel traffico di coca e di metanfetamina hanno sempre coltivato la “mota” (come chiamano la marijuana), che è al contempo fonte di una liquidità economica gigantesca ed ha una crescita di mercato esponenziale grazie alla tolleranza culturale diffusa in tutti gli Stati Uniti. Un esempio tra i molti che dimostra lo storico legame tra l’erba messicana e gli Usa: Kiki Camarena era un poliziotto della DEA che riuscì a infiltrarsi ai vertici dei narcos negli anni ‘80: fu così che scoprì El Bufalo, un ranch che nascondeva la più grande piantagione di marijuana del mondo. Oltre milletrecento acri di terra e diecimila contadini a lavorarci. Per averla fatta sequestrare Kiki fu barbaramente torturato e ucciso. L’erba messicana ha riempito gli Stati Uniti e metà pianeta per più di cinquant’anni. Ora, finalmente, la tendenza di crescita si sta invertendo. Dopo tanti dibattiti ideologici c’è la prova che la legalizzazione è uno strumento reale di contrasto al narcocapitalismo. In Colorado e a Washington ci sono diversi vincoli per il consumo: la marijuana può essere acquistata solo se si è maggiori di 21 anni, si può possedere sino a poco più di 28 grammi, in pubblico è vietato consumarla (come l’alcol del resto) e guidare sotto effetto di erba è vietato (sospensione di patente per un anno e arresto se recidivi). Le grandi obiezioni mosse dai proibizionisti contro l’esperimento di legalizzazione in Usa sono le medesime da sempre sostenute dal proibizionismo europeo: aumento del mercato dei consumatori, aumento degli incidenti stradali, aumento della criminalità. Allarmi tutti smontati dall’esperienza reale. Non c’è stata nessuna catastrofe. La polizia di Denver in Colorado ha registrato una diminuzione del 4% dei reati, nessun aumento di incidenti stradali (la maggior parte continuano ad essere provocati dall’alcol). Non solo: sottrarre una massa di capitali enormi alle organizzazioni criminali ha portato il Colorado a prevedere la possibilità di incrementare le proprie casse con circa 175 milioni di dollari nei prossimi due anni, mentre lo Stato di Washington prevede un’entrata di oltre 600 milioni di dollari nei prossimi cinque anni. Come se non bastasse, sembra che lo Stato potrà 46 addirittura restituire ai cittadini parte delle tasse. Tutto è dovuto da una legge del Colorado che impone allo Stato una quota limite sui soldi che può ricevere dalle tasse: superata la quale deve ridistribuire il denaro ai contribuenti. Grazie alle entrate per l’acquisto di marijuana, il Colorado rimborserà i 30 milioni di dollari in eccedenza ricevuti. Mai successo a memoria d’uomo che la quota fosse superata, la legalizzazione l’ha permesso. Soldi che prima finivano nelle tasche dei narcos messicani e delle banche complici ora so- no a disposizione dello Stato. Le entrate fiscali hanno convinto altri Stati a intraprendere il percorso di legalizzazione: Alaska, Oregon, Florida e Washington D.C. stanno per decidere. Ma c’è un altro argomento che ha spinto questa scelta: i reati connessi alla marijuana gravavano enormemente sulle casse degli Stati americani (il Colorado — ad esempio — metteva in bilancio 40 milioni l’anno per contrasto e detenzione di persone legate allo spaccio di erba). E d’altronde la metà della popolazione carceraria americana è condannata per reati di droga, l’Anti-Drugs Abuse Act con la sua severità estrema non ha portato che a un rafforzamento del vincolo criminale tra spacciatore e organizzazione. Vincolo che è necessario slegare se si vuole contrastare il narcotraffico piuttosto che puntare la responsabilità sul singolo pusher. Il 75% dei detenuti condannati per narcotraffico è afroamericano, miseria e disagio continuano ad essere le miniere in cui raccolgono eserciti i cartelli. Ma in Europa e in parte anche negli Usa (con qualche eccezione tra gli agenti Dea), i vertici delle polizie continuano a sostenere posizioni proibizioniste: eppure nessuna repressione ha fermato la diffusione dell’erba e il suo consumo. Ora la domanda è: dove sarà dirottata tutta la “mota” messicana? Unica destinazione: Europa. Ci saranno quindi abbassamenti di prezzo e si tratterà di capire come le organizzazioni criminali