Età di ferro
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Età di ferro
LDB J.M.Coetzee Etàdiferro TraduzionediCarmen Concilio Einaudi PerV.H.M.C. (1904-1985) Z.C.(1912-1988) N.G.C.(1966-1989) I. C’è un vialetto a lato del garage, dovresti ricordarlo, dove qualche volta giocavi con i tuoi amici. Ora è un luogo desolato, privo di vita, inutile, dove le foglie trasportate dal vento si accumulanoemarciscono. Ieriinfondoaquelvialetto mi sono imbattuta in un rifugiodiscatoledicartonee telidiplastica.C’eraunuomo rannicchiato là dentro; un uomo che avevo già visto in giro per strada: alto, magro, con lunghi denti cariati, la pelle segnata da rughe profonde e con indosso un vestitogrigio,logoroetroppo ampio, e un cappello dalla tesafloscia.Cel’avevaintesta ora e dormiva con l’orecchio sulla tesa ripiegata. Un derelitto. Uno dei tanti derelitti che si aggirano tra i parcheggi di Mill Street per elemosinare soldi dai passanti, che si ubriacano al riparodiuncavalcavia,chesi nutrono delle scatolette raccolte tra i rifiuti. Uno dei senzatetto per i quali agosto, ilmesedellepiogge,èilmese peggiore. Assopito, nella sua casa di cartone, con la mascella rilassata, la bocca aperta e le gambe da burattino distese in fuori. Intorno a lui un odore ripugnante di urina, di liquore, di indumenti ammuffiti e altro ancora. Sporco. Sono rimasta là ferma a fissarlo per un po’. Guardavo e annusavo. Una creatura in visita che ha scelto tra tutti proprio questo giorno per importunarmi. Lo stesso giorno in cui il dottor Syfret mi ha comunicato la notizia. Una brutta notizia; ma era solo mia, per me, soltanto per me e non poteva essere ignorata. Era per me: dovevo accoglierla tra le braccia, stringerlaalpettoeportarlaa casa, senza possibilità di rifiutarla neppure con un cenno del capo, senza lacrime. – Grazie, dottore – ho detto. – Grazie per essere stato sincero. – Faremo tutto ilpossibile–harispostolui– affronteremo il problema insieme –. Eppure, dietro quella maschera cameratesca, io avevo già intravisto la ritirata.Sauve qui peut. Lui è un alleato dei vivi, non dei moribondi. Il tremito è cominciato solo quando sono scesa dall’auto. Il tempo di richiuderelaportadelgarage etremavotutta;percalmarmi ho dovuto serrare i denti e stringere la borsetta. È stato allora che ho visto le scatole, hovistolui. – Che ci fa lei qui? – ho chiesto, sentendo il tono irritato della mia voce che non controllavo. – Non può restarequi,deveandarsene. Non si è mosso; è rimasto sdraiato nel suo rifugio, guardando all’insú, ispezionando le calze invernali, il cappotto blu, la gonnachedasemprependeva in uno strano modo, i capelli grigi divisi da una striscia di pelle, pelle di vecchia, rosea comequelladeineonati. Poi, facendo leva sulle gambe, si è alzato senza alcuna fretta. Senza dire una parolamihavoltatolespalle, ha scrollato il telo di plastica nera e lo ha piegato in due, poi in quattro e ancora in quattro. Ha tirato fuori una borsa (c’era stampato: Air Canada) e ne ha chiuso la cerniera. Io mi sono fatta da parte. Mi è passato accanto lasciandosi dietro le scatole, una bottiglia vuota e l’odore di urina. I pantaloni gli cascavano;seliètiratisu.Ho aspettatoperesseresicurache se ne andasse e l’ho udito riporre la plastica nella siepe dallatoesterno. Duecose,dunque,nelgiro di un’ora: la notizia, a lungo temuta, poi questa ispezione, questa altra forma di annunciazione.Ilprimodegli avvoltoi,rapaci,infallibili.Per quanto tempo riuscirò a tenerli lontani? I barboni di Cape Town, il cui numero non diminuisce mai. Che vanno in giro nudi senza patireilfreddo;chedormono all’aperto senza ammalarsi; che muoiono di fame senza deperire. Riscaldati dentro dall’alcol; le infezioni e le malattie contagiose del loro sangue consumate dalla liquida fiamma. Divoratori degli avanzi a festa finita. Mosconi spietati, dalle aride ali e dagli occhi vitrei. I miei eredi. Con che passi lenti sono entrata in questa casa vuota, disertata da ogni eco, dove persinoilrumoredellescarpe sulle tavole del pavimento risuona sordo e monotono. Quanto ho desiderato che tu fossi qui ad abbracciarmi, a consolarmi! Comincio solo ora a comprendere il vero significato dell’abbraccio. Si abbraccia per essere abbracciati. Prendiamo i nostri bambini tra le braccia affinché essi ci stringano nell’abbraccio del futuro, ci facciano sopravvivere, ci accompagnino oltre la soglia della morte. Era cosí ogni volta che ti stringevo a me, sempre. Diamo alla luce figli affinchéessisiprendanocura di noi. Le verità della casa, la veritàdiunamadre:daorae fino alla fine è tutto ciò che avrò da dirti. Dicevo… quanto mi sei mancata! Quanto ho desiderato poter salire di sopra da te, sedermi sul bordo del letto, far scorrere le dita tra i tuoi capelli, sussurrarti all’orecchio: È ora di alzarsi!, come facevo al mattino quando dovevi andare a scuola. E poi, quando ti giravi,ilteporedeltuocorpo, iltuorespirodolcedilatte,ti prendevo tra le braccia per quelritochenoichiamavamo «stringere Mamma forte forte» il cui significato segreto, il significato mai confessato, era che Mamma non doveva essere triste, poichénonsarebbemortama avrebbecontinuatoaviverein te. Vivere! Tu sei la mia vita, io amo te come amo la vita. Al mattino esco di casa, inumidiscoleditaelesollevo alvento.Quandoilgelosoffia danord-ovest,dadovetusei, io rimango cosí, a lungo, ad annusare l’aria, con tutti i sensi all’erta, nella speranza che attraverso diecimila migliaditerraeacquagiunga finoameunpo’delprofumo dolce di latte che ancora ti si annida dietro i lobi delle orecchie e nella piega del collo. Il primo compito assegnatomidaoggi:resistere al desiderio di condividere il dolore della morte con qualcuno. Poiché amo te e amo la vita devo perdonare i vivi e congedarmi senza rimpianti. Abbracciare la morte come se mi appartenesse, come se fosse solomia. Ma a chi sto scrivendo allora? La risposta: a te ma nonate;ame,atecheseiin me. Per tutto il pomeriggio ho cercato di tenermi occupata: horipulitoicassetti,hoscelto e gettato via vecchie carte. All’imbrunire sono uscita di nuovo. Dietro al garage il rifugio era sistemato come prima, con il telo di plastica nera accuratamente disteso sopra i cartoni. L’uomo vi giaceva all’interno, rannicchiato, con le gambe vicinoalcorpoeconuncane al fianco che drizzava le orecchie e dimenava la coda. Ungiovanecollie,pocopiúdi un cucciolo, nero a chiazze bianche. – Non voglio fuochi – ho detto. – Mi ha sentito? Non voglio fuochi. Non voglio casino. Allorasièmessoasedere, sfregandosi le caviglie nude e guardandosi attorno come se non sapesse dove si trovava. Lafacciaequinasegnatadalle rughe, con le palpebre gonfie degli alcolizzati. Strani occhi verdi:malati. – Vuole qualcosa da mangiare?–hochiesto. Mi ha seguito in cucina con il cane alle calcagna e ha aspettato mentre gli preparavo un panino. Ne ha staccato un boccone, ma poi sembrava essersi dimenticato di masticare. Se ne stava appoggiato allo stipite della porta con la bocca piena, la lucesiriflettevaneisuoivacui occhi verdi, mentre il cane guaiva sommessamente. – Devofarelepulizie–hodetto con tono impaziente, mentre mi avvicinavo alla porta nel gesto di chiuderla. Allora è uscito senza proferire parola, ma io sono certa di averlo visto gettare via il panino prima ancora di voltare l’angolo e il cane tuffarvisi sopra. Non c’erano cosí tanti vagabondi quando c’eri tu. Ma ora fanno parte della vita di qui. Se mi fanno paura? Tuttosommato,no.Unpo’di elemosina, qualche furto; sporcizia, schiamazzi, ubriachezza, niente di piú. Temo piuttosto le bande di teppistelli, quei ragazzini dal muso duro, voraci come squali, su cui calano già le ombre della prigione che li ospiterà. Bambini che hanno inspregiol’infanzia,iltempo della meraviglia, il tempo in cui l’anima prende forma. La loro anima, l’organo della meraviglia, rachitico, pietrificato. E dall’altro lato della grande barriera i loro cugini bianchi, anch’essi con l’anima rattrappita, sempre piú prigionieri nelle fitte spirali protettive del loro sonnolento bozzolo. Nuoto, lezioni di equitazione, danza classica, cricket su prato; vite trascorse dentro giardini fortificati, guardati dai bulldog. Bambini del paradiso, biondi, innocenti, avvoltidaluceangelica,teneri comeputti.Lalorodimora:il limbo dei non nati. La loro innocenza: l’innocenza delle larve d’ape. Bianchi e grassocci, intrisi di miele, assorbonodolcezzaattraverso la pelle tenera. Le loro anime sonnolente, traboccanti di beatitudine,distratte. Perché do del cibo a quell’uomo? Per la stessa ragione per cui darei da mangiarealsuocane(rubato, ne sono certa) se venisse a mendicarne. Per la stessa ragionepercuitidavoilseno. Avere abbastanza per poter far dono della propria abbondanza: quale impulso piú urgente di questo può esservi? Persino dai propri corpi avvizziti i vecchi tentano di spremere un’ultima goccia. Un’ostinata volontà di dare, di nutrire. È astutalamortenelperseguire ilpropriofine:hasceltoilmio seno per sferrare il primo colpo. Questa mattina gli ho portato il caffè e l’ho trovato che urinava nel canale di scolosenzatradireperquesto alcunavergogna. –Vuoleunlavoro?–gliho chiesto. – Ci sono diversi lavorettichepotreifarlefare. Non ha risposto, ma ha bevuto il caffè tenendo la tazzaconentrambelemani. –Stasprecandolasuavita –glihodetto.–Nonèpiúun bambino.Comepuòviverein questo modo? Come può trascinarsicosítuttoilgiorno senzafarniente?Proprionon riescoacapirlo. È vero: non riesco a capirlo. C’è qualcosa in me che si ribella all’inerzia, a questo lasciarsi andare, all’accettazionedeldegrado. La sua reazione mi ha lasciato sgomenta. Fissandomi negli occhi, guardandomi per la prima volta dritto negli occhi, ha sputato sul cemento davanti ai miei piedi un grumo di salivadenso,giallastro,striato di marrone per via del caffè. Poi mi ha restituito bruscamente la tazza e se n’è andato. Proprio quella cosa, ho pensato scossa: quella cosa tirata fuori e posta tra noi. Sputata non addosso a me, ma davanti a me perché potessi vederla, esaminarla, rifletterci su. Il suo modo di parlare,lasuaparola,sfornata dallabocca,ancoratiepidanel momento in cui ne è uscita. Una parola, è innegabile, appartenente a un linguaggio che precede il linguaggio. Prima lo sguardo, poi lo sputo. Che tipo di sguardo? Uno sguardo irrispettoso, di un uomo verso una donna abbastanza vecchia da poter essere sua madre. Ecco: riprenditiiltuocaffè. La scorsa notte non ha dormitonelvialetto.Anchele scatolesonosparite.Tuttavia, frugandoquaelà,hotrovato nella legnaia la borsa dell’Air Canada e ho notato un cantuccio che deve aver ripulito per sé in quell’accozzaglia di legna e fascine. Cosí ora so che intendetornare. Già sei pagine, e tutte su un uomo che non hai mai incontrato e mai incontrerai. Perché scrivo di lui? Perché luièenonème.Perchénello sguardo che mi rivolge vedo me stessa in un modo che riesco a scrivere. Questo scrittononsarebbealtrimenti soltanto un gemito, ora piú acuto, ora sommesso? Quandoscrivodiluiscrivodi me. Quando scrivo del suo cane scrivo di me; quando scrivodellacasascrivodime. Uomo, casa, cane: poco importa, con ogni parola tendo la mano verso di te. In un altro mondo non avrei bisognodiparole:comparirei sull’uscio di casa tua. Sono venutaatrovarti,direi;enon occorrerebbero altre spiegazioni:tiabbraccerei,mi abbracceresti. Ma in questo mondo, in questo tempo, devo tentare di raggiungerti attraverso le parole. Cosí, giorno dopo giorno traduco mestessa,confezionoparolee le sistemo sulla pagina come fossero dolcetti: dolcetti per mia figlia, per il suo compleanno, per il giorno della sua nascita. Parole che fuoriescono dal mio corpo, caramelledimestessa,perlei, da scartare a suo tempo, da mangiare, da succhiare, da assimilare. Come è scritto sulla boccetta: caramelle di zucchero, secondo l’antica ricetta, confezionate con amore da mani sapienti; l’amore che non possiamo fare a meno di provare per coloro cui ci offriamo per esseredivoratiobuttativia. Nonostante abbia piovuto insistentemente tutto il pomeriggio, è solo all’imbrunire che ho udito il cigolio del cancello e, un attimodopo,ilticchettiodelle unghiedelcanesullaveranda. Stavo guardando la televisione. Un rappresentantedellatribúdei Ministers e Onderministers declamava un annuncio alla nazione. Io stavo in piedi, come faccio sempre quando parlano loro, per conservare un po’ della mia dignità (chi sceglierebbe di fronteggiare il plotone d’esecuzione rimanendoseduto?)Onsbuig nievoordreigementenie,stava dicendo: non ci piegheremo di fronte alle minacce. Un discorsodelgenere. Dietro di me, le tende erano aperte. A un tratto ho notato la sua presenza. L’uomo,dicuinonconoscoil nome, guardava attraverso il vetro, oltre le mie spalle. Allora ho alzato il volume, abbastanza perché, se non le parole, potesse almeno percepire la cadenza, il lento aggressivo ritmo dell’afrikaans,conisuoifinali mozzi, come un martello che conficchi un paletto nel terreno. Insieme, colpo dopo colpo, siamo rimasti in ascolto. L’umiliazione di una vita vissuta in loro potere: aprire un giornale, accendere la radio; come inginocchiarsi e sentirsi urinare addosso. Sotto di loro: sotto il loro ventre flaccido, sotto le loro vescichegonfie.Aveteigiorni contati, ero solita sussurrare untempoacolorocheorami sopravviveranno. Stavo per uscire per le compere, stavo aprendo il garage, quando ho avuto un attacco;improvvisamente.Un attacco, di questo si trattava. Il dolore si è scagliato su di me come un cane, affondandomi i denti nella schiena. Ho gridato, non potevo piú muovermi. Allora lui, quest’uomo, è comparso da chissà dove e mi ha accompagnatoincasa. Misonodistesasuldivano, poggiandomi sul fianco sinistro, nell’unica posizione comoda consentitami. Lui ha aspettato. – Si sieda – ho detto. Si è seduto. Il dolore cominciava a placarsi. – Ho uncancro–hospiegato.–Si èapertounastradanelleossa. Aquestoèdovutoildolore. Non ero affatto sicura che avessecapito. Un lungo silenzio. Poi: – Questaèunacasagrande–ha osservato. – Potrebbe farne unapensione. Hofattoungestostanco. – Potrebbe affittare stanze agli studenti – ha proseguito inesorabilmente. Ho sbadigliato e poiché la dentiera tendeva a staccarsi misonocopertalabocca.Un temposareiarrossita.Orano. – C’è una donna che mi aiuta in casa – ho detto. – Starà via fino alla fine del mese, presso i suoi familiari. Leihafamiglia? Che strana espressione: avere famiglia. Ho famiglia io? Sei tu la mia famiglia? Non credo. Probabilmente solo a Florence è dato appartenereaunafamiglia. Non ha risposto. Non c’è infanzia intorno a lui. Ha l’ariadiunochenonhaavuto figlienonèstatobambino.Il viso tutto pelle raggrinzita e ossa: non si può immaginare ilvoltodiunbambinodietro quel viso, cosí come non si può immaginare la testa di una serpe che non sembri vecchia. Occhi verdi, animaleschi: è possibile immaginare un bambino con occhicomequelli? –Ioemiomaritocisiamo separati molto tempo fa – ho detto.–Luièmorto.Houna figlia in America. Se ne è andata nel 1976 e non è piú tornata. È sposata con un americano. Hanno due bambini. Unafiglia.Carnedellamia carne.Tu. Ha tirato fuori un pacchetto di sigarette. – Non fumi in casa, per favore – ho detto. – Qual è il suo problema? –glihochiesto.–Mihadetto di avere una pensione d’invalidità. Ha mostrato la mano destra. Ne spuntavano il pollice e l’indice; le altre dita erano curvate verso il palmo. –Nonpossomuoverle. Abbiamo osservato quella mano, le tre dita ricurve, le unghie sporche. Non la definirei una mano resa callosadallavoro. –Èstatounincidente? Hafattocennodisíconil capo; un cenno che non lo compromettevatroppo. – Se mi taglia l’erba, la pago–hoofferto. Per un’ora, armato di falciatrice, ha tagliato con indolenza l’erba che in certi punti raggiungeva le ginocchia. Alla fine aveva ripulito pochi metri di prato. Poi ha smesso. – Non fa per me – ha detto. L’ho pagato per l’ora di lavoro. Nell’andarsene ha urtato contro la ciotola del cibo per gatti spargendo gli avanzi tutt’attornosullaveranda. Tutto considerato, fa piú dannidiquantononaiuti.Ma non l’ho scelto io. Lui ha scelto me. O forse ha semplicemente scelto l’unica casa senza cane da guardia. Unacasadigatti. I gatti sono irrequieti a causa dei nuovi arrivati. Non appenamettonofuoriilnaso, il cane tende loro piccoli agguati, per gioco, ma loro s’acquattano in casa irritati. Oggi non hanno mangiato. Pensavo che avessero sdegnato il cibo perché era stato in frigorifero e ho aggiunto dell’acqua calda in quella poltiglia dall’odore pungente(cosasarà?carnedi foca?carnedibalena?)Hanno continuato a ignorarlo; vi giravano intorno e con la punta delle code frustavano l’aria. – Mangiate! – ho ordinato,spingendolaciotola versodiloro.Ilpiúgrossoha sollevato la zampa con prudenza per evitare il contatto. Ho perso il controllo. – All’inferno! – ho urlato e ho scagliato con rabbia la forchetta contro di loro. – Ne ho abbastanza di nutrirvi! – C’era una nota insolita nella mia voce: una puntadifolliaenell’udirlaho esultato.Nehoabbastanzadi essere gentile con la gente, abbastanza di essere buona conigatti!–All’inferno!–ho gridato di nuovo, piú forte chepotevo.Hosentitoleloro unghie raspare sul linoleum mentresiallontanavano. Chi se ne frega! Quando sono in questo stato, sarei capacedimetterelamanosul tagliere di legno e di tranciarla via senza esitare. Che m’importa di questo corpo che mi ha tradito? Mi guardo le mani e vedo solo uno strumento, un uncino concuiafferraredellecose.E queste gambe, questi goffi, orribilitrampoli:perchédevo portarmele dietro ovunque? Perché devo portarmele a letto, notte dopo notte, porle sotto le lenzuola, e metterci anche le braccia, piú in su, vicino al volto, per giacere là insonne in quel cumulo di ossa?Eilventre,poi,conquel mortale gorgoglio, e il cuore che pulsa, che batte: perché? Cosa hanno a che fare con me? Ci ammaliamo prima di morire, cosí da svezzarci dal corpo. Il latte che ci ha nutrito si va esaurendo e inacidisce, lascia il nostro seno arido e noi cominciamo a vagheggiare quella vita separata. Tuttavia, questa prima vita, questa vita sulla terra,sulcorpodellaterra:ce nesarà,cenepotràmaiessere una migliore? Nonostante tutto il dolore e la disperazione e l’odio non ho ancorasmessodiamarla. Per il dolore ho preso due delle pillole prescrittemi dal dottor Syfret e mi sono sdraiata sul divano. Qualche ora dopo mi sono svegliata confusa e intirizzita, sono salita annaspando al piano superiore e mi sono messa a lettosenzaspogliarmi. Durante la notte ho avvertito una presenza nella stanza,nonpotevacheessere lui.Unapresenzaounodore. Eralà,poièsvanito. Dalballatoioègiuntouno scricchiolio.Orastaentrando nello studio, ho pensato; ora accendelaluce.Hocercatodi ricordare se tra le carte sullo scrittoio ve ne fossero di personali, ma la mia mente era troppo confusa. Ora vede i libri, scaffali su scaffali, ho pensatocercandodiristabilire un ordine, e le pile di vecchi giornali. Ora guarda le immagini alle pareti: Sofia Schliemann agghindata con i tesori di Agamennone; il Demetrio togato del British Museum.Ora,concautela,fa scorrere il cassetto dello scrittoio. Il primo cassetto, pieno di lettere, conti, francobolli staccati, fotografie, non gli interessa. Ma nell’ultimo cassetto c’è una scatola di sigari piena di monete: qualche penny, dracme,centesimi,scellini.La mano con le dita anchilosate vi affonda e ne estrae due monete da cinque pesetas abbastanza grandi da poter essere scambiate per rand; le intasca. Non un angelo, certo. Un insetto, piuttosto, che sbuca fuori dal battiscopa per rifornirsi di briciole quando lacasaèsprofondatanelbuio. Lo percepivo lontano sul ballatoiochetentavadiaprire le due porte chiuse a chiave. Solo ciarpame, volevo sussurrargli, ciarpame e vecchi ricordi; ma la nebbia nella mia testa si è infittita nuovamente. Ho trascorso la giornata a letto. Non avevo energie né appetito. Ho letto Tolstoj: non la famosa storia sul cancro, quella la conosco fin troppo bene, ma il racconto dell’angelochedimorapresso ilcalzolaio.Quantepossibilità ci sono che io passeggiando per Mill Street trovi il mio angelo da soccorrere e da portare a casa? Nessuna, credo. Se ne potrebbero incontrare ancora uno o due, forse, in aperta campagna seduticontrolepietremiliari, sonnecchianti nella calura, in attesadiciòcheilcasooffrirà loro. O forse nelle baraccopoli. Non in Mill Street. Non nei sobborghi. Sobborghi disertati dagli angeli. Quando un forestiero cenciosobussaallaportanon èmaialtricheunderelitto,un alcolizzato, un’anima smarrita. Eppure, in cuor nostro, quanto desidereremmo che queste nostre case dignitose fremessero, come nel racconto,perl’angelicocanto! Questa casa è stanca di aspettare il giorno, stanca di mantenersiinpiedi.Letavole delpavimentononhannopiú giunture. L’isolante per i cavi elettrici è secco e si sta polverizzando; le tubature sono intasate dalla sabbia. La grondaiacedelàdovelevitisi sono arrugginite o si sono staccate dal legno marcio. Le tegoledeltettosonoricoperte dal muschio. Una casa costruita solidamente, ma senza amore; fredda, inerte ora, pronta per morire. Nemmeno il sole, il sole africano, è mai riuscito a scaldarne le pareti, come se anche i mattoni, impastati dalle mani dei forzati, emanassero una tetraggine chenonconoscerimedio. Lascorsaestate,mentregli operai sostituivano le condutture, li guardavo estrarre i vecchi tubi. Scavavanofinoaduemetridi profondità e tiravano su mattoni sgretolati, ferraglia arrugginita e persino un solitario ferro di cavallo. Mai ossa. Un luogo senza memoria di uomini; privo di interesse per gli spettri come pergliangeli. Questaletteranonmettea nudo il mio cuore. Mette a nudoqualcosa,manonilmio cuore. Poiché questa mattina l’auto non voleva partire, ho dovuto chiedere a lui, a quest’uomo,questoinquilino, dispingere.L’haspintalungo tutto il vialetto. – Ora! – ha gridato, battendo un colpo sulla lamiera. Il motore si è avviato. Ho svoltato nella strada, ho proseguito per alcuni metri, poi, d’impulso, mi sono fermata. – Devo andare a Fish Hoek, – gli ho gridato da una nuvola di fumo – vuole venire anche lei? Cosí siamo partiti, il cane sul sedile di dietro, con la stessa Hillman verde di quando eri bambina. Per lungo tempo tra noi ha regnato il silenzio. Abbiamo superato l’ospedale, l’UniversitàeBishopscourt,il cane appoggiato alla mia spalla con il muso al vento, arrancando su per la collina di Wynberg. Raggiunto il lungo pendio in discesa sull’altro versante, ho spento il motore e ho lasciato che l’auto continuasse la corsa. Sempre piú veloce, finché il volante non ha preso a tremarmitralemanieilcane non ha guaito per l’eccitazione. Io sorridevo, almeno credo; forse avevo persinochiusogliocchi. Alla fine della discesa, mentre l’auto cominciava a rallentare, ho allungato lo sguardo su di lui. Era rilassato, imperturbabile. Bravo!,hopensato. –Quandoeropiccola–ho detto–erosolitalanciarmiin discesa con una bicicletta dai frenipraticamenteinesistenti. Apparteneva a mio fratello piú grande. Mi diffidava dal provarci. Ma io non avevo paura di niente. I bambini non possono immaginare cosa voglia dire morire. Non lisfioraneppurel’ideadinon essereimmortali. – Lanciavo la bicicletta di mio fratello giú per discese molto piú ripide di questa. Piú veloce andavo, piú mi sentivo viva. Fremevo di una vitalitàchetraboccavadatutti i pori, e mi sentivo come se stessi per esplodere. Come deve sentirsi una farfalla al momento della nascita, quando sta per uscire dal bozzolo. – Con un’auto vecchia comequestasièancoraliberi di guidare a motore spento. Con un’auto moderna, invece, quando si spegne il motoreilvolantesiblocca.Lo sa anche lei. Ma qualcuno talvolta commette un errore, o se ne dimentica, e non riesce piú a controllarla. A volte l’auto esce di strada e finisceinmare. In mare. Lottare con il volante bloccato, librati in una bolla di vetro su di un mare scintillante di sole. Succededavvero?Lofannoin molti? Se un sabato pomeriggio mi trovassi sul promontorio di Chapman, li vedrei, uomini e donne, riempire l’aria come moscerini pronti per l’ultimo volo? –C’èunastoriachevorrei raccontarle – gli ho detto. – Quando mia madre era ancora una bambina, all’inizio del secolo, l’intera famiglia era solita recarsi al mare per Natale. Era ancora l’epocadellecarovanetrainate dai buoi. Viaggiavano in carovana da Uniondale, nella zona est del Capo, fino alla baia di Plettenberg, alla foce delfiumePiesangs,unviaggio di un centinaio di miglia che durava non so quanti giorni. Durante il viaggio si accampavanoaimarginidella pista. – Uno dei luoghi prescelti per la sosta era un passo di montagna. I miei nonni trascorrevano la notte all’internomentremiamadre e gli altri bambini avevano giacigli sotto il carro. Cosí, qui comincia la storia, mia madre giaceva in cima al passo nella quiete notturna, rannicchiata sotto le coperte insieme ai fratellini e alle sorelle che le dormivano accanto, e guardava le stelle trairaggidelleruote.Mentre guardava le sembrò che le stelle cominciassero a muoversi: le stelle si muovevano, oppure erano le ruote a spostarsi, lentamente, moltolentamente.Pensò:che faccio? E se il carro inizia a scivolare? Devo gridare per avvertirli?Eserestodistesain silenzio e il carro prende velocità e rotola giú lungo il fianco della montagna con i miei genitori dentro? E se fosse solo la mia immaginazione? – Senza fiato per la paura, con il cuore che martellava, era rimasta là a guardare le stelle, a guardarle muoversi, pensando: che faccio? Che faccio?,tesainascoltodiuno scricchiolio, del primo scricchiolio. Alla fine si era addormentata, il sonno invasodasognidimorte.Ma al mattino, quando era riemersa, l’avevano accolta la luceelaquiete.Eilcarroera riemerso con lei, e i suoi genitori erano riemersi con lei, e tutto era a posto, come prima. Era tempo che dicesse lui qualcosa, sulle colline, sulle automobili o sulle biciclette, oppuresusestessoosullasua infanzia. Ma era ostinatamentesilenzioso. – Lei non aveva detto a nessuno quello che era successodurantelanotte–ho continuato. – Forse aspettava che arrivassi io. Ho sentito quella storia molte volte raccontatadaleieinversioni differenti. Ma sempre erano direttialfiumePiesangs.Che nome splendido! Ero certa chedovessetrattarsidelposto piú bello del mondo. Alcuni anni dopo la morte di mia madre mi sono recata alla baiadiPlettenbergehovisto per la prima volta il fiume Piesangs. Non era affatto un fiume, ma solo un rigagnolo soffocato dalle erbacce e alla sera dalle zanzare, con un posteggio per caravan pieno dibambinivociantiedigrassi uomini scalzi, in pantaloni corti, che arrostivano salsicce su fornelli da campo. Niente affattounparadiso.Noncerto un luogo per cui programmare un viaggio anno dopo anno, per cui traversarevallateemonti. L’auto ora faticava ad arrampicarsi su per Boyes Drive, ancora efficiente ma vecchia, come Ronzinante. Ho afferrato il volante piú saldamente nel tentativo di incitarlaaproseguire. In cima all’altura di Muizenberg,dacuisidomina con lo sguardo la curva di False Bay, ho parcheggiato e ho spento il motore. Il cane ha cominciato a guaire. Lo abbiamo fatto scendere. Ha annusato il paracarro, ha annusato i cespugli, poi si è liberato mentre lo osservavamo rispettando un imbarazzatosilenzio. Ha parlato. – È rivolta nelladirezionesbagliata–mi ha detto. – Dovrebbe parcheggiarla rivolta verso la discesa. Ho nascosto la mortificazione. Ho sempre desideratoapparirecomeuna persona capace. Ora piú che mai, con la prospettiva dell’infermità. – È del Capo lei? – gli ho chiesto. –Sí. –Edèsemprevissutoqui? È diventato irrequieto. Duedomande:unaditroppo. Un frangente, perfettamente dritto, lungo centinaia di metri, rotolava verso la riva, un’unica figura accovacciatasuunatavolada surf precedeva l’onda scivolando sull’acqua. Sull’altro lato della baia le montagne di Hottentots Hollandsistagliavanonitidee azzurre. Fame, ho pensato: è una fame degli occhi quella che provo, una fame tale che detesto persino dover battere le palpebre. Queste acque, queste montagne: voglio imprimermele negli occhi come un marchio a fuoco, cosí profondamente che ovunque io vada esse siano sempre dinanzi a me. Sono affamata d’amore per questo mondo. Uno stormo di passeri è venutoaposarsitraicespugli intorno a noi, si sono lisciati le piume e si sono alzati nuovamente in volo. Il surfista aveva intanto raggiunto la riva e aveva cominciato ad arrancare su per la spiaggia. Improvvisamente, avevo le lacrimeagliocchi.Perchénon hovolutobatterelepalpebre, mi sono detta. Ma la verità era che stavo piangendo. Curva sul volante, mi sono abbandonata prima a un sommessopudicosinghiozzo, poi a lunghi lamenti inarticolati, per alleviare i polmoni, per alleviare il cuore. – Mi dispiace molto – hoansimato;epoi,piúcalma: –Mispiace,nonsocosamiè preso. Non avrei dovuto preoccuparmi di fornire spiegazioni. Non dava segno diessersiaccortodinulla. Mi sono asciugata gli occhi,misonosoffiatailnaso. –Andiamo?–hodetto. Haapertolosportelloeha modulatounlungofischio.Il cane è saltato a bordo. Un cane ubbidiente, certamente rubatoaunabuonafamiglia. L’auto puntava davvero nelladirezionesbagliata. –Proviinretromarcia–ha detto. Ho tolto il freno a mano, ho lasciato che l’auto scivolasse all’indietro per un breve tratto di discesa e ho rilasciatolafrizione.L’autoha dato uno scossone e si è fermata. – Non è mai partita inretromarcia–hospiegato. – Faccia inversione sull’altrolatodellastrada–ha ordinatocomeunmaritoche impartiscalezionidiguida. Ho lasciato scivolare ancora un po’ l’auto all’indietro, poi ho sterzato per fare inversione. Con il clacson strombazzante una grande Mercedes bianca è passatacomeunproiettilesul lato interno della strada. – Non l’avevo vista! – ho ansimato. –Vada!–hagridato. Ho sgranato gli occhi per lo stupore su questo estraneo chemigridavaordini. – Vada! – ha gridato ancora, guardandomi dritto in faccia. Il motore si è avviato. Ho guidato verso casa in assoluto silenzio. All’angolo di Mill Street ha chiestodiscendere. L’odore piú sgradevole viene dalle sue scarpe e dai piedi. Ha bisogno di calzini. Ha bisogno di scarpe nuove. Di un bagno. Avrebbe bisogno di un bagno tutti i giorni; di biancheria pulita; avrebbe bisogno di un letto, di un tetto sulla testa, di tre pasti al giorno, di soldi in banca. Troppe cose da dare: troppeperunachedesidera,a dire il vero, rifugiarsi nel grembo della propria madre pertrovarviconforto. Nel tardo pomeriggio è ritornato. Sforzandomi di dimenticare quello che era accaduto, gli ho mostrato il giardino e gli ho indicato i piccoli lavori necessari. – Potare – per esempio, ho detto.–Sapotare? Hafattocennodinoconil capo. No, non sapeva potare. Oppurenonvolevafarlo. Nell’angolo piú nascosto, quellopiúincolto,rampicanti tenaci erano cresciuti a dismisura e avevano coperto la vecchia panca di quercia e laconigliera. – Qui deve essere tutto ripulito–hodetto. Ha sollevato un lembo della fitta coltre di rampicanti. Sul fondo della gabbiac’eraun’accozzagliadi ossa imbianchite, incluso lo scheletro intatto di un coniglio, con il collo inarcato all’indietro in un’ultima contorsione. – Conigli – ho spiegato. – Appartenevano al figlio della domestica. Glieli lasciavo tenere qui. Poi c’è stata una qualche sbandata nella sua vita.Sièdimenticatodiloroe sonomortidifame.Ioeroin ospedale e non ne sapevo nulla. Quando sono tornata mi sono infuriata nello scoprire quale agonia si era protrattadeltuttoignoratain quest’angolo di giardino. Creature che non possono parlare, che non possono neppurelamentarsi. Dagli alberi di guaiava, crivellati dai vermi, sgocciolava una sostanza densa e maleodorante che si posava ai loro piedi come un tappeto. – Vorrei che gli alberismettesserodifarfrutti –hodetto.–Manonsuccede mai. Il cane dietro di noi annusava svogliatamente la conigliera. Corpi inerti, da lungo tempo cadaveri, il loro odoresvanito. – Dunque, faccia quello che può per riportare tutto sotto controllo – ho detto. – Cosíchenondiventiunluogo completamenteinselvatichito. –Perché?