Le donne e la guerra: l`archetipo euripideo

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Le donne e la guerra: l`archetipo euripideo
Le donne e la guerra: l’archetipo euripideo
Alcuni anni (settembre 2002) fa mi è capitato di assistere, al Campus di Tor Vergata in
Roma, ad uno straordinario evento teatrale: la rappresentazione sunechéév delle Troiane e dell’Ecuba
di Euripide, la prima in spagnolo, la seconda in italiano. Protagonista dei due drammi un’inimitabile
Irene Papas, che tennne la scena per circa tre ore, senza mai allentare l’intensità e l’elevatezza della
sua recitazione. La sumpaéjeia allora provata è stata tale da indurmi ad una rilettura critica dei due
drammi, non sempre in passato considerati fra le opere più significative e per così dire attuali del
drammaturgo ateniese1.
Lo spettacolo fu insieme voluto e finanziato dalla Generalitat Valenciana, dal Ministero per i
Beni e le Attività Culturali della Repubblica Italiana e dal Ministero Ellenico della Cultura. La
prima delle Troiane fu data a Valencia nel 2001; nell’anno 2003, in concomitanza con le Olimpiadi,
il progetto ebbe il suo epilogo ad Atene con la messa in scena dell’Agamennone di Eschilo, sempre
con la direzione artistica e l’interpretazione di Irene Papas, mai come in qulle prove magistrali
“donna d’Europa”. Così, insieme alla compagnia spagnola de Las Troyanas e a quella italiana
dell’Ecuba, si esibì per l’ >Agameémnwn una compagnia greca. Tre lingue mediterranee, antiche e
illustri, per inviare a tutti i popoli lo stesso messaggio: ogni guerra è un immane misfatto dell’uomo,
qualunque ne sia la causa; è un male terribile per tutti, vincitori e vinti; il cuore femminile, più di
quello maschile, ne è travolto e grida, con tutta la forza della passione e dell’amore, fuori da ogni
canone e da ogni ambiguo sofisma; insanabile è la lacerazione di una madre, di una sposa, di una
sorella o di una figlia, insostenibile la loro sofferenza, irrefrenabili la loro maledizione e la loro
vendetta. Il teatro tragico greco è stato in tal modo rimesso al centro della scena fosca e
insanguinata della nostra epoca; è stato riproposto come filiera di tutti tempi degli uomini, devastati
sempre dalla brama di potere che genera la guerra, e sempre sopravvissuti grazie allo stesso dolore,
all’incrollabile volontà di espungerlo, volta per volta, dal proprio grembo; è stato restituito al suo
autentico ruolo di provocatore delle grandi domande sull’uomo, dimidiato tra la costrizione del
razionale e il fascino misterioso e spesso agghiacciante dell’irrazionale. Tanto è stato possibile
soprattutto grazie all’arte sublime di Irene Papas, incarnazione dell’animo femminile nella sua più
profonda dimensione, immagine della Grecia perenne, “madre di un solo fiume” che attraversa
l’intera ecumene e sale fino al cielo; al suo lapideo volto scavato e corroso come quello della luna,
ma ad un tempo luminoso e materno; alla sua voce, calda e un po’ aspra, che spacca come scure i
silenzi della notte. Insomma, grazie all’Ecuba che attraversa i millenni, e si ritrova oggi negli occhi
e nelle mani delle donne afgane, irachene, siriane, palestinesi, ebree, statunitensi, nordafricane,
sudamericane, di tutte le donne che nella guerra patiscono in vario modo ma con la stessa intensità,
anche se non sono madri, gli strappi violenti alla maternità, e nel pianto sciolgono gli oracoli
dell’eterna Pizia.
La lettura critica del dramma euripideo condotta da Gennaro Perrotta nel saggio del 1931 I
tragici greci, riedito per i tipi della D’Anna nel 1966, è sostanzialmente improntata alla teoria
crociana dell’arte, allora egemone in Italia, quantunque il noto studioso, per essere anche un
acutissimo filologo, non si astenga dal riservare alla struttura, nell’ambito del suo rapporto con la
poesia, un’attenzione maggiore di quella solitamente riservata dai crociani più ortodossi di quel
periodo2. L’analisi delle opere, ma soprattutto dei personaggi, viene articolata quasi unicamente su
due livelli, quello estetico e quello etico, entrambi incentrati su paradigmi metastorici, quindi
completamente decontestualizzati. Il pathos, requisito primario della poesia secondo la dottrina
dell’intuizione pura, viene criticamente misurato in chiave individuale, mai collettiva; dal che
1
Per l’evento fu pubblicato un elegantissimo catalogo a cura di R. M. Corato, G. Zampini e A. Marandino.
Quanto alle Troiane, appunto, egli rileva, senza però trarne conclusioni di altro ordine, il decentramento dell’azione
(p. 210).
2
1
scaturisce il riconoscimento della maggiore o minore caratura poetica del protagonista, e
conseguentemente della tragedia. L’umanità euripidea appare per tanto collocata in uno scenario
indefinito, senza modificazioni diacroniche, sempre uguale a se stessa. Le specificità sono riportate
unicamente alla psicologia dei singoli personaggi, una psicologia anch’essa sincronica. Dentro tale
orizzonte l’eroismo, motivo topico del genere tragico, ha connotazioni assolute e perenni nel suo
modello di riferimento, che è comunque quello maschile. Rispetto ad esso soltanto si colgono le
peculiarità delle varie eroine, disancorate da una sensibilità e da un’identità proprie del loro essere
donne. I fatti storici, se non sono del tutto assenti, vengono a costituire uno schermo di sfondo
sbiadito e ininfluente. Queste ed altre ragioni fanno sì che le Troiane e l’Ecuba, pur spesso citate,
specie la prima, non assumano mai particolare evidenza nello schema di lettura del Perrotta: la
guerra non è motivo poeticamente rilevante; il dolore, l’odio, la ribellione delle donne per la guerra
interessano davvero poco e agiscono quasi per niente nel giudizio sull’arte euripidea. Insomma, il
dramma delle donne di Troia non sono la violenza bestiale e la furia omicida della guerra, la
devastazione che essa porta nell’animo e nella vita di ognuno e di tutti insieme, l’inermità di fronte
ad essa, la coercizione alla rassegnazione e talora alla vendetta, anch’essa disumana, contro gli
uomini che la vogliono perché in essa si esaltano. Sono, invece, il loro io naturalmente fragile, la
loro inferiorità fisiologica, il loro sentimento incondizionato ed incontrollabile dell’amore. Questo
veniva scritto a proposito di Euripide in un clima culturale e politico nel quale primeggiavano il
mito della guerra ed una concezione maschilista del femminile.
È del 1971 l’ampio saggio di Vincenzo Di Benedetto Euripide: teatro e società3, nel quale,
sulla scorta delle mutate ideologie critiche sull’antico e di nuovi apporti storico-filologici, vengono
finalmente definiti con rigorosa organicità i criteri fondamentali di interpretazione dell’ultimo
grande drammaturgo ateniese, anche in relazione al quadro politico entro il quale si svolse la sua
attività. Nella breve premessa, che è di metodo e di sostanza, il Di Benedetto assume a direzione di
analisi il rapporto di reciproca influenza tra Euripide ed Atene, concludendo su questo punto che
“un’opera d’arte è tanto più autentica quanto più l’artista è in grado di ‘leggere’ la realtà del suo
tempo, di decifrarla, di cogliere le linee essenziali di processi reali e oggettivi”4, riordinando in tal
modo l’intera trattatistica euripidea e ponendosi agli antipodi della lettura del Perrotta. Il secondo
criterio riguarda l’impressione di prorompente attualità che suscitano i drammi di Euripide. Chiarito
che l’impressione può anche fuorviare da un’esatta comprensione del perché un autore sia attuale,
lo studioso osserva: “In effetti, la risposta che l’artista antico dava agli stessi problemi che ancora
oggi - per necessità di cose - sentiamo come attuali si può intendere pienamente solo se ci rendiamo
conto adeguatamente del suo modo di porsi di fronte alla realtà del suo tempo, una realtà che aveva
una sua ben precisa fisionomia”5. Ne consegue, a suo parere, che “l’attualizzazione di un’opera
d’arte antica è una cosa importante che non deve essere sottovalutata, ma essa può essere conseguita
non immediatamente, bensì solo attraverso una sua radicale storicizzazione”6. Asserisce, infine, che
i messaggi etico-civili trasmessi dalle opere letterarie in genere, e, nel nostro caso, da quelle
euripidee, richiedono, per essere compresi compiutamente, una scrupolosa indagine “dei mezzi
espressivi che l’artista aveva a disposizione”7.
Al tema specifico dell’antibellicismo di Euripide sono dedicati due capitoli centrali: La crisi
dei primi anni della guerra del Peloponneso e Il desiderio di pace e la polemica contro i
“demagoghi”. In essi il saggista ricostruisce scrupolosamente, attraverso l’analisi dei drammi
composti e rappresentati tra il 430 e il 424 (Eraclidi, Ippolito, Andromaca, fr. 453 del Crisfonte,
Ecuba), la crisi del mito di Atene, polis giusta e concorde, e l’insorgere della polemica sempre più
aspra contro i sostenitori della guerra, connettendo strettamente questa metanoia ai cambiamenti
politici verificatisi dopo l’inizio della guerra del Peloponneso e la morte di Pericle.
3
Einaudi, Torino 1975.
Premessa, p. X.
5
ibidem, p. XI.
6
ibidem, p. XI.
7
ibidem, p. XII.
4
2
Le argomentazioni del Di Benedetto e le sue documentazioni testuali ed intertestuali sono
alquanto convincenti, e, se pur la sua ricostruzione è da intendersi sicuramente integrabile, non c’è
dubbio che debbano considerarsi determinanti le sanguinose vicende belliche che sconvolsero la
vita e il futuro di Atene, per spiegare il perché il drammaturgo ritornasse con tanta amara insistenza
sul tema della guerra. Rimane però omesso, sia dal Di Benedetto che da altri studiosi, un congruo
approfondimento sul motivo storico-letterario della scelta euripidea di affidare sempre e comunque
la condanna incondizionata della guerra a personaggi femminili.
Sono oltremodo persuaso che la questione si debba affrontare in una prospettiva temporale
più ampia di quella indicata dal Di Benedetto, indagando quindi, per quanto possibile, su
motivazioni non riconducibili unicamente alle ricordate circostanze politico-militari, che forse
esarcebarono ancor più l’animo di Euripide, presumibilmente già sensibile alla cultura della pace.
Seguendo questo itinerario potremmo riuscire anche a sciogliere il difficile nodo del rapporto
radicalmente conflittuale tra la donna e la guerra. In assenza di certe informazioni biografiche e di
altri dati documentali, tale itinerario non può compiersi se non all’interno dei testi e dei frammenti a
noi pervenuti. La mia ricerca si limiterà, per il momento, ai due drammi sulle donne di Troia.
Anche per questa prima indagine, comunque, è opportuno partire da alcuni versi
emblematici della Medea, databile con buona probabilità al 431, quando cioè si era appena alle
prime avvisaglie del grave conflitto con Sparta. In una tormentata monodia, Medea, dopo aver
denunciato la grande disparità sociale tra l’uomo e la donna, tanto più se straniera, afferma:
“Dicono che noi in casa conduciamo una vita sicura mentre loro combattono. Insensati! Vorrei
combattere mille battaglie piuttosto che partorire una sola volta” (248-251). L’antinomia
concettuale e formale dell’ultima battuta è fin troppo evidente, e può, a mio avviso, plausibilmente
ricondursi ad una contrapposizione ideologica tra la maternità, che genera la vita, e la guerra, che la
vita distrugge.
L’antinomia guerra-maternità trovò la sua massima espressione nell’Ecuba, rappresentata tra
il 426 e il 423, e nelle Troiane, che andò in scena alle Grandi Dionisie del 415. Quelli tra il 426 e il
423 furono fra gli anni più duri della guerra peloponnesiaca, il 415 segnò l’inizio della disastrosa
spedizione in Sicilia. Non fu, per ciò, una ragione meramente artistica a orientare Euripide verso la
scelta, per il diffidente e ostico pubblico di Atene, di due argomenti tratti dal tristissimo ciclo di
Troia, fra loro strettamente intrecciati ed entrambi incentrati sulla figura di Ecuba, personaggio
emblematico più di ogni altro della maternità oltraggiata e vulnerata dalla guerra.
Al di là di ogni altra considerazione etica ed estetica sul tormento sconfinato di Ecuba e
sulla sua terribile vendetta a danno di Polimestore, vendetta che in qualche modo ricorda la follia di
Medea (ma una madre, quando non è più madre, oltrepassa ogni limite sia nel dolore che nell’odio),
il testo del primo dramma presenta già numerosissime isoglosse afferenti alla sfera semantica della
maternità mutilata, essendo questa, evidentemente, la chiave di lettura della guerra prescelta da
Euripide per illuminare l’animo degli Ateniesi sulla sua insania, e renderli consapevoli degli orrori
che essa in ogni caso provoca. Nelle Troiane il dolore, che nell’Ecuba si coagula tutto nell’animo
della vecchia regina, facendolo implodere prima e poi esplodere con furia inaudita, transita e
penetra nelle altre donne, che compongono il coro, sicché la tragedia di madre diventa la tragedia di
tutte le madri, effettive o potenziali.
Che Euripide volesse in tal modo traumatizzare il cuore del suo pubblico, generando un
foébov tremendo, è fuor di ogni dubbio, come è fuor di dubbio, a mio avviso, che la sua psiche fosse
particolarmente sensibile, per motivi che non conosciamo, a qualsiasi offesa della maternità.
Nell’Ecuba i vocativi “madre” “figlio” “figlia” “figli” ritornano con particolare insistenza,
sia nella prima che nella seconda parte, erroneamente dai più giudicate fra loro poco coese, se non
proprio irrelazionabili8. L’esordio della protagonista (59-97), immediatamente dopo il prologo,
8
In seguito dimostrerò perché tale opinione a mio parere non può essere condivisa. Autorevoli conferme riscontro,
sebbene diversamente motivate, in Lesky (Storia della letteratura greca, Milano 1969, p. 490ss.), e in Cataudella
(Saggi sulla tragedia greca, Firenze 1969, pp. 282-283).
3
recitato dall’ombra di Polidoro (soluzione scenica questa di forte impatto emozionale), ha come
motivo centrale la rivelazione sconvolta di una e\énnucov o\éyiv, “sogno dalle nere ali” (71), in cui le
sono apparsi lo stesso Polidoro, che lei ritiene “salvo in Tracia”, e la cara Polissena, che poi si
tramuta in una cerva “sgozzata” da un lupo tra le ginocchia materne. I sostantivi parentali si
ritrovano ai vv. 74, 75, 79, 96, a riprova della volontà di Euripide di orientare subito il pubblico
verso il tema dominante del dramma, quello appunto della maternità vulnerata. Inoltre, tutto il brano
vive di una straordinaria tensione da presentimento, almeno riguardo alla sorte di Polissena: “Da
mia figlia, dei, da mia figlia tenete lontana questa sorte, vi supplico” (96-97)9, così Ecuba conclude
la sua breve monodia. Il presentimento correlato all’istinto materno era già nel V a.C. un topos
letterario10.
La parodo dà conferma al triste presagio della madre, e lo trasforma in timore consapevole.
Ecuba allora intona un canto dolente e senza speranza: il pensiero dei figli perduti (161) trova sfogo
nell’angoscioso grido finale, dove in tre versi (171-173) due volte viene ripetuta la forma mateérov e
due volte viene invocata Polissena come figlia (teéknon e pai%). Nel diverbium successivo (177-215)
ben sei volte Polissena usa, e sempre in enfasi, il vocativo ma%ter, tre volte Ecuba il vocativo teéknon
ed una pai%, anche lei sempre in enfasi. Teéknon esprime, ovviamente, un senso più forte del rapporto
generante-generato. La sofferenza di madre non si attenua nel pur abile dialogo con Odisseo.
Emerge qua e là con commovente tenerezza e talora con un sussulto di ribellione: al v. 259, al v.
264, ma soprattutto ai vv. 275-281, forse fra i più intensi e significativi sentimentalmente dell’intera
tragedia. Conclusa l’inutile fatica oratoria (a\gwèn meégav, 229) e dopo un brevissimo intervento del
coro, Ecuba riprende invocando la figlia (334), affinché chieda pietà di sé presso Odisseo.
Il legame ancestrale che unisce, anche dopo il parto, madre e figlia è più volte evidenziato da
Euripide nei due dialoghi seguenti. Ecuba offre a Odisseo la sua vita in cambio di quella di
Polissena, come ogni madre amorevole e saggia farebbe. Odisseo rifiuta: il rito propiziatorio sulla
tomba di Achille impone il sacrificio di una vergine. Ecuba, allora, chiede di morire insieme a sua
figlia, la considera una pollhè a\naégkh, quasi dettata da una volontà sovrumana, inspiegabile.
Odisseo le nega anche questo, ed Ecuba in due emblematiche battute fa capire quanto sia
irrecidibile per forza di natura il vincolo che la lega a Polissena: “A lei mi terrò attaccata come
l’edera alla quercia” (398), e “Da questa figlia non mi staccherò per mia scelta” (400). Il richiamo
all’indissolubità del vincolo serve all’autore per criminalizzare i portatori di guerra.
L’ultima scena del primo episodio prosegue dal v. 402 con il reinserimento di Polissena nel
dialogo. Essa, dopo aver dichiarato l’accettazione del sacrificio (“Meglio morire che vivere. Vivere
male è una pena immensa”, 377-378)11 e supplicato la madre di non ostacolare la sua decisione,
rimane per qualche attimo in silenzio. Poi riprende invocando ancora una volta la madre e
pregandola di ascoltare le sue parole, parole di rara dolcezza filiale: ”Mamma cara, suvvia, dammi
la tua dolcissima mano e accosta la tua guancia alla mia guancia. Mai più vedrò il disco del sole con
i suoi raggi, ora è l’ultima volta. Ascolta le mie ultime parole” (409-413). È significativo che prima
dell’ultima battuta, a\épeimi dhè kaétw (414), Euripide faccia pronunciare alla fanciulla una doppia
invocazione: w& mhéter, w& tekou%sa, enunciando con la seconda quale sia il più autentico senso della
prima, cioè il dono della vita (“tu che mi hai generata”). L’ultimo pensiero prima di andare incontro
alla morte12.
A chi come le donne sentono più acutamente la lacerazione del cordone ombelicale della
vita, davvero la guerra doveva sembrare, come tuttora sembra, la negazione più grande della nostra
umanità, l’azione più empia che si possa compiere. E che sia giusta l’interpretazione dell’Ecuba
9
I brani in versione italiana sono stati da me curati utilizzando anche le traduzioni di S. Quasimodo (Milano 1962) e di
U. Albini-V. Faggi (Garzanti, Milano 1995), per l’Ecuba; quella di E. Cerbo (Rizzoli, Milano 1998), per le Troiane. Per
entrambe le tragedie ho pure consultato le traduzioni di O. Musso (UTET, Torino 1993).
10
Si possono innanzitutto ricordare Omero e Simonide.
11
Quasi una kamikaze ante litteram.
12
Avviene frequentemente che un moribondo, cosciente o non, invochi la propria madre.
4
come tragedia della maternità trova valida riprova in due successivi dati testuali: l’esclamazione di
Polissena al v. 424 (“O petto e seni che mi avete dolcemente nutrita!”) e la nota di regia all’inizio
del secondo episodio (487). Polissena, ormai in preda al trasalimento per la prossima fine, ricorda la
parte del corpo materno attraverso la quale, una volta generata, è stata nutrita. Ecuba, che invano ha
cercato di trattenere la figlia (439-440), appena privata della sua creatura si stende a terra supina,
così come fece al momento di partorirla13 .
In quella posizione evidentemente, ascoltato il racconto di Taltibio (517-582), si abbandona
ai pensieri più strani. Non mi pare che qui Euripide abbia interrotto o allentato la tensione emotiva;
tutt’altro, le erranze della mater dolorosa sono la riprova di quanto scompiglio abbia provocato
nella sua mente la morte della figlia. È il segnale del dolore che sta per sfociare nella follia.
Il primo pensiero corre sempre alla dolce Polissena, costretta dalla guerra a sacrificare la sua
giovane vita. Pensiero che ritorna fra tanti altri che maéthn le agitano la mente (585-590, 609-618).
I passaggi da un pensiero all’altro non sono per nulla logici, filosofici, come pure molti
sostengono. A prescindere, s’intende, dalla coerenza di ogni singolo pensiero per sé preso.
Comportamento tipico, come ho detto, di una mente ormai devastata dall’eccessivo dolore. Si
valuti, ad esempio, il passaggio dal pensiero che ha termine al v. 608 a quello che incomincia al
verso seguente. Dice bene il Lesky, confutando la communis opinio del razionalismo coerente, che
Euripide si presenta come un intellettuale inquieto, pronto a rivedere i suoi punti di vista, slegato da
qualsiasi ideologia organica14. A me sembra che proprio questo monologo di transizione
dall’episodio di Polissena a quello di Polidoro certifichi abbastanza bene in che misura Euripide
fosse lontano dal reputare che la ragione riuscisse a spiegare tutti i moti dell’animo umano, e quindi
che egli volesse condannare tale presunzione ritraendo appunto il labirinto inestricabile di esso. Tale
interpretazione chiuderebbe definitivamente l’annosa questione sul senso ultimo e autentico delle
Baccanti. Su questa linea, del resto, potrebbe meglio delinearsi il tracciato seguito per una revisione
del rapporto fra la tragedia e la sua origine dionisiaca.
Riguardo alla mia tesi sull’Ecuba quale dramma della maternità ritengo che una conferma
possa essere plausibilmente tratta dall’epodo del secondo stasimo (651-655), nel quale il dolore
della regina troiana si universalizza mediante l’immagine della donna-madre spartana che presso le
rive dell’Eurota “per i figli morti si percuote il capo canuto e si graffia le guance”. Nulla può sanare
nel cuore di una madre la piaga dei figli uccisi. La guerra colpisce tutti, vincitori e vinti, con le
stesse pene.
Il dolore si rinnova e si fa incontenibile nel momento in cui Ecuba scopre che è di Polidoro
il cadavere trascinato dalle onde del mare sulla riva prossima alle tende delle prigioniere troiane. Il
suo grido scuote la silente pianura, riempie di sé la terra e il cielo, si propaga di generazione in
generazione. È il grido di ogni madre della terra: w& teéknon teéknon, quello del v. 684, con iterazione
in anafora al v. 694. È il primo grido disperato di madre nella letteratura di ogni tempo, la cui
consacrazione religiosa è avvenuta con le rappresentazioni medievali della passio evangelica. Dal
grido alla follia il tratto è breve: 685-687, 691-692. Il presentimento è divenuto, per la seconda
volta, tristissima e incredibile realtà, a\épist’ a\épista (689). Nel suo animo non c’è più spazio ormai
per nessun altro sentimento che non sia quello della vendetta.
Il successivo dialogo con Agamennone altro non è che un affannoso tentativo di trovare la
via per lei più naturale alla vendetta: punire il fedifrago Polimestore, a qualsiasi condizione (756).
Al di là delle norme retoriche osservate dall’autore, che vanno considerate alla luce di una
grammatica della comunicazione teatrale propria di quel periodo (allo stesso modo di come noi
consideriamo, senza sorprenderci più di tanto, gli attuali canoni scenografici, coreografici, ecc.) e
non già un appannamento o svilimento della tensione drammatica, le argomentazioni di Ecuba sono
dettate da una lucida follia, a noi divenuta ben familiare grazie alla cronaca nera, al romanzo giallo
13
A proposito di questo motivo sarebbe utile rifarsi alla teoria avanzata da C. Diano in Forma ed evento, recentemente
ripubblicato con un’ottima introduzione di R. Bodei per i tipi della Marsilio, Venezia 1993.
14
o.c., pp. 476-477.
5
e al thriller cinematografico. Tali argomentazioni non creano affatto una soluzione di continuità con
l’Ecuba del sacrificio di Polissena: “Il discorso che tiene ad Agamennone, per indurlo ad aiutarla
nella vendetta o, per lo meno, a non impedirla, mostra che essa è la stessa donna di prima, la stessa
donna che tentò di salvare Polissena, pregando Ulisse e tentando tutti i mezzi della persuasione”,
annota il Cataudella nella sua lettura dell’Ecuba15, che, se pur ancora ispirata a un’ermeneutica
tradizionale, contiene tuttavia alcuni spunti sicuramente nuovi e interessanti. Dalla trama accorta
della suasoria affiorano le spie di un animo in totale subbuglio, fuori ormai da ogni autocontrollo.
Mi limito a segnalarle: vv. 749, 756, 762 (il legame genetico ancora evocato), 766, 772, 782, 785,
786, 789ss., 795ss., 810, 820-821, 842, 870, 882. Nello stesso dialogo rilevo due battute, una di
Agamennone, l’altra di Ecuba, attraverso le quali filtra l’amara constatazione di Euripide sulla
schiavitù storica dell’uomo, costretto a tradire i vincoli naturali, fondamenti del suo essere.
Agamennone afferma: ”Se Polidoro mi è caro, questo non c’entra e niente ha a che fare con
l’esercito” (859-860); Ecuba ribatte, probabilmente gridando: “Aaah! Non c’è uomo che sia libero.
O è schiavo del denaro o della sorte; le masse cittadine oppure le leggi scritte gli impediscono di
agire secondo le sue intenzioni” (864-867)16. Che qui si alluda ai demagoghi ateniesi è alquanto
probabile, non altrettanto accettabile è la tesi che l’autore voglia riferirsi solo a questa precisa
contingenza politica, e non si ispiri a una convinzione etica generale sull’impossibilità dell’uomo di
esercitare la sua piena libertà per i condizionamenti che Ecuba elenca e altri simili che si possono
immaginare. Quindi, la guerra potrebbe intendersi nel pensiero euripideo come un effetto della
libertà limitata dell’uomo. Non certo una giustificazione, ma una dura accusa della vanagloria
democratica degli Ateniesi (in quell’anno, per altro, rei della riprovevole spedizione contro i Meli)
e, in una visione prospettica, degli altri popoli che in futuro si sarebbero fregiati e vantati di questo
falso merito. Se neghiamo ai grandi poeti la capacità di leggere il proprio tempo in una prospettiva
lontana, per quale ragione dovremmo considerarli kthémata e|v a\eié? È libertà impossibile anche
quella di essere madre una volta che i propri figli siano stati sottratti o uccisi. Anche l’abbandono
dei leéch fiéla della seconda antistrofe del terzo stasimo (933) mi pare un’esplicita allusione alla
libertà negata, in questo caso alle spose.
La furia della madre esplode al massimo grado nel contrasto con Polimestore, dopo che gli
sono stati abbacinati gli occhi e uccisi i figli. Ecuba, madre pietosa e tenera, non è più in grado
ormai di concepire alcuna pietà e tenerezza. Si è compiuta la metamorfosi. Questo è appunto ciò che
la guerra produce nell’animo di una madre: la disumanizzazione, poi metaforizzata nella profezia
della sua trasformazione in cagna. In preda alla follia omicida, Ecuba scatena il suo linguaggio da
qualsiasi civile convenienza (1044ss., 1049ss.). I figli uccisi uccidono i figli, e il coro-polis finisce
per alienarsi nella giustificazione della vendetta (1085, 1107).
Mentre Polimestore racconta l’uccisione dei figli (assurde e pretenziose giustificazioni le
sue, addotte da un omicida precipitato ormai nel baratro della sventura, quasi a dimostrare che
neppure un immenso dolore agisce in noi da liberatore della verità), le donne troiane si comportano
in modo non dissimile da quello che sarà delle Baccanti. Agave non mi sembra affatto lontana da
Ecuba: l’accecamento che Eschilo attribuisce agli dei, Euripide lo fa ricadere sulla volontà degli
uomini, sulle loro irresponsabili azioni contra naturam.
La dissociazione psicologica della “vinta” regina troiana risulta ancor più evidente nel
dialogo con il quale si conclude il dramma. Alle lucide argomentazioni portate a sua difesa di fronte
ad Agamennone, eletto giudice di un dibattimento che sa tanto di aula giudiziaria (dibattimento che,
per l’ironia che lo caratterizza, evidenzia fortemente il grottesco della situazione), seguono, in
stridente contrapposizione, le espressioni di una gioia da delirio per il dolore di Polimestore (1256,
1258) e per la profezia della metamorfosi in kuéwn puérs’e\écousa deérgmata (1265). Su questa, per
altro, Ecuba si mostra indifferente quasi non la riguardasse. In fondo, è già una cagna. La sua vita si
è compiuta con la vendetta; altro sentimento non può più albergare nell’animo se non un
15
16
o..c., p. 275..
Lo stesso concetto viene espresso al v. 254ss.
6
demenziale cupio dissolvi. Polimestore non sente cose diverse (1283-1284). È questa la sterraè
a\naégkh della guerra.
*****
La stessa “dura necessità” sembra incombere sugli eventi della tragedia messa in scena nel
415. Al v. 36 delle Troiane Poseidone, nella prima sezione di un prologo strutturalmente alquanto
innovativo (monologo, dialogo e monodia anapestica), informa il pubblico che la donna in lacrime
“distesa su duro giaciglio” (quasi una partoriente, 114)17, davanti alle porte di Troia distrutta, è
l’infelice Ecuba. C’è una ragione di grande forza drammatica, mi pare, perché la scena si apra così.
A distanza di circa dieci anni dalla rappresentazione dell’Ecuba è come se la vecchia regina fosse
rimasta sempre lì a piangere le sue inconsolabili sventure. La guerra con Sparta non si era conclusa,
anzi si andava inasprendo. Euripide riprendeva così il colloquio sospeso con la città di Atene18, lo
riprendeva sul filo del simbolo universale della maternità vulnerata, della femminilità oltraggiata
dalla guerra. Quel pubblico è probabile che non gradisse i suoi inquietanti messaggi, come nessun
pubblico ha mai gradito i poeti scomodi. Ma un poeta è grande quando rivela la verità, seppure
amara19, soprattutto se tale verità oltrepassa gli angusti confini del presente e patet in aeternum.
Quindi Ecuba, ancora e sempre Ecuba, da una scena all’altra20, a lasciare impronte indelebili sulla
terra e nel cielo con le sue mani, nekrou% morfaé, “immagine di morte” (193).
In un monologo di straordinaria efficacia (98-152), in apertura dell’azione tragica e prima
della parodo, è la stessa Ecuba a esortare il proprio corpo a sollevarsi, ad abbandonare la triste
postura di madre non più madre, alla ricerca inconscia di una nuova impossibile maternità, che
compensi la perdita dei figli. Credo che in questo punto Euripide intenda anche sottolineare la
percezione fisica del dolore da parte di Ecuba, come se i figli le fossero stati strappati direttamente
dal ventre21, quel ventre ora rivolto verso il cielo. E ciò dopo essersi interrogata con sgomento,
ormai al margine del vivibile: “Cosa devo tacere, cosa non tacere, che cosa piangere?” (110-111),
per poi ripromettersi, compiangendo di Troia “le spose sventurate” e “le fanciulle destinate a nozze
infelici” (144-146), di intonare klaggaén, molpaén (148).
Come il prologo, anche la parodo (153-234) presenta una struttura alquanto originale e
coerente con il significato più interno del dramma: i due semicori entrano sulla scena in fasi
successive dialogando con la protagonista; alla fine del secondo dialogo intonano insieme uno
straziante canto di dolore per i funesti eventi loro toccati, e di speranza per la nuova terra loro
destinata. Gli spettatori dell’Attica erano così in condizione di capire sin dalla parodo la nuova
dimensione che il poeta aveva pensato di assegnare al disastro bellico del mito troiano, e di
conseguenza a quello che si andava preparando a causa del conflitto con Sparta: non solo e non più
un cancro che corrode le fibre dell’animo di una vecchia madre costretta a privarsi degli affetti più
cari e a non poter spartire con nessuno la sua incommensurabile sofferenza, prossima ad essere
colpita con la stessa veemenza da altre ferite sempre meno credibili e che riaprono e inaspriscono
quelle precedenti; ma un vento tempestoso che si spande per l’ormai desolata pianura della città
distrutta e tutto spazza via, anche il senso stesso della vita. Le donne di Troia diventano allora
anch’esse figlie di Ecuba, per le quali il suo cuore palpita allo stesso modo che per Cassandra e
17
Vale qui segnalare come al v.114 l’aggettivo abbinato a leéktroisi sia lo stesso usato alla fine dell’Ecuba per
connotare a\naégkh, cioè sterroév.
18
Tra la rappresentazione dell’Ecuba e quella delle Troiane, tuttavia, Euripide non aveva mai smesso di richiamarsi al
tema dell’antibellicismo in generale, e in specie a quello dell’ostilità femminile verso la guerra. Esso, infatti, pare fosse
presente nel perduto Eretteo (421), è ben evidenziato nelle Supplici molto probabilmente anteriori al 421, e nell’Eracle,
di certo scritto e rappresentato prima del 415.
19
Esemplare per noi rimane il dialogo fra Dante e Cacciaguida nel XVII del Paradiso.
20
Assistendo alla magistrale rappresentazione di Tor Vergata mi sono ancor più convinto che non è sempre e soltanto il
filologo a schiudere i misteri di un testo letterario, tanto più se destinato alla drammatizzazione. La presunta esclusività
provoca talvolta conclusioni miopi.
21
Forse questo è il senso sotteso del v. 260.
7
Polissena. Anch’esse le sente rapite dal suo grembo (159ss.), come esse si sentono strappate dal
grembo di quella madre e ne condividono, per quello che possono, le stesse pene. Figlie, dunque,
allo stesso modo di Polissena e Cassandra, delle quali intanto si sta compiendo l’amara sorte, che il
cuore di madre miracolosamente, ancora una volta, presagisce (163-182). E la coralizzazione del
dolore trova la sua prima sublimazione poetica nel canto finale della parodo, e nasce così nel
momento del più profondo scoramento.
Il sacrificio di Cassandra, perché di sacrificio si tratta, viene qui ad appaiarsi a quello di
Polissena dell’Ecuba: entrambe sono prese da una folle esaltazione del loro destino di espiazione e
di purificazione22. Pur nel delirio, però, non si spezza il cordone figlia-madre, che invece si esplicita
nelle reciproche tristi invocazioni: 306-307, 315ss., 332, 345, 349. Proprio da una supplichevole
invocazione alla madre (353) parte Cassandra nel suo lungo, profetico monologo, che si può a buon
motivo ritenere la riflessione più autenticamente euripidea sulla guerra, una descriptio mortis di rara
forza comunicativa e di straordinaria attualità, che si compie nell’universale e perenne gnome finale
del v. 400: feuégein meèn ou&n crhè poélemon o|éstiv eu& fronei%.
La successiva rhesis di Ecuba (466-510), alla fine del primo episodio, costituisce una
componente centrale nello sviluppo del dramma: essa riassume, quasi a chiudere una fase della
rovinosa storia, tutti i motivi dell’irrimediabile infelicità di madre, sulla quale andranno a scaricarsi,
di qui a poco, altri più terribili eventi; inoltre, richiamando i fatti dell’Ecuba, traccia la linea di
continuità, per il pubblico e per i lettori, con quella prima ardua esperienza scenica, appunto
attraverso le vicende compiute o ancora incompiute alle quali si allude. Dopo aver esortato le koérai
troiane, ormai sempre più al centro dei suoi pensieri materni e delle sue costernate allocuzioni, di
lasciarla giacere a terra, come se questa fosse l’unica posizione sostenibile per lei che ha perduto
quasi tutto e non ha più alcuna voglia di vivere, la vecchia madre geme inconsolabile sul funesto
destino dei figli maschi, su quella del nobile Priamo sgozzato sul focolare dell’altare domestico
proprio davanti ai suoi occhi inorriditi da tanta empietà, su quella della città conquistata e prossima
alla totale distruzione. Piange, quindi, sulle sventure delle figlie, letteralmente strappate dal suo
grembo e che non ha speranza alcuna di rivedere. Presagisce, infine, con terrore la propria futura
condizione di schiava. Conclude con due disperate invocazioni: a Cassandra costretta a sciogliere la
sua castità, e a Polissena, il cui destino, ugualmente infelice, ancora ignora (pou% pot’ei&, 502). Nella
smisuratezza di queste disgrazie non riesce a immaginare quale fatto più grave possa accaderle.
Altro passaggio tematico importante viene segnato dal secondo stasimo (524-576), preludio
all’efferatezza inaudita dell’uccisione di Astianatte, di un bambino innocente, forse la hybris più
mostruosa di cui l’uomo possa macchiarsi. Il coro, infatti, dopo aver disegnato un quadro d’interno
già carico d’immagini raccapriccianti (557ss.), annuncia l’arrivo xenikoi%v e\p’o\écoiv dei protagonisti
dell’imminente terribile episodio: Andromaca, “donna sventurata” porta con sé stretto al seno23
l’ultimo virgulto della Frigia. Il dramma della guerra diventa dramma di madre, di sposa, di
famiglia, oltre che di patria (vv. 581, 583, 587, 589, 590, 591-594). E ad allacciare fra loro i diversi
piani del dramma interviene una battuta di Andromaca, che ci riporta alla connotazione dominante
della precedente tragedia, all’origine di tutto: “Piango la casa dove diventai madre” (602). I diversi
piani del dramma ritornano più esplicitamente coordinati nel prosieguo del dialogo tra Andromaca
ed Ecuba: Andromaca invoca Ecuba come madre dello sposo perduto (610), la compiange per la
morte della tenera Polissena, “figlia sgozzata sulla tomba di Achille” (622), si dichiara essa stessa
preda condotta via con la forza insieme al figlio (614-615), la riconosce come fulcro di una sventura
che sta oltrepassando ogni umana immaginazione (634ss)24. Da parte sua Ecuba, che per
Andromaca, come ho già detto, nutre ora lo stesso sentimento materno che per Cassandra e
22
Una reazione anomala al dolore, come quella di Ifigenia, qui acuita dall’ironia tragica delle nozze. Ma pur essa una
manifestazione di grande, inconcepibile dolore.
23
Ed Euripide lo descrive con tocco da scultore proprio come un seno materno: paraè d’ei\resiéç mastw%n (570).
24
Per quanto paleograficamente tormentato, questo verso contiene forse la chiave di volta delle due tragedie: w& mh%ter, w&
tekou%sa.
8
Polissena, la invoca ardentemente come figlia (“ma tu, figlia cara…”, 697) e le affida il compito di
rinverdire le speranze di una nuova Troia (“alleverai questo figlio di mio figlio…”, 701), poi che
l’ha esortata affettuosamente ad allontanare i suoi tristi pensieri (632). Se ne ricava l’impressione di
un bozzetto realistico al femminile attraversato da tutti i segni e i suoni di una disgrazia recente, che
si aggiunge ad altre precedenti, dalla cui catena le due donne tentano di uscire con la saggezza della
più anziana, ignare che una nuova più grande sventura incombe, l’uccisione di Astianatte, che
renderà vana quella saggezza cercata con forza d’animo negli involucri ingannevoli della ragione e
dell’esperienza, e di contro confermerà la veridicità del presentimento, tradotto nella gnome del v.
616: toè th%v a\naégkhv deinoén.
L’annuncio che gli Achei hanno deciso di mettere fine alla vita anche del più piccolo dei
figli maschi di Troia25 sposta oltre ogni limite di possibile comprensione umana la soglia del dolore,
del che ha immediata coscienza Andromaca (722), altra mater dolorosa. Il suo grido subito si
scioglie in uno sfogo commovente di pene (740-779), quasi un lamento, che purtroppo ci è sempre
più familiare. Nel monologo di Andromaca si conferma il motivo centrale dell’Ecuba: il cuore della
madre è l’unico luogo in cui si misurano esattamente le vicende umane. Alcuni passaggi essenziali
sanno di una tenerezza che definirei insostenibile. La domanda finale sembra posta da Euripide agli
uomini di ogni tempo (“O Greci, inventori di barbari mali, perché uccidete questo bambino senza
colpa alcuna?”, 764-765), alla loro inconvertibile tendenza alla crudeltà, in nome di tutti quei
bambini che ancora oggi muoiono sia per le guerre combattute militarmente, sia per quelle
combattute in altre forme, solo apparentemente meno violente, in cui essi vengono sacrificati
sull’altare del profitto come una qualsiasi merce di scambio.
Il lamento di Andromaca trova la sua risonanza profonda nel kommos di Ecuba (790-798),
che condensa in sé tutti i temi di questa tragedia e di quella a lei intitolata: Astianatte, cui essa
direttamente si rivolge, è detto insieme teéknon e pai%v; della sua vita sono “depredate” la madre e la
nonna; di fronte all’invincibile e incomprensibile male della guerra (tié paéqw;), ai suoi mostruosi
misfatti, a loro altro non è dato fare se non percuotersi il capo e il petto; altro non è dato chiedersi se
non che cosa manca ancora per pansudiéç cwrei%n o\leéqrou diaè pantoév (797). Eco altrettanto
profonda risuona nel secondo stasimo (799-858), che ritesse con citarodica liricità la trama della
mitica e triste storia di Troia, offrendo ai vv. 826-832 un’immagine incantevole, se tale aggettivo è
consentito a questo proposito, di tutti i dolori patiti: “Le coste marine risuonano di pianto simile a
grido di uccello per i suoi piccoli, da un canto per i mariti, dall’altro per i figli, dall’altro ancora per
le vecchie madri”. È la vera a\kmhé del dramma, oltre la quale davvero non è possibile andare.
Euripide avrebbe anche potuto concludere qui la sua opera, e invece la protrae mediante un
terzo brevissimo episodio, nel quale compare Elena, speculare in negativo di Andromaca, che tenta
di sottrarsi alla condanna di morte che Ecuba chiede per lei a Menelao. Come a voler dimostrare, tra
un episodio e l’altro, quanto gli ambigui discorsi degli uomini non toccati direttamente dal dolore
alterino e immiseriscano la natura delle vere sofferenze. Da un canto Ecuba ricorda le categorie
essenziali della vita, dall’altro Elena e Menelao le avviliscono con i loro bisticci coniugali. La
percezione simpatetica dell’altrui dolore, soprattutto quello di madre e di sposa, è labile e fugace,
poi “il particolare” prende il sopravvento. Anche in questo caso, come nell’Ecuba, l’a\gwèn meégav,
serve a dare maggiore efficacia comunicativa al messaggio euripideo, che riceve una nuova
esaltazione lirica e recupera tutta la sua tensione drammatica nel terzo stasimo (1060-1122), canto
dell’addio delle spose e delle madri, trascinate via dalla loro terra come schiave, il cui ultimo
pensiero è per Astianatte. Il suo corpicino giace senza vita sotto le rocche di Troia.
Tematicamente l’ultima parte dell’opera nulla aggiunge e nulla avrebbe potuto aggiungere ai
motivi precedentemente trattati. Tuttavia, l’impianto scenografico sviluppa un vigoroso impatto
emozionale e quindi catartico: voces clamantium in deserto quelle di Ecuba e delle donne troiane,
nel deserto creato dalla guerra dentro e fuori del loro animo. I lemmi greci di mhthér a\élocov teéknon
25
Una storia simile è avvenuta a Calavrita, in Grecia, durante la seconda guerra mondiale: per opera dei tedeschi furono
uccisi tutti i cittadini maschi della città, i cui resti ora riposano in un vicino sacrario.
9
nekroév ecc., variamente declinati, ritornano nel testo con frequenza assillante, quasi che l’autore
avesse voluto produrre un effetto sonoro assordante e terrificante, simile a quello praticato con
strumenti ben più idonei da molta scenografia moderna, bloccando e agghiacciando in tal modo
l’attenzione del pubblico ateniese fino all’ultima immagine che rimette in moto le protagoniste,
ormai ingorghi torrenziali di vita che sfociano nel mare di un’indecifrabile erranza. Di ogni
possibile sentimento umano non resta che la pietà di se stesse e degli altri, anche di quelli
momentaneamente alienati nell’ebbrezza e nella vanità della vittoria. Non possono forse queste
ultime scene delle Troiane considerarsi un’anticipazione teatrale di quelle contenute in The day
after? In questa comparazione tra antico e moderno vedo la commiserazione inquieta di Taltibio;
vedo Ecuba intonare il tenerissimo e insieme sconsolato lamento nel mentre come un automa
compie il rito funebre, canto e gesti senza alcuna scintilla di futuro soprattutto per lei che rimane a
patire sulla terra; vedo la vecchia regina e il coro procedere lentamente fuori dalla scena alternando
le battute del canto dell’esodo. Quest’ultima scena nella rappresentazione di Tor Vergata mi ha
riportato a quelle sconvolgenti di Schindler’s list e di altre da documentari sull’olocausto. Ma non è
appunto ogni guerra un olocausto? Contro il quale vanamente combatte il cuore di ogni madre,
perché è come se nel grembo di ognuna venissero soffocate una cento mille vite, tutte quelle che
hanno difeso e generato. Altro modo non aveva Euripide per tentar di dissuadere dalla guerra i suoi
concittadini, una guerra che Tucidide definisce “il più grande sconvolgimento che sia avvenuto tra i
Greci e in una parte considerevole dei barbari, e, per così dire, anche nella maggior parte
dell’umanità” (1.1.2).
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