gestiranno il flusso. I prezzi li farà il mercato, come sempre, ma sarà mediato da ‘ndrangheta e camorra sul fronte italiano, dalla mafia corsa sul fronte francese, da albanesi e serbi sul fronte est. In Italia l’81% dei sequestri delle piantagioni di canapa indiana avviene nel sud Italia (l’Aspromonte è territorio privilegiato di coltivazione), quindi l’erba messicana arriverà ad essere il grande antagonista dell’erba italiana. La legalizzazione non solo sta costringendo i cartelli ad abbassare i prezzi tagliando i profitti ma i messicani devono anche competere con la qualità: la qualità della marijuana legale è certificata catalogata e controllata, leggendo la didascalia delle bustine si possono conoscere effetti e composizione. La droga illegale spacciata dai messicani invece spesso ha qualità minore a fronte di un prezzo alto perché contiene additivi, come l’ammoniaca, e sempre più spesso viene cosparsa di fibra di vetro o lana di roccia, per simulare l’effetto dei cristallini che hanno alcune qualità di marijuana (ricche in resina di canapa). Legalizzazione quindi porta anche a una riduzione degli effetti negativi e il mercato perde i segmenti più dannosi. Il Messico vede positivamente la legalizzazione in Usa perché ferma il flusso di capitale criminale che quotidianamente entra nel Paese. Il circolo vizioso è semplice: dalla frontiera parte droga per gli l’America, i soldi tornano in Messico che poi ritornano nelle banche degli Stati Uniti. La legalizzazione rompe questo schema. L’ex presidente Fox aveva dichiarato: «Il consumatore di droga negli Stati Uniti produce miliardi di dollari, denaro che torna in Messico per corrompere la polizia, la politica e comprare armi». Fox, che non ha certo migliorato lo stato della democrazia in Messico né ha portato a un cambiamento nel contrasto ai narcos, ha avuto il merito di riconoscere il punto nevralgico: il proibizionismo americano è il principale responsabile della crescita economica della mafia messicana. La legalizzazione quindi sta producendo effetti immediati e benefici. Le modalità per sottrarre la marijuana ai narcos sono molteplici: Colorado e Washington hanno legalizzato liberalizzando la produzione e la distribuzione, Alaska e Oregon si stanno avviando ad una legalizzazione come quella del Colorado, la Florida deciderà sull’uso medico della cannabis. Washington D.C. va verso la produzione e il consumo ma non vuole 47 liberalizzare negando l’autorizzazione ai negozi per la distribuzione. Il che manterrebbe una contraddizione in termini: legale comprarla e fumarla a casa, ma illegale venderla. Ma l’attesa più importante è per il 2016, quando in California si deciderà se intraprendere la legalizzazione o continuare il percorso proibizionista. Se la California — Stato con una massiccia presenza di cartelli messicani e centroamericani — darà il via libera allo spinello il passo per la legalizzazione in tutti gli Stati Uniti sarà definitivo. E in Italia? L’Italia dovrebbe essere in Europa in prima fila su questi temi per la conoscenza acquisita e per l’influenza delle organizzazioni criminali italiane in questo mercato. Il primo passo fatto dal ministro Roberta Pinotti con la produzione da parte dell’esercito di marijuana per uso terapeutico aveva fatto sperare in un’accelerazione del percorso di legalizzazione, ma tutto si è fermato e il dibattito sembra essersi spento nella miope ed eterna considerazione che «i problemi sono altri». Nel frattempo narcos e boss estendono il loro impero. Mai come ora il proibizionismo è il loro maggior alleato. È il momento di porre il tema della legalizzazione come battaglia di legalità e contrasto all’economia criminale e sottrarlo al seppur necessario e controverso dibattito morale. Proprio chi è contro ogni tipo di droga deve sostenere la legalizzazione. 