–mihachiesto. –Perchéiosonofattacosí – ho risposto. – Perché non vogliolasciarmidietroilcaos. Ha alzato le spalle, sorridendotrasé. – Se vuole essere pagato dovrà guadagnarselo – ho detto. – Non le darò soldi in cambiodiniente. Halavoratoperilrestodel pomeriggio, tagliando i rampicanti e le erbacce, fermandosi di tanto in tanto con lo sguardo perso in lontananza, fingendo di non accorgersi che lo tenevo d’occhio dal piano superiore. Allecinqueglihodatociòche glispettava.–Losochenonè un giardiniere – ho detto – e nonvogliotrasformarlainciò che non è. Ma non possiamo basaretuttosullacarità. Ha preso i soldi, li ha ripiegati e infilati in tasca guardando lontano, di lato, perevitareilmiosguardo;poi ha detto pacatamente: – Perché? –Perchénonlomerita. E lui, sorridente mentre cercava di nascondere il sorriso: – Meritare... E chi meritaqualcosa? Chimeritaqualcosa?Inun accesso d’ira gli ho gettato il portafogli. – In che cosa crede, allora? Prendere? Prendersi quello che vuole? Avanti,prenda! Con calma ha preso il portafogli, lo ha svuotato dei trenta rand e delle poche monetechecontenevaemelo ha restituito. Poi se n’è andato,ilcanespavaldamente alle calcagna. Dopo mezz’ora era di ritorno; ho sentito il tintinniodellebottiglie. Da qualche parte ha trovato un materassino, uno diqueimaterassinipieghevoli da spiaggia. Stava sdraiato a fumarenelpiccolorifugiotra la polvere e le cianfrusaglie dellalegnaia,conunacandela vicinoeilcaneaipiedi. – Voglio indietro i soldi – hodetto. Si è messo una mano in tasca e ha tirato fuori alcune banconote. Le ho prese. Non tutte quelle che mi doveva, manonimporta. – Se avesse necessità, può chiederne – gli ho detto. – Non sono avara. E faccia attenzioneconquellacandela. Nonvoglioincendi. Mi sono voltata per andarmene. Ma dopo un minutoerodinuovolà. – Mi aveva detto – ho incominciato – che dovrei trasformare questa casa in una pensione per studenti. Ebbene,cisonocosepiúutili che potrei fare. Potrei trasformarla in un ricovero per vagabondi. Potrei organizzare una mensa o un dormitorio.Manonlofaccio. Perché no? Perché lo spirito dellacaritàèmortoinquesto paese. Perché coloro che accettano la carità la disprezzano, mentre coloro che donano lo fanno con la disperazione nel cuore. Che senso ha la carità se non si trasmette di cuore in cuore? Che cosa pensa che sia la carità? Una minestra? Dei soldi? Carità: dal termine latinopercuore.Èaltrettanto difficile ricevere quanto dare. Si fa la stessa fatica. Vorrei che lei lo capisse. Vorrei che imparasse qualcosa invece di lasciarsiandarecosí. Una bugia: la carità, caritas, non ha niente a che fare con il cuore. Ma cosa importa se i miei sermoni poggiano su false etimologie? A malapena mi ascolta quandoparlo.Probabilmente, nonostante quegli occhi attentidaavvoltoio,èconfuso dall’alcol piú di quanto io immagini. O forse, in fondo, non si cura di nulla. Cura: la veraradicedellacarità.Vorrei cheavessecuradisé,manon ne ha. Perché non gliene importa niente. Non gliene importaenonsenecura. Poiché la vita in questo paeseèmoltosimileallavitaa bordodiunanavechestiaper affondare,unodiqueibattelli dilineavecchiostilegovernati da un sinistro capitano sempre sbronzo, con una ciurma inaffidabile e scialuppe di salvataggio che fanno acqua, tengo la radio a ondecorteaccantoalletto.Il piú delle volte trasmettono solo discorsi; ma se si è pazienti,nellepiúimprobabili ore notturne alcune stazioni cedono alla musica. In dissolvenza, a causa del segnaledebole,lascorsanotte ho ascoltato (da dove? Helsinki?LeisoleCook?)inni nazionali di tutti i paesi, musica celestiale, musica che ci ha lasciato molti anni fa e adesso ritorna a noi dalle stelle, trasformata, delicata, come a dimostrare che tutto ciò che viene annunciato prima o poi si realizza. Un universo chiuso, curvo come unuovo,checiracchiude. Giacevocosínell’oscuritàe ascoltavolamusicadellestelle e i fruscii e i mormorii che l’accompagnavano come polvere di stelle; sorridevo, il cuore colmo di gratitudine per la buona novella che giungeva da tanto lontano. L’unico confine che non possono chiudere, ho pensato:ilconfinelassú,trala Repubblica del Sudafrica e l’impero dei cieli. Dove io sono diretta. Dove non occorrealcunpassaporto. Ancorasottol’incantesimo della musica (credo si trattasse di Stockhausen), questo pomeriggio mi sono seduta al pianoforte e ho suonato qualcuno dei vecchi brani: i preludi dal Clavicembalobentemperato,i preludi di Chopin, i valzer di Brahms dalle edizioni consunte di Novello e Augener, tutte macchiate e incartapecorite. Ho suonato male come sempre, confondendo gli accordi come cinquant’anni fa, ripetendo errori di diteggiatura che ormai ho nelle ossa, incorreggibili. (Le ossa particolarmente apprezzate dagli archeologi, ricordo, sono quelle rese nodose dalle malattie o frantumatedallapuntadiuna freccia: ossa che recano il marchiodellalorostoria,resti di un tempo che precede la storia). Quando mi sono stancata della dolcezza di Brahms ho chiusogliocchiehosuonato alcuni accordi, cercando con le dita quello che avrei riconosciuto, quando l’avessi incontrato, come il mio accordo, come eravamo soliti dire in tempi lontani, l’accordo perduto, quello che tocca le corde del cuore. (Parlo di un tempo venuto primadeltuotempo,quando, mentre si passeggiava per strada nell’afa di un sabato pomeriggio, poteva capitare di sentire, proveniente dai salotti, il suono lieve ma insistente che le giovinette producevano esitando sui tasti,nellaspasmodicaricerca di qualche vagheggiata melodia. Giorni pieni d’incanto e di struggimento, di mistero anche! Giorni d’innocenza!) – Jerusalem! – Cantavo piano e suonavo note che ho udito l’ultima volta seduta sulleginocchiadimianonna: – And was Jerusalem ybuildedhere? Poi, finalmente sono tornataaBachehosuonatoe risuonato goffamente la primafugadalLibroPrimo.Il suonoeraimpuro,lapartitura sbiadita,maditantointanto, per qualche battuta, la vera melodia si faceva strada, la vera musica, la musica che nonmuore,sicura,serena. Suonavo per me. Ma a un certo punto una tavola del pavimento ha scricchiolato oppure un’ombra è scivolata dietro le tende e io ho capito cheluierafuorieascoltava. Allora ho suonato Bach per lui, con maggior impegno. Eseguito l’ultimo passaggiohochiusoillibrodi musicaesonorimastaseduta con le mani in grembo a contemplare il ritratto ovale incopertinaconlesueguance cascanti, il sorriso ammiccante, gli occhi gonfi. Puro spirito, ho pensato, eppure, in quale tempio improbabile! Dove si trova ora quello spirito? Nell’eco della mia stentata esecuzione dissolta nell’etere? Nel mio cuore, dove ancora vibra la musica? Si è fatto strada anchenelcuoredell’uomodai calzoni troppo abbondanti che origlia alla finestra? Sarannorimastilegatiinostri due cuori, gli organi dell’amore,dallacordadiquei suoni, seppure per un breve momento? È squillato il telefono: una donnadaunappartamentodi fronte mi metteva in guardia da un vagabondo che aveva avvistato nella mia proprietà. – Non è un vagabondo – ho detto.–Èunuomochelavora perme. Smetterò di rispondere al telefono.Nonc’ènessunocon cui mi senta di parlare, fatta eccezioneperteeperilgrasso uomo della foto, il grasso uomo in paradiso; e nessuno divoidue,credo,chiamerà. Il paradiso. Immagino il paradiso come l’atrio di un albergo,conunsoffittoaltoe l’Arte della fuga diffusa dagli stessi altoparlanti usati per le comunicazioni al pubblico. Dove ci si può sedere in profonde poltrone di pelle, liberi da ogni pena. Un atrio d’albergo pieno di anziani sonnecchianti che si godono la musica, mentre le anime vaganosuegiúdinanzialoro comevapori,leanimeditutti. Un luogo affollato di anime. Vestite? Sí, vestite, credo; ma con le mani vuote. Un luogo dovenontiportidietronulla senonunvestiarioastrattoei ricordi dentro di te, i ricordi di cui sei fatto. Un luogo che non conosce contrattempi. Unastazioneferroviariadopo l’abolizione dei treni. Ascoltare ininterrottamente musica celestiale, in perenne attesa di niente, e sfogliare pigramente le molte pagine dellamemoria. Sarà possibile restare seduti in quella poltrona ad ascoltare la musica senza preoccuparsi per la casa chiusaebuia,perigattichesi aggirano in giardino affamati e irritati? Deve essere possibile, altrimenti a cosa vale il paradiso? E tuttavia morire senza lasciare un seguito è, perdonami se dico questo, cosí innaturale. Per buona pace della mente, per la pace dell’anima, dobbiamo sapere chi ci lasciamo alle spalle, quali presenze riempiranno le stanze in cui un tempo ci siamo sentiti a casa. Penso a quelle fattorie abbandonate, che mi sfilavano accanto quando guidavo nel Karoo e lungo la costa occidentale, i cui proprietari si erano trasferiti in città, negli anni passati, e avevano lasciato gli ingressi sprangaticontavoledilegno, i cancelli chiusi. Ora la biancheria sventola sulle corde, il fumo esce dai camini,ibambinigiocanonei cortilisulretroesalutanocon lamanoleautoincorsa.Una terra che sta per essere riposseduta, i suoi eredi in procinto di rivendicarla. Una terrapresaconlaforza,usata, depredata, sfruttata, abbandonata nei suoi ultimi sterili anni. Forse, persino amata dai suoi rapaci conquistatori, ma soltanto nell’epoca della sua florida giovinezza e quindi, secondo il verdetto della storia, non amataabbastanza. Quando arriva il momento, ti dischiudono le dita per essere certi che non porti via qualcosa con te. Un ciottolo. Una piuma. Un granello di senape sotto le unghie. È come un conteggio, un conto complicatissimo, di intere pagine. Sottrazioni dopo sottrazioni, divisioni su divisioni,finchélamentenon vacilla. Ogni giorno ci riprovo;nelmiocuorebalena la speranza che in questo caso, nel mio caso, ci possa esserestatounerrore.Eogni giorno mi fermo davanti al medesimo muro vuoto: morte, oblio. Il dottor Syfret nel suo studio: – Dobbiamo guardare in faccia la realtà –. Vale a dire: dobbiamo affrontare il muro. Ma non lui:io. Penso ai prigionieri allineati sul bordo della trinceanellaqualecadrannoi loro corpi. Implorano i soldati del plotone d’esecuzione, piangono, fanno i buffoni, offrono denaro, offrono tutto ciò che possiedono: si sfilano gli anelli dalle dita, si tolgono le camicie. I soldati ridono. Si prenderanno tutto in ogni caso, compreso l’oro dei denti. Nonc’èaltraveritàaldilà della fitta di dolore che mi invade quando, senza preavviso,mivincelavisione di questa casa vuota, con la luce del sole che piove dalle finestresudiunlettovuoto,o la vista di False Bay sotto un cielo turchino, intatta, deserta, quando il mondo in cui ho passato la vita mi si manifestamaiononnefaccio parte. La mia esistenza è diventata un’esercitazione quotidiana a distogliere lo sguardo, a ritrarmi per la paura. La morte è l’unica veritàrimasta.Lamorteèciò a cui non sopporto di pensare.Ognivoltachepenso a qualcos’altro, non penso la morte,nonpensolaverità. Provoadormire.Cercodi liberare la mente: una certa calma comincia a impadronirsi di me. Sto cadendo, penso, sto cadendo: benvenuto, dolce sonno. Poi al limitare dell’oblio qualcosa mivieneincontroemispinge indietro,qualcosailcuinome puòsoloessereterrore.Cerco discrollarmelodidosso.Sono sveglia nella mia stanza, nel mio letto, tutto va per il meglio.Unamoscamisiposa sulla guancia. Si pulisce. Comincia a esplorare. Mi passa sull’occhio, l’occhio aperto. Vorrei chiudere la palpebra, vorrei scacciarla con la mano, ma non posso. Conunocchiocheèenonèil mio, rimango a fissarla. Si lecca,sequestaèl’espressione giusta. Non è possibile riconoscereunvoltoinquegli organi sporgenti. Ma è su di me,èqui:avanzasopradime, una creatura di un altro mondo. Oppure: sono le due del pomeriggio. Sono distesa sul divano o sul letto nel tentativo di alleviare il peso dall’anca dove il dolore è piú acuto. Ho una visione di Esther Williams, di floride ragazze in costumi da bagno fioratichenuotanoingruppo senza sforzo alcuno, riverse sul dorso, tra le increspature di un’acqua turchina; sorridonoecantano.Invisibili chitarre strimpellano; le labbra delle ragazze, archi di vivido rossetto scarlatto, formano parole. Cosa cantano?Tramonto...Addio... Tahiti.Sentocrescereinmela nostalgia per il vecchio cinema Savoy e i biglietti da una sterlina e quattro pence inunamonetascomparsaper sempre,dissolta,adeccezione di pochi spiccioli nel cassetto del mio scrittoio; su un lato Giorgio VI , il re buono, il balbuziente,sull’altrolatodue usignoli. Usignoli. Non ho mai sentito il canto degli usignoli e mai lo sentirò. Abbraccio la nostalgia, abbraccio il risentimento, abbraccioilre,leragazzeche nuotano, abbraccio tutto ciò che mi tiene occupata la mente. Altrimenti mi alzo e accendoiltelevisore.Football sulprimocanale.Sull’altroun nero stringe tra le mani la Bibbia e prega in una lingua per la quale non ho neppure un nome. Questa è la porta cheaproperfarfluiredentro ilmondoequestoèilmondo che viene a me. È come scrutareattraversountubo. Tre anni fa ho subito un furto (ricorderai che te l’avevo scritto). I ladri non hanno preso nulla piú di quanto potessero trasportare, maprimadiandarsenehanno rovesciato tutti i cassetti, hanno squarciato ogni materasso,hannomandatoin frantumiilvasellame,rottole bottiglie, sparpagliato tutto il cibo della credenza sul pavimento. – Perché si comportano cosí? – ho chiesto sbalordita all’agente incaricato del sopralluogo – che vantaggio netraggono? – Sono fatti cosí – mi ha risposto.–Sonoanimali. In seguito ho fatto installare inferriate alle finestre. Un robusto operaio indiano ha eseguito il lavoro. Dopo aver avvitato le inferriate agli infissi, ha ricoperto ogni vite con il sigillante.–Cosínonpossono piú essere svitate – ha spiegato. – Ora è al sicuro – hadettodandomideicolpetti sulla mano prima di andarsene. «Oraèalsicuro».Leparole del custode di uno zoo che alla sera chiude la gabbia di qualche uccello dalle ali tarpate, incapace di volare. Un dodo: l’ultimo dei dodo, vecchio, sterile. «Ora è al sicuro». Rinchiuso in gabbia mentre famelici predatori si aggiranoall’esterno.Undodo tremante per la paura, che dorme con un occhio aperto, chesalutal’albaesausto.Salvo però, salvo nella gabbia, le sbarre intatte, intatti i cavi: il cavodeltelefono,attraversoil quale può chiedere aiuto in casodiemergenza,ilcavodel televisore, attraverso il quale entra la luce del mondo, il cavo dell’antenna, che raccoglie la musica dalle stelle. La televisione. Perché la guardo?Tutteleserelasfilata dei politici: mi basta vedere quelle grosse facce inespressive,cosífamiliaridai giorni dell’infanzia, per sentirmi depressa e nauseata. I prepotenti delle ultime file dei banchi di scuola, ragazzi ossuti e stupidi, cresciuti ora, e promossi a governare il paese. Con i loro padri e le loro madri, zii e zie, fratelli e sorelle: un’orda di locuste, una piaga di nere locuste che infestano questa terra, che divorano tutto senza sosta; divoratori di vite. Perché con l’animo inorridito e pieno di odio rimango a guardarli? Perché li lascio entrare in casa? Perché il regno della famiglia delle locuste è la realtà del Sudafrica; è questa verità a darmi il vomito? La legittimitànonlarivendicano nemmeno piú. La ragionevolezza se la sono scrollata di dosso. Ciò che li assorbe è il potere, l’istupidimento del potere. Mangiano e blaterano, divorano vite e poi ruttano. Lenti discorsi, appesantiti dalla digestione. Seduti in circolo, dibattono assennatamente, emanano leggi a colpi di martello: a morte, a morte, a morte. Indifferenti al fetore. Le palpebre pesanti, gli occhi porcinisocchiusi,scaltridella scaltrezza di generazioni di contadini. Complottano gli unicontroglialtri:complotti lenticheimpieganodecennia maturare. I nuovi africani, panciuti; uomini dalle mascelle robuste seduti nei loro uffici: Cetshwayo, Dingane 1, ma con la pelle bianca. Opprimenti: tutto il potere nel loro peso. Enormi testicoli taurini che opprimono le mogli, i figli, capaci di spegnere ogni loro scintilladivita.Neilorostessi cuori non brilla piú alcuna scintilla. Cuori indolenti, pesanticomesanguinaccio. E il loro messaggio stupidamente uguale, stupidamente il medesimo in eterno. La loro prodezza, dopo anni di meditazione sull’etimologia delle parole, sta nell’aver fatto della stupiditàunavirtú.Stupefare: privare di sentimento; inebetire, istupidire; sbalordire. Stupore: insensibilità, apatia, torpore mentale. Stupido: ottenebrato, indifferente, destituito di pensiero o sentimento.Dastupere,essere stordito, pieno di stupore. Unascalachevadastupidoa stupitoadattonito,impietrito. Ilmessaggio:cheilmessaggio non cambia mai. Un messaggio che lascia pietrificati. Guardiamo come gli uccelli guardano le serpi, affascinati da ciò che ci divorerà. Fascinazione: l’omaggio che paghiamo alla morte.Nell’oratraleottoele nove ci raduniamo e loro si mettono in mostra. Una manifestazione rituale, come la processione dei vescovi incappucciati durante la guerra di Franco. Una tanatofania: epifania della nostramorte.Vivalamuerte! Illorogridodiguerra,laloro minaccia. A morte i giovani. A morte la vita. Porci che divorano la loro progenie. La GuerradeiPorci 2. Mi ripeto che sto guardando non la menzogna, ma lo spazio dietro la menzogna, dove dovrebbe risiedere la verità. Ma sarà cosí? Ho dormito (sto ancora scrivendodiieri),holetto,ho dormitoancora.Hofattoiltè, ho messo un disco. Battuta dopo battuta, le Variazioni Goldberg hanno riempito l’aria. Sono andata alla finestra. Era quasi buio. L’uomo era seduto contro il muro del garage, fumava, la punta della sigaretta ardeva. Forse mi ha visto, forse no. Insiemeabbiamoascoltato. In questo momento so esattamentequellocheprova, ho pensato, come se lui e io stessimofacendol’amore. Nonostante sia emerso inatteso,nonostantemiabbia riempitodidisgusto,hopreso in considerazione questo pensierosenzaesitazione.Lui e io abbracciati, il mio petto controilsuo,gliocchichiusi, mentre scendiamo per la vecchia strada. Che improbabilicompagni!Come viaggiare in un autobus in Sicilia,premutifacciaafaccia, corpo a corpo, con uno sconosciuto. Forse è cosí la vita nell’Aldilà: non un atrio conpoltroneemusica,maun grande autobus affollato, in corsa da nessun luogo verso nessun luogo. Solo posti in piedi: per sempre su un solo piede, stipati contro estranei. L’aria pesante, viziata, invasa da sospiri e mormorii: scusi, scusi.Contattipromiscui.Per sempre sotto lo sguardo altrui.Lafinediogniprivacy. Dall’altro lato del cortile lui stava seduto, fumava, ascoltava.Dueanime,lasuae la mia, intrecciate insieme, estasiate. Come insetti che si accoppiano da dietro, rivolti in direzioni opposte, immobili ad eccezione di un pulsare del torace che potrebbe essere scambiato semplicemente per il respiro. Immobilitàedestasi. Ha lanciato lontano la sigaretta: un’esplosione di scintille quando ha toccato il suolo,poil’oscurità. Questa casa, ho pensato. Questo mondo. Questa casa, questamusica.Questo. – Questa è mia figlia – ho detto. – Quella di cui le ho parlato, che vive in America –. E attraverso i suoi occhi ti ho osservata nella fotografia: unvoltopiacevole,unadonna sulla trentina, sorridente, contro un campo verde, con una mano sollevata a trattenere i capelli scompigliatidalvento.Sicura. È questa l’aria che hai ora: l’aria di una donna che ha trovatosestessa. –Eccoilorobambini. Due bambini con berretto e cappotto, stivali e guanti, sull’attenti a fianco di un pupazzo di neve, in attesa delloscattodell’obiettivo. Una pausa. Eravamo sedutialtavoloincucina.Gli ho offerto il tè e i biscotti: Marie. Biscotti Marie: cibo per vecchi, per chi non ha denti. – C’è qualcosa che vorrei facesse per me se dovessi morire. Ci sono delle carte che voglio mandare a mia figlia.Masolodopo.Questaè la cosa importante. Ecco perché non posso spedirle io. Farò tutto il resto. Le raccoglierò in un pacchetto, applicheròifrancobolligiusti. Tutto ciò che deve fare è consegnareilpaccoall’ufficio postale.Faràquestoperme? Èdiventatoirrequieto. – È un favore che non chiederei se potessi farne a meno. Ma non c’è altra soluzione. Io non sarò piú qui. – Non può chiederlo a qualcunaltro?–hadetto. –Sí,potrei.Malochiedoa lei. Questi sono scritti personali, lettere private. Sono l’eredità di mia figlia. Tutto ciò che posso darle, tutto ciò che accetterebbe da questo paese. Non voglio che nessunaltroleapraelelegga. Carteprivate.Questecarte, questeparolechesenonleggi ora non leggerai mai piú. Arriveranno fino a te? Ti saranno già arrivate? Due modi per formulare la stessa domanda, una domanda di cui non conoscerò mai la risposta, mai. Per me, questa lettera sarà sempre come un messaggio affidato al mare: unmessaggioinunabottiglia cherecaimpressiifrancobolli dellaRepubblicadelSudafrica eiltuonome. – Non so – ha risposto l’uomo,ilmessaggero,mentre giocherellava con il cucchiaino. Non fa promesse. Pure, se promettesse, alla fine farebbe come gli pare. Ultime istruzioni, mai vincolanti. Perché i morti non sono persone. Questa è la legge: tutti i contratti decadono. I morti non possono essere ingannati, né traditi, a meno che non li porti con te nel cuore e là commetti il crimine. – Non si preoccupi – ho detto. – Avevo pensato di chiederle anche di venire a daredamangiareaigatti.Ma troveròun’altrasoluzione. Quale altra soluzione? In Egitto muravano i gatti con i loro padroni morti. È questo ciòchevoglio?gialliocchiche vagano avanti e indietro in cerca di una via d’uscita da quelbuconero? – Li farò abbattere – ho detto. – Sono troppo vecchi perabituarsiaun’altracasa. Come acqua contro una roccia le mie parole hanno urtatocontroilsuosilenzio. – Devo fare qualcosa per loro–hodetto.–Nonposso non far niente. Se lei fosse al mio posto si comporterebbe nellostessomodo. Con la testa faceva cenno di no. Non era vero. Sicuramente,noneravero.In una notte d’inverno, prima o poi,quandoilfuocoartificiale che gli scorre nelle vene non sarà piú sufficiente a proteggerlo, morirà. Morirà, lebracciaincrociatesulpetto, davanti a una porta o in un viale; lo troveranno con il canealfiancooqualchealtro cane che gli lecca la faccia uggiolando. Lo porteranno via e lasceranno il cane in mezzoallastradaequellasarà la fine. Nessuna cerimonia, nessun lascito, nessun mausoleo. –Spediròilpaccoperlei– hadetto. 1 [Sanguinari re Zulu. Dingane partecipò a una congiura per uccidere il feroce condottiero Chaka,il22settembre1828]. 2 [L’autore gioca sull’assonanza dei termini boers, «boeri» e boars, «cinghiali,maialiselvatici»]. II. Florence è tornata e ha portatoconsénonsololedue bambine, ma anche il figlio quindicenne,Bheki. – Starà qui a lungo, Florence? – ho chiesto. – C’è posto sufficiente anche per lui? – Se non sta con me si caccia nei guai – mi ha risposto Florence. – Mia sorellanonpuòpiúoccuparsi di lui. La situazione è molto grave a Guguletu, molto grave. Cosí adesso ho cinque personenelgiardinosulretro. Cinque persone, un cane e duegatti.Lavecchiachenella scarpaviveva.Ecosafarenon sapeva. QuandoFlorenceseneera andata all’inizio del mese le avevo assicurato che me la sarei cavata con i lavori di casa. Ma, naturalmente, ho lasciato che tutto andasse in malora,ebenprestounodore pungente, stagnante, ha pervasolestanzedisopra,un odore dolciastro di crema, lenzuola sporche, talco. Adesso ho dovuto seguirla piena di vergogna mentre perlustrava questo scenario. Le mani sui fianchi, le narici che vibravano, gli occhiali lampeggianti, valutava le prove della mia incompetenza. Poi si è messa al lavoro. Per la fine del pomeriggio il bagno e la cucina brillavano, la camera da letto era invasa da una fresca fragranza, nell’aria si respiravaprofumodiceraper mobili. – Meraviglioso, Florence – ho detto, pronunciando le frasi di rito. –Nonsocomefareisenzadi te –. Eppure, lo so bene. Scivolerei nell’indifferenza e nello squallore della vecchiaia. Terminati i lavori per me, Florence si è dedicata alle consuete attività. Ha avviato lacenaepoihaportatoledue bambine nel bagno di sopra. Laguardavomentrelelavava strofinando energicamente dietro le orecchie, lungo le cosce, con sveltezza e decisione, indifferente ai loro uggiolii, e ho pensato: che donna ammirevole, ma come sono contenta che non sia miamadre! Ho incontrato il ragazzo che si aggirava nel giardino. Untempoloconoscevocome Digby, ora si chiama Bheki. Alto per l’età che ha, col bell’aspetto severo di Florence. – Non posso credere che tu sia cresciuto tanto – ho detto. Non ha risposto. Non è piú il ragazzino dalla faccia sincera che quando veniva in visita correva subito alla gabbia dei conigli, tirava fuori la femmina grassa e se la stringeva al petto. Indubbiamenteoraèrisentito per essere stato separato dai suoi amici e recluso con le sorelline nel giardino di un’estranea. – Da quando sono chiuse le scuole? – ho chiesto a Florence. – Dalla scorsa settimana. Tutte le scuole di Guguletu, LangaeNyanga.Iragazzinon hanno niente da fare. Quello che fanno è aggirarsi per le strade e ficcarsi nei guai. È meglio che stia qui, dove possotenerlod’occhio. –Siannoieràsenzaamici. Ha alzato le spalle ed è rimasta seria. Credo di non averlamaivistasorridere.Ma forse sorride ai suoi bambini quandoèsolaconloro. – Chi è quell’uomo? – ha chiestoFlorence. –ÈilsignorVercueil–ho risposto. – Vercueil, Verkuil, Verskuil. Almeno, cosí dice. Non mi è mai capitato di sentireunnomecomequesto in precedenza. Starà qui per unpo’.Hauncane.Avvertile bambinedinonfarloeccitare tropposecigiocano.Èancora un cucciolo, potrebbe mordere. Florence ha scrollato la testa. – Se ci crea problemi gli chiederò di andarsene – ho detto – ma non posso mandarlo via per cose che nonhafatto. Una giornata fredda, ventosa: mi sono seduta sul balcone avvolta nella vestaglia. Di sotto, nel prato, Vercueil era intento a smontare la vecchia falciatrice; le due bambine lo osservavano. La piú grande il cui nome, dice Florence, è Hope (non si degna di affidarmi i loro veri nomi), era accovacciata qualche metro piú in là, fuori dal suo campo visivo, con le mani strette tra le ginocchia. Calzava i suoi nuovi sandali rossi. La piccola, Beauty, ancheleiconsandalettirossi, si aggirava per il prato con passo incerto, sgambettando, e talvolta cadendo a sedere improvvisamente. Li osservavo. La bimba avanzava verso Vercueil, le braccia sollevate, i pugni serrati. Prima che inciampasse sulla falciatrice lui l’ha afferrata e tenendola perilbracciograssottellol’ha condotta lontano, al sicuro. Di nuovo, con passo vacillante, si è slanciata verso di lui. Di nuovo lui l’ha afferrata e l’ha portata via. Stava per diventare un gioco. Ma sarebbe stato al gioco il cupoVercueil? AncoraunavoltaBeautysi èlanciataversodilui;ancora una volta lui l’ha portata in salvo. Poi, meraviglia delle meraviglie, ha spinto la falciatricemezzosmontatada unlatoe,porgendounamano alla piccola e una mano a Hope, ha iniziato a girare in circolo,primalentamente,poi sempre piú velocemente. Hope,conisuoisandalirossi, doveva correre per tenere il passo; la piccola, invece, sollevata in aria, lanciava gridolini di gioia; il cane, chiuso fuori, da oltre il cancello saltava e abbaiava. Quanto chiasso! Quanta eccitazione! In quel momento deve essere entrata in scena Florence, perché quella giostra ha rallentato e si è fermata. Poche parole sommesse e Hope ha lasciato la mano di Vercueil persuadendo la sorellina a fare lo stesso per poi scomparire dalla mia visuale. Houditounaportachiudersi. Il cane, avvilito, uggiolava. Vercueil è tornato alla falciatrice. Mezz’ora piú tardi hacominciatoapiovere. Ilragazzo,Bheki,trascorre il tempo sdraiato sul letto di Florence, sfogliando vecchie riviste, mentre da un angolo della stanza Hope lo guarda in adorazione. Qualche volta, stufo delle letture, se ne sta nel vialetto e fa rimbalzare una pallina da tennis contro la porta del garage. Quel rumore mi fa impazzire. Nonostante mi prema il cuscino sulla testa, quello spietato tamburellare mi rimbombanelleorecchie. – Quand’è che apriranno di nuovo le scuole? – chiedo irritata.–Glidiròdismettere – risponde Florence. Un minutodopoicolpicessano. L’anno scorso, quando erano cominciati i problemi nelle scuole, avevo detto a Florence come la pensavo. – Aimieitempi,consideravamo l’istruzione un privilegio – le dissi. – I nostri genitori tiravano la cinghia e mettevanodaparteisoldiper mantenere i figli a scuola. Avremmo considerato un gestodipurafolliabruciarele scuole. – Oggi è diverso – rispose Florence. – Approvi il fatto che i ragazzibrucinolescuole? –Nonsonoioapoterdire a questi ragazzi quello che devono fare – mi rispose Florence. – Oggi tutto è cambiato.Noncisonopiúné madri,népadri. –Cheassurdità–risposi.– Cisonosemprepadriemadri –. Su quella nota era terminato il nostro scambio diopinioni. Dei disordini nelle scuole la radio non dice niente, la televisione non dice niente, i giornali non dicono niente. Nel mondo che proiettano, tutti i bambini del paese siedono felicemente tra i banchi e vengono istruiti sul quadrato costruito sull’ipotenusaesuipappagalli della foresta amazzonica. Quello che so dei fatti di Guguletu dipende esclusivamente da quello che miraccontaFlorenceodaciò chevedoaffacciataalbalcone scrutando verso nord-est: precisamente, che Guguletu ogginonèinfiamme,osesta bruciando, brucia a fuoco lento. In questo paese il fuoco cova sotto la cenere; ma con tutta la buona volontà, io posso solo essere una spettatrice disattenta. In realtà, la mia attenzione è tutta rivolta verso l’interno, verso la cosa, la parola, la parola per la cosa che si fa strada nel mio corpo. Un’occupazione vergognosa, e in tempi come questi persino ridicola, poiché un banchiere con i vestiti in fiamme è un personaggio da barzelletta, ma un accattone che brucia no. Eppure non possofarcinulla.«Guardami!, –vorreigridareaFlorence.– Anch’iostobruciando!» Il piú delle volte tento di tener separate le lettere della parola come se fossero le ganasce di una trappola. Quando leggo, leggo con circospezione, tralascio righe o persino interi paragrafi quando con la coda dell’occhio colgo l’ombra della parola che aspetta in agguato. Ma nell’oscurità, nel letto, nella solitudine, la tentazione di guardarla si fa irresistibile. Misentoquasisospintaverso quella parola. Mi immagino bambina, con un lungo vestito bianco e un cappello di paglia, su di una vasta spiaggia vuota. La sabbia si solleva tutt’attorno. Tengo fermo il cappello, cerco di tenermi ben salda sui piedi, raccolgo le forze contro il vento. Ma dopo un po’, in questo luogo desolato dove nessuno mi vede, lo sforzo diventa insostenibile. Cedo. Come una mano che mi si posi in fondo alla schiena, il ventomispinge.