Untitled - Luserna

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Untitled - Luserna
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I edizione Padova 2005
stampa
a cura di
Daigo press srl
I-35100 Padova
“LUSERNA – LA STORIA DI UN PAESAGGIO
ALPINO”
ATTI DEL CONVEGNO
“SUL CONFINE... Percorsi tra archeologia, etnoarcheologia
e storia lungo i passi della montagna di Luserna”
Luserna, 28 dicembre 2002
a cura
di
Armando De Guio e Paolo Zammatteo
S.A.R.G.O.N. Editrice e Libreria
Centro Documentazione Luserna
Dokumentationszentrum Lusern onlus
INDICE
LUIGI NICOLUSSI CASTELLAN
Presentazione
NOTE DEI CURATORI
ARMANDO DE GUIO
Sul confine...: percorsi tra archeologia,
etnoarcheologia e storia lungo i passi della Montagna di Luserna......................... p. 1
PAOLO ZAMMATTEO
Nuove scoperte a margine della mostra “Sul confine…”...................................... p. 5
COMUNICAZIONI PERVENUTE
FLORIO SARTORI
La Regola di Casotto......................................................................................... p. 7
GIAN MARIA VARANINI, EDOARDO DEMO
Attraverso le Prealpi, dal territorio vicentino a Trento
(da un registro di bollette del 1469-74). ...........................................................p. 11
PAOLO ZAMMATTEO
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone ............................... p. 21
PAOLO ZAMMATTEO
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon.............................................p. 43
PAOLO ZAMMATTEO
L’Architettura di Luserna dalle origini al 1800 ..............................................p. 63
DE GUIO ARMANDO
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla” ...........................................p. 87
TAVOLE
PRESENTAZIONE
Il Centro Documentazione Luserna onlus è una Fondazione promossa dal
Comune di Luserna (Trento) con la finalità principale di salvaguardare le testimonianze storiche e di promuovere la conoscenza della cultura e storia di Luserna, l’ultima vitale Comunità germanofona “Cimbra”.
La lingua cimbra, corrispondente al medio alto tedesco meridionale, è quella
dei coloni bavaresi che nei secoli X-XIII si sono insediati nell’area tra i fiumi
Adige e Brenta e la pianura padano-veneta, ove hanno dissodato e resi fertili
territori montani allora incolti e disabitati.
Il Centro ha quindi accolto con entusiasmo la proposta del Prof. Armando
De Guio di svolgere delle ricerche archeologiche sull’Altipiano di Luserna –
Vezzena. Ha sostenuto organizzativamente e finanziariamente le campagne di
indagine sul territorio, le settimane di alta formazione, i convegni e le mostre
annuali, grazie anche ai contributi della Regione Trentino Alto Adige – Südtirol
e della Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, ai quali va la nostra riconoscenza.
Questo attento lavoro ha documentato la vita dell’uomo sul nostro altopiano degli ultimi tre millenni. Una vita fatta di sacrifici, in un ambiente difficile
qual è quello di montagna, ma anche ricca di testimonianze dell’operatività e
dell’ingegnosità degli uomini che ci hanno preceduto su questo territorio che è
sempre stato un confine, ma anche una zona di transito e di incontro di popolazioni e di civiltà diverse.
Ringraziamo sentitamente in primo luogo il prof. Armando de Guio
dell’Università di Padova, il Prof. Mark John Pearce dell’Università di Nottingham, il Dott. Gianni Ciurletti e Franco Nicolis della Sovrintendenza ai Beni
Archeologici della Provincia di Trento ed i tanti appassionati loro collaboratori.
Con questa pubblicazione il Centro Documentazione Luserna intende mettere a disposizione di tutti gli atti del convegno ed i risultati del qualificante lavoro svolto dagli amici archeologi, confidando che possa essere di stimolo per
sempre necessari ulteriori approfondimenti.
Luigi Nicolussi Castellan
Sindaco di Luserna e Presidente del Centro Documentazione Luserna
SUL CONFINE…: PERCORSI TRA ARCHEOLOGIA,
ETNOARCHEOLOGIA E STORIA LUNGO I PASSI DELLA MONTAGNA DI
LUSERNA
Armando De Guio
Viene qui proposto un percorso critico “di frontiera”, lungo i “passi” –
fisiografici e metaforici – del “Monte di Luserna”, in una sorta di immersione
conoscitiva aperta alle suggestioni, anch’esse “di frontiera”, della realtà virtuale
(percorsi della mente…), non meno che all’impatto diretto in situ (percorsi dello scarpone…). Si tratta, in effetti, di misurarsi con l’istanza eccezionale di un
“paesaggio fossile” composto da un fitto reticolo di segni / segnali / tracce, iscritti nel territorio nella speciale grammatica interattiva (uomo-uomo e uomoambiente) di attori sociali passati e presenti (“semiologia del paesaggio”)
nell’arco di una cruciale escursione diacronica plurimillenaria: da una precoce
architettura del paesaggio della fine dell’Età del Bronzo (impianti fusori del rame, infrastrutture connettive, confinarie, terrazzamenti e malghe…), al cruento
ed ubiquitario teatro di guerra (warscape) della nostra storia più recente, fino alla
fitta trama del “paesaggio eco-culturale” attuale.
L’esito cumulativo di una tale “scrittura” si traduce in un “palinsesto” di
tracce sovrapposte di vario grado di residualità (dall’emergente al sepolto), isolabili da supporti informativi di varia risoluzione spazio-temporale e tematica:
dalle immagini digitali satellitari (remote sensing), alle foto aeree (fotointerpretazioni, dalla Grande Guerra ad oggi), ai documenti cartografici, epigrafici e a varie classi di fonti scritte o di memoria tradita e fino alle ricognizioni, prospezioni e scavi a terra.
Luserna, nella sua quasi iconica locazione “liminare”, di soglia ecotonale e
visuale, sembra rimandare in modo emblematico ad un paradosso connotativo
portante e fondante: quello di uno status ancipite e diacronicamente metastabile fra tendenza a marginalizzazione / isolamento da un lato e vocazione intermittente, dall’altro, a strutturarsi come nodo cruciale di sistemi di relazione (pacifici o conflittuali) a lunga distanza. Gli straordinari ritrovamenti metallurgici
della fine del secondo millennio a.C. ci rimandano, ad esempio, ad un “sistema
di mondo” (world system) di una magnitudo produttiva “protoindustriale” (cfr. le
tonnellate di scorie delle decine di apparati fusori individuati) e integrativorelazionale (dal Nord-Europa al Mediterraneo Orientale), assolutamente sorprendente, che fa degli Altipiani un cuore pulsante della protostoria europea e
un nodo cruciale (“centrale”) della sua traiettoria evolutiva in termini di complessità sociale. Un’altra e ben più nota e drammatica istanza di entrata in un
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Armando De Guio
“sistema di mondo” è rappresentata dalla Grande Guerra di cui il locale “paesaggio di guerra” (warscape) rappresentò un nodo ipercritico del teatro europeo
e mondiale di cornice. A tali assunzioni emblematiche ad un world system corrispondono fasi di marginalizzazione ed isolamento entro le quali si sviluppano
endemismi linguistici e culturali di varia natura estremamente connotati e di
grande interesse scientifico. Le attuali problematiche socio-politiche e culturali
di integrazione e tutela delle minoranze etno-linguistiche si istanziano sullo
sfondo significativo di un passato, recente o remoto, di valenza potenzialmente
o attualmente fondante.
Su questa base composita di evidenze e stimoli scientifici, culturali e sociopolitici si esercita, ad una conforme scala di cooperazione- europea (Soprintendenza per i Beni Archeologici, Università di Padova, Nottingham) ed ora anche
transeuropea (Boston University) – un progetto pilota di ricerca, valutazione,
valorizzazione ed ECRM (Eco-Cultural Resource Management): l’integrazione operativa di tale ricerca con gli abitanti di Luserna (collaborazioni dirette al lavoro
remoto e sul campo, interviste, etc.), nello spirito della più moderna e deontologicamente corretta “community archaeology”, offre, al contempo,
un’opportunità di felice acclimatazione amicale (che innalza il tasso di coinvolgimento emozionale e talora anche il tasso etilico degli operatori) e uno strumento privilegiato di penetrazione conoscitiva nell’ambiente locale (cfr. ad esempio i filoni della “archeologia della guerra” o di “archeologia del nonno”,
sulle tracce etnoarcheologiche di calcare, carbonare, malghe abbandonate, contrabbando…) all’inseguimento di affascinanti “storie” evenemenziali, congiunturali e di lunga durata.
Proprio lungo quest’ultimo vettore evolutivo (longue durée) lo stato confinario
del territorio si caratterizza per la straordinario riproposizione inerziale o “rifratturazione ciclica” lungo una faglia etno-politica “latente” (“frontiera” negoziale/conflittuale) che spesso viene fissata su terreno con realizzazioni infrastrutturali di notevole impegno energetico (eccezionali, al riguardo gli ultimi ritrovamenti di muretti confinari e “termini” molto antichi su laste). A questa fenomenologia va senz’altro riportata la circostanza straordinaria (ancora una
volta rilevante ed emblematica nel quadro di una storia regionale europea di
lungo termine) di una puntuale coincidenza fra il confine storico attuale e quello, isolato su base teleosservativa e ricognitiva, dell’Età del Bronzo (cfr. in merito la “figura spaziale” diagnostica dell’inedita concentrazione di forni fusori
che si “arrestano” visibilmente lungo tale fascia che separava due entità).
L’ambiguità fondante succitata del “Monte di Luserna” si mappa, in modo isomorfo, anche su questo tematismo confinario, forse uno dei più importanti e
rappresentativi di una storia europea di lunga durata (fra “mondo germanico” e
“mondo mediterraneo”) individuando da una parte una barriera e una linea di
attrito etno-politica ai margini di “località centrali” spazialmente alquanto di-
Note dei curatori
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slocate, dall’altra una fascia ipersensitiva di interazione e canalizzazione forzata
(“passi” e “creodi”) di flussi critici e vitali di risorse (umane, artefattuali, bioecofottuali e mentefattuali). Ne viene esaltata una ricerca, che insegue anch’essa
le sue “frontiere”, presa nella rete di cattura di un ambiente al contorno, naturale ed umano, di un’indelebile impatto cognitivo ed emotivo.
Prof. Armando De Guio
Università di Padova
E-Mail: [email protected]
NUOVE SCOPERTE A MARGINE DELLA MOSTRA
“SUL CONFINE…”
Paolo Zammatteo
Dopo il medioevo e gli aspri scontri tra fazioni feudali, su gran parte del
Veneto si stendeva la Securitas Veneta, il controllo della Serenissima. Fu proprio Venezia a ispirare il senso di appartenenza degli antichi coloni bavarotirolesi che occupavano la cintura dei suoi possedimenti montani verso il confine, anche etnico, con l’Impero. Venezia concesse particolari privilegi alle comunità rurali, quali l’autogestione e il porto d’armi, stimolando in esse la convinzione di essere qualcosa di diverso, e unico, rispetto alle vicine e opposte fazioni tirolesi. Da qui nasce il richiamo ai “cimbri”, con un apparato leggendario
che colloca l’origine di quei montanari addirittura al termine del I secolo dopo
Cristo, in quanto discendenti di un leggendario popolo sconfitto da Roma.
La “Cymbria”, abilmente descritta da Francesco Caldogno nel 1568, abbracciava in particolare l’intera provincia di Vicenza, tanto che la città stessa doveva
essere considerata il capoluogo di questa prima “minoranza storica”.
In realtà si trattava, per i monti, di gruppi di varia origine, in prevalenza
germanici, esperti nell’uso del pascolo e del bosco, giunti a colonizzare gli altipiani delle Prealpi Venete a più riprese nei secoli precedenti secondo il modello
applicato in tutta Europa nel basso medioevo.
A rafforzare le posizioni dell’abile diplomatico (e con lui quelle di intellettuali, pubblicisti e funzionari veneziani), in quello stesso 1568 c’era una contingenza positiva, che l’uomo politico Caldogno non poteva non conoscere per
quello che significava in realtà. La guerra con i Turchi, che di lì a due anni si sarebbe risolta con la vittoria di Lepanto, aveva indotto Venezia a esplorare le
sue risorse, in particolare di ferro, in tutto lo Stato di Terraferma. Infine per la
disponibilità di quantità ingenti di minerale e la vicinanza alla Laguna era stato
privilegiato il centro di Caltrano, dove venne installato un importante impianto
per la produzione di munizioni pesanti. Ad occuparsene erano giunti specialisti
lombardi, in particolare bergamaschi per l’estrazione dei carbonati di ferro e
bresciani per la fusione: i “pratici di miniera”, come il loro linguaggio, erano
tedeschi per antica tradizione.
Questo spiega, in quel momento, la frequenza con cui si usavano dialetti tedeschi anche nella pianura vicentina. Venezia, reduce dalla sconfitta di Cambray e accorta nel controllo del confine interno, ne fece un uso che per lei ave-
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Paolo Zammatteo
va valore strategico: i “cimbri” nascevano non con l’intenzione di valorizzare
un elemento etnico o linguistico, bensì per esigenze militari, che in quanto tali
dovevano rimanere segrete.
Nei secoli successivi la cosa non emerse, e quella forte connotazione dialettale venne a scemare, tranne a Luserna, che intanto si trovò isolata rispetto alle
vie di traffico.
La questione riemerse in toni asperrimi nel XIX secolo, dopo l’annessione
del Lombardo-Veneto all’Italia. Luserna, posta sul confine e ultima frontiera di
una lingua nazionale, si ritrovò il blasone di “isola etnica”. In epoca risorgimentale la strumentalizzazione fu atroce, tanto che vi furono una scuola italiana e
una tedesca, un albergo “Andreas Hofer” e uno “Tricolore”. Il paese, che allo
scoppio della prima guerra mondiale si trovò giusto in mezzo alla linea del fuoco per essere fatto a pezzi, non era più in sintonia con le sue origini. I poveri
lusernesi, non bastasse questo, al loro ritorno dovettero fare i conti con
vent’anni di italianizzazione forzata.
Arch. Paolo Zammatteo
Trento
E-Mail: [email protected]
LA REGOLA DI CASOTTO
Florio Sartori
Da un paio d’anni il prof. Armando De Guio, docente di Metodologia della
Ricerca Archeologica all’Università di Padova, sta effettuando ricerche
sull’altipiano di Luserna con la collaborazione di un folto numero di giovani
studenti laureandi.
Dette ricerche coinvolgono pure il territorio di Casotto nei pressi delle malghe Krojer e Busa Biseletto. In particolare, nel pascolo della malga Krojer è
stata scoperta una vecchia struttura di malga, che si presume abbandonata da
alcune centinaia di anni. Con molta pazienza, frutto di un lavoro certosino, sono state portate alla luce le fondamenta ed il piccolo cortile interno; nelle vicinanze sono state trovate parecchie scorie di prima fusione, che svelano la presenza di forni fusori.
Purtroppo, in seguito alla costruzione di trincee, di fortificazioni e baraccamenti nel corso della prima guerra mondiale e con i lavori di bonifica dei pascoli eseguiti nel passato recente, queste antichissime testimonianze sono state
in parte cancellate e l’attività di ricerca risulta più difficile. E così è davvero
complesso ricostituire il passato di un piccolo paese quale è Casotto, anticamente detto “Tufer”.
Il ponte di Casotto era il varco ufficiale sulla Val Torra (anticamente Tovera), assurto a confine fino al 1797 tra i domini di Casa d’Austria e il territorio
della Repubblica di Venezia, e dal 1866 fino al primo conflitto mondiale tra lo
stesso Impero Asburgico ed il Regno d’Italia; a quei tempi Casotto apparteneva
alla Giurisdizione di Caldonazzo, ultima propaggine della principesca Contea
del Tirolo.
L’identità di Casotto è l’identità stessa del confine. Se in altre situazioni e in
contesti meno rarefatti il concetto è difficilmente accettabile, per i Casottiani
non è così. Tanto che basterà citare un risultato “storico” di questi ultimi tempi
per confermarne a un tempo la validità e che si tratta di un sentimento ancora
attuale.
In luogo di Casotto un tempo c’era un lago, che si dice di origine tettonica.
Il più terribile sisma nelle nostre contrade che la storia ricordi avvenne il 3
gennaio 1117 alle ore 22.00. Allora un terremoto colpì tutto il Nord Italia e
portò scosse di assestamento “per quaranta giorni e più, tremò da Milano a
Venezia e Trento, causando molti danni e vittime”; così scriveva il vicentino
Conforto da Costozza.
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Florio Sartori
A Verona franarono le mura esterne dell’Arena, di tutta la cinta rimase solo
la ben nota Ala.
A Venezia il terremoto fu causa di una eruzione di acqua sulfurea dal suolo.
Nel Veneto la terra si aprì in molti luoghi e franarono molte montagne.
L’abate Agostino dal Pozzo scriveva: “il laghetto ch’è nel distretto di Brancafora, poco distante dalla villa di Casotto... era stato formato da una immensa
frana o dirupamento del monte a sinistra (destra orografica, ndr) del fiume, che
aveva otturato l’alveo, e fermato il corso dell’acqua, la quale per lungo tempo
seguitò a penetrare sotto quel gran cumulo di pietre, detto ancora le Marogne,
e sortiva in varj zampilli poco sotto alla chiesa del Casotto sino al principio di
questo secolo (1700, ndr.), nel quale fu in qualche modo disgombrato l’alveo
dell’Astego. È probabile che una tal rovina sia accaduta nel terribile terremoto
accaduto al 3 di gennaio del 1117, il quale secondo quel che scrive l’annalista
Sassone fu così orribile, che non v’è alcuno che possa dire d’averne sentito un
simile. Fece delle altre gran ruine, mentre sappiamo che per un simile dirupamento si fermò eziandio per qualche giorno il corso dell’Adige”.
Lo sbarramento dell’Astico (denominato nell’antica Tavola Teodosiana Mino Medoaco, poi Medoaco Minore, in seguito divenuto Lastego, Astego e infine Astico) “durò per 261 anni e cioè fino a quando, il 22 ottobre del 1378, una
disastrosa alluvione lo ruppe”. Così rammenta Conforto da Costozza.
L’alluvione provocò morte fra gli uomini e gli animali con effetti disastrosi soprattutto nella bassa pianura.
Cosa ci sia sotto a quell’immensa frana nessuno può dirlo. È stato trovato
un grosso tronco di larice millenario con i segni evidenti della scure di un boscaiolo vissuto quasi mille anni fa.
La villa di Casotto compare per la prima volta in un documento del 1385,
sette anni dopo l’alluvione. Da sempre i Casottiani erano organizzati in una
Regola, un’istituzione che risale al medioevo, per cui gli abitanti sono i soli
proprietari di un territorio indiviso e ne determinano in modo autonomo le
norme di gestione, riunendosi in Assemblea e avendo personalità giuridica di
diritto privato.
In origine, gli abitanti di Casotto vivevano della poca agricoltura che offriva
la montagna, pascolavano le loro greggi, fabbricavano il carbone utilizzando la
legna. Abitavano le pendici del monte sopra il paese attuale, perché il luogo offriva più sicurezza. Il fondovalle era poco abitato, la gente viveva soprattutto
sui monti, al riparo, per timore delle razzie dei soldati, dei viandanti e dei briganti, che imperversavano numerosi in quanto la valle era frequentata per il
transito verso la Germania.
Alcune persone lavoravano nella vecchia miniera di ferro, sfruttata a partire
dal 1400 fino al 1509 e poi abbandonata a causa di una pestilenza, che uccise
La Regola di Casotto
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molti abitanti, come ebbe a scrivere Giovanni Sartori. Pochi sopravissero e
venne a mancare la manodopera. Poi, lentamente, la vita riprese.
Ma con la Circolare del 5 gennaio 1805, in applicazione del nuovo Codice
Penale Austriaco, la Regola di Casotto e le altre regole tirolesi venivano soppresse perché indicate quali “illecite combriccole di popolo”. Di fatto nella
Giurisdizione di Caldonazzo la soppressione venne attuata qualche anno dopo,
il 15 agosto 1824, in base al Decreto Aulico di pari data, che stabiliva (dopo la
parentesi dell’incorporazione alla Giudicatura di Levico nel periodo 1810-1815)
il passaggio di Caldonazzo, Centa, Lavarone, Luserna, Pedemonte e Casotto al
Giudizio distrettuale di Levico, mentre Palù, nell’alta Valle della Fersina, passava a quello di Pergine.
Dopo il primo conflitto mondiale, Casotto divenne un Comune italiano;
quindi in forza della R. Legge nr. 1111 del 2 luglio 1929 i Comuni di Pedemonte e Casotto passarono dalla Provincia di Trento a quella di Vicenza.
La Legge Fascista nr. 1184 del 1 luglio1940 sanciva la soppressione del Comune di Casotto, che assieme ad altre frazioni concorreva a formare il nuovo
Comune di Valdastico, mentre l’ulteriore evoluzione diocesana del 1964 rimetteva Casotto alla competenza vescovile vicentina.
Il seguito è storia recente e fa riflettere sul valore del legame alle origini, ai
luoghi e alla tradizione.
Oggi chi sale la val d’Astico lungo la strada statale 350 nota un imponente
edificio ottocentesco, “cittadino” e di sapore eclettico. Un tempo fu scuola elementare, canonica e caseificio.
Costruito nel 1885 e denominato “palazzo”, dall’anno seguente fu sede della
scuola elementare “Torquato Tasso” e nel 1887 venne offerto al curato l’uso
del secondo piano, oltre all’accesso al sottotetto e alla cantina.
Prima di allora esisteva già un edificio, eretto nel 1762, che fungeva da scuola e canonica, ma a causa della crescita demografica era diventato troppo piccolo. Era locato vicino alla Chiesa, là dove ora c’è l’ampliamento del cimitero.
Tutto il terreno era stato oggetto di donazione, probabilmente come lascito testamentario, da parte di un certo Berto Sartori.
Non è dato sapere chi sia stato il progettista del “palazzo”, certo è che fu
persona assai capace. La manodopera, invece, apparteneva alla Comunità di
Casotto, che possiamo a ragione ritenere ben felice di realizzare un’opera così
importante e unica nella zona. Tale fu l’orgoglio, che l’edificio appariva persino
su un timbro comunale dell’epoca.
Da quest’anno lo stabile è divenuto sede della re-istituita Regola di Casotto,
l’unica realtà di tale tipo nella provincia di Vicenza. Oltre ad essere Casa di Regola, quell’edificio così pregno di significati per la Comunità casottiana è anche
l’emblema dell’iter molto complesso, da cui è risorta la Regola stessa.
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Florio Sartori
Era il 12 giugno 1955 e la Comunità casottiana tramite una petizione si espresse a favore dell’acquisizione del “palazzo”, chiedendone la proprietà
all’Amministrazione Comunale.
Purtroppo ciò non era possibile, a meno che la Regione Veneto non riconoscesse la validità dell’Antica Regola, quindi anche la sua personalità giuridica di
diritto privato.
Sono occorsi quarantasei anni di impegno costante, ma l’Autorità competente, finalmente, avrebbe confermato la Regola di Casotto con il sospirato
Decreto n. 77 del 18 luglio 2001. Il passaggio del “palazzo” dal Comune alla
Regola, metafora e simbolo di un desiderio condiviso dalla Comunità, è avvenuto nel 2002.
ATTRAVERSO LE PREALPI, DAL TERRITORIO VICENTINO
A TRENTO
(DA UN REGISTRO DI BOLLETTE DEL 1469-74)
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo
1. Con effetto combinato e convergente, due circostanze hanno a lungo
limitato lo sviluppo delle ricerche di storia economica e sociale nel territorio
trentino medievale e lo condizionano pesantemente tutt’ora.
Il primo condizionamento, non eliminabile, è costituito dalle fonti documentarie. Anche per il periodo successivo all’inoltrato secolo XII, quando
l’archivio del principato vescovile prende consistenza, si tratta infatti di fonti
solo molto parzialmente suscettibili di utilizzazione in prospettiva economicosociale. Per giunta, il principato vescovile ha una disuguale e debole proiezione
sul territorio (alta ad esempio in Val di Non e anche nelle Giudicarie e in Vallagarina, ove si viene costituendo fra XII e XIII secolo un minimo di ‘burocrazia’
vescovile attraverso la rete delle gastaldie, nulla o minima altrove: Val di Fiemme, Valsugana). Continuano a mancare invece – in parte per difetto di produzione, in parte per difetto di conservazione –, e mancheranno sino alla fine del
medioevo, altre tipologie documentarie essenziali nel panorama documentario
tardomedievale, per la storia dell’economia e dei commerci: le fonti cittadine
(per la debolezza assoluta del comune di Trento, che non è egemone né politicamente né economicamente, e dunque neppure documentariamente, sul territorio) e le fonti notarili (in realtà prodotte nelle valli con maggiore capillarità di
quanto non si pensi usualmente, almeno dal Trecento, ma larghissimamente
perdute).
Un secondo condizionamento è invece di carattere culturale. A partire
dall’Ottocento, la tradizione storiografica trentina ha sempre privilegiato una
prospettiva di storia politico-istituzionale, anche per lo spirito dei tempi, segnati dal problema nazionale italiano. Non mancò ovviamente nella ricca produzione erudita sviluppatasi fra Ottocento e Novecento, sino alla prima guerra
mondiale, una qualche attenzione alla storia del commercio (con particolare riferimento ad alcuni specifici ambiti: il vino, i prodotti minerari, il legname). Ma
si trattò comunque di ricerche minoritarie, ulteriormente inariditesi dopo la
prima guerra mondiale quando la storiografia tedesca abbandonò largamente il
campo delle indagini trentine e la storiografia di matrice italiana confermò (anche in armonia con gli orientamenti prevalenti a livello nazionale) un’opzione
preferenziale per prospettive di storia etico-politica. È sintomatico il fatto che
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Gian Maria Varanini – Edoardo Demo
un organico programma di ricerche di storia demografica ed economica, con
qualche apertura anche nella direzione costantemente negletta della storia agraria, sia stato impostato soltanto negli anni Cinquanta del secolo scorso. Ciò
non accadde per merito della storiografia locale, bensì per impulso di un vecchio ma vitalissimo campione della storiografia italiana del primo Novecento,
profondo conoscitore degli archivi trentini (al recupero dei quali aveva partecipato nel 1919), come Roberto Cessi. Le ricerche da lui svolte e fatte svolgere
agli allievi (Federico Seneca e Aldo Stella) costituirono però una fiammata isolata. Nel campo della storiografia trentina, l’eccezione a questo quadro è costituita da Antonio Zieger.
In questo quadro, va inoltre (e infine) segnalata una ulteriore distorsione
che, in modo molto parziale, mi propongo, con questo minimo intervento, di
contribuire a correggere. Anche quando, nelle pieghe delle ricerche di storia
politico-istituzionale trentina della prima metà del Novecento, emerge (come è
inevitabile che accada nelle indagini più approfondite) qualche interesse per la
dimensione economico-sociale e per la storia del commercio, l’asse interpretativo coincide con un asse geografico pressoché esclusivo: il tradizionale rapporto nord-sud, lungo la via del Brennero e del Resia e la valle dell’Adige. Ciò vale,
per non fare che un esempio rilevante della storiografia trentina novecentesca,
per la monografia del Cusin sui primi due secoli del principato vescovile di
Trento, risalente al 1938. Tracce di questo orientamento si ritrovano persino
nelle ricerche più recenti e pregevoli, che hanno cominciato (a partire dagli anni
Settanta del Novecento) a rinnovare la storiografia trentina nel campo che qui
interessa: si pensi alle ricerche di storia mineraria (Braunstein e altri) e di storia
della vitivinicoltura e del commercio vinicolo (Andreolli). Ovviamente, è più
che doverosa la sottolineatura della centralità di questo rapporto: la funzione di
Trento e del suo territorio come cerniera fra Italia e Germania, Trento come
città bilingue e di confine, e così via. Piace qui ricordare al riguardo, in riferimento alla seconda metà del Quattrocento della quale ci si occuperà in questo
breve saggio, la brillante interpretazione di un grande storico franco-tedesco,
Philippe Braunstein, che ha individuato sottilmente (in un bell’articolo che reca
il titolo significativo “Confins italiens de l’empire”) gli elementi che sostanziano la
presa di coscienza dei viaggiatori tardomedievali che si muovono da nord a sud
(e viceversa) lungo l’itinerario del Resia e del Brennero. Tra S. Michele
all’Adige e Trento, essi intuiscono di trovarsi davvero su uno spartiacque culturale e sociale, capiscono di traversare un invisibile confine. Si tratta di circostanze talmente note e consolidate, entrate anche nel ‘senso comune storiografico’, che non avrebbero meritato neppure lo spazio della constatazione che ho
qui loro accordato. Perciò va segnalata come una distorsione l’esclusività
dell’attenzione a questa pur essenziale prospettiva geo-storica, che trascura altre
dimensioni, altre relazioni geografiche ed economiche.
Attraverso le prealpi, dal territorio vicentino a Trento
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Il modesto esempio che presento in questa occasione si inscrive appunto in
una linea di ricerca che ovviamente non contraddice la centralità del rapporto
nord-sud nella storia del territorio trentino, ma che la integra. Ogniqualvolta si
approfondisce – osservando con attenzione le pur modeste fonti disponibili –
una tematica specifica, capita in effetti di constatare la ricchezza delle relazioni
culturali, sociali ed economiche intra-alpine, che traversano il territorio trentino
in direzione ovest-est o est-ovest. Ci troviamo qui all’interno di quella épaisseur
des Alpes, di quello ‘spessore’ geografico – così diverso da una semplice barriera
– del quale ha parlato più volte il maggior storico vivente della montagna alpina, Jean-François Bergier.
Farò qui l’esempio della storia mineraria, cioè di un comparto non trascurabile della storia economica trentina del tardo medioevo, adducendo anche
qualche esempio relativo proprio al territorio montano tra Vicenza e Trento
che è l’oggetto specifico di questo contributo. Una lunga tradizione di studi
imperniata sulle gloriose fonti normative del liber poste montis Arzentarie compreso nel Codex wangianus minor ha sottolineato e continua a sottolineare, appunto,
la dipendenza dell’attività mineraria nel territorio trentino medievale dal ‘mondo’: a livello di uomini, di know-how tecnologico, di lessico. Viceversa non è difficile scoprire le tracce non trascurabili, sin dal Duecento, della migrazione da
ovest ad est dei ‘tecnici’ bergamaschi, che esportano nella montagna trentina le
loro tradizioni prima di superare anche lo spartiacque fra il bacino dell’Adige e
quello del Piave e insediarsi nell’area dolomitica. Nel 1282, quattro magistri originari de episcopatu Bergomi, forse discendenti di alcuni magistri attivi nei decenni
precedenti in val di Fiemme, ricevono dalla consorteria signorile vicentina dei
da Velo i diritti di prospezione mineraria e di installazione di forni e fucine, e il
conseguente indispensabile godimento dei boschi e delle acque, in una vasta
area compresa fra Rotzo ad est, il monte Melignone, il monte Tonezza e valle
Orsara ad ovest (dunque sul secolarmente conteso confine fra Lastebasse e
Folgaria), Arsiero e la valle di Posina a sud, con esplicito riferimento alla consuetudo attestata nel liber sancti Vigilii. I da Velo, che da tempo (come ha mostrato
Bortolami nel suo contributo alla Storia dell’altipiano di Asiago) erano in relazione
con la famiglia trentina dei da Beseno anch’essa interessata al controllo delle
montagne fra il Trentino e il Vicentino, si impegnano a fornire, all’occorrenza,
ben 300 laboratores ai quattro imprenditori minerari.
Allargando l’obiettivo, più in generale, alle relazioni commerciali, non è difficile trovare per il territorio trentino conferme all’importanza notevole e sottovalutata, insieme al fondamentale itinerario della valle dell’Adige, degli itinerari commerciali secondari, relativamente secondari, che si intersecano nel territorio del principato vescovile nel senso della longitudine, tra la Lombardia e il
Trentino, tra la val di Fiemme e la valle del Piave, tra la val Lagarina e la montagna veronese e vicentina. Non tornerò qui su concetti molto noti alla ricerca
14
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo
storica sulle Alpi: l’apertura delle Alpi al traffico a partire dalla metà del Trecento, con la formulazione da parte di Guichonnet e di Bergier dello slogan delle
Alpi vissute, contrapposto a quello delle Alpi attraversate del periodo imperiale;
oppure su concetti come quello del fascio di strade e di itinerari, della frequente
compresenza cioè di una pluralità di itinerari alternativi, e più o meno paralleli,
in grado di collegare due località in una vallata o in una zona d’altipiano, laddove non vi sia evidentemente la costrizione determinata da un valico montano; o
ancora sul concetto di area di strada come elemento che favorisce
l’affermazione di un potere politico, concetto elaborato da Sergi per il versante
italiano delle Alpi occidentali, ma perfettamente adattabile ad esempio alla vicenda storica dei Castelbarco in val Lagarina e anche a quella dei da Caldonazzo in Valsugana.
Dunque, quando si osserva da vicino un territorio specifico, uno specifico
valico, il bacino di un fiume, si constata la verità banale, ma non per questo
meno significativa, di una montagna intensamente percorsa, in tutte le direzioni, nella quale la mobilità degli uomini e delle merci è nel tardo medioevo notevolissima.
2. Si è accennato sopra al problema costituito dalle fonti documentarie,
che per la storia della mobilità intra-alpina di uomini e di merci è particolarmente grave per il territorio trentino. Il confronto con la documentazione formidabile prodotta per il Duecento e Trecento dai due più importanti stati di
passo delle Alpi – la serie plurisecolare dei conti di castellania dei Savoia ad occidente e i Rechnungsbüchern tirolesi (distribuiti su un arco temporale più limitato)
attualmente in corso di edizione da parte di Christoph Haidacher – non fa che
aumentare il rimpianto, anche se quest’ultima fonte ha qualche positivo riverbero anche sullo studio del territorio trentino. Invero, qualche altro giacimento
documentario esterno – come luogo di produzione e come luogo di conservazione – al territorio trentino, come la documentazione notarile veronese conservata nell’Ufficio del Registro, merita ancora di esser valorizzata appieno (in
prospettiva trentina se ne è occupato soltanto, in alcune ricerche recenti, E.
Demo). Anziché lamentarsi, è opportuno valorizzare il poco che c’è; e questo
poco riguarda la seconda metà del Quattrocento.