48 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 12/02/2015, pag. 39 Allo studio soluzioni per succhiare l’anidride carbonica o combattere il riscaldamento del pianeta Ma gli esperti si dividono sui costi e le conseguenze Manipolare il clima per ridurre i gas serra la pazza sfida della geoingegneria SILVIA BENCIVELLI NON possiamo negoziare il nostro stile di vita? Non possiamo smettere di produrre, riscaldarci, muoverci in automobile? Allora è necessario pensare a sistemi per pulire il pianeta. Pulirlo dai gas serra che stiamo immettendo da decenni nell’atmosfera, e proteggerlo dal riscaldamento climatico e dai suoi devastanti effetti. È una filosofia che per anni è andata forte tra alcuni scienziati, soprattutto di scuola americana. E la sua applicazione pratica è la ricerca di soluzioni tecnologiche per intervenire volontariamente sull’ambiente del pianeta, che collettivamente vengono chiamate geoingegneria. A proposito dei cambiamenti climatici la sfida della geoingegneria è quella di intervenire nel complesso sistema che regola il clima globale “aggiustandolo” dopo che lo abbiamo “rotto”. Le tecniche proposte sono essenzialmente due. C’è chi vorrebbe di succhiare l’anidride carbonica atmosferica in eccesso attraverso sofisticati impianti di pulizia dell’aria. E addirittura chi studia il sistema di inspessire la stratosfera con goccioline di acido solforico, per far rimbalzare parte dei raggi solari nell’universo e ridurre la quota naturale di riscaldamento del pianeta. Tutto questo ci lascerebbe liberi di continuare a immettere in atmosfera gas serra, di continuare a riscaldare il pianeta, e rimanderebbe i problemi a un futuro remoto in cui la tecnologia sarà più avanzata di adesso.Ma funziona? Dopo anni di dibattito, gli scienziati americani della National Academy of Sciences (Nas) hanno risposto con un “ni”. E hanno voluto insistere: l’unica cosa da fare per limitare i problemi climatici del pianeta è ridurre le emissioni di gas serra. Il rapporto della Nas è stato pubblicato due giorni fa ed è il risultato di diciotto mesi di lavoro da parte di un team di sedici esperti. E il suo riassunto è una ramanzina per l’umanità: non pensiate che la scienza possa darvi una bacchetta magica con cui, un giorno, riparare i danni dell’inquinamento. Cercate piuttosto di cominciare subito a crearne meno. Le tecniche di geoingegneria, dicono oggi gli scienziati americani, potrebbero essere rischiose. Non è chiaro, inoltre, se siano davvero efficaci, soprattutto visti i costi. E di certo non saranno sufficienti a risolvere la questione. Per questo siamo alla presa di posizione più fredda di ogni precedente sul tema. Che si propone anche di cominciare a parlare di “interventi climatici”_, più che di “ingegneria”: per non dare l’impressione prematura di un controllo che ancora nella realtà non abbiamo. Questo però non significa che non valga la pena averla studiata e continuarla a studiare. Anzi: «proprio il fatto che ci siano scienziati impegnati sugli interventi geoingegneria dovrebbe essere un campanello d’allarme: — ha spiegato Marcia Mc-Nutt, la presidentessa della commissione ed ex direttrice della commissione scientifica governativa US Geological Survey — significa che dobbiamo davvero fare di più per ridurre le emissioni, che poi è il modo più efficace e sicuro per combattere i cambiamenti climatici». Ma non solo: ci sono forti investimenti sulle sfide della geoingegneria, come quelli di Bill Gates che ha finanziato una ricerca di Harvard per lo sviluppo di modelli 49 informatici sul clima futuribile. E su questi il rapporto è chiaro: bisogna continuare a studiare. Ma attenzione, precisa. Non ci sono problemi soltanto ambientali o di costi, dietro alla geoingegneria. Spruzzare acido solforico negli strati alti dell’atmosfera per produrre un parasole spaziale potrebbe infatti porre problemi di natura politica e sociale. Perché, se anche funzionasse, potrebbe diventare una soluzione locale a un problema globale: potrebbe, cioè, essere sviluppata a copertura dei paesi ricchi, da sempre più inquinanti, facendoli sentire autorizzati a continuare a inquinare. Tutto questo a spese di quelli poveri, sempre più scoperti sotto al sole battente. 50 INFORMAZIONE Del 12/02/2015, pag. 20 Rai, Gubitosi attacca “I politici boicottano la riforma dei tg Bbc avanti 20 anni” ALDO FONTANAROSA La Commissione di deputati e senatori che vigila sulla Rai rimanda al mittente la riforma Gubitosi dei telegiornali. Un voto a larga maggioranza forse già oggi chiederà modifiche sostanziali al progetto del direttore generale di Viale Mazzini, desideroso di accorpare le sette testate del servizio pubblico in due sole newsroom , multimediali e integrate. E lui, Gubitosi, non accetta questo sgambetto sul traguardo: «Il nostro piano — dice — è un atto serio e moderno che avvicinerebbe la Rai alle migliori emittenti europee. Eppure incontriamo grandi, tenaci resistenze. Di fronte abbiamo il “pc”. Il partito della conservazione, che unisce una parte del sindacato a una parte della politica. Il loro obiettivo è l’immobilismo». «Il “pc” non riuscirà a fermarci — assicura il direttore generale — perché c’è una cosa più forte di tutti gli eserciti. È quell’idea il cui momento è ormai giunto. Lo scriveva Victor Hugo ed io, umilmente, sono d’accordo: il tempo della riforma è arrivato». Gubitosi dà battaglia, dunque, malgrado abbia già centrato una vittoria parziale. In una lettera alla Vigilanza, il direttore generale scrive di «rispettare le prerogative » del Parlamento, ma chiede anche che il Parlamento rispetti «l’autonomia » della sua azienda («Tutti vogliono Viale Mazzini liberata dai partiti, ma poi si comportano nel modo opposto », spiega). Ora la frase “autonomia della Rai” — così cara a Luigi Gubitosi — compare finalmente al punto 17 della nuova risoluzione che la Vigilanza vota oggi. Un riconoscimento che non rassicura il dg: «L’Italia ha bisogno di modernità e la Rai, anche. In nome della nostra autonomia, rifiuto di essere sospinto su un binario morto. Quello del rinvio». La risoluzione della Vigilanza, però, sembra mossa anche da ragioni ideali. La parola “pluralismo” è la stella polare dei deputati e senatori che la utilizzano a ripetizione, convinti che le due newsroom unitarie di Gubitosi non potranno raccontare le mille anime e i mille colori della nostra Italia. Per questo la risoluzione invoca «una revisione del progetto predisposto dal direttore generale con l’obiettivo di garantire il pluralismo e l’identità editoriale delle singole testate giornalistiche». Il direttore generale obietta anche su questo: «Il 17 dicembre, Mary Hockaday della televisione pubblica inglese, la Bbc, è stata sentita dai parlamentari della Vigilanza. E in audizione miss Hockaday ha spiegato bene che l’unificazione dell’informazione ha procurato grandi vantaggi agli inglesi, in termini di risparmio e pluralismo. Peccato che alcuni nostri parlamentari queste cose non le abbiano volute sentire. La Bbc ha avviato questa riforma esattamente 20 anni fa. Venti anni fa. Ora, anche noi immaginiamo di impiegare del tempo prima di arrivare all’obiettivo finale, che è quello di una sola newsroom, di una redazione unica per tutta l’informazione. Però vogliamo iniziare subito. Adesso. A Parigi, France 2 è partita dopo di noi nell’accorpamento delle redazioni, ma ci ha superato nell’attuazione del piano ». Se dunque il Parlamento italiano tenta lo sgambetto a Gubitosi, resta da capire quale sia l’atteggiamento del premier Renzi e del ministro dell’Economia Padoan, azionista della Rai: «Li sento al mio fianco — assicura Gubitosi — chi ricopre certe responsabilità sa bene che i problemi vanno affrontati per tempo. Le aziende che hanno fronteggiato i problemi all’ultimo momento hanno fatto tutte una brutta fine». Pensa all’Alitalia? «L’elenco nel nostro Paese è bello lungo, purtroppo... ». L’informazione non è il solo motivo di lite tra 51 la Rai e la Vigilanza, che pone anche il problema del nuovo Contratto di Servizio. Il Contratto stabilirà gli impegni della televisione pubblica con lo Stato e con gli italiani per i prossimi tre anni. Il testo è pronto, la Vigilanza ha espresso il suo parere, ma poi la pratica si è impantanata. Gubitosi, perché lei non vuole firmare il Contratto? Le pare corretto? «Sono pronto a farlo anche domani», è il dg solleva la penna a volerlo confermare. «Chiedo solo che il Contratto tenga conto di un dettaglio, chiamiamolo così: il governo ci ha tolto dei soldi». Sono 150 milioni di canone l’anno scorso ed altri 87, quest’anno. «Le sembra una cosa che può essere dimenticata? Desideriamo che il nuovo Contratto ne tenga conto quando fissa i nostri impegni. Tutto qui». 52 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 12/02/15, pag. 25 Scacchi, inglese, egittologia Boom dell’“altra” Università Viaggio nella “Popolare”, istituzione antica che vive una nuova giovinezza Ci va il detective che vuole imparare l’arabo e il manager che studia oratoria Elena Lisa Alle sette di sera la coda davanti a Palazzo Campana, a Torino, cresce a vista d’occhio. C’è chi si stringe nel cappotto e parla con il vicino. Chi, più giovane e solitario, indossa cuffie taglia Topo Gigio. E chi è appena arrivato, trafelato, con la ventiquattrore. Uomini e donne di ogni età sono in coda per andare a studiare. Per tornare in aula, su banchi «pop», dell’Università Popolare. In Italia, le istituzioni come quella sabauda sono parecchie. Sono state fondate nelle grandi città e nei borghi più piccoli. All’inizio del secolo scorso e al principio di quello che stiamo vivendo. Da Roma a Camponogara. Da Milano a Galatina. La più grande è nella capitale: 30.000 iscritti. La prima a rilasciare attestati autorizzati dal Miur - il ministero dell’Università e della Ricerca - è a Milano. L’università Popolare di Torino, invece, è la più antica. Quest’anno compie 115 anni: la fondarono Francesco Porro e Angelo Mosso, due professori dell’Ateneo di Stato nel 1900. Si dice fossero massoni. Certamente ebrei. Ma a volerla fortemente fu anche l’antropologo e criminologo, Cesare Lombroso. «Uomini che volevano diffondere il sapere. Svincolandolo da costrizioni e tabù. Da qualsiasi propaganda politica. È il gesto più generoso verso una comunità», dice il direttore, Eugenio Boccardo. All’Università Popolare, oggi, entrano l’ispettore di polizia per imparare l’arabo, il manager che segue «public speaking» per superare la paura di parlare in pubblico. Il novantenne interessato a sessuologia - già, c’è anche lui - e l’allievo che non ti aspetti. Come Pierluigi Baima Bollone, professore emerito di medicina Legale, noto nel mondo per i suoi studi sulla Sindone. È iscritto a egittologia. I professori A Torino si fa lezione dalle 19,30 alle 22,30. L’iscrizione costa 130 euro. S’impara a giocare a scacchi, si studia Platone, si fa pratica con la macchina fotografica, si perfeziona la lingua inglese. «Organizziamo oltre cento corsi – spiega Enrico Panattoni, coordinatore - e il numero di richieste è incredibile. Anche per insegnare. Alcuni propongono argomenti stravaganti: accetto anche quelli a patto che siano utili, funzionali ai tempi». Ciò che Panattoni cerca di spiegare, correndo da una parte all’altra del solenne Palazzo Campana per aprire le aule agli studenti, è che l’Università Popolare, ciò che lì s’insegna, ha l’ambizione di essere un fiume di sapere che assume forme diverse in base alle necessità. Ci sono anni in cui il suo carattere è scientifico, altri in cui è più umanistico, storico, letterario. Nel 2015 guarda il sociale: «Ho inserito corsi per insegnare ad assistere i malati di Alzheimer – dice Panattoni -. Le famiglie non sanno come fare. Con la crisi del welfare sono sempre più sole». Gli studenti Palazzo Campana è una sede austera e prestigiosa che l’Università Popolare divide con i dipartimenti di Matematica e Biologia dell’altra Università di Torino, quella di Stato. Nessuna ambizione di somigliarle. E nessun desiderio di confondersi con la terza sorella: 53 l’Università della Terza Età. Qui gli iscritti non hanno meno di 60 anni. A Palazzo Campana, invece, si mischiano generazioni e mestieri. Pensionati ed estetiste, avvocati e precari. Poi stranieri. Tanti. «Mi chiamo Roberto Deitos Nilso, ho 56 anni e sono brasiliano - dice un uomo con il sorriso contagioso mentre sale lo scalone - . Sono arrivato in Italia vent’anni fa e questo è il primo posto che ho frequentato. Mi sono iscritto a giurisprudenza. Per vivere bene nel vostro paese dovevo conoscere le leggi». Gli insegnanti non devono essere necessariamente laureati. Ma preparati, competenti. Specie per stare al passo con gli iscritti precisini, pragmatici. In una parola: torinesi. Sarà pure un caso ma la maggior parte di loro, da un paio d’anni, non si fa scappare corso, seminario, visita guidata. Ogni proposta abbia a che fare con lingua, cultura, tradizioni, gastronomia, e chi più ne ha ne metta, in voga in Germania. Perché i pronipoti di Cavour ce l’hanno nel dna: individuata la «potenza» s’impegnano a curare la diplomazia fin nei minimi dettagli. 54 ECONOMIA E LAVORO del 12/02/15, pag. 17 Jobs Act. La maggioranza in commissione Lavoro ha approvato il parere sul Dlgs che modifica l’articolo 18 Pd diviso sui licenziamenti collettivi I senatori dem: si torni alla reintegra - Taddei: mantenere l’impianto della riforma ROMA È braccio di ferro nella maggioranza, e all’interno del Pd, sulla sorte dei licenziamenti collettivi. I senatori dem, in occasione della discussione ieri notte in commissione Lavoro, sono usciti allo scoperto chiedendo al Governo, con un emendamento (votato anche da Sel e M5S) di cancellare l’estensione delle nuove regole (indennizzo e non più reintegra) ai licenziamenti di almeno 5 dipendenti. Ma il presidente della commissione, Maurizio Sacconi (Ap), si è detto contrario, auspicando che «il Consiglio dei ministri non recepisca questa richiesta». Anche il Pd, in realtà, è diviso sul tema: per il responsabile economico, Filippo Taddei: «Non si tratta di cambiare un aspetto o un altro, ma di mantenere l’impianto di una riforma che mette al centro il lavoro stabile e introduce l’indennizzo come tutela ordinaria del lavoratore». D’accordo Pietro Ichino: «La legge delega esclude esplicitamente l’applicabilità della reintegra in tutti i casi di licenziamento economico. Non si può sostenere che questa espressione non comprenda il licenziamento collettivo». Il punto in discussione è il mantenimento della tutela reale in caso di violazione dei criteri di scelta previsti da accordi aziendali. A chiedere il dietrofront sui licenziamenti collettivi sarà anche la commissione Lavoro della Camera presieduta da Cesare Damiano (Pd) che preme l’Esecutivo anche per rivedere, al rialzo, gli indennizzi minimi (attualmente fissati a 4 mensilità, 2 in caso di conciliazione standard). Fin qui la cronaca parlamentare. Va infatti ricordato che si tratta di pareri non vincolanti per il Governo che ieri, per bocca del sottosegretario, Teresa Bellanova, ha annunciato l’intenzione di voler portare al Consiglio dei ministri del 20 febbraio tutti i restanti decreti attuativi del Jobs act, compreso quello sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Un’operazione difficile, soprattutto sul riordino della cassa integrazione visto che bisognerà ottenere l’ok del ministero dell’Economia. Strada in salita anche per la nuova agenzia nazionale per l’occupazione, alla luce delle critiche mosse dalle Regioni, ancora competenti sulla materia (a Titolo V non modificato). In vista del 20 febbraio ieri pomeriggio al ministero del Lavoro si è svolta una nuova riunione tecnica con gli esperti di palazzo Chigi. A buon punto è il Dlgs sul riordino delle tipologie contrattuali. Qui si va verso un graduale superamento delle collaborazioni a progetto (l’ipotesi è fissare la deadline al 1° gennaio 2016), e una ridefinizione complessiva delle cococo. Verso la cancellazione anche delle associazioni in partecipazione e del lavoro ripartito (il job sharing utilizzato in agricoltura, che conta qualche centinaio di rapporti). Ci sarebbe una semplificazione dell’apprendistato di 1° livello (per il diploma e la qualifica professionale) e di 3° livello (di alta formazione). Per il lavoro a chiamata è ancora in corso una riflessione, per evitare di penalizzare alcuni settori produttivi (commercio e ristorazione). Ancora in bilico è pure l’intervento sui contratti a termine (la cui durata potrebbe scendere da 36 a 24 mesi). 55 Sulle mansioni, si amplierebbero i margini di intervento del datore di lavoro nei casi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale. Tornando al parere, votato ieri dalla maggioranza, c’è il richiamo all’applicazione omogenea delle nuove disposizioni a tutto il lavoro privato e pubblico, con l’eccezione delle carriere d’ordine. In termini generali, è scritto nel parere, «la regolazione dei nuovi contratti permanenti deve allinearsi alle discipline vigenti negli altri paesi europei, anche a quelle più protettive». 56