Èunsollievo nondoveropporreresistenza. Dapprima camminando, poi correndo, permetto al vento ditrasportarmi. E, notte dopo notte, mi sospinge verso il Mercantedi Venezia. Forse che io non mangio, non dormo, non respiro come voi?, grida l’ebreo Shylock: Non sanguino forse come voi?, mentre brandisce un pugnale con una libbra di carne sanguinante impalata sulla punta. Non sanguino forse come voi?, echeggiano le parole rabbiose e angosciate dell’ebreo dalla lunga barba che si aggira per il palcoscenicoconlozucchetto intesta. Griderei la mia angoscia a tesetufossiqui.Matunonci sei. Per questo mi rivolgo a Florence. Sarà Florence a sopportare i momenti in cui un’autentica vampa di paura sisprigioneràdameeridurrà in cenere le foglie sui rami. Andràtuttobene,questesono le parole che voglio sentir pronunciare. Voglio sentirmi avvoltadalcalorediunseno, l’abbracciodiFlorence,iltuo, odichiunque;vogliosentirmi direcheandràtuttobene. Mentre ero a letto, la scorsa notte, con un cuscino sotto l’anca, le braccia premute contro il petto affinché il dolore non si muovesse, l’orologio che segnava le 3:45, ho pensato con invidia e languore a Florence addormentata nella sua stanza, circondata dai bambini assopiti, tutti e quattro intenti a respirare, ciascuno seguendo il proprio ritmo, ogni respiro forte e sicuro. Una volta avevo tutto, ho pensato.Oratuhaituttoeio nonhonulla. Senza esitazioni i quattro respiri si accompagnavano al leggero ticchettio dell’orologio. Ho piegato un foglio in dueehoscrittounmessaggio perFlorence: Ho trascorso una notte insonne. Cercherò di dormire fino a tardi. Per favore, tieni tranquille le bambine. Grazie. E.C. Sono scesa al piano disotto e ho posato il biglietto nel bel mezzodeltavolodellacucina. Poi,intirizzita,sonotornataa letto, ho preso la pillola delle quattro,hochiusogliocchie ho incrociato le braccia in attesa del sonno che stentava adarrivare. CiòchevorreidaFlorence non lo avrò. Niente posso averediciòchevorrei. Loscorsoanno,quandola bambina piú piccola era ancora in fasce, ho accompagnato Florence con l’auto fino a Brackenfell, il postodovelavorasuomarito. Senza dubbio lei si aspettava che la facessi scendereemeneandassi.Ma presa dalla curiosità, curiosa di vedere il suo uomo, di vederli insieme, sono entrata conlei. Eraunsabatopomeriggio, sul tardi. Dal parcheggio ci siamo incamminate per una stradina polverosa che divideva due lunghi e bassi capannoni per giungere a un terzocapannodoveunuomo intutablustavainpiediinun recinto pieno di polli, pollastrelli a dire il vero, che gli turbinavano attorno alle gambe. La bambina, Hope, liberatasi con uno strattone, era corsa avanti e si era aggrappata alle maglie della rete metallica. Qualcosa era guizzato tra Florence e l’uomo: un’occhiata, un interrogativo, uno sguardo d’intesa. Ma non c’era tempo per i saluti. Lui, William, il marito di Florence, aveva un lavoro da eseguire e non poteva essere interrotto. Il lavoro consisteva nell’avventarsi su un pollo, rivoltarlo a testa in giú,stringerlotraleginocchia mentresidibatte,attorcigliare un fil di ferro attorno alle zampe e passarlo a un altro uomo, piú giovane, che lo avrebbe appeso, tra rochi lamenti e uno sbatacchiare d’ali, ad un gancio del nastro trasportatore che sferragliandos’inoltravaverso il fondo del capanno. Qui un terzouomoconungrembiule di cerata schizzato di sangue ne afferrava la testa, tirava il collo fino a tenderlo e lo tranciava di netto con un coltellino tanto piccolo da sembrare parte della mano, e cosí facendo lanciava la testa in un secchio pieno di altre testemozzate. Questo era il lavoro di William,equestoèciòcheho visto prima di avere il tempo o la presenza di spirito di chiedermi se davvero volevo guardare. Per sei giorni alla settimana questo era ciò che faceva. Legava le zampe dei polli. O forse faceva a turno con gli altri e li appendeva, i polli, ai ganci; o ne mozzava le teste. Per trecento rand al mese piú i pasti. Un lavoro che faceva da quindici anni. Perciò non era poi improbabile che alcuni dei polli che avevo farcito di pangrattato, tuorlo d’uovo e salvia, che avevo spennellato conolioesfregatoconl’aglio, fossero stati tenuti all’ultimo momento tra le gambe di quest’uomo, il padre dei bambini di Florence. Che si alzavaallecinquedelmattino, mentre io ancora dormivo, per lavare le gabbie, riempire di becchime le mangiatoie, ramazzare i capanni e poi, dopo colazione, iniziare la macellazione: spennare, pulire e congelare migliaia di carcasse, impacchettare migliaia di teste e zampe, fra metri e metri di intestini e montagnedipiume. Avreidovutoabbandonare immediatamente quel posto, non appena mi resi conto di ciò che vi si compiva. Avrei dovuto prendere l’auto e andarmene e fare del mio meglio per dimenticare. Invece ero rimasta davanti alla recinzione, incantata, mentre i tre uomini elargivanomorteauccellicui non è dato volare. E oltre a me la piccola, con le dita aggrappateallarete,anchelei assorbitadaquellavisione. Cosí difficile, eppure cosí facile:uccidere,morire. Erano ormai le cinque, la giornatavolgevaaltermine,e iomisonocongedata.Mentre midirigevoversoquestacasa vuota, William ha portato Florence e le bambine negli alloggi. Mentre lui si lavava, Florence ha cucinato una cena di riso e pollo sul fornello a cherosene, poi ha allattato la bambina. Era sabato. Alcuni degli altri lavorantieranofuoriinvisita o a divertirsi. Cosí anche FlorenceeWilliam,dopoaver messo le bambine a dormire inunpiccololetto,sonousciti a fare una passeggiata, loro due soli, nel tepore dell’oscurità. Camminavano lungo il bordo della strada. Parlavano della settimana trascorsa: comeerastata,dellelorovite. Quando sono rientrati hannotrovatolebambineche dormivano profondamente. Per assicurarsi un po’ d’intimità,hannoappesouna coperta davanti al giaciglio. Poi avrebbero avuto la notte tutta per sé; tutta, tranne quella mezz’ora in cui Florence sarebbe sgusciata fuori,nelbuio,perallattarela piccola. La domenica mattina William (non è il suo vero nome, ma il nome con il qualeèconosciutosullavoro) ha indossato il completo, il cappello e le scarpe buone. Con Florence hanno raggiunto la fermata della corriera, lei con la bambina sulla schiena, lui tenendo per mano Hope. Hanno preso la corriera per Kuilsrivier, poi un taxi fino a Guguletu, fino alla casa di quella sorella presso cui alloggiava il loro ragazzo. Erano le dieci passate e cominciava a fare caldo. Il servizio in chiesa era terminato;lacucinaerapiena di ospiti, piena di discorsi. Dopounpo’gliuominisono usciti; era ora che Florence aiutasse sua sorella a preparare il pranzo. Hope si era addormentata sul pavimento. Un cane era entrato, le aveva leccato il viso, era stato cacciato via; la bambina, ancora addormentata, era stata sollevata e messa sul divano. Una volta rimaste sole, Florence aveva dato alla sorella i soldi per le spese di Bheki, l’affitto, i pasti, le scarpe, i libri di scuola; la donna se li era nascosti in petto.PoieracomparsoBheki a salutare sua madre. Gli uomini, tornati dalle loro occupazioni, quali che fossero, hanno pranzato tutti insieme: pollo della fattoria, dell’azienda o impianto industriale che dir si voglia, riso,cavolo,sugo.Dafuorigli amicidiBhekiavevanopreso a chiamarlo: lui, finito di mangiareingranfretta,aveva abbandonatolatavola. Tuttoquestoeraaccaduto. Tutto questo deve essere accaduto. Un ordinario pomeriggio in Africa: un tempo sonnolento, una giornata sonnolenta. Si potrebbequasidirechelavita dovrebbeesserepropriocosí. Infine era venuto per loro il tempo di andarsene. Sono andati alla fermata della corriera, Hope questa volta a cavalcioni sulle spalle del padre. Arrivata la corriera si sono congedati. La corriera portava via Florence e le bambine. Le portava a Mowbray, da dove avrebbero preso un autobus per St George Street, edaquiunterzofinoaKloof Street. Da Kloof Street dovevano proseguire a piedi. Arrivate a Shoonder Street le ombre già si erano fatte piú lunghe. Era ora di preparare la cena per Hope, ormai stancaeirritata,fareilbagno allapiccola,finiredistirareil bucatodelgiornoprima. In fondo non è bestiame quello che macella, mi ripetevo; in fondo sono soltanto galline, con i loro occhietti folli da gallina e la loro mania di grandezza. Eppure non riuscivo a dimenticare l’immagine del pollaio, dell’allevamento industriale, dell’impresa dove lavoravailmaritodelladonna concuivivevofiancoafianco, del recinto dove giorno dopo giornosíaggiravasuegiú,in lungo e in largo, respirando sangueepiume,inmezzoallo strepitio di atroci e rochi lamenti, per immobilizzare, rivoltare, afferrare, legare, appendere.Pensavoatuttigli uominisparsinellavastitàdel Sudafrica che, mentre io sedevo a guardare fuori dalla finestra, stavano uccidendo polli, trasportando terra, carrettata dopo carrettata; a tutte le donne che selezionavano arance, che cucivano asole. Chi conterà mai le vangate, le arance, le asole, i polli? Un universo di fatica, un universo scandito da un conteggio: come stare seduti tutto il giorno davanti a un orologio a uccidere i secondiunoaduno,acontare lavitachepassa. Da quando Vercueil ha cominciatoariceveresoldida me, beve assiduamente; non solo vino, ma anche brandy. Certi giorni non beve fino all’ora di pranzo, utilizzando leorediastinenzaperrendere la resa piú voluttuosa. Piú spesso è già completamente sbronzoquandolascialacasa ametàmattina. Il sole emanava una luce metallica oggi quando lui è rincasato. Io ero sul balcone, al piano di sopra, non mi ha visto quando si è seduto in giardino con la schiena appoggiata al muro e il cane al fianco. Il figlio di Florence era già lí, con un amico che non avevo mai visto prima, mentreHopedivoravacongli occhi ogni loro piú piccolo movimento. Avevano una radio accesa, il crepitio ed il ritmo martellante della musica erano persino peggio dellapallinadatennis. – Acqua, – ha chiesto Vercueil ai ragazzi – portatemidell’acqua. Il nuovo arrivato, l’amico, haattraversatoilgiardinoesi è accovacciato accanto a lui. Quello che si son detti non l’ho sentito. Il ragazzo ha allungatoilbraccio.–Dammi –hadetto. Pigramente Vercueil ha spintovialamanotesa. – Dammela – ha detto il ragazzo mentre si sollevava sulle ginocchia per tentare di sfilare la bottiglia dalla tasca diVercueil. Vercueil ha tentato di resistere,masolodebolmente. Il ragazzo ha svitato il tappo e ha versato il brandy perterra.Poihagettatoviala bottigliacheèandatainpezzi. Che gesto stupido, ho quasi dettoforte. – Stanno facendo di te un cane randagio! – ha detto il ragazzo. – Vuoi diventare un bastardorandagio? Ilcane,ilcanediVercueil, hamugolatoprontamente. – Va’ all’inferno – ha rispostoVercueilconlabocca impastata. –Bastardo!–haesclamato ilragazzo.–Ubriacone! Ha voltato le spalle a Vercueilehafattoritornoda Bheki, ostentando una certa tracotanza nel camminare. Che ragazzino saccente, ho pensato. Se questa è la condotta dei nostri nuovi custodi,ilSignoreceneliberi. Labambinahaannusatoil brandyehaarricciatoilnaso. – All’inferno pure tu – ha detto Vercueil scacciandola con un gesto della mano. E poi,improvvisamente,leisiè voltataedècorsanellastanza disuamadre. La musica rimbombava ancora. Vercueil si è assopito controilmuro,piegatosuun fianco; il muso del cane sul suo ginocchio. Io sono tornata al mio libro. Dopo poco il sole si è definitivamenteritiratodietro le nubi; l’aria è diventata fredda. Una pioggia leggera ha cominciato a cadere. Il cane si è scrollato e si è infilatonellalegnaia.Vercueil si è alzato e lo ha seguito. Io ho cominciato a radunare le miecose. Nella legnaia c’è stata una baruffa. Immediatamente il canesièprecipitatofuori,siè guardato intorno, poi ha preso ad abbaiare; quindi è uscito Vercueil camminando a ritroso; i due ragazzi lo hanno seguito per ultimi. Quando il secondo ragazzo, l’amico, gli si è avvicinato, Vercueil lo ha colpito sul colloconilpalmodellamano. Con un sibilo di sorpresa il ragazzo ha trattenuto il fiato: ho sentito il sibilo chiaramente,nonostantefossi sulbalcone.Poiharestituitoil colpo facendo vacillare Vercueil che per poco non è caduto. Il cane guaiva e gli saltellava intorno. Il ragazzo ha colpito Vercueil ancora unavolta,maoraancheBheki partecipava. – Smettete! – ho gridato. Mi hanno ignorato; Vercueil giaceva per terra; lo stavano prendendo a calci; Bheki si era sfilato la cintura dai pantaloni e lo stava fustigando. – Florence! – ho gridato – Fermali! – Vercueil si era portato le mani al viso per proteggersi. Il cane ha fattounbalzoindirezionedi Bheki; lui l’ha respinto e ha continuato a flagellare Vercueil con la cintura. – Smettete, voi due! – ho gridato, afferrandomi alla ringhiera.–Smettetesubitoo chiameròlapolizia! Allora è comparsa Florence. Ha usato parole aspre e i due ragazzi si sono ritirati. Vercueil si è alzato incespicando. Io mi sono precipitata in giardino piú in frettachehopotuto. –Chièquelragazzo?–ho chiestoaFlorence. Lui ha smesso di parlare con Bheki e mi ha guardato. Non mi piaceva il suo sguardo: arrogante, combattivo. – È un amico di scuola – hadettoFlorence. –Devetornarseneacasa– ho detto – questo è troppo per me. Non posso ammettere risse in casa mia. Non posso ammettere che estranei entrino ed escano liberamente. Dal labbro di Vercueil colava sangue. Era strano vedere il sangue su quella pellechesembracuoio.Come mielesullacenere. –Nonèunestraneo,èun ospite – ha affermato Florence. – Dobbiamo mostrare il lasciapassare per entrare qui? –hadettoBheki.Luieilsuo amico si sono scambiati sguardi d’intesa. – Ci vuole un lasciapassare? – Aspettavano la mia risposta, era una sfida. La radio era ancoraaccesaediffondevaun suono disumano, estenuante; avrei voluto premermi le manisulleorecchie. – Non ho parlato di lasciapassare–hodetto.–Ma che diritto ha di venire qui e di aggredire quest’uomo? Quest’uomo vive qui. È casa sua. Le narici di Florence vibravano. – Sí, – ho detto volgendomi verso di lei – ancheluivivequi,ècasasua. – Vive qui – ha ribattuto Florence–maèunoschifoso. Èunbuonoanulla. –Joumoer!–haesclamato Vercueil. Si era tolto il cappello e ne stava rimodellando la corona, poi lo ha sollevato in aria, come percolpirla.–Joumoer! Bheki gli ha strappato il cappello di mano e lo ha lanciatosultettodelgarage.Il cane ha abbaiato con furia. Lentamente il cappello è rotolato giú per il tetto spiovente. –Nonèunoschifoso–ho detto a bassa voce e rivolgendomi soltanto a Florence. – Non esistono persone schifose. Siamo tutti personeallostessomodo. Ma Florence non voleva sentire prediche. – Buono a nulla,buonosoloaubriacarsi – ha aggiunto. – Beve, beve, beve tutto il giorno. Non mi vachestiaqui. Un buono a nulla: era questa la verità? Sí, forse: buonoanulla,questavecchia e dignitosa espressione, udita troppo raramente al giorno d’oggi. –Èilmiomessaggero–ho detto. Florence mi ha guardato condiffidenza. –Consegneràmessaggiper me–hocontinuato. Ha scrollato le spalle. Vercueil se ne è andato trascinandosi con il cappello in mano e il cane al seguito. Ho udito lo scatto della serraturadelcancello.–Di’ai ragazzi di lasciarlo in pace – ho detto. – Non dà nessun fastidio. Come un vecchio gatto scacciato dai giovani maschi, Vercueil è andato a nascondersi per leccarsi le ferite. Io già mi vedo a setacciareiparchi,achiamare sottovoce: Signor Vercueil! Signor Vercueil! Una vecchia incercadelgatto. Florence ostenta orgoglio per come Bheki si è liberato delbuonoanulla,maprevede che sarà di ritorno non appena comincerà a piovere. Per conto mio, dubito che lo rivedremo finché i ragazzi saranno qui. È quanto ho detto a Florence. – Stai mostrando a Bheki e al suo amicochesonoautorizzatiad alzare le mani impunemente su chi è piú vecchio di loro. Questo è un errore. Sí, qualunque cosa tu pensi di lui, Vercueil è piú vecchio di loro! – Piú ti mostri cedevole, Florence, piú i ragazzi agiranno con prepotenza. Mi hai detto che ammiri la generazione di tuo figlio perchélorononhannopaura di niente. Stai attenta: potrebbero cominciare a mostrare indifferenza per la lorostessavitaepoifinirecol provare indifferenza per la vita degli altri. Quello che ammiri in loro non è necessariamente la loro qualitàmigliore. – Continuo a pensare a quello che hai detto l’altro giorno: che non ci sono piú padri né madri. Non posso crederechetunesiaconvinta. I bambini non possono crescere senza madri e padri. Le uccisioni e gli incendi di cui si sente parlare, la loro stupefacente durezza, e pure questo episodio del pestaggio di Vercueil: di chi è la colpa alla fine? Certamente la responsabilità deve ricadere su quei genitori che dicono: Vaipure,fa’ciòchetipare,a tespettanoledecisioniora,tu hai l’autorità adesso. Quale bambino in cuor suo vuole davvero sentirsi dire questo? Certamente se ne andrebbe confuso, pensando tra sé, Non ho piú una madre ora, nonhounpadre:ealloramia madresaràlamorte;lamorte sarà mio padre. Tu te ne lavi lemanielorositrasformano neifiglidellamorte. Florence ha scrollato la testa. – No – ha detto con fermezza. – Ma ti ricordi quello che mi hai raccontato l’anno scorso, Florence, quando nelle township accadevano cose indicibili? Mi hai detto: Hovistounadonnaandarea fuoco, bruciava, e quando ha gridato per chiedere aiuto, i ragazzini si sono limitati a sghignazzare e hanno gettato altrabenzinasudilei.Mihai detto: Non credevo che avrei mai visto una cosa simile in vitamia. – Sí, l’ho detto, ed è vero. Ma chi li ha fatti diventare cosí crudeli? Sono i bianchi che li hanno resi crudeli! Loro! – Poi ha sospirato profondamente, con fervore. Eravamo in cucina. Lei stava stirando. La mano con cui teneva il ferro premeva con forza. Mi ha rivolto uno sguardo acceso. Ho toccato dolcemente la sua mano. Ha sollevatoilferro.Sullenzuolo era comparsa l’ombra marronediunabruciatura. Nessunapietà,hopensato: una guerra spietata, senza limiti. Una guerra che sarà belloperdersi. – E quando un giorno saranno adulti – ho continuato – pensi che la crudeltà li abbandonerà? Che razza di genitori saranno se glierastatodettocheiltempo dei genitori era finito? Potrà rinascerel’ideadeigenitorise è stata cancellata dentro di loro? Prendono a calci e pestano un uomo perché beve. Danno fuoco alla gente eridonomentremuoretrale fiamme. Cosa faranno con i lorobambini?Diqualeamore sarannocapaci?Ilorocuorisi trasformanoinpietradavanti ai tuoi occhi, e tu cosa dici? Tu dici: Questi non sono i miei figli, questi sono i figli dei bianchi, questi sono i mostri creati dall’uomo bianco.Èquesto,tuttoquello che sai dire? Scaricherai la responsabilità sui bianchi e volterailespalle? – No – ha detto Florence. – Questo non è vero. Io non volto le spalle ai miei figli –. Ha piegato il lenzuolo in due e poi in quattro, in due e ancora in quattro; gli angoli, nel ricadere, combaciavano perfettamente, definitivamente. – Questi sono ragazzi in gamba, sono come il ferro, siamo orgogliosi di loro –. Sull’asse da stiro ha disteso la prima federa. Ho aspettato che continuasseaparlare.Manon c’è stato seguito. Non era interessata a discutere con me. Ragazzi di ferro, ho pensato.Florence,leistessadi ferro. L’età del ferro. Dopodiché segue l’età del bronzo. Quanto, quanto tempocivorràancora,prima cheritornino,secondoilloro ciclo, ere piú tranquille, l’età dell’argilla, l’età della terra? Una matrona spartana, dal cuorediferro,checoncepisce alla nazione figli guerrieri. «Siamo orgogliosi di loro». Noi. Torna a casa con lo scudo oppure sopra il tuo scudo. E io? Da che parte sta il miocuoreintuttoquesto?La mia unica figlia è lontana migliaia di chilometri, al sicuro,prestoiosaròceneree fumo, e allora che me ne importa se è venuto il tempo incuil’infanziaèdisprezzata, incuiibambinisiaddestrano avicendaanonsorrideremai, a non piangere mai, a sollevareipugniinariacome martelli?Èdavverountempo fuori dal tempo, partorito dalla terra, bastardo, mostruoso? Dopo tutto, che cosahadatoallalucel’etàdel ferro,senonl’etàdelgranito? Non abbiamo avuto anche noi i Voortrekkers, generazione dopo generazione di Voortrekkers dalle facce arcigne, dalle labbra serrate; i figli degli Afrikaner in marcia, con i loro inni patriottici, il saluto allabandiera,ilgiuramentodi morire per la terra dei loro padri? Ons sal lewe, ons sal sterwe.Noncisonoforsetrai bianchi gli zeloti, che predicano ancora la vecchia regola: disciplina, lavoro, ubbidienza, sacrificio personale;unregimedimorte imposto ai bambini, alcuni troppo piccoli persino per allacciarsi le scarpe? Che incubodall’inizioallafine!Lo spirito di Ginevra trionfante in Africa. Calvino, nerovestito, esangue e perennemente algido, che si sfrega le mani nell’Aldilà e sfodera il suo gelido sorriso invernale. Calvino vittorioso, rinato nei dogmatici e nei cacciatori di streghe di entrambelefalangi.Comesei statafortunataalasciartitutto questoallespalle! L’altro ragazzo, l’amico di Bheki, era arrivato su una bicicletta rossa con grandi ruote dipinte di celeste. Quando sono andata a letto ieri sera la bici era nel giardino, bagnata e scintillante sotto i raggi della luna. Alle sette di questa mattina, quando ho guardato fuoridallafinestra,eraancora là. Ho preso le pillole del mattino e ho dormito ancora per un’oretta. Ho sognato di essere intrappolata in mezzo ad una folla. Sagome imprecise mi urtavano, mi colpivano, imprecavano con parolechenoncomprendevo, volgari,carichediminacce.Io restituivo i colpi, ma le mie braccia erano come quelle di un bambino: puff, puff cadevano i miei colpi, come sbuffidivento. Misonosvegliataalsuono di voci concitate, quella di Florence e quella di qualcun altro. Ho suonato il campanello una volta, due volte, tre volte, quattro volte. Finalmente Florence è arrivata. – C’è qualcuno di sotto, Florence? Florence ha raccolto la trapunta dal pavimento e ha cominciato a sistemarla ai piedi del letto. – Non c’è nessuno–harisposto. – L’amico di tuo figlio ha dormitoquiquestanotte? – Sí. Non poteva andarsene con la bicicletta di notte,ètroppopericoloso. –Edovehadormito? Florence si è tirata su. – Nelgarage.LuieBhekihanno dormitonelgarage. – Ma come hanno fatto a entrareingarage? –Dallafinestra. –Nonpotevanochiedermi ilpermessoprimadifareuna cosadelgenere? Silenzio.Florencehapreso ilvassoio. – Resterà qui anche quel ragazzo, nel garage? Dormono nella mia auto, Florence? Florence ha scrollato la testa.–Nonloso.Lochiedaa loro. A mezzogiorno la bici era ancora là. Dei due ragazzi nonv’eratraccia.Maquando sono uscita per andare a controllare la cassetta della posta ho notato un furgoncinogiallodellapolizia fermo dall’altra parte della strada con due uomini in uniforme all’interno; quello seduto verso il lato esterno dormiva, la guancia appoggiataalfinestrino. Horichiamatol’attenzione dell’uomo al volante. Il motore sí e avviato, quello assopito si è ridestato con un sobbalzo, il furgone è salito sul marciapiede, ha fatto una brusca inversione a U, e si è spintoaccantoame. Miaspettavocheuscissero. Invece no, sono rimasti a sedere senza dire una parola, aspettavano che fossi io a parlare. Da nord-ovest spirava un vento freddo. Tenevo la vestaglia chiusa contro la gola. La radio nel furgone gracchiava. Vierdrie- agt, diceva una voce femminile. L’hanno ignorata. Duegiovaniinuniformeblu. – Posso fare qualcosa per voi? – ho domandato. – Aspettatequalcuno? – Può fare qualcosa per noi? Non saprei, signora. Lo deve dire lei, se può fare qualcosapernoi. Aimieitempi,hopensato, i poliziotti parlavano con rispetto alle signore. Ai miei tempi i bambini non davano fuoco alle scuole. Ai miei tempi: una frase che oggi s’incontra solo nelle lettere al direttore. Vecchi, uomini e donne, tremanti di nobile sdegno, che impugnano la pennacomeun’arma,l’ultima risorsa. Ai miei tempi, ora andati; nella mia vita, ora conclusa. – Se cercate quei ragazzi, vogliochesappiatechehanno ilmiopermessoperstarequi. –Qualiragazzi,signora? – I ragazzi ospiti da me. I ragazzi di Guguletu. Gli studenti. Dalla radio si è levata una scaricadirumore. – No, signora, non ne so nientediragazzidiGuguletu. Vuolechelicerchiamo? Si sono scambiati un’occhiata, un’occhiata compiaciuta. Allora ho sollevato la sbarra del cancello. La vestaglia si è aperta, ho sentito il vento freddo invadermi la gola e il petto. – Ai miei tempi – ho detto scandendo lentamente ognuna di quelle vecchie, screditate e comiche parole – un poliziotto non avrebbe parlatoinquestomodoauna signora –. E gli ho voltato la schiena. La radio ha gracchiato comeunpappagallodietrodi me; o forse hanno alzato il volume apposta, un gesto degnodiloro.Un’oradopoil furgoncino giallo era ancora davantialcancello. – Penso davvero che dovresti mandare quel ragazzo a casa – ho detto a Florence. – Metterà nei guai anchetuofiglio. – Non posso mandarlo a casa – mi ha risposto Florence. – Se lui se ne va, Bhekilosegue.Sonocosí–ha sollevato la mano e ha intrecciato due dita. – È piú sicuro qui per loro. A Guguletu ci sono sempre disordini e la polizia arriva e spara. Sparatorie a Guguletu: qualunque cosa ne sappia Florence, qualunque cosa ne sappiatuadiecimilamigliadi distanza, io non ne so nulla. Le notizie che ricevo non fanno menzione di disordini, di sparatorie. Il paese che mi presentano è una terra di buonivicinisorridenti. –Sesonoquipersottrarsi agli scontri allora perché la polizialivieneacercare? Florence ha sospirato profondamente.Daquandoè natalabambinac’èun’ariadi malcelata arroganza in lei. – Nondovrebbechiederloame, signora – ha esclamato – perché la polizia venga a cercareiragazzi,liperseguiti, glispariaddossoelisbattain galera. Non dovrebbe chiederloame. –Bene,allora–hodetto– non ripeterò questo errore. Ma non posso trasformare la mia casa in un rifugio per tutti i giovani che scappano dalletownship. – E perché no? – ha chiestoFlorence,sporgendosi inavanti:–Perchéno? Ho fatto scorrere l’acqua calda, mi sono spogliata e mi sono faticosamente immersa nell’acqua. Perché no? Ho chinato la testa, le punte dei capelli mi ricadevano sulla faccia sfiorando l’acqua; le mie gambe a chiazze, venate diblu,sporgevanocomepezzi di legno davanti a me. Una vecchia, malata e ripugnante, chesiattaccaconleunghiea quello che ha lasciato. I vivi impazienti di fronte ad una morte lenta, i moribondi invidiosi dei vivi. Uno spettacolo disgustoso: speriamofiniscapresto. Nonc’èuncampanellonel bagno. Mi sono schiarita la gola e ho chiamato: – Florence! – Tubi vuoti e bianche pareti hanno restituito il sordo richiamo. AssurdopensarecheFlorence mi potesse sentire. E se mi avessesentito,perchésarebbe dovutaaccorrere? Madre cara, ho pensato, volgi il tuo sguardo verso di me, tendi verso di me le braccia! Brividi hanno iniziato a scuotermi dalla testa ai piedi. Dietro le palpebre chiuse, ho visto mia madre come è quando mi appare, nel grigiore delle sue vesti da vecchia,ilvoltocelato. – Vieni da me! – ho sussurrato. Ma non è venuta. Con le braccia allargate, come un falco che veleggi, mia madre ha cominciato l’ascesa al cielo. Si sollevava sempre piú in alto, sopra di me. Ha raggiunto l’altezza delle nuvole, le ha oltrepassate, ha continuato a innalzarsi. A ogni tratto che percorreva diventava piú giovane. I capellitornavanoneri,lapelle fresca. I vecchi abiti le cadevano di dosso come foglie secche, scoprendo il vestito blu con la piuma all’occhiellocheindossavanei primi ricordi che ho di lei, al tempo in cui il mondo era giovaneetuttoerapossibile. Continuava a salire, nell’eterna perfezione della giovinezza, immutabile, sorridente, estasiata, spensierata, fino al limite estremo della volta celeste. – Madre, volgi il tuo sguardo verso di me! – ho bisbigliato nelbagnovuoto. Le piogge sono arrivate presto quest’anno. Piove ormai da quattro mesi. Se si toccano i muri, subito compaiono rivoli d’umidità. Macchie si formano dove l’intonacofiorisceesiscrosta. Gli abiti hanno uno sgradevole odore di muffa. Quanto desidererei, almeno per una volta ancora, indossare biancheria fresca cheprofumidibucatostesoal sole! Che mi fosse concesso ancora un pomeriggio estivo per passeggiare lungo il viale in mezzo ai bambini dalla pelle color nocciola che tornano a casa da scuola, radiosi,ridenti,profumatidel sudore pulito dei bambini, le ragazzine ogni anno piú graziose, plus belles. E se questo non fosse possibile, che ci fosse almeno, fino alla fine, una gratitudine incondizionata, una gratitudinedelcuore,perquel po’ d’incanto concesso in questomondodimeraviglie. Scrivosedutanelletto,con le ginocchia serrate contro il freddodiagosto.Gratitudine: scrivo questa parola e poi la rileggo. Cosa significa? Dinanziaimieiocchidiviene densa,oscura,misteriosa.Poi qualcosa accade. Lentamente, come una melagrana, il mio cuore esplode di gratitudine; comeunfruttochesispacchi in due per rivelare i semi dell’amore. Gratitude, pomegranate:parolegemelle. Alle cinque, questa mattina, mi ha svegliato una pioggiabattente.Venivagiúa scrosci, rifluendo a fiotti dai canali di scolo intasati, sgocciolando dalle tegole incrinatedeltetto.Sonoscesa alpianodisotto,hopreparato iltèe,avvoltainunacoperta, mi sono dedicata ai conti del mese. La serratura del cancello è scattata e ho sentito dei passi lungoilvialetto.Unasagoma curva sotto un sacco di plastica nera ha attraversato frettolosamente il riquadro dellafinestra. Sono uscita fuori sulla veranda.–SignorVercueil!– ho gridato, nella pioggia insistente. Non c’è stata risposta. Stringendomi nelle spalle, avvolta nella vestaglia, sono scesa in giardino. In un attimo le pantofole con quel loro ridicolo rivestimento di lana si sono inzuppate. Ho attraversatoilbrevespaziotra i rivoli d’acqua. Nell’oscurità dell’ingresso della legnaia ho urtato qualcuno: Vercueil, chestavainpiedivoltandomi lespalle.Habestemmiato. – Venga dentro! – ho gridato,percoprireilrumore dellapioggia.–Vengaincasa! Nonpuòdormirelí! Sempre tenendosi quel sacco come un cappuccio sulla testa, mi ha seguito in cucina,allaluce.–Lascifuori quella roba bagnata – ho detto. Poi, con stupore ho notato che qualcuno lo aveva seguito. Era una donna, bassina, mi arrivava al massimo alla spalla, ma anziana, o almeno non piú giovane, lo sguardo voluttuoso, il viso gonfio e la pellelivida. – E questa chi è? – ho domandato. Vercueilmiharivoltouno sguardo provocatorio con i suoiocchigialli.Bastardo!,ho pensato. – Potete aspettare dentro finchélapioggianoncesserà, poivivogliofuori–hodetto freddamente, voltando le spalleadentrambimentremi allontanavo. Misonocambiata,misono chiusaachiavenellastanzada letto e ho cercato di leggere. Ma le parole mi attraversavano frusciando come foglie. Piacevolmente sorpresa ho sentito le palpebre abbassarsi, ho sentito il libro scivolarmi di mano. Al mio risveglio, un’idea fissa mi occupava la mente: mandarlivia. Della donna non v’era traccia, ma Vercueil dormiva in salotto, rannicchiato sul divanoconlemanistrettetra le ginocchia, il cappello ancoraprecariamenteintesta. L’hosvegliatoscuotendolo.Si è girato, si è inumidito le labbra emettendo un riluttante mormorio assonnato. Era lo stesso suono,miètornatoinmente subito,chefacevituquandoti svegliavoperlascuola. –Èoradialzarsi!–dicevo mentre aprivo le tende; rigirandoti, infastidita dalla luce, protestavi proprio nello stesso modo. – Forza, tesoro, è ora di alzarsi! – ti sussurravo all’orecchio, senza metterti fretta tuttavia, concedendomi il tempo di sedertiaccantoedicarezzarti i capelli; carezza dopo carezza, i miei polpastrelli ti trasmettevano amore, mentre turestaviaggrappataalsonno fino all’ultimo momento. Fa che sia cosí per sempre! pensavo, la mano posata sul tuo capo, percorsa da una corrented’amore. E ora, quel tuo rassicurante brontolio assonnatoègermogliatonella gola di quest’uomo! Dovrei sedermi anche accanto a lui, sollevare il cappello, passare unamanocarezzevolesuquei capelli unti? Un brivido di disgusto mi ha attraversato il corpo. È facile amare un bambino, ma com’è difficile amare quello in cui il bambino si trasforma. Un tempo, con i pugni stretti sulle orecchie e gli occhi serrati nell’estasi, anche lui fluttuava nel ventre di una donna,suggevailsuosangue, la pelle contro la sua. Anche lui è passato attraverso quel cancellodiossaalbaglioredi fuori, anche a lui è stato concessodiconoscerel’amore materno, amor matris. Poi, nelcorsodeltempo,neèstato escluso, costretto a camminare da solo, ha cominciato a inaridirsi, a curvarsi, a indebolirsi. Una vita a parte, di privazioni, come tutte le vite; ma in questo caso, sicuramente priva di nutrimento, piú di altre. Un uomo di mezza età che succhia ancora dalle bottiglie, che anela a quella originaria beatitudine e la ritrova alzando il gomito, nellostuporealcolico. Mentre lo guardavo la sua donna è entrata nella stanza. Mi ha ignorato e si è lasciata cadere su un mucchio di cuscini sistemati per terra. Profumava di acqua di colonia:lamia.Dietrodileiè arrivataFlorence,irritata. – Non chiedermi spiegazioni, Florence – ho detto. – Lasciali stare, hanno qualcosa da smaltire nel sonno. Gli occhiali di Florence lampeggiavano, voleva dire qualcosa, ma l’ho prevenuta. –Perfavore!Nonresteranno quialungo. Nonostanteabbiapiúvolte tirato l’acqua, in bagno permaneva un odore nauseabondo dolciastro e ripugnante. Ho gettato il tappetinofuorinellapioggia. Piútardi,quandoiragazzi stavano facendo colazione in cucina con Florence, sono scesa di nuovo e, senza preamboli, mi sono rivolta a Bheki. –Hosaputochetueiltuo amico avete dormito nella mia auto. Perché non mi avetechiestoilpermesso? È caduto il silenzio. Bheki non alzò gli occhi. Florence continuavaatagliareilpane. – Perché non mi avete chiesto il permesso? Rispondi! La piccola ha smesso di masticare e ha preso a fissarmi. Perché mi sono comportata in modo cosí ridicolo? Perché ero irritata. Perché ero stanca di sentirmi usata. Perché era la mia auto quella in cui avevano dormito. La mia auto, la mia casa: roba mia, non ero ancoramorta. Poi, fortunatamente, è comparso Vercueil e la tensione si è allentata. Ha attraversato la cucina guardando fisso davanti a sé direttoversolaveranda.L’ho seguito. Il cane gli saltellava intorno,slanciandosiversodi luigioiosamente.Hafattoun balzo anche verso di me lasciando striature umide sulla gonna con le zampe bagnate. Come si deve sembrare ridicoli nell’atto di difendersidauncagnolino! – Potrebbe portare via la suaamica,perfavore?