In particolare per il ventennio di episcopato di Johannes Hinderbach (14651486), è infatti possibile incrociare le prime tracce della documentazione del
comune di Trento (che costituisce, nella prospettiva che qui interessa,
l’indicatore di una complessiva vitalità economica e commerciale del territorio)
e i pochi relitti della documentazione amministrativa prodotta per conto di un
principe vescovo che è un amministratore attento ed esigente. Dalla documentazione comunale e dalle rimostranze rivolte al vescovo Hinderbach impariamo
ad esempio che negli anni Settanta il lanificio trentino era in notevole espan-
Attraverso le prealpi, dal territorio vicentino a Trento
15
sione e che una variegata gamma di cittadini, in parte coincidenti col ceto consolare (Terlago, Saraceni, «de Perociis», Calepini, da Brez, e altri), faceva lavorare panni di lana, cercando di emanciparsi dall’egemonia commerciale e produttiva esercitata dagli imprenditori bergamaschi, di Lovere e Gandino. «Adonque
la reverendissima signoria vostra bene faceret istos bergamaschos totaliter eos expellere
de ista civitate quia proverbialiter dicitur che non hè cossì bone terre dove praticha
bergamaschi che y non le guasti. Meio seria che fusse via de qua, azò che y non
fosseno la destrutione de questa magnificha citade». Testimonianze importanti
dunque di quella poderosa diffusione del lanificio delle prealpi lombarde che la
storiografia recente (Epstein, Albini, Silini per il Bergamasco, Grillo per il Comasco) ha con grande abbondanza di dati dimostrato e nella prospettiva trentina ciò è la prova di una importante corrente di traffico da ovest ad est. Questa
occasionale documentazione cittadina è del resto confermata dai dati desumibili da un importante registro del dazio prelevato al passo del Tonale nell’anno
1470, edito dallo Stenico una trentina di anni fa e da me studiato in una precedente occasione, e molta attenzione merita pure la fonte sulla quale si basa questa comunicazione.
Si tratta del ms. 435 della Biblioteca Civica di Trento, un manoscritto cartaceo di 00 cc., sul quale un officiale episcopale trascrisse le registrazioni effettuate (verosimilmente su altri registri o fascicoli) tra il settembre 1468 e il giugno
1474 alle porte della città dai funzionari vescovili incaricati di riscuotere il dacium bullettarum o ‘dazio piccolo’. Con tutta probabilità, il vescovo di Trento riscosse a partire dai primissimi anni del Quattrocento questo dazio, le caratteristiche del quale sono analoghe a quelle del dazio delle porte di molte altre città
italiane. Vi era soggetto chiunque passasse dalle porte, sia in previsione di un
soggiorno in Trento sia per semplice transito. In totale, il registro elenca circa
11.200 item: nei quattro anni pieni (1469-1471 e 1473, escludendo cioè i primi
nove mesi del1468 e i primi sei mesi del 1474, nonché il 1472 condizionato da
una pestilenza) la media delle registrazioni è di 2.000 bollette. Tuttavia il numero degli individui è largamente superiore perché spesso una sola bolletta era relativa ad un gruppo più o meno numeroso, si trattasse dei servitori di un dominus, o dei famuli di un mercante, o talvolta anche di una comitiva di pellegrini.
Le notizie che ogni bolletta somministra sono evidentemente essenziali; e
inoltre, per quanto le registrazioni seguano uno schema, non sempre del tutto
omogenee. L’attività professionale di colui che transita – una indicazione che ai
fini di una indagine sulla mobilità di uomini e di cose, come quella che ci accingiamo a svolgere sarebbe un elemento della massima importanza – è precisata
solo raramente. Si dichiara se le persone viaggiano a cavallo o a piedi, considerando peraltro pedester anche chi porta con sé un cavallo «da soma» o «da basto»
senza cavalcarlo; in altre parole è equester, e paga una tariffa più elevata, solo chi
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Gian Maria Varanini – Edoardo Demo
effettivamente viaggia a cavallo e non porta con sé un animale destinato al trasporto di mercanzie. È di maggiore interesse l’indicazione della porta (o del
ponte) di entrata, dalla quale si può dedurre la direzione dalla quale i viandanti
provengono, anche incrociando questo dato con la località d’origine. Si transita
dunque «per portam Sante Crucis», la porta meridionale della città; «per pontem», cioè per il ponte sull’Adige, e ancora «per Aquilam» e «per portam Santi
Martini». La tariffa è differenziata, per motivi imprecisati, anche a seconda delle
località di residenza o provenienza, con un importo lievemente minore per
bergamaschi e bresciani che vengono a piedi rispetto ai veronesi e vicentini.
Naturalmente non mancano le esenzioni, di solito legate al possesso di un lasciapassare rilasciato dall’autorità territoriale di provenienza ovvero dallo stesso
principe vescovo di Trento. Interessanti infine, per la storia della città, anche le
menzioni della destinazione all’interno dello spazio urbano (si tratti di un hospicium, come più spesso accade, o di una casa privata). Ma ai fini della presente
indagine, il dato più significativo è quello dell’origine e della provenienza geografica, sulla base del quale si può stimare molto grossolanamente la consistenza dei flussi di movimento, che nell’arco dell’anno presentano concentrazioni
notevoli in coincidenza sia con le fiere di Bolzano (mezza Quaresima, san Bartolomeo, sant’Andrea), sia con qualche altra ricorrenza (ad esempio, in aprile, il
pellegrinaggio a S. Gottardo di Mezzocorona).
Come accennato all’inizio (cfr. nota bibliografica), questa massa ingente di
documentazione è attualmente oggetto di trascrizione e di studio da parte del
dott. Edoardo Demo e dello scrivente. Dato lo stadio ancora iniziale della ricerca, le osservazioni sulla mobilità di uomini e di merci fra Trento e Vicenza
che saranno svolte in seguito sono da considerare provvisorie e indicative.
Qualche indicazione tuttavia se ne può trarre, a partire da una prima (e preliminare, ma decisiva) constatazione. Il movimento che interessa le montagne fra
la Val d’Adige e il Vicentino non è che un aspetto secondario del formidabile
fenomeno di mobilità che interessa tutto il versante meridionale delle Alpi e
delle Prealpi nel settore trentino. Ovviamente il primo posto spetta ruolo preminente degli itinerari (anche stradali) dell’asta atesina, con la conseguente cospicua presenza dei veronesi: non di rado si tratta di famiglie patrizie anche di
alto profilo, tuttora attive nel commercio (e basterà menzionaere accanto ai lagarini veronesizzati Manueli di Ala e Del Bene i Maffei, gli Sparavieri, i Dionisi,
i Boldieri, gli Auricalco, i Guarienti, gli Spolverini). I dati desumibili dal registro
di bollette trentino confermano poi il peso ormai noto, ma davvero formidabile e difficile da sottovalutare, dei traffici fra la Lombardia e il territorio trentino,
e la posizione notevolissima dei lombardi nell’economia commerciale delle Alpi
orientali. I protagonisti sono in primo luogo i bergamaschi (da Lovere e da
Gandino, ma anche dalle altre vallate prealpine): per giungere a Trento, essi seguono l’itinerario del Tonale, ma anche – non raramente – quello delle Giudi-
Attraverso le prealpi, dal territorio vicentino a Trento
17
carie e della Valle dei Laghi. Tutt’altro che rare sono le provenienze da Milano
e dal Milanese, da Como e dal Comasco, e anche da città lombarde di pianura
come Cremona e Crema.
3. Queste considerazioni forniscono dunque uno sfondo importante per
l’analisi della documentazione relativa alle prealpi trentino-vicentine, e per qualificare – nei limiti consentiti dalla fonte – le caratteristiche sociali e le specificità geografiche di questo movimento di uomini e di beni.
Questi dati della seconda metà del Quattrocento costituiscono un ottimo
osservatorio per apprezzare gli esiti di un lungo processo storico. Sono state le
ricerche di Bortolami che in anni recenti hanno approfondito notevolmente la
storia insediativa e sociale dell’altipiano di Asiago fra il XII e il XIV secolo. È
sostanzialmente una storia di condivisione e di separazione, nella quale le popolazioni (per lo più di etnia tedesca, come è ben noto) provenienti dalla Valsugana e dalla Vallagarina si incontrano dialetticamente con le popolazioni (e
con le forze signorili) provenienti dalle vallate dell’alto Vicentino. Per parte mia
mi limiterò a ricordare qui un solo elemento, peraltro capitale, di questa vicenda plurisecolare. Alludo alla conosciuta norma compresa nello statuto comunale di Vicenza del 1264, nella quale si prevede la costruzione di ben tre strade
«que possint carrezari» fra Vicenza e il territorio trentino: attraverso la valle
dell’Agno e il passo di Campogrosso (m. 1464) verso la Vallarsa, attraverso la
val Leogra e il pian delle Fugazze (m. 1162) ancora verso la Vallarsa, attraverso
la val d’Astico e la valle di Posina e il passo della Borcola (m. 1207) verso la
valle di Terragnolo. Una di esse, quella del pian delle Fugazze, «ad equitandum
et carrezandum congruencius et levius» avrebbe dovuto esser costruita dai due
comuni cittadini, Vicenza e Trento; le altre invece «fiant per consortes si volent», sono lasciate dunque all’eventuale iniziativa dei signori e dei comuni. Con
larga probabilità, è attraverso questi itinerari che si proviene, dal territorio veneto, a Trento, anche se almeno allo stato attuale della ricerca è impossibile definire il numero di coloro che – gravitando su Verona – scelgono l’itinerario
della Val d’Adige.
Le provenienze da Padova e da Treviso sono scarse, e – cosa invero più
sorprendente – anche quelle da Bassano; globalmente un trentesimo rispetto a
quelle da Vicenza e un quarantesimo circa rispetto a quelle da Verona. Fra questi due territori c’è infatti un rapporto relativamente stabile, che vede prevalere
anche se di poco le provenienze da Verona e che sembra mantenersi abbastanza stabile nell’arco dell’intero quinquennio. Nel biennio 1468-69 ad esempio
risultano compilate circa 250 bollette per provenienze da Vicenza o dal territorio vicentino, a fronte di cirica 380 per Verona e per il territorio veronese, e le
proporzioni sembrano mantenersi nell’intero quinquennio. Ovviamente,
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Gian Maria Varanini – Edoardo Demo
nell’ottica circoscritta al territorio dell’altipiano di Asiago è il dato delle provenienze dal Vicentino che specificamente interessa.
Ho usato il termine ‘Vicentino’ perché rispetto a Verona e al Veronese una
differenza balza chiarissima dal confronto. L’incidenza delle provenienze dirette dal capoluogo berico è infatti di poche decine, e soprattutto manca quella
componente socialmente ed economicamente elevata che abbiamo constatato
per Verona, rappresentata in modo notevole dall’élite mercantile. Tra i Vicentini, si possono registrare pochissimi cognomi noti: un Machiavelli, un Mainenti,
forse un Calderari, e poco più; al contrario, c’è qualche caso interessante di
mercante tedesco radicatosi a Vicenza, che mantiene relazioni commerciali con
il nord, come è il caso di Tommaso «a Tellis» «de Monico Alemanie, sed nunc
habitator et civis Vincentie». A farla da padrone sono dunque le provenienze
dal distretto vicentino, e particolarmente interessante è un’analisi più ravvicinata di queste provenienze. Se non manca, infatti, qualche ‘rappresentanza’ della
pianura, la maggioranza assoluta delle bollette relative a vicentini in transito riguarda le vallate dell’alto Vicentino, naturalmente con maggior presenza dei villaggi posti a quote più elevate o comunque ben addentro nelle valli, ma non
senza attestazioni per i centri pedecollinari: così è per Arsiero, Posina, Carré,
Caltrano, Piovene, Fara, S. Vito di Leguzzano, Thiene, Cornedo, Marostica.
Tra le attività professionali attestate per i distrettuali vicentini, la presenza di
molti lanaioli costituisce una attesa conferma di quanto le ricerche del Demo
hanno mostrato con efficacia: il lanificio delle valli vicentine (ad esempio ad
Arzignano e a Schio) è una realtà importante. Analoghe considerazioni possono essere fatte per il settore del cuoio e delle pelli. Quanto agli uomini della
montagna vicentina, essi sono fittamente presenti; quasi tutti i Sette Comuni
sono rappresentati (Asiago, Rotzo, Roana, Lusiana, Gallio, ecc.) e hanno una
evidente specializzazione nelle attività di trasporto, visto che la qualifica di
«mulaterii» li riguarda in modo diffuso, insieme peraltro con altri di Velo
d’Astico o genericamente «de Vicentina». Sarebbe allettante infine ricollegare
alle attività metallurgiche la robusta presenza di uomini di Forni d’Astico
(«Furni de Vicentina»), ma mancano per ora riscontri puntuali.
Questo insieme di indizi costituisce dunque una conferma, utile pur nella
sua modestia, di due dati strutturali. Da un lato, la circolazione di uomini e di
beni attraverso gli altipiani di Asiago, di Lavarone e di Folgaria è nel Quattrocento una maglia di quell’immensa fittissima rete di relazioni commerciali e culturali che copre l’intera montagna alpina e prealpina: per riprendere la nota
immagine di Bergier, ‘le Alpi (e le prealpi) attraversate’, e non nel senso di pochi itinerari obbligati finalizzati a un veloce transito, ma nel senso di un ‘attraversamento’ in tutte le direzioni e su tutti gli itinerari. Dall’altro lato, osservando la stessa realtà in un’ottica più locale, si ha la conferma che questo comprensorio montano posto fra Trento e Vicenza, queste ‘Alpi vissute’ (ripren-
Attraverso le prealpi, dal territorio vicentino a Trento
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dendo anche qui uno slogan di Bergier) mantengono anche nel Quattrocento
quella sostanziale unitarietà che già le fonti del XII e XIII e gli studi su Lavarone e su Folgaria dei tempi di Bottea e Reich suggerivano. Una unitarietà non
priva di contrasti ovviamente: ma i contrasti – che pure ci sono stati e ci sono
in ogni montagna – nascono e secolarmente prosperano (lo dimostra il caso
emblematico della citata controversia fra Lastebasse e Folgaria recentemente
riesaminata in uno studio del Bellabarba, che si è trascinata anche oltre la definizione settecentesca dei confini tra gli Stati) proprio laddove la compenetrazione è particolarmente stretta.
Prof. Gian Maria Varanini
Dipartimento di Discipline Storiche Artistiche e Geografiche
Università di Verona
[email protected]
NOTA BIBLIOGRAFICA
Mi limito a segnalare gli studi effettivamente utilizzati per la stesura di queste brevi
note, dai quali sarà facile risalire ad altre ricerche, tenendo presente in ogni caso la recente bibliografia generale posta a chiusura del vol. III (L’età medievale), a cura di A. Castagnetti e G.M. Varanini, della Storia del Trentino (Bologna 2004). Nel merito, alcune
considerazioni convergenti con quelle qui esposte si possono leggere in G.M. Varanini, L’economia: aspetti e problemi (sec. XIII-XV), ove si svolgono considerazioni in parte
analoghe e si utilizza anche, rapidamente, il ms. 435 della Biblioteca Comunale di
Trento.
Per il panorama delle fonti documentarie trentine, cfr. dunque G.M. Varanini, Le
fonti per la storia locale in età medievale e moderna: omogeneità e scarti fra il caso trentino ed altri
contesti, in Le vesti del ricordo, Atti del convegno di studi sulla politica e le tecniche di gestione delle fonti per la storia locale in archivi biblioteche e musei (Trento, palazzo
Geremia, 3-4 dicembre 1996), Trento 1998, pp. 29-46: per un aspetto particolare cfr.
anche Id., Il documento notarile nel territorio del principato vescovile trentino nel tardo medioevo.
Brevi note, in Costruire memoria. Istituzioni, archivi e religiosità in val di Sole e nelle valli alpine, a
cura di U. Fantelli, S. Ferrari, M. Liboni, A. Mosca, R. Stanchina, Centro Studi per la
Val di Sole, Cles 2003, pp. 107-117. Per le ricerche di Roberto Cessi e della sua scuola,
cfr. R. Cessi, Per lo studio sistematico dei problemi di storia economico-sociale della regione trentina,
in Studi e ricerche storiche sulla regione trentina, Padova 1953, pp. 1-4 (per qualche considerazione metodologica), e come esempi di studi F. Seneca , Problemi economici e demografici
del Trentino nei secoli XIII e XIV in R. Cessi (ed.), Studi e ricerche storiche sulla regione trentina,
Padova 1953, pp. 7-48; A. Stella , Politica ed economia nel territorio trentino-tirolese dal XIII al
XVII secolo, Padova 1958. Qualche ulteriore considerazione e richiami bibliografici ag-
20
Gian Maria Varanini – Edoardo Demo
giornati sull’amministrazione periferica del principato vescovile in G.M. Varanini, Gli
spazi economici e politici di una Chiesa vescovile: assestamento e crisi nel principato di Trento fra fine
XII e inizi XIV sec., in Gli spazi economici della Chiesa nell’Occidente mediterraneo (sec. XIImetà XIV), Atti del sedicesimo convegno internazionale, Pistoia 16-19 maggio 1997,
Pistoia 1999, pp. 287-312. Il saggio di Ph. Braunstein citato è Confins italiens de l'empire:
nations, frontières et sensibilité européenne dans la seconde moitié du XVe siècle, in La conscience
européenne aux XVe et au XVIe siècle. Actes du colloque international organisé à l'Ecole normale
Superieure des Jeunes Filles (30 septembre-3 octobre 1980) avec l'aide du C.N.R.S., Parigi 1982.
Per l’attività mineraria cfr. G.M. Varanini, A. Faes, Note e documenti sulla produzione e sul
commercio del ferro nelle valli di Sole e di Non (Trentino) nel Trecento e Quattrocento, in La sidérurgie alpine en Italie (XIIe-XVIIe siècle), études réunies par P. Braunstein, Rome
2001, pp. 253-288; G.M. Varanini, Iniziative minerarie nelle prealpi vicentine. Un documento
del 1282, in Tempi, uomini ed eventi di storia veneta. Studi in onore di Federico Seneca, Rovigo
2003, pp. 113-126. Per i commerci nell’area trentino-tirolese del Quattrocento cfr. in
particolare E. Demo, Le fiere di Bolzano e il commercio fra area atesina e area tedesca fra Quattrocento e Cinquecento, in G.M. Varanini (ed.), Le Alpi medievali nello sviluppo delle regioni contermini, Napoli 2003; E. Demo, Traffici e mercanti lungo le strade di Germania, in 1500 circa.
Landesausstellung 2000, Catalogo della Mostra, Bolzano 2000. Per gli itinerari in direzione ovest-est, cfr. G.M. Varanini, Itinerari commerciali secondari nel Trentino bassomedioevale,
in E. Riedenauer (ed), Die Erschliessung des Alpenraums für den Verkehr im Mittelalter und in
der frühen Neuzeit - L’apertura dell’area alpina al traffico nel medioevo e nella prima età moderna,
Historikertagung in Irsee - Convegno storico a Irsee 13.-15. IX. 1993, Bolzano 1996,
pp. 101-128. Per il ms. 435 della Biblioteca Comunale di Trento, cfr. infine la nota introduttiva.
LUSERNA, LE ANTICHE STRADE DI CONFINE
E IL PASSO DI LAVARONE
Paolo Zammatteo
Inquadramento
Capita spesso che, dove non c’è il conforto delle fonti, siano le leggende a
riportare alcune verità, seppure deformate o fortemente retrodatate, e quelle di
Luserna sono la raccolta più ricca rimasta sugli Altipiani fra Trento e Vicenza
(BACHER 1905: BELLOTTO, (a cura di)1978): un racconto afferma che il villaggio fu creato da mandriani lavaronesi nel corso del Cinquecento (BERTOLDI 1994, p. 42) e non c’è dubbio che l’insediamento sul monte si sviluppò
definitivamente assieme all’espansione a Est di Lavarone.
La pastorizia aveva già inciso sulla natura degli Altipiani da molto tempo e la
presenza di un confine aveva senz’altro influito pesantemente sulla considerazione socio-politica degli ampi pascoli di Vezzena, intorno a cui tutti gli elementi di interesse di queste contrade orbitarono fino all’era moderna.
L’antica chiesa di Santa Maria a Brancafora è il primo dato certo. Precedentemente i monti di Lavarone e Luserna erano dipesi dalla Pieve di Caltrano: nel
753, a un anno dalla nascita della nuova abbazia benedettina di Nonantola, leggenda vuole che il suo fondatore le avesse donato cinque “masserizie” a Cogolo, Musson e Caltrano; certamente Berengario I re d’Italia nel 917 aveva donato
la montagna dei Sette Comuni a Sibicone, vescovo di Padova; Sibicone, molto
probabilmente nella prima metà del decimo secolo, aveva aperto i due ospizi di
Brancafora e di San Pietro Valdastico. Gli stessi territori, che erano appartenuti
alla corte di Caltrano, vennero confermati alla diocesi di Padova nel 1026 da
Corrado il Salico.
Unica matrice con la possibilità di offrire elementi documentari e deduttivi
sulla storia più antica dei luoghi è la viabilità, la cui prima indicazione risale al
1192 (BRIDA 1970, p. 86). Quattro secoli più tardi, da questo di Levico si può far
tratto al vicino Lago di Caldonazzo nella Giurisdittione de’ baroni Trapp, Feudale della
Chiesa di Trento. ...E quanto sia della Giurisdittione di Caldonazzo, oltre il Villaggio con
la sua Chiesa, e Palazzo antico di Residenza, il sito, che si stende in Piano, e Monte, riesce
fertile, & uno de’ più proprij per Caccia, compresa anche la Montagna di Lavarone, Passo
obliquo per l’Italia verso Vicenza, e dove di notabile stà la Chiesa di Brancafora consecrata
dicesi, da un Vescovo, che poi fù Papa, & che perciò l’arricchì di Gratie Spirituali, & In-
22
Paolo Zammatteo
dulti. Qual Chiesa dipende dal Vescovo di Padova, rispetto à’ confini, che si fan’ oltre Pedemonte con S. Marco (MARIANI 1673, p. 535).
Il fulcro degli Altipiani è da sempre sulle quote di Vezzena, ampio sistema
di pascoli a lungo contrastato fra Vicentini e Trentini, Lavaronesi, Levicensi e
Luserni. Intorno ad esso gravitavano alcune strade, di cui due almeno segnarono il confine: i Menadori di Caldonazzo e di Levico e la Strada della Val Tora,
margine indiscusso tra Feltre, Trento e Vicenza. Tre gli ospizi: Brancafora, Lavarone, Monterovere, con un ruolo non secondario per la valle del Rio Torto.
In mezzo si erge, usque in fines principatus vescovilis, il Monte di Luserna, su cui
nel XIII e nel XIV secolo si incrociano le testimonianze e gli interessi diretti di
Arsiero, Velo d’Astico, Brancafora, Lavarone e Caldonazzo, fra l’attestazione
consolidata delle giurisdizioni, la questione di Vezzena, la ripresa della ricerca
mineraria e i contrasti per gli usi di pascolo e i diritti feudali.
In questo quadro spiccano subito due particolarità:
a dispetto dell’ultimo tratto della Via Imperiale verso Trento, che non
risulta fortemente praticato, la tratta più battuta era la valle del Centa:
altre strade molto antiche correvano fra Calceranica, Migazzone e
Vattaro, oppure Caldonazzo e Campregheri sulla destra del torrente
Mandola;
malgrado il confine, sugli altipiani di Lavarone e Luserna ci sono tre
ospizi attestati sulla valle del rio Torto: Brancafora; Lavarone e Monterovere, tra Lavarone, Caldonazzo e Levico, in cima ai menadori
omonimi ma anche in testa alla strada per la Val d’Assa e al sentiero
per la Vallesella, il vecchissimo tratturo di Porta Manazzo.
Un paesaggio medievale
Nel 1471, quando il dinasta di Caldonazzo, nell’ennesimo tentativo di risolvere la questione del confine del principato, interrogò vari testimoni della zona,
Luserna comparve in quattro deposizioni come Liserna. Nell’etimologia arcaica
Lis Erna indica un passaggio, un valico. E la memoria popolare ricorda che localmente il paese veniva chiamato anche Lusérn o Lasérn.
Ci sono vari toponomi che rimandano a un passaggio, a un sentiero, prendendo forme diverse dal latino lapsus, scivolo, o dal corrispondente medioevale
laso, canalone: Laas (il Menador di Caldonazzo (BELLOTTO 1978, p. 185) e
Latz, che indica il bosco sul Monte di Luserna nei pressi di Scalzeri (CAROTTA 1997, p. 325). J. Bacher all’inizio del Novecento ricordava anche dar Laas
von Masétnar (il canalone di Masetti), dar Laas vo Leve (il canalone di Levico), dar
Laas vo Kalnétç (il canalone di Caldonazzo) (BELLOTTO 1978, p. 185).
Il limite della linea di demarcazione passava nei pressi dell’ospizio di Monterovere, che compare per la prima volta in un documento del 1485 col nome di
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone
23
zum Heusel (al casotto). Era possesso di quelli di Caldonazzo, cosa riconosciuta anche da
quelli di Lavarone. Il masetto formava, come oggiun, ospizio per quelli che andavano per il
Menador di Caldonazzo e per la Valle del Rio Torto in Valdastico, a Brancafora, ovvero a
Luserna, o fra Luserna e Lavarone, o da Lavarone – Vezzena - Val d’Assa - Asiago e
viceversa (REICH 1973, p. 146).
Da Monterovere la strada seguiva il confine fra Trento e Vicenza fino alle
sorgenti di Vezzena, per continuare in direzione della Val d’Assa: ma un ramo
affiancava ancora il confine, piegando verso il Bisele e la Val Tora: il confine, volgendo a mattina lungo lo spigolo delle montagne, veniva a toccare le due fontanelle di Vezzena e attraverso il Bisele metteva a capo nella Val Tora, che poi seguiva fino all’Astico
(MANTESE 1952, p. 420).
L’ospizio di Brancafora, all’epoca un maso tedesco (NICOLUSSI MOZ
2001, p. 451)1, aveva annessi e terreni sufficienti all’autosostentamento, creando lo status di un potere autonomo sul Monte di Luserna, un cuscinetto fisico
fra Trento e Vicenza: probabilmente per questo nel 1260 veniva indicato come
“districtus Luxernæ” (LORENZI 1932 : ZAMMATTEO 2001-b).
A Monterovere convergevano due tratturi, menadóri, ossia tracciati destinati
all’avvallamento del legname2. Il più importante restò sempre quello di Caldonazzo, che sfociava alla Magnifica Corte, sede della giurisdizione. Quello di Levico, un tempo popolarissimo, si imbocca al Dazio di Inghiaie e segue il Rio
Bianco, il confine più antico sul fronte della Valsugana.
1
2
Con il nome di “maso” venivano descritte le pertinenze a meridione della Curazia ancora
nel 1599.
La “menata” era la condotta a valle del legname che poteva avvenire attraverso le “risine”,
sfruttando il corso dei torrenti, o con l’ausilio di forza animale. “Avvallamento”: Si utilizzavano per il trasporto a valle i ripidi canali naturali (tovi). Dove non esisteva la possibilità
di aprire strade o di raggiungere i luoghi di abbattimento con carrarecce, i boscaioli costruivano canali artificiali, incassandoli nel terreno, selciandoli e rifinendoli sui fianchi con
pietre robuste e lisce. Altri venivano messi in opera scegliendo un percorso, scavando un
canale, rivestendolo con antenne di legno sistemate in modo che nell’incontro testa-coda
non offrissero alcun ostacolo. Quando superavano torrenti, o punti di terreno mancante, i
canali diventavano autentici ponti sostenuti da possenti impalcature. La loro pendenza favoriva le alte velocità di discesa. I toppi non dovevano incagliarsi, disporsi di traverso, uscire di pista. Si costruivano perciò tratti brevi con fuoriuscite a salire dove i legni rallentavano la corsa, si fermavano e per rotolamento o trascinamento con “zappino” erano risistemati in un nuovo tratto di canale. I boscaioli muniti di zappini venivano distribuiti
lungo questi percorsi in modo da vedersi o da potersi udire. Con urla convenzionali o con
fischi segnalavano via libera all’avvallamento o lo interrompevano in caso di pericolo o
fuoriuscita dei toppi. Un vecchio documento (B.C. TN. ms. 369) così comanda: “Prima di
tovezzare e di menare legni chiama trei volte ad alta voce a dover ritirarsi”. Quando la neve cadeva la si pressava lungo le “risine”e la si gelava facendovi scorrere acqua. Là dove
esistevano ripide carrarecce i toppi legati con robuste catene scendevano a valle solidali ad
un carro con solo avantreno, trascinandosi dietro, anche in funzione di freno, gruppi di
toppi appaiati a due a due con biette legate ad anelli” (ŠEBESTA 1983, pp. 9-11).
24
Paolo Zammatteo
Al tempo che se faceva la menata in quel de Levego ... la menata era presso il rivo Biancho (LORENZI 1981)3: era la via impiegata per raggiungere le fiere levicesi da
Marostica e Asiago (REICH 1973, p. 172). Malgrado il ruolo secondario rispetto alle vie che collegavano Caldonazzo all’altopiano di Lavarone, la carta di de
Sperges, la Tirolis pars meridionalis Episcopatum Tridentinum del 1762, indica tutto il
percorso della Val d’Assa col nome di Menador di Levico, quasi a sottolinearne
la popolarità. E popolare lo era davvero: in realtà il Menador di Levico non sarebbe mai stato ammesso tra le strade istituzionali di attraversamento degli Altipiani.
Il Menador di Levico veniva indicato anche con altri nomi.
Il rivo che nomina i Caldonaci il rivo biancho, è quello che da Levegani e nominado il rivo
de val schura; ... le vie nel discendere non metono nelle vie maistre de Caldonazo, ma ben
schavezano il rivo della val Schura in quatro over cinque logi, et descendono verso Levego;
... lui ha sentudo chiamar il rivo bianco anche rivo de val schura et anche rivo dei Bergamasch (REICH, pp. 169, 171).
Si parla di vie, perché sarebbero diventate due: la seconda scendeva dalla
Val Pisciavacca lungo il nuovo confine, fissato più ad Est dalla Sentenza Roboretana del 1605: era la strada dei Bròzi (GORFER 1977, p. 872) in ricordo dei
carri a due ruote e con il retro a strascico, usati per l’avvallamento del legname.
La Val d’Assa correva pressoché interamente all’interno dei confini dei Sette
Comuni Vicentini, che già in epoca remota erano in possesso di particolari privilegi. Lo sfruttamento del collegamento con Asiago dalla Val d’Assa compare
solo in documenti del 1487. All’epoca della guerra tra Sigismondo Conte del
Tirolo e la Repubblica di Venezia, le vie da difendere contro l’invasione dei Veneziani
dalla parte di Lavarone erano l’antica dell’Astico o di Vicenza, serrata dal covelo di Rio
Malo, la malagevole a ritroso del Rio Torto, quella sua per le balze di Luserna, quella a ritroso della Tora [...] Di tutte queste strade o sentieri, la più comoda da battere era quella da
Val d’Assa alle Vezzene, la quale appunto servì a vicendevoli invasioni ai belligeranti
(REICH 1973, p. 148). In seguito la sua comodità avrebbe trovato riscontro
nell’ambito degli scambi commerciali per il collegamento tra l’Alta Valsugana, il
Pedemontano e la pianura di Marostica (BRIDA ,1989, p. 56).
Nel 1537 si nominavano la via maistra, che conduce in Visentina e le vie che vanno
verso il bislo e lucerna (REICH 1973, p. 166), ovvero la via della Val d’Assa, ormai
la principale, e le due diramazioni sulla val Tora e in direzione di Casotto: il
passo del Bisele veniva menzionato per l’ultima volta alla fine del Seicento come del tutto secondario (STOLZ 1953, p. 117; p. 238).
3
“Menador” (documento del 1556).
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone
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Più ad Ovest, a Lavarone, c’era un bivio fra la strata a qua itur Vicentiam superius usque ad culmina montium del 1192, da cui alle Casàre era possibile dirigersi
verso Trento dalla sella di Carbonare, scendendo oltre il passaggio obbligato
fra il dosso del Postèl e la Covéla (in la versus Cintam ) fino alla pista preistorica sul
monte Rive, e la strada di Folgaria verso Castel Beseno, in Vallagarina. Per la
Valsugana la strada più battuta era quella di Lanzìno, passante sulla destra del
Torrente Centa (BRIDA 1989, pp. 347-384).4 e attestata alla Magnifica Corte di
Caldonazzo. Da lì, nel corso del Seicento, al Lanzin Vecio sarebbe stata affiancata un’altra via, il Novo Lanzin, ben più agevole. Dalla parte di Vicenza la Strada Imperiale aveva il suo caposaldo al Covòlo di Rio Malo, a lungo gestito dai
Belenzani su accordo con i dinasti di Caldonazzo, per poi scendere in Valdastico e proseguire verso la pianura.
Un tracciato passava da Costesin, Basson, Marcai (Malga Giau – dove
“giau” può significare valico in un antico linguaggio prelatino – indica ancora
oggi, localmente, la Malga Marcai di Sopra), Manazzo, Vallesella, Valsugana: si
trattava di un passaggio sedimentato dall’uso della monticazione (manazzo=maneggio).
Il Manazzo viene citato nella Carta di Regola di Caldonazzo del 1260, in cui
il Comune reclamava il possesso ab antico della Costa qua confinat cum Manazo,
sfruttata indebitamente dai Vicentini: è chiaro il rilievo del valico sul Monte
Mandriolo rispetto a Vezzena, qui chiamata semplicemente Costa. Il toponimo
riappare negli atti della Commissione per i confini, istituita nel 1605 tra Austriaci, Trentini e Veneti, quando si decise che le montagne di Costa e di Vezzena, coi loro pascoli, boschi e pertinenze, spettavano alla Comunità di Levico,
nonché in carte successive.
La frequentazione di lungo periodo della via “naturale” della Vallesella giustifica la forte attrazione esercitata sugli altipiani dalla Valsugana: anche
l’attestazione di Pedemonte come appartenente al distretto di Caldonazzo, che
sembra essere riconosciuta in modo indolore nella prima metà del Quattrocento malgrado la dedizione a Vicenza della Villa di Brancafora nel 1385, può essere ricompresa in una vocazione naturale, fisica o politica che fosse, del luogo:
e questo stesso dato ribadisce anche la presenza di una strada lungo il rio Torto.
4
Si riunivano alla antica pista sul lato idrografico sinistro nei pressi del Maso Strada. Ancora oggi il tratto successivo, quello verso Campregheri, viene ricordato con il nome di “Via
Imperiala”. Riguardo alla difesa della pista fra Trento e Lavarone (la via a qua itur Vincentiam) nei pressi di Caldonazzo, (ZAMMATTEO 2001-d).
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Paolo Zammatteo
Una questione di supremazia
Nel 1264 gli statuti di Vicenza prevedevano la costruzione di tre nuove
strade verso Trento, que possint carrezari attraverso tre vallate parallele: dalla valle
dell’Agno al passo di Campogrosso alla Vallarsa e alla Valle dell’Adige; dalla
Val Leogra al passo del Pian delle Fugazze ancora alla Vallarsa; dalla valle di
Posina al passo della Borcola, alla valle di Terragnolo e di qui alla Vallagarina.
Una delle strade, ad equitandum et carrezandum congruencius et levius, doveva essere costruita per cura dei due comuni cittadini di Vicenza e di Trento. Le altre
fiant per consortes, cioè per mano dei comuni rurali, si volent. La natura
dell’impresa è confermata dal fatto che si intese utilizzare, per un sopralluogo
segreto da compiersi sui passi montani ad videndum unde melius et levius possit fieri
strata, degli homines religiosi qui nulli layco subiaceant. Evidentemente c’erano grossi
problemi con i signori di castello.
Nel corso del Duecento, e con particolare evidenza nella seconda metà del
secolo, i vescovi di Trento e di Feltre persero definitivamente il controllo politico degli itinerari stradali intra-alpini. Ciò andò a vantaggio dei nuovi poteri
privati che si aggregavano attorno ad una strada, come avvenne per i Caldonazzo-Castelnuovo.
L’espansione feudale dei Caldonazzo-Castelnuovo avvenne tra la costruzione di Santa Margherita a Castelnovo (circa 1100) e l’erezione del castello sul
Monte Rite dopo il 1201. La devozione a Santa Margherita è un elemento unificante dei cimbri, forse al di là dell’unità linguistica o territoriale (TOLDO
1984, pp. 80-81), e negli edifici di culto si ritrova un dato prezioso per il riconoscimento dei passaggi più significativi.
Il toponimo compare all’imbocco delle antiche vie di accesso; per iniziare, a
Santa Margherita di Ala, duecentesco ospizio vanghiano protagonista della colonizzazione cimbra dei Lessini e del Baldo. Il caso più antico è quello di Rotzo, che insieme a Castelletto e Albaredo è considerato il più antico abitato
dell’Altopiano dei Sette Comuni, essendo menzionato fin dall’anno 917.
Sempre intitolate a Santa Margherita, altre tre chiese dei monti vicentini rimandano ad un legame con attività minerarie, perché collocate in zone in cui
era consistente l’estrazione: la parrocchia di Rovegliana (Recoaro), Santa Margherita di Roncà (Arzignano), la chiesa di Bevadoro a Val d’Agno. Anche la
cappella di Santa Margherita a Marter di Roncegno, pur comparendo solo nel
1460, è prossima ai giacimenti a solfuri di Vetriolo e Cinque Valli.
La figura della santa, ausiliatrice delle partorienti, declina a Luserna in Frau
Berchta, un immaginario abitante del bosco, che qui è una strega ostetrica
(ZAMMATTEO 2001-f).
Il Castel-novo viene menzionato la prima volta nella dichiarazione dei fratelli D.nus Yeremias et Albertus de Cautonacio il 25 gennaio 1201, quando davanti al
vescovo di Trento Corrado II di Beseno chiedevano il permesso di erigere
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone
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quoddam Castrum su un loro bene allodiale quod ipsi fratres habent supra Villa de
Cautonacio, il Monte Rive. La Torre dei Sicconi sarebbe sorta in alto sopra la
strada esistente, tanto che si può far risalire a quest’epoca la fortuna della via
del Lanzino (ribadita poi in un nuovo tracciato, realizzato nel 1690 circa, e nella
ottocentesca strada del Tomazzolo) e il suo rapido prevalere rispetto alla percorrenza più antica verso Mattarello e la Valle dell’Adige. In seguito, con Caldonazzo saldamente al centro della giurisdizione, questa e le altre strade convergenti sul paese, vecchie e nuove, sarebbero cresciute progressivamente di
importanza (BRIDA, ANZOLETTI 1981)5.
La via della Valdastico e degli Altipiani era tanto consolidata, che Caldonazzo riuscì a deviare sempre di più i flussi di traffico da e per Trento solo rispetto
all’ultimo tratto dell’antica strada commerciale e dopo le quote di Lavarone.
Il Lanzin Novo fu realizzato nel corso del Seicento: da Caldonazzo saliva al
Monte Cimone e verso le Casare e Lanzino rimanendo sul versante destro del
torrente Centa. In un documento del 1699 si afferma che era dotato di stanga e
garitta per la riscossione del dazio (CAROTTA 1997, p. 28).
La mappa degli itinerari
La Strada Imperiale risaliva lungo il lato idrografico sinistro del torrente Astico,
passando da Brancafora - dove veniva riscosso il dazio sul legname (NICOLUSSI MOZ 1599, p. 451) - e Carotte, dove in loc. Roserack esisteva un punto
di sosta per i cavalli; da lì si riduceva ad una mulattiera che, passando tra lo Zahnloch ed il Covolo di Rio Malo (un riparo in grotta tanto conosciuto, che qui ci si
limita ad accennarne), raggiungeva il Dazio vicino alla frazione Piccoli: lungo
una diramazione, che collega il Dazio a Carbonare, si trovano ben tre ripari naturali, il Covolo dell’Agnolona a Nosellari, il Bus dell’Arcangeleto a Girardi e la Cogola,
un importantissimo sito di frequentazione umana dalla preistoria fino al XV
secolo6.
La Strada Imperiale proseguiva verso la chiesa di San Floriano, Lanzino (sinonimo di gancio, così chiamato presumibilmente per la presenza di uno sbarramento), le Casare (dove si divideva la strada per Folgaria), l’Osteria del Goto e
Maso Strada, caposaldo del confine fra Folgaria e Caldonazzo, il Dazio di Cen-
5
6
“È singolare rilevare come gli interessi e i rapporti umani, pur facilitati dall’invitante sella
di Vigolo, scansino l’asse dell’Adige, indirizzandosi verso la vallata principale (Valsugana)
e i raccordi montani con il Vicentino, sfruttando le quote di Monterovere e Lanzin. Il
tratturo del menador, soprattutto, è componente irrinunciabile per l’economia
dell’epoca”. Per la viabilità rinascimentale vedi anche BRIDA 2000, p. 428.
I ripari in roccia lungo le strade possono essere stati occasionali punti di guardia, Bischofswachen, ma solo il Covolo di Rio Malo, alto sulla Strada Imperiale al limite di Lavarone,
ebbe sicuramente un presidio.
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Paolo Zammatteo
ta San Nicolò (che doveva trovarsi al quadrivio di Campregheri), Vattaro,
dov’era un altro dazio, e da qui alla valle dell’Adige.
Da Monterovere scendeva il Menador di Levico, giù fino al Dazio di Inghiaie e alla chiesa di Santa Giuliana. Da lì attraverso Barco era possibile raggiungere la Vallesella, Borgo e Castelnovo, restando a monte rispetto alla Bastia
del Marter e alle fortificazioni esistenti fra Caldonazzo e Borgo Valsugana. Un
tragitto alternativo preferiva l’antica via di Porta Manazzo, che era stata attrezzata per il transito e la sosta dei muli, come dimostrano i toponimi di Pausa e
Trozzi.
Tra Monterovere e Caldonazzo correva anche il Menador omonimo che,
seguendo la Val Scura, sbucava al Castello di Corte e alla Casa della Decima.
Un’altra strada risaliva il torrente Tora oltre il Monte di Luserna, sul confine
confermato da Enrico re di Germania nel 1004 per il Principato Vescovile di
Trento. Il tracciato più vecchio si staccava dalla Strada Imperiale in destra Tora
a Molino (a monte di Braido e Dogana in Valdastico e sotto il maso di Casoto),
affrontava il passo del Bisele e da lì biforcava verso l’ospizio di Monterovere e
le Vezzene.
Il Ponte Rossati è vicino alle Sorgenti del Bisele e probabilmente sostituisce
più a monte un antico attraversamento del torrente Tora. Sembra evidente che
quel primo ponte aveva rappresentato un punto strategico sul confine: alla metà del Cinquecento nel livello del maso al Casoto alla Tora (CAROTTA 1997, p.
114)7 i conti Trapp imposero all’affittuario la manutenzione del Ponticellum super
torrentem Torae pro pedestribus illuc transeuntibus; non è precisato dove fosse: ma se
il livello si riferiva alla Strada Imperiale, il vecio Lanzin, non sarebbe certamente
stata usata la definizione Ponticellum, e la faccenda del ponte non sarebbe stata
assegnata a un singolo maso:
la manutenzione del vecchio Lanzin faceva parte dei pioveghi, cioè delle prestazioni di manodopera gratuita, imposti dal regolamento di corte dei Trapp agli abitanti della circoscrizione di Lavarone, della quale facevano parte anche Pedemonte e Casotto. Leggiamo nel
regolamento della magnifica corte di Caldonazzo: Li Lavaroni sono obbligati a fare e
mantenere la strada del Lancin tanto verso l’Astico che verso Caldonazzo, e di ripararla
ogni volta ch’il bisogno lo richiederà, a tall’effetto il Capitano gli da il sostentamento, cioè
ad ognuno due pani, e da bere oppure due Lire di farina di polenta, e formaggio col vino à
proporzione della quantità di lavoranti (CAROTTA 1997, p. 29).
Un ponte sul Tora giustificava le affermazioni del 1487, quando si descrissero la via di Lavarone per le balze di Luserna e quella a ritroso della Tora, e del
1535 con le vie del bislo e di luserna, portando ad affermare che il ramo della Cin-
7
La data del livello di Casotto è il 20 giugno 1561.
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone
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géla, sul versante vicentino della valle, esisteva già e dando maggior valore al
rastrello, la stanga esistente al passo del Bisele.
Una pista secondaria veniva affrontata a piedi per portare i sacchi di farina
in spalla dal mulino di Casotto fino a Luserna. A Scalzeri, invece, resta il ricordo di una tettoia per la sosta di muli, impiegati anch’essi per il trasporto della
farina fino al paese. Da Scalzeri sale anche il sentiero devozionale sovrastato
dal Covolo di Pisciavacca, forse Bischofswache, che da Brancafora, sfidando l’asperità
della roccia, arriva a Tezze di Luserna, incrocia la vecchia strada per Monterovere presso la cisterna e la cappella campestre dedicata a San Rocco (di poco
posteriore all’epidemia di colera del 1853), e nel suo tragitto originario sbucava
nella piazza della frazione principale passando sotto la chiesa settecentesca. Il
suo ricordo è nitido, in quanto costituiva il collegamento con la Curazia e il cimitero di Pedemonte fino alla metà del XVIII secolo (ZAMMATTEO 1999b). Inoltre i masi di Pedemonte sono di gran lunga i centri abitati più vicini alle
frazioni di Luserna, e questa via venne impiegata comunemente fino agli anni
Sessanta del XX secolo.
Una via mineraria
All’interno della viabilità tra la Valdastico e gli altipiani di Lavarone e Luserna dev’essere riconosciuta la rilevanza del Rio Torto (ZAMMATTEO 1999-b),
visti i molti elementi di rilievo, dall’ospizio di Monterovere al Covolo delle
Campane, dal sito metallurgico protostorico del Pletz von Motze (Luserna) al
Maso di Santa Maria (Masetti) e attraverso l’antico tratto superiore del Prighelveg
(il Sentiero dei Pellegrini) ai pascoli di Vezzena, dal Passo Cost di LavaroneLonghi allo sbocco pedemontano di Brancafora.
Quella pista aveva perso significato già nel XV secolo, tanto che, come dimostra uno scritto di fine Ottocento, il suo tratto finale serviva impianti di fusione del ferro.
I.R. Governo, Imspruck
Sartori Giovanni di Giovanni dela Contrà Scalzeri di Pedemonte del distreto Levico esendo io dala mia tenera gioventù aplicante al studio, così per grazia di Dio mi è venuto fra le
mani una grande quantità di memorie scrite dei nostri antenati possesori, che despiegano
molte cose, cose che è stato suceso ai nostri antenati possesori. Così adesso alimpiamente del
mio discorso dichiaro qualcosa di belo: 1 primo: qui vicino a pedemonte si trova una contrada così deta Forni questa porta il nome per il motivo che si trova la grande quantita di
forni, che colava ogni qualità di Metali che dai nostri monti veniva scavati epoi condoti in
questo così deto forni; il primo inviamento fu cominciato acolar il metalo di qualunque sorte fu dal ano 600 dopo Lera Cristiana del Mondo, questi lavori continuo fino Lanno
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Paolo Zammatteo
1508, ma va ricorda che questo lavoro ci è venuti abandonati per il motivo che dal 1509 ci
èvenuta dala basa Italia una grande quantita di armati qui nei nostri contorni così fecero
una grandissima strage di mortalità di questo povero popolo; poi lano stesso partì una
grande malatia poi di peste e fu ancora una grande mortalità che restò il 5 per 100 e per
motivo di questa grande mortalità fu abandonata i lavori. Così io studiando questa bela
memoria andò soppra luogo intuti ibuchi che estati oturati, òscavati e o trovata la verita; vi
sono in queste caverne banche di miniera e venesono di queste che non sono cominciate; così
invase le memorie otrovato quele e anche che dele altre oscoperto io andando per monti, ma
io dichiaro laverita: queste miniere che otrovato conosco che sono pietre minerali ma non conosso che sorte che sia. Secondo: dopo questa mortalità che estato sucessa, il magistrato di
Venezia trovando dele sentenze che parlava sopra le Miniere divald’astico opedemonte, dal
anno 1552 partì da Venezia per curiosità ci evenuto ascoprire miniere di Vald’astico. Dice così che amatina del vilagio di sampietro nella vale del’orco si trova una miniera8 overo
sia un picolo buco dai fiori essegni verificò sia di puro argento e che aveva deciso di fabricare
un altro edifizio sulaqua delastego. Dal anno 1508 unaltra buco sitrova nella vale barberena che è sopra Toneza e soto Milignone9. Questo verificò ai fiori e segni che sia di puro
argento; unaltra che si trova amatina del vilagio del Casoto10 nella vale della Tora che
all’ingresso nasse un zampillo di aqua entrò inquesta dice che inalto del buco si trova unforo che averà servito per dar lume oforo ala Caverna dice che inalto del buco si trova un palo di fero che aservito per calar giu il materiale e che dalla croda giala vericò che la miniera
sia di otomo fero e questo buco estato scavato intorno ala metà del 14 secolo; unaltro buco
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Non se ne trova traccia. Poco più ad Est compaiono altre due miniere: la cava Menegolli,
alla confluenza della Val d'Assa nella Val d'Astico. Minerali: Aragonite, Artinite, Brucite,
Calcite, Idromagnesite, Piroaurite-Sjoegrenite, Thomsonite; la cava di Settecà, presso Pedescala. Minerali: Piroaurite-Sjoegrenite. IGM.36 I SE, foglio Rotzo.
Probabilmente si tratta della miniera a cui si riferisce la leggenda, che parla della miniera
del Melegnon, presso Passo Coe. Sarebbe stata il motivo dell’arrivo di maestranze minerarie “sassoni” o tirolesi, che poi convertirono la propria attività alla coltivazione del suolo
(ZAMMATTEO 2001-a; ZAMMATTEO 2001-b; ZAMMATTEO 2001-c). Qui viene ricordata la Val della Vena per le some di minerale ferroso che scendevano da Val Barberena alla volta dei forni sul Torrente Astico e nei pressi si trova la cava di Val di Neve, a
Tonezza. Minerali: Brucite, Idromagnesite, Idrotalcite, Piroaurite-Sjoegrenite. IGM.36 I
SO, foglio Lastebasse.
Alla miniera si accede a pochi minuti da Casotto. L’imbocco in alto, di cui si parla, è tuttora agibile.
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone
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che si trova nela vale del riosolo dela contrà Scalzeri11 vericò che questa sia platino zingo
vano argento12 e così tante altre.
Così dichiaro che dal anno 1440 si trovava nela vale del riotorto di Pedemonte il forno del
ferro che colava il ferro13. Unaltra memoria che parlava così che uncerto cerata caldogno dei
forni essendo uomo intendente sopra leminiere, estatto messo da Antonia e giacomo cerato
dei forni, che era quei che colava questo; trovandosi nei suoi ultimi estremi di sua vita dice
così che Valdastico sono povera ditereni ma ilnoltre insecondo luogo sono richissima diminiere di qualunque sorte ma solo dice che non sia ancora scoperta Caverna del oro puro
massisso.
Così trovando tuti questi registri che parlava sopra le miniere le presento ala Giustizia così
adeso facia la sua buona volotà perché cerco il bene di tuta la patria.14
Il forno del ferro del 1440 è l’unico impianto siderurgico medioevale registrato a Lavarone, probabile centro di lavorazione per il minerale estratto al
Monte Horst (AUSSERER 1996, p. 82), che è stato individuato grazie a documenti austroungarici del 185615 e del 191716: già nel 1423 Domenico del fu Federico da Lavarone aveva disposto un lascito alla Confraternita dei werki, lavoratori di miniera, del borgo e della Pieve di Pergine17, ed è l’unico atto contemporaneo a registrare, indirettamente, un rapporto fra l’Altopiano e l’attività estrattiva. Tradizione vuole che gli antichi forni metallurgici siano stati convertiti
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La cava di Val Riosolo, presso Scalzeri. Minerali: Aragonite, Calcite. IGM.36 I SO, foglio
Lastebasse. Le antiche miniere individuate sono state oggetto di sfruttamento fino a circa
20 anni fa come cave di pietra. La genesi metamorfica dei giacimenti, dovuta ad intrusione
di magmi basaltici nella dolomia principale e al conseguente forte riscaldamento della roccia circostante ha prodotto, oltre alla metamorfosi della dolomia, come effetto secondario,
un buon numero di specie mineralogiche che in taluni casi caratterizzano il giacimento.
Una cava, indicata in mappa ma non nel manoscritto, si trova a Sud di Ciechi: qui è ancora evidente la discarica esterna, che lambisce la destra idrografica del Torrente Astico.
Blenda.
Probabilmente è quello individuato sulla sinistra del Rio Torto al confine fra Pedemonte e
Lavarone, a cui fa riferimento la referenza successiva.
ARCHIVIO DI STATO DI TRENTO, CAPITANATO DISTRETTUALE DI TRENTO – MINIERE. I.: 1888-896. Manoscritto. Dall’atto di archiviazione risulta che la data
di stesura è il 3 maggio 1894. Inoltre pare che parte delle notizie siano state assunte da
documenti originali, di cui non si conosce la collocazione attuale, e che si tratti dei medesimi utilizzati (o scritti) da DAL POZZO 1985.
CATASTO AUSTRIACO. MAPPE. N. 164, Comune Lavarone, Foglio 6 (anno 1856):
“Hinter Hurst”, confina a Nord “Belen”, a Est “Monterovere”, a Sud “Gabriolle”, a Ovest “Tablat”.
MUSEO STORICO ITALIANO DELLA GUERRA – ROVERETO - FOTO AEREE.
RV 130/155: “Magre e zona a sud di Monte Horst (quota 1387), 17/10/1915”.
Documento esistente nell’Archivio Parrocchiale di Pergine con segnatura sbagliata, 1483 e
non 1423.
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Paolo Zammatteo
a calchère (Insieme 1989. LARCHER 1995, p. 223), i cui ruderi in valle del Rio
Torto non sono infrequenti. Il tracciato veniva utilizzato anche per
l’avvallamento del legname da Val dei Rapàri, ripari, le anse da cui i boscaioli
regolavano la discesa dei tronchi lungo i torrenti.
L’antica viabilità interna a Lavarone
Poco a monte, una biforcazione di quanto rimane della pista del rio Torto
collega con il versante opposto e, passando sotto il Bus del Stoféle, affronta Passo
Còst. Nei pressi, a Longhi, un edificio di svolgeva una funzione ufficiale e di
sicura rilevanza locale. Secondo Tomaso Franco questo era l’ospizio di Lavarone (FRANCO 2000, pp. 52-53).
La sua ipotesi di una percorrenza trasversale da Longhi a Lanzino, alternativa alla salita dal rio Malo, è corretta. A Lavarone ci sono ancora i segni di una
strada, che sembra sia stata oggetto di un riassetto già in epoca remota: ne resta
una tratta da Bertoldi fino al dosso del Monco.
Gli elementi di interesse lungo il tracciato non sono pochi. Sopra Gionghi si
trova la cosiddetta mecca, un blocco perfettamente cilindrico in pietra compatta,
forse perso durante un trasporto di elementi edilizi verso una destinazione importante. Poco oltre Bertoldi una vasca in pietra bianca, parzialmente sbozzata,
è stata utilizzata per il restauro del margine stradale. Più in là la strada raggiunge la sella del monte Tomazzolo, dove si conclude con una singolare svolta a
destra perfettamente ortogonale. I prati e le pendici ai due lati della strada sono
segnati con sigle incise nelle pietre emergenti, che testimoniano un godimento
esclusivo di quei pascoli.
Alla sella del monte Tomazzolo la strada scendeva di quota: passando sulle
pendici delle Rive e dei Somi, lasciava dietro di sé il torrente Mandola, raggiungeva Migazzone e Susà, da lì toccava finalmente Trento giungendovi dal passo
del Cimirlo. Oltre a ricalcare piste antichissime, almeno nel tratto valsuganese,
il vantaggio di questa via era duplice: ci si manteneva in quota solo nel tratto di
Lavarone e si evitavano le paludi dell’Alta Valdastico e della Brenta, passando
poi sui declivi meridionali della Valsugana fino quasi alla città.
Nel basso medioevo la tratta da Caldonazzo alla Val d’Astico passante dal
Lanzino e Chiesa rimpiazzo per importanza il vecchio tracciato, e sul finire del
Cinquecento l’ospizio di Lavarone era descritto come del tutto fuori strada.
... il giorno 2 ottobre 1591 il curato di Lavarone condusse Carlo Guizzerato (convisitatore del Vescovo) e altri due cavalieri ad hospitium (...) distans a domo Ecclesia predicta
(San Floriano di Lavarone) circiter 1000 passus di percorso montuoso e difficile». (...) p.
230r: «il giorno 19 maggio 1604 ... quindi ritornato (il Vescovo) all’ospizio, dopo aver
cenato nella casa parrocchiale, riposò di notte. (FRANCO 2000, p. 52)
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone
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Un ostacolo e un vincolo insormontabile, il prato
Nei territori di pascolo i percorsi più antichi privilegiano i valloni e i crinali,
perché il prato dev’essere rispettato. L’alpe è una vasta distesa, in gran parte libera da piante ed arbusti e la ricrescita dell’erba richiede meno tempo più si sale: nella rotazione del pascolo il pastore può stilare un calendario più ritmato
rispetto alla pianura. Si va dal giorno del cargo, di norma il 13 giugno, S. Antonio, a quello del descargo, il 21 settembre, S. Matteo.
Le regole della monticazione sono poche e immutabili. L’erba va rassodata:
all’inizio della primavera, quando il ciuffo è calpestato dal bestiame o girato dal
pastore, la zolla e le radici si allargano e vengono rincalzate dalla terra, che aderisce meglio al fusto e induce i pollini a generare nuovi fusti più forti.
Se l’erba viene recisa dal passaggio degli erbivori o tosata dall’uomo, riprende il suo sviluppo e può essere brucata o falciata di nuovo. Per la fienagione, il
pastore realizza canali artificiali e raccoglie l’acqua piovana in pozze, perché
l’erba sull’argine cresce meglio; i bacini sfruttano depressioni naturali, le doline,
rese impermeabili da uno strato di tèra créa battuta.
Queste considerazioni, che sono debitrici di un elegante articolo di Jean
Blanc (BLANC 2000, pp. 23-25), valgono ovunque. In più, se si considera la
particolare vocazione della fascia montana vicentina rispetto ai fiumi, vettori
naturali per gli spostamenti dei pastori e risorsa inesauribile per le greggi, riferendosi all’industria lanaria di Padova e Altino, gli Altipiani hanno un valore
aggiunto.
Un racconto tramandato dai contastorie di Luserna ha un sapore arcaico e
cita il mare Adriatico, dove almeno dall’età imperiale le mandrie trovano pascoli freschi e ristoro durante l’inverno.
Il pastore e il pesce
“Un pastore custodiva le sue pecore presso il mare. Faceva freddo ed egli si
sentiva gelare. Cercò una pietra dove accendere un piccolo fuoco per riscaldarsi, perché in mezzo all’erba non lo voleva accendere per non bruciarla. Trovò
una bella pietra liscia, vi accese sopra il fuoco e rimase lì a scaldarsi. Ma tutto a
un tratto quella gli diede uno scossone, che mandò lui e le pecore a cadere in
mare, dove annegarono tutti.
Il povero pastore aveva acceso il fuoco sul dorso di un pesce enorme, che
quando sentì il calore si scosse, e quello scossone segnò la fine del pastore e
delle sue pecore (BELLOTTO, pp. 41-42).”18
18
I riferimenti seguenti a Bacher si trovano alle pp. 303, 292.
34
Paolo Zammatteo
Sarebbe molto interessante, a riguardo, tracciare una mappa dei siti un tempo paludosi, inutili alla coltivazione, ma via privilegiata delle mandrie.
In considerazione della vetustà nell’uso di pascolo, tracciare l’evoluzione tipologica delle malghe sembra molto difficile. Ma alcune ipotesi si possono
formulare tenendo conto delle fonti, fra cui un fascino particolare hanno gli
studi etnografici ottocenteschi del Baragiola. Le note seguenti fanno riferimento proprio alle sue osservazioni.
Alla scala minima il mandriano poteva contare su un casotto trasportabile,
una barella con una copertura a due falde rivestita di pelle o di scandole, evolutasi successivamente in un cassone di tavole ben connesse fra loro. In un passaggio del suo libro Baragiola cita la consuetudine degli italiani sugli altipiani
vicentini di realizzare baite mobili trasportabili da quattro uomini o carri con
sopra una minuscola abitazione in legno al traino di buoi. E negli stessi anni la
cosa era ancora ben comune, tanto che Josef Bacher, nel registrare i racconti di
Luserna, afferma espressamente.
“Occorre sapere che i vaccari e i pastori non dormono nelle casàre, ma possiedono delle capanne in legno con delle stanghe sotto per sollevare la capanna
stessa e portarla dove il pastore vuole.”
Il bosco ha una valenza strategica, in quanto portatore della risorsa legno,
tanto per il combustibile quanto per le parti lignee degli edifici, in particolare di
quelle a Blockbau. Anche i boscaioli e i carbonai creano edifici precari, dai semplici capanni a due spioventi ricoperti di pelle a strane baite appoggiate su cippi
in pietra e che a un certo punto hanno appunto le ruote per poter essere spostate più agevolmente. Quest’uso viene rievocato nel 1523, quando l’Europa
era attanagliata dal timore di un nuovo Diluvio Universale, nei suoi diari Marin
Sanudo affermava che “tutta la terra è inclinata a devution per paura de questi
deluvii” e “in Friuli et Visentina si hanno preparato caxe su monti di legname e
provisto di victuarie”.
La “caxa” di Sanudo era più evoluta rispetto al riparo dei pastori, una capanna trasportabile in Blockbau, con pareti in tronchi sovrapposti orizzontalmente a incastro angolare dispari e il tetto a due spioventi ricoperto di corteccia, paglia o scandole, allestita su un terrazzamento artificiale con zoccolo di
fondazione in pietra, la cosiddetta struttura mista. Ancora Bacher riporta che
gli “uomini erano impegnati a trasportare le casàre di legno di una malga italiana. Dovevano prendere il legname di quelle vecchie e portarlo in altro luogo,
dove rifare le casàre daccapo.”
Queste soluzioni permettevano al pastore di vegliare sugli animali rinchiusi
entro uno steccato mobile, la mandra, dimensionata per poter essere smontata e
rimontata in un giorno da un uomo solo.
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone
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Strutture molto antiche sono anche i grandi ovili, dove all’inizio della monticazione e prima di accedere ai pascoli viene racchiuso il bestiame proveniente
dal fondovalle, per una precauzione sanitaria non così ovvia: gli ovili sono in
condominio e come tutte le attività dell’uomo sulle alpi sono condotti secondo
le Regole, di villa o consorzio.
Affiancando l’abitazione precaria in malga fino a sostituirla, l’organizzazione
del pascolo si evolse verso edifici stanziali. Un ibrido fra gli ovili in lastre di
pietra e la capanna a tecnica mista dovevano essere le Vecchie Malghe a Millegrobbe, di cui si ricorda ancora che le pareti verticali erano realizzate con la
stessa tecnica degli ovili e dei margini stradali.
Se nelle forme iniziali l’insieme della malga si può limitare ad un capanno
circondato da pascoli, si passa progressivamente a soluzioni articolate su più
elementi con funzioni diverse, comunicanti tra loro a due a due e formanti
corpi distinti, smontabili e trasportabili in quella parte di pascolo che si vuole
concimare. I due corpi si affacciano su una corte che spesso è recintata. Col
passare del tempo la muratura sostituisce il Blockbau e la malga diventa “stabile” (da cui i termini locali stabi e stabièl).
Il nucleo è la casàra, dove si produce e si conserva il formaggio, articolata in
diversi ambienti (la casàra del fuoco, la casàra del latte, il casarìn). Vi sono poi
gli staléti per i maiali e spesso anche il pollaio, la stalla per i bovini, che nelle
malghe più povere si riduce ad un semplice ricovero per ospitare qualche capo
ammalato, e un piccolo orto delimitato da un muretto a secco. Nel sottotetto si
incetta lo strame, ma, quando vi dormono i lavoranti, si intramezzano anche
delle camere19.
La casa tradizionale di Luserna nacque sullo stesso modello delle casàre, in
legno prima, in pietra poi. I primi masi risalgono al XV secolo, mentre l’assetto
urbanistico delle due frazioni principali, Luserna e Tezze, è dovuto alla loro
posizione invidiabile, che nel Seicento attrasse famiglie da Asiago, Lavarone,
Roncegno e Terragnolo.
In conclusione...
Durante la fase di affermazione dei regni romano-germanici i poteri pubblici, per quanto deboli, non erano stati messi in discussione. Successivamente,
con l’insorgere della feudalità, questa condizione venne meno a causa dei nuovi
poteri privati. Dalla nuova situazione sarebbero state generate alcune componenti fondamentali per l’assetto definitivo del paesaggio costruito, veri e propri
“fossili”, eredità pre-industriali sedimentate nel quadro ambientale odierno. Si
19
Le casàre stanziali di Luserna venivano referenziate la prima volta in ANICH, HUEBER
1774.
Paolo Zammatteo
36
tratta di interventi puntuali (gli edifici), vocazioni del suolo (es. i pascoli), strade
e confini istituzionali. Vanno ricordati soprattutto:
la Curazia di Brancafora, che ebbe possesso di gran parte del Monte di
Luserna e lo rese impermeabile allo sviluppo di nuovi insediamenti fino
al XV-XVI secolo;
l’Ospizio di Lavarone;
l’Ospizio di Monterovere, che conferma l’importanza del rio Torto
come via di accesso agli altipiani;
indirettamente i documenti, che a partire dal 1202 dimostrano la compresenza di poteri diversi, pubblici e privati, sul Monte di Luserna.
Tutto ciò dimostra la presenza di modelli istituzionali e infrastrutturali strategici, che anticipano in parte l’ammansamento medievale. Non serve però a
giustificare i ricoveri per animali di Lanzino, l’ovile di parte vicentina, segnalato
da Tomaso Franco a valle della fraz. Piccoli, l’analogo recinto sotto Carbonare
lungo un’antica via per Lastebasse. Per essi la spiegazione potrebbe venire dal
modello organizzativo delle malghe, impiegato altrove anche in epoche recenti.
Infatti le comunità di valle20 spesso usavano mantenere un grande appezzamento tenuto a prativo, su cui insisteva un rustico (stallafienile), pertinenza di una o
più unità rurali oppure risorsa esclusiva di un potere signorile. A questo modello si riferirono sicuramente l’origine del Masetto di Brancafora, in valle del Rio
Torto, e di Barco (= barga, ricovero per animali), la frazione di Levico alla base
del monte sul versante della Valsugana da cui era possibile raggiungere Vezzena, passando dal Menador.
Una lettura dinamica della viabilità ha consentito di riconoscere come al
volgere dell’età castellana erano cambiate molte cose:
1.
2.
3.
20
nel XV secolo era prevalsa la posizione della fazione tirolese, e ciò condizionò favorevolmente l’occupazione del Monte di Luserna da parte
dei pastori lavaronesi;
dalle nuove condizioni sarebbe sorto l’insediamento stanziale, che con
le sue corti e nelle case in linea avrebbe ricalcato le tipologie costruttive
delle malghe;
strettamente legata all’importanza di Brancafora, l’antica salita del Rio
Torto passò in subordine, dapprima come tracciato minerariometallurgico fra il Monte Horst e la Valdastico, ma anche in questo
senso declinò rapidamente;
Già organizzate in “vile”.
Luserna, le antiche strade di confine e il passo di Lavarone
4.
5.
6.
37
il lento insorgere di un nuovo pensiero rispetto al territorio, alla funzionalità dei collegamenti, alla gestione territoriale comportò poi il declino della strada di fondovalle lungo il torrente Tòra e con essa del
passo del Bisele;
Monterovere si trovò all’incrocio fra la cinquecentesca via della Val
d’Assa e le strade secondarie per Caldonazzo e Folgaria. La sua importanza venne meno, quando anche i menadori risultarono ormai del tutto inadeguati ai commerci;
da ciò dipese anche il riassetto “definitivo” della Via Imperiale attraverso Lavarone, con il Lanzin Novo in Val Caretta, dove nel 1699 i passanti
puono viagiare comodamente, senza meter in rischio se medesimi, et cavali et altre
sue robbe (CAROTTA 1997,p. 28) e l’abbandono definitivo dei passi orientali.
Per una lettura più ampia e per maturare una opinione circa l’interesse rivolto alla viabilità nei secoli passati, un atto di estremo interesse è conservato
all’Archivio di Stato di Trento negli “Atti dei confini” (Serie I. Fasc. 47, pos.
14). Si tratta di una dichiarazione di parte veneta circa le strade sugli Altipiani
fra Trento e Vicenza, databile con buona approssimazione al 1629.
“[S.n, s. d.]
Memoria delle strade che possono fare gli Austriaci per venire su nille Montagne dilli 7.
Communi dove e poi facile intrare nel Teritorio Vicentino, Padovano, et nil Bassanese.
P°: possono venire per Folgaria, et di Folgaria in Lavaron, e poi in Asiago passo largo.
2°: Vi è Lanzino passo ordinario de Lavaron.
3°: Vi è il Coregio de Cavorzo, strazordinario Jurisdicione dil Castello di Biseno.
4°: Vi è il Menador Vecchio.
5°: Vi è il Menador Novo che si fa ordinario partendosi da Asiago per Trento, qual ariva a Levigo.
6°: Vi è la Val di Santa Ulgiana et viene a dare in campo Mandriolo strazordinario,
Jurisdicione dil Ill.mo Sig.r Card.le di Trento.
7°: Vi è la porta de Manazo, qual ariva al Borgo di Valsugana strada ordinaria de Asiago per ove si ponno condur anco le artelarie.
8°: Vi è poco discosto un Coregio qual si ponbo servire à vinire à dar in una Somita da
Manazo ditta Linzoletta.
9°: Vi è un altro Coregio nelle cime di portel, qual va alle hole poco discosto dal Borgo de
Valsugana.
10°: Vi è nilla Somita ditta Linzoletta, un altro passo qual comincia per mezzo Castelnuovo, et viene à dare nella Montagna dille poze Jurisditione dil Sig.r dil Borgo di Valsugana.
11°: Vi è Un altra Vale dove possono venire per mezo l’Hospidaleto, quale viene a dare
nella Montagna de galmerara facile.
38
Paolo Zammatteo
12°: Vi è la strada Traversa di sopra la pertica, la quale viene a dare nilla Somita de
Campo Cavera.
13°. Vi è la pertica qual da in Campo Cavera.
14°. Vi è il Col dil Arco che viene in Frizon.
15°. Vi è la Saita qual parte sopra Primolan alla volta d’Enego, Giurisdicione di Castel
Vivano.
A questo s’aggiunge che l’anno passato il Cavaglir Caldogno è venuto a vedere un posto
sotto Folgaria, quale ha indicato di poter battere il Castel di Biseno. Vi si ha mandato un
Cap.o Cosmi di ordine di Rettori di Vicenza per considerare ditto passo.”
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Paolo Zammatteo
I minatori degli Altipiani negli scavi e nella leggenda
In passato la presenza di attività minerarie e di forni di lavorazione aveva
grande impatto sulle comunità locali: la casta chiusa dei tecnici, che usurpavano
platealmente il legame sacro dell’uomo con la natura, aggredendone l’essenza e
trasformandola irreversibilmente con costi enormi e danni ingenti, veniva vista
per il suo verso oscuro, quello più prevaricante e distruttivo. Trattandosi poi
spesso di una presenza “forzata” (nel medioevo i tecnici erano chiamati dalle
signorie per trovare ad ogni costo risorse sotterranee sfruttabili), l’impatto dei
metallurghi fu interpretato come più violento, letteralmente contro-natura.
Ma, come è giusto che sia, l’anima del mondo, così saggiamente ascoltata dai
montanari dediti alla pastorizia, può ancora prevalere: una leggenda, citata da
Aldo Gorfer (GORFER 1977, p. 316), parla della miniera del Melegnon, presso
Passo Coe a Folgaria: nel medioevo sarebbe stata il motivo dell’arrivo sugli Altipiani di maestranze minerarie, che poi convertirono la propria attività alla coltivazione del suolo.
Sul Monte Melegnon, probabilmente in Valle Orsara, fu realmente attiva
almeno una miniera di ferro (GORFER 1977, p. 316)1 e altre si trovavano a
Casotto, in Val Barberena e in Valle dell’Orco. C’è memoria di una miniera
medioevale in località Grimen, sopra Buse e di fronte a Carbonare.
La ricerca dei filoni avveniva seguendo i corsi d’acqua e nelle cavità, dove
era più probabile che emergesse la vena metallifera, osservando le colorazioni
delle rocce alla ricerca di ossidazioni, riprendendo gli scavi dove c’erano discariche precedenti, pozzi, gallerie, sondaggi, o anche scoria di prima lavorazione.
In varie situazioni a nord della Valsugana tutto fa ritenere che i prospettori
medievali abbiano riutilizzato giacimenti intaccati superficialmente nell’età del
bronzo, individuabili per le tipiche conche innaturali sui versanti e soprattutto
grazie alla presenza di scorie: nel medioevo e nel rinascimento la coltivazione
sarebbe ripresa anche in modo intensivo, lasciando a testimonianza di un lungo
1
VON SRBIK 1929. L’Autore, riferendosi alla concessione del 1282, cita la miniera di ferro sul Monte Melegnone e indica che il minerale estratto veniva trasportato verso Vicenza.
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Paolo Zammatteo
periodo di sfruttamento gallerie e pozzi, talvolta particolarmente belli e straordinariamente ben conservati grazie al fatto che alla metà del XVI secolo
l’estrazione venne interrotta bruscamente per essere poi abbandonata del tutto.
Miniere sugli Altipiani
I primi atti relativi a miniere nel Trentino sud-orientale provengono dal distretto di Castel Beseno, confine meridionale dei domini tirolesi e vescovili.
Nel 1242-43 Odorico di Beseno otteneva per sé e nipoti una parte del livello de
vena ferri et de bosco et aqua, in plebatu Beseni et de 6 plodiis ubi voluerint prope furnum,
nonché sulla miniera di Garniga del Bondone (venam Garnige), avendoli investiti,
su autorizzazione del podestà imperiale di Trento Sodegerio da Tito, a Mercadante e soci (REICH 1887, p. 10)2.
Il documento successivo, datato 16 gennaio 1282, indica l’avvio di una
campagna di ricerche oltre il crinale con la Valdastico3. Qui i concessori erano
consorziati in ragione di uno jus locationis di assegnazione vicentina: il potere vescovile non viene menzionato e la compagnia proveniva dalle alpi bergamasche, che per l’estrazione dell’argento avevano costituito un precedente rispetto
a Trento, dimostrando una organizzazione del lavoro ben precisa già nel tardo
XI secolo. L’esempio del 1282 afferma la validità oltre i confini del principato
del codice minerario di Trento, in tutto sette documenti del periodo 1208-1213
inseriti negli statuti cittadini.
L’ambito di rapporti fra l’organizzazione delle società minerarie trentine e
quelle più antiche del Bergamasco – Ardesio, Val Seriana (FRANCOVICH et
Alii 1994), l’uso di particolari tecniche di scavo4 e il rapporto fra il monastero
benedettino di Vallalta (BG) e quello di San Lorenzo a Trento, dove vennero
stesi i primi atti del codice minerario (MOSCHETTI 1925, p. 361), indicano
una eredità lombarda nel giovane contesto estrattivo trentino, all’epoca interessato soprattutto al rinvenimento di risorse argentifere destinate alle zecche cittadine.
2
3
4
GORFER 1980, p. 98 e nota 30 a p. 155. Sul Bondone due camini ostruiti sono stati rinvenuti al Doss dei Laresi, ancora oggi appartenente al Comune di Garniga.
BIBLIOTECA CIVICA BERTOLIANA (Vicenza), ARCHIVIO DI TORRE, Montagne –
Libro I N° 34. Altra copia: T. VALLE, Raccolta di documenti estratti da opere stampate e manoscritte ed altre memorie riferibili alla storia civile ed ecclesiastica di Folgaria scritte da Tomaso Valle di
Folgaria (BIBLIOTECA COMUNALE DI TRENTO, ms. 2405, n.28, op.cit.) [B’’]: copia
ottocentesca. REICH 1973, p. 29 e nota n. 22.
A Faedo è esemplare il caso delle Camere a Band. Anche sul monte Calisio sono stati riconosciuti i tratti di una tecnica di scavo di impronta lombarda.
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon
45
Nel 1423 Bernardo Vintiller, figlio del nobile Francesco Vintiller da Bolzano, accettava un lascito da parte di Domenico del fu Federico da Lavarone in
qualità di ministro della Confraternita dei Werki (minatori) del borgo e della
Pieve di Pergine5. Testimonianze antiche su segni di miniere medievali sugli Altipiani sono le note di A. Dal Pozzo (DAL POZZO 1985, pp . 218- 219) e di
C. Ausserer (AUSSERER 1996, p . 82).
Dipendevano dalla Pieve di Lizzana le attività minerarie e siderurgiche di
Vallarsa (in Val Ometto, a Speccheri e a Foppiano - plano furni nel 1353) e
Trambileno (in Valle dei Lombardi, dove in località Le Slacche due fonderie
contigue erano collocate lungo un tragitto che dall’alta valle porta verso San
Nicolò). A Stedileri nel Settecento veniva data una concessione per l’argento e
a Malga Fratòm sul Monte Lancia si ricordano ricerche aurifere ottocentesche.
La miniera di Casotto (CALDOGNO 1598) si trova sulla destra del torrente
Toretta, dove sono riconoscibili due ingressi nascosti da un vasto fronte di sterile, che costeggia la strada. Quello più in basso è quanto resta di una galleria
secondaria del tipo a ogiva. Più in alto, oltre un breve tratto di sentiero e scarpata sotto roccia, l’ingresso principale si presenta ancora come venne descritto
nel Settecento da Agostino Dal Pozzo (DAL POZZO 1985, p. 218). Seppure
rinfrancato con calcestruzzo, il muro di chiusura con il piccolo foro sovrastante
esiste ancora: dietro si apre uno stanzone, certamente intatto da epoca antica,
mentre la galleria principale si trova poco a monte: si inerpica quasi verticalmente a inseguire la vena per alcune decine di metri.
Nella miniera si è rinvenuta Ankerite, un carbonato di ferro economicamente irrilevante, composto per metà di calcio, un quarto di ferro e un quarto di
magnesio: ben più utili potevano essere il “cappellaccio” limonitico (idrossido
di ferro, o Goethite) o la Siderite.
Per i carbonati era necessario l’arrostimento in legrana (o regana), un impianto
simile a un forno a cupola celtico e interamente interrato nel pendio, realizzato in
pietra arenaria o quarzo (Val Camonica) e di diametro maggiore rispetto a un
forno a torretta: per le varie analogie si può ricondurre a una legrana quanto restava di una struttura sul Rio Torto, la cui particolarità principale era il fondo in
5
Documento esistente nell’Archivio Parrocchiale di Pergine con segnatura sbagliata, 1483 e
non 1423.
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Paolo Zammatteo
argilla compatta e a crogiolo. Nel 1440 era in funzione un “forno del ferro”6,
l’unico impianto metallurgico registrato a Lavarone: essendo in valle del Rio
Torto era prossimo agli scavi del Monte Horst (AUSSERER 1996, p. 82)7.
Tradizione vuole che i forni siano stati trasformati in calchere: una, ben conservata, si incontra sulla sinistra poco addentro alla valle sul percorso che da
Brancafora risale il torrente sulla sua sinistra idrografica. Coerentemente con
quanto già rilevato, si pone anche la memoria locale, che pone anche la condizione di un’attività mineraria esclusivamente stagionale, quindi di un apprendimento delle tecniche estrattive ridotto all’ambito familiare (LARCHER 1995,
p. 223).
Nell’atto di investitura del 1282 ci sono due riferimenti8: l’origine dei minatori, qui fuerunt de episcopatu Bergami, e il tuvo de ferro, che fa pensare ad una escavazione a cielo aperto, tutt’altro che insolita a quei tempi. Sotto questo profilo i
calcari grigi sono esemplari: nei punti di contatto e all’interno delle crepe possono conservare residui degli strati superiori dilavati o nuclei di origine organica, in particolare sotto forma di ossidi metallici.
I Lombardi erano esperti nella estrazione e lavorazione dei carbonati e praticavano tecniche, che trovano riscontro perfino in Toscana (MENICONI
1984, p. 211).9
Miniere che mostrano un’analoga tecnica di scavo sono note in Italia, oltre
che al Monte Calisio in Trentino, anche nell’Appennino ligure in provincia di
Savona e nelle Colline Metallifere in provincia di Grosseto. In quest’ultima località, come anche nel massiccio della Grigna, le cosiddette grotte-miniere si
sono conservate integre; si tratta di cavità in parte naturali (vecchi condotti carsici) ed in parte artificiali. In queste grotte gli antichi prospettori osservarono
6
7
8
9
ARCHIVIO DI STATO DI TRENTO, CAPITANATO DISTRETTUALE DI TRENTO – MINIERE. I.: 1888-896. G. Sartori, manoscritto. Dall’atto di archiviazione risulta
che la data di stesura è il 3 maggio 1894. Inoltre pare che parte delle notizie siano state assunte da documenti originali, di cui non si conosce la collocazione attuale, e che si tratti
dei medesimi utilizzati (o scritti) da p. DAL POZZO (1985), op. cit., pp. 218, 219.
La presunta tetraedrite di cui parla l’Autore è da identificarsi con un altro minerale di ferro, probabilmente ematite. Unico altro riferimento a una miniera a Lavarone è in STELLA 1957, p. 200: “nel maggio del 1713 furono investiti di una cava di gesso a Lavarone
Giovanni e Gio-Batta Muneretti”. CATASTO AUSTRIACO. MAPPE. N. 164, Comune
Lavarone, Foglio 6 (anno 1856): “Hinter Hurst”, confina a Nord “Belen”, a Est “Monterovere”, a Sud “Gabriolle”, a Ovest “Tablat”. MUSEO STORICO ITALIANO DELLA
GUERRA – ROVERETO - FOTO AEREE. RV130/155: “Magre e zona a sud di Monte
Horst (quota 1387), 17/10/1915”.
BIBLIOTECA CIVICA BERTOLIANA (Vicenza), op. cit..
Riguardo a Siena, a fine Trecento e inizio Quattrocento la città era ancora sede di un importante mercato del ferro, mentre alcune compagnie senesi operavano nel settore siderurgico con sedi secondarie fino a Brescia.
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon
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tracce di mineralizzazioni e ne intrapresero lo scavo limitatamente a quelle zone dove affiorava il filone.
Una prima cernita del minerale avveniva all’interno dei cunicoli, sia in corrispondenza delle piccole camere di coltivazione, sia per riempire di detriti la
parte inferiore di gallerie inclinate ed abbandonate (TIZZONI 1997, p. 273).
L’influenza della più antica cultura mineraria lombarda si manifesta episodicamente in tutto il Trentino, secondo una mobilità in direzione Ovest-Est: nel
1223 risulta un giuramento di fedeltà reso nell’episcopato di Bergamo ai signori
di Giovo e Faedo10, il cui castello si trova in Val d’Adige, ben più a Nord. Da
Faedo dipendeva la prima miniera d’argento documentata in Trentino, oggetto
di compravendita fra i signori di Faedo e il vescovo di Trento nel 1185. Si trovava nelle Giudicarie (area di Preore), una zona soggetta ancora al vecchio ordinamento lombardo, stirpe da cui discendeva anche l’antica famiglia comitale.
Minatori valtellinesi erano presenti sul Calisio e a Viarago11.
Ma è del tutto particolare e considerevole la frequenza e la varietà di indizi,
anche indiretti, che si incontrano fra Lavarone e le Valli del Leno: i toponimi
Val dei Lombardi a Terragnolo e rivo dei Bergamaschi (REICH 1973, pp. 169-171),
il Rio Bianco; le leggende con il nano Lombardo a Trambileno (ŠEBESTA 1980,
p. 83), figura fantastica di ispirazione mineraria.
Sugli altipiani tra Folgaria, Vallarsa e Lavarone più diffusi sono i toponimi
metallurgici.
Forni di Tonezza deve il suo nome all’intensa attività di lavorazione del minerale, che si estraeva dalla Val Barberena e veniva condotto attraverso il Passo
della Vena. E Forni Valdastico riprende lo stesso motivo, ma per la lavorazione
del ferro di Brancafora e San Pietro.
A Folgaria troviamo Burfla (assaggio minerario) e Cechen (Zeche, compagnia mineraria). Sempre a Folgaria-Guardia c’è memoria di una antica miniera
di rame in località Hindertoll - che sarebbe stata chiusa dopo una frana - e si
trova ancora calcopirite (LARCHER 1995, p. 223). Maso Zeche è in Vallarsa e
non è molto distante da Ometto, dalla Val Gerlano e dalla miniera “d’oro” di
Speccheri, attiva fino al 1902. In Valle del Cherle, una valletta laterale a Omet10
11
A margine di un avvenimento del 1223 si profila un legame dei da Giovo con il Bergamasco: Lucarda di Otelino di Caldaro giura fedeltà come donna della masnada di Concio di
Giovo (GORFER 1990), I castelli del Trentino. Guida, Arti Grafiche Saturnia, Trento 1990:
Vol. 2°, p. 80). L’avvenimento viene celebrato a Porta (S. Agostino), sede anche della società mineraria del 1289.
La vicenda è ampiamente descritta in: ZAMMATTEO 2003, Viaggio attraverso un pezzo di
storia del Trentino. L’eredità mineraria medievale e l’Alta Valsugana, in “Il Trentino”, rivista della
Provincia Autonoma di Trento, anno XL, Numero 260, Trento 2003. ZAMMATTEO
2000, ZAMPEDRI et Alii 2004, Le miniere d’argento di Viarago, in A.A.V.V., Storia del paese
nei documenti e nei ricordi. Viaracum, Vilrag, Viarac, Viarago, Pergine Valsugana 2004.
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Paolo Zammatteo
to, è stata anche rinvenuta galena argentifera (PERNA 1964, p. 73). Ciechi si
trova a Pedemonte, [d]Ercech a Noriglio, dove una frazione di nascita recente,
Fucine, ricorda la presenza di fabbri ferrai (MASTRELLI ANZILOTTI 1994).
La zona compresa fra Trambileno e Terragnolo presenta testimonianze di
attività fusorie localizzate e tracce toponomastiche di indubbia origine medioevale, perché legate a termini tecnologici minerari del tempo: e le aree di Terragnolo, Trambileno e Vallarsa vantano un documento inerente forni - risale al
1353 un atto relativo alla loc. Sul Hual, in cui si parla della extimationem mansi de
Huale a plano furni – Foppiano (ŠEBESTA 1992, p. 210) - e una campagna di
ricerca dell’argento, questa però di epoca recente, al di sotto di Stedileri12. La
Val delle Caldiere sale agli altipiani da Olle in Valsugana. Val delle Pignatte,
compare a Terragnolo, e sarebbe la traduzione errata di Ofental, “Valle del
Forno” (BATTISTI 1969, p. 197). La frazione Peltrèri lungo la valle ricorda la
lavorazione di rame e piombo. Ferri e Staineri sono in Vallarsa (come “ferri” si
indicavano gli attrezzi di scavo, e spesso erano realizzati sul posto per l’uso locale; “Stein” in tedesco). A nord di Staineri ci sono Fornace e la Val del Restèl,
dove sono state ritrovate scorie di fusione (ŠEBESTA 1992, p. 210).
Slachenpach rimanda alla stessa etimologia di Slacche (scorie di fusione) a
Terragnolo13. In Smitta, voce cimbra settecentesca per Smithaus, fucina, si trova a Folgaria: da essa deriva il soprannome dei Fabro, “Smidéri”.
La Val de L’Azàl sulla sinistra Leno a Terragnolo (trascritta erroneamente
nella cartografia recente come Val della Zal) ricalca il riferimento toponomastico medioevale azale. Maso Slacche sorgeva lì sopra, mentre Ferrartal è il versante della montagna poco più a Est, di fronte a Peltrèri e alla Val delle Pignatte.
Al ricordo di attività al fuoco, nella sola Pedemonte, sono legate le località
Fornei a Ciechi e il Gorgo de la Fornass sul Rio Torto14.
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13
14
ARCHIVIO DI STATO DI TRENTO, Notai Rovereto, Giovanni Battista Grasser, 18
maggio 1758 c. 227. Il documento è citato in I. PROSSER, Le Slache e il Piàm del Levro, Tipografia Stella, Rovereto 1999.
“Lo Schneller raccolse sul posto la notizia che lì esistevano miniere. Nel 1472 si parla di
un mansus Yslachi, che lo Schneller intende come Eisenschlag, cioè “scorie di ferro”. Egli
interpreta, forse a ragione, che non si tratta di “scorie”, ma di “fucina” e vi vede perciò
l’antico alto tedesco “Slac”, nel senso di “martellamento”. Scorie minerarie furono lì rinvenute all’inizio dell’Ottocento dal botanico roveretano Cristofori” (BATTISTI, op. cit., p.
197).
Qui esistevano una cava di argilla e la fabbrica di coppi che produsse il manto di copertura della chiesa di Santa Maria di Brancafora.
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon
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Il Loch von Geld, nascondiglio di un tesoro leggendario (BACHER 1905)15, è
una cavità tra Millegrobbe16 e il Forte di Luserna accomunabile, per certi versi,
a una grotta-miniera: gli indizi sarebbero la conformazione delle cavità e una
striscia di colore verde ramina nella volta della cavità principale, oltre a particolari colorazioni azzurre nel calcare, seppur lievi. Manca ogni traccia del minerale, che, però, sarebbe stato asportato del tutto.
L’apertura, nascosta da una macchia di abeti e al fondo di un tovo, entra
con pendenza moderata nella roccia calcarea. Subito all’interno si trova una
camera piuttosto vasta. Poche strutture lignee non hanno impedito il distacco
di un grosso blocco calcareo all’interno.
Almeno in tre direzioni si diramano basse camere, delle quali una piuttosto
profonda, sempre con un andamento incerto e irregolare.
D’impatto l’aspetto darebbe ad intendere che si sia di fronte all’ingresso di
una miniera. Come si è già detto, sulla volta del passaggio principale una striscia di calcare esposto all’aria e intriso dall’acqua muta repentinamente colore
dal bianco grigio al verde intenso e le altre cavità sembrano seguire
l’andamento bizzarro di una vena di minerale.
Pare che nei pressi (Millegrobbe) siano stati rinvenuti campioni di galena:
blenda si rinveniva nella cava di Scalzeri, sotto Luserna.
Possiamo ipotizzare che la tecnica di prelievo del minerale di Foresta Paroletti sul Monte Fronte (Levico) (PREUSCHEN 1973, pp. 113-150), superficiale
e per rapina, fosse in uso anche qui: e per una semplice analogia, date le molte
somiglianze, può anche darsi che il Loch von Geld sia il frutto di nuovi sondaggi più recenti (XIII o XIV secolo) su una coltivazione meno accurata e più
antica.
In contrasto con quanto risulta da questo primo confronto, tra Millegrobbe
e la località Knöttla sono comparse alcune schegge di scisto filladico, presente
solo a quote più basse, a Lavarone-Piccoli (la “Spaccata”) e nei dintorni del giacimento a solfuri misti di Calceranica in Valsugana (PASSARDI et Alii, 2004).
Dalla ricerca sul tema delle localizzazioni e dei rapporti fra aree di estrazione e
aree di produzione del semilavorato può emergere una realtà complessa e
controversa.
In realtà la presenza di maestranze minerarie medievali non può essere accomunata all’origine di alcuni insediamenti, perché lì prevalse sempre il riferimento silvopastorale, mentre la pratica mineraria si mantenne in un ambito ri15
16
L’opera comprende la trascrizione di vari racconti, poi tradotti in BELLOTTO (a cura
di), op. cit.; DAL POZZO 1978, pp. 180- 181.
Qui nelle rocce sedimentarie sono state segnalate piccole mineralizzazioni a galena, solfuro di piombo.
Paolo Zammatteo
50
stretto e a scala familiare. L’attività estrattiva si svolgeva in inverno: d’estate ci
si occupava del legname, della produzione di carbone, dell’allevamento.
Pochi segni a Sud del Monte Horst tra Lavarone e Luserna sono quelli di un
sondaggio all’altezza del Km 35 della strada provinciale, là dove pare sia intervenuto uno scavo più antico, superficiale, per pietre da mola17, e quelli descritti
da Carl Ausserer a Carbonare sono assenti: poco si può dire delle miniere ricordate in Località Grimen, sulla destra dell’Astico e nei pressi di Buse18, salvo
che sopra la Strada Statale della Valdastico una piccola discarica di materiale
spezzato grossolanamente e prevalentemente calcareo si confonde tra la vegetazione a un centinaio di metri a Est dall’affioramento di un filone silicizzato,
proponendo una condizione ampiamente verificata per le coltivazioni minerarie in tutta l’area più a Est (Recoaro, Tretto).
La promiscuità rende particolarmente difficile il riconoscimento delle tracce
e non ha risparmiato nemmeno i resti dell’intensa attività fusoria dell’età del
bronzo: non si può dimenticare quanto affermava E. Lorenzi riguardo alle scorie, che si rinvenivano abbondantemente nella Valle dei Lombardi (o Val de
l’Inferno) a Trambileno, presso Maso Slacche19: ve n’è ancora in quantità e
nell’affittanza di alcune malghe si imponeva l’obbligo di sotterrarne una certa quantità ogni
anno (LORENZI 1981).
Leggende minerarie cimbre
L’area “cimbra” e l’alta Valsugana sono ricche di leggende in ambito minerario. Il tema più rilevante riguarda la comparsa dei tesori e la loro natura diabolica (SCHWEIZER 1984, pp. 125-129): nei pressi di Malga Valli a Trambileno il diavolo protegge un tesoro presentandosi come un serpente gigantesco
(ŠEBESTA 1980), l’Aspio (NERI 1996, p. 196). In La miniera maledetta (NERI
1997, p. 187), (Le Slacche - Trambileno) e in Il diavolo e le bocce d’oro: la miniera
d’oro degli Speccheri in Vallarsa (NERI 1997, p. 195) ha l’aspetto di un ariete nero.
Anche al Gorgo de la Fornass, vicino a Pedemonte-Longhi, un enorme masso ortogonale è denominato Scatola del Diaolo. La fantasia popolare ha visto più volte il diavolo
balzare da un masso all’altro lungo la valle20 come un grande e nero caprone (CAROTTA
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Nell’area sono presenti, superficialmente, un piccolo manufatto in porfido, che reca una
singolare incisione longitudinale da usura, e una pietra arenaria su cui è incisa a coltello
una figura quadrangolare con una breve linea verticale inscritta.
Segnalazione del signor MASSIMO FOLGARAIT, Custode Forestale a Terragnolo.
“Tra quota 700 m. e quota 950 m. in un tratto di monte, che va da Maso Slacche alla Val
de l’Azal, le uniche tracce rinvenute sono quelle di due fonderie distinte ed apparentemente coeve” (GRAMOLA et Alii 2000).
Si tratta della Valle del Rio Torto.
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon
51
1997, p. 317), e a Lavarone nel Prato dell’Anthal un tesoro protetto dal diavolo
è nascosto sotto un masso (GORFER 1977, p. 358).
A Luserna, secondo Zingerle, piccole luci notturne segnalano la presenza di
tesori: sono le anime dei defunti, che le custodiscono (SCHWEIZER, p. 125).
Le leggende lusernesi di contesto strettamente minerario sono Verborgene Schätze, ‘S Loch von Geld, ‘S Schnaidrarle. Le ultime sono state raccolte da Josef Bacher (BACHER 1905): il primo racconto venne inserito da M. Nicolussi Raut
nel suo diario, redatto nei primi anni del Novecento21. In Verborgene Schätze
prevale il riferimento al fato, alla casualità del ritrovamento, ma ciò che dapprima appare come materia insulsa, dimostrerà poi il suo valore22. Ci sono alcuni temi classici, il carattere magico del riconoscimento del minerale, l’argento,
il metallo più ambito dalle ricerche medioevali e la sua trasformazione in monete.
In ‘S Loch von Geld tre maghi “nella piazza di Venezia” (vo’ Wenéde, vo’
Wenédige) informano due lusernesi dell’esistenza di una grotta vicina al paese,
dove ogni anno tra il 15 e il 16 luglio il diavolo espone il suo denaro ad asciugare, ora camuffato in un modo, ora in un altro. Analizzando i racconti cimbri, B.
Schweizer (SCHWEIZER 1984, p. 129) non riconosce né la figura mineraria
del “Venediger”, leggendario cercatore di metalli, né il riferimento al seccaggio
del minerale, un trattamento che veniva effettuato dopo la cernita tramite macinatura e lavaggio del materiale. A Lavarone – Cappella è nascosto un paiolo
colmo d’oro23. Dove non si sa, né quando compare, una sola notte all’anno e
alle quattro del mattino. A Lavarone - Slaghenaufi c’è una grotta, il Chèlda
Platt, che è il “paiolo di soldi”. A Trambileno in La miniera maledetta (NERI
1997, p. 187) riappare la “piazza di Venezia” e il nano Lombardo (ŠEBESTA
1980, p. 83) è un Venediger: in Vallarsa c’è un racconto rabdomantico a Ciechi
(NERI 1997, p. 194) , da Zeche, “compagnia mineraria”.
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23
CENTRO DOCUMENTAZIONE LUSERNA, M. Nicolussi Raut, Die Vergessenen von Lusern, Athesia, Bolzano 1998, p. 73; Verborgene Schätze.
“Il motivo del tesoro è un autentico archetipo della tradizione popolare, sia della fiaba che
della leggenda. La leggenda è legata sempre ad un aspetto molto concreto e tangibile, da
cui scaturisce l’immaginazione fantastica. L’oro non proviene dal nulla, non <c’è> semplicemente come nella fiaba, ma rivela la sua presenza tramite segni strani e interpretabili
solo se la persona giusta coglie a tempo debito l’occasione propizia: la pietra apparentemente dozzinale si trasforma in materia preziosa solo seguendo determinati riti. È davvero un’immagine molto efficace quella dell’arcano sapere metallurgico al fine di riconoscere
le pietre adatte a sottoporle a ben precisi trattamenti per compiere la miracolosa trasformazione di terra grezza in minerale fine” (KINDL 1993, p. 187).
AZIENDA PER LA PROMOZIONE TURISTICA DEL TRENTINO, Leggende degli
Altipiani di Folgarìa, Lavarone e Luserna. Trentino da Leggenda, Tipografia Alcione, Trento
2000, p. 12; La pentola colma d’oro. Il racconto seguente, Bus del Stofèl. L’Uomo Selvatico, sempre da Lavarone, non contiene riferimenti alla figura fantastica dei molti racconti di montagna, bensì un più immediato rimando alla figura dello scorbutico, del burbero.
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Paolo Zammatteo
In ‘S Schnaidrarle due stranieri chiedono ad un ragazzino di precederli in una
caverna, di cui né lui, né altri del paese conoscono l’esistenza: per ricompensa i
due sconosciuti gli donano alcune schegge di roccia, che poi si trasformeranno
in argento; sorridendo lo chiamano “piccolo sarto”, indicandogli il mestiere che
apprenderà da adulto. Se potevano rimanere dubbi sulla riconoscibilità del Venediger, ’S Schnaidrarle li dissipa. I due stranieri trovano l’imbocco di una grotta
sconosciuta, conoscono i segreti della trasformazione della pietra in metallo
prezioso, possono presagire il futuro (BELLOTTO 1978, pp. 180-181, 218). Il
ragazzetto viene mandato avanti perché innocente, quindi il diavolo, che protegge l’argento, su di lui non ha potere (SCHWEIZER 1984, p. 129). L’azione
di ’S Schnaidrarle si svolge alla Rocca Tampf, il crinale roccioso a Est del Bisele,
sulla quale un anziano della famiglia Baiz di Luserna affermava di conoscere
l’imbocco di una miniera.
I maghi rivolgano la loro attenzione a cavità esistenti: può davvero esserci
un riferimento alle grotte-miniera, oppure il ricordo della ricerca di antichissimi
punti di estrazione come possibili siti per nuove imprese minerarie.
La figura più importante rimane il demone custode, ora ariete ora aspio, ovvero il basilisco, re delle biscie (ZAMMATTEO 2001-a)24. Le sue origini vanno
legate ai fossili: le ammoniti erano spire di un serpente pietrificato o l’impalcato
di un ariete. Si spiegano il diavolo in forma di caprone nero e i serpenti giganteschi, posti a proteggere ricchezze incredibili celate, guarda caso, nel fondo
delle caverne tanto ricercate dai Venediger.
Affiancando il culto dei santi patroni, originario del nord e carico delle sue
suggestioni fantastiche, il serpente alato ha trovato ampio spazio
nell’iconografia religiosa25: in ciò prosegue la tradizione di fondere eredità pagane e culto giudaico-cristiano. In quest’area il rettile viene associato frequentemente all’iconografia e al culto di santa Margherita, a cui sono dedicate la
24
25
ZAMMATTEO 2001-b; ZAMMATTEO 2001-c ; ZAMMATTEO 2001-d.
La gente veneta ha conservato la vecchia forma latina Margarita. In Oriente si chiama Marina e la tradizione popolare di origine medievale la celebra con i “Misteri di Santa Margherita”, una famosa opera teatrale di piazza; l’agiografo Giacomo da Varazze sviluppa
nella Legenda Aurea l’episodio della ragazza “esposta” al drago. Nell’arte è raffigurata, infatti, come una ragazza in piedi sul drago; altre volte esce dalla sua bocca e lo trafigge con
una lancia dall’impugnatura a forma di croce. Occorre rammentare la tradizione francese
dei draghi di santa Margherita come modello gotico. Si tratta sempre di miti legati alla dimensione fantastica e pagana. Il tutto rientrerebbe in un riferimento ciclico alla natura, a
cui i rimandi sono notevoli e diversificati (J. BALTRUSAITIS, Ali di pipistrello e demoni cinesi,
in “Il Medioevo fantastico”, Adelphi, Milano 1973, pp. 175, passim).
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon
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chiesa di Rotzo, la più antica sugli Altipiani26, quella di Castelnuovo, documentata nel 127227, Santa Marina a Besenello (1280) e Santa Margherita a Marter, la
cui prima menzione è del 1460: anche su un capitello a Barco un frammento di
affresco mostra il serpente alato.
Santa Margherita è venerata in varie località circostanti dove fu consistente
l’attività estrattiva: nel Vicentino a Posina, Rovegliana (Recoaro), Roncà (Arzignano), Bevadoro (Val d’Agno).
Le tracce draconiane sugli Altipiani
I segni dell’esistenza del dèmone serpente potevano essere vari:
grotte, geodi e miniere, luoghi ideali per tesori dimenticati ed esseri fantastici;
la credenza nella reincarnazione delle anime, la Seelentier (SCHWEIZER
1984), molto diffusa fra i cimbri.
Pressoché sempre sono determinanti gli affioramenti di fossili. Le ammoniti
assomigliano alle spire di un serpente attorcigliato (o all’impalcato di un ariete).
Il fatto che emergano dalla pietra era ritenuto una magia e spiega il diavolo,
“daemon truculentus”, in forma di caprone nero o di serpente gigantesco.
Nella famiglia del basilisco compaiono anche altri esseri, i draghi, gli aspi e
le vipere, che vengono descritti accuratamente in vari manoscritti, tra cui spicca
il Codice Aberdeen, un bellissimo bestiario gotico del XII secolo.
Si trattava sempre di opere importanti, che prendevano riferimento dalla
Creazione biblica per poi presentare vari animali, reali e non, e le facoltà prodigiose e sovrannaturali che avrebbero avuto secondo la tradizione popolare.
Molto tempo dopo, mentre figure come Conrad Gesner (GESNER 1587) e
Ulisse Aldovrandi (ALDOVRANDI 1640) affermeranno che gli “angui” –
draghi, basilischi, aspi – non esistono, lo scienziato gesuita Athanasius Kircher
26
27
“Santa Margherita, situata tra Castelletto e Rotzo, è considerata la più antica chiesa (e forse anche parrocchia) di tutto l’Altipiano. Essa era officiata da religiosi ed aveva un cimitero o sagrato, dove venivano sepolti i defunti che venivano colà portati dai paesi
dell’Altipiano e (si dice) perfino da Luserna (DAL POZZO, Memorie ...)” (TOLDO, 1984,
p. 80).
“Al di là del Brenta su d’una verde terrazza del boscoso Monte Civeron s’innalza la chiesa
di Santa Margherita. La chiesa esisteva prima del 1272 e in seguito era affidata alla custodia di un eremita. Secondo la tradizione, il paese di Castelnovo si stringeva, nei secoli andati, attorno alla chiesetta ai piedi del castello omonimo (Dosso di Castellare), del quale
nel XIII secolo si impadronirono i Caldonazzo-Castelnovo. Castello e paese sarebbero
stati distrutti dai Vicentini nella famosa calata del 1385. Castelnovo sarebbe allora stato ricostruito sulla riva sinistra del Brenta. (GORFER 1977), op. cit., p. 906).
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Paolo Zammatteo
dichiarerà che quei mostri si sono estinti perché esclusi dall’Arca durante il Diluvio Universale ( KIRCHER 1675).
Un grande naturalista, Johann Jakob Scheuchzer, pubblicherà il resoconto
degli avvistamenti di draghi avvenuti in Svizzera (SCHEUCHZER 1723): un
drago si nasconde anche sulle sponde del lago di Luserna ed è raffigurato sul
gonfalone della città.
Tra il Codice Aberdeen e il trattato di Scheuchzer si sviluppa il simbolismo
draconiano nell’arte e Jacopo da Varagine chiude l’epopea cortese scrivendo le
agiografie di San Michele, San Giorgio e Santa Margherita, tutti accanto al drago-serpente, che ormai rappresenta il diavolo.
Le credenze sui tesori nascosti (e sui maghi che li cercavano) costituiscono
oggi l’argomento più suggestivo a favore della ricerca mineraria, che nel corso
del medioevo avvenne certamente a Folgaria, Lavarone e Luserna, e nella dimensione fantastica di qui i rettili prevalgono rispetto all’ariete nero o ai rabdomanti per varietà e diffusione, come custodi dei tesori e per tutto quanto riguarda i poteri sovrannaturali assegnati a questi animali leggendari.
Tutto intorno fioriscono le leggende del Basilisco di Mezzocorona,
dell’Aspio e delle Anguane della Valsugana, evanescenti figure legate all’acqua,
che nel nome celano una relazione con gli “angui”, i serpenti. Il basilisco di
Campiglio è un pesce dal fiato letale, che Michel’Angelo Mariani scrive di aver
visto esposto nella chiesa locale nel 1673.
L’Aspio è considerato per lo più, semplicemente, il maschio della vipera (a
Grigno, a Roncegno e ai Masi di Novaledo si racconta ancora di averlo visto).
“La prima citazione del basilisco sembra risalire ad un versetto della Genesi,
dal quale si evince che per molto tempo si è tradotta con basilisco una parola in
ebraico (tsepha), che indica piuttosto un tipo di vipera (BARTOLINI 2000, p.
123).”
Da tsepha ad Aspio il passo è breve.
Questo grande serpente alato si sposta in volo. A volte ruba il bestiame,
come nel racconto Il terribile Aspio di Roncegno: qui l’animale è lungo più di
dieci metri, verdastro, nero e giallo, la coda è lunghissima, le ali sono scure e da
pipistrello, un umore nerastro gli cola dalla bocca. Si nasconde ai prati dei
Menghi e si sposta fin dietro al monte Zaccon, sede di antiche attività estrattive
(NERI 1997, p. 143).
Ancora più spaventoso, sebbene innocuo, è il serpente alato di Tezze, che
nelle ore calde delle giornate estive scende dalla Cima d’Asta, enorme e lucente.
Vola silenzioso sopra l’abitato e la gente atterrita può vederlo bene, squamoso
e viscido, d’un colore brunastro venato di azzurro, il collo lungo e la coda smisurata dietro due grandi ali di pipistrello.
Vive nel laghetto di Ravetta e sulla Cima d’Asta (NERI 1997, p. 160): Partendo di qui o dal Fravòrt, il grande serpente alato sorvola gli altipiani e va a
Lavarone, i Lombardi e la leggenda del Melegnon
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deporsi su una roccia che è anche il suo nido oltre la Val d’Astico, il Sòio
d’Aspio (GORFER 1977, p. 358).
Con un altro nome, quello di basilisco, a Mezzocorona è il serpente alato
con due code e la cresta, nato dall’uovo di un gallo di sette anni. Ha la caratteristica di distruggere quanto capita sul suo cammino bruciandolo, e per questo
viene confuso con i draghi. Il suo sangue uccide istantaneamente il cavaliere
che lo ha trafitto, incenerendolo.
L’origine della leggenda è tutt’al più quattrocentesca (BARTOLINI 2000,
pp. 119-130), ma l’immagine del serpente velenoso e malefico, che uccide con
lo sguardo, con il fiato o un battito di coda, è antichissima. Può essere anche
un serpente con la cresta dalla forma di corona oppure un ibrido mostruoso tra
la lucertola ed il gallo, con diverse varianti sul tema.
Un basilisco vola sulla Valle di Non e una goccia del suo veleno distrugge
addirittura la montagna sopra Castel Thun (BOLOGNINI 1997, p. 47).
“Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, VIII, 33) descrive il basilisco come serpente che
nasce in Cirenaica, non più lungo di dodici dita, con in testa una macchia bianca come fosse
un diadema. Col suo fischio mette in fuga tutti i serpenti e ha il potere di seccare piante ed
erbe.28”
Un racconto di Roncegno, Il Serpente Magico, narra di un serpente, grosso più
di un braccio, lungo due metri e forse più (NERI 1997, p. 142): l’erba su cui
striscia diventa subito secca fra la sorpresa dei suoi uccisori: certamente è un
basilisco.
Basilisco (dal greco basileus) è il re dei serpenti. Emette sibili, che atterriscono, e crea il deserto: così Marco Anneo Lucano nel I secolo d. C. (Pharsalia, IX,
696-726). Come tale lo troviamo a Sant’Egidio del Bosco, vicino a Rimini.
“La storia narra di una chiesa infestata da serpenti tra i quali uno di dimensioni enormi
– il basilisco – che andava gridando e lanciando fischi acutissimi che gelavano il sangue
(BARTOLINI 2000, p. 119)”.
Un racconto di Tezze, La Biscia Bianca, descrive il serpente mostruoso che si
incontra lungo la strada della Pèrtica (NERI 1997, p. 167). È una biscia lunga e
candida, come il serpente, Re delle bisce, che compare nella leggenda della Valle di San Lucano, una collaterale di Agordo. La valle è infestata dai rettili, come
la chiesa di Sant’Egidio, ed il loro sovrano è proprio una Biscia bianca, immensa e spaventosa (KINDL 1993, pp. 121-122).
Da Agordo torniamo alla Cima d’Asta e agli Altipiani, dove l’Aspio, in cui
riconosciamo ormai un grande basilisco alato, trova rifugio: stando in alto, lo si
può osservare meglio che non in valle.
L’Orco Basilisco di Nosellari appare con “le fattezze del diavolo”: quando
tiene in bocca un diamante, può volare, e la pietra assume riflessi violacei, ren28
Ibidem.
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Paolo Zammatteo
dendolo ancora più mostruoso. Sale sempre dalla Valdastico e va a posarsi nella
Val Rossa sulla sinistra del torrente Centa. Un basilisco è anche la reincarnazione dell’anima di una giovane condannata per l’eternità in un racconto di Luserna (BELLOTTO 1978, pp. 107-109), in quanto si tratta di un grande serpente, che sputa fuoco ed emette sibili spaventosi.
Il basilisco sopravvive persino alle leggende sul demonio e al mito minerario, da cui trae alimento.
“In data 14 luglio 1826 il prof. Giambattista Garzetti scriveva da Trento al bar. Antonio Mazzetti a Milano: <Da alcuni dì si narra esservi nei campi tra Caldonazzo e Calceranica un serpente mostruoso con due piedi, col capo come quello di un gatto: dicesi che col
solo soffio e lo spavento facesse morire una giovane di 16 in 18 anni. Se ne contano cose da
disgradarne un basalisco, di que’ da quel veleno fine fine che nascono, secondo il fior di virtù, dall’uovo d’un gallo. Dalle confuse dicerie non ho ancor potuto rilevare a che divisa vada vestito questo brutto biscione: né ben bene se esso in effetto vi sia.>”
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Il topos della malga e il contesto costruttivo locale
Fra i più antichi edifici attestati archeologicamente sulla montagna trentina e
lo sviluppo dei nuclei edificati sull’Altopiano esiste una correlazione fuori dal
tempo, vincolata solo dalle tecniche e dai materiali. In questa ottica è come se
si fosse assistito alla medesima evoluzione dell’insediamento, rievocata anche a
distanza di millenni. Le ragioni sono di comprensione immediata, dettate
com’erano dalle condizioni dell’alpe e da esigenze, che nel medioevo e nella
preistoria erano del tutto analoghe.
Presupposto comune è l’uso di tondame di legno, che interessa l’intera costruzione nell’edificio a incastro (Castello di Fiemme, la Volta di Besta a Ledro)
e nelle malghe mobili. Viene usato per le strutture in elevazione e per la copertura nella tecnica mista (Doss Zelor), dove la fondazione o parte del recinto
sono in muratura e dichiarano una collocazione stabile (gli stabi, i Tablat).
L’evoluzione verso l’uso della pietra e degli avvolti, dove il legname scortecciato si limita al tetto, dimostra una indubbia eredità delle tecniche murarie romaniche, come è ben evidente negli esempi di malga che ancora esistono nel
Ticinese e nei Grigioni.
L’uso della pietra come materiale di costruzione comportò l’aggregazione
delle funzioni di stalla e fienile (tezza, tiezo, Tetch) intorno a una sorgente, permettendo l’evoluzione dei nuclei aggregati chiamati masi, che sono documentati
dalla metà del Quattrocento: un esempio fossile ancora attuale è quello del Bisele, mentre resti di strutture analoghe, risalenti al XIV secolo, sono ancora leggibili in aree contigue.
Nell’aggregato d’alpeggio compaiono sempre l’abitazione (il fuoco), il fienile, la lavorazione casearia: la pozza o la fontana al centro focalizzano una corte
delimitata dagli edifici. Fra XV e XVII secolo la corte, la Hof, rappresenta il
genius loci dei nuovi villaggi, le vìle: Luserna (1623) e Sotto di Luserna, poi Tezze
(1628).
Cambierà il senso dell’abitazione, ormai stanziale per tutto l’anno, ma i caratteri tipologici degli edifici resteranno quelli originari delle costruzioni di malga.
Il 1912 è un anno simbolico. Si chiude con la stesura di un Piano Regolatore
per Luserna, dettato dalle esigenze belliche, da quel sistema di difesa territoriale
1
Libero professionista, architetto a Trento.
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Paolo Zammatteo
intorno al quale si sarebbe scatenata la Prima Guerra Mondiale. Già in
quell’epoca molte cose erano cambiate. La storia di quelle trasformazioni ha il
suo doppio nelle architetture del paese, nelle quali si riflette un consenso di regime cercato dalle istituzioni ma non altrettanto corrispondente e sentito dalla
località.
Le origini. Il XV e il XVII secolo
La lettura degli effetti indotti sulla struttura di Luserna dalla presenza di un
confine fisico, etico e politico come quello instaurato dopo il 1866, richiede la
conoscenza a grandi linee dell’imprinting dato dagli eventi precedenti all’assetto
dell’insediamento. Tutto dimostra una situazione prossimale dell’edilizia rispetto a quella condizione fragile ma insistente che era garantita dalla grande disponibilità di pascolo dell’altopiano, fattore determinante per la realizzazione
dei percorsi e la frequentazione ab antiquo di tutta la zona prealpina.
Non esistendo ancora un’analisi dettagliata dello stato primitivo
dell’insediamento, occorre qui farvi riferimento per esteso, alla luce anche del
contesto più ampio.
Dopo che un secolo fiorente come il Duecento aveva permesso
l’espansione verso il resto d’Europa di intere comunità tedesche, chi per una
specializzazione mineraria, chi come colono agricolo, il Trecento fu sconvolto
da eventi calamitosi e grandi contrasti. Emblema di quell’epoca, la signoria padovana dei Carraresi era definitivamente scomparsa dopo anni di scontri con
una Venezia in prepotente espansione.
In Val d’Astico il 25 novembre 1385 i rappresentanti della Villa di Brancafora, memori di un lascito dei conti di Velo avvenuto negli anni 1311-1315, giurarono fedeltà a Vicenza, che a sua volta il 25 aprile 1404 si sottomise alla Serenissima. Con ogni probabilità la Curazia di Brancafora sperava di trarre vantaggio dal governo veneto, certamente più disponibile della feudalità tedesca che
deteneva giurisdizione su Caldonazzo e su parte dei possedimenti dell’antica
chiesa curaziale. Questi si trovavano in vetta al Summum Luxernae, così chiamato per la prima volta all’interno del riconoscimento dei comuni di Arsiero,
Velo e Cogollo del Cengio nel 1202. In un atto del 1260 era stato definito anche “districtus” (LORENZI 1932), termine che presupponeva un controllo
ben organizzato di natura comitale. In realtà per il Monte di Luserna vi era un
accumulo di diritti e contrasti fra i Velo di Valdastico e i dinasti trentini, da Beseno, Telvana-Caldonazzo, Trapp.
Nel Quattrocento il Monte di Luserna era investito contemporaneamente
dalla Curazia di Brancafora, quindi dal monastero agostiniano di Marostica, dalla diocesi di Padova, dal Principato Vescovile di Trento, dall’interesse sul confine dei Conti del Tirolo, dal possesso di un privato, il nobile vicentino Gio-
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
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vanni da Porto, da diritti vari di altri feudatari minori (vedi ad esempio
l’investitura mineraria del 1282) e di rappresentanti delle ville sleghesi.
A parte i carteggi per la definizione dei confini, lo provano le controversie
di lungo periodo per il possesso di Monterovere e delle Vezzene: è emblematico che ancora nel novembre 1671 Giorgio Sigismondo Trapp dichiarasse di
godere diritti sulla Valdastico in contraddittorio con i Velo (GORFER 1980, p.
136).
L’antico sistema insediativo degli Altipiani in rapporto al bacino del
Brenta
Ora facendo un passo indietro, si può evidenziare l’insieme di elementi, che resero indispensabile l’edilizia tradizionale di Luserna, giustificandone il significato e ritrovando anche i probabili caratteri costruttivi di lungo periodo dell’area.
Pare proprio che le costruzioni siano state rigorosamente in legno per dei
secoli: erano malghe, stalle e fienili. La novità dei masi sarebbe intervenuta solo
dopo il 1413, epoca dell’affermazione tirolese sugli Altipiani trentini. E proprio
nei masi si sarebbe sviluppata la tradizione della muratura.
Per comprendere e come si è evoluta l’edilizia delle case di pietra, sono state
ricercate ed indagate le più antiche opere murarie di qualche consistenza nei
dintorni, purché non abbiano caratteristica palaziale: ne sono state individuate
tre, i resti del castello di Castelnuovo, distrutto nel 1385, la Bastia di Calceranica e il vallo di Carbonare.
La Bastia di Calceranica di per sé è già un argomento affascinante, in quanto
molto estesa, ma la condizione che qui interessa di più non sta tanto nelle fortificazioni, bensì nella cosiddetta “pars massaricia”.
A parte la distruzione di Caorso per opera del torrente Centa, solo due aree
abitate, entrambe collocate sui pendii ed entrambe annesse a castelli, sono
scomparse del tutto in Valsugana. La prima e più famosa era il villaggio di Castelnuovo, arroccato fra il Dosso Castellare (Casteller nella cartografia seicentesca) e la chiesa di Santa Margherita; di esso la leggenda narra che venne distrutto durante l’occupazione scaligera del 1385, tanto che fu ricostruito perfettamente al centro della Valsugana immediatamente dopo. Effettivamente costituisce l’unico esempio di villaggio di strada di fondovalle dell’intero corso trentino del Brenta e il rinvenimento recente di un atto del 1396 - riferito chiaramente al nuovo centro di fondovalle - è la prova che nella tradizione orale c’è
qualcosa di più di un semplice mito popolare.
L’altro sito sono gli scarsi edifici sparsi sul versante delle Bastie di Calceranica. Si tratta di un insediamento con vari elementi di unicità: abbandonato
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Paolo Zammatteo
anch’esso pochi anni dopo il 1385, ovvero negli stessi frangenti che portarono
alla distruzione del Castelnuovo, non è più stato riutilizzato, se non nel caso di
maso Agostini e Maso Murari. Più a monte altre due strutture possono dare risposte attendibili circa l’edilizia mista di quell’epoca e sembra proprio che
l’influenza di Caldonazzo sugli Altipiani trentini passi anche dalle tecniche in
uso nella plaga del lago.
Col tempo sarebbero giunte anche a condizionare le costruzioni in linea lusernesi e gli edifici di pendio delle Tezze, soppiantando del tutto l’edilizia in
materiale deperibile diffusa sulle quote in un arco di tempo piuttosto lungo ma
con progressione crescente.
In particolare interessa citare qui il riferimento a un maso “de la Fontana”
sito sul Monte di Caldonazzo e che nel 1399 era soggetto a livello annuo misto
in denaro e in natura, ivi compresi tre stari “Castanearum” (BRIDA 2000, p.
190 n. 11).
Poco più in alto rispetto ai due edifici rurali nel Bosco delle Bastie compare
ancora la traccia sul terreno di un basso recinto murario, del tutto analogo ai
casi di epoca romana rinvenuti nella piana di Caldonazzo (ad esempio maso
Urbanelli) e alle strutture retiche dei Montesei di Serso, un quadrilatero di 3
metri per 4 posto a secco con un elevato modesto che era certamente la base di
una struttura mista con elevati in legname. Qui una sorgiva era stata rinforzata
con due fornici radenti a volta, una fontana appunto, come se ne trova un unico altro esempio a Lavarone-Raut (FRANCO 2003, p. 24).
Per l’analisi intorno alle costruzioni lusernesi si tratta certamente di un sistema contiguo particolarmente interessante, in quanto può addurre elementi
importanti circa l’ipotesi che l’uso della muratura per gli edifici civili sia stato
introdotto nel corso dei secoli XV-XVIII proprio grazie ai rapporti particolarmente stretti che gli Altipiani intrattenevano con il centro della Giurisdizione,
la Corte di Caldonazzo.
Un cenno è necessario per correlare Luserna ad un secondo argomento,
molto importante e ben localizzato a sud del torrente Brenta.
A Castelnuovo una via affrontava le pendici del Monte Civerone in prossimità della chiesa di Santa Margherita e raggiungeva la Val di Sella. È ben difficile immaginare l’antichità di questo tratturo (perché di una pista per l’alpeggio si
trattava), anche se occorre riconoscere che quel percorso, il quale poi si svolgeva in direzione di Porta Manazzo e delle Vezzene, era sicuramente conosciuto
e sfruttato in epoca romana; in quel I secolo dopo Cristo, cioè, che sulla sponda settentrionale dell’Adriatico vide la fortuna di Altino come secondo centro
della lana di tutto l’Impero, dovendo lasciare il primato alla stessa Roma.
Una suggestiva novità viene dagli sviluppi del progetto archeologico “Ad
Metalla” tuttora in corso (DE GUIO, ZAMMATTEO 2004): il minerale sfruttato dagli importanti impianti fusori, diffusissimi sugli Altipiani nell’età del
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
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bronzo, proveniva di certo dalle pendici, che fronteggiano la Valsugana: e la
presenza di macine ed incudini per il processo di frantumazione del minerale
precedente al suo arrostimento è stata scoperta proprio nei pressi del valico fra
la Valle di Sella e Vezzena nel corso dell’ultima campagna di survey di agosto
2004.
Questo fatto prova con certezza che parte del rame, che veniva condotto
sulle quote fra Trento e Vicenza almeno dodici secoli prima della fondazione
delle due città, era estratto sul versante settentrionale del Monte Mandriolo.
La questione assume particolare importanza, quando la si lega alla vocazione
dei luoghi. Milleduecento anni prima di Cristo dalla Valle di Sella si scavava
minerale metallifero e quella presenza di metallurghi aveva bisogno di una economia di supporto legata sì alla caccia, ma anche se non soprattutto al pascolo.
Un pascolo transumante, la cui prerogativa era lo sfruttamento estivo, in una
lunga tradizione di spostamenti di greggi fra le alpi ed il mare.
Altino e i mercati romani giunsero molto più tardi a suggellarne l’efficacia
nell’immutabile scansione stagionale della pastorizia.
Tutto questo non fa che confermare la presenza da tempo immemorabile
della via del Manazzo attraverso i luoghi segnati molto più tardi
dall’insediamento antico di Castelnuovo, Santa Margherita, Spagolle.
Se poi si aggiungono i dettagli della scoperta di un pugnale dell’età del bronzo sul Monte Civerone (BELLINTANI s.d.) e di vari altri reperti risalenti alla
cultura di Haltstatt, dei quali Franco Marzatico può affermare con certezza
“un’ampia continuità dalla fine del VII agli inizi del V secolo avanti Cristo”, risulta del tutto chiara una fruizione estremamente radicata – se non costante –
del “passaggio di Santa Margherita” (LANZINGER et alii 2001, p. 456).
Il medesimo legame, ben precedente alla nascita dei villaggi di Caldonazzo e
Calceranica, forse vincola gli Altipiani trentini alla zona che sta fra le foci del
torrente Centa e del Mandola, dove si colloca un importante sistema di giacimenti all’interno del territorio fra Caldonazzo e Calceranica (PASSARDI,
ZAMMATTEO 2004). E anche qui è possibile localizzare un’area interessante,
in quanto reca segni di scavo a rapina del tutto analoghi a quelli riscontrati alla
Foresta Paroletti sul versante di Vetriolo in un impianto certamente destinato
alla coltivazione preistorica dei minerali rameici (ZAMMATTEO 2000): inoltre
c’è memoria di un forno fusorio rinvenuto alla metà del Novecento esattamente in quel sito.
E non a caso, probabilmente, la località nel passato veniva chiamata Andreole, un toponimo di chiara influenza veneta, unico nel suo genere nel panorama trentino (che piuttosto utilizza termini di importazione tedesca per le miniere medievali) e che in genere indicava piccole grotte artificiali, limitati lavori
di miniera.
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Paolo Zammatteo
Il prima. Qualche cenno all’edilizia medievale in materiale deperibile
Molte considerazioni fatte in passato sulla storicità delle architetture sugli
Altipiani e sul loro carattere autoctono vanno escluse da subito. Piuttosto gli
elementi radicali vanno cercati nelle operazioni di bonifica delle zone prative
tramite l’asporto del materiale sterile frantumato, che caratterizzava la superficie degli altipiani prima dell’intervento umano. Dolomie, massi erratici provenienti dalla Piattaforma Atesina più a nord e calcari erosi dall’ultima glaciazione
si trovano tuttora a pochi centimetri dalla cotica erbosa. Chi intervenne per primo con i villaggi di cacciatori mesolitici o con la fusione del rame qualche
millennio dopo dovette farsi spazio, liberando piccole piazzole dal pietrame
che le occupava. Da qui dobbiamo partire per comprendere l’assenza di fondazioni e di legante che troviamo all’interno degli edifici storici, i quali
nell’aspetto delle strutture in elevazione sono esemplari della più radicata tradizione romanica alpino-bavarese.
C’è un equivoco nel quale si incorre ancora, e lo dimostrano varie pubblicazioni divulgative sulle case tradizionali, diffuse soprattutto nell’ambito tedesco.
Prima di avere contatti con i Romani e di conoscerne le tecniche, le popolazioni retiche ignoravano la malta: i materiali maggiormente usati erano la pietra
poco lavorata e soprattutto i legnami di qualità. Ma questo da solo non giustifica la continuità di una tradizione millenaria, soprattutto in una zona di frequentazione rarefatta e confinaria. Occorrerà quindi analizzare l’approccio dei primi
cronisti a questi luoghi e i rapporti che esistevano fra l’abbondante disponibilità
di pietra e l’uso di sovrastrutture in materiale deperibile.
Accennare ad una storia degli studi sui materiali deperibili in edilizia, in particolare per quanto concerne tentativi di sintesi, significa soprattutto prendere
in considerazione le produzioni tedesche, francesi ed inglesi. La Francia si segnala per un interesse particolare e contributi di valore indiscutibile che raggiungono l’attualità; in essi convergono stimoli provenienti dalla ricerca archeologica, antropologica ed etnografica, nonché uno stretto legame con l'analisi dei
numerosissimi documenti d'archivio. Un discorso a parte richiederebbero gli
studi britannici; da un lato si sono concentrati sul periodo anglo-sassone e dall'altro, come spesso accade in Inghilterra, si sono confrontati con i problemi
metodologici dello scavo e della ricostruzione giungendo ad elaborare tecniche
d'avanguardia. La stagione degli scavi anglo-sassoni e scandinavi si apre nel dopoguerra e si infittisce negli anni Sessanta e Settanta con una serie di iniziative
interessanti.
Pur motivate da un carattere nazionalistico sono soprattutto le indagini effettuate in ambito germanico a rappresentare, per qualità e quantità, i veri punti
di riferimento nello studio dell'edilizia altomedievale in materiale deperibile.
Assistiamo così a due distinti periodi di ricerca, posti a cavallo della seconda
guerra mondiale, accomunati dal notevole sforzo profuso in scavi programma-
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
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tici di grande estensione spaziale. Il primo, in epoca nazista. Nell’immediato
dopoguerra, sarà lo scavo di Warendorf a dare il via alla più recente comprensione dell'edilizia rurale e dell'organizzazione dei villaggi altomedievali, aprendo
una stagione di studi che si presenterà fertilissima almeno fino alla metà degli
anni Settanta.
La germanistica si era già occupata di storia dell'insediamento altomedievale,
presentando spesso una caratteristica di interdisciplinarità fra storia del diritto,
archeologia ed etnologia, volta a ricostruire le origini della nazione germanica.
Il confine di Luserna ebbe in sorte di attirare studiosi tedeschi già nel XIX secolo. E all’interno di quella curiosità occorre rievocare Aristide Baragiola, che,
occupandosi delle minoranze tedescofone a sud delle Alpi, redasse una considerevole testimonianza di viaggio sul sistema costruito della località ed annotò
anche vari tipi di murature a secco, quelle stesse che venivano realizzate a indicare limiti e percorsi fin dall’antichità.
Se spesso non si è fatto sufficientemente caso all’interesse dimostrato da
Baragiola per le costruzioni minori, agli antipodi con quella tradizione Tomaso
Franco ne prende spunti per una ricerca originale e molto recente. La “città”,
fatta più di lastre poste in verticale, del suo itinerario quasi fantastico assomiglia
straordinariamente a quello che per altra strada sarà il risultato della nostra indagine.
Quando si parla di case di legno, bisogna distinguere varie scuole di lunghissima tradizione: Stutzenkonstruktion, Fachwerk, Blockbau, Standerbau, Flechtwerk2.
Due sono i sistemi principali, usati per la realizzazione di pareti lignee portanti: il Fachwerk e il Blockbau. Il primo (dal tedesco “costruzione a scomparti”) viene definito anche sistema “a ossatura” o “a telaio”, ed è costituito da
un’armatura di pali verticali, posti a breve distanza fra loro, con gli spazi tamponati con rami, ciottoli, oppure con mattoni o tavole (e in questo caso prende
il nome di Standerbau), legate da argilla o malta. In ragione dei sistemi di chiusura degli spazi fra i pali verticali, della disposizione di questi ultimi, della presenza o meno di uno zoccolo in muratura o di elementi lignei posti in diagonale negli specchi di riempimento, si conoscono numerose varianti, caratteristiche
di particolari regioni o periodi storici. In area mediterranea era ampiamente utilizzato in epoca romana, come provano numerosi esempi perfettamente conservati, rinvenuti a Ercolano e Pompei. In queste città le murature ad ossatura
di pali erano rinforzate da travi orizzontali, posti parallelamente fra loro, che
2
VARENE P. 1974, Sur la taille de pierre antique, médiévale et moderne, Digione. Per il
legno non vanno dimenticate le tradizioni mediterranee, ricordate anche da Vitruvio (LASFARGUES J. 1985, Architectures de terre e de bois, Parigi).
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Paolo Zammatteo
dividevano la parete in pannelli grosso modo quadrati. Strutture di questo tipo
(tamponate per lo più con murature di pietrame e calce) erano destinate ai muri
divisori o ai perimetrali dei piani superiori, essendo piuttosto leggere.
Queste pareti possono essere identificate con l’opus craticium, che Vitruvio
descrive come un sistema veloce da realizzarsi, ma assai rischioso per il pericolo di incendi (De Architectura, II, 1, 3, 8). Durante l’Alto Medioevo dovette essere piuttosto diffuso, anche se, considerata la notevole deperibilità del materiale, le testimonianze archeologiche sono assai scarse. In epoca bassomedievale le costruzioni ad ossatura si diffusero ampiamente in tutta Europa; in Francia tale tecnica viene definita pan de bois o colombage (da columba, alterazione di
columna, termine usato per indicare i pali portanti), in Inghilterra prende il nome
di half timber work.
Il sistema del Blockbau (dal tedesco = costruzione a blocchi) è invece caratterizzato dall’uso di tronchi sovrapposti orizzontalmente e incastrati agli angoli.
Necessita pertanto di alberi a fusto altissimo e diritto e per tale motivo è stato
usato nelle regioni ricche di conifere.
Anch’esso doveva essere diffuso nell’Antichità, benché le prove archeologiche siano assai scarse. Vitruvio ricorda l’esistenza presso alcuni popoli dell’Asia
minore nord-occidentale di case formate da tavole disposte orizzontalmente
(De Architectura, II, 1). Un esempio di notevole interesse è costituito dal
ritrovamento in val di Ledro (Trentino Alto Adige) dei resti di un edificio
databile al VI-VII secolo d.C., costituito da tronchi del diametro di circa 30
centimetri, disposti l’uno sull’altro e incastrati in prossimità delle testate.
Questo tipo di tecnica si è conservato a lungo nell’area alpina e in molte regioni
montuose dell’Europa centro-orientale. Negli affreschi della torre dell’Aquila
del castello del Buonconsiglio di Trento (XV secolo), ad esempio, sono
rappresentati con notevole realismo e ricchezza di particolari diversi edifici
realizzati nella tecnica del Blockbau.
Nelle architetture del Nord Europa e nella regione alpina le case in tronchi
sovrapposti sono sempre sostenute (almeno parzialmente) da funghi o da uno
zoccolo di muratura in pietra.
Anche nelle coperture è sempre stato fatto un ampio uso del legno; se per
gli elementi che costituiscono l’orditura del tetto questo materiale è praticamente insostituibile, nelle zone di alta montagna viene utilizzato anche per le
coperture, costituite da “scandole” prodotte a spacco e messe in opera imbricate, analogamente alle tegole.
La possibilità di resistere a lungo in acqua ha fatto del legno un materiale assai adatto anche alle strutture di fondazione; la loro realizzazione è attestata
almeno dal secondo millennio a.C., come provano numerosi rinvenimenti di
abitati palafitticoli. Un caso piuttosto eccezionale, per le condizioni di conservazione in cui è pervenuto, è costituito dall’insediamento di Fiavé (Trentino Al-
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
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to Adige) dove in un’area di quasi 500 metri quadrati (un tempo lacustre) si sono rinvenuti oltre 800 pali, destinati a sorreggere un impalcato ligneo per il sostegno delle abitazioni. I pali erano lunghi circa nove metri, ed erano stati conficcati nel limo per oltre quattro. Erano ottenuti da conifere (abeti rossi e larici,
e in misura minore abeti bianchi e pini silvestri) e in un solo caso da olmo. La
maggior parte veniva semplicemente scortecciata, prima di essere conficcata sul
fondo, ma non mancano esempi di pali squadrati con asce, riconoscibili dalle
tracce di piccoli colpi continui e regolari.
La costruzione di palificazioni lignee in acqua fu molto usata anche in epoca
romana, in particolare per realizzare strutture di fondazione per ponti.
Sono rari gli esempi, in cui si è riusciti ad identificare l'intera pianta dell'edificio o comunque a proporre una interpretazione attendibile. È però il caso di
Trento a palazzo Tabarelli, di Ledro nella località Volta de Besta, di Cavalese al
dosso di S. Valerio. Perciò in Trentino è stato possibile individuare varie tracce
di edifici a Blockbau: “Nei primi anni Sessanta l’apertura di alcune trincee alla
periferia orientale di Castello di Fiemme per la posa di fondazioni edili esposero delle sezioni, esaminate da Piero Leonardi che rilevò la presenza di uno strato di “...terra grigia-bruna che in alcuni punti diventa nerastra, carboniosa, con
cocci fittili, scorie di fusione di materiali ferrosi e molti grumi di argilla con impronte di ramaglie...” interposto tra la copertura agraria e lo sterile di fondo.
Constatata la differenza esistente con le situazioni strutturali del vicino Doss
Zelor, dove si parla generalmente del reimpiego di elementi di epoca romana e
antiche fondazioni diventano (con riempimenti e altro) basamento per strutture
di elevazione a pali e a Blockbau, quanto rinvenuto venne interpretato come il
piano d’uso di capanne interamente in legno, direttamente appoggiate sul terreno e affiancate da pozzetti per lo scarico di rifiuti.
La conferma della presenza nelle valli alpine di questa tipologia di costruzioni nel periodo alto-medievale viene dal ritrovamento dell’edificio in val di
Ledro. L’area è l’insenatura semicircolare che conclude l’omonimo lago verso
Nord/Est (detta “Volta di Besta”) e l’occasione della scoperta la stessa che
portò all’identificazione della più celebre palafitta dell’Età del Bronzo. Nel
1958, dopo alcuni saggi, la Soprintendenza alle Antichità delle Venezie vi condusse un limitato scavo che rilevò l’esistenza di un regolare intreccio di pali
perfettamente conservati grazie alle favorevoli condizioni offerte dall’ambiente
umido in cui erano collocati. Ciò che maggiormente qui interessa è la disposizione, uno sull’altro, di alcuni tronchi del diametro di circa 30 cm, incastrati in
prossimità delle teste a formare la pianta rettangolare di una costruzione di metri 4 x 5 circa, pavimentata da un acciottolato e da un battuto d’argilla. Un ulteriore saggio, condotto nella primavera del 1983 in corrispondenza del rinveni-
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
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Struttura portante
a due pali contrapposti: sistema tipico per costruzioni di modeste
dimensioni, dove i due pali possono essere legati oppure no alle pareti
che restano comunque indipendenti e sopportano scarse o nulle sollecitazioni statiche due pali disposti lungo il perimetro o poco distante da
esso. I pali si dispongono al centro dei lati corti in caso di pianta rettangolare, al centro di due lati contrapposti in caso di pianta quadrata;
per le piante ellittiche, circolari , irregolari e poligonali si trovano solitamente leggermente rientrati rispetto al perimetro, lungo l'asse maggiore o il diametro. Reggono il trave di colmo del tetto, implicitamente
di tipo Rofendach: il Rofendach presenta un trave di colmo, che attraversa centralmente l'intera lunghezza della struttura e sul quale si imposta il telaio del tetto.
a pali angolari: quattro pali ai vertici reggono un tetto di tipo Sparrendach: lo Sparrendach, senza trave di colmo, è costituito da travi singoli,
che collegano coppie di pali perimetrali contrapposti sul lato lungo e su
di essi si innesta il telaio del tetto. Anche questa struttura portante riguarda perlopiù edifici di dimensioni modeste con pianta quadrata o
rettangolare. Eccezionalmente si trovano anche strutture a pali angolari
con piante poligonali, ellittiche, circolari o irregolari: in questi casi solitamente i pali sono messi a formare un quadrangolo, leggermente rientrato rispetto al perimetro.
a pali perimetrali: armatura di pali (minimo sei) disposti lungo il perimetro; si tratta di una struttura portante che implica un copertura di tipo Sparrendach ed è adattabile a qualsiasi tipo di pianta. Il tipo è molto
diffuso per edifici di dimensioni piccole o medie, nel qual caso ritroviamo perlopiù sei o otto pali: non è tuttavia infrequente per strutture
di grandi dimensioni, soprattutto a partire dall’Ottavo secolo (eccezionalmente, soprattutto in ambito inglese, si ritrovano strutture a navata
unica di dimensioni grandi e medio grandi, fino dal Quinto), quando
comincia lo sviluppo della tipica Hallenhaus contadina di ambito germanico, compiutamente realizzata verso la fine del Dodicesimo secolo
e ampiamente diffusa durante tutto il medioevo e parte dell’età moderna. Si tratta di una evoluzione nelle tecniche costruttive che ha permesso la costruzione di strutture di notevoli dimensioni a navata unica,
contrariamente a quanto accadeva per le Wohnstallhaus precedenti,
quasi sempre a due o tre navate.
a palo centrale: struttura portante caratterizzata dalla presenza di un
grosso palo centrale, eventualmente circondato da una o più corone di
pali; è tipico per le strutture a pianta perfettamente simmetrica (circola-
Paolo Zammatteo
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re, quadrata e poligonale regolare) e di dimensioni piccole o medie. Raramente si trova anche con piante rettangolari ed ellittiche.
a tecnica mista: sovrapposizione, nella stessa capanna, di più tipi di
strutture portanti.
a due, a tre o più navate: si tratta di strutture portanti caratterizzate
dalla divisione in navate attraverso uno o più allineamenti di pali portanti centrali. Questo tipo di strutture portanti implica una copertura di
tipo Rofendach e sono tipiche per le longhouse o gli edifici rettangolari
di dimensioni medio – grandi.
con pavimento sopraelevato oppure senza pavimento sopraelevato: non si tratta di vere e proprie strutture portanti ma di elementi caratterizzanti due diversi tipi di Blockbau.
su palafitta: ebbe scarsa diffusione a livello europeo durante il periodo
altomedievale.
senza pali: indica una struttura portante senza l'utilizzo di pali, tipica
per le case con basamento in pietra, le case in terra e le capanne semiscavate con tetto direttamente infisso nel terreno.
a Fachwerk: non rientra in nessuno dei tipi suddetti.
Tecnica degli elevati
a struttura aperta o senza elevati: si tratta di fienili o magazzini in
armatura di pali, oppure di strutture semiscavate con il tetto direttamente infisso nel terreno e perciò senza elevati.
a tavolato ligneo orizzontale: consta di assi o paletti di legno disposti
orizzontalmente, spesso ad incastro e fissati ad un'armatura di pali verticali, oppure ad un trave dormiente scanalato (tecnica tipica per le
strutture a canaletta perimetrale).
a Stabbau: si tratta di pareti realizzate con assi o paletti verticali, infissi
direttamente nel terreno oppure innestati su di un trave dormiente scanalato.
ad intreccio: tecnica tipica per le costruzioni ad armatura di pali, consistente in frasche, vimini e paglia intrecciati orizzontalmente sull'armatura di pali portanti per strutture di modeste dimensioni o su un sistema
di paletti perimetrali non portanti; gli elevati ad intreccio sono spesso
ricoperti da intonaco di capanna in argilla.
in materiale deperibile pressato: si riferisce a diverse tecniche degli
elevati quali il pisè, le Sodenwand in torba pressata, le case in blocchi di
terra, gli elevati del Fachwerk, ecc.
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
75
in materiale deperibile generico: nella maggioranza dei casi non è
possibile, a causa dello stato di conservazione, identificare la tecnica
degli elevati.
in tecnica mista: sovrapposizione nella stessa struttura di diverse tecniche degli elevati.
a Blockbau.
a Palisadenbau: si tratta di elevati molto robusti costituiti da un triplo
allineamento di pali perimetrali messi a tenda (il centrale diritto e i due
laterali inclinati a formare un angolo molto acuto), e riempito da argilla.
Veniva utilizzato soprattutto per le palizzate fortificatorie: il suo utilizzo in strutture edilizie potrebbe quindi avere una connotazione signorile, o comunque un significato importante a livello collettivo.
I tipi
Strutture a livello del suolo: capanne con la struttura portante, e in
genere anche il battuto di vita, a livello del suolo.
Strutture semiscavate: capanne con la struttura portante all'interno di
una escavazione; eccezionalmente, capanne con il battuto seminterrato
e la struttura portante a livello del suolo5.
ad armatura di pali: è caratterizzato dalla presenza di un'armatura di
pali, distribuiti in pianta secondo vari criteri determinanti la struttura
portante; si tratta del tipo più diffuso e con la più ampia eterogeneità di
dimensioni, piante, strutture portanti e tecnica degli elevati: con pavimento semiscavato la struttura portante all'interno dell'escavazione. Si
ritrova in tutta Europa, particolarmente nella parte occidentale e in
Gran Bretagna.
a Blockbau: costruzione massiccia a travi orizzontali sovrapposti e incastrati, con ampi confronti etnografici soprattutto in ambito alpino,
dove gran parte dei Blockbauen conservati ai giorni nostri hanno un
basamento in pietra, ma in origine era una struttura senza basamento,
in presenza del quale è preferibile parlare del tipo “a tecnica mista”. Si
tratta di strutture, che Raramente hanno lunghezza superiore ai 10 m;
di solito sono 5-8 x 3-6 m se rettangolari o di 4-7 m di lato se quadrate.
di modeste dimensioni diffuse in età altomedievale soprattutto in ambito slavo o comunque europeo orientale. Si distinguono in due sottotipi
5
Esistono casi di strutture con pavimento seminterrato e armatura di pali a livello del suolo, generalmente con funzioni precise, ad esempio di tessitoio. Le strutture con basamento in pietra a livello del suolo e pavimento seminterrato vanno sempre considerate come
capanne a livello del suolo con basamento in pietra.
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Paolo Zammatteo
principali, con o senza il pavimento su piattaforma sopraelevata; nel
primo caso è un tavolato ligneo poggiante su travi dormienti orizzontali, oppure su bassi paletti verticali infissi nel terreno, nel secondo è un
semplice battuto in terra. Le travi del Blockbau possono trovarsi nell'escavazione oppure ai bordi della stessa, a partire quindi dal livello del
suolo: è da notare che all'interno di questo tipo trova maggiore diffusione la variante con piattaforma poggiante su pali verticali infissi nel
terreno, spesso piuttosto alti, onde creare sotto il pavimento uno spazio
adibito a cantina o magazzino per derrate alimentari.
a canaletta: è caratterizzato dalla struttura portante in armatura di pali
posti dentro una canaletta perimetrale. Si tratta di un tipo abbastanza
diffuso nell'Europa continentale occidentale e in Gran Bretagna. Si
hanno di solito piante a longhouse di medie dimensioni o, più raramente, piccole abitazioni o annessi funzionali.
a pali inclinati: struttura ad armatura di pali caratterizzata dalla presenza di pali esterni inclinati verso l'interno a sostegno dei pali perimetrali, ai quali si legano od appoggiano le pareti. Si tratta di un tipo con
pianta esclusivamente a longhouse, diffuso in ambito germanico continentale e, raramente, in Gran Bretagna; i pali esterni inclinati con funzione statica sono dovuti all'incertezza delle tecniche costruttive, viste
le notevole dimensioni di tali strutture. Lo spazio fra le pareti ed i pali
esterni era spesso coperto ed utilizzato come magazzino/ripostiglio.
con basamento in pietra: casa con un basamento in pietra, solitamente a secco, ed elevati in materiale deperibile, quali il Blockbau, il tavolato ligneo, la terra pressata, lo Stabbau. Il tipo si ritrova in tutto l'ambito
europeo ma con scarsa diffusione a partire dall'Ottavo secolo: aumenta
fra XI e XIII. Nel tipo non rientrano le strutture che presentano il riuso delle murature di edifici più antichi; queste appartengono infatti al
tipo a tecnica mista, visto che il tratto caratterizzante è costituito dal
riuso piuttosto che dalla volontà di costruire una casa con basamento in
pietra. Con il basamento in pietra interno all'escavazione, che supera
leggermente il livello del suolo ed elevati in materiale deperibile, solitamente lignei, si tratta di un modello costruttivo tipicamente retico, diffuso nell'alta valle dell’Adige anche in età tardo-antica ed altomedievale.
Per quanto riguarda l'Italia peninsulare, un unicum sembrano essere le
capanne di Cosa.
con basamento in legno o altro: struttura con trave dormiente perimetrale scanalato sul quale si innestano gli elevati in Stabbau o in tavolato orizzontale. Si tratta di un tipo piuttosto tardo, diffusosi a partire
dal Decimo secolo, soprattutto in ambito slavo (Germania orientale e
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
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Polonia). Un altra variante dello stesso tipo prevede l'incastro sui travi
dormienti per l'alloggio di pali portanti verticali.
a tecnica mista: comprende tutte le strutture, anche con pavimento
semiscavato, nelle quali si presenta in modo significativo una commistione fra tipi; presenta ovviamente una diffusione spaziale e cronologica molto eterogenea. Sono considerate a tecnica mista le strutture dove
si trovano insieme l'utilizzo della pietra e dell'armatura di pali: capanne
con basamento in pietra e pali centrali a sostegno del tetto; capanne
addossate a precedenti strutture in pietra6; capanne con la funzione
portante divisa fra un’armatura di pali in canaletta perimetrale e un allineamento di pali centrali a sostegno del tetto; Blockbau con basamento
in pietra. Non vanno considerati i rari esempi di Blockbau a due navate visto che i pali centrali sono perlopiù aggiunte posteriori e non caratterizzanti. Le strutture a tecnica mista potranno rivelarsi estremamente
interessanti quali punti di cesura per una futura indagine analitica sulla
diffusione geografica dei tipi edilizi in materiale deperibile.
casa in terra: si tratta di strutture costituite da blocchi di terra pressata
e messi in opera; la copertura può essere in materiale deperibile quale
paglia, frasche e letame, oppure in laterizi. Il tipo è diffuso solamente in
Italia, specialmente nel centro, mentre in Europa finora non è stato rintracciato nessun esempio.
Fachwerk: tipo edilizio tipicamente germanico, anche con pavimento
semiscavato, costituito da un basamento in pietra e una intelaiatura di
travi verticali e oblique a formare lo scheletro della casa. Gli interstizi
fra il telaio sono chiusi da pareti in materiale deperibile pressato (terra,
paglia, argilla, letame), lasciando in vista le travi. Il tipo ha una diffusione molto limitata nell'altomedioevo, a partire dal Nono secolo, mentre
trova un ampio utilizzo nei secoli finali del medioevo e per tutta l'età
moderna.
È possibile, infine, proporre le ragioni che appaiono ormai come le più logiche per ricostruire l’evoluzione delle costruzioni più antiche sugli Altipiani.
Utilizzando la pietra presente dovunque in superficie, si recuperavano spazi
al terreno fertile e le murature a secco poste ai margini di strade e pascoli divennero col tempo elementi caratteristici di una scacchiera irregolare. Costruzioni significative di quella tradizione sono le recinzioni degli ovili, segnalati da
Tomaso Franco, che sono da collocare sicuramente in epoca almeno medievale.
6
È un caso abbastanza diffuso in Italia, tanto che ha indotto Brogiolo a coniare il termine
“edilizia mista di riutilizzo” o “a tecnica mista”.
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Paolo Zammatteo
Se la realizzazione di murature a secco appartiene a tutta la tradizione non
romana, dai Greci ai Celti, non di meno è chiaro che qui alcune strutture litiche
di grandi dimensioni erano utilizzate per segnalare percorsi e opere di interesse
pubblico, le strade.
La frequenza di queste opere e la loro varietà sono molto maggiori rispetto
alle altre consuetudini masali alpine.
All’interno di questa categoria si riconoscono vari tipi di paramento murario, che a seconda della apparente semplicità o per la maestria nell’esecuzione
possono essere più o meno antichi e il prodotto di maestranze locali come di
importazione.
Occorre però trovare un riferimento storico per quanto è avvenuto in modo
tanto estensivo fra la Lessinia e la Cymbria. E la chiarificazione sta tutta nel valore assegnato alle Viezene. Non come terreno di pascolo, in quanto il prativo
dei terreni prevalentemente calcarei rende molto meno che sulle altre alpi: piuttosto erano essenziali come snodi per la monticazione, risorsa irrinunciabile
degli armenti, che qui giungevano dalla pianura veneta.
Perciò l’occupazione stagionale dovette essere prevalente a lungo. Tutto orbitava intorno ai pascoli, anche i ricoveri per gli uomini, con la realizzazione di
semplici sovrastrutture temporanee in pali di legno, come quelle che Aristide
Baragiola documentava ancora alla fine dell’Ottocento per protezione di pastori e carbonai.
Successivamente, ma ormai con una tecnica mista (basamento in pietrame,
elevato in legno), sorsero le prime malghe ed i masi per la fienagione. A questo
punto poco conta se si usavano il Blockbau o strutture a pali verticali e incrociati e a tavolato; è anzi probabile che fossero presenti indifferentemente, magari giustapposti nella combinazione di unità edilizie sotto lo stesso tetto.
Certo è che la presenza del pietrame in loco e l’assenza di fondazione (o anche di piani totalmente interrati) e calce indicano l’esistenza di edifici - impostati sul terreno o seminterrati - con larga prevalenza degli elevati in legno, ma soprattutto un convincimento radicato verso un tipo di capanna rettangolare,
che originariamente nulla aveva a che vedere con una eredità romana: ad oggi
non risulta nessun elemento costruttivo, magari riutilizzato, che si colleghi a
tanta antichità o all’ipotesi minima di un riuso su strutture complesse e definite
in una tecnica muraria vera e propria.
Piuttosto ad una precisa cognizione sia territoriale, sia delle tecniche murarie
rimandano per primi gli impianti di matrice romanico romanza della Valsugana,
forti, militari, emblematici: la Bastia di Calceranica, il vallo di Carbonare, il castello di Vignola e Castelnuovo sul Dosso Castellare, a monte del paese omonimo in Valsugana Inferiore. In tutti questi siti un esteso lavoro di bonifica ed
un audace sistema di riempimenti e murature di contenimento hanno consentito la realizzazione di un esteso impianto di murature defilate e l’utilizzo di
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
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un’area gravosa, dove certamente avveniva anche un controllo militare, alta sulle strade di collegamento fra il Principato Vescovile di Trento e il Veneto.
Gli insediamenti sul Monte di Luserna nel XV secolo
A pochi anni dall’espansione veneziana in terraferma gli assetti erano mutati
nuovamente in favore dell’Impero e nel 1442 due massari sleghesi abbandonavano la montagna di Luserna (ZAMMATTEO 1999-a). La vendita impegnò
direttamente i signori del Tirolo: avviata da Federico Tascavuota, fu conclusa
tre anni dopo la sua morte da Sigismondo d’Asburgo.
Dei due venditori, “Bregente seu Helfle habitabat in Valle Astigi” e “Blasius,
filius quondam Ser Brigenti di Luserna, - era - habitator in Asiago”. Per lunga
tradizione ancora nel XIX secolo una parte significativa del paese era di “comunisti sleghesi”.
Il prenome “da Luserna” è documentato nel Seicento: all’inizio del secolo
nelle Anagrafi dei nati di Brancafora compaiono per la prima volta gli abitanti
stanziali, fra cui Angela e Barbera, figlie di Zanin, che compaiono come testimoni di un battesimo.
Sullo sfondo delle vicende quattrocentesche è possibile riconoscere i motivi
che portarono alla costituzione dell’insediamento e le sue caratteristiche. Come
si vedrà in dettaglio più avanti, la casa tradizionale si articolava sullo stesso
modello delle malghe provvisorie e delle casàre, che l’hanno preceduta.
I primi nuclei stanziali risalgono al XVII secolo. La scelta dei terrazzamenti, su
cui sorgono Luserna e Tezze, è dovuto alla loro posizione invidiabile, che nel
Seicento attrasse famiglie da Asiago, Lavarone, Roncegno e Terragnolo, ma
che già da tempo aveva convinto i fruitori del pascolo a realizzare lì i primi edifici destinati all’alpeggio.
“In un ambiente ostile per condizionamenti naturali come la montagna alpina la formazione di un primordiale habitat permanente non poteva che essere opera collettiva di gruppo. Mai per iniziativa di un singolo, ma solamente nella unione delle forze di più individui
era possibile vincere le avversità e perdurare attraverso lunghi inverni spesso in completo
isolamento. Del resto le strutture insediative di popolazioni primitive sono sempre e dappertutto di forma aggregata. Le organizzazioni comunitarie agro-pastorali, legate a sedi annucleate, presenti quasi ovunque nella nostra montagna, non dovrebbero avere altra origine ”
(GELLNER 1988, pp. 73-75).
Oggetto della vendita del 1442 erano stati quattro “mansi”; Campo Rosà, il
Bisele e i due, che costituirono la premessa al paese. Non si trattava delle “abitazioni stanziali a insediamento sparso di tipo tedesco”, quelle che rispondono
ad una classificazione piuttosto fragile in voga fino a un decennio fa. Varie attestazioni fra le costruzioni di montagna riguardano invece le stallefienile, una
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Paolo Zammatteo
evoluzione degli antichi ovili consortili, come quelli che ancora punteggiano gli
altipiani.
Le stallefienile si rinvengono in altre aree colonizzate dai Bavaresi, come il
Cantone dei Grigioni e il Ticinese. Ad Agordo il “mas” è un rustico stanziale,
dotato di stalle, magazzini, pascoli e annessi sufficienti all’autosostentamento,
che serviva come riferimento sulle quote per il bestiame delle piccole comunità
rurali stanziate in valle. Si tratta di quella matrice insediativa prossimale (FORENZA, ZAMMATTEO 1997), aggregato minimo delle funzioni di malga e
pagliaio, che i tedeschi accomunano nel termine Alme e si può tradurre con
“alpe”.
L’atto del 1442 simboleggia idealmente il sopraggiungere di tempi nuovi:
grazie ai massari lavaronesi, che furono anche testi alla stesura dell’atto,
l’assetto del monte si sarebbe rafforzato notevolmente.
Il primo era Pietro Osell del fu ser Bertoldo di Lavarone. A Tezze la tradizione riporta che la prima abitazione fu Maso Hoseli. Probabilmente si trovava
al Pletz del Motze (Tezze), un sito sfruttato già in preistoria, ricchissimo di scorie di fusione, che per questi motivi doveva costituire un pianoro di grande interesse. Inoltre la scoria garantiva la salubrità e uno straordinario drenaggio “innaturale” del suolo. L’ultimo atto ufficiale in cui compaiono gli Hoseli è del
1710 (Aggiustamento et aggregazione rispettivamente dell’honoranda comunità di Lavarone
con li vicini di Luserna). Il documento, che riguarda il tentativo di separarsi da Lavarone, viene sottoscritto da “Sebastian e Cristian q.[uondam] GB. Huesele”.
Un altro testimone fu Nicolusso del fu Bertoldo di Lavarone: per tradizione
Luserna (frazione) sarebbe nata proprio dal Maso dei Nicolussi (fra i tanti tratti
opacizzati da una storiografia parziale ed approssimativa ci sono proprio le attestazioni delle famiglie. Una prova evidente della “elasticità” nell’uso dei nomi
personali è il caso della famiglia Pedrazza).
Vari atti, successivi al 1442 e ricompresi in mezzo secolo, documentano
l’espansione delle “Almen”.
Nel 1454: alcuni uomini di Lavarone giungevano a Luserna come livellari
della Curazia di Brancafora; nel 1469: il doge di Venezia, Cristoforo Moro, inviava una ducale a Giacomo Trapp (insediatosi a Caldonazzo nel 1461), chiedendogli di intervenire a favore del Rettore - beneficiario di Brancafora in merito all’affitto dei pascoli di Luserna, che i malgari di Luserna si ostinavano a
non corrispondere malgrado una sentenza già emessa contro di loro; nel 1471:
il dinasta di Caldonazzo, allo scopo di risolvere la questione del confine, interrogò vari testimoni della zona (illi in et super dictis mansibus et in valle Astigi):
Liserna comparirà in quattro deposizioni; nel 1480: l’atto di insediamento del
nuovo curato di Pedemonte recita: “Licenza di esercitare la cura d’anime, se
pur ve ne sono…”; nel 1487: durante la guerra veneta gli altipiani vennero occupati dalla Serenissima. Dopo la pace i massari di origine lavaronese, che fino
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
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ad allora avevano ottenuto a livello poderi sulla montagna di Luserna, supplicarono di poterne ancora fruire, pagando ogni anno 36 lire. La concessione giunse con una ducale (REICH, 1970, p. 211-216); nel 1488: negli Atti Visitali di
Padova risulta che “i redditi di questa chiesa (Brancafora) … provengono
dall’affitto di un monte che tengono quelli di Lavarone e in tre masi posti sul
monte che affittano per trentasei troni e in ottanta stari di milio secondo la misura di Trento che vengono raccolti nella zona di Levico …”; nel 1492: già da
venticinque anni la montagna di Luserna era data in locazione al nob. Giovanni
da Porto di Vicenza.
Alla metà del Cinquecento l’Urbario di Corte di Caldonazzo si opponeva
apertamente agli antichi diritti della Curazia di Brancafora, e nel 1633
li Niclussi e Gaspari da Luserna possedono due masi sopra il d.o monte, uno d.o il maso
di Niclussi e l’altro d. dei Hoseli, delli quali pagano la decima omnium nascentium et colligientum. Li malgheri del Bisele pagano annualmente formaggio L 33. Et questo mi viene
impedito contro ogni ragione dal sig. Barone. Il Sig. D.o Giov. Cristoforo dall’Echo paga
livello per il campo di Luserna annualmente (ARCHIVIO VESCOVILE DI PADOVA, Atti Visitali, 1633).
La differenza fra le malghe e i masi era nella maggiore complessità delle
funzioni ospitate: ma il termine maso, da solo, non basta a definire l’esistenza
di un insediamento stanziale.
Verso il paese di Luserna
Brancafora era una “villa”, un paese, già nel 1385.
Nei villaggi alle singole unità edilizie veniva impedito di crescere in rapporto
all’incremento numerico delle famiglie. Il signore fondiario, per garantirsi la
redditività derivante dall’incameramento della sovrapproduzione rispetto al
consumo interno, dirottava in altre iniziative colonizzatrici l’eccesso di carico
demografico e quest’ultimo veniva controllato attentamente a difesa
dell’equilibrio tra risorse primarie vegetali del territorio di pertinenza e carico
insediativo stesso.
Anche nel regime «regoliero» di autogestione delle comunità agro-pastorali
compare il divieto di formare nuove unità poderali con l’istituzione del numero
chiuso dei «consortes» e vari usi consuetudinari tendevano a contenere anche il
numero delle nascite.
La proliferazione dei fuochi poteva infrangere il delicato equilibrio con le risorse dei pascoli, base fondamentale di sussistenza. Ii laudi (piccoli codici rurali)
disciplinavano rigorosamente il rapporto tra numero di uomini, numero del bestiame e risorse dei pascoli.
82
Paolo Zammatteo
I masi erano nati a servizio di tutto questo ed erano fondamentali soprattutto perché incettavano le scorte di foraggio: ovvio quindi che si trovassero ai
margini dell’alpe, più vicini alle “ville”, che dovevano fruirne anche nelle condizioni più critiche per l’accessibilità, quelle invernali.
A Luserna tutto questo avveniva in sostanziale equilibrio con il territorio già
quando era ancora esclusivamente pascolo di Brancafora. La ragione prevalente
della sopravvivenza in un ambiente non facile aveva fatto emergere la dimensione radicale dell’abitazione e del ricovero, per il foraggio come per gli animali.
I caratteri delle costruzioni erano vincolati solo all’esperienza e alla funzionalità. Osservando le tracce residue negli edifici attuali, emerge che la forma della
casa tradizionale rispecchia le malghe e i masi. Essi erano recinti esclusivamente a “Blockbau” (le mandre e i capanni dei pastori), oppure a tecnica mista con
la fondazione e parte dell’elevato in muratura per una collocazione stabile (gli
stabi, i Tablat), e infine, molto più recentemente, in pietra, appoggiati praticamente sul prato o su un terrapieno che rimediasse alla pendenza del terreno. La
copertura era a due falde o a capanna, in tronchi scortecciati e incrociati. Il
manto del tetto era di paglia, poiché il legno entrò in uso successivamente.
Una variante sfruttava lo scavo del pendio, essendo interrata per la maggior
parte. Sopra l’avvolto c’era la “tézza”, una soffitta a cui si accedeva da monte, e
vi si ricettava lo strame. La scelta della tezza rispetto al tipo in linea dipendeva
essenzialmente dai luoghi: ma “tézza”, o tiézo, era anche il nome dato a un’erba
che cresce su terreni instabili e paludosi, e non c’è dubbio che in origine quel
particolare tipo di edificio avesse funzione di fienile, in quanto meglio praticabile. Altrove ben documentato divenne modello intuitivo per la successiva evoluzione delle case. Inoltre del monte di Luserna Tezze è la frazione più vicina a
Pedemonte e la prima raggiunta dal sentiero; il luogo ideale per una stallafienile,
appunto.
L’uso della pietra come materiale di costruzione comportò dapprima
l’opportunità di affiancare le funzioni di stalla e fienile (tezza, tiezo, Tetch) intorno a una sorgente, permettendo l’evoluzione di quei nuclei aggregati, chiamati
masi, che sono documentati dalla metà del Quattrocento.
In seguito l’uso prevalente della pietra e degli avvolti, dove il legname scortecciato si limita al tetto, dimostra una indubbia eredità delle tecniche murarie
romaniche, come è ben evidente negli esempi di malga che ancora esistono nel
Ticinese e nei Grigioni, sorprendentemente simili a quelli residui delle stalle e
delle case di Luserna.
A un certo punto nell’aggregato d’alpeggio compaiono sempre l’abitazione
(il fuoco), il fienile, la lavorazione casearia: la posizione centrale della pozza o
della fontana focalizza la corte, lo spazio aperto delimitato dagli edifici.
Fra XVI e XVII secolo la corte, la Hof, rappresentava il genius loci dei nuovi
paleo-villaggi. Al posto delle Hofen “Niclussi” e “Trogher” entrarono in uso i
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
83
nomi di Luserna (1626), Sotto di Luserna (1629) e Tezze (1631). Mentre i caratteri tipologici degli edifici restavano quelli delle costruzioni di malga, il senso
dell’abitazione cambiava, essendo ormai stanziale per tutto l’anno.
Le costruzioni erano molto simili tra loro: presentavano il fronte principale
verso il sole, erano a un solo piano e di dimensioni modeste, spesso con la stalla e l’abitazione distinti ma sotto uno stesso tetto. Avevano sistematicamente
da uno a quattro vani e una o due porte verso l’esterno: tutte le aperture erano
piccole e rigorosamente sul fronte principale, i soffitti, molto bassi, erano ad
avvolto in tutti i locali. Considerando che l’insediamento di Brentonico, sul
Monte Baldo, è di origine analoga a quella di Luserna, e che lì si ricorda una
tecnica costruttiva degli avvolti piuttosto curiosa, possiamo ipotizzare che lo
stesso metodo venisse utilizzato anche qui. La realizzazione di queste cellule
sfruttava un principio semplice e geniale. I ricoveri venivano realizzati
d’inverno e soprattutto per l’inverno: altrimenti, la vita e tutti i suoi rituali si
svolgevano di consuetudine all’aperto. Il fronte del pendio veniva scavato dalla
parte avversa al vento di monte, che qui a Luserna scende da settentrione ed è
particolarmente freddo. Poi si raccoglieva la neve circostante all’interno dello
scavo, che era di circa tre metri per quattro di profondità, le si dava la forma
dell’avvolto e si faceva congelare, gettando acqua sopra lo stampo così ottenuto. Su questa centina fornita dalla natura si impostava la volta a secco, utilizzando il pietrame emerso durante lo scavo: infine, sopra l’avvolto si rigettava il
terreno di risulta, che di solito era argilloso. La primavera ed il disgelo collaboravano alla realizzazione di questo piccolo tunnel.
L’intonaco non c’era: la calce, poca, serviva solo per appoggiare sul terreno
una fondazione precaria: come legante si usava la terra argillosa del posto.
L’assenza di fondazioni e malta è sopravvissuta fino all’inizio del secolo scorso,
mentre l’uso del legno non sbozzato per le travi del tetto trova una corrispondenza sorprendente con le abitazioni protostoriche di Castelletto di Rotzo.
Luserna è anche il confine. L’occupazione lavaronese inizialmente si era limitata all’affitto dei pascoli da Brancafora. Ma in un arco di tempo circoscritto
in un secolo, il XVI, l’insediamento divenne stabile e agli albori del 1600 gli atti
ecclesiastici registrano le prime nascite, seppure ancora rare.
Un nuovo flusso migratorio in entrata doveva farsi sentire di lì a poco, probabilmente nel contesto della grande piaga, la peste del 1628-31. Pochi anni più in
là i nuovi abitanti avrebbero chiesto una chiesa propria e l’indipendenza da Lavarone.
A contorno della nascita di Luserna vanno considerate la contemporaneità e
la coincidenza di due grandi questioni:
nel 1508-1509 la guerra cambraica aveva già portato con sé la peste, che
risulta avesse decimato la popolazione delle contrade soggette a livello
di Brancafora, imponendo senz’altro la necessità di un nuovo assetto
84
Paolo Zammatteo
nell’equilibrio fra popolazione e quadro ambientale, quindi nuove affittanze;
il “livello perpetuo”, registrato ancora nella Carta di Regola di Luserna
del 1780, dimostra l’esistenza di una situazione “patrimoniale”
vantaggiosa.
Inoltre durante l’analisi degli stili di insediamento, all’interno del paese
si sono rilevate altre due condizioni:
i sistemi ambientali sono dati dalla coincidenza fra case, corte interna
(la Hof), pozzo e fontana;
la datazione dell’insediamento stanziale al XVI secolo trova motivi di
riferimento in un assetto più generale, con la diffusione di una tipologia
costruttiva analoga anche nelle sue forme evolutive.
Occorre negare l’infallibilità della tradizione orale, che ribadirebbe una originalità culturale di Luserna “paese di pietra”. Il paesaggio tradizionale non si
giustifica in una particolare maestria nei vecchi paramenti murari (la cui tecnica
è qui particolarmente discutibile), ma trova ragion d’essere in una matrice culturale europea comune, “romanica” e diffusa sull’alpe.
L’Ottocento
Necessariamente, con la crescita in relazione ravvicinata fra casa e rustico
sarebbe anche cambiata la concezione dell’unità abitativa e del “fuoco”, che
non poteva più corrispondere al singolo gruppo famigliare. La pianta del piano
terreno si sdoppiava. Talvolta sopra ne veniva aggiunto un altro del tutto uguale o, per influsso veneto, un vano diventava corridoio centrale di distribuzione.
Prendendo spunto dalle usanze di alpeggio, sotto uno stesso tetto potevano
stare più persone, raccolte in gruppi familiari estesi, quindi in ragione di rapporti parentali non particolarmente stretti. Conseguenza immediata, la cucina
era in comune.
Ormai il tetto, che conservava due falde o i timpani obliqui, era ricoperto
con assicelle di legno, quasi esclusivamente larice, secondo un uso di importazione tirolese. Nei documenti di compravendita l’indicazione dei tetti in scandole
compare alla metà del Settecento e questo sì conobbe sviluppi originali: infatti
la gente degli Altipiani proteggeva le sue case tipiche, a due piani, con un manto di stéle, tavole, poste in opera a due strati anziché a tre e più grandi di quelle
normali.
Gli abbaini a due falde come anche la scelta di staccare dall’abitazione il rustico (stalla e aia) si resero necessari poi, a causa di una nuova concentrazione
edilizia ottocentesca. Allora le abitazioni sono cresciute per numero, locali,
spesso hanno guadagnato un altro piano, generalmente tamponato con murature leggere in calce e nòcciolo intrecciato.
L’architettura di Luserna dalle origini al 1800
85
Al Bivio. Luserna fra il 1866 e il 1912
In un ambiente ostile per condizionamenti naturali come la montagna alpina la formazione di un primordiale habitat permanente non poteva che essere opera collettiva di gruppo.
Mai per iniziativa di un singolo, ma solamente nella unione delle forze di più individui era
possibile vincere le avversità e perdurare attraverso lunghi inverni spesso in completo isolamento. Del resto le strutture insediative di popolazioni primitive sono sempre e dappertutto
di forma aggregata. Le organizzazioni comunitarie agro-pastorali, legate a sedi annucleate,
presenti quasi ovunque nella nostra montagna, non dovrebbero avere altra origine (GELLNER 1988, pp. 73-75).
Luserna, per le sue particolari condizioni, poté recepire questi precetti solo
molto tardi, dopo lunghe trattative per l’autonomia della comunità, che si risolsero nel 1780. Malgrado ciò la realtà insediativa di Luserna è un caso emblematico della relazione stretta tra gruppo e ambiente orografico alpino e di quanto
poi le culture nazionali ottocentesche abbiano modificato la concezione e la
struttura stessa del territorio. Su tutta la montagna l’effetto di queste posizioni
si legge nella qualità architettonica delle costruzioni, nelle strade, ma anche nelle interpretazioni storiche dell’insediamento.
Ma la particolarità del dialetto in uso e la collocazione puntuale in un contesto ormai italianizzato si sovrappongono ad uno stato di marginalità originaria,
con motivi ulteriori rispetto a quello già forte del confine. Vi si legge
l’accettazione, probabilmente volontaria, del “confine come spazio del malinteso”.
Il malinteso è, nella definizione che ne dà V. Jankélévitch, quel <non so che> che permette agli uomini di continuare a non capirsi. È quel <quasi niente> che ci permette di dire
che “noi” non siamo proprio uguali “agli altri”. ... Più il tempo passa e più il malinteso si
consolida, si radica nell’uso e diventa difficile se non pericoloso cercare di risolverlo e di
chiarirlo (ZANINI 1997).
Se si guarda alla storia del Monte di Luserna e dei suoi abitanti - e non basta
riferirsi alla sopravvivenza del dialetto originario – si ha una prova formidabile
della solidità di quella affermazione.
Per tutto quanto attiene la progettazione, nella seconda metà dell’Ottocento
si diffuse una concezione propriamente occidentale, che in architettura è vincolata alle geometrie e ai modelli teorici: a Luserna apparve assieme a nuove funzioni, come le scuole e gli alberghi, quando giunsero le ideologie risorgimentali
e pangermaniste, un’ultima guerra di indipendenza, la prima di dimensioni
mondiali e l’emigrazione coatta degli optanti: ma l’imprinting dell’alpe rimane
ed è impresso nel palinsesto dei muri, delle scale esterne e delle case in pietra.
Paolo Zammatteo
72
mento, evidenziò come le travature fossero direttamente appoggiate sulle sabbie della riva, talvolta su delle pietre piane3”.
In Italia lo studio dell'edilizia altomedievale in materiale deperibile non è ancora stato affrontato sistematicamente: nonostante questi limiti ed in quanto lo
studio dell’edilizia altomedievale in materiale deperibile non conosce, a livello
europeo, una tipologia omnicomprensiva, all’interno della tradizione italiana
sono osservabili alcune tendenze di massima geograficamente riconoscibili.
Capanne costruite esclusivamente in legno sono rintracciabili solo nel cuore
della pianura padana e nelle zone prealpine o alpine4, in aree e luoghi lontani da
cave e da resti emergenti di età romana da cui recuperare materiali edilizi. In
ambito urbano la situazione muta sensibilmente, la tecnica costruttiva più diffusa è quella mista, consistente nell'uso di legno-fibre vegetali assieme a materiali di reimpiego (quali pietra e laterizio, spesso ruderi di murature sulle quali si
impostano le capanne stesse).
L'applicazione della tecnica mista è caratteristica della situazione italiana, infatti non si trova nel resto dell'Europa un solo confronto per edifici di questo
tipo. Lo stesso vale per le costruzioni in terra, finora attestate solo in Abruzzo
e in Toscana.
Diventa necessario, oltre che interessante, ricostruire quante tipologie sono
riscontrabili in Europa e come si presentano in edifici risalenti al medioevo e
realizzati parzialmente o del tutto in legno.
Si è scelto di distinguere le singole partiture delle costruzioni per categorie, in
modo da rendere più agevole la comprensione di un ipotetico nuovo reperto
Pianta
rettangolare
quadrata
trapezoidale
esagonale
ellittica
circolare
irregolare
longhouse rettangolare
longhouse a barca
3
4
Liberamente tratto da BASSI C., CAVADA E. 1994, Aspetti dell’edilizia residenziale alpina
tra l’età classica e il medioevo, Trento.
Ibidem.
86
Paolo Zammatteo
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E DI ARCHIVIO
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Bari.
ARCHEOLOGIA DI FRONTIERA: IL PROGETTO “AD METALLA”
Armando De Guio
1. Premessa
Il flusso critico di questo contributo procede da una delineazione del particolare contenitore (Progetto “Ad Metalla”) in cui si struttura la nostra ricerca
per poi procedere all’illustrazione di alcuni casi di studio.
Il titolo del progetto individua uno dei filoni centrali di indagine (archeometallurgia), evocando, con enfatica auto-ironia, l’espressione giuridica romana di
condanna ai lavori forzati nelle miniere e rimandando al contempo all’apporto
cruciale del mondo romano nell’implementazione della prima fondamentale
“rivoluzione industriale” di settore (cfr. l’impiego di scala di risorse umane e di
macchine ellenistiche dedicate alle tecnologie estrattivo-fusorie/siderurgiche) e
alla valenza stessa del latino quale “lingua franca” del sapere antico sui processi
metallurgici (cfr. il phylum genetico ideale dalla Naturalis Historia di Plinio al De
Re Metallica del 1556 dell’Agricola ossia del sassone Geoge Bauer). Il concetto
stesso, portante e ricorrente, di “via dei metalli”, applicato in modo emblematico proprio al territorio degli Altipiani (cfr. oltre), è assunto sia nella sua più diretta accezione (rete di percorsi strutturati dedicati, di varia tipologia, epoca,
funzione e risoluzione, dal locale al transregionale), che come metafora di tutta
una serie di “percorsi critici” del circuito minerario-metallurgico, da quelli, a
grana fine, delle singole “catene operative” dei vari metalli, a quello sociotecnico di vettore portante dell’intero sistema di civilizzazione europea dalla prima
età del rame all’epoca contemporanea.
2. Il progetto “Ad Metalla”
Denominazione del progetto:
“Ad Metalla”.
Soggetti proponenti:
Università di Padova;
Università di Nottingham;
88
Armando De Guio
Soprintendenza per i Beni Archeologici (TN)1;
Amministrazione delle risorse culturali e linee generali di indirizzo:
Soprintendenza per i Beni Archeologici (TN).
Coordinamento tecnico-logistico:
C.I.S.A.S. (Centro Internazionale di Studi di Archeologia di Superficie)2
Partnership amministrativa mirata:
Regione Trentino-Alto Adige;
Regione Veneto;
Provincia di Vicenza;
Provincia Autonoma di Trento;
Amministrazione comunale di Luserna;
Amministrazione comunale di Borgo Valsugana;
Amministrazione comunale di Calceranica;
Amministrazione comunale di Lavarone;
Amministrazione comunale di Levico;
Amministrazione comunale di Rotzo.
Patti d’area transregionali di cornice:
Programma transregionale “GRANDI ALTIPIANI”: Regione Veneto,
Provincia Autonoma di Trento, Comunità Montana – Spettabile Reggenza dei
Sette Comuni, Comune di Rotzo, Consorzio usi Civici Rotzo – S. Pietro – Pedescala, Comune di Roana, Comune di Luserna, Comune di Lavarone, Comune di Levico Terme. Tale contesto geografico e amministrativo vale a costituire
uno specifico dominio spaziale “allargato” di applicazione di questo progetto,
con riferimento mirato alla realizzazione di una rete integrata di monitoraggio/valorizzazione e amministrazione delle risorse imperniata su di un tessuto
di “percorsi tematici” connettivi (cfr. infra).
1
2
Denominazione attuale (in precedenza “Servizio Beni Culturali - Ufficio Beni Archeologici”)
Il Centro è una struttura di ricerca del Dipartimento di Scienze dell’Antichità-Univ. Padova,
che opera in cooperazione con vari soggetti istituzionali (in particolare: Università di Londra, Nottingham, Napoli, Boston e ACCORDIA Research Centre-Londra) e nella cornice
di una collaborazione organica con la Soprintendenza Archeologica per il Veneto e la Soprintendenza per i Beni Archeologici (TN).
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
89
Obiettivo principale di fondo perseguito:
Massivo e qualificato rilancio del territorio degli altopiani in quanto eccezionale (ma ancora precariamente “attualizzato” e “valorizzato”) contenitore di
risorse.
La finalità in oggetto viene perseguita attraverso un progetto articolato di
acquisizione conoscitiva, valorizzazione, tutela, presentazione e offerta di modelli di fruizione, aperto alle suggestioni sperimentali d’avanguardia (in particolare utilizzo dei veicoli di informazione multi-ipermediale) ora dischiuse alle
nuove classi di consumo di un’emergente “società post-industriale”. Un tratto
ubiquitariamente emergente, al riguardo, è offerto dalla progressiva ed epidemica affermazione di un modello di turismo culturale sempre più attento ad un
impatto diretto – fisico ed emozionale – con un arco crescente di risorse e, al
contempo, sempre più esigente e selettivo sulla gamma di infrastrutture informative e promozionali di supporto (sia remote che localizzate in situ).
Ambito spaziale di applicazione (figs. 1-2):
Altipiani di Vezzena-Lavarone-Luserna, con estensione per la delineazione
di percorsi tematici connettivi (cfr. oltre) ai territori contigui interessati e con
particolare riferimento al programma transregionale “GRANDI ALTIPIANI”
succitato.
Ambito tematico di applicazione:
Analisi, valutazione, valorizzazione (Public Archaeology, Turismo Culturale ed
Ambientale), monitoraggio (Risk Assessment) e amministrazione delle risorse
culturali (CRM: Cultural Resource Management) ed eco-clulturali (“ECRM”= EcoCultural Resource Management) del territorio. Dominio centrale mirato di interesse: Archeologia ed Etnoarcheologia. Topica centrale: Metallurgia del ramebronzo.
Parole - chiave:
archeologia;
etnoarcheologia;
etnografia;
tradizioni popolari;
archeometallurgia;
chaînes opératiores;
landscape ecology & archaeology;
Armando De Guio
90
longue durée;
fossil landscapes;
cognitivismo & “archaeology of the mind”;
public archaeology;
crm (cultural resource management);
ecrm(eco cultural resource management);
economia dei beni eco-culturali & heritage industry ;
turismo eco-culturale;
recupero della “marginalità”;
vulnerabilità;
abbandono;
sviluppo sostenibile;
sistemi informativi territoriali.
Domini di competenza ed expertise:
Scienze Geologiche, Geografiche (in particolare G.I.S.), Ecologiche, Archeologia (Preistorica, Classica, Medioevale, Postmedioevale, Industriale, “Attualistica”, Sperimentale, Etnoarcheologia, Rescue Archaeology, Public Archaeology, EcoCultural Resource Management, Landscape Archaeology), Storia (“evenemenziale”,
“congiunturale” e – soprattutto – di “lunga durata”, “Local vs Global History”,
“Oral History”…), Antropologia Culturale, Etnografia, Studi di Folklore e
Tradizioni Popolari, Toponomastica, “Material Culture Studies”, Sociologia (ad
es. “Social Action”, “Sociologia della Produzione”), Scienze Economiche
(“Micro vs Macro Economy”), Scienze Turistiche, Storia dell’Arte, Scienze della Pianificazione Territoriale (Planning, Studi d’Impatto Ambientale…), Scienze
Architettoniche (es. Progettazione Parchi).
Topiche di dettaglio:
“Archeologia” in genere:
Siti e ritrovamenti preistorici, protostorici, storici e contemporanei di diretto
interesse etno-archeologico o archeo-sperimentale, col loro corredo di manufatti ed eco-fatti pertinenti. Topica centrale: la catena metallurgica del rame.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
91
“Archeologia della guerra” (cfr. oltre).
“Altre Archeologie” e “Storie”.
La “archeologia della guerra” fa parte di un pacchetto esteso di “altre archeologie” di estrazione prevalentemente etno-archeologica e etno-storica che in
questi ultimi anni si stanno attivamente applicando proprio con riferimento
privilegiato agli altipiani in oggetto (cfr. bibliografia allegata), ad es.:
archeologia dell’abbandono o archeologia ruderale;
ergologia e mestieri tradizionali;
Strutture e infrastrutture produttive tradizionali;
Strutture e infrastrutture non-produttive (simbolico – proiettive –
cultuali…)
archeologia della connettività o delle comunicazioni;
archeologia dei confini;
archeologia delle “masiere” (terrazzamenti);
archeologia delle calcare;
archeologia delle carbonare;
archeologia dell’acqua (water management, infrastrutture idrauliche)
archeologia del pastoralismo;
archeologia dell’uccellagione (“roccoli”);
archeologia del management boschivo;
archeologia del contrabbando;
archeologia del linguaggio (lingua viva, residuale e toponomastica);
“archeologia della mente” (“cognitive maps” / tradizioni popolari e affini);
Risorse “ambientali” e “paleo-ambientali”:
specie vegetali;
specie animali;
risorse morfologiche;
risorse geologiche;
risorse mineralogiche e minerarie;
eco-zone, fasce ecotonali e nicchie ecologiche: ambienti di particolare interesse naturalistico, per fito o bio-cenosi o morfologie, con riferimento privilegiato ad aree a rischio, soggette a diverse fonti di impatto;
paleoambiente (paleoclima, paleomorfologia, paleontologia, paleoetnobotanica …).
Armando De Guio
92
Risorse “eco-culturali” e reti connettive:
All’etichetta “eco-culturale” vorremmo innanzitutto attribuire, in
un’accezione semantica iperspecifica, tutte quelle situazioni in cui una precisa
constestualità spaziale fra “risorse culturali” e “risorse ambientali” costituisce
un nesso tangibile, inscindibile e strutturale (pensiamo, ad esempio, alla fenomenologia ricorrente di formazioni naturali emergenti che fanno da catalizzatori emblematici dell’immaginario collettivo locale), oppure una critica contiguità
topografica si presta ergonomicamente ad un percorso critico (non solo astratto-cognitivo, ma anche, più concretamente, turistico) che catturi un interesse
composito, di tipo, appunto, “culturale” e naturalistico. La maggior parte dei
“percorsi tematici” di valorizzazione del territorio che verranno proposti (cfr.
infra) saranno specificamente indirizzati a nodi critici di tali reticolo di risorse.
Lo stesso tematismo succitato della connettività assolve, in merito, ad una
funzione strumentalmente virtuosa di supporto. Il percorsi proposti si snodano
infatti in modo progettualmente mirato lungo una “rete” che costituisce già di
per sé un’ulteriore risorsa “rinnovabile” (in virtuosa simmetria con la rete telematica/virtuale di supporto, continuamente upgradabile), in quanto ribadisce o
riattiva in larga parte il tessuto di una importante percorrenza storica e tradizionale (sentieri, mulattiere, tratturi e strade) ora in buona parte disattivata, residuale o derubricata di rango e pertinente in modo privilegiato proprio al territorio di competenza mirato del Programma transregionale “GRANDI ALTIPIANI” (dominio spaziale allargato di applicazione di questo progetto: cfr. sopra) . Tale connettività è recuperabile in loco sulla scorta, oltre che delle emergenze residue, di un’abbondante documentazione cartografica ed archivistica
che restituisce, contestualmente, un’ulteriore risorsa di valore aggiunto: la toponomastica, di altissimo interesse per il marcato dinamismo sul piano diacronico-evolutivo (ad es. marginalizzazione della componente “cimbra” locale) e
sincronico-spaziale (cfr. ad es. la conflittualità, tuttora diagnosticabile, fra toponimi concorrenti). Percorrere, per chi può, “a piedi” e non solo virtualmente o
con mezzi meccanici questi “sentieri del nonno” è il modo migliore per scoprire, con la giusta dose di fatica, lo “scenario archeologico” e tutto lo straordinario universo di risorse eco-culturali di contesto succitate.
Topiche connesse:
Altre metallurgie
(in particolare: catena metallurgica del ferro), supporti infrastrutturali (impianti produttivi el metallo e del carbone di legna, rete connettiva) e flussi della
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
93
materia prima, prodotti semifiniti e finiti, artigianato metallurgico preprotostorico, storico e tradizionale.
Metodologie/tecnologie -base adottate:
remote sensing & image processing;
digital imagery;
object/pattern/scenery recognition;
prospezioni geofisiche;
analytical field survey;
scavo archeologico;
archeometria;
archeologia sperimentale;
3d photo-realistic modelling;
modelli simulativi e predittivi;
modelli di monitoraggio delle risorse e risk-assessment;
gis (geographic information system: raster/vettoriali, action - based…);
virtual reality;
hypermedia;
internet;
Principali prodotti finiti mirati e ricadute operative:
rilievo e catalogazione analitica delle risorse indirizzate;
pubblicazioni cartacee;
pubblicazioni ipemediali e siti internet ;
mostre, convegni, seminari e affini;
ecrm: produzione di modelli di amministrazione delle risorse eco-culturali;
public archaeology: pianificazioni di parco (“archeometallurgico”) e percorsi
mono e pluri-tematici (cfr. topiche di ricerca indirizzate);
monitoraggio delle risorse: (risk assessment, impact studies e simili);
recupero della “marginalita”: pianificazione di interventi di recupero, restauro e riconversione in chiave di turismo eco-culturale;
rilancio e/o valorizzazione di produzioni tipiche.
Articolazione progettuale:
a) FASE D’ISTRUZIONE (condivisione di un lessico critico concettuale, di
categorie analitiche, linee progettuali ed operazionali …);
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Armando De Guio
b) FASE DI IMPLEMENTAZIONE OPERATIVA:
Individuazione di “Case Study Areas” (aree campione), con distribuzione ponderata nel territorio di riferimento;
Analisi delle fonti: archeologiche, etnoarcheologiche, etnografiche, etnostoriche, storiche, documentarie, archivistiche, cartografiche, iconografiche, tradizioni popolari, “oral history”…;
Analisi sul campo di siti noti e siti indiziati da analisi teleosservative: survey,
prospezioni, décapages superficiali, saggi di scavo, scavo (ricerca “in terra
cognita”) e in aree non indiziate (ricerca “in terra incognita”);
Analisi sincroniche (spazio-funzionali) delle catene operative e dei flussi
critici dell’organizzazione del lavoro. Ad es., per la metallurgia preprotostorica del rame: prospezione, estrazione del minerale, frantumazione, cernita-arricchimento, arrostimento, scorificazione, produzione di
“pani” di metallo grezzo (“rame nero”), fusione; per la metallurgia protostorica del ferro: prospezione, estrazione del minerale, frantumazione,
cernita-arricchimento, arrostimento, scorificazione, produzione di “blumo”, martellatura, fucinatura/forgiatura, carburazione, tempra…;
Analisi diacronico-evolutive sulle trasformazioni nel tempo dei processi;
Individuazione di cerchie produttive e tradizioni artigianali;
Analisi delle modalita’ di scambio di risorse: materie prime, prodotti
semifiniti e finiti, conoscenze tecniche (know-how) e non (ad es. la c.d.
secret knowledge e sfera cognitiva connessa);
Valutazione e catalogazione delle fonti (d-base ipermediale georeferenziato, accessibile ed aggiornabile interattivamente in rete WWW);
Analisi archeometriche;
Verifiche archeosperimentali sui processi produttivi;
Predisposizione di modelli locali di valorizzazione delle risorse, in particolare: archeoparchi metallurgici (dall’archeologia preistorica
all’archeologia industriale), percorsi tematici attrezzati (ad es. varie “vie
del rame” o “vie del ferro”, “vie del contrabbando”, “vie della guerra”,
“vie della calcare/carbonare”… locali e, soprattutto, ultralocalitransregionali ), il più possibile ribaditi su di una rete connettiva storica
(da recuperare e riattivare contestualmente), musealizzazioni (all’aperto e
al chiuso: ad es. dai forni fusori dell’Età del Bronzo ai magli di epoca
contemporanea, alle malghe abbandonate, ai ripari per pastori…), interventi di recupero e restauro su strutture/infrastrutture di cornice (ad es.
viabilità storica, dedicata o meno, terrazzamenti, confinazioni e partizioni
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
95
territoriali, drenaggi e canalizzazioni), produzioni e veicolazioni multiipermediali;
Predisposizione di un modello integrato di rete di valorizzazione delle
risorse (su base telematica, con un’interfaccia di immediata accessibilità a
diverse tipologie di amministratori e utenti finali);
Predisposizione di modelli di monitoraggio (Risk Assessment, Impact Studies e simili) sullo stato delle risorse;
Fase di verifica interna e cross-validazione fra case-studies;
Pubblicizzazione e veicolazione multi-iper-mediale.
Risorse umane:
N. 20 operatori attivi remotamente e/o sul campo con competenza nelle aree di specializzazione succitate e afferenti ( o comunque proposti da) agli Entipartners succitati (in particolare: Università di Padova, Università di Nottingham, Boston University, Soprintendenza per i Beni Archeologici-TN).
Risorse tecnico-strumentali e Know-How:
In particolare: attrezzatura di rilievo, informatica, software di analisi teleosservativa ed archeometrica: in larga parte già in possesso agli Enti promotori e
partners scientifici succitati.
Articolazione/schedulazione temporale:
Progetto pluriennale (2002-2010) con meta-regola di riferimento: ogni anno
rappresenta un’unità produttiva conchiusa e autosufficiente in merito alle quattro macro-aree di attività su delineate: 1) ricerca remota; 2) ricerca sul campo;
3) attività promozionale (mostre/convegni, pubblicazioni cartacee e multiipermediali); 4) Archeologia Pubblica ed ECRM (progettazione di percorsi tematici e di modelli di monitoraggio e valorizzazione delle risorse e di monitoraggio).
I punti 1-4 vedranno un crescendo di attività culminante, nell’anno finale
2010, di un progetto organico ed integrato di rete di valorizzazione delle risorse
in oggetto e delle infrastrutture di supporto.
I 20 operatori medi stimati allocheranno, nell’arco cronologico in oggetto,
un tempo-medio stimato di 60 giorni lavorativi l’anno.
96
Armando De Guio
3. Archeologia del nonno
L’etnoarcheologia, specie nelle sue formulazioni più recenti e robuste (cfr.
ad es. DAVID, KRAMER 2001), rappresenta una disciplina nodale per
l’avanzamento della teoria e del metodo dell’archeologia tout-court. La sua particolare prospettiva epistemologica e operazionale di connetività-ponte fra la
dinamicità dei sistemi socioculturali e la statica del record archeologico consente “applicazioni” ad alta risoluzione su processi formativi di diversa escursione
temporale, spaziale e funzionale (dalla longue durée, al congiunturale,
all’evenemenziale), illuminando interi scenari di restituzione “visitabili” ed esplorabili a loro volta in chiave euristica da altre “stutture di riferimento” e “visioni” pertinenti a comparti disciplinari contigui e felicemente “contaminabili”,
dalla “Archeologia Cognitiva”, alla “Archeologia Attoriale” (Social Action
Theory), ai “Material Culture Studies” e fino ai più sofisticati “programmi” di
“Action-Based GIS” e di “Artificial Societies”(cfr. DE GUIO 2000).
Nell’ambito del nostro progetto si è proceduto ad allocare al comparto etnoarcheologico una articolata strategia di indagine, dal Remote Sensing, al Field
Survey, al microrilievo, alle prospezioni, allo scavo, per approdare poi, sulla base
di un articolato d-base georeferenziato, ad un fitto tessuto di modelli di visitazione-esplorazione “euristica” da “Virtual Archeaology” e di analisi GIS (Geographic Information Systems) sia sicroniche (ad es. slope, aspect, distance, visibility,
cost-path) che diacroniche (time series analysis). Fra le varie stutture/infrastrutture
offerte dal territorio (cfr. sopra) si sono isolati, in particolare, tre principali domini specifici di indagine selettiva, cui applicare altrettanti sotto-progetti: carbonare, calcare, alpeggio.
L’ultimo tema sta in particolare assorbendo il maggior investimento energetico, con un articolato piano di interventi mirati sull’intero territorio in oggetto
e su di un’area-pilota (loc. “Croiere”) ad alta intensità di copertura (cfr. anche la
tesi di laurea dedicata di VICARI 2002-3, qui utilizzata proprio come fonte
primaria di informazione).
L’alpeggio ha certamente origini molto antiche ed una vastissima distribuzione spaziale: a livello locale (regionale) ritrovamenti come quelli di Storo malga Vacil attestano già con sicurezza a partire dal Bronzo Medio la presenza
nelle praterie in quota (1.700 m s.l.m) di resti pollinici di piantaggine (Plantago
lanceolata) associati a resti strutturali (buche da palo) ed arte-ecofattuali (LANZINGER, MARZATICO, PEDROTTI 2001), ma appare molto verosimile
che già la cultura neolitica dei VBQ (Vasi a Bocca Quadrata) praticasse, ad es.
nel contiguo comparto lessino, un regime articolato di transumanza, funzionalmente connesso all’esplorazione stagionale e successiva veicolazione ultraregionale della selce (cfr. BIAGI 1990 e in particolare BARFIELD 1990).
Sul piano etnoarcheologico/etnostorico locale è di particolare interesse la
struttura “tradizionale” delle “malghe” (fig. 3-4):
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
97
Il termine malga presenta un’accezione ambivalente, potendo indicare sia il
pascolo alpino nel suo complesso (più propriamente “alpe”), come insieme dei
prati e degli edifici di ricovero e di trasformazione del latte, sia il solo edificio
rustico ivi presente.
Malgrado la notevole variabilità delle malghe in oggetto, connessa alla marcata escursione (spazio/temporale/funzionale) in gioco, possiamo isolare (talora con il supporto di specifica dicitura differenziata in italiano, cimbro, valsuganotto e vicentino) il seguente quadro informativo (cfr. VICARI 2002-2003).
A) Unità strutturali ricorrenti.
L’alpe può iscrivere una varietà si costruzioni varianti per numero e forma e
separate l’una dall’altra oppure riunite in un unico blocco:
La malga: cim. di Khésar (-n) (F.O, N.V.C); khèzara (-arn) (D.L.C.S.C.Vic.);
vals. caşèra, caşèra da fogo (D.V); cašàra (S.E.A.V.); vic. cašara (V.T.D.T.Vic.,
L.C., V.D.Vic., D.Vic.I.I.Vic.); bàito del fogo (L.C.); barco da fogo (L.C.).
La cella del latte: cim. di milchkhesar (-n) (F.O); vals. caşarìn dal late (D.V.);
vic. caşélo (L.C.); caşarìn (L.C.); caşélo dela late (L.C.); latarólo (L.C.).
La caciaia: cim. di kheskhesar (-n) (F.O.); vals. casarìn (D.V.); vic. caşara
(L.C.); caşarìn (L.C.); caşerìn (L.C.); caşélo (L.C.).
La stalla: cim. la stalla – dar stal (di stèl) (N.V.C.); stall (D.L.C.S.C.Vic.); lo
stallone – da stalú (F.O); vals. la stalla – stala (D.V., S.E.A.V.); lo stallone
stalón (D.V.); barco (D.V.); vic. la stalla – stala (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.,
D.Vic.I.I.Vic.); lo stallone – stalón (V.T.D.T.Vic., L.C., V.D.Vic.); il ricovero- pendana (F.O., L.C.).
Il porcile: cim. dar stalot (di stalöt) (F.O.); dar sbàinstall (D.L.C.S.C.Vic.); vals.
stalòto (S.E.A.V.); vic. stalòto del màs-cio (V.T.D.T.Vic., L.C., V.D.Vic.); porzile (V.T.D.T.Vic.); porzilòtò (V.T.D.T.Vic.); scòto (V.T.D.T.Vic.); stia del màscio (V.T.D.T.Vic., L.C.); staloto da mas-ci (D.Vic.I.I.Vic.).
B) Unità infrastrutturali ricorrenti:
Connettività e flusso: cim. la strada - dar bege (ben’g) (F.O., N.V.C.); il sentiero - dar staige (F.O., N.V.C.); vals. il sentiero - trodo (F.O.), strodo (F.O.);
vic. la strada - caredà (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.); caresà (V.D.Vic.,
D.Vic.I.I.Vic.); il sentiero - stròso (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic., D.Vic.I.I.Vic.);
stròzo (V.D.Vic.); stròdo (V.D.Vic.); tròdo (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.); tròso
(V.D.Vic.); trozo (V.D.A.Vic.).
Armando De Guio
98
Le recinzioni: cim. i muretti - di maürla (F.O.); il reticolato – da zou (di zöi)
(F.O.); vals. stropaia (F.O.); vic. il muretto – mureto (D.Vic.I.I.Vic.); il reticolato - reticolati (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.).
Le pozze: cim. di hülbe (hülm) (F.O., N.V.C.); di laaba (-en) (D.L.C.S.C.Vic.);
vals. pozza (D.V.); borbe (F.O.); vic. póssa (V.T.D.T.Vic., V.D.Vic.,
D.Vic.I.I.Vic.); posa (L.C.).
I ricoveri e le riserve
Il prato della malga: cim. di bis (-an) (F.O., N.V.C.); vals. pra (D.V.); vic. prà
dela malga (V.T.D.T.Vic.); prà (V.D.Vic., D.Vic.I.I.Vic., V.D.A.Vic.).
C) Cultura materiale
La cultura materiale delle malghe costituisce un eccezionale repertorio di
manufatti, con una larghissima prevalenza, nel repertorio tradizionale, di strumenti in legno (o vegetali, a fronte di pochi in metallo o ceramica), la cui conservazione, dunque, a medio – lungo termine, stante una pluralità di processi
post-deposizionali di norma iper-attivi, appare legata solo ad eventi eccezionali
(in genere combustione). Fra i più ricorrenti:
campane per mucche (metallo);
sgabelli per mungitore (legno);
secchio da latte/legno e/o metallo);
acroncello con secchi (legno e metallo);
colini (legno o metallo);
bacinelle per l’affioramento della panna colini (legno o metallo);
scopino (grano saraceno);
spannarole (legno o metallo);
zangola fissa (legno e metallo);
zangola a botte colini (legno e metallo);
zangola rotatoria colini (legno e metallo);
zangola “a barchetta” (legno e metallo);
battiburro (legno);
spatola per decorare la superficie del burro (legno);
stampo per burro (legno);
caldaia (metallo);
sostegno per la caldaia (legno);
frangicagliata (legno o metallo);
spersola (gocciolatoio: legno);
stampo per formaggio (legno);
fascia per formaggio (legno);
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
99
tavole per stagionatura (legno);
mastello (legno);
tavolo per la ricotta (legno);
D) Ruoli attoriali.
I ruoli di una malga tradizionale (con numerose varianti locali, ad esempio
in termini di fusione o specializzazione ulteriore di funzioni) appaiono riducibili essenzialmente al prospetto seguente:
il casaro: cim. dar khésrar (-n) (F.O., N.V.C.); khèzar (D.L.C.S. C.Vic.); vals.
caşèro (D.V.); cašàro (S.E.A.V.); vic. caşaro (V.T.D.T.Vic., L.C., V.D.Vic.,
D.Vic.I.I. Vic.).
il sottocasaro: vic. soto caşaro (L.C.);
l’aiuto-casaro: cim. dar skotú (F.O.); vals. scotón (D.V.); vic. scotón
(V.T.D.T.Vic.; L.C.).
il secondo aiuto-casaro: vic. legnarólo (L.C.).
il capo-pastore: vals. malghèro (F.O.); vic. capo vacaro (L.C.).
i pastori: cim. dar khüdjrar (-n) (F.O.); dar khüjar (-n) (N.V.C., D.L.
C.S.C.Vic.); vals. pastór (D.V.); vic. vacaro (V.T.D.T.Vic., L.C., V.D.Vic.,
D.Vic.I.I.Vic.); boàro (V.D.Vic.).
il custode di manze e vitelli:
vals. mandèro (F.O.); vic. vacaréto (L.C.);
vedelaro (V.T.D.T.Vic., L.C.).
il capraio e il pecoraio: cim. il capraio - dar goasar (-n) (F.O.; D.L.C.
S.C.Vic.); il pecoraio - dar schavar (-n) (F.O., N.V.C.); vals. caorèro (D.V.); caoràro (S.E.A.V.) e piegorèro (D.V.); vic. cavraro (V.T.D.T.Vic., L.C.,
D.Vic.I.I.Vic.) e piegoraro (V.T.D.T.Vic., L.C., D.Vic.I.I.Vic.); pegoraro
(V.T.D.T.Vic.); piegorar (V.D.A.Vic.).
E) Tratti di evoluzione tipologica (fig. 5)
I tratti principali di un (presuntivo) phylum evolutivo tipologico sono presentati dal Baragiola (1908) nei termini seguenti:
a) casotto trasportabile (kasún) consistente inizialmente in una barella coperta di pelli o di cortecce di abete o di scandole in cui il mandriano, che portava il
bestiame alle alte quote, poteva trovare rifugio per la notte.
100
Armando De Guio
b) struttura a cassone ligneo di tavole ben connesse fra loro e con porticina
d’ingresso. Questa soluzione permetteva al pastore di sorvegliare gli animali,
rinchiusi entro steccati mobili, le mandre (Mandern).
c) struttura di base a capanna trasportabile in block-bau, costruita su un terrazzamento artificiale, con uno zoccolo di fondazione in pietra, l’alzato in travi
orizzontali sovrapposte che si connettono ad incastro negli angoli, il tetto a due
spioventi ricoperto di corteccia o di scandole. La pianta di una malga tradizionale doveva essere costituita da varie strutture in block-bau adibite a diverse funzioni, comunicanti tra loro a due a due e formanti due corpi distinti, smontabili
e trasportabili. I due corpi solitamente si affacciano su una corte che spesso è
cintata. La planimetria globale (cfr. schizzo e legenda di G. Rebeschini, in BARAGIOLA 1989, p. 13, fig. 6), doveva risultare così composta:
Vöerkésera o Casera del fuoco. Cucina e fabbrica del cacio...................................... Mq. 6x6
Gang und Lagnér. Passaggio e legnaia ........................................................................... Mq. 4x6
Bioden vor de Manne. Cabine a stiva per gli uomini o vaccari ................................ Mq. 0,95x2
Milchkésera. Riparto per il latte ..................................................................................... Mq. 6x6
Kasél ’me Keser. Casello pel casaro, con soffitto .......................................................... Mq. 4x4
Kasél ’me Kese. Casello per cacio e burro, con soffitto ............................................... Mq. 6x6
Pendana. Rifugio per le manze ...................................................................................... Mq. 5x6
Stéllele vor de sichen Kü. Stalletta per le manze ammalate............................................. Mq. 5x3
Stall. Stalla....................................................................................................................... Mq. 6x6
Gertle. Orticello chiuso a steccato................................................................................ Mq. 3x5
Hof o Curte. Corte chiusa da muro alto un metro.................................................. Mq. 10x15
d) costruzione in muratura con layout identico alla struttura precedente.
Nell’ambito del progetto “ad Metalla” il programma operativo relativo al
tematismo dell’alpeggio prevede la seguente sequenza di interventi:
analisi delle fonti (storico-documentarie e archeologiche);
analisi delle tradizioni popolari (patrimonio favolistico-narrativo locale);
interviste a (ex)pastori ;
remote sensing;
field survey;
micro-rilievo;
scavo di una struttura semisepolta (“Ex Malga Croiere 2”);
campionamenti vari (incluse analisi micromorfologiche e fosfatiche);
restituzione per la fruizione turistica.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
101
Sul piano analitico, in particolare, si è attivata una nutrita batteria di modelli
GIS (cfr. ad es. figs 6-7), mentre si è iniziato ad approntare un’elaborata “Time
Series Analysis” (fig. 8) dell’intero universo campionario in oggetto (sulla base
di un corposo d-base georeferenziato delle 75 malghe del territorio indagato).
Si sono, in merito, analizzati cinque distinti stadi evolutivi (1856: 33 malghe;
1886: 33 malghe; 1918: 33 malghe; 1969: 29 malghe; oggi (2004): solo 17 unità
attive: cfr. VICARI 2002-2003), corrispondenti ad altrettanti supporti cartografici e aerofotografici esaminati:
Catasto 1856 ( Archivio di Stato di Trento);
IGM Carta d’Italia alla scala di 1:25.000 F. 36 I N.E MONTE VERENA
(levata 1886, ediz. 1918) e F. 36 I N.O. CALDONAZZO (levata 1886, ediz. 1918);
Carta Topografica militare dell’Esercito Francese: Biblioteca Bertoliana di
Vicenza (“Album topographique offert à la Bibliothèque de Vicence”),
1918;
IGM Carta d’Italia alla scala di 1:25.000 F. 36 I N.E MONTE VERENA
(rilievo aerofgm.1959, agg. 1969) e F. 36 I N.O. CALDONAZZO (rilievo
aerofgm. 1958).
ortofoto digitale, sez. CTR 082110: CGR-Parma, 2000 (Comunità Montana- Asiago).
In termini di attività sul campo si prevede, poi, nell’ambito della zona-target
di ricerca intensiva (Croiere), la sperimentazione di particolari tecniche di rilevo
(in particolare GPS differenziale, Laserscanner, foto zenitali con aquilone) e di
restituzione-visitazione fotorealistica e “virtuale”.
Lo scavo della “Ex Malga Croiere 2”(coordinato dal dr. Gasare De Angeli),
nello specifico, viene condotto con una peculiare tecnica (figs. 9-10) ottimizzata per la successiva fruizione (in termini di “Archeologia Pubblica”, all’interno
di un percorso pluri-tematico attrezzato: cfr. sopra), denominata “then/now”o
“emiscavo”. Con tali lemmi si intende connotare una procedura sperimentale
di scavo che si pone come targets privilegiati proprio casi di studio di etnoarcheologia ed archeologia della guerra ad es.: malghe, calcare, carbonare, roccoli,
baraccamenti, trincee, postazioni militari, con attenzione privilegiata, dunque,
non solo alle emergenze monumentali, ma anche e più alle strutture/infrastrutture “quotidiane”, dell’every-day life sia civile che militare. Tale procedura, sulla scorta delle tendenze teoretico-metodologiche più recenti (ad es.:
Landscape Ecology, Off-site Archaeology, Abandonment and Post-abandonment Archaeology, Public Archaeology, ECRM…), mira a restituire all’utenza non solo specialistica, ma al più vasto pubblico, dei modelli di sito archeologico più efficacemente illustrativi sul suo percorso formativo e de-formativo (processi deposi-
102
Armando De Guio
zionali e post-deposizionali). Un buon risultato, in merito, viene ottenuto con
la tecnica in oggetto che, in modo semplificato e derubricativo, potremmo appunto definire come “scavo then and now” o anche “emiscavo”. Si tratta,
semplicemente, di risparmiare, lasciando al suo presente stato di abbandono,
una parte del deposito (ad esempio e indicativamente metà) in modo tale da restituire al pubblico tre distinte e spettacolari “superfici informative”: la parte
scavata (fino a rimettere in luce piani funzionali originali ed elevati residui), la
parte non scavata (abbandono) e l’interfaccia di collegamento fra le due, ossia
la stratigrafia, adeguatamente visualizzata e didascalizzata in situ. Ciò consente
di assumere la dicotomia informativa “ora/allora” (cfr. ad es. BRANGIAN
2000) su di un nuovo, esaltante piano percettivo e sinottico. Pannelli esplicativi
e restituzioni in scala fanno da cornice allo scavo e consentono al visitatore, in
termini di mirata ergonomia conoscitiva, di integrare sul posto una robusta
mappa cognitiva del sito.
Le indagini preliminari della “Ex Malga Croiere 2” stanno restituendo una
struttura di tipologia “canonica”con due corpi principali (A e B) affacciati su di
una corte e una struttura annessa a sud (corpo B). Un transetto, largo un metro
e lungo trentasei, è mirato ad intercettare i tre corpi di fabbrica e si pone due
obiettivi: a) verificare la consistenza del deposito archeologico nell’intera area
di scavo indagandone un’eventuale articolazione interna dei corpi di fabbrica e
i rapporti tra di essi; b) un’indagine sulla natura del deposito chiamato corpo C
(possibile “porcilaia”).
4. Archaeology of the War vs Archaeology through the War3
Particolarmente affascinante si presenta la più recente prospettiva di ricerca
da “Archeologia della Guerra” (guerra del 1915-18 di cui gli Altipiani sono stati
uno dei principali teatri: cfr. fig. 11).
La voce “archeologia della guerra” (con i suoi omologhi e succedanei definizionali e i suoi generici o specifici domini di applicazione, ad es.. 1° o 2°
guerra mondiale) sta assumendo, a livello internazionale, una locazione sempre
più alta nell’agenda dei problemi di rilevanza della moderna archeologia, come
è ben attestato da una cospicua letteratura specialistica (cfr. ad es. DOBINSON, LAKE, SCHOFIELD 1977; ENGLISH HERITAGE 1998, 2000;
HILL, WILEMAN 2002; DE GUIO 2002, 2003; DE GUIO, BETTO c.s.),
vari editoriali degli ultimi 15 anni di riviste di riferimento (quali “Antiquity”),
convegni, congressi e ora anche insegnamenti dedicati a vari livelli (in particolare corsi-master MFA di ambito anglosassone) e da numerosi siti web dedicati (
cfr. ad es: www.britarch.ac.uk/projects.dob ).
3
Cfr. DE GUIO 2003.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
103
Le guerre, soprattutto quelle di epoca moderna e contemporanea, costituiscono una fonte di impatto di un ordine di magnitudo criticamente variabile,
talora così ubiquitaria e incisiva da conferire, sul piano della “ecologia del paesaggio” (“Landscape Ecology”: cfr. FORMAN 1995) una “impronta paesaggistica” di lunga durata (“Fossil Warscapes”).
Gli Altipiani di Asiago e Vezzena-Lavarone, ad esempio, costituiscono un
caso di studio paradigmatico al riguardo. Si tratta di un geosistema morfocarsico (“tectocarsico” e “fluviocsarsico”) particolarmente vulnerabile ed esposto
alle modificazioni antropiche (cfr. SAURO, BONDESAN, MENEGHEL
1991; SAURO, MARTELLO, FRIGO 1991; SAURO 1993, SAURO, LANZINGER 1993), la cui ampia escursione altimetrica iscrive una ben caratterizzata sequenza geologica (Triassico: Dolomia Principale; Giurassico: Calcari
Grigi -con vari “membri” interni-, Lumachella a Posidonia Alpina e Rosso
Ammonitico; Cretacico: Biancone, “Orizzonte Bonarelli”, Scaglia Rossa; Terziario: arenarie eoceniche: cfr. BARBIERI 1993) e un composito ecomosaico
geomorfologico e di uso del suolo.
L’impatto ambientale della Grande Guerra sugli Altipiani (cfr. in particolare:
APOLLONI 1991-92, 1993a,b; SAURO, MARTELLO, FRIGO 1993) fu di
una straordinaria magnitudo:
molti degli abitati oggetto di distruzione massive;
deforestazione estensiva;
fra 200.000 e 4.000.000 militari di stanza;
centinaia di chilometri di strade (circa 400 km) e trincee (circa 200 Km) e
gallerie costruite;
una rete impressionante di altre infrastrutture logistiche (baraccamenti, ricoveri, postazioni, recinti, opere idrauliche, teleferiche....) realizzate;
1500 cannoni attivi, con milioni di esplosioni cumulative nei quattro anni
di guerra.
Tra le altre maggiori fonti di impatto ambientale, talora in interferenza critica con l’impatto bellico (cfr. sopt.: SAURO 1977, 1993; APOLLONI 1991-92,
1993a,b; SAURO, MARTELLO, FRIGO 1993), vanno enucleate, almeno, le
seguenti (fig. 12):
disboscamento, connesso ad un fascio cruciale di attività di lunga durata
quali la radurazione da pascolo, differenti forme di sfruttamento per finalità diverse, da quella edilizia, al riscaldamento, alla produzione di carbonella
e di calce (cfr. APOLLONI 1991-92, 1993a,b; SAURO, MARTELLO,
FRIGO 1993; CASTI MORESCHI, ZOLLI 1988; CACCIAVILLANI
1984, 1991);
104
Armando De Guio
pastoralismo e allevamento (stanziali e stagionali), con fenomeni di iperpascolamento (overgrazing) e sentieramento (cross-trampling, sentiérage) inducenti
riduzione di copertura pedologica, erosione accelerata e pressione selettiva
sulla biodiversità delle specie vegetali (cfr. SAURO 1977, 1993; APOLLONI 1991-92, 1993a,b; SAURO, MARTELLO, FRIGO 1993) distribuiti
lungo un trend di longue durée alquanto articolato (cfr. MIGLIAVACCA
1985, MIGLIAVACCA, VANZETTI 1988; APOLLONI 1991-92,
1993a,b; A.A.V.V. 1994; BONETTO 1997);
processi metallurgici nella Tarda Età del Bronzo, con una straordinaria
concentrazione locale (altipiani di Vezzena-Luserna-Lavarone) di uno specifico segmento della “catena metallurgica” (arrostimento e riduzione primaria: cfr: oltre ).
I processi citati operarono a diverse scale spaziali, temporali e di intensità.
La fenomenologia di arrivo composita/cumulativa si è tradotta in un complicato palinsesto, affetto da ulteriori fenomeni di alterazione post-deposizionale –
in primis erosiva – e di norma di alquanto difficile maneggiamento analitico.
Uno degli aspetti più critici, al riguardo, è dato dalla circostanza che impatto
da bombe (CIELI 1991), specifiche tecniche di deforestazione (sradicamento
stadiale da trous avec monticules: attestato con sicurezza almeno nel vicino comparto lessineo: cfr. SAURO 1997; BERNI, SAURO, VARANINI 1991) e infrastrutturazione metallurgica (micro-terrazzamenti per batterie di forni fusori:
cfr. SEBESTA 1992; MARZATICO 1997) possono prodursi in esiti micromorfologici equi-finali (o almeno simili), mentre il sentieramento da pascolo
(cross-trampling, sentiérage) può localmente perversamente coincidere e in parte
alterare od obliterare percorsi antichi e lo stesso menzionato inquinamento
chimico di origine bellica può essere interferito da quello precedente di origine
metallurgica protostorica.
In fase post-bellica, poi, i processi specifici di bonifica del teatro bellico, la
pratica dei “recuperanti”, e più recentemente, l’urbanizzazione ed il turismo di
massa hanno progressivamente prodotto un impatto, talora a scala e magnitudo considerevoli, sul complesso e iper-fragile scenario evolutivo ambientale
(cfr. SAURO, MARTELLO, FRIGO 1993).
L’impatto bellico si presta ad essere analizzato con due distinti prospettive
euristiche:
Archeologia della guerra;
Archeologia attraverso la guerra.
Con “Archeologia della Guerra” intendiamo una ricerca propositivamente
mirata allo specifico scenario bellico (warscape), con l’esplicito scopo di una re-
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
105
stituzione virtuale o fisica (restauro/archeoricostruzioni in situ /riproduzioni in
scala...) del teatro bellico per mezzo di ogni procedura analitica ed operazionale
praticabile e sulla scorta di ogni classe di informazione utile (dallo stesso record
archeologico residuo alle varie fonti documentarie/iconografiche disponibili). I
nostri esperimenti con Panoramiche VR (esplorabili interattivamente in ambiente da Virtual Reality)4 o di visibilità/intervisibilità dei forti Vicentini e trentini possono essere correttamente ridotti sotto la suddetta copertura definizionale.
La disponibilità, d’altronde, di un importantissimo repertorio di foto (verticali ed oblique) di relativamente alta definizione scattate dalle varie aeronautiche (italiana, francese, inglese, austriaca) costituisce una risorsa di altissimo valore documentario, ora in corso di elaborazione con tecniche avanzate di image
processing, DTM, renderizzazione e G.I.S. Si tratta di un corposo comparto di
foto aeree di varia qualità e risoluzione (talora eccellente), che presentano, in
ogni caso, una situazione cumulativa di eccezionale e irripetibile esposizione
informativa con quella che fu, probabilmente, la massima de-forestazione postglaciale, e il minimo recenziore di urbanizzazione. La “Archeologia della
Guerra” (specie nella sua semiologia meno eclatante ma più invasiva e pervasiva del paesaggio, fatta di strutture e infrastrutture, quali strade, camminamenti,
baraccamenti, e apprestamenti logistici vari, impianti idraulici, drenaggi, recinzioni, scarichi...) vi appare con una nitidezza inequivocabile, laddove oggi i suoi
segni, entrati diffusamente nel record archeologico sub-superficale, la rendono
spesso difficilmente enucleabile da altre evidenze più propriamente archeologiche o etnografiche. Lo scenario di guerra (warscape) è dunque innanzitutto e positivamente una fonte primaria di informazione per la ricerca storica ed archeologica: l’idea-chiave, in merito, è quella di restituire il fenomeno-guerra come
un critico vettore di cambiamento del paesaggio geografico in termini di “impronte” antropiche localmente pervasive e profonde. I “segni” della guerra, alquanto articolati nella loro estesa tipologia ed escursione di stadi di conservazione, sono, al contempo, “oggetti” del più alto interesse archeologico, sia sul
piano processuale-teoretico (“formazione del record archeologico”, dinamiche
belliche, confinarie e di frontiera, invasionistiche, etniche..), che sul versante
operazionale-applicativo (problemi di recupero, conservazione, tutela, valorizzazione). Questo orientamento problematico presenta una felice contiguità con
quella prospettiva da “allora ed ora” che è crescentemente presente, talora con
prodotti di eccellenza ed un accattivante repertorio iconografico (cfr. ad es.
BRANGIAN 2000), nella letteratura bellica ed archeoturistica.
4
Come quella sul Monte Confinale (cfr. PASSARIN, VIAZZI 1998).
106
Armando De Guio
L’altro approccio (Archeologia attraverso la Guerra) utilizza invece ogni
possibile fonte di informazione bellica (a partire dalla cartografia e
dall’iconografia delle foto o riprese filmate di guerra) come un medium per accedere ad altre classi di informazione-target, specificamente archeologiche o etnoarcheologiche o paleoambientali. In effetti, se consideriamo operativamente il
layer tematico (strato informativo) bellico, come noise, fonte di “rumore” per ricerche orientate verso archeologie più canoniche, il “filtro”, ugualmente prezioso, dell’immagine bellica, ci consente di scremare la suddetta fonte di rumore, e di isolare l’informazione mirata, nella forma, ad esempio, che si sta proprio ora proprio ora concretamente profilando sotto i nostri occhi, di tracce di
una serie di paesaggi già relitti nella Prima Guerra Mondiale (in particolari reti
diffuse di infrastrutture produttive e residenziali, land divisions, confini, terrazzamenti e recinti), di grandissimo, potenziale interesse (alcuni appartengono sicuramente ad epoca medievale-moderna, altri, già oggetto di prime ricognizioni
preliminari e controlli a terra , sono più antichi, ad esempio quelli pertinenti al
ciclo metallurgico citato, della fine dell’Età del Bronzo). L’analisi diacronica
(time series analysis) di foto (specialmente aeree) e di cartografia di guerra consente allora di estrapolare facilmente il “rumore” bellico (in prima evidenza sul
supporto mirato) e quindi di accedere in modo agevolato alla lettura sottrattiva
delle tracce appartenenti allo scenario archeologico indagato. Queste ultime, in
aggiunta, compaiono sui supporti aerofotogarfici bellici con una frequenza e
una nitidezza talora impressionanti e per varie ragioni (fenomeni obliterativi
post-deposizionali, riforestazione, impatto urbano...) spesso non più accessibili
anche alle più recenti e sofisticate coperture remote aeree o satellitari (cfr. DE
GUIO c.s.).
Il disboscamento bellico, in particolare, è stato certamente il più estensivo
prodotto nell’intera escursione della storia dell’impatto umano nell’ambiente
locale: le foto aere belliche offrono dunque un’eccezionale e forse irripetibile
“esposizione informativa” per gli specialisti archeologi di Remote Sensing (per cui
le aree boschive sono certamente di drammaticamente minore utilità). Dalla fine della guerra, in effetti, altri processi modificativi, dalla massiccia riforestazione, all’opposta e localmente sensitiva urbanizzazione, hanno limitato la succitata “superficie informativa” utilmente praticabile di un ordine stimabile fino
al 30% dell’interro scenario.
In questa prospettiva da “Archeologia attraverso la Guerra”, sembrano
dunque riproporsi localmente almeno le avvisaglie, bene auguranti, dell’epopea
di progetti pilota di “archeologia di montagna”, entrati a pieno diritto negli annali della storia della ricerca, come quelli di Fleming (1988; 1992) nei “Datmoor
Reaves”: qui uno spesso palinsesto di analoghe strutture/infrastrutture di endemico e grandioso sviluppo spaziale è stato, dopo molti anni di ricerca, de-
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
107
stratificato, distribuito su di un arco temporale di ampia estensione (dall’Età del
Bronzo ad oggi) e restituito, con ineccepibili apparati esplanatori, ad una comunità scientifica prima alquanto scettica.
L’analisi delle serie temporali condotta sul pacchetto di coperture aeree del
1918 e degli anni successivi (particolarmente rilevanti quelle relative ad un ulteriore strato tematico bellico, questa volta della Seconda Guerra Mondiale, attinte dall’impressionante archivio dell’Università di Keele-GB) agilmente georeferenziabili, consente di cogliere la drammatica dinamica di impatto della Guerra
e di quella, non meno devastante delle successive fonti di impatto associate ad
esempio all’urbanizzazione, al management agro-silvestre ed al turismo di massa.
Nella cornice del progetto “ad Metalla” il piano operativo relativo al tematismo della “Archeologia di Guerra” (che annovera anche una specifica tesi di
laurea: BETTO 2003-2004) è articolato nei seguenti passi:
analisi delle fonti (in particolaree cartografiche ed aerofotografiche);
interviste agli ultimi “recuperanti”;
remote sensing;
field survey;
micro-rilievo (in particolare in loc. “Fortino Basson”);
scavo di una struttura semisepolta (“fortino” in loc. Lammarn);
campionamenti vari;
restituzione per la fruizione turistica.
Sul piano teleosservativo-ricognitivo, in particolare, particolare sono state
enucleate 5 zone-target (cfr. figs 13-21):
T1: “Malga Fratte”;
T2: “Vezzena” (incrocio);
T3: “Malga Millegrobe”;
T4: “Malga Campo - Malga Croiere”;
T5: “Luserna”.
Su tali aree mirate sono state condotte una serie di operazioni riducibili ai
punti seguenti:
108
Armando De Guio
Strati tematici (textures) principali:
a) FOTO AEREE E IMMAGINI SATELLITARI: Foto aeree: Museo Storico Italiano della Guerra- Rovereto, 1915-1918; Foto aeree: Museo Caproni –
Trento: “Fondo Costantino Cattoi”,1915-1918), Foto aeree: Air Photo LibraryDept. of Geography – Univ. of Keele-UK, 3085, 306, 397 del 23/8/1944; Foto
aeree: IGM , 999 e 001, 6/9/1986, h 11.35; Ortofoto digitale alla scala
1:10.000: Provincia Autonoma di Trento, 1996; Immagine satellitare Landsat 7
ETM:
Telespazio,
8/10/1999;
Ortofoto
digitale,
sez.CTR
081040,081080,082010: CGR-Parma, 2000.
b) CARTOGRAFIA: Carta corografica del territorio Vicentino- perito Molino Giovanni: Biblioteca Bertoliana di Vicenza: già raccolta mappe n. 106,
1608; Catasto ottocentesco: Archivio di Stato-Trento; Carta topografica
dall’Archivio di Stato di Vienna, 1805; Carta topografica del Regno LombardoVeneto, 1833; IGM Carta d’Italia alla scala di 1:25.000 F. 36 I N.E MONTE
VERENA (levata 1886, ediz. 1918). e F. 36 I N.O. CALDONAZZO (levata
1886, ediz. 1908); Carta Topografica militare dell’Esercito Francese: Biblioteca
Bertoliana di Vicenza, 1918; IGM Carta d’Italia alla scala di 1:25.000 F. 36 I
N.E MONTE VERENA (rilievo aerofgm.1959, agg. 1969). e F. 36 I N.O.
CALDONAZZO (rilievo aerofgm.1958); Regione Del Veneto CTR alla scala
1:10.000 sezioni 081080 PEDEMONTE, 082010 CIMA MANDERIOLO,082050 CASCINA DI CAMPOVECCHIO (rilievo aerofgm. 1982); Provincia Autonoma di Trento CT alla scala 1:10.000, sez. 62090, 62050, 63060
(1996).
Trattamenti analitici principali:
Remote Sensing, georeferenziazione, analisi delle serie temporali, modellazione
solida e renderizzazione fotorealistica, image enhancing e fotointerpretazione5,
GIS (moduli vari).
Rilievi emergenti (con riferimenti specifici alle aree-target T1-T5 succitate):
— Tipologia di tracce e simbologia: vegetation marks (T1-T5), shadow marks (T1T5), snow marks (T4), damp marks (tracce da umidità: T1-T5). Simbologia
5
BETTO 2003-2004.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
109
denotativa: giallo = tracce chiare (strutture/infrastrutture drenanti); rosso
= tracce scure (strutture/infrastrutture a drenaggio frenato/inibito); blu
= tracce della Grande Guerra (su supporti aerofotografici post-bellici).
— Tracce di guerra (sulla serie di foto aere post-belliche): diffuse, ma diacronicamente sempre più evanescenti, già a partire dalle foto del 1944 (cfr., a
titolo di riscontro sinottico, la carta top. militare francese del 1918). Lo
stesso impatto bellico, di una magnitudo e variabilità eccezionali (cfr. la
letteratura di guerra succitata e l’iconografia qui prodotta) presenta una
progressione interna impressionante, analiticamente esaminabile sulla
scorta della organizzazione “stratigrafica” della serie temporale delle foto
da noi esaminate (nell’intervallo ‘15 - ‘17): esemplare, al riguardo, l’areatarget T2 (incrocio di Vezzena) che, dalla modesta connotazione con cui
F. Weber 1965 la descrive nella primavera del ‘15, passa, dall’estate del
16, anno della Strafexpedition, ad assumere un alto impatto di infrastrutture logistiche (baraccamenti, strade... cfr., al riguardo il caratteristico triangolo di strade che da allora costituisce un caratteristico marcatore territoriale teleosservativo dell’area)
— Impatto ambientale e copertura boschiva post-bellici:
a) “impatto edilizio” (infrastrutture turistiche); b) diffuso rimboschimento e relativa “chiusura” di finestre osservazionali teleosservative (cfr. sopra). Entrambe le fenomenologie sono facilmente enucleabili con semplici operatori analitici di “differenza” sulla serie georeferenziata delle foto aeree e della cartografia.
— Tracce di interesse archeologico o etnoarcheologico:
a) tracce chiare lineari attribuibili a land divisions e/o infrastrutture connettive e/o terrazzamenti: ubiquitarie (T1-T5), con addensamenti (clusters)
locali (T1, T5), taluni criticamente coincidenti o prossimali ad aree fusorie ricognite a terra (T1);
b) tracce specifiche confinarie (riscontrate a terra, in ricognizione): T1
(tratto a 300m a W di Malga Fratte e a S della strada per Trento esteso
per circa 200 m con laste poste ad intervalli irregolari di 10-20 m in risalita sul pendio, in direzione di Bisele, lungo un itinerario connettivo dismesso di provata storicità: cfr. la cartografia storica qui prodotta e
REICH 1910; BRIDA 1989, 2000);
110
Armando De Guio
c) tracce attribuibili ad apparati fusori: ubiquitarie (T1-T5: cfr. la mappa
cumulativa dei siti rinvenuti da E. Preuschen e G. Sebesta -solo in parte
riscontati analiticamente a terra- e dal nostro team di ricerca), con specifiche relazioni spaziali (coincidenza, contiguità...) con: 1) acqua in forma
di: 1a) acqua corrente (torrente Assa: T1, T2), ristagno palustre (T3),
pozze d’alpeggio attive o relitte (T1, T3); 2) con malghe attuali e/ dismesse (T1, T3, T4); 3) con vie di comunicazioni “naturali” e/o strutture
connettive tradizionali/storiche (T1-T5).
d) tracce specifiche di apparati fusori rispondenti al “modello Redebus”
(piattaforma terrazzata su pendio e scarico prossimale a valle di scorie:
cfr. sopra), riscontrate a terra con ricognizioni (T1,T2) e prospezioni preliminari elettriche, magnetometriche, micromorflogia strumentale (stazione totale) e micromeodellazione, carotaggi meccanici e ripresa da balloon, isolamento e delimitazione di clusters di scorie e di vegetation marks
relativi, panoramiche VR (T1: campagna 2001).
In termini di una più canonica “Archeologia della Guerra” da campo è stata
individuata una zona pilota (Lammarn) di alta intensità di interventi.
L’emergenza principale, al, riguardo è costituita da una struttura della I Guerra
Mondiale identificata come “Fortino” (fig. 22-25; cfr. BETTO 2003-2004). Si
tratta di una struttura assolutamente straordinaria, posta esattamente sulla
sommità della località Lammarn/Marogne, il cui toponimo riporta alle profonde evidenze carsiche (“campi carreggiati”) che caratterizzano la zona. Il Fortino
militare ha una pianta trapezioidale (lato lungo ca. 30 m, larghezza ca. 11 m)
con tre muretti divisori interni, paralleli ai lati lunghi (cfr. piante). Un terrapieno esterno cinge l’intera struttura, arrivando a coprire le creste dei muri
perimetrali. Tutte le unità stratigrafiche murarie (USM) sono realizzate a secco
con quattro/cinque corsi di pietre sbozzate quadrangolari di varie dimensioni,
per un’altezza di ca. 50-60 cm. L’ingresso si trova alla metà del lato lungo: un
survey preliminare della zona circostante ha portato all’identificazione di ca. 25
strutture militari (baraccamenti, trincee, postazioni da cecchino, avamposti di
vedetta) in diverso grado di conservazione, tutte gravitanti attorno al fortino. Il
tutto individua una fascia ipercritica coincidente con il massimo stato di
avanzamento delle truppe italiane in territorio austriaco verso il Forte Campo
di Luserna, destinata ad essere travolta dalla Strafexpedition, nella primavera
1916.
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
111
5. La catena metallurgica
La tematica paleometallurgica (figs. 26-28), come detto, rappresenta una topica centrale nel nostro circuito analitico. Essa si indirizza, innanzitutto ad un
(apparente) paradosso di base: un’impressionante “concentrazione spazio/temporale” di attività metallurgica del rame in un area priva di risorse minerali cuprifere.
Lo spazio è riducibile agli Altipiani di Vezzena - Luserna - Lavarone (mentre il distretto minerario cuprifero più vicino è localizzato in Valsugana, soprattutto il suo versante nord opposto rispetto agli altipiani e a quote medio-alte:
cfr. oltre).
Il tempo (stretta “finestra temporale”) è rappresentato da una congiuntura
di poche generazioni (forse non più di un secolo) fra Bronzo Recente e Bronzo
Finale (XII-XI a.C. circa). Tale finestra individua una fase cruciale di sviluppo
della complessità sociale delle popolazioni (non solo) padane (in particolare
l’ambito terramaricolo e la sua periferia) che precede un drammatico ed ubiquitario collasso, la cui speciale “topologia” (locazione critica spazio/temporale) è
stata da noi investigata con procedure in larga parte inedite di pattern recognition
seriale (cfr. DE GUIO 2001b). Vale subito qui la pena di notare, per inciso,
come nella composita eziologia avanzata per spiegare il collasso (da cause esogene ad endogene, dall’ecodeterminismo, all’antropogenismo da “ingegneria
sociale”: cfr. BERNABÒ BREA CARDARELLI, CREMASCHI 1997; DE
GUIO 1997a, 2000a) sia iscritta anche la chiave paleometallurgica (destrutturazione delle reti flusso e di scambio ultraregionali del metallo conseguente alla
caduta di formazioni statali Micenee e post-Micenee del Mediterraneo orientale).
Il concetto centrale di riferimento è quello di “catena metallurgica”. Al cuore dalla nostra particolare applicazione di “Archeologia attraverso la Guerra”
sta, in effetti, la restituzione di un particolare “paesaggio fossile” del Tardo
Bronzo connesso ad uno specifico segmento della “catena metallurgica”.
La catena metallurgica, ovvero il ciclo di lavorazione del minerale di rame
fino alla realizzazione di oggetti metallici finiti, attività produttiva principale durante l’età del Bronzo, si compone di cinque processi fondamentali6: 1) estrazione; 2) arricchimento; 3) arrostimento e fusione (riduzione primaria con produzione finale di lingotti di rame); 4) fusione di leghe di bronzo; 5) getto di fusione e produzione di oggetti finiti.
Con riferimento all’universo locale e alla critica finestra temporale in oggetto i segmenti succitati della catena metallurgica si articolano secondo un modello di de-localizzazione areale (a scala dal micro al macro-regionale) e di flusso
6
Per un orientamento sulla complessa materia cfr. ad es. FRANCOVICH 1991, SEBESTA
1992; GIANNICHEDDA 1996; CIERNY 1998; GIARDINO 1998.
112
Armando De Guio
critico riducibili ai termini seguenti, da noi proposti sulla base della copiosa e
spesso divergente letteratura specifica di settore (cfr. in particolare: PREUSCHEN 1973, PERINI 1989, VIDALE, EHRENREICH, MICHIELI VANZETTI 1989, SEBESTA 1992; DE GUIO 1994a; MARZATICO 1997;
CIERNY 1988; PEARCE, DE GUIO 1999) e delle dirette risultanze della nostra ricerca remota e sul campo:
Alta Valsugana (Calceranica e versante sinistro con Fersina – Vignola –
Vetriolo – Cinque Valli – Roncegno –Val di Cavè – Bieno – Tesino):
presenza di giacimenti a solfuri misti su quote di norma medio-elevate; processi: estrazione; arricchimento arrostimento/ fusione (riduzione primaria);
Alta-Valsugana – altipiani di Vezzena, Luserna, Lavarone:
percorrenza connettiva, coniugata al flusso transumante, in risalita lungo i
ripidi versanti della sinistra idrografica della Valsugana con trasporto sugli altopiani di pani di rame e farina di rame (minerali frantumati ed arricchiti di rame
ancora da ridurre).
Altipiani di Vezzena – Luserna – Lavarone: assenza di minerali di rame;
processi: arrostimento, arricchimento e riduzione primaria (una delle più
impressionanti concentrazioni di tutta la pre-protostoria europea) localizzati
lungo corsi d’acqua o pozze d’alpeggio con produzione finale di pani di rame
(si tratta di un’impresa stagionale di decine di operatori, stimata - sulla base di
standard di epoca medievale/moderna - in un range di 20-100 unità per apparato
fusorio, fra trasportatori, carbonari, taglialegna, “malghesi”, arrostitori e fonditori...).
Motivazioni per la specifica selezione areale:
1) disponibilità elevata di legname (particolarmente il faggio) per l’uso diretto
e per produzione di carbonella (un profilo palinologico ancora inedito del
dr. Vittorio Martello da Vezzena sembra offrire una straordinaria conferma dell’impatto vegetazionale della paleometallurgia e attività connesse,
mostrando una rarefazione delle specie arboree e un parallelo incremento
critico di quelle erbacee proprio nella stretta finestra temporale in esame);
2) presenza di fondenti (in particolare selce largamente diffusa nelle locali
formazioni di Biancone);
3) ampia estensione di pascoli (indispensabili ad una solida “economia di
malga” di supporto della specialistica “impresa metallurgica”);
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
113
4) connettività: l’area è localizzata al cuore di un sistema di comunicazioni
“naturali” (e tradizionali) di connessione fra l’ambito (pre)alpino e la Pianura Padana (cfr., per il ciclo storico: REICH 1910; BRIDA 1989, 2000;
CAROTTA 1997);
5) localizzazione confinaria (cfr. in particolare la piana di Vezzena, interessata
da processi di confinazione di lunga data: cfr., per l’epoca storica: REICH
1910; CACCIAVILLANI 1991; BRIDA 1989, 2000; CAROTTA 1997) ottimale per l’interazione di scambio con comunità di diversa estrazione etno-politica (in strumentale e brutale semplificazione “proto-reti” e “protoveneti”) e in controllo di segmenti specifici della catena metallurgica e di
relativi territori di pertinenza ma localmente partecipi della stessa “economia di malga”. Scambio di prodotti: pani di rame contro prodotti agricoli,
sale, prodotti finiti utilitari e di prestigio.
Nodi collettori su scarpate dell’altipiano di Asiago:
localizzazione critica di siti (permanenti o semi-permanenti) di supporto logistico alla catena metallurgica e per il controllo dei flussi, in areali nodali di esteso controllo visivo del territorio, lungo o sul ciglio delle scarpate di raccordo
alla pianura e alla confluenza di percorsi critici della transumanza situati in
un’escursione di quota e in specifici micro-ambienti in cui, accanto ad una pratica di elezione della pastorizia e dell’allevamento stanziale, appare ancora praticabile una più articolata “agricoltura di montagna”. M. Corgnon di Lusiana e
Rotzo appartengono a questa categoria, da cui probabilmente, in un ristretto
arco stagionale, si proiettava sui pascoli a più alta quota una pratica
dell’alpeggio in malga in parte, almeno, direzionata a drenare il metallo trentino
nell’areale di interazione “confinaria” succitato, con percorsi ascendentidiscendenti essenzialmente intramontani. In entrambi i siti è significativamente
attestata (essenzialmente da scorie) un’attività fusoria in situ delle leghe di
bronzo e, per il Corgnon, anche una gamma piuttosto estesa di tipi di prodotti
finiti (cfr. DE GUIO 1994a, 2001a).
Sbocchi vallivi in pianura:
ubicazione strategica di villaggi a controllo delle principali arterie ascendenti/discendenti del flusso transumante e metallurgico, con funzione, forse, di siti
“centrali”/dominanti all’interno di un “territorio esteso” inclusivo delle tipologie succitate dei siti logistici intermedi e di quelli di malga. Angarano (presso
Bassano), S. Lucia di Breganze e, forse, Caltrano potrebbero rientrare in questa
tipologia, strutturata in un tessuto funzionale di flussi interni controllati di risorse, a partire, in primis da quelle umane (cfr. ad es. il concetto di “stagionalità
del potere”/DE GUIO 1998a.b; 2000), con spostamenti postulati -appunto-
114
Armando De Guio
“stagionali” di più o meno estesi segmenti demografici anche dai “siti centrali”
al seguito di “persone centrali” (“capi”), lungo il reticolo metallurgico e transumante.
Bassa pianura veronese e rodigina:
localizzazione nodale di siti centrali produttivi, mercantili e concentratori di
potere politico (ad es., con ruoli, tempi e intensità diverse, Fondo Paviani, Castello del Tartaro e Fabbrica dei Soci nella Bassa Veronese, Mariconda e Frattesina nel Rodigino, Montagnana nella bassa pianura atesina) con intercetto selettivo, in primis, proprio dei pani di bronzo succitati provenienti dalla catena qui
esaminata (e da altre, ivi confluenti, ad es. emananti dalle Alpi orientali o dalla
Toscana) in un reticolo dendriforme (“sistema dendritico a località centrali”)
mirato innanzitutto al drenaggio ottimale di tali risorse. A valle, ma anche a
monte di tale sistema, con un percorso quindi a ritroso lungo la catena metallurgica viene strumentalmente veicolata (quale mezzo e volano degli scambi)
un’estesa gamma di beni di prestigio (quali, ad es. ad es. ambra e pasta vitrea
che ritroviamo al Corgnon). Il tutto si iscrive in un intricato sistema di relazioni
(economico, politico e cognitivo) di lunga distanza e di sorprendente livello di
integrazione operazionale che connette il Nord e Centro-Europa (attraverso ad
esempio, molteplici “vie dell’ambra” e “vie e dello stagno”) alle civiltà complesse del Mediterraneo orientale.
Nel quadro del progetto “ad Metalla” il piano operativo relativo al tematismo archeometallurgico (supportato anche da due mirate tesi di laurea: OGNIBEN 2002-2003 e SARTOR 2002-2003) prevede la seguente sequenza di
interventi:
analisi delle fonti;
remote sensing;
field survey;
micro-rilievo;
scavo di infrastrutture fusorie;
campionamenti vari (incluse innovative procedure analitiche micromorfologiche, geochimiche e geobotaniche);
restituzione per la fruizione turistica.
La rispondenza in dettaglio ai modelli d’attesa succitati appare assolutamente convincente ed estensiva.
Il dato forse più straordinario, ma pienamente atteso (cfr. sopra), è offerto
dalla critica localizzazione confinaria dei forni fusori che sembrano attestarsi su
Archeologia di frontiera: il progetto “Ad Metalla”
115
di una linea (o fascia di attrito) evidentemente di longue durée. Sarebbe ancora
più straordinario poter dimostrare come alcune delle tracce rilevate attorno
all’area-target T1 (Malga Fratte: cfr. figs. 29-30) o addirittura quella riscontrata
a terra (cfr. allineamenti residui di laste in direzione di Bisele, lungo un itinerario connettivo di provata storicità) fossero altrettanto antiche: l’unica sicura
diagnostica potrà in merito venire da scavi mirati. Se la linea di ricerca programmata riuscirà a consolidare queste prime suggestioni saremo certamente di
fronte ad una delle più importanti istanze di “confine” da lunga durata della storia (e pre-protostoria) europea, situata lungo un’ipercritica fascia ecotonale di
cerniera fra un mondo “continentale” e uno “mediterraneo”: storie di confine
ai confini con la storia…
ARMANDO DE GUIO
Università di Padova Dipartimento di Scienze dell’Antichità
P.zza Capitaniato 7
35139 Padova
E-Mail: [email protected]
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