–gliho detto. Ha guardato in su verso il cieloingombrodinubienon harisposto. – La mandi via, altrimenti lo farò io! – ho gridato con rabbia. Mihaignorato. –Aiutami–hoordinatoa Florence. La donna era riversa a faccia in giú sul suo giaciglio di cuscini, una macchia umida le si era formata all’angolo della bocca. Florence l’ha sollevata per le braccia. Incespicando lei si è rimessa in piedi. Un po’ guidandola, un po’ spingendola, Florence l’ha condottafuori.Vercueilciha raggiunte nel vialetto. – Questo è davvero troppo! – glihodettoseccamente. I due ragazzi erano già in strada con la loro bicicletta. Fingendo di non prestare attenzionealnostroalterco,si sono avviati su per Shoonder Street,Bhekiappollaiatosulla canna, mentre l’amico pedalava. Inunflussovaneggiantedi oscenità, con voce roca, la donna ha cominciato a insultare Florence. Florence mi ha rivolto uno sguardo malizioso. – Gente schifosa – ha detto mentre si allontanava con passo marziale. – Non voglio piú vedere questadonna–hoammonito Vercueil. La bicicletta montata dai due ragazzi è riapparsa in cima alla salita di Shoonder Street, l’amico di Bheki pedalava con vigore nella nostra direzione. Li seguiva da vicino il furgone giallo dellapoliziadiieri. Un camioncino era parcheggiato a lato del marciapiede, il rimorchio caricoditubieastemetalliche e altro materiale idraulico. C’era abbastanza spazio perché la bicicletta potesse aggirarlo. Ma non appena il furgoncino giallo ha affiancato i ragazzi, lo sportello laterale si è spalancato colpendoli di fianco. La bici ha sbandato senza piú controllo. In un lampo ho visto Bheki scivolare giú con le braccia alzate, l’altro ragazzo che stava in piedi sui pedali voltare la faccia e protendere unamanoinavanticomeper ripararsi. Nonostante il rumore del traffico che proveniva da Mill Street, ho uditodistintamenteiltonfodi uncorpofermatoamezz’aria, un profondo e sgomento – Ah! –, un sospiro esalato, il fracasso della bicicletta schiantata contro il rimorchio. – Oddio! – ho gridato con una voce cosí stridula che riecheggiando nell’aria non sembrava neppure la mia. Il tempo, fermatosi per un attimo, ha poi ripreso il suo corso, lasciando come un vuoto: un momento il ragazzo aveva sporto la mano per ripararsi, il momento dopo era come un viluppo accanto al marciapiede.Poil’ecodelmio gridosièaffievolitaelascena si è ricomposta nella sua usuale familiarità: Schoonder Street in un normale giorno lavorativo, con un furgone giallo canarino che svoltava l’angolo. Un cane, un cane da caccia, si è avvicinato in perlustrazione. Il cane di Vercueil lo ha annusato, mentre il segugio lo ignorava continuandoafiutarel’asfalto per poi leccarlo. Volevo muovermi ma non potevo. Ero come raggelata, non mi sentivo piú le gambe, la parola svenimento mi è balenata in mente, sebbene non sia mai svenuta in vita mia. Questo paese!, ho pensato. E poi: Grazie a Dio leièandatavia! Un cancello si è aperto ed è comparso un uomo in tuta da lavoro blu. Ha dato un calcio al segugio che è schizzato via, sorpreso e dolorante. – Gesú! – ha esclamato l’uomo. Si è chinato e ha cominciato a districare gli arti dal telaio dellabicicletta. Mi sono avvicinata, tremante. – Florence! – ho chiamato.MadiFlorencenon c’eratraccia. Chinatosuicorpiagambe divaricate,l’uomohaspostato la bici di lato. Bheki giaceva sotto l’altro ragazzo. Aveva dipinta in volto un’espressione dolorante; s’inumidiva le labbra in continuazione;avevagliocchi chiusi. Il cane di Vercueil ha tentato di leccarlo. – Va’ via! –homormoratospingendolo con il piede. Ha iniziato a scodinzolare. Una donna è apparsa accanto a me, si stava asciugando le mani con uno strofinaccio. – Sono i ragazzi deigiornali?–hadomandato. – Sono i ragazzi dei giornali, sa se sono loro? – Ho scrollatolatesta. Con aria incerta l’uomo si è chinato nuovamente sui corpi. Quello che avrebbe dovuto fare era sollevare il peso morto del ragazzo che giaceva a faccia in giú addossoaBheki.Manonsela sentiva di farlo. E neppure io volevo che lo facesse. C’era qualcosa che non andava, qualcosa d’innaturale nel modo in cui il corpo era accasciato. – Vado a telefonare all’ambulanza – ha detto la donna. Mi sono chinata e ho sollevato il braccio del ragazzo: era senza forza. – Aspetti! – ha esclamato l’uomo. – Bisogna stare attenti. Rialzandomi sono stata sopraffatta da un capogiro e hodovutochiuderegliocchi. Afferrandolo sotto le ascelle l’uomo ha sollevato il corpo per liberare Bheki e lo hasistematosulmarciapiede. Bhekihaapertogliocchi. – Bheki – ho sussurrato. Bheki mi ha rivolto uno sguardo calmo e vacuo. – Va tuttobene–glihodetto.Con occhi placidamente persi ha continuato a guardarmi, ha accettato quella bugia con indifferenza. – L’ambulanza staperarrivare–hodetto. PoièarrivataFlorence,siè inginocchiataaccantoalfiglio ehapresoaparlargliinmodo concitato, a carezzargli i capelli. Lui ha iniziato a rispondere parole farfugliate, lentamente. La mano di Florence si fermò nell’ascoltarlo. – Hanno urtatocontroilrimorchiodel camioncino–hospiegato.–Il camioncino è mio – ha detto l’uomo in tuta blu. – Il furgone della polizia li ha investiti – ho aggiunto – è spaventoso, è tremendo. Erano gli stessi due poliziotti che erano qui ieri, ne sono sicura. Florence ha fatto scivolare una mano sotto la testa di Bheki. Lentamente lui si è messo a sedere. Aveva perso una scarpa; una gamba del pantalone era strappata e impregnata di sangue. Con cautela ha poi separato i lembidistoffaperguardarela ferita. Strisce di pelle penzolavano dai palmi delle mani scorticate. – L’ambulanza sta per arrivare –hodetto. – Non abbiamo bisogno dell’ambulanza–haosservato Florence. Si sbagliava. L’altro ragazzo giaceva ora scompostamente abbandonato sul dorso. Con la giacca l’idraulico stava tentando di tamponare il sangue che gli scorreva sulla faccia. Ma l’emorragia non si fermava. Ha sollevato la giacca inzuppata per un momento e, prima che il sangue l’annerisse nuovamente, ho visto sulla fronte le labbra divaricate di unaferita,comeseuncoltello da macellaio vi avesse inciso un profondo taglio. Il sangue colava a fiotti sugli occhi del ragazzo e gli scintillava tra i capelli; gocciolava sul marciapiede; era dappertutto. Non sapevo che il sangue potesseesserecosíscuro,cosí denso, cosí pesante. Che cuoredeveavere,hopensato, per pompare quel sangue e continuareabattere! –Arrival’ambulanza?–ha chiesto l’idraulico. – Perché non so come fermarlo –. Era sudato:hacambiatoposizione e la scarpa inzuppata ha sguazzatonelsangue. Avevi undici anni, mi ricordo,quandotiseifattaun taglio al pollice mentre affettaviilpane.Tihoportata di corsa al Pronto Soccorso del Groote Schuur. Ci siamo sedutesuunapancainattesa del nostro turno, tu con il dito fasciato, la garza ben stretta per fermare il sangue. –Checosamifaranno?–hai sussurrato. – Ti faranno un’iniezione e ti metteranno dei punti – ti ho mormorato in risposta. – Solo pochi punti, solo qualche punturina. Era un sabato sera, non molto tardi, ma già le emergenze si moltiplicavano. Unuomoconscarpebianche e un vestito nero sgualcito sputavasangueripetutamente su un piatto. Un giovane su una barella, a torso nudo, la cintura allentata, teneva premuta sulla pancia una maglietta inzuppata. Sangue sul pavimento, sangue sulle panche. Che cosa potevano contare le nostre timide gocciolinedisangue,tanteda riempire appena un ditale, accanto a quel torrente di sangue nero? La piccola Bucaneve perduta nella cavernadalleparetidisangue, e sua madre, anch’essa perduta. Un paese che rigurgita sangue. Il marito di Florence in cerata gialla e stivalichesguazzanelsangue. Buoichestramazzano,legole squarciate da cui zampilla nell’aria un ultimo fiotto come spruzzi lanciati dalle balene. Terra riarsa che assorbe il sangue delle sue creature. Una terra che beve fiumidisangueemaisisazia. – Lasci fare a me – ho dettoall’idraulico.Mihafatto passare. Dopo essermi inginocchiatahosollevatoun lembo della giacca blu inzuppata.Ilsanguehapreso ascorreresulvisodelragazzo afiotti.Stringendolapelletra pollice e indice, cercavo di tenere chiusi i lembi della ferita come meglio potevo. Il cane di Vercueil ha tentato nuovamente di avvicinarsi. – Mandi via quel cane – ho detto seccamente. L’idraulico gli ha assestato un calcio. Uggiolando è indietreggiato. Dov’era Vercueil? Era vero, eradavverounbuonoanulla? – Vada a telefonare di nuovo –hosuggeritoall’idraulico. Finché premevo con forza riuscivo ad arrestare l’emorragia. Ma quando allentavo la pressione, il sangue fuoriusciva di nuovo abbondante. Era sangue, niente di piú, sangue come il mio e il tuo. Eppure, mai prima l’avevo visto cosí scarlattoecosínero.Forseera per effetto di quella pelle giovane,elastica,nerovelluto, su cui scorreva, ma, persino sulle mie mani sembrava piú scuroepiúbrillantediquanto il sangue dovrebbe essere. Lo osservavo, affascinata, timorosa, incantata da autentico stupore a quella vista. E tuttavia era impossibile, era impossibile per il mio modo di essere, abbandonarsi a quello stupore, allentare la presa e arrendersi a quel flusso. Perché, mi chiedo ora? La risposta: perché il sangue è prezioso,piúpreziosodell’oro e dei diamanti. Perché il sangue è uno solo: una polla di vita, distribuito fra le nostre esistenze separate ma appartenenti per natura alla stessa fonte; dato in prestito, non regalato; un bene comune, dato in affidamento perché sia conservato; che apparentemente vive in noi, ma solo apparentemente, poiché in realtà noi viviamo inlui. Un mare di sangue che torna a riunirsi: è cosí che sarà alla fine dei giorni? Il sangue di tutti: una sorta di lago Baikal, nero-scarlatto, sotto l’azzurro intenso di un cielo siberiano in inverno, circondato da speroni di ghiaccio,lespondebianchedi nevelambitedaunamassadi sangue vischioso e lento. Il sangue dell’umanità, rigenerato.Ununicocorpodi sangue. Di tutta l’umanità? No: in un luogo a parte, nel mezzo del Karoo, nel bacino di una diga dalle pareti di fango, il filo spinato tutto intorno, con il sole rovente a perpendicolo, il sangue degli Afrikaner e dei loro lacchè, immoto,stagnante. Sangue, sacro, aborrito. E tu, carne della mia carne, sangue del mio sangue, che sanguini ogni mese in terra straniera. Da vent’anni io non sanguinopiú.Lamalattiache oramidivoraèarida,privadi vita, lenta e gelida, mandata da Saturno. Qualcosa di fronte a cui il pensiero si ritrae. Gravida di queste proliferazioni, queste gelide oscene tumefazioni; aver continuato a portare questa nidiata oltre ogni termine naturale, incapace di darla allaluce,incapacedisaziarne la fame: creature dentro di me, ogni giorno piú fameliche, che non crescono ma si gonfiano, munite di denti, munite di artigli, per semprefreddeerapaci.Aride, aride: percepirle mentre si rigirano di notte nel mio corpo arido, non si stiracchiano o danno calci come fanno i bambini veri, piuttostomutanoangolazione quando trovano qualcosa di nuovo da rosicchiare. Come uova di insetti deposte nel corpo dell’ospite, ora grandi come larve, che consumano implacabilmente il corpo che le ospita. Le mie uova, cresciute dentro di me. Me, mie: parole che mi fanno rabbrividire mentre le scrivo, etuttaviavere.Lemiefigliedi morte, sorelle tue, figlia di vita. Che orrore quando la maternità arriva a parodiare se stessa! Una vecchiaccia curvasulcorpodiunragazzo, le mani impastate del suo sangue: un’immagine meschina, ora che ci ripenso. Ho vissuto troppo a lungo. Una morte nel fuoco, l’unica morte dignitosa rimasta. Camminare nelle fiamme, prendere fuoco come stoppa, per sentire anche queste segrete compagne rannicchiarsi e gridare all’ultimo momento, con le loro vocine acute, mai udite prima; bruciare e sparire, andarsene, lasciare il mondo pulito. Proliferazioni mostruose,creaturemalnate: segno che si sono superati i limiti. Anche questo paese: è l’ora del fuoco, è ora di farla finita;èorachenascaciòche dallacenerepuònascere. Quando è arrivata l’ambulanza io ero cosí intirizzita che hanno dovuto sollevarmi per rimettermi in piedi.Staccandoleditaormai appiccicate alla ferita ne ho provocato la riapertura. – Ha perso molto sangue – ho detto. – Non è grave – ha tagliato corto l’uomo dell’ambulanza. Ha sollevato le palpebre al ragazzo. – Commozione cerebrale – ha detto.–Com’èsuccesso? Bheki era seduto sul letto senza i pantaloni, le mani immerseinuncatinod’acqua, Florence era inginocchiata davanti a lui e gli fasciava la gamba. – Perché mi hai lasciata sola a occuparmi di lui? Perché non sei rimasta ad aiutarmi? Certamente devo avere assunto un tono querulo, ma per una volta non avevo ragione? – Non voglio avere a che fare con la polizia – ha rispostoFlorence. – Non è questo il punto. Mi lasci sola ad occuparmi dell’amico di tuo figlio. Perché devo essere io ad occuparmi di lui? Non so nemmenochisia. – Dov’è? – ha chiesto Bheki. – Lo hanno portato al Woodstock Hospital. Ha una commozione. – Cosa vuol dire commozione? –Hapersoconoscenza.Ha battutolatesta.Losaiperché sietecaduti? – Ci hanno spinto, urtandoci–harisposto. –Sí,vihannospinto.Liho visti. È una fortuna che siate ancora vivi, tutti e due. Vogliosporgeredenuncia. Bheki e sua madre si sono scambiati un’occhiata d’intesa. – Non vogliamo avere a che fare con la polizia – ha ribadito Florence. – Non c’è niente da fare contro i poliziotti –. Un altro fugace sguardo fra di loro, come se volesse accertarsi di avere l’approvazionedelfiglio. – Se non sporgete denuncia continueranno a fare quel che gli pare. Anche se non servisse a niente, dovreste affrontarli. Non parlo solo della polizia. Parlo anche degli uomini al potere. Devono capire che non avete paura. Questa è una cosa grave. Avrebbero potuto ucciderti, Bheki. In ogni modo, perché ce l’hanno con te? Che cosa avete fatto tu e queltuoamico? Florence ha annodato le bendeattornoallagambaegli hasussurratoqualcosa.Luiha toltolemanidall’acqua.C’era odoredidisinfettante. – Fa molto male? – ho domandato. Mi ha mostrato le mani rivoltandone i palmi. Il sangue continuava ad affiorare dalla carne viva. Ferite gloriose? Saranno registrate e annoverate come ferite gloriose, ferite di guerra? Insieme abbiamo osservato le mani sanguinanti. Ho avuto l’impressione che trattenesse lelacrime.Unbambino,poco piú che un bambino, che giocavaconlabicicletta. –Iltuoamico–hodetto.– Non pensi che i suoi genitori debbanoessereavvertiti? – Telefonerò – ha detto Florence. Florence ha telefonato. Una lunga conversazione concitata. – Woodstock Hospital–hosentito. Ore dopo è arrivata una chiamata da un telefono pubblico,unadonnachiedeva diFlorence. – Non è all’ospedale – ha riferitoFlorence. – Era sua madre? – ho chiesto. –Suanonna. Ho telefonato al Woodstock. – Non potete conoscere il suo nome, non era cosciente quando lo hannosoccorso–hospiegato. – Non c’è traccia di un caso del genere – ha risposto l’uomo. – Aveva una profonda feritasullafronte. – Non è registrato – ha ripetuto.Horinunciato. –Lavoranoperlapolizia– ha detto Bheki. – Sono tutti uguali, ambulanze, dottori, polizia. – Non dire assurdità – ho detto. –Nessunosifidapiúdelle ambulanze. Sono sempre in contattoradioconlapolizia. –Assurdo. Ha sorriso, non senza grazia, mentre gustava l’opportunità di istruirmi, di insegnarmi qual è la vita reale. Io, la vecchia che nella scarpaviveva,figlinonaveva, e cosa fare non sapeva. – È vero – ha detto – se ascolta, capirà. –Perchélapoliziaticerca? – Non cercano me. Cercanochiunque.Iononho fatto niente. Ma vogliono prendere chiunque abbia l’ariadidoveressereascuola. Noi non facciamo niente, diciamosolocheascuolanon ci andiamo. E adesso loro cercano di spaventarci. Sono deiterroristi. – Perché non volete tornareascuola? –Acheservelascuola?A insegnarci l’adattamento al sistemadell’apartheid? Scuotendolatestamisono voltata a guardare Florence. C’era un pizzico di malcelato sarcasmo nel sorriso che le si stava formando sulle labbra serrate. Suo figlio aveva la vittoria in pugno. Felice di concedergliela.–Sonotroppo vecchia per tutto questo – le ho detto. – Non riesco a credere che tu voglia vedere tuo figlio in mezzo a una strada ad aspettare che l’apartheid tramonti definitivamente. L’apartheid non cesserà domani, e neppure dopodomani. Cosí mettearischioilsuofuturo. – Cos’è piú importante, distruggere l’apartheid o andare a scuola? – mi ha chiestoBhekiintonodisfida, pregustandolavittoria. – La scelta non si pone in questi termini – ho risposto stancamente. Ma ne ero sicura?Selecosenonstavano cosí, allora qual era la scelta giusta?–Viaccompagneròal Woodstock–misonoofferta. – Ma dobbiamo partire subito. Quando Florence ha visto Vercueil che aspettava si è stizzita. Ma io ho insistito. – Deve venire con noi, in caso l’auto mi dia dei problemi – hospiegato. Cosí li ho accompagnati all’ospedale, Vercueil seduto accanto a me, circondato da un odore piú sgradevole del solito, un odore di tristezza anche, Florence e Bheki seduti dietro, in silenzio. L’autosièarrampicatasuper la breve salita dell’ospedale; per una volta ho avuto la presenza di spirito di parcheggiare con il muso rivoltoversoladiscesa. – Credetemi, non è qui la personachecercate–hadetto l’uomo all’ingresso. – Se non mi volete credere, andate a controllareneireparti. Nonostante fossi stanca, mi sono trascinata tra i reparti maschili al seguito di FlorenceeBheki.Eral’oradel riposo; fuori, i colombi modulavano richiami dagli alberi. Non abbiamo individuatonessungiovanedi colore con la testa bendata, solo bianchi, vecchi in pigiama che fissavano annoiati il soffitto, mentre la radio diffondeva una musica piacevole. I miei fratelli segreti, ho pensato: è qui il mioposto. – Se non è ricoverato qui, dove potrebbero averlo portato? – ho chiesto all’uomodietrolascrivania. – Provate al Groote Schuur. Il parcheggio al Groote Schuur era pieno. Per mezz’ora siamo rimasti ad aspettare al cancello, con il motore in folle, Florence e suofiglioaparlottaretraloro, Vercueilconlosguardoperso nel vuoto, io a sbadigliare. Come in un sonnolento fine settimanaquiinSudafrica,ho pensato; come uscire con la famiglia per una scampagnata. Avremmo potuto fare un gioco di parole,unodiqueigiochiper passare il tempo, ma quali probabilità avevo di coinvolgere quei tre? Giochi di parole appartenenti a un passato che solo io potevo ricordare con nostalgia: quando noi, i borghesi, noi delle classi agiate, passavamo le domeniche scorrazzando per la provincia da un belvedere all’altro, salutavamo la fine del pomeriggio con tè e pasticcini, marmellata di fragole e panna in una tea room con veranda, preferibilmente rivolta a ovest, che offrisse la vista sul mare. Un’auto è uscita dal parcheggio ed è venuto il nostro turno di entrare. – Io aspetto qui – ha detto Vercueil. – Dove può trovarsi un paziente con una commozione cerebrale? – ho chiestoall’addetto. Abbiamo superato lunghi corridoi affollati in cerca del reparto C-5. Ci siamo rinserratiinunascensorecon quattro donne musulmane che indossavano veli e portavanocontenitoripienidi cibo. Bheki, imbarazzato per lesuemanifasciate,leteneva dietro la schiena. Abbiamo attraversatoirepartiC-5eC6 senza trovare il ragazzo. Florence ha fermato un’infermiera. – Provate nella nuova sezione – ha consigliato. Esausta,hoscrollatoilcapo.– Non ce la faccio piú a camminare–hodetto.–Tue Bheki continuate pure; vi aspetteròinauto. Era vero, ero stanca, mi doleva il fianco, il cuore martellava forte, sentivo un sapore sgradevole in bocca. Ma c’era dell’altro. Troppi vecchi ammalati e troppo all’improvviso. Quella vista eraopprimente,opprimentee minacciosa. Bianchi e neri, uomini e donne che si trascinavanolungoicorridoi, si guardavano avidamente l’un l’altro e guardavano anche me, mentre mi avvicinavo, sentendo infallibilmente su di me l’odore della morte. «Traditrice! – sembravano sussurrare, pronti a trattenermi per un braccio. – Pensidipoterentrareeuscire daquiatuopiacimento?Non conoscileregole?Questaèla casa delle tenebre e della sofferenza che bisogna traversare nel percorrere la via che conduce alla morte. Questa la condanna che pende sul capo di tutti: la detenzione prima dell’esecuzione». Vecchi mastini a far la ronda nei corridoi per controllare che nessuno se ne fugga in cielo, versolaluce,versoilgeneroso mondo di lassú. Questo è l’Ade, e io un’ombra in fuga. Un brivido mi ha colto nell’oltrepassarelasoglia. Insilenzio,abbiamoatteso nell’auto, Vercueil ed io, come due sposati da troppo tempo, resi irritabili da logoranti discussioni. Mi sto persino abituando al cattivo odore, ho pensato. È questo che provo per il Sudafrica: non amore, ma abitudine al suo odore? Il matrimonio segna il destino. Diventiamo ciò che sposiamo. Noi che abbiamo sposato il Sudafrica diventiamo sudafricani: tetri, accidiosi,pigri.L’unicosegno di vita di cui siamo capaci: scoprireidentiinunarapida smorfia quando ci crocifiggono. Il Sudafrica: un vecchio mastino incattivito, addormentato sulla soglia, lento a morire. E poi, che nomepocofantasiosodadare a un paese! Speriamo che decidano di cambiarlo quandoricomincerannotutto dacapo. Un gruppo di infermiere alla fine del turno, allegre, vocianti, si stava allontanando. È dalla loro assistenza che io fuggo, ho pensato. Che sollievo sarebbe ora consegnarmi a loro! Lenzuola pulite, mani sicure armeggianti sul mio corpo, liberazione dal dolore, abbandono totale: cos’è che mi trattiene dal cedere? Ho sentito un nodo salirmi in gola, lacrime montarmi agli occhi, allora ho voltato la faccia. Uno sporadico rovescio, mi sono detta, tempo inglese. Ma la verità è che piango sempre piú facilmente, e provo sempre menovergogna.Unavoltaho conosciuto una donna (ti risentirai se tua madre parla di certe cose?) che riusciva a godere,adavereorgasmicon molta facilità. Gli orgasmi la attraversavano, diceva, come piccoli brividi, uno dopo l’altro, facendola tremare tutta, come se il suo corpo fosse acqua increspata dal vento. Come sarà, mi chiedevo, vivere in un corpo comequello?Sciogliersicome acqua:èquestalabeatitudine? Ora ho trovato una risposta in questo liquefarmi, in questosciogliermiinlacrime. Lacrime non di dolore ma di tristezza. Una lieve, sottile tristezza: malinconici blues, ma non blues scuri: celesti, invece, come lontani cieli di chiaregiornateinvernali.Una faccenda personale, un turbamento delle acque dell’anima che non mi preoccupopiúdinascondere. Mi sono asciugata gli occhi,misonosoffiatailnaso. – Non deve sentirsi in imbarazzo – ho detto a Vercueil. – Piango per nulla. Grazie per essere venuto, comunque. – Non vedo perché mi abbiavolutoportarequi–ha detto. –Èbruttofarsempretutto da soli. Ecco perché. Io non hosceltolei,eppureleièqui, e questo è quanto basta. È arrivato. È come avere un bambino. Non si scelgono i bambini. Arrivano, semplicemente. Senza guardarmi, ha accennatounoscaltrosorriso. –Inoltre–hodetto–può spingerel’auto.Senonpotessi usarel’autosareiintrappolata acasa. – Avrebbe solo bisogno di unabatterianuova. – Non voglio una batteria nuova. Non lo capisce, vero? Devo spiegarglielo? Quest’auto è vecchia, appartieneaunmondocheè quasi scomparso, però funziona. Ciò che resta di quel mondo, ciò che ancora funziona,èquellochetentodi conservare.Cheioloamiolo odi, ha poca importanza. Il fatto è che anch’io gli appartengoenonappartengo invece,graziealcielo,aquello cheèdiventato.Unmondoin cui non si può contare sul fatto che le auto partano quando vuoi. Nel mio mondo, si tenta prima con il motorino d’avviamento. Se quellononfunziona,siprova l’accensioneconlamanovella. Se anche questa non funziona, si cerca qualcuno che spinga. E se l’auto non vuol saperne di mettersi in moto, s’inforca la bicicletta o ci s’incammina a piedi, oppure si resta a casa. Ecco come vanno le cose nel mondocuiioappartengo.Mi ci trovo bene, è un mondo che riesco a comprendere. Non vedo perché dovrei cambiareabitudini. Vercueilnonhafiatato. – E se pensa che io sia un fossile del passato – ho aggiunto–sarebbeorachesi preoccupassepersé.Havisto come la pensano i giovani d’oggi riguardo al bere, al lasciarsi andare, al leeglopery. Deve stare in guardia. Nel Sudafrica del futuro tutti dovranno lavorare, anche lei. La prospettiva può non piacerle,mafarebbemeglioa prepararsiall’idea. Nelparcheggiocominciava ad imbrunire. Dov’era finita Florence? Il dolore nella schiena mi sfiancava. Ero in ritardoperlamedicina. Hopensatoallacasavuota, alla lunga notte che mi sbadigliava davanti. Sono tornate le lacrime, semplicemente. Ho parlato. – Le ho raccontato di mia figlia che è in America. Lei è tutto per me.Nonlehodettolaverità, tutta la verità sulle mie condizioni.Sacheeromalata, sa che ho subito un intervento, ma crede che sia riuscito bene e che io mi stia rimettendo. Quando sono a letto, di notte, e fisso lo sguardosuquelbuconeronel qualestoprecipitando,l’unica cosa che mi impedisce di impazzire è il pensiero di lei. Mi dico: ho messo al mondo una bambina, l’ho vista diventare donna, l’ho vista felice in una nuova vita; quello che ho fatto è quello che non potrà mai essermi sottratto. Quel pensiero è l’albero maestro al quale mi aggrappoquandolatempesta misiabbattecontro. – A volte eseguo un piccolo rituale che mi aiuta a quietarmi. Mi dico: Sono le due del mattino, qui, in questapartedimondo,perciò sonoleseidiseralaggiú,dove èlei.Immagina:leseidisera. E immagina il resto. Tutto. È appena rientrata dal lavoro. Appende il soprabito. Apre il frigorifero e tira fuori un pacchetto di piselli surgelati. Versaipiselliinunascodella. Prendeduecipolleecomincia a sbucciarle. Immagina i piselli, immagina le cipolle. Immaginailmondonelquale leistafacendoquestecose,un mondo con odori e rumori propri. Immagina una sera d’estateinNordAmerica,con gli insetti appiccicati alle zanzariere, i bambini che chiamano dalla strada. Immagina:miafiglianellasua casa, nella sua vita, con una cipolla in mano, in una terra dove vivrà e morirà in pace. Leorepassano,inquellaterra come in questo paese e in tutto il resto del mondo, con la stessa cadenza. Immagina la cadenza. Passano: qui fa giorno, là cala la sera. Va a dormire; con abbandono dormeaccantoalcorpodisuo maritonellettomatrimoniale, in quel paese tranquillo. Pensoalsuocorpo,immobile, solido,vivo,appagato,intatto. Cosa darei per abbracciarla. Tisonocosígrata,vorreidire, con il cuore che trabocca. Vorreianchedire,manonlo facciomai:Salvami! – Mi capisce? Riesce a capirmi? Lo sportello dell’auto era aperto. Vercueil, con la testa poggiata contro il montante dellaportieraeunpiedefuori dall’auto, si era sistemato lontanodame.Haemessoun profondosospiro;l’hosentito. SperavacheFlorencetornasse a salvarlo, non c’era dubbio. Che tedio queste confessioni, queste suppliche, queste richieste! –Maèqualcosachenonsi dovrebbe mai chiedere a un figlio – ho continuato – di stringerci, di consolarci, di salvarci. Il conforto, l’amore, deve scorrere a valle, non tornare a monte. Questa è una legge, un’altra di quelle leggi ferree. Quando un vecchiocominciaamendicare amore, tutto diventa squallido. Come un genitore che s’infilasse nel letto del figlio:contronatura. – Eppure, com’è difficile staccarsidaqueltoccodivita, da quello sfiorarsi che ci unisce ai vivi! Come un piroscafo che allenti gli ormeggi per lasciare il molo, lecordedapprimasitendono, poi sussultano e infine cedono. In partenza per un ultimoviaggio.Icaridipartiti. È tutto cosí triste, cosí triste! Quando quelle infermiere si sono allontanate, un minuto fa, ero tentata di scendere dall’auto e di arrendermi, di consegnarmi nuovamente all’ospedale, lasciandomi spogliare e mettere a letto, assistita dalle loro mani. È delleloromanichehovoglia dopo tutto. Il tocco delle mani. Perché altrimenti le assumeremmo queste ragazze, queste bambine, se nonperaffidareaqueltocco, a quella loro brusca carezza, carni invecchiate e ripugnanti? Perché le avvolgiamo di luce e le chiamiamo angeli? Perché arrivano a notte fonda per dirci che è ora di andare? Forse. Ma anche perché loro ci tendono la mano per rinnovare un contatto che si erainterrotto. – Lo dica a sua figlia – ha detto dolcemente Vercueil – verrebbedisicuro. –No. – Glielo dica ora. Telefoni in America. Le dica che ha bisognodilei. –No. – Allora non glielo dica dopo, quando sarà troppo tardi.Nonlaperdonerà. Il rimprovero è arrivato comeunoschiaffoinfaccia. –Cisonocosecheleinon puòcapire–hodetto.–Non intendorichiamaremiafiglia. Mi manca molto, ma non la voglio qui. Per questo si dice sentire la mancanza. Mancanza come lontananza. Aiconfiniestremidellaterra. A suo merito va detto che non si è lasciato sviare da questa assurdità. – Deve scegliere – ha detto. – Dirglieloonondirglielo. – Non glielo dirò, può esserne certo – ho risposto (che bugiarda sono!) Qualcosatradivalamiavoce, un tono che non potevo controllare. – Vorrei ricordarle che questo non è un paese normale. La gente non può entrare e uscire secondoipropridesideri. Non ha fatto niente per aiutarmi. – Mia figlia non tornerà finché le cose qui non saranno cambiate. Lo ha giurato. Non tornerà in Sudafrica finché sarà cosí comeleienoiloconosciamo. Non vorrà certo chiedere a – comedevochiamarli?–quelli il visto d’ingresso. Farà ritorno,dice,soltantoquando i loro corpi ciondoleranno a testa in giú dai lampioni. E allora verrà per tirare pietre contro quei corpi e per danzarenellestrade. Vercueil ha scoperto i denti in un ampio ghigno. Denti gialli da cavallo. Un vecchiocavallo. –Nonmicrede–hodetto – ma forse un giorno lei la incontrerà,ealloravedrà.Lei è come il ferro. Non le chiederò di tradire il suo giuramento. –Ancheleiècomeilferro – mi ha detto. Tra noi è caduto il silenzio. Dentro di me qualcosa è andato in pezzi. – Ho sentito qualcosa spezzarsi dentro di me alle sue parole – ho detto. Le parole erano venute da sole. Nonsapevocomecontinuare. – Se fossi di ferro, non sarei certamente tanto fragile – ho aggiunto. Le quattro donne che avevamo incontrato in ascensore hanno attraversato il parcheggio scortate da un uomobassoconuncompleto blu e uno zucchetto bianco. Le ha fatte accomodare nell’autoelehacondottevia. – Ha fatto qualcosa sua figlia,cheèdovutaespatriare? –hachiestoVercueil. – No, non ha fatto nulla. Semplicemente ne aveva abbastanza. Se n’è andata, non è piú tornata. Si è costruita un’altra vita. Si è sposata e ha messo su famiglia. Era la cosa migliore da fare, la cosa piú ragionevole. – Ma non avrà dimenticato. –No,nonhadimenticato. Sebbene, come posso saperlo io? Forse ci si dimentica, lentamente. Per me è inconcepibile, ma forse succede. Lei dice: Sono nata in Africa, in Sudafrica. L’ho sentita usare questa frase in alcune occasioni. A me sembra la prima metà di una frase. Dovrebbe seguire la secondametà,madifattonon accade mai. Cosí, resta sospesa in aria, senza la sua gemella. Sono nata in Sudafricaenonrivedròmaila mia terra. Sono nata in Sudafricaeungiornotornerò laggiú. Qual è la metà mancante? –Dunqueèun’esule? –No,nonèun’esule.Sono iol’esule. Stava imparando a parlare con me. Stava imparando a farmi parlare. Ho sentito il bisogno urgente di interromperlo. È cosí bello!, avrei voluto dirgli. Dopo tanto silenzio, è cosí bello: lacrime mi sono salite agli occhi. – Non so se lei ha figli. Non so neppure se per un uomo è la stessa cosa. Ma quandounfiglionascedaltuo corpo, a quel figlio va la tua vita. Soprattutto al primo, il primogenito. La vita non ti appartienepiú,nonèpiútua, è del bambino. Ecco perché non si muore realmente: consegniamo loro la vita, quella che per un po’ è stata nostra,erestiamoindietro.Io non sono altro che una conchiglia vuota, lo vede, il guscio che mia figlia si è lasciata alle spalle. Non importaciòchenesaràdime. Non importa ciò che ne sarà dei vecchi. Eppure, lo dico ugualmente,anchesenonmi aspetto che lei capisca, poco importa, è spaventoso essere sul punto di andarsene. E se anche si restasse aggrappati ad una mano solo con la punta delle dita, non si vorrebbemailasciarelapresa. Florence stava ora attraversando il parcheggio con suo figlio, camminando speditamenteversodinoi. –Sarebbedovutaandarea vivere con lei – ha detto Vercueil. Ho sorriso. – Non posso permettermi di morire in America – ho detto. – Nessuno può, ad eccezione degliamericani. Florence si è infilata in auto con una certa irruenza, tantochel’autohadondolato quandosièseduta. – Lo avete trovato? – ho chiesto. – Sí – ha risposto. Il volto cupo minacciava tempesta. Bhekisièsedutodopodilei. – E... dunque? – ho domandato. –Sí,loabbiamotrovato,è in questo ospedale – ha rispostoFlorence. –Estabene? –Sí,stabene. –Ottimo–hoconcluso.– Grazieperlacomunicazione. Il silenzio ha regnato per tutto il tragitto. Soltanto a casa Florence è riuscita a parlare. – Lo hanno messo nella corsia dei vecchi. È terribile.Unodiloroèmatto, non fa altro che urlare e imprecare tutto il tempo, le infermiere hanno paura di avvicinarsi. Non dovrebbero mettere un ragazzo in un posto cosí. Quello non è un ospedale,èl’anticameradiun funerale. L’anticamera di un funerale: quelle parole mi si erano impresse nella mente. Ho cercato di mangiare ma nonavevoappetito. Ho trovato Vercueil nella legnaia che si accomodava una scarpa alla luce della candela. – Torno all’ospedale – ho detto. – Verrebbe con me? Il reparto descritto da Florence si trovava all’estremità del vecchio edificio, e per raggiungerlo bisognava scendere nel seminterrato, superare le cucine,epoirisalire. Era vero. Un uomo completamente calvo, magro comeunchiodo,erasedutoin mezzo al letto, si batteva le mani sulle cosce e cantava a squarciagola. Una larga cinghia nera gli passava intornoallavitaefinivasotto il letto. Cosa cantava? Le parole non appartenevano ad alcuna lingua che conoscessi. Sono rimasta sulla soglia, incapace di entrare, con il timore che all’improvviso mi avrebbe inchiodato addosso quel suo sguardo, avrebbe smesso di cantare e avrebbe sollevato il braccio bruno e scheletricoperadditarmi. –D.T.–hadettoVercueil. –HailDeliriumTremens. –No,èqualcosadipeggio –hosussurrato. Vercueil mi ha preso sottobraccio.Misonolasciata guidare. C’era un lungo tavolo in mezzo alla stanza coperto di vassoi malamente accatastati. Qualcuno emetteva effluvi di tosse, come se avesse i polmoni pieni di latte. – Nell’angolo – ha detto Vercueil. Non sapeva chi fossimo, e neppure io ho riconosciuto immediatamente il ragazzo il cuisanguemisieraincollato alle dita. Aveva la testa fasciata, la faccia gonfia, il braccio sinistro stretto al petto dalla fasciatura. Indossava il pigiama celeste dell’ospedale. – Non parlare – gli ho detto.–Siamovenutisoloper assicurarcichetustiabene. Ha schiuso le labbra tumefatteeleharichiuse. –Tiricordidime?Sonola donna per la quale lavora la madre di Bheki. Questa mattina vi ho visti: ho visto come sono andate le cose. Devi guarire presto. Ti ho portato della frutta –. Ho posatolafruttasulcomodino: unamelaeunapera. Non ha mutato espressione. Non mi piaceva. Non mi piace.Scrutonelmiocuoree non trovo neppure un angolino dove si annidi un qualche sentimento per lui. Cosí come ci sono persone per le quali spontaneamente proviamo simpatia, pure ci sono persone che sin dal principio ci lasciano totalmentefreddi.Eccotutto. Questo ragazzo non è come Bheki.Nonhanessunfascino. C’èqualcosadistupidoinlui, qualcosa di deliberatamente stupido, ottuso, indocile. È unodiqueiragazzilacuivoce cambia troppo presto, che all’età di dodici anni si sono lasciati l’infanzia alle spalle diventando brutali, scaltri. Una persona lineare, piú lineare in tutti i sensi: piú lesto, piú agile, instancabile piú delle persone vere, privo di scrupoli come di dubbi, privodisensodell’umorismo, feroce, innocente. Quando giaceva in strada, quando pensavo che stesse per morire, ho fatto quel che ho potuto per lui. Ma, ad essere sincera, avrei preferito adoperarmiperqualcunaltro. Miricordodiungattoche una volta ho curato, un vecchio gatto dal pelo fulvo che non poteva aprire le mandibole per via di un ascesso. L’ho portato in casa perché era diventato troppo debole, l’ho nutrito dandogli illatteconunacannuccia,gli ho somministrato l’antibiotico. Quando ha recuperato le forze l’ho lasciato libero, ma ho continuato a lasciargli il cibo fuori.Perunanno,ditantoin tanto, l’ho visto nei paraggi; per un anno il cibo è stato consumato. Poi è scomparso nel nulla. Per tutto il tempo mi ha trattato senza compromessi, come un nemico.Anchenelperiodoin cuierastremato,ilsuocorpo era rigido, i muscoli tesi opponevano resistenza alle mie mani. Intorno a quel ragazzo percepivo lo stesso muro di resistenza. Nonostante avesse gli occhi aperti,nonvedeva,quelloche dicevononlosentiva. Misonovoltataaguardare Vercueil. – Andiamo? – ho detto. E sull’onda di un impulso (no, qualcosa di piú, sull’onda di un consapevole sforzo per non bloccare quell’impulso) ho toccato la manoliberadelragazzo. Senza stringerla, senza trattenerla a lungo; si è trattato di un contatto leggero,dellemieditaesitanti suldorsodellasuamano.Ma ho sentito che s’irrigidiva, ho percepito un ritrarsi istantaneo come per una scossaelettrica. Per tua madre che non è qui, ho pensato. Ma ad alta voce ho detto: – Non giudicareinmodoaffrettato. Non giudicare in modo affrettato:cosavolevodire?Se non lo sapevo io, chi altri avrebbe potuto? Sicuramente non lui. Tuttavia, in questo caso, l’incomprensione aveva radici piú profonde. Le mie parole gli sono scivolate addosso come foglie morte. Parole di una donna, per questo trascurabili; di una vecchia, per questo doppiamentetrascurabili;ma, soprattutto,diunabianca. Io,unabianca.Cosavedo, quando penso ai bianchi? Vedo un branco di pecore (non un gregge, un branco) chesiaggiranosuunpianoro polveroso sotto il sole cocente. Sento uno scalpiccio dizampe,suoniconfusichesi risolvono, quando l’orecchio visisiaadattato,inununico belato composto però di timbridifferenti:–Io!,Io!,Io! – E nel mezzo, urtando e spingendo da un lato e dall’altro con i loro ispidi fianchi, facendosi largo pesantemente, i denti seghettati,gliocchisanguigni, gli stessi irriducibili vecchi porci selvatici che grugniscono – A morte!, A morte!–Sebbenesiadeltutto inutile,miritraggoalcontatto dei bianchi, almeno quanto lui;trasalireipersinodifronte aquellavecchiadonnabianca che gli sfiora la mano se non fossiiostessa. Horiprovato. – Prima di andare in pensione – ho detto – facevo l’insegnante. Insegnavo all’università. Vercueil mi ha guardato seriamente dall’altro capo del letto. Ma non stavo parlando conlui. – Se tu avessi partecipato allemielezionisuTucidide– ho continuato – avresti imparato qualcosa su ciò che accade della nostra umanità intempodiguerra.Lanostra umanità, quella che ci portiamodentrodallanascita, quella che dalla nascita ci circonda. Losguardodelragazzoera come offuscato: il bianco degli occhi spento, le pupille smorte,nerecomeinchiostro. Sebbene gli avessero somministrato dei sedativi, era in grado di percepire la mia presenza, sapeva chi ero, sapeva che mi stavo rivolgendo a lui. Lo sapeva e non mi ascoltava, cosí come non ha mai ascoltato i suoi insegnanti, quando sedeva in classe come una pietra impermeabile alle parole, aspettando la campanella, in attesadellasuaoccasione. – Tucidide ha scritto di gente che ha fissato delle regole e le ha rispettate. Seguendoleregoleessihanno condannato a morte varie categorie di nemici, senza eccezione. Quelli che morivano sentivano, ne sono certa,chesistavacompiendo un grave errore, che, qualunque fosse la regola, non poteva riguardare proprio loro. Io?: quella era l’ultima parola che pronunciavano prima che venisse tagliata loro la gola. Una parola di protesta: io, l’eccezione. – Erano davvero l’eccezione?Laveritàèchese ci venisse concesso il tempo per spiegare, tutti saremmo prontiadichiararcieccezioni. Perché ciascuno di noi è un caso a sé. Tutti meritiamo il beneficiodeldubbio. –Macisonoepocheincui non c’è tempo per dare udienza,pertutteleeccezioni, tutta quella pietà. Non c’è tempo,quindicisiaffidaalla regola. E questo è un gran peccato, è proprio un gran peccato. Ecco cosa avresti potutoimpararedaTucidide. È un gran peccato quando ci approssimiamoatempicome questi.Dovremmoavvicinarli con un peso nel cuore. Non certoconunbenvenuto. Ha pensato bene di nascondere la mano libera sotto il lenzuolo, nel caso mi fosse venuto in mente di toccarlodinuovo. – Buona notte – gli ho augurato. – Spero che tu possariposarecosídomattina tisentiraimeglio. Il vecchio aveva smesso di cantare. Le mani si dibattevano ancora sulle gambecomepesciinpuntodi morte. Aveva gli occhi stralunati e rivoli di saliva gli sicoagulavanosulmento. L’autononvolevapartiree Vercueilhadovutospingerla. – Quel ragazzo è diverso da Bheki, molto diverso – ho detto, diventando troppo loquaceora,senzapiúfreni.– Cerco di non lasciarlo trapelare, ma mi rende nervosa. Mi dispiace che Bheki si lasci influenzare da lui.Macredochecomeluice nesianocentinaiadimigliaia. Non cosí tanti invece sono come Bheki. Le nuove generazioni. Siamo arrivati a casa. Senza essere invitato, mi ha seguitofindentro. – Devo assolutamente dormire, sono sfinita – ho detto; e poi, visto che non dava segno di volersene andare, ho aggiunto: – Vuole qualcosadamangiare? Gli ho preparato qualcosa allasvelta,hopresolepillolee hoaspettato. Ha tagliato una fetta di paneetenendolaconlamano anchilosata l’ha imburrata abbondantemente, poi ha tagliato il formaggio. Le unghie sporche. Chissà che altrohatoccato.Equestaèla persona cui rivelo i miei sentimenti, cui affido le ultimevolontà.Perchéquesto percorso obliquo per arrivare finoate? La mia mente una pozza, in cui lui immerge un dito smuovendone le acque. Ma senza quel dito immerso, ci sarebbe solo immobilità, stagnazione. Un percorso indiretto. Attraverso il quale trovo la strada. L’incedere di un granchio. Lesueunghiesporcheche mifruganodentro. – Ha una brutta cera – ha detto. –Sonostanca. Hacontinuatoamasticare scoprendoilunghidenti. Guarda ma non giudica. C’è sempre come un velo di torpore dovuto all’alcol intorno a lui. L’alcol: rammollisce, conserva. Mollificans. Ci aiuta a perdonare.Luibeveediviene accondiscendente. Tutta la sua vita è uno scendere a patti. Lui, il signor V., a cui parlo.Parloepoiscrivo.Parlo per scrivere. Mentre alle nuove generazioni, che non bevono, non posso parlare, ma solo impartire lezioni. Le loro mani pulite, le unghie linde. I nuovi puritani, che si attengono alle regole, che sostengono le regole. Aborriscono l’alcol che rammollisce la regola, corrode il ferro. Sospettosi di tuttociòcheèozioso,debole, indiretto. Sospettosi di discorsi ambigui, come questo. – E sono anche malata – ho detto. – Malata e stanca, stanca e malata. Porto una creatura dentro di me che nonpossodareallaluce.Non possoperchénonvuoleessere partorita. Perché non può vivere fuori di me. È mia prigioniera o sono piuttosto io a essere sua prigioniera. Scuote il cancello, ma non può uscire. È questo che succede, tutto il tempo. Il figlio dentro di me scuote il cancello. Mia figlia è la primogenita.Leièlamiavita. Quest’altra è la seconda, il secondamento, la non desiderata. Vuole guardare la televisione? – Pensavo che volesse andareadormire. – No, non me la sento di staredasola.Ecomunque,la creatura che è dentro non morde con molto accanimento.Haavutolasua razione di pillole, sta per assopirsi. La dose prescritta è sempre di due pillole, l’avrà notato, una per me, una per lei. Ci siamo seduti uno accanto all’altra sul divano. Un uomo dalla faccia rubicondavenivaintervistato. Possedevaunafattoriaconun piccolo zoo, mi sembra, e affittava leoni ed elefanti alle casecinematografiche. – Ci racconti dei personaggi famosi che ha incontrato oltreoceano – diceval’intervistatore. – Vado a preparare il tè – hodettomentremialzavo. – Non c’è nient’altro in casa?–hachiestoVercueil. –Sherry. Quando sono tornata con la bottiglia di sherry l’ho trovato in piedi davanti alla libreria. Ho spento il televisore.–Checosaguarda? –hodomandato. Ha sollevato un grosso volume. – Dovrebbe piacerle quel libro – ho detto. – La donna chel’hascrittohaviaggiatoin Palestina e in Siria camuffata da uomo. Nel secolo scorso. Unadiquelleintrepidedonne inglesi. Ma non ha fatto lei i disegni. Quelli sono opera di unillustratoreprofessionista. Abbiamo sfogliato il libro insieme. Gli accampamenti avvolti dalla luce lunare, i dirupideldeserto,itempliin rovina erano come sospesi in un’auradimistero,grazieagli abili trucchi prospettici. Nessun illustratore ha fatto qualcosa di simile per il Sudafrica,pertrasformarloin una terra di mistero. Ora è troppo tardi. Fissato nella memoriacomeunluogodove la luce è abbagliante, piatta, priva di sfumature, senza profondità. –Leggaquellochevuole– hodetto.–Cisonomoltissimi libri di sopra. Le piace leggere? Vercueilhaposatoillibro. –Adessovadoadormire–ha detto. Nuovamente un brivido d’imbarazzo mi ha scosso. Perché? Perché, ad essere sincera, non sopporto il suo odore. Perché non oso immaginare Vercueil e la sua biancheria. I piedi soprattutto:leunghiesudicee incrostate. – Posso farle una domanda?–hodetto.–Dove viveva prima? Perché ha cominciatoavagabondare? – Ero per mare, – ha risposto Vercueil – l’ho già detto. – Ma uno non vive in mare. Non si nasce in mare. Nonsaràstatopermaretutta lavita. –Vivevosuipescherecci. –E...dunque? Hascossolatesta. –Solocosí,perchiedere– ho aggiunto. – A tutti piace sapere qualcosa delle persone che ci stanno vicino. È normale. Ha fatto il solito sorriso sbilenco che improvvisamente gli scopre un canino lungo e ingiallito. Nasconde qualcosa, ho pensato, ma cosa? Una delusione d’amore? Una condanna al carcere? E anch’io mi sono lasciata andareadunsorriso. Cosí siamo rimasti in piedi, sorridenti, tutti e due, ciascuno con la propria ragionepersorridere. –Sepreferisce–hodetto– può dormire di nuovo sul divano. È rimasto interdetto. – Il caneèabituatoadormirecon me. – La notte scorsa non avevaconséilcane. –Siagitasenonmivede. Nonmièsembratoaffatto agitatol’altranotte.Purchégli dia del cibo, che può importare al cane dove lui dorme? Suppongo che usi la storia del cane preoccupato comealtriusanolascusadella moglie ansiosa. D’altra parte, forse è proprio per via del canechemifidodilui.Icani fiutano il bene come il male: pattuglianoiconfini;fannola guardia. Ilcanenonsièaffezionato a me. Sente l’odore dei gatti. La Donna-gatto: Circe. E lui, dopo aver navigato sui pescherecci,èapprodatoqui. – Come preferisce – ho dettomentrelofacevouscire, fingendo di non accorgermi cheportavaconsélabottiglia disherry. Peccato, ho pensato (l’ultimo pensiero prima che le pillole mi portassero via): potremmo formare una famiglia, noi due, in qualche modo.Iodisopra,luialpiano di sotto, per il breve tempo che mi resta. Cosí ci sarebbe qualcuno a farmi compagnia dinotte.Poiché,dopotutto,è di questo che si ha bisogno alla fine: di qualcuno che sia lí, da chiamare nell’oscurità. Madre,ochiunquesiapronto a prendere il posto di nostra madre. Poiché avevo detto a Florence che l’avrei fatto, mi sonorecataaCaledonSquare persporgeredenunciacontro i due poliziotti. Ma questo pare sia possibile solo se si è «lapartelesa». – Ci spieghi in dettaglio come si sono svolti i fatti e noi indagheremo – ha detto l’ufficiale seduto dietro la scrivania. –Comesichiamanoidue ragazzi? – Non posso dirle i nomi senzailloropermesso. Ha posato la penna. Giovane, impeccabile e cortese; un esempio della nuova generazione di poliziotti. Il cui addestramento viene perfezionato con un incarico a Cape Town, per rafforzare l’autocontrollodifronteachi si atteggia a portavoce di idealiliberalieumanitari. – Non so se vi sentite orgogliosi dell’uniforme che indossate – ho detto – ma i vostri colleghi là fuori fanno di tutto per infangarla. E oltraggiano anche me. Mi vergogno. Non per loro: per me stessa. Non mi consentite di sporgere denuncia perché nonsonolapartelesa.Maio mi sento parte lesa, sono profondamente lesa. Capisce quellochestodicendo? Non ha risposto, ma è rimasto immobile, perfettamente dritto, diffidente,prontoasentiredi tutto.L’uomodietrodiluisiè piegatosullecartefingendodi non sentire. Ma non c’era niente da temere. Non avevo nient’altrodadire,opiuttosto non ho avuto la presenza di spiritodiaggiungerealtro. Vercueilèsedutosull’auto in Buitenkant Street. – Mi sono resa cosí ridicola – ho dettoimprovvisamente,quasi conlelacrimeagliocchi.–Mi vergogno per voi, ho detto. Staranno ancora ridendo adesso. Die ou kruppel dame met die kaffertjies. Eppure è proprio cosí! Forse dovrei semplicemente accettare il fattochedaorainpoisivivrà cosí:inunostatodivergogna. Forse la vergogna è solo l’altro nome di quello che provo da sempre. Il nome dellacondizioneincuivivono quelle persone che preferirebberoesseremorte. Vergogna. Umiliazione. Morteinvita. È seguito un lungo silenzio. – Mi presterebbe dieci rand?–hachiestoVercueil.– La pensione di invalidità mi arrivagiovedí.Glielirestituirò allora. III. Ieri,nelcuoredellanotte,è arrivata una telefonata. Una donna ansimante, con l’affanno tipico delle persone grasse. – Voglio parlare con Florence. – Sta dormendo. Tutti dormono. –Sí,mapuòchiamarla? Pioveva,manonforte.Ho bussatoallaportadiFlorence. Si è aperta immediatamente, come se lei fosse stata là, dietro quella porta, in attesa dellachiamata.Allesuespalle si è levato un assonnato mugolio infantile. – Al telefono–hodetto. Dopo cinque minuti è salita in camera mia. Senza occhiali, senza il foulard in testa, nella lunga camicia da notte bianca sembrava molto piúgiovane. – Ci sono problemi – ha detto. –SitrattadiBheki? –Sí,devoandare. –Dovesitrova? – Prima devo andare a Guguletu, poi, credo, fino al distrettoC. – Non ho idea di dove si troviildistrettoC. Miharivoltounosguardo perplesso. – Volevo dire, se tu mi indichi la strada, posso accompagnarti in auto – ho spiegato. – Sí – ha risposto, ma continuava ad esitare. – Però nonpossolasciarelebambine dasole. – Allora dovranno venire connoi. – Sí – ha detto. Non ricordo di averla mai vista cosíindecisa. –AncheilsignorVercueil – ho detto – deve venire per spingerel’auto. Hascrollatolatesta. – Sí, – ho insistito – deve venire. Il cane era accucciato accanto a Vercueil. Quando sono entrata ha iniziato a dimenare la coda sul pavimento, ma non si è alzato. – Signor Vercueil! – ho chiamato forte. Ha aperto gli occhi; ho scostato la torcia. Ha liberato un peto. – Devo accompagnare Florence a Guguletu.Èunacosaurgente, dobbiamo partire subito. Verrebbeanchelei? Non ha risposto; si è rannicchiato invece su un fianco. Anche il cane si è riaccucciato. – Signor Vercueil! – ho ripetuto, puntandogli contro latorcia. – ’Fanculo – ha bofonchiato. – Non sono riuscita a svegliarlo – ho riferito a Florence. – Devo avere qualcuno con me, per spingerel’auto. –Spingeròio–harisposto lei. Sistemate le due bambine ben infagottate sul sedile posteriore,Florencehaspinto l’auto. Siamo partite. Scrutando attraverso i finestrini appannati dal respiro, ho guidato lentamente lungo De Waal Drive, mi sono persa per un attimo nelle strade di Claremont,perpoisbucarein LansdowneRoad.Gliautobus vivacemente illuminati e vuoti cominciavano le prime corse del giorno. Non erano ancoralecinquedelmattino. Abbiamo superato le ultime case, gli ultimi semafori. Procedevamo nella pioggia battente di nord- ovest, seguendo il flebile baglioregiallodeifari. – Se qualcuno le fa cenno di fermarsi, o se vede qualcosa sulla strada, non deve fermarsi, continui a guidare–hadettoFlorence. –Nonmifermeròdicerto – ho risposto. – Avresti dovutodirmeloprima.Voglio essere chiara, Florence: al primo segnale di pericolo io tornoindietro. –Nondicochesuccederà, erasoloperavvisarla. Con apprensione mi inoltravo nell’oscurità. Ma nessuno ci ha sbarrato la strada, nessuno ha lanciato segnali, non c’era nessuno in giro. Il tumulto sembrava essersi assopito; il pericolo stava recuperando le forze prima del prossimo agguato. Lacarreggiata,lungolaquale aquell’oramigliaiadiuomini avrebbero dovuto marciare pesantemente per recarsi al lavoro, era vuota. Folate di nebbia ci venivano incontro, abbracciavano l’auto, volavano via. Fantasmi, spiriti. L’Aorno: il luogo disertatodagliuccelli.Brividi; poi ho cercato lo sguardo di Florence. – Quanto ci vuole ancora? –Nonmolto. – Cosa hanno detto al telefono? – Ieri hanno sparato di nuovo.Hannodatolearmiai witdoeke e i witdoeke hanno sparato. –SparanoaGuguletu? – No, sparano nella boscaglia. – Al primo segnale di pericolo, Florence, io torno indietro. Siamo venute a prendereBheki,ètuttoquello che dobbiamo fare, e poi ce ne torniamo a casa. Non avresti dovuto lasciarlo andarevia. –Sí,madevesvoltarequi, asinistra. Ho svoltato. Cento metri piú in là c’era un posto di blocco,conlucilampeggianti, auto parcheggiate sui bordi della strada, poliziotti armati. Ho fermato l’auto; un poliziottoèvenutoavanti. – Che volete qui? – ha chiesto. – Accompagno la mia domestica a casa – ho detto, sorpresa per la calma con la qualementivo. Ha scrutato le bambine addormentate sul sedile posteriore.–Doveabita? – Cinquantasette – ha dettoFlorence. – Può lasciarla qui, può andareapiedi,nonèlontano. – Piove, ha due bambine piccole,nonlafaccioandarea piedi da sola – ho detto con fermezza. Ha esitato, poi agitando unalampadaintermittentemi hadatoilvialibera. Sul tetto di una delle auto un giovane in tenuta da guerra se ne stava in piedi, il fucile puntato, lo sguardo fissonelbuio. C’eraunodoredibruciato nell’aria, di cenere bagnata e gomma bruciata. Abbiamo percorso lentamente un’ampiastradanonasfaltata, bordata da file di baracche che parevano scatole di fiammiferi gettate lí a caso. Un furgone della polizia, un blindato con una rete di protezione tutt’attorno, ci ha superato. – Qui, svolti a destra – ha detto Florence. – Ancoraadestra.Sifermi. Conlapiccolainbraccioe l’altra bambina, non ancora del tutto sveglia, che la seguiva incespicando, si è avviata tra le pozzanghere verso il numero 219, ha bussato, è entrata. Hope e Beauty. Era come vivere in un’allegoria.Hoaspettatocon ilmotoreacceso. Ilfurgonedellapoliziache ci aveva superato stava tornando indietro. Una luce mi ha colpito in faccia. Mi sono riparata gli occhi con una mano. Poi il furgone ha proseguito. Florence è riemersa con indosso un impermeabile di plasticachestringevaintorno aséeallapiccolaesièseduta sul sedile posteriore. Correndonellapioggia,dietro dilei,èarrivatononBhekima un uomo sui trent’anni, o al piú quaranta, magro, ben vestito,conibaffi.Sièseduto accanto a me. – Questo è il signorThabane,miocugino– ha detto Florence. – Ci mostreràluilastrada. –Dov’èHope? – L’ho lasciata con mia sorella. –Edov’èBheki? Èseguitoilsilenzio. –Nonlosoconcertezza– ha detto l’uomo. La sua voce erasorprendentementedolce. – È arrivato ieri mattina, ha posatolesuecoseedèuscito. Poi non l’abbiamo piú visto. Non è tornato a casa a dormire.Masodovestannoi suoi amici. Possiamo cominciareacercarlolà. – È questo che vuoi Florence?–hodomandato. –Dobbiamocercarlo,–ha risposto – non ci resta altro dafare. –Sepreferiscecheguidiio, possofarlo–hadettol’uomo. – Sarebbe meglio, in ogni caso,noncrede? Sono scesa e mi sono seduta vicino a Florence, dietro. Adesso pioveva piú forte; l’auto s’immergeva in pozzed’acqualungolastrada dissestata.Unavoltaadestra, una volta a sinistra svoltavamo nell’arancio smorto della luce dei lampioni. Poi ci siamo fermati. – Faccia attenzione, non la spenga – ho detto al signorThabane,ilcugino. Lui è sceso ed è andato a bussare a una finestra. Ne è seguita una lunga conversazione con qualcuno chenonriuscivoascorgere.Il tempo di tornare indietro ed era fradicio e infreddolito. Conleditatremantihatirato fuori il pacchetto di sigarette e ha cercato di accenderne una.–Perfavore,nondentro l’auto – ho detto. Lui e Florence si sono scambiati unosguardoesasperato. Siamorimastiinsilenzio.– Che cosa stiamo aspettando? –hodomandato. –Manderannoqualcunoa farcistrada. Un ragazzino con un passamontagna troppo grande per lui è uscito di corsa dalla casa. Con grande disinvolturacihasalutatitutti conunsorriso,èsalitoinauto e ha cominciato a dare indicazioni. Dieci anni al massimo.Unfigliodeitempi, a casa propria in questo scenario di violenza. Quando ripenso alla mia infanzia ricordo soltanto lunghi pomeriggi assolati, l’odore della polvere nei viali sotto l’ombra degli eucalipti, il leggero gorgoglio dell’acqua neifossatiaccantoallastrada, la cantilena delle colombe. Un’infanzia sonnolenta, preludiodiquellacheavrebbe dovuto essere una vita senza problemi e un lento trapasso al Nirvana. Ci sarà concesso, almeno, il nostro Nirvana, a noi, figli di quel tempo lontano? Ne dubito. Se c’è giustizia al mondo, ci troveremo la strada sbarrata sin dalla prima soglia dell’Aldilà. Bianchi come larve in fasce, saremo destinati ad aggiungerci alle anime di quei bambini il cui eterno lamento Enea ha scambiato per pianto. Bianco il nostro colore, il colore del limbo: bianca la sabbia, bianche le rocce, bianca la luce che piove dappertutto. Come un’eternità da trascorrere distesi su una spiaggia, una domenica infinita tra i nostri simili, a migliaia, assonnati, mezzo addormentati, a un palmo dalla rassicurante carezza delle onde. In limine primo: sulla soglia della morte, la soglia della vita. Creature vomitate dal mare, arenate, esitanti, indecise, né calde né fredde,nécarnenépesce. Abbiamo superato le ultimecaseenelgrigioredella luce dell’alba ci siamo inoltrati in un paesaggio di terra bruciata e alberi carbonizzati.Uncamioncino, con tre uomini protetti da unatelaceratasulrimorchio, ci ha sorpassato. Al blocco stradalesuccessivoliabbiamo affiancati di nuovo. Ci fissavano con sguardo inespressivo, gli occhi negli occhi, mentre aspettavamo il controllo. Un poliziotto ha fatto cenno di proseguire, primaaloro,poianoi. Noi ci siamo diretti verso nord,lasciandocilemontagne alle spalle, poi abbiamo abbandonato l’autostrada per finireinunastradinasterrata che presto si è coperta di sabbia. Thabane ha fermato l’auto. – Non possiamo andare oltre, è troppo pericoloso – ha detto. – La batteria ha qualcosa che non va – ha aggiunto e mi ha indicato la spia rossa illuminata sul quadro dei comandi. – Lascio che tutto segua il suo corso – ho risposto. Non me la sentivo di fornire spiegazioni. Ha spento il motore. Per unpo’siamorimastisedutiad ascoltare la pioggia che tamburellava sul tetto. Poi Florence e il ragazzo sono scesi. Assicurata dietro alla schiena, la piccola dormiva tranquillamente. – E meglio che chiuda gli sportelli con la sicura – ha dettoilsignorThabane. –Quantoc’impiegherete? – Non saprei, ma faremo presto. Ho scrollato la testa. – Nonrimarròqui–hodetto. Nonavevouncopricapoe neppure un ombrello. La pioggia mi colpiva sulla faccia,miincollavaicapelliin testa, mi scorreva giú per il collo. In sortite come questa, ho pensato, si rischia di moriredifreddo.Ilragazzino, la nostra guida, era già scappatovia. –Sicopraconquesto–ha detto il signor Thabane mentre mi offriva l’impermeabilediplastica. – Lasci stare, – ho detto – non mi spaventa un po’ di pioggia. – Lo metta ugualmente – ha insistito. Ho compreso. – Venga – ha detto. L’ho seguito. Intorno a noi c’era un terreno grigio e desolato di dune sabbiose, salici di Port Jackson e un odore di cenere e immondizie. Brandelli di plastica, ferro vecchio, vetro, ossadianimaliinsudiciavano i lati del sentiero. Tremavo già per il freddo, ma quando ho cercato di camminare piú velocemente il cuore ha incominciato a martellare forte. Restavo indietro. Si sarebbe fermata Florence? No: amor matris, una forza che non si ferma di fronte a nulla. Ad un bivio del sentiero Thabane si è fermato ad aspettarmi. – Grazie – ho mormorato–èmoltogentile. Mi dispiace costringerla a rallentare. L’anca mi dà qualcheproblema. –Siappoggialmiobraccio –hadetto. Alcuniuominicisfilavano accanto, cupi, barbuti, seri, armati di bastoni, passavano rapidi in fila indiana. Ha lasciato il sentiero. Io mi tenevostrettaalui. Il sentiero si allargava per poi terminare in un ampio lago d’acqua bassa. Dall’altro lato della pozza iniziavano le baracche, le catapecchie costruite piú in basso erano circondate dall’acqua, allagate. Alcune, in ferro e legno,sembravanopiúsolide, altre consistevano solo di pellicolediplasticaposatesui rami e si perdevano a vista d’occhio verso nord su per le dune. Giunti ai margini della pozza ho esitato. – Venga – ha detto il signor Thabane. Tenendomi a lui mi sono incamminata e abbiamo guadatoquellago,conl’acqua che ci arrivava alle caviglie. Una delle scarpe mi è stata succhiata via dal piede. – Facciaattenzioneaivetrirotti – mi ha avvertito. Ho recuperatolascarpa. Ad eccezione di una vecchiasdentatainpiedisulla soglia,nonsivedevanessuno. Mentre procedevamo, il suono che ci accompagnava, che in un primo momento potevaesserescambiatoconil rumore del vento o della pioggia, cominciava a essere rotto da grida, pianti, richiami; si trattava in realtà di una nota ostinatamente bassa che potrei solo definire un gemito: un gemito profondo,senzafine,comese il mondo intero stesse gemendo. Poiilragazzino,laguida,è tornato nuovamente da noi, ha cominciato a tirare la manica del signor Thabane e a confabulare tutto agitato. I due si sono allontanati insieme; io mi sono arrampicata dietro di loro su unaduna. Cisiamotrovatiallespalle diunafolladiuncentinaiodi persone tutte con lo sguardo rivolto verso uno scenario di devastazione: baracche bruciate, le ceneri ancora fumanti, catapecchie ancora in fiamme che sputavano fumonero.Catastedimobili, letti e altri arredi erano lí sotto la pioggia. Gruppi di uomini si davano da fare per recuperare qualcosa dalle baracche bruciate, passavano daunaall’altra,percercaredi estinguere il fuoco; o almeno cosí avevo pensato finché, sbalordita, ho capito che quellinoneranosalvatori,ma incendiari, che la guerra che stavanocombattendononera contro le fiamme ma contro lapioggia. Era da qui, dalla gente raccolta in questo anfiteatro sulle dune, che proveniva il gemito. Come gente a lutto a un funerale stavano raccolti sotto quel diluvio uomini, donne e bambini, fradici, incuranti di proteggersi, a guardareladistruzione. Unuomoconuncappotto nero faceva roteare un’ascia. Una finestra è esplosa con uno schianto. Ha attaccato la porta, che ha ceduto al terzo colpo. Come liberata da una gabbia, una donna con un bimbo tra le braccia è corsa fuoridallacasa,seguitadatre bambini scalzi. L’uomo li ha lasciati passare. Poi ha cominciato a sferrare colpi contro lo stipite della porta. L’interastrutturahaceduto. Uno del gruppo è entrato in casa con una tanica di benzina.Ladonnasièinfilata in casa dietro di lui ed è riemersapoiconunmucchio di coperte tra le braccia. Ma quando ha tentato una seconda incursione è stata letteralmentesbalzatafuori. La folla ha esalato un gemito. Nuvole di fumo cominciavano a levarsi dalla baracca. La donna si è tirata su,èrientratadicorsaincasa, di nuovo è stata respinta fuori. Una pietra lanciata dalla folla è planata con un suono metallico sul tetto della baracca in fiamme. Un’altra hacolpitolaparete,unaterza è caduta ai piedi dell’uomo che brandiva l’ascia, il quale ha lanciato un grido di minaccia. L’uomo e una mezza dozzina di suoi compagni hanno interrotto quellochestavanofacendoe, brandendobastoniesbarredi ferro, hanno cominciato ad avanzare incontro al cordone della folla. Urlando, la gente si è ritirata in fuga, io con loro. Ma nella sabbia melmosa riuscivo a stento a camminare. Il cuore martellava, un dolore lancinante mi è esploso nel petto. Sono rimasta immobile, piegata in due, ansimando.Madavverotutto questo succede a me? ho pensato.Che cosa ci faccio io qui?Mièapparsadavantiagli occhi l’auto verde, ferma in attesa sulla strada. Non v’era cosachedesiderassidipiúche salire in auto e chiudermi lo sportello alle spalle, per lasciare fuori tutto quel mondo minaccioso di odio e violenza. Una ragazza, un’adolescente incredibilmentegrassa,miha strattonatomentremipassava accanto.–Accidentiate!–ho mormorato cadendo. – Accidenti a te! – ha risposto; sprizzava di scoperta animosità:–Toglitidaipiedi! –Esièincamminatasuperle dune,tremando. Un altro colpo come questo, ho pensato con la faccia nella sabbia, e sono finita. Questa gente può sopportarne molti di colpi, ma io, io sono fragile come unafarfalla. Sentivo uno scalpiccio di passi accanto a me. Con la coda dell’occhio ho visto una scarpa marrone, la linguetta saltellante, i lacci legati intornoallasuolaperfissarla. Il colpo dal quale tentavo di ripararminonsièabbattuto. Mi sono alzata. Alla mia sinistra era cominciata una zuffa;tuttalagentecheprima si era rifugiata tra le piante della boscaglia d’un tratto sciamavafuori.Unadonnaha gridato, forte e disperatamente.Comepotevo andarmene da quel luogo orrendo? Dov’era il lago che avevo guadato, dove il sentiero che conduceva all’auto?C’eranopozzanghere enormiovunque,pozze,laghi, specchi d’acqua, ovunque c’erano sentieri, ma dove conducevano? Houditodistintamentedei colpi d’arma da fuoco, uno, due, tre colpi, non vicinissimo, ma neppure troppolontano. – Venga – ha detto una voce, e il signor Thabane mi ha preceduta. – Sí – ho mormorato, e piena di gratitudine ho arrancato dietrodilui.Manonriuscivo a raggiungerlo. – Piú piano, perfavore–hourlato.Miha aspettato; insieme abbiamo riattraversato la pozza e raggiuntoilsentiero. Un giovane ci ha seguiti, gliocchiiniettatidisangue.– Dove sta andando? – ha chiesto. Una domanda tagliente,unavocetagliente. – Me ne vado, vado via, sono fuori posto qui – ho detto. – Andiamo a prendere l’auto – ha risposto il signor Thabane. – La macchina serve a noi –hadettoilgiovane. –Nonlasceròlamiaautoa nessuno–hodetto. –LuièunamicodiBheki – ha spiegato il signor Thabane. –Nonm’interessa,nongli lasceròlamiaauto. Il giovane (non certo un uomo, non ancora, un ragazzo vestito come un uomo, che si comportava come un uomo) ha fatto uno strano gesto: tenendo una mano sollevata all’altezza del viso,l’hacolpitaconilpalmo dell’altra mano, un colpo rapido. Cosa significava? Volevadirequalcosa? La schiena mi doleva per aver camminato. Ho rallentato e mi sono fermata. –Devotornaresubitoacasa– ho detto. Era un appello; la vocemitremava. – Ha visto abbastanza? – ha detto il signor Thabane, con un tono piú distaccato cheinprecedenza. – Sí, ne ho abbastanza. Non sono venuta qui per vedere uno spettacolo. Sono venutaaprendereBheki. – E adesso vuole andare a casa? –Sí,vogliotornareacasa. Stomale,sonoesausta. Si è voltato e si è incamminato. Io gli zoppicavo dietro. Poi si è fermato di nuovo. – Vuole andare a casa – ha detto. – E lagentechevivequi?Quando vogliono andare a casa, è qui che devono venire. Che cosa nepensa? Siamo rimasti là nella pioggia, in mezzo al sentiero, faccia a faccia. La gente che passava di là si fermava a guardarmi incuriosita, fatti miei,fattiloro,fattiditutti. – Non so rispondere – ho detto.–Èterribile. –Nonèsoloterribile–ha ribadito – è un crimine. Quando vede che viene commesso un crimine dinanziaisuoiocchi,checosa dice? Dice: Ho visto abbastanza, non sono venuta a vedere uno spettacolo, voglioandareacasa? Ho scrollato la testa disperata. –No,nonpuò–hadetto. –Giusto.Alloracosadirebbe? Quale crimine ha visto compiersi? Qual è il nome giustodadargli? È un insegnante, ho pensato: ecco perché parla cosí bene. Quello che fa con me lo ha sperimentato in classe.Èiltruccoadottatoper far sembrare che le proprie risposte vengano spontaneamente dagli allievi. Ventriloquismo, l’eredità di Socrate, oppressiva in Africa comeloeraadAtene. Hofattocorrerelosguardo sul cerchio di spettatori. Se erano ostili? Non scorgevo ostilità in loro. Aspettavano solochedicessilamia. – Sono sicura che ci sono molte cose che potrei dire a riguardo, signor Thabane – hodetto.–Mainquestocaso, devo dire davvero quello che penso. Quando ci si sente sotto pressione, dovrebbe saperlo, raramente si dice la verità. Stavaperribattere,mal’ho prevenuto. –Aspetti.Midiailtempo. Non sto cercando di eludere la domanda. Cose terribili accadono qui. Ma quello che penso in proposito devo esprimerloconlemieparole. – Allora, sentiamo, che cosa ha da dire! Stiamo ascoltando! Stiamo aspettando! – Ha sollevato la mano per ottenere silenzio. Dalla folla si è levato un mormoriodiapprovazione. –Accadonocoseterribili– ho ripetuto, esitante. – E devono essere condannate. Ma io non posso giudicarle usando le parole altrui. Devo trovare parole che siano le mie, che mi vengano da dentro. Altrimenti non direi la verità. È tutto quello che possodireora. – Questa donna dice stronzate–hadettounuomo della folla. Si è guardato intorno. – Stronzate – ha ripetuto. Nessuno lo ha contraddetto. Alcuni già si allontanavano. –Sí,–hodettoemisono girata verso di lui – ha ragione,quelchediceèvero. Mi ha guardato come se fossimatta. –Machecosasiaspettava? –hoproseguito.–Perparlare di questo – ho allargato il braccio verso la boscaglia, il fumo, la sporcizia che insudiciava il sentiero – bisognerebbe possedere la linguadiundio. – Stronzate – ha detto di nuovo,insegnodisfida. Thabane si è voltato per andarsene.Iol’hoseguito.La folla ha aperto un varco. Un secondodopoilragazzinomi èpassatoaccantodicorsa.Poi hovistol’auto. – È una Hillman la sua auto,nonèvero?–hachiesto Thabane. – Non dovrebbero essercene rimaste molte in giro. Ero sorpresa. Dopo quello cheerasuccessocredevofosse stata tracciata una linea invalicabile tra noi. Ma lui non sembrava serbare rancore. – È del tempo in cui BritishfacevacoppiaconBest – ho risposto. – Perdoni la sciocchezza. Haignoratolescuse,sedi questositrattava.–Maèmai statomegliocongliinglesi?– hachiesto. –No,certocheno.Estato uno slogan per un po’, dopo la Guerra. Lei non può ricordarlo.Ètroppogiovane. –Sononatonel1943–ha detto.–Hoquarantatreanni. Nonmicrede?–Sièvoltato, mostrandomi i suoi bei lineamenti. Vanitoso; ma di unavanitàaffascinante. Ho azionato il motorino d’avviamento. Ma la batteria era scarica. Thabane e il ragazzino sono scesi e hanno spinto, con i piedi che affondavanonellasabbia.Alla fine il motore si è avviato. – Dritto – ha detto il ragazzo. Hoobbedito. – È un insegnante? – ho chiestoalsignorThabane. – Ero un insegnante. Ma ho temporaneamente abbandonato la professione. Finchénonarriverannotempi migliori. Adesso vendo scarpe. – E tu? – ho chiesto al ragazzo. Ha farfugliato qualcosa chenonhosentito. – È un giovane disoccupato–harispostolui. –Nonècosí? Il ragazzino ha sorriso imbarazzato. – Giri qui, subito dopo i negozi – ha detto. Solitari, in mezzo alla desolazione, si ergevano tre negozietti in fila, sventrati, mezzo carbonizzati. BHAWOODIEN CASH STORE, diceva l’unica insegnaancoraleggibile. –Èdaunpezzo–hadetto il signor Thabane. – Dall’annoscorso. Siamosbucatisuun’ampia strada sterrata. Alla nostra sinistra c’era un grappolo di case, case vere, con muri di mattoni, tetti di amianto e camini. Tra le case, intorno alle case, si perdeva a vista d’occhiolabaraccopoli. –Là–hadettoilragazzoe ha indicato con il dito un fabbricatodavantianoi. Era un edificio lungo e basso,uncasolareoforseuna scuola,circondatodaunarete metallica.Magranpartedella recinzioneerastataabbattuta, e dell’edificio restavano in piedi solo i muri bruciacchiati. Là davanti si eraradunataunapiccolafolla. Voltisigiravanoaguardarela Hillmanchesiavvicinava. – Posso spegnere il motore?–hochiesto. – Può spegnerlo, non c’è nientedatemere–harisposto Thabane. –Nonhopaura–hodetto. Era vero? In un certo senso, sí;oalmeno,dopoquelloche era successo nella boscaglia, poco importava quel che avrebbepotutoaccadermi. – Non c’è motivo di temerenullacomunque,–ha aggiuntopacatamente–isuoi ragazzi sono qui a proteggerla. –Ehafattouncennocon lamano. È stato allora che li ho visti,dislocatiunpo’piúinlà, lungo la strada: tre di quei carri militari marroni per il trasporto delle truppe, che si confondevanotraglialberie, stagliate contro il cielo, le testeprotettedaglielmetti. – Casomai avesse pensato –haconcluso–chesitrattava di una rissa tra neri, di un focolaio di lotta tra fazioni. Guardilà:c’èmiasorella. Mia sorella aveva detto, non Florence. Forse soltanto io, unica al mondo, la chiamavo Florence. La chiamavo ricorrendo a uno pseudonimo. Ora mi trovavo in un luogo in cui la gente si manifestava con il suo vero nome. Era addossata al muro per proteggersidallapioggia:una donna compita, inappuntabile nel suo soprabito bordeaux e il berretto bianco lavorato a mano. Ci siamo fatti strada verso di lei. Per quanto fosse rimastaimpassibile,sochemi aveva visto. – Florence! – ho esclamato. Ha sollevato uno sguardo vacuo. – Lo hai trovato? Hafattocennodisíconil capo indicando quel che rimaneva dell’edificio bruciato, poi si è voltata dall’altra parte, senza salutarmi. Il signor Thabane ha cominciato a farsi largo nella calca per raggiungere l’ingresso. Ho aspettato, imbarazzata. La gente mi mulinavaattornoemievitava come se in me scorgesse il malaugurio. Una ragazzina con il grembiule verde della scuola mi si è avvicinata, la sua mano si è sollevata come per schiaffeggiarmi. Ho vacillato sorpresa, ma era solo uno scherzo. O forse dovrei dire chesiètrattenutadalfarlosul serio. – Credo che dovrebbe guardare anche lei – mi ha dettoilsignorThabaneconil respiro affannoso, quando è riemerso. Si è avvicinato a Florence e l’ha stretta fra le braccia.Scostandogliocchiali leihaposatolatestasullasua spalla ed è scoppiata in lacrime. All’interno della costruzionec’eranomucchidi macerie e travi carbonizzate. Infondo,controlapareteche offriva un po’ di riparo dalla pioggia, giacevano cinque corpi in fila. Nel mezzo c’era il corpo di Bheki. Portava ancora gli stessi calzoni di flanella grigia, la camicia bianca e il pullover marroncino della divisa di scuola,maavevaipiedinudi. Aveva gli occhi aperti e fissi, anche la bocca era aperta. La pioggia si era abbattuta su di luiperore,sudiluiesuisuoi compagni, non solo qui, ma ovunquefosserostatiquando hanno incontrato la morte; i vestiti, persino i capelli avevano l’aria piatta della morte. Aveva granelli di sabbiaagliangolidegliocchi. C’erasabbianellasuabocca. Qualcunomistavatirando per il gomito. Sbalordita ho abbassato lo sguardo su una bambina dai grandi occhi pienidisolennità.–Sorella– ha detto – sorella... – ma poi nonhasaputocontinuare. –Chiedeseleièunadelle sorelle – mi ha spiegato una donna con un sorriso premuroso. Non volevo essere allontanata da quella visione, non ancora. Ho scrollato la testa. –Vuoledire,seèunadelle sorelle della Missione cattolica – ha precisato la donna.–No,–hacontinuato a parlare in inglese con la bambina – non è una delle sorelle –. Con delicatezza ha staccatoleditadellabambina dallamiamanica. C’erano molte persone accalcateintornoaFlorence. – Devono rimanere là sotto la pioggia? – ho chiesto aThabane. – Sí, devono restare là. Cosítuttipossonovederli. –Machièstato? Tremavo: brividi mi correvano per tutto il corpo, mi tremavano le mani. Pensavo agli occhi spalancati delragazzo.Hopensato:cosa ha veduto nel suo ultimo sguardorivoltoalmondo?Ho pensato: questa è la cosa peggiorecuiabbiaassistitoin vita mia. E ho pensato: ora i miei occhi sono aperti e non potròmaipiúrichiuderli. – Chi è stato? – ha detto Thabane.–Sevuoleestrarrei proiettilidaqueicorpi,faccia pure. Ma le dirò io cosa troverebbe. «Fabbricati in Sudafrica.Conl’approvazione della SABS». Ecco cosa troverebbe. – Per favore, mi ascolti – ho detto. – Non sono indifferente a questo... a questaguerra.Ecomepotrei? Nessuna barriera, per quanto impenetrabile, riuscirebbe a celarla –. Ero sul punto di piangere; ma qui, davanti a Florence, che diritto ne avevo?–Vivedentrodimee io vivo dentro la guerra – ho sussurrato. Thabanehaalzatolespalle spazientito.Eradiventatopiú brutto. Senza dubbio anch’io divento piú brutta alla luce delgiorno.Unametamorfosi, ci impasta la bocca, smorza i sentimenti, ci trasforma in bestie. Dove, lungo quali spiagge, cresce l’erba che ci potrebbe salvare da tutto questo? Ti racconto la storia di questa mattina consapevole che il narratore, in virtú del ruolo che ricopre, rivendica per sé un posto d’onore. È attraverso i miei occhi che tu vedi; mia è la voce che ti riecheggianellatesta.Graziea me ti è dato sostare in questi luoghidesolati,fiutarel’odore di bruciato nell’aria, vedere i corpi dei morti, ascoltare il pianto, rabbrividire nella pioggia. Sono i miei pensieri che pensi, è la mia disperazione che provi e anche i primi palpiti di benvenuto per qualunque cosa possa metter fine al pensiero:sonno,morte.Ame arrivalatuapartecipazione;il tuo cuore batte in sincronia conilmio. Ora, bambina mia, carne della mia carne, mia parte migliore, ti chiedo di tirarti indietro. Ti racconto questa storianonperottenerelatua compassione, ma perché tu sappia come stanno le cose. Sarebbepiúfacileperte,loso, se la storia te la raccontasse qualcunaltro,sefosselavoce di un estraneo a echeggiarti nella testa. Ma il fatto è che nonc’ènessunaltro.Cisono soloio.Sonoioascrivere:io, io. E allora ti chiedo: presta ascoltoaquestoscritto,nona me. Se bugie e suppliche e scuse ammiccano tra le parole, presta loro ascolto. Non le tralasciare, non dimenticarle con leggerezza. Leggiognicosa,anchequesta esortazione,condistacco. Qualcunoavevatiratouna pietrasulparabrezza.Grande come la testa di un neonato, muta, giaceva sul sedile in mezzo alle schegge di vetro comearivendicareilpossesso dell’auto. Il mio primo pensieroèstato:dovetroverò iricambiperunaHillman?E poi: che fortuna che tutto finiscanellostessomomento! Hofattoruzzolarelapietra giúdalsedileehocominciato a togliere i pezzi di vetro che si staccavano dal parabrezza. Ora che avevo qualcosa da faremisentivopiúcalma.Ma ero calma anche perché non m’importava piú di continuare a vivere. Quello che poteva ancora accadermi non mi preoccupava. Ho pensato:lamiavitanonconta nulla. Spariamo su questa gentecomeselalorovitanon valesse nulla, ma in fondo sono le nostre vite a non meritarediesserevissute. Pensavo ai cinque corpi, alla loro presenza cosí opprimente, cosí vivida, nel casolare raso al suolo dalle fiamme. I loro spiriti non se nesonoandati,hopensato,e non se ne andranno. I loro spiriti siedono là immobili, padronidelcampo. Sequalcunoavessescavato una fossa per me, in quel luogo e in quel momento, là nella sabbia, e me l’avesse indicata, mi ci sarei calata dentro senza fiatare, mi sarei distesa con le braccia incrociatesulpetto.Equando la sabbia mi fosse caduta in bocca, o negli angoli degli occhi, non avrei alzato un ditoperscrollarmeladidosso. Leggi, ma non compatirmi.Nonlasciareche iltuocuorebattainsincronia conilmio. Con una mano fuori dal finestrino porgevo una moneta.C’èstataunacorsaal tesoro. I bambini hanno spinto, il motore si è avviato. Ho svuotato il portafoglio distribuendo monete dai finestrini. Inerpicati lassú, dove la strada si riduceva a un sentiero, in mezzo alla boscaglia, c’erano i veicoli militari che avevo visto prima, non tre, come avevo pensato, ma cinque. Sotto lo sguardo di un giovane protetto da una mantella olivastra sono scesa dall’auto, sentivo tanto freddo nei vestiti fradici che quasi mi parevadiesserenuda. Speravo che le parole sarebbero venute da sole, ma nonèstatocosí.Hosollevato le mani mostrando i palmi. Sono spoglia, dicevano le mani, priva anche della parola. Vengo a parlare ma nonhonientedadire. –Wagindiemotor,eksal die polisie skakel – mi ha intimato. Un ragazzo con i brufoli che recitava la parte del temerario, del carnefice. Aspetti nell’auto, chiamerò la polizia. Ho scrollato la testa, continuavoascrollarelatesta. Lui parlava con qualcuno lí accantocheiononriuscivoa intravedere.Stavasorridendo. Senza dubbio avevano visto tutto sin dall’inizio, si erano fatti una loro opinione su di me. Una vecchia benefattrice mezza matta, sorpresa dalla pioggia, inzaccherata come una gallina. Avevano visto giusto? Io, una benefattrice? No, non c’è nulla di buono che io possa fare. Sono forse pazza? Sí, sono pazza. Ma anchelorolosono.Tuttinoi, impazziti, posseduti dai demoni. Quando la follia ascende al trono, chi in tutto il regno può sfuggire al contagio? – Non chiami la polizia, me la cavo da sola – ho gridato.Maleconsultazionie gli sguardi d’intesa non cessavano. Probabilmente avevano già messo mano alla radio. –Checosacredetedifare? – ho gridato al giovane. Il sorriso gli si è gelato sulle labbra.–Cosacredetedifare? – ho urlato, ma la voce era diventata stridula. Sorpreso, mi ha fissato. Sorpreso di sentirsi aggredito da una bianca,abbastanzavecchiada poteresseresuanonna. Unuomoindivisamilitare si è staccato da un altro veicolo e si è avvicinato. Mi haguardatodavicino.–Wat is die moeilikheid? – ha chiestoalgiovanesulcarro.– Nee, niks moelikheid nie. Nessun problema. – Net hierdiedamewatwilweetwat aangaan. –Quièpericoloso,signora – ha detto girandosi verso di me. Doveva essere un ufficiale. – Può succedere di tutto. Le manderò una scorta perché l’accompagni fino alla strada. Ho scrollato il capo. Ero assolutamentelucida,nonero sul punto di piangere, anche semiaspettavodicrollareda unmomentoall’altro. Checosavolevo?Checosa voleva la vecchia? Quello che voleva era svelare loro qualcosa, qualunque cosa potesse essere svelata in questo momento, in questo luogo. Quello che voleva, primachesiliberasserodilei, era mostrare loro una cicatrice, una ferita, buttargliela in faccia, mettergliela sotto gli occhi: una cicatrice, qualunque cicatrice, la cicatrice di tutte quellesofferenze,maanchela mia cicatrice, poiché dopo tutto le uniche ferite che possiamo mostrare sono le nostre. Ho persino posato la mano sui bottoni del vestito. Maleditaeranolivide,gelate. – Avete guardato dentro quell’edificio? – ho chiesto con la voce stridula. E ora le lacrime cominciavano a scorrere. L’ufficiale ha lasciato cadere la sigaretta e con il piedel’hasepoltanellasabbia. – Questa unità non ha sparato un solo colpo in ventiquattr’ore – ha detto pacatamente. – Segua il mio consiglio: non si agiti tanto senzaprimasaperedicosasta parlando. Quelle persone là dentro non sono le sole ad essere morte. Ogni volta muorequalcunonegliscontri. Quelli sono solo i corpi raccolti ieri. I disordini sono cessati per il momento, ma non appena smetterà di piovere esploderanno nuovamente.Nonsocomesia arrivata qui (avrebbero dovutochiuderelestrade)ma questo non è posto per lei, non dovrebbe essere qui. Chiameremo la polizia via radio,lascorteranno. –Ekhetreedsgeskakel–ha dettoilgiovanesulcarro. –Perchénonmetteteviale armi e ve ne tornate tutti a casa, invece? – ho detto. – Perché di certo niente è piú terribile di quel che state facendo qui. Per la vostra anima,intendo. – No – ha risposto. Mi aspettavodiesserefraintesa,e invece no, aveva compreso esattamenteciòcheintendevo dire. –Dobbiamoandarefinoin fondo,adesso. Tremavo dalla testa ai piedi.Ledita,ricurveversoil palmo della mano, non volevano distendersi. Il vento mi incollava addosso i vestiti inzuppati. – Conoscevo uno dei ragazzi che sono morti – ho detto. – Lo conoscevo da quando aveva cinque anni. Sua madre lavora per me. Siete tutti troppo giovani per questo. Mi viene la nausea a pensarci.Eccotutto. Ho guidato fino al casolare, poi ho aspettato seduta in auto. Ora trasportavano fuori i corpi. Dalla folla raccolta sentivo come un’onda sollevarmisi contro: rancore, ostilità. Qualcosa di peggio: odio. Sarebbe diverso se non fossi statavistamentreparlavocon isoldati?No. Il signor Thabane mi è venuto incontro per chiedere cosa volessi. – Scusi, ma non sono sicura sulla strada da prendere–hodetto. – Prenda la strada asfaltata, svolti a destra e poi segua i segnali – ha spiegato brevemente. –Sí,maqualisegnali? – I segnali che riportano alla civiltà –. Se n’è andato voltandomilaschiena. Ho guidato lentamente, in parteperviadelventochemi colpiva la faccia, in parte perchémisentivointorpidita, nel corpo come nell’anima. Hodeviatoinunquartieredi cui non avevo mai sentito il nome e ho continuato a guidare per venti minuti tra stradetutteugualiincercadi una via d’uscita. Alla fine mi sonoritrovatainVoortrekker Road.Qui,perlaprimavolta, la gente ha cominciato a guardarel’autodalparabrezza frantumato. Gli sguardi mi hannoseguitofinoacasa. La casa mi è parsa fredda edestranea.Misonodetta:fai un bagno caldo, riposati. Ma una inerzia di gelo si era impadronita di me. Ho dovuto fare uno sforzo immane per trascinarmi di sopra,perscollarmididossoi vestiti bagnati, avvolgermi in una vestaglia e mettermi a letto. Sabbia, la grigia sabbia di Cape Flats, si era rappresa attorno alle dita dei piedi. Non riuscirò mai piú a scaldarmi, ho pensato. Vercueilhauncanedatenersi accanto nel sonno. Vercueil sacomesopravvivereaquesto clima. Ma per me, e per quel ragazzo che presto giacerà nellaterra,noncisarannopiú caniadarcitepore.Sabbia,già nellasuabocca,giàpenetrata, prontaareclamarlo. Sedici anni da quando ho divisounlettoconunuomoo un ragazzo. Sedici anni da sola.Tisorprende? Hoscritto.Scrivo.Seguola penna, vado là dove essa mi porta.Chealtromiresta? Quando mi sono svegliata misentivospossata.Eranotte di nuovo. Dove era finito il giorno? Inbagnolaluceeraaccesa. Sedutosullatazza,ipantaloni calati sulle ginocchia, il cappello in testa, Vercueil si era assopito. L’ho fissato sbalordita. Non si è svegliato; al contrario, nonostante avesse la bocca aperta e la testa ciondoloni, dormiva quieto comeunbambino.Nonv’era peluriasullesuelunghecosce magre. La porta della cucina era spalancataeirifiuticadutidal cestinocapovoltoeranosparsi sul pavimento. Il cane era tuttopresodauninvolucrodi carta.Quandomihavistoha abbassatoleorecchieinsenso di colpa e ha cominciato a dimenare ritmicamente la coda.–Questoètroppo!–ho mormorato. – Davvero troppo! – Il cane è sgusciato fuori. Misonosedutaaltavoloe mi sono abbandonata alle lacrime. Non piangevo per la confusione che mi si agitava nellatesta,néperildisordine incasa,maperilragazzo,per Bheki. Ovunque mi voltassi, me lo trovavo davanti, gli occhi aperti con quell’aria di stupore infantile con cui ha incontrato la morte. La testa poggiata sulle braccia singhiozzavo, piangevo per lui, per quello che gli è stato sottratto, per quello che mi è statosottratto.Unacosatanto bella: la vita! Un’idea bellissima,lamigliorecheDio abbia avuto! La migliore idea di tutti i tempi. Un dono, il piú generoso dei doni, che si rinnova senza fine di generazioneingenerazione.E ora Bheki, spogliato di quel dono,perduto,strappatovia! – Voglio andare a casa! – Cosí mi sono lamentata, dinanzi alla mia vergogna, dinanzi al signor Thabane, il mercantediscarpe.Lavocedi unabambinauscitadallagola di una vecchia. A casa, in salvoacasamia,nelmioletto di riposo infantile. Ho mai aperto gli occhi davvero? Potrei anche domandarmi: sannoimortidiesseremorti? No: ai morti non è dato sapere nulla. Ma nel nostro sonno di morte possiamo almeno ricevere dei segni. Io conservo segni piú antichi di qualsiasi ricordo, incrollabili, del fatto che una volta sono stata viva. Ero viva e sono stata sottratta alla vita. Dalla cullaèstatomessoinattoun furto: è stata sottratta una bambina e al suo posto una bambola ha ricevuto cure e nutrimento;quellabambolaè ciòchechiamoio. Una bambola? La vita di una bambola? È cosí che ho vissuto?Maadunabambolaè dato concepire pensieri simili? Oppure il pensiero va e viene come un altro segno, come un lampo, come uno squarcio nella nebbia provocato dalla spada di una intelligenzaangelica?Puòuna bambola riconoscere una bambola? Può una bambola conoscere la morte? No: le bambole crescono, imparano a parlare e a camminare, giranoilmondo;invecchiano, avvizziscono, periscono; vengono portate al rogo o sepolte nella terra, ma non muoiono.Vivonopersempre in quel momento di sorpresa impietrita,precedenteadogni ricordo, quando una vita è stata sottratta, una vita che non appartiene a loro ma al cui posto sono state lasciate come pegno. La loro conoscenza: un sapere insostanziale, senza peso terreno,propriocomelatesta di una bambola, vuota, svanita. Poiché esse stesse non sono bebè, ma l’idea di unbebè,piútonde,piúrosee, dallo sguardo piú vacuo e azzurrino di qualsiasi bebè, esse non vivono la vita, ma l’idea della vita, immortali, eterne,cometutteleidee. L’Ade, l’Inferno: il regno delle idee. Perché mai l’inferno deve essere di necessità un luogo a parte, confinato ai ghiacci dell’Antartico, o al fondo di un vulcano? Perché l’Inferno non può trovarsi in fondo all’Africa,eperchélecreature infernali non possono confondersitraivivi? Padre, non vedi che sto bruciando?, implorava il figlio, in piedi accanto al giacigliopaterno.Mailpadre, che continuava a dormire, a sognare,nonpotevavederlo. Ecco la ragione per cui (la espongo ora affinché tu la possa vedere) mi aggrappo con forza al ricordo di mia madre. Perché se lei non mi hadatolavita,alloranessuno lohafatto.Nonmiaggrappo soloalricordodilei,maalei stessa, al suo corpo, alla mia nascita al mondo dal suo corpo. Con il suo sangue e il suo latte ho succhiato il suo corpoentrandonellavita.Poi le sono stata sottratta e da alloramisonoperduta. C’èunamiafotografiache hai visto ma che probabilmente non ricordi. È stata scattata nel 1918, allora non avevo ancora due anni. Io sono ritta, mi si vede mentre tento di afferrare la macchina fotografica, mia madre,inginocchiodietrodi me, mi trattiene con delle redini che mi imbrigliano le spalle. Al mio fianco c’è mio fratello Paul, mi ignora, il cappelloditraverso. La fronte è corrugata, gli occhi sono fissi sull’apparecchio fotografico. Sto soltanto strizzando gli occhi per il troppo sole oppure, come i selvaggi del Borneo, ho la sensazione confusa che la macchina fotograficamiruberàl’anima? Peggio: mia madre mi trattiene,forseperevitareche scaraventi in terra quell’aggeggio perché io, alla manieradellebambole,soche esso vede anche ciò che l’occhio non può vedere; e cioè, che io non sono là? E mia madre forse sa tutto questo perché neppure lei è là? Paul, morto, a lui mi ha portato la penna. Gli ho tenuto la mano mentre se ne andava. Gli ho sussurrato: – Rivedrai la mamma, sarete entrambi tanto felici –. Era pallido, persino negli occhi aveva il biancore di cui si tinge il cielo in lontananza. Mi ha rivolto uno sguardo stanco, vuoto, come per dire: proprio non comprendi! Ma, ha mai vissuto realmente Paul? Sorella vita, cosí una volta mi aveva apostrofato in una lettera, prendendo in prestito parole altrui. Ma si eraaccortoallafinecheaveva commesso un errore? Quegli occhi trasparenti erano riuscitiaguardarmidentro? Siamo stati fotografati, quel giorno, in un giardino. Cisonofioridietrodinoiche somigliano ai fiori di malvarosa;allanostrasinistra c’è un’aiuola di meloni. Riconoscoilposto.Sitrattadi Uniondale, la casa in Church Streetacquistatadalnonnoal tempoincuiconlepiumedi struzzo si faceva fortuna. Anno dopo anno germogliavano fiori e frutti e verdura in quel giardino, producevano semi in abbondanza, morivano, si rinvigorivano, mentre noi prosperavamo della loro abbondanza. Ma da chi venivano curati con tanto amore? Chi potava la malvarosa? Chi disponeva i semi di melone nel loro tiepido e umido letto? Era mio nonno che si levava alle quattronell’ariapungentedel mattino per aprire i condotti eirrigareilgiardino?Senona lui, a chi apparteneva di diritto il giardino? Chi sono questi fantasmi e queste presenze? Chi c’è, fuori dalla cornicedellafoto,appoggiato a quel rastrello, appoggiato a quella vanga, che aspetta di poter tornare al lavoro, poggiato anche contro il bordo di quel rettangolo, quasi piegandolo, incurvandolo? Dies irae, dies illa quando gliassentisarannopresentiei presenti assenti. La fotografia non mostra piú chi c’era nel riquadro del giardino quel giorno, ma piuttosto chi non c’era.Rimastapertuttiquesti anniinluoghiattiaserbarei ricordi, negli album che mi hannoseguitaperilpaese,nei cassetti, questa foto, come migliaia di altre, è maturata impercettibilmente, ha subito una metamorfosi. Il fissaggio non ha tenuto oppure lo sviluppo ha fatto ciò che nessuno si sarebbe mai sognato(chissàcomeèpotuto succedere?) ma sono diventate nuovamente dei negativi, un nuovo tipo di negativo per cui è possibile vedere ciò che sta fuori dalla cornice,ciòcheèoccultato. È per questo che ho corrugato la fronte, è per questo che cerco di afferrare lamacchinafotografica:forse so confusamente che quell’apparecchio è nemico, chenonmentiràsudinoi,ma svelerà ciò che realmente siamo: bambole? Sto forse lottando per sottrarmi alle redinichemiimpedisconodi avventarmi sulla macchina fotografica prima che sia troppo tardi? E chi tiene l’apparecchio fotografico? A chi appartiene l’ombra informechesiprotendeverso mia madre e i suoi due bambini dall’altro lato dell’aiuolacoltivata? Il dolore si è lasciato alle spalle il pianto. Io sono un involucro vuoto, sono una conchiglia. A ciascuno di noi il fato assegna la giusta malattia.Lamia,unamalattia chemidivoradall’interno.Se qualcuno mai incidesse un taglio per guardarmi dentro, mi troverebbe vuota come una bambola, una bambola con un granchio chiuso dentro che si lecca le labbra, abbagliato da quell’improvviso effluvio di luce. Era il granchio, il cancro che vedevo con tanta prescienza a due anni, far capolino da quella nera scatola? Stavo cercando di salvaretuttidalgranchio?Ma melohannoimpedito,hanno premuto il bottone, e il granchio è dilagato ed è penetratoinme. Rosicchiandomi le ossa, ora che non c’è piú carne. Rosicchiandomi le giunture dell’anca, rosicchiandomi la spinadorsale,perpassarepoi alleginocchia.Igatti,adireil vero, non mi hanno mai amato veramente. Soltanto questa creatura mi è fedele finoallafine.Ilmiocucciolo, ilmiodolore. Sono andata di sopra e ho aperto la porta del bagno. Vercueil era ancora là, affondato in un sonno profondo. Ho cercato di scuoterlo. – Signor Vercueil! –hoesclamato.Haapertoun occhio.–Vengaadormire. Nonlohafatto.Primal’ho udito sulle scale scendere un gradino alla volta con la precauzione di un vecchio. Poi ho sentito chiudersi la portasulretro. Una bella giornata, una di quelle immote giornate invernali quando la luce sembra piovere uniformemente da ogni angolo del cielo. Vercueil ha guidato lungo Breda Street e fino a Orange Street. Dopo averattraversatoGovernment Avenue gli ho chiesto di parcheggiare. – Pensavo di guidare fino allafinedelviale–hodetto.– Una volta superata la catena, non vedo come potrebbero fermarmi.Ma,credechecisia spazio sufficiente per oltrepassarelacatena? (Forse ricordi che ci sono due paletti di ghisa al fondo delvialeaiqualièfissatauna catena). –Sí,c’èspaziodilato–ha risposto. – Dopo, è solo questione diteneredrittal’auto. – Lo farà davvero? – ha chiesto. I suoi occhietti di pollo scintillavano crudelmente. –Setroveròilcoraggio. – Ma, perché? A che scopo? Difficile dare nobili risposte davanti a quello sguardo famelico. Ho chiuso gli occhi e ho cercato di concentrarmi sulla visione dell’auto, lanciata a tutta velocità e circondata da un ventaglio di fiamme, che precipita giú lungo il viale asfaltato superando turisti e vagabondi e coppiette di amanti, superando il museo, la galleria d’arte, l’orto botanico, prima di rallentare e arrivare ad arrestarsi dinanzi alla casa della vergogna, bruciando, dissolvendosi. – Ora possiamo tornare a casa–hodetto.–Volevosolo essere sicura che fosse possibilefarlo. È venuto in casa e gli ho offertoiltè.Ilcanesièseduto ai suoi piedi; aguzzava le orecchie ora verso di me, ora verso di lui, quando parlavamo. Un cane affettuoso: una presenza vitale, nato sotto una buona stella, come si dice di certe persone. – Per rispondere alla sua domanda A che scopo? – ho detto – ha a che fare con la mia vita. Una vita che non vale piú molto. Sto cercando dicapirecosapossofarne. La sua mano affondava inquieta nella pelliccia del cane,avantieindietro.Ilcane sbatteva le palpebre, socchiudevagliocchi.Amore, ho pensato: per quanto improbabile, è amore quello dicuisonotestimone. Ho provato di nuovo. – C’è un famoso romanzo in cuiunadonnavieneaccusata diadulterio(l’adulterioeraun reato ai vecchi tempi) e condannataadandareingiro con la lettera A cucita sull’abito. Porta quella A per cosí tanti anni che la gente finisce per dimenticare che cosa essa significhi. Dimenticano che essa può significare tutto o nulla. Diventa semplicemente qualcosa da indossare, come un anello o una spilla. Potrebbe anche darsi che lei abbiadatoinizioallamodadi portaredellescrittesugliabiti. Ma questo non è scritto nel libro. – Queste dimostrazioni pubbliche, queste manifestazioni, ecco il punto della mia storia, come si può essere sicuri del loro significato?Unavecchiasidà fuoco, per esempio. Perché? Perché è impazzita? Perché è disperata? Perché è malata di cancro? Ho pensato di dipingere una lettera sull’auto, per spiegare. Ma quale? A? B? C? Qual è la lettera giusta nel mio caso? E poi, perché spiegare? A chi puòinteressare,aparteme? Avrei potuto dire di piú, ma in quel momento la serratura del cancello è scattata e il cane ha cominciato a ringhiare. Due donne, in una delle quali ho riconosciuto la sorella di Florence,avanzavanolungoil vialetto e portavano delle valigie. – Buon pomeriggio – ha detto la sorella. Mi ha mostratounachiave.–Siamo venute a prendere la roba di miasorella.Florence. –Sí–hodetto. Si sono fatte strada nella stanza di Florence. Dopo un po’ le ho raggiunte. – Florence sta bene? – ho chiesto. La sorella, che stava svuotando un cassetto, si è alzata in piedi, respirando profondamente. Certamente assaporava quella sciocca domanda. – No, non posso dire che stiabene–harisposto.–Non bene. Come potrebbe stare bene? L’altra donna, fingendo di non sentire, continuava a ripiegare i vestiti delle bambine. Nella stanza c’era moltopiúdiquantopotessero portareviainduevaligie. – Non intendevo in quel senso–hodetto–manonha importanza. Posso chiederle diportarequalcosaaFlorence dapartemia? – Sí, posso farlo, se non è troppoingombrante. Hocompilatounassegno. – Dica a Florence che mi dispiace. Le dica che mi dispiace piú di quanto le parole possano esprimere. PensosempreaBheki. –Ledispiace. –Sí. Un’altra giornata di cielo limpido. Vercueil in uno strano stato di eccitazione. – Allora,èarrivatoilgiorno?– hachiesto.–Sí–horisposto, stizzitadifronteall’indecenza del suo entusiasmo. Ero sul punto di aggiungere: – Sono forsefattichelariguardano? Sí, ho detto, è arrivato il giorno. Eppure la giornata è trascorsaeiononhoattuatoi miei propositi come avevo promesso. Poiché fino a quando le parole continuano a fluire, tu puoi esser certa che non ho attuato i miei propositi:unaregola,un’altra regola. La morte potrebbe essere davvero l’ultimo grandenemicodellascrittura, ma anche la scrittura è il nemico della morte. Per questo, la scrittura è una manotesapertenerelamorte adebitadistanza;lasciacheti racconti di come volevo farla finita, volevo cominciare ad arrendermi, ma non ho attuato i miei propositi. Lasciachetiraccontidicome hofattounbagno.Lasciache ti racconti di come mi sono vestita. Lasciami dire che, mentre preparavo il mio corpo, un debole guizzo d’orgoglio è tornato a scuoterlo. Tra l’aspettare a letto che il respiro ti abbandoni e uscire fuori per diventare artefici della propriamorte,chedifferenza! Volevo farla finita: è questalaverità?Sí.No.Sí-no. Esistequestaparola,manonè mai stata ammessa nei dizionari. Sí-no: ogni donna sa cosa significa poiché essa sconcerta sempre gli uomini. – Lo farà? – ha domandato Vercueil, con i suoi occhi di uomo scintillanti. – Sí-no – avreidovutorispondere. Misonovestitadibiancoe azzurro: una gonna celeste, una camicetta bianca che si chiudeconunfioccoallagola. Mi sono truccata il viso e mi sono pettinata. Per tutto il tempo che ho trascorso davanti allo specchio un tremito leggero ha accompagnato i miei movimenti. Non sentivo alcun dolore. Il granchio avevasmessodirosicchiare. Raggiante di curiosità, Vercueil mi ha seguito aggirandosi furtivamente in cucina mentre facevo colazione. Alla fine, irritata, sconvolta, ho tuonato: – Vuole lasciarmi in pace! – Allora si è allontanato con un’espressione ferita cosí infantile da indurmi a tirarlo perlamanica.–Nonvolevo– ho detto. – Ma per favore si sieda: mi rende nervosa proprioquandohobisognodi calma. Sono cosí combattuta! Un momento, penso: sbrigati e falla finita, metti fine a questavitainutile.Unminuto dopo penso: ma perché devo prendere la colpa sulle mie spalle?Perchécisiaspettache io mi innalzi al di sopra dei tempi? È mia la colpa per questo tempo di vergogna? Perché dovrebbe essere affidato a me, vecchia e malata e afflitta dal dolore, il compitoditirarmifuorisenza aiutoalcunodaquestoabisso divergogna? – Io voglio scatenarmi controcolorochehannodato vita a questo tempo. Voglio denunciarli per avermi rovinatolavitapropriocome un ratto o uno scarafaggio rovinano il cibo senza neppure mangiarlo, semplicemente camminandoci sopra, annusandolo,cacandocisu.È infantile, lo so bene, puntare ilditoeaccusareglialtri.Ma perché dovrei accettare l’idea che la mia vita sarebbe stata priva di valore indipendentemente da chi detiene il potere in questo paese?Ilpotere,dopotutto,è potere. Invade. È la sua natura.Invadelanostravita. –Vuolesaperechecosami succede, e io sto cercando di spiegarglielo. Voglio vendere l’anima, redimermi, ma sono molto confusa su come fare. Questa, se vuole, è la follia che si è impossessata di me. Non dovrebbe sorprenderla. Conosce questo paese. La folliaquisirespiraconl’aria. Per tutto il tempo del mio discorso Vercueil mi ha guardatoconqueisuoipiccoli occhi semichiusi e insondabili.Poihaesorditoin uno strano modo: – Le andrebbeungiroinauto? –Nonpossiamouscirecon l’auto, signor Vercueil. Ci sono mille ragioni a impedirlo. – Potremmo fare un giro panoramico ed essere di ritornopermezzogiorno. – Non possiamo andare a fare un giro panoramico con un’auto che ha un buco nel parabrezza.Sarebberidicolo. –Toglieròilparabrezza.È solo vetro, non ce n’è bisogno. Perché ho ceduto? Forse ciòchemihavintoallafineè stata l’inattesa attenzione che mi dedicava. Era come un ragazzo in stato di eccitazione, eccitazione sessuale,eioneerol’oggetto. Io ero lusingata, in un certo senso; nonostante tutto, ero persino divertita. Sentivo qualcosa di oscuramente disgustoso in tutto questo, come nell’eccitazione di un cane che scavi in cerca di carogne non sotterrate abbastanza in profondità. Ma non ero in condizione di scegliere. Dopo tutto, che cosa volevo? Volevo una proroga. Un intervallo di tempo senza preoccupazioni, senza dolore, senza dubbi, senza apprensione, fino a mezzogiorno. Finché il cannone di Signal Hill non esploderàamezzogiorno,una tanica di benzina sul sedile accanto, e io sarò riuscita a oltrepassare la catena oppure avrò rinunciato a lanciarmi lungo il viale. Ma fino ad allora, vivere senza pensieri; ascoltareilcantodegliuccelli, sentire l’aria sfiorarmi la pelle,guardareilcielo.Vivere. Cosíhoceduto.Vercueilsi è avvolto uno strofinaccio intornoallamanoeharottoil vetro del parabrezza fino a fareunbucotantograndeda lasciar passare un bambino. Gli ho dato le chiavi. Una spinta,esiamopartiti. Come amanti che fanno ritorno sulla scena della loro primadichiarazione,abbiamo preso la strada che s’inerpica sull’altura di Muizenberg. (Amanti! Che cosa ho mai dichiarato io a Vercueil? Che dovrebbe smettere di bere. Checosamihadichiaratolui? Niente. Forse neppure il suo vero nome). Abbiamo parcheggiato nello stesso punto della volta precedente. Adesso goditi per l’ultima volta questo panorama, mi sonodetta,mentreaffondavo leunghieneipalmidellemani eallargavolosguardosuFalse Bay, la baia della falsa speranza, e verso sud sulle desolate acque invernali del piúdimenticatodeglioceani. – Se avessimo una barca potrebbe portarmi in alto mare–homormorato. Versosud:ioeVercueilda soli, fino a raggiungere le latitudini dove gli albatros incrociano i loro voli. Dove lui potrebbe legarmi a un barileoaunatavoladilegno, non importa quale, e lasciarmi in balia delle onde sotto quelle grandi ali bianche. Vercueil ha fatto inversione per ritornare sulla strada. Mi sbagliavo, o il motore rispondeva piú dolcementeallesuemaniche allemie? – Mi dispiace, se quello che dico non ha senso – ho detto. – Sto facendo del mio meglio per non smarrire l’orientamento. Sto tentando di mantenere in vita un qualche senso della necessità. Questosensodellanecessitàè ciò che continua a sfuggirmi. Seduta qui, circondata da tanta bellezza, ma persino seduta a casa in mezzo alle mie cose, sembra quasi impossibilecheesistaintorno anoiunazonadoveregnano l’abbrutimento e l’assassinio. È come un brutto sogno. Qualcosa preme, rivendica attenzione, dentro di me. Cerco di rimanere indifferente,mainsiste.Cedo un poco; preme piú forte. Consollievomiabbandono,e la vita improvvisamente si fa ordinaria. Con sollievo mi abbandono all’ordinario. Mi ci crogiolo. Perdo il senso di vergogna, divento sfrontata come lo sono i bambini. La vergogna di quella spudoratezza: ecco ciò che non posso dimenticare, ecco quello che non posso sopportaredopo.Eccoperché devo aggrapparmi a me stessa, indicare a me stessa il cammino. Altrimenti sono perduta.Micapisce? Vercueil incurvato sul volante come se avesse problemi di vista. Lui dagli occhidifalco.Cheimportava senoncapiva? – È come provare a smettere di bere – ho continuato. – Provare e riprovare, sempre, convinti nel proprio intimo, sin dal principio, che ci sarà una ricaduta. Una vergogna accompagna quell’intima consapevolezza,unavergogna cosí tiepida, cosí intima e confortante, che reca con sé un effluvio di ulteriore vergogna. Sembrerebbe non esserci limite alla vergogna che un essere umano può provare. – Ma come è difficile togliersilavita!Cisiaggrappa cosí fortemente alla vita! Ho l’impressione che qualcos’altrodebbaentrarein gioco all’ultimo momento oltre la volontà, qualcosa di estraneo, qualcosa di spensierato, a spingerti giú dal burrone. Occorre diventarequalcunaltrodasé. Machi?Chiècheaspettache iodiventilasuaombra?Dove possotrovarloquelqualcuno? Il mio orologio segnava le dieci e venti. – Dobbiamo tornareacasa–hodetto. Vercueilharallentato.–Se è quello che vuole, la riporto indietro–hadetto.–Oppure, se preferisce, possiamo continuare a guidare. Possiamo percorrere tutta quanta la penisola. È una bellagiornata. Avrei dovuto rispondere: No,miportisubitoacasa.Ma hoesitato,einquell’attimodi esitazione le parole si sono spenteinme. –Sifermiqui–hodetto. Vercueilhaparcheggiatoa latodellacarreggiata. – Ho un favore da chiederle – ho detto. – Per piacerenonsiprendagiocodi me. –Èquestoilfavore? –Sí.Oracomeinfuturo. Hascrollatolespalle. Dall’altro lato della strada unuomoconabiticenciosisi èsedutoaccantoallapiramide di legna da ardere che aveva messo in vendita. Ci ha guardati, poi ha guardato altrove. Iltempopassava. – Una volta le ho raccontato una storia su mia madre – ho detto alla fine, cercando di parlare piú dolcemente. – Su come, da bambina, era rimasta distesa nell’oscurità senza sapere che cosasimuovessesopradilei, seilcarroolestelle. – Mi sono aggrappata a quella storia per tutta la vita. Se ognuno di noi ha una storiadapotersiraccontaresu chisiamo,edadoveveniamo, allora quella è la mia storia. Quella è la storia che ho scelto,olastoriachehascelto me.Èdalícheioprovengo,è làcheiohoorigine. – Mi chiede se voglio proseguire. Se fosse davvero possibile, le proporrei di guidare fino alla zona est del Capo, fino ai monti Outeniqua, fino al crinale in cima al Prince Alfred’s Pass. Potrei persino dire, lasciamo perdere le carte geografiche, continuiaguidareversonord e poi verso est seguendo il sole,loriconosceròquandoci arriveremo:ilpuntodiarrivo, il punto di partenza, l’ombelico, il punto di contatto con il mondo. Le chiedereidifarmiscenderelà, in cima al passo, e di andarsene lasciandomi in attesadellanotteedellestelle e del carro fantasma che mi passeràsopra. –Malaveritàèche,cono senza carte geografiche, non riesco piú a ritrovare quel luogo. Perché? Perché il desideriomihaabbandonato. Un anno fa o un mese fa sarebbe stato diverso. Un desiderio, forse il desiderio piú profondo di cui io sia capace, sarebbe fluito da me verso quell’angolo di mondo, miavrebbeguidato.Eccomia madre, avrei detto, inginocchiandomi: ecco ciò che mi dà vita. Terra sacra, non come una tomba, ma come è sacro un luogo di resurrezione: una eterna resurrezionedallaterra. – Ora quel desiderio, che potrebbe anche essere chiamato amore, mi ha lasciato. Non provo piú amore per questa terra. Ecco tutto. Sono come un uomo chesiastatocastrato.Castrato in età adulta. Cerco di immaginarecomedeveessere lavitaperunuomocheabbia subito una tale perdita. Immagino che guardi le cose che aveva amato in passato, memore di un amore che dovrebbe ancora provare, ma incapace di provare amore. Amore: che cos’era? si domanderebbe, cercando a tentoni nella memoria quel vecchio sentimento. Ma tutto oragliparrebbepiatto,muto, immobile. Qualcosa che un tempo possedevo è stato tradito, penserebbe, concentrandosi per sentire tutta l’acutezza di quel tradimento. Ma non ci sarebbeacutezza.L’acutezzaè proprio ciò che tutte le cose hanno perduto. Sentirebbe piuttosto una tensione, leggeramapersistente,chelo conduce verso lo stupore, il distacco. Distacco, rifletterebbe tra sé, pronunciando quella parola affilata,quasiallungandouna mano per sondarne il profilo tagliente. Ma anche in quel caso interverrebbe un ottundimento, un annebbiamento. Tutto mi sfugge, penserebbe; fra una settimana, fra un mese avrò dimenticato tutto, dimorerò tra i mangiatori di loto, solo, alla deriva. Per un’ultima volta tenterebbe di rivivere il dolore per quel distacco, ma l’unica cosa che riuscirebbe a richiamare a sé sarebbe una fugacetristezza. – Non so se sono stata abbastanza chiara, signor Vercueil. Sto parlando di risoluzioni, del fatto che sto cercando di tener fede alle mie risoluzioni e non ci riesco. Confesso, sto affondando. Sono seduta qui accantoaleiestoaffondando. Vercueil si è appoggiato allo sportello. Il cane ha uggiolatodebolmente.Conle zampe anteriori posate sul sedile davanti, scrutava in lontananza, impaziente di riprendere la marcia. È trascorsounminuto. Poidallatascadellagiacca ha tirato fuori una scatola di fiammiferiemelihaofferti.– Lofacciaora–hadetto. –Farecosa? –Lofaccia. –Èquellochevuole? – Lo faccia ora. Io uscirò dall’auto. Lo faccia qui, adesso. Una goccia di saliva gli danzava tra le labbra nell’angolo della bocca. Che s’incazzi pure, ho pensato. Arriviamo pure a questa conclusione, che è crudele, che è matto, che è un bastardo. Ha agitato la scatola di fiammiferi davanti a me: – È lui che la preoccupa? – Ha indicato l’uomo che vendeva la legna. – Non darà alcun fastidio. –Nonqui–horisposto. – Possiamo andare sul promontorio di Chapman. Può lanciarsi dalla scarpata, sepreferisce. Era come trovarsi intrappolati in auto con un uomochecercadisedurtiesi adira se non cedi. Come essere trascinati nel passato, ai giorni peggiori dell’adolescenza. –Possiamotornareacasa? –hodetto. – Pensavo che volesse farlo. –Nonmicapisce. – Pensavo che avesse bisognodiunaspintagiúper ladiscesa.Glieladoio. Di fronte all’albergo di Hout Bay ha fermato di nuovo l’auto. – Mi dà un po’ disoldi?–hachiesto. Glihodatounabanconota dadiecirand. Èentratonellarivenditadi liquori e ne è riemerso con una bottiglia avvolta in un sacchetto di carta marrone. – Beva un sorso – ha detto mentrestappavalabottiglia. –No,grazie.Nonmipiace ilbrandy. – Non è brandy. È medicina. Nehobevutounsorso,ho cercatodideglutire,stavoper soffocare e mi è venuto da tossire, mi si è staccata la dentiera. – Deve tenerlo in bocca – hadetto. Nehopresounaltrosorso tenendolo in bocca. Le gengive e il palato si sono come infiammati prima di diventare insensibili. Allora ho deglutito e ho chiuso gli occhi. Qualcosa cominciava ad impadronirsi di me: una cortina, una nebbia. È cosí, dunque, ho pensato? Tutto qui? È cosí che Vercueil mi indicailcammino? Ha fatto nuovamente inversione ed è tornato in cima alla collina, dove ha parcheggiato in una piazzola perpicnic,nelpuntopiúalto che domina la baia. Ha bevuto e mi ha offerto la bottiglia. Ho bevuto con prudenza. Il velo di grigiore che aveva coperto tutto si andava visibilmente diradando. Dubbiosa, piena di meraviglia, ho pensato: è davvero cosí semplice, niente affattounaquestionedivitao dimorte? –Lascicheledica,infine– ho detto. – Quello che mi ha scatenato non è la mia condizione, la malattia, ma qualcosadimoltodiverso. Il cane si lamentava dolcemente. Vercueil ha allungato languidamente la mano per carezzarlo; il cane glihaleccatoledita. – Hanno ucciso il ragazzo diFlorencemartedí. Hafattocennodisíconil capo. –Hovistoilcadavere–ho continuato, bevendo un altro sorso, pensando: diventerò loquaceora?Diociscampi!E se divento loquace lo diverrà ancheVercueil?Luieio,sotto l’influenza dell’alcol, entrambi impegnati a parlare a ruota libera in una piccola automobile? – Sono sconvolta – ho detto. – Non posso dire a luttoperchéiononhodiritto di usare quella parola, essa appartiene alla sua gente. E tuttavia sono, come dire?, turbata. È qualcosa che ha a che fare con la fisicità della sua morte, il peso di quella morte. È come se nel morire fosse diventato pesantissimo, come il piombo o come la fanghiglia densa e melmosa che si trova ai piedi delle dighe. Come se nell’atto di morire avesse esalato un ultimo sospiro e tutta la leggerezza lo avesse abbandonato.Oraluigiacesu di me con tutto quel peso. Nonèschiacciante,maèlí. – Come quando quel suo amico giaceva sanguinante sulla strada. La stessa pesantezza. Sangue pesante. Cercavo di fermarlo, di impedire che si disperdesse lungo il marciapiede. Quanto sangue! Se lo avessi raccolto tutto in un secchio non sarei stata in grado di sollevarlo. Come voler sollevare un secchiodipiombo. – Non ho veduto morire deineriprimad’ora,Vercueil. Ne muoiono in continuazione, lo so, ma sempredaqualchealtraparte. Quelli che ho visto morire eranobianchiemorivanonei loroletti,rinsecchitieleggeri, incartapecoriti, quasi inconsistenti.Bruciavanocon facilità,nesonosicura,diloro nonèrimastoallafinecheun mucchietto di cenere da raccogliere. Vuole sapere perché mi sono riproposta di darmi fuoco? Perché ho pensatochesareibruciatacon facilità. – Invece loro non bruciano,Bhekieglialtriche sono morti. Sarebbe come cercare di bruciare delle sagomedighisaodipiombo. Potrebbero al piú perdere la nettezza del contorno, ma quandolefiammearrivassero ad esaurirsi li troveresti ancora là, pesanti come sempre. Se li lasciassi là potrebbero sprofondare, millimetro dopo millimetro, finchélaterranonsirichiude su di loro. Ma poi smetterebbero di sprofondare. Si fermerebbero a un certo punto, premendo contro la superficie. Se solo provasse a smuovere la terra con la scarpa li vedrebbe: i volti, gli occhi morti, aperti, colmidisabbia. –Beva–hadettoVercueil, porgendomi la bottiglia. Il suo volto stava cambiando espressione, le labbra sporgenti, gonfie, umide, lo sguardo offuscato. Come la donna che aveva portato a casa. Ho preso la bottiglia e l’hopulitasullamanica. – Lei capisce, non è solo una questione personale, questo disagio di cui parlo – hoproseguito.–Nonsitratta affatto di qualcosa di personale. Io volevo bene a Bheki, certo, quando era ancora un bambino, ma non mi piaceva ciò che era diventato. Avevo sperato in qualcosa di meglio. Lui e i suoi amici dicono di essersi lasciati l’infanzia alle spalle. Ebbene, hanno smesso di esserebambini,macosasono diventati? Piccoli puritani austeri, che hanno in spregio il sorriso, che disdegnano il gioco. – E allora perché dovrei piangerlo? La risposta è che ho veduto il suo volto. Quando è morto è tornato bambino. La maschera è caduta e ha lasciato il posto alla piú sincera sorpresa infantile quando la morte gli si è abbattuta addosso; nell’ultimoistantequandoha capitocheillanciodipietree gli spari non sarebbero piú stati un gioco; che il gigante che avanzava su di lui con unamanocolmadisabbiaper tappargli la bocca non sarebbe piú arretrato dinanzi aicantieaglislogan;chealla finedellungotunneldovesiè sentito soffocare e ammutolire senza poter piú respirarenonc’eraluce. –Oraquelbambinoèstato sepoltoenoiglicamminiamo sopra. Me lo lasci dire, quando cammino su questa terra, questo Sudafrica, mi crescedentrolasensazionedi camminare sulle facce dei neri. Loro sono morti ma la loro anima non li ha lasciati. Giaccionolà,pesantietenaci, in attesa che il mio piede muovailprossimopasso,che menevada,inattesadiessere richiamati in vita. Milioni di sagome di ghisa che galleggianosottolapelledella terra. L’età del ferro che attendedifareritorno. – Lei pensa che ora sono indignata ma che poi andrò avanti. Lacrime facili, pensa, lacrime sentimentali, versate oggi, scordate domani. Ebbene, è vero, mi sono indignata in passato, immaginavochenonavrebbe potuto verificarsi di peggio, ma poi il peggio è arrivato, puntualmente, e io sono andata avanti, almeno in apparenza. Ecco il problema! Per non restare paralizzata dalla vergogna ho passato la vita ad andare avanti, sopportando il peggio. Quel chenonpossopiúsopportare ora è proprio quell’andare avanti. Se vado avanti anche questavoltanonavròmaipiú un’altra occasione per non farlo. Se voglio guadagnarmi la resurrezione questa volta nonpossoandareavanti. Vercueil mi porgeva la bottiglia. Se n’era andata una buona metà. Ho spinto via la sua mano. – Non voglio piú bere–hodetto. – Beva, – ha detto – si ubriachiperunavolta. –No!–hoesclamato.Ero alticcia e la rabbia mi ha infiammato contro la sua insensibilità, la sua indifferenza.Checifacevolí? In questa vecchia auto noi due dovevamo avere l’aria degli ultimi due profughi venuti dalla zona delle platteland all’epoca della grande depressione. Ci mancavanosolounmaterasso difibradicoccoeunagabbia peripollilegatasultetto.Gli ho strappato la bottiglia di mano; ma mentre abbassavo il finestrino per buttarla via, sel’èripresa. –Escadallamiaauto!–ho dettoseccamente. Ha tolto la chiave dal cruscottoedèsceso.Ilcanelo ha seguito di slancio. Sotto i mieiocchihagettatolachiave tra i cespugli, si è voltato e, bottiglia nella mano, si è avviato speditamente giú per lacollina,versoHoutBay. Piena di rabbia ho aspettato, ma non è tornato indietro. Minuti sono trascorsi. Un’autohalasciatolastradae sièfermataaccantoame.Ne sprigionava una musica, ad alto volume e metallica. In quella congerie di suoni una coppia sedeva a contemplare il mare. Il Sudafrica, nei momentidisvago.Sonoscesa e ho bussato al finestrino. L’uomo mi ha rivolto uno sguardo inespressivo, masticando. – Potreste abbassare il volume? – ho chiesto. Ha maneggiato qualcosa, o ha fatto finta di farlo, ma il volume è rimasto invariato. Ho bussato di nuovo. Ha detto qualcosa attraversoilvetro,poiinuna nuvola di polvere ha fatto inversione ed è andato a parcheggiare dall’altro lato dellapiazzola. Ho cercato tra i cespugli doveVercueilavevagettatola chiave,mainvano. Quando l’auto è finalmenteripartita,ladonna sièvoltataaguardarmi.Ilsuo visoquasiattraenteetuttavia brutto: chiuso, contratto, come per timore che la luce, l’aria, la vita, potessero raccogliere le loro forze per colpirla. Non un volto ma un’espressione, e tuttavia un’espressione portata cosí a lungodaesseresua,daessere lei. Un ispessimento della membrana che separa il mondo dal sé interiore, un ispessimento divenuto coriaceo. Evoluzione, ma evoluzione a ritroso. I pesci delle profondità primordiali (sono certa che lo sai anche tu) hanno sviluppato membrane sensibili alla variazione della luce, membrane che con il tempo sono divenute occhi. Ora, in Sudafrica, io vedo occhi che tendono a chiudersi, squame che tendono a ricoprirli, mentre gli esploratori, i colonizzatori, si preparano a ritornarenegliabissi. Sarei dovuta venire quando mi hai invitata? Nei momenti di debolezza ho spessodesideratodiaffidarmi alla tua pietà. Che fortuna, per il bene di entrambe, che me ne sia astenuta! Non hai alcun bisogno di un albatros venuto dal passato a pesarti sul collo; e per quanto riguarda me, sarei davvero riuscitaasfuggireilSudafrica correndo da te? Come faccio asaperechelesquamenonsi stianogiàinfittendoanchesui miei occhi? Quella donna nell’auto; forse, mentre si allontanavano, stava dicendo al suo compagno: – Che vecchiaccia inacidita! Che facciacontratta! E poi, quale merito potrebbe esserci nel defilarsi ora,inquestotempo,quando lanavecrivellatadaivermista inevitabilmente affondando, in compagnia di giocatori di tennis e loschi sensali e generaliconletaschepienedi diamanti che vanno a rifugiarsinellelorotenutenei piú tranquilli angoli del mondo? Il generale G., il ministro M., nei loro possedimenti in Paraguay, chearrostisconobistecchesul carbone sotto i cieli del sud, che bevono birra con i loro pari e cantano le canzoni del paese, in attesa di passare a miglior vita nel sonno, in tardaetà,nipotiepeonescon il cappello in mano ai piedi del letto. Gli Afrikaner del Paraguay insieme agli Afrikaner della Patagonia nella loro triste diaspora: uomini robusti dal ventre dilatato e mogli grasse e collezioni di armi appese alle pareti della sala da pranzo e ricchezzecustoditeincassette di sicurezza a Rosario, che si scambiano visite la domenica pomeriggio con i figli e le figliediEichmannediBarbie; spacconi, criminali, torturatori,assassini:chebella compagnia! E poi sono troppo stanca. Stancaoltremisura,stancadi corazzarmi contro i tempi, desiderosa di chiudere gli occhi, di dormire. Cos’è la morte, dopo tutto, se non un’ascesa verso i recessi di unastanchezzaestrema? Ricordo la tua ultima telefonata.–Cometisenti?– mi hai chiesto. – Mi sento stanca, ma sto bene – ho risposto. – Me la prendo con calma. Florence è piena di energia, come sempre, e c’è un uomo ad occuparsi del giardino. – Sono contenta – hai risposto con quel tuo brusco accento americano. – Devi riposarti e cercare di rimettertiinforze. Madre e figlia al telefono. Mezzogiorno là, sera qui. Estate là, inverno qui. E tuttavia si sente cosí bene come se stessi telefonando dallaportaaccanto.Leparole frantumate, scagliate al cielo, restituite nuovamente alla loro interezza, perfette. Non piú il vecchio sistema di cavi sottomarinialegartiamema un’efficiente connessione aerea, invisibile: l’idea di te collegata all’idea di me; non parole, non alito vitale che passa tra noi, ma l’idea delle parole, l’idea di quell’alito, codificato, trasmesso, decodificato. Alla fine hai detto:–Buonanotte,mamma –eio:–Ciao,cara,grazieper aver chiamato – e ho consentito alla voce di fare una pausa sulla parola cara (quanta autocommiserazione!) con tutto il peso del mio amore, con la preghiera che il fantasma di quell’amore sopravviva alle fredde traiettorie siderali e giunga finoate. Altelefono,amoremanon verità. In questa lettera che viene da lontano (una lunga lettera!) verità e amore, finalmenteinsieme.Inognitu che io scrivo l’amore guizza tremulo come fuochi di Sant’Elmo;tuseiconmenon cometuseioggi,inAmerica, noncomeeriquandotenesei andata, ma in un modo piú profondo, in una forma immutabile: come coloro che si amano, come coloro che non muoiono. È alla tua anima che mi rivolgo, poiché è la mia anima che rimarrà con te quando la lettera sarà conclusa. Come una falena che emerge dal bozzolo, sbattendo le ali: ecco quello che spero tu intraveda leggendo;lamiaanimachesi prepara per altri voli. Una falenabianca,unospiritoche si libera dalla bocca della figura sul letto di morte. Questa lotta con la malattia, losqualloreel’odiocheprovo permestessainquestigiorni, l’insicurezza, e questo vagare poi (c’è poco da aggiungere sull’episodio di Hout Bay: Vercueil è tornato ubriaco e dicattivoumore,haritrovato la chiave, e mi ha riportato a casa, ecco tutto; forse, se si potesse sapere la verità, è stato il cane a riportarlo indietro), fa tutto parte della metamorfosi, fa parte del tentativo di liberarmi delle miespogliemortali. E dopo, e dopo la morte? Non temere, non ti perseguiterò. Non ci sarà bisognodichiuderelefinestre e sigillare il camino per impedireallabiancafalenadi volarci dentro durante la notte per posarsi sulle tue sopracciglia o sulle ciglia di uno dei bambini. La falena sarà semplicemente lí a sfiorarti appena la guancia con leggerezza quando poserai l’ultima pagina di questa lettera, prima di volarsene via per il prossimo viaggio. Non sarà la mia anima a rimanere con te ma lospiritodellamiaanima,un alito, un agitarsi dell’aria intornoaquesteparole,lapiú lieve delle correnti d’aria prodotta dall’invisibile passaggio della mia penna sulla pagina che tieni in mano. Lasciarmi andare, lasciarti andare, lasciar andare una casa ancora echeggiante di ricordi: un compito difficile, ma sto imparando. Anche la musica. Ma la musica la porterò con me, almeno quella, poiché è avviluppata nellamiaanima.Leariedella Passione di Matteo, avviluppate e annodate con mille nodi, cosí che nessuno, nientepotràscioglierli. Se Vercueil non spedirà queste carte, tu non le leggerai mai. Non saprai mai neppure della loro esistenza. Una certa porzione di verità nonverràmaiagalla.Lamia verità: come ho vissuto in questo tempo, in questo luogo. Qualèalloralascommessa che ho fatto con Vercueil, su Vercueil? È una scommessa sulla fiducia. Una richiesta da poco, portare un pacco all’ufficio postale e consegnarlo all’impiegato. Cosí poco, un nulla. La differenza che passa tra consegnare il pacco e non farlohalaconsistenzadiuna piuma. Se sarà rimasto il piú piccolo segno di fiducia, di riconoscenza o di pietà quando me ne sarò andata, alloraloporteràdicerto. Esenonlofacesse? Se non lo farà, vuol dire che non c’è fiducia e non meritiamo altro, tutti quanti, chesprofondareinunbucoe svanire. È perché non posso fidarmi di Vercueil che devo fidarmidilui. Sto cercando di tenere in vita un’anima in un tempo cheall’animaèostile. È facile fare la carità agli orfani, ai diseredati, agli affamati. Piú difficile è dare aiuto a chi ha il cuore amareggiato (sto pensando a Florence).Mal’aiutochedoa Vercueil è il piú sofferto. Lui non mi perdona di avergli datociòcheglidono.Nonv’è caritàinlui,nonv’èperdono. (Carità? dice Vercueil. Perdono?) Privata del suo perdonoiodonosenzacarità, rendo un servizio senza amore. Pioggia che cade sul deserto. Se fossi stata piú giovane avrei potuto offrirgli il mio corpo. È una di quelle cose che si fanno, si facevano, sebbene sbagliate. Invece ora metto la mia vita nelle sue mani. Questa è la mia vita, queste parole, queste tracce dei movimenti delle dita deformate sulla pagina. Queste parole, mentre le leggi,seleleggi,penetranoin te e tornano a respirare. Esse sono,sevuoi,ilmiomododi sopravvivere.Untempotusei vissuta in me cosí come un tempo io sono vissuta in mia madre; come lei vive ancora in me, mentre io torno a lei, possaiovivereinte. Affido la mia vita a Vercueil perché la porti avanti.HofiduciainVercueil perché non ho fiducia in lui. Lo amo perché non lo amo. Poichéluièlacannadeboleio miappoggioalui. Può sembrare che io comprenda ciò che dico, ma, credimi, non è cosí. Sin dal primomomento,quandol’ho trovato dietro al garage nel suo rifugio di cartone, addormentato, in attesa, non ho capito niente. Seguo a tentoni la mia via lungo un passaggiochediventasempre piú buio. Cerco la via per arrivare a te; con ogni parola cercolavia. Giorni fa ho preso un raffreddore che ora mi si è stabilito nel petto trasformandosi in tosse secca e martellante, che ad ogni attaccovaavantiperminutie mi lascia stremata e ansimante. Finché il fardello è un fardello di dolore soltanto, lo sopporto e cerco di tenerlo lontano. Non sono io a soffrire,miripeto:asoffrireè qualcun altro, il corpo di qualcuno che divide il letto con me. Cosí, con un trucco, lo tengo a distanza, lo mantengo altrove. E quando il trucco non funziona, quando il dolore insiste nel sopraffarmi, lo sopporto ugualmente. (Ma quando le onde si faranno piú impetuose, senza dubbio i miei trucchi verrannospazzativiacomele dighedelloZeeland). Ma adesso, durante gli spasmidellatosse,nonriesco amantenereledistanzedame stessa.Nonc’èmente,nonc’è corpo, ci sono solo io, una creatura sballottata qua e là, che lotta per conquistarsi l’aria,cheaffonda.Ilterroree l’ignominia del terrore! Un’altra valle da traversare sulla via che conduce alla morte. Possibile che tutto questo stia accadendo a me? Durante l’accesso di tosse penso: Ma è giusto? L’ignominia dell’ingenuità. Perfino un cane con la schiena rotta che esala l’ultimo respiro sul margine di una strada, non penserebbe:Maègiusto? Vivere, ha detto Marco Aurelio, richiede le doti dei lottatori, non l’arte dei danzatori. Stare in piedi è tutto, non occorre saper fare passettieleganti. Ieri,poichélacredenzaera vuota, sono andata a fare la spesa.Mentremitrascinavoa casaconleborse,hoavutoun brutto attacco. Tre ragazzini cheandavanoascuolasisono fermati a guardare la vecchia appoggiata al lampione con tutta la roba sparpagliata ai piedi. Mentre tossivo cercavo di scacciarli con la mano. Come dovevo apparire non osoimmaginarlo.Unadonna al volante di un’auto ha rallentato. – Si sente bene? – ha urlato. – Sono andata a farelaspesa–hoansimato.– Come? – ha ribattuto, corrugando la fronte nello sforzo di sentire. – Niente! – ho mormorato. Allora ha proseguito. Come diventiamo brutti, per l’incapacità di amare noi stessi!Persinolereginettedei concorsi di bellezza hanno l’aria arcigna. Essere brutti: checos’èsenonl’animachesi manifestaattraversolacarne? Poi, la scorsa notte è accaduto il peggio. Nella confusione del mio sonno narcotizzato e monotono si è insinuato l’abbaiare di un cane. Continuava e continuava, insistente, inesorabile, meccanico. Perché Vercueil non faceva qualcosaperfarlosmettere? Non me la sentivo di affrontarelescale.Investaglia e pantofole sono uscita sul balcone. Faceva freddo, cadevaunapioggerellasottile. – Vercueil! – ho gridato con voce roca. – Che cos’ha il cane da abbaiare cosí? Vercueil! Il cane ha smesso per un attimo, poi ha ricominciato. Vercueilnonc’era. Misonorimessaalettoma non riuscivo a dormire, il cane che abbaiava era come unmartellonelleorecchie. Ecco come succede che le vecchiecadonoesirompono ilfemore,misonodetta:ecco comevienemessalatrappola, ecco come ci si lascia intrappolare. Tenendomi al corrimano con entrambe le mani sono arrivatagiú. C’eraqualcunoincucinae non era Vercueil. Chiunque fosse non ha cercato di nascondersi. Mio Dio, ho pensato: Bheki! Mi sono sentitagelare. Nella sinistra luce che proveniva dal frigorifero aperto mi ha affrontato, una fascia bianca sulla fronte nascondeva la ferita del proiettile. – Cosa cerchi? – ho sussurrato.–Vuoimangiare? Ha risposto: – Dov’è Bheki? La voce era piú profonda, piú velata di quella di Bheki. Chi poteva essere allora? Sbalordita, ho cercato di ricordareunnome. Ha chiuso la porta del frigorifero. Adesso eravamo avvolti dall’oscurità. – Vercueil! – ho chiamato con voce gracchiante. Il cane abbaiava senza sosta. – Accorreranno i vicini – ho bisbigliato. Quando mi è passato accanto la sua spalla ha sfiorato la mia. Ritraendomi ho sentito il suo odore e ho capitochiera. Ha raggiunto la porta. Il cane ha abbaiato con piú veemenza. –Florencenonèpiúqui– ho detto. Ho acceso la luce. Gli abiti che indossava non erano i suoi. O forse è una moda. La giacca sembrava appartenere a un uomo robusto e i pantaloni erano troppo lunghi. Una manica dellagiaccaeravuota. –Comevailbraccio?–ho chiesto. –Nondevomuoverlo–ha risposto. –Vieniviadallaporta–ho detto. Ho aperto uno spiraglio e ilcaneèentratosaltellanteed eccitato. L’ho accarezzato sul naso. – Smettila subito! – gli ho ordinato. Ha guaito debolmente. – Dov’è il tuo padrone? – Ha abbassato le orecchie. Ho richiuso la porta. – Che cerchi qui? – ho chiestoalragazzo. –Dov’èBheki? – Bheki è morto. È stato ucciso la scorsa settimana mentretueriinospedale.Gli hanno sparato. È morto sul colpo. Il giorno dopo l’incidenteconlabici. Si è passato la lingua sulle labbra. C’era come un senso di disfatta, di smarrimento nelsuoaspetto. –Vuoimangiarequalcosa? Ha scrollato la testa. – Soldi. Non ho soldi – ha detto.–Perl’autobus. – Ti darò io i soldi. Ma dovevuoiandare? –Devoandareacasa. – Non farlo, ti avverto. So quello che dico, ho visto quello che sta succedendo nella zona dei Flats. Stanne alla larga finché tutto non tornaallanormalità. – Non tornerà mai la normalità. – Per favore! Conosco la storia,nonhonéiltemponé l’interesse di riprendere il discorso.Rimaniquifinchéle cose non si sistemeranno. Rimani finché non starai meglio. Perché hai lasciato l’ospedale?Seistatodimesso? –Sí.Sonostatodimesso. –Dichisonoqueivestiti? –Sonomiei. – Non sono tuoi. Dove li haipresi? – Sono miei. Me li ha portatiunamico. Stava mentendo. Non mentivamegliodiqualunque altroquindicenne. – Siediti. Ti preparo qualcosa da mangiare, poi potrai dormire un po’. Aspetta fino a domani mattina per prendere una decisionesucosafare. Ho preparato il tè. Si è seduto senza prestare ascolto alle mie parole. Non era per niente imbarazzato dal fatto che non credessi alla sua storia.Ciòcheiocredevonon aveva alcuna importanza. Cosa pensava di me? Mi prendeva almeno in considerazione?Eraunessere pensante? No: paragonato a Bheki lui era incapace di pensare,diarticolarediscorsi, privo di immaginazione. Ma luieravivoeBhekieramorto. I piú vivaci se ne vanno, gli stupidi sopravvivono. Bheki era troppo sveglio per sopravvivere. Non ho mai avuto paura di Bheki; di questo, invece, non so cosa pensare. Gli ho messo davanti una tazza di tè e un panino. – Mangia,bevi–hodetto.Non si è mosso. Con la testa sul braccio, gli occhi rovesciati all’indietro, dormiva profondamente. L’ho toccato sullaguancia.–Svegliati!–ho detto. Si è svegliato con un sobbalzo, si è raddrizzato sullasedia,hadatounmorso al panino masticando rapidamente. Poi ha preso a masticare con piú lentezza. Conlaboccapiena,èrimasto seduto, intontito per la stanchezza. Gli ho tolto il panino di mano, pensando: Quando hanno dei problemi cercanounadonna.Èvenuto daFlorence,solocheFlorence nonc’è.Nonhaunamadre? Nella stanza di Florence si è riavuto per un momento. – Labicicletta–hafarfugliato. –Èalsicuro,l’hopresaio. Ha soltanto bisogno di riparazioni. Chiederò a Vercueildidarleun’occhiata. Cosí questa casa che un tempoèstatalamiadimorae latuaadessoèunrifugio,un luogoditransito. Bambina mia, mi sento circondata da una nebbia di errori.Ètardienonsocome mettermi in salvo. Finché mi è dato confessare, è a te che affido le mie confessioni. Qual è l’errore, mi chiedi? Se potessi metterlo in una bottiglia, come un ragno, e mandartelo per farlo esaminare, lo farei. Ma è comeunanebbia,dovunquee in nessun luogo. Non posso toccarlo, afferrarlo, dargli un nome. Lentamente, con riluttanza, tuttavia, lasciami pronunciare la prima parola. Iononamoquestoragazzo,il ragazzochedormenellettodi Florence. Amo te, ma non amo lui. Non soffro per lui, neancheunpo’. Sí, mi dirai, non si fa amare. Ma non dipende anche da te se si rende odioso? Non lo nego. Ma, allo stessotempo,noncicredo.Il mio cuore non lo considera mio: ecco tutto. In cuor mio vorreicheseneandasseemi lasciasseinpace. Questa è la mia prima parola, la mia prima confessione. Non voglio morire nello stato in cui mi trovo, in uno stato di abbrutimento. Voglio essere salvata. Ma come posso trovare la salvezza? Facendo quello che non voglio fare. Questoèilprimopasso:loso. Devo amare prima di tutto coloro che mi ripugnano. Devo amare, per esempio, questoragazzo.Nonilpiccolo evivaceBheki,malui.Seluiè qui c’è una ragione. Prende parte alla mia salvezza. Devo amarlo. Ma non lo amo. E neppure voglio amarlo abbastanza da amarlo a dispettodimestessa. Poiché con tutte le mie forze non voglio essere diversa da come sono, cammino ancora in questa fittanebbia. Non c’è posto nel mio cuore per questo amore, per voler amare, per voler volere amare. Sto morendo perché in cuor mio non voglio vivere. Sto morendo perché voglio morire. Perciò lasciami pronunciare la seconda, dubbiosa parola. Se non voglio amare lui, come posso essere certa di amare te? Perchél’amorenonècomela fame. L’amore non è mai sazio,maiplacato.Quandosi ama, si ama sempre di piú. Piúamote,piúdovreiamare lui. Meno amo lui, e meno, forse,amote. Unalogicacruciforme,che mi porta dove non voglio andare! Ma mi lascerei inchiodare su quella croce se nonlovolessidavvero? Quando ho cominciato questa lunga lettera, ho pensato che la sua forza d’attrazionesarebbestatapari aquelladellemaree,chesotto leondechenesconvolgonola superficie si nascondesse una forzamagneticapotentecome quella della luna che ti conducesse a me e mi conducesse a te: il legame di sanguechelegamadreefiglia, donna a donna. Ma ad ogni giornocheaggiungo,lalettera sembra sempre piú astratta, avulsa dalla realtà, il tipo di lettera che si scrive dalle stelle, dal lontano spazio inabitato, disincarnata, cristallina, esangue. È questo ildestinodelmioamore? Ricordodicomeilragazzo sanguinasse abbondantemente, selvaggiamente, quando è stato ferito. Com’è esiguo, in confronto, il mio sanguinare qui sulla pagina. Quello che ancora esce da un cuore prosciugato. Hogiàparlatodisanguein precedenza, lo so. Ho già scrittotutto,misonoesaurita nella scrittura, mi sono dissanguata,eppurecontinuo. Questa lettera è diventata un labirinto, e io un cane nel labirinto, che corre avanti e indietro per passaggi e cunicoli, che scava e guaisce sempre negli stessi posti; snervante, snervato. Perché non chiedo aiuto, non mi rivolgo a Dio? Perché Dio nonpuòaiutarmi.Diomista cercando ma non riesce a trovarmi.Dioèunaltrocane in un altro labirinto. Io fiuto DioeDiofiutame.Iosonola cagna in calore, Dio il maschio. Mi fiuta, è ossessionato dall’idea di trovarmi e prendermi. Percorre i passaggi in su e in giú, si slancia contro il reticolato. Ma Lui è perduto comeiosonoperduta. Sogno, ma dubito che sia Dio a popolare i miei sogni. Quando mi addormento comincia un incessante andirivieni di figure dietro le palpebre, ombre senza corpo né forma, celate da una foschia,grigiobrune,sulfuree. Borodino è la parola che mi sovviene nel sonno: un caldo pomeriggio d’estate nelle pianure della Russia, fumo ovunque, l’erba secca e in fiamme, due schiere disperse che avanzano, tormentate dalla sete, terrorizzate dal pericolo cui si espongono. Centinaia di migliaia di uomini, senza volto, senza voce,prosciugati,intrappolati nel campo della carneficina, chenottedoponotteripetono quella loro marcia avanti e indietro su quella terra bruciatanelfetoredelsangue e dello zolfo: un inferno nel quale precipito non appena chiudogliocchi. Sonopiúcheconvintache sia effetto della pillola rossa, Diconal, ecco che cosa risvegliaquestelegionidentro di me. Ma senza le pillole rossenondormirei. Borodino, Diconal: fisso queste parole. Si tratta di anagrammi? Sembrerebbero anagrammi. Ma di cosa, e in qualelingua? Quando mi sveglio dal sogno di Borodino grido o piangootossiscoconlamenti che vengono dalle profondità delmiopetto.Poimicalmoe resto distesa a guardarmi intorno.Lamiastanza,lamia casa,lamiavita:l’immagineè troppo fedele per trattarsi di un’imitazione. È la realtà. Sono di nuovo qui: è sempre qui che faccio ritorno ogni volta, vomitata dal ventre della balena. Ogni volta un miracolo, non apprezzato, non celebrato, non desiderato. Mattino dopo mattino vengo rigettata, lasciata su di una spiaggia, conun’altrapossibilità.Eche cosa me ne faccio? Rimango distesa senza muovermi nella sabbia e aspetto che torni la notteconl’altamarea,chemi circondi,chemitrascininelle viscere dell’oscurità. Non del tutto venuta alla luce: una creaturaliminale,incapacedi respirare sott’acqua, a cui viene meno il coraggio di lasciarsiilmareallespalleper diventare un’abitante della terra. All’aeroporto,ilgiornoche te ne sei andata, mi hai afferrato con vigore e mi hai fissato negli occhi. – Non chiedermiditornare,mamma – hai detto – perché non verrò –. E cosí ti sei scrollata vialapolverediquestopaese dalle scarpe. Hai fatto bene. Tuttavia, c’è una parte di me sempre all’erta, sempre voltata verso nord-ovest, che desidera accoglierti, abbracciarti, se tu cambiassi idea e in qualche modo venissi a trovarmi. C’è qualcosa di tremendo ma anchediammirevoleinquella tua caparbietà, nelle lettere che scrivi, in cui, se posso essere sincera, non v’è abbastanza amore, o almeno non abbastanza di quell’amorosa cedevolezza che dà vita all’amore. Affezionata, dolce, persino fiduciosa, piena di premure per me, e non di meno sono le lettere di qualcuno divenuto estraneo, di qualcunodivenutostraniero. È forse un’accusa questa? No, ma è un rimprovero, un rimprovero che viene dal cuore. E questa lunga lettera, lo dico ora, è un richiamo nella notte, verso nord-ovest, perchétutornidame.Vienie affondamilatestaingrembo, come fanno i bambini, come facevi tu, con il naso che scavava come quello delle talpe per tornare al luogo da dove sei venuta. Vieni, dice questa lettera: non recidere il legamechetiunisceame.La miaterzaparola. Se tu ammettessi che è da me che vieni, io non dovrei dire di essere venuta dal ventredellabalena. Nonpossoviveresenzaun figlio. Non posso morire senzaunfiglio. Quello che mi porto dentro, della tua assenza, è il dolore. Io genero dolore. Tu seiilmiodolore. È forse un’accusa questa? Sí. J’accuse. Ti accuso di avermi abbandonato. Lancio a te quest’accusa, l’affido alle faucidelventochespiraverso nord-ovest. Ti scaglio contro ilmiodolore. Borodino: l’anagramma di Torna qui in una lingua qualsiasi.Diconal:chiamo. Parole vomitate fuori dal ventre della balena, informi, misteriose.Figlia. Inpienanottehochiamato Lifeline. – Consegne a domicilio? – ha chiesto la donna. – Non credo che nessunofacciapiúconsegnea domicilio ad eccezione di Stuttafords. Vuole provare conMealsonWheels? –Nonsitrattadicucinare – ho spiegato. – Posso cucinare io. Vorrei farmi recapitare la spesa. Ho dei problemi a trasportare cose pesanti. – Mi lasci il numero e la farò richiamare da un assistente sociale domani mattina–hadetto. Ho riagganciato il ricevitore. La fine arriva al galoppo. Non avevo tenuto conto che quandosicamminaindiscesa si procede sempre piú veloci. Pensavo che tutta la strada si potesse fare al passo. Sbagliato,tuttosbagliato. C’è qualcosa di avvilente nel modo in cui tutto finisce, avvilentenonsoltantopernoi ma per l’idea che abbiamo di noi, dell’umanità. Gente che giace in camere buie, nella propriasporcizia,senzaaiuto. Gente che dorme tra i cespugli sotto la pioggia. Tu non capirai comunque. Vercueilcomprenderebbe. Vercueil è scomparso di nuovo,mahalasciatoilcane. Peccato per Vercueil. Non Ulisse, non Ermes, forse neppureunmessaggero.Uno che gira a vuoto. Uno confuso, nonostante l’apparenzavissuta. Eio?SeVercueilhafallito la prova, qual era la mia? Forse la prova consisteva nel verificareseavessiilcoraggio di darmi fuoco davanti alla Casa della Menzogna? Ho vissuto quel momento un migliaio di volte mentalmente, il momento in cui accendo il fiammifero mentre le orecchie sono dolcemente frastornate e siedo affascinata e persino felice tra le fiamme, illesa, mentreivestitisiconsumano senza prender fuoco, le fiamme di un freddo colore bluastro. Com’è facile trovare un senso alla vita, penso con sorpresa, un pensiero rapido nell’ultimo istante prima che lecigliaprendanofuoco,epoi le sopracciglia, prima che la vista sia negata. Poi, dopo, non c’è piú pensiero, solo dolore(poichétuttohailsuo prezzo). Sarà piú acuto del mal di denti il dolore? Piú del travaglio del parto? Piú di quest’anca? Piú del parto elevato al quadrato? Quante pillolediDiconalpersopirlo? Farebbe parte del gioco ingoiare tutte le pillole di Diconal prima di lanciare l’auto lungo Government Avenue e oltre la catena? Si deve morire restando completamente lucidi, pienamentecoscienti?Sideve partorire la propria morte senzabeneficiodianestetici? La verità è che c’era sempre qualcosa di falso in quell’impulso, profondamente falso, non importa a quale rabbia o disperazione rispondesse. Se morirealettodoposettimane e mesi, in un purgatorio di dolore e vergogna, non serviràasalvarelamiaanima, perché dovrei essere salvata morendoindueminutiinun rogo di fiamme? Avrà fine la menzogna solo perché una vecchia malata si toglie la vita? Cambierà la vita a qualcuno, e a chi? La mia mentetornaaFlorence,come sempre. Se Florence passasse di là, con Hope al fianco e Beauty sulle spalle, rimarrebbe sconcertata dallo spettacolo? Mi dedicherebbe almeno uno sguardo? Un giocoliere, un clown, un imbonitore, penserebbe Florence: non certo una persona seria. E proseguirebbe. Che cos’è agli occhi di Florence una morte seria? Cosa otterrebbe la sua approvazione? La risposta: una morte che corona una vitadionoratolavoro;oppure che venga da sé, inaspettata, non annunciata, come uno scoppio di tuono, come un proiettiletragliocchi. Florence è il giudice. Dietrogliocchialiisuoiocchi sono immobili, misurano tutto. Un’immobilità che ha già instillato nelle figlie. Il tribunaleèilluogodeputatoa Florence; sono io a essere sotto processo. Se la vita che vivovienegiudicata,èperché perdieciannisonostatasotto osservazione nel tribunale di Florence. –Hadeldisinfettante? La sua voce mi ha fatto trasalirementreerosedutain cucina a scrivere. La sua, del ragazzo. –Va’disopra.Guardanel bagno, la porta sulla destra. Cerca nel mobiletto sotto al lavandino. È seguito un rumore di coseversate,poièridisceso.Si era tolto la benda, ho notato consorpresacheavevaancora ipunti. – Non ti hanno tolto i punti? Hascrollatolatesta. – Ma quando hai lasciato l’ospedale? –Ieri.L’altroieri. Che bisogno c’è di mentire? –Perchénonseirimastolà afarticurare? Nessunarisposta. – Devi tenere coperta la ferita, altrimenti se fa infezione ti lascerà una cicatrice –. Con un marchio comeunsegnodifrustasulla fronte per tutta la vita. Un memento. Cos’è lui per me da indurmi a rimproverarlo? Eppure ho tenuto insieme la sua carne lacerata, ho tamponato il sangue che usciva. Quanto a lungo persiste l’impulso alla maternità!Comeunachioccia che perde i pulcini e accoglie unanatroccolo,dimenticadel giallo del piumaggio, del beccoappiattito,egliinsegna a sguazzare nella sabbia, a becchettareivermi. Ho tirato fuori la tovaglia rossaehopresoatagliarla.– Non ho bende in casa – ho detto–maquestaèpulita,se nontiimportachesiarossa–. Gli ho avvolto quella striscia intorno alla testa fermandola dietro con un nodo. – Devi consultare subito un dottore, o andare in un ambulatorio perfartitogliereipunti.Non puoitenerli. Il collo rigido come un manicodiscopa.Intornoalui un odore, l’odore che deve aver scatenato il cane: paura, nervosismo. –Latestanonmifamale– ha detto, schiarendosi la gola –mailbraccio–hamossola spalla con cautela – devo tenerlofermo. – Dimmi, stai scappando daqualcuno? Èrimastoinsilenzio. – Voglio parlarti seriamente – ho detto. – Sei troppo giovane per questo genere di cose. L’ho detto a Bheki e te lo ripeto. Devi ascoltarmi. Sono piú vecchia dite,soquellochedico.Siete ancora dei bambini. Buttate vialevostreviteprimaancora disaperecos’èlavita.Quanti annihai,quindici?Aquindici anni si è troppo giovani per morire. Si è troppo giovani a diciottoanni.Troppogiovani aventuno. Si è alzato strofinando la bendarossaconlapuntadelle dita. Un pegno. Ai tempi del codicecavallerescogliuomini lottavano fino all’ultimo sangue con altri uomini e portavano il pegno della loro dama sventolante sull’elmo. Fiato sprecato predicare la prudenza a questo ragazzo. L’istintoallabattaglia,troppo forte in lui, lo trascina. La guerra: il modo in cui la natura liquida i deboli e favoriscel’accoppiamentodei forti. Ritorna coperto di gloria e il tuo desiderio sarà appagato. Sangue e gloria, sesso e guerra. E io, una vecchia, una vecchia moribonda, che lega un pegnoattornoallatestadiun ragazzo! – Dov’è Bheki? – ha chiesto. Ho scrutato il suo volto. Non aveva capito quello che gli avevo detto? Lo aveva dimenticato?–Siediti–gliho detto. Sièseduto. Mi sono sporta verso di lui. – Bheki è sottoterra – ho spiegato. – È in una cassa in fondo a una fossa con un mucchio di terra a ricoprirlo. Non lascerà mai piú quella fossa. Mai, mai, mai. Capisci: questononèungiococomeil calcio, che quando cadi, ti rialzi e torni a giocare. Gli uomini contro i quali giocate nondicono:Quelloèsoloun bambino, spariamo proiettili per bambini, proiettili giocattolo. Non ti vedono affatto come un bambino. Ti vedono come il nemico e ti odiano tanto quanto tu odi loro. Non avranno rimorsi se ti sparano: al contrario, sorrideranno compiaciuti quando cadrai e faranno un’altra tacca sulla canna del fucile. Mi ha guardato come se, colpo dopo colpo, lo stessi schiaffeggiando. Ma la mascella era immobile, le labbra serrate, non sí è concesso un brivido. Dinanzi agliocchilasolitapellicoladi nebbia. – Tu pensi che non obbediranno agli ordini – ho detto.–Tisbagli.Sonomolto disciplinati. Ciò che li trattienedallosterminaretutti i bambini maschi, tutti voi fino all’ultimo, non è compassione né umanità. È disciplina, nient’altro: ordini superiori, che possono cambiare ogni giorno. La compassione è volata dalla finestra. Questa è guerra. Ascolta quello che ti dico! So quellochedico.Tupensiche io cerchi di dissuaderti dal lottare. Ebbene, è vero. È quello che sto facendo. Ti dico: Aspetta, sei troppo giovane. Si è dimenato nervosamente. Discorsi, discorsi! I discorsi avevano pesato sulla generazione dei suoi nonni e sulla generazionedeisuoigenitori. Bugie, promesse, lusinghe, minacce: hanno camminato curvisottoilpesodituttiquei discorsi. Lui no. Lui li ha rifiutati i discorsi. A morte i discorsi! – Dici che è tempo di combattere – ho aggiunto. – Dicicheètempodivincereo perdere. Lascia che ti dica qualcosa su quel vincere o perdere. Lasciami dire qualcosa su quella o. Ascoltami. – Sai che sono malata. Sai checos’ho?Houncancro.Ho un cancro per tutta la vergogna che ho sopportato in vita mia. Ecco come si prende il cancro: per l’odio contro se stessi il corpo s’incattivisce e comincia a rodersi. – Tu dirai: A che serve consumarsi nella vergogna e nell’odio verso se stessi? Non ho voglia di sentire questa storia su come si sente lei, è solo un’altra storia, perché nonfaqualcosa?Equandolo dirai, io dirò: Sí. Dirò: Sí. Dirò:Sí. – Non posso rispondere nient’altro che Sí, quando mi fai quella domanda. Ma lasciati dire come ci si sente nel pronunciare quel Sí. È come essere sotto processo pertuttalavitaedaverequali risposte consentite due sole parole: Sí e No. Ogni volta cheprendifiatoperparlare,il giudice ti ammonisce: Sí o No; niente discorsi. Sí, rispondi.Eppuretuttelevolte senti altre parole agitartisi dentro,comequandounavita ti si agita in grembo. Non come un bimbo che scalci, non ancora, ma come accade proprio all’inizio, come l’agitarsi nel profondo di una certezza che la donna ha quandoègravida. – Non c’è solo morte dentro di me. C’è anche vita. La morte è forte, la vita è debole. Ma ho un dovere verso la vita. Devo tenerla in vita.Devo. – Tu non credi nelle parole. Tu credi che siano realisoltantoipugni,ipugni e i proiettili. Ma ascoltami: non senti che le parole che pronuncio sono reali? Ascolta! Sembrano inconsistenti come l’aria, ma vengono dal mio cuore, dal miogrembo.NonsonodeiSí, nonsonodeiNo.Ciòchevive dentro di me è qualcosa d’altro, un’altra parola. E io lotto per quella parola, a modomio,lottoaffinchénon venga soffocata. Sono come quellemadricinesichesanno che se la creatura che aspettano è femmina sarà portata via da loro e la uccideranno, perché di lei nonc’èbisogno,lafamiglia,la comunità ha bisogno di maschi dalle braccia forti. Quelledonnesannochedopo il parto qualcuno entrerà nella stanza, qualcuno con il volto coperto, prenderà il neonato dalle braccia della levatrice e, se è del sesso sbagliato, volterà loro le spalle, per riguardo, soffocandolo, premendogli il naso, tenendogli una mano sulla bocca, cosí, semplicemente. Un minuto edètuttofinito. – Piangi, se vuoi, viene detto dopo alla madre: il pianto è naturale. Ma non chiedere: Che cos’è quella cosa chiamata figlio? Che cos’è quella cosa chiamata figlia,chedevemorire? – Non fraintendermi. Tu sei un figlio, il figlio di qualcuno. Non ho niente contro i figli maschi. Ma hai mai visto un neonato? Lasciatelo dire, ti riuscirebbe difficile notare una qualche differenza tra un maschio e una femmina. Tutti i neonati hanno la medesima piega, il medesimo gonfiore tra le gambe. Il germoglio, il virgulto che distingue il maschio non è davvero gran cosa. Troppo poco per determinare la differenza tra la vita e la morte. Eppure tutto il resto, tutto ciò che è indefinito,tuttociòcheposto sotto pressione cede, è condannatoalsilenzio.Iosto difendendo ciò che è condannatoalsilenzio. – Sei stanco di ascoltare i vecchi, lo so bene. Non vedi l’ora di diventare un uomo e farecosedauomo.Seistanco di prepararti alla vita. È venuto il tempo della vita, cosí credi. Stai commettendo un errore! La vita non è seguire un bastone, una bandiera, un fucile, e vedere dovetiporterà.Lavitanonè dietrol’angolo.Seigiànelbel mezzodellavita. Èsquillatoiltelefono. – Stai tranquillo, non risponderò–hodetto. In silenzio abbiamo aspettatocheiltrillocessasse. – Non conosco il tuo nome–hodetto. –John. John: un perfetto nom de guerre. –Cheprogettihai? Sembravanoncapire. – Cosa intendi fare? Vuoi restarequi? –Devoandareacasa. –Acasa,dove? Miharivoltounosguardo ostinato, troppo stanco per pensare un’altra bugia. – Povero ragazzo sussurrato. – ho Non intendevo spiare. Ma avevo le pantofole ai piedi, la portadellastanzadiFlorence era aperta, lui mi voltava la schiena. Era seduto sul letto, impegnato con un oggetto che teneva in mano. Quando mihasentitoèsobbalzatoelo hainfilatosottolecoperte. – Che cos’hai lí? – ho chiesto. – Niente – ha risposto dandomi una di quelle occhiateimpacciate. Non avrei insistito se non avessinotatocheuntrattodel battiscopa in legno era stato diveltodalmuroeoragiaceva sul pavimento lasciando scoperta la struttura in mattonigrezzi. –Cosastaicombinando?– ho chiesto. – Perché stai mettendo a soqquadro la stanza? Èrimastoinsilenzio. –Mostramiquellochehai nascosto. Hascrollatolatesta. Ho guardato meglio il muro. C’era un buco tra i mattoni dove era stato inserito un aeratore; attraverso il buco si raggiungeval’interstiziosotto lemattonelledelpavimento. – Stai nascondendo qualcosasottoilpavimento? –Nonstofacendoniente. Hofattoilnumerochemi aveva lasciato Florence. Ha rispostounbambino.–Posso parlare con Florence Mkubukeli – ho detto. Silenzio. – La signora Mkubukeli.Florence. Mormorii,poiunavocedi donna. – Con chi vuole parlare? – Con la signora Mkubukeli.Florence. –Nonèqui. –SonolasignoraCurren– ho spiegato. – Florence lavoravaperme.Telefonoper l’amico di suo figlio, il ragazzo che si fa chiamare John,nonconoscoilsuovero nome.Èunacosaimportante. Se Florence non c’è, posso parlare con il signor Thabane? Di nuovo un lungo silenzio. Poi la voce di un uomo:–Sí,sonoThabane. – Sono la signora Curren. Si ricorda, ci siamo conosciuti. Telefono per l’amico di Bheki, l’amico di scuola. Forse non lo sa ma è statoinospedale. –Loso. – Ora ha lasciato l’ospedale, o è scappato, ed è venuto qui. Ho ragione di credere che abbia un’arma, non saprei dire di che tipo, che lui e Bheki devono aver nascosto nella stanza di Florence. Penso che sia questo il motivo per cui è tornato. – Sí – ha detto senza espressione. – Thabane, non le sto chiedendo di usare la sua autorità sul ragazzo. Ma lui non sta bene. Ha preso un brutto colpo e penso che sia emotivamente instabile. Non socomemettermiincontatto con la sua famiglia, non so neppureselasuafamigliaèa Cape Town. Non vuole dirmelo.Tuttociòchechiedo è che qualcuno venga e parli conlui,qualcunodicuiluisi fidi, e che lo porti via prima chegliaccadaqualcosa. – È emotivamente instabile.Cosaintendedire? – Intendo dire che ha bisognodiaiuto.Intendoche potrebbe non essere responsabile delle sue azioni. Intendo che ha battuto violentemente la testa. Intendo che non posso prendermi cura di lui, è al di là delle mie possibilità. Deve mandarequalcuno. –Vedrò. – No, non è abbastanza. Vogliounapromessa. – Chiederò a qualcuno di venirloaprendere.Manonso dirlequando. –Oggi? – Non posso assicurarle chesiaoggi.Forseoggi,forse domani.Vedrò. –Thabane,lascicheledica con chiarezza una cosa. Non stocercandodiistruirequesto ragazzo o chiunque altro su che cosa deve fare della propria vita. È grande abbastanza e dotato di volontà sufficiente per fare ciò che vuole. Ma queste morti, questi spargimenti di sangue in nome del cameratismo, li detesto con tuttal’anima.Pensochesiano unabarbarie.Eccoquelloche volevodire. – La linea è disturbata, signoraCurren.Lasuavoceè molto debole, molto debole e molto lontana. Spero che lei misenta. –Lasento. –Bene.Alloramipermetta di dire che non credo che lei ne capisca molto di cameratismo. – Ne capisco abbastanza, grazie. – No, non è cosí – ha risposto,moltosicurodisé.– Quando ci si getta anima e corpo nella lotta come fanno questi giovani, quando ci si preparaasacrificarelavitagli uni agli altri, senza condizioni, allora si crea un legamecheèpiúfortediogni altro legame che si possa conoscere. Questo è il cameratismo. Lo vedo tutti i giorni con i miei occhi. La mia generazione non ha conosciuto niente di simile. Ecco perché dobbiamo lasciarli andare avanti, i giovani. Li lasciamo andare avanti ma noi restiamo alle loro spalle. Questo lei non può capirlo, perché è troppo lontana. –Sonolontana,certo,–ho detto – lontana e debole. Ma nonostante tutto, temo di saperne abbastanza sul cameratismo. I tedeschi credevanonelcameratismo,e i giapponesi, e gli spartani. E ancheiguerrieridiShaka,ne sono sicura. Il cameratismo nonèaltrocheunamisticadi guerra, di assassinio e morte, mascherata dietro quello che lei chiama un legame (quale legame? D’amore? Ne dubito).Nonhosimpatiaper questo tipo di cameratismo. Fate male, lei e Florence e tutti gli altri, a lasciarvi coinvolgere, peggio, a incoraggiarlo nei bambini. È solo un’altra di quelle fredde costruzioni mentali esclusivamente maschili e intrise di morte. Ecco quello chepenso. Abbiamodiscussodimolte altre cose che non riporterò. Ci siamo scambiati le nostre opinioni. Ci siamo trovati d’accordo sul fatto di non essered’accordo. Ilpomeriggiositrascinava. Nessuno è venuto a prendere il ragazzo. Io ero a letto, intontita per le medicine, un cuscino sotto la schiena, e cercavo con un piccolo aggiustamentodopol’altrodi sopireildolore,desiderosadi dormire, terrorizzata all’idea delsognodiBorodino. L’arias’èfattapiúcupa,ha cominciato a piovere. Dalla grondaia otturata proveniva un insistente gocciolio. Il tappeto davanti all’ingresso emanava odore di urina di gatto.Unatomba,hopensato: un tomba tardoborghese. Voltavo la testa da un lato e dall’altro.Sulcuscinoicapelli grigi, sporchi, sottili. E nella stanza di Florence, nel buio che s’andava infittendo, il ragazzo, coricato sulla schiena, con la bomba o quel che sia in mano, gli occhi spalancati, non annebbiati ora, ma limpidi: pensieroso, piú che pensieroso, assorbito da visioni. Presagisce i momenti di gloria, quando si alzerà, finalmente se stesso, eretto, imponente, trasfigurato. Quando il fiore di fuoco si dischiuderà, quandolecolonnedifumosi solleveranno. La bomba stretta al petto come un talismano: come Cristoforo Colombodistesonellacabina della nave, con la bussola serrata al petto, lo strumento mistico che avrebbe dovuto guidarlo verso le Indie, le isole dei Beati. Gruppi di fanciulle con il seno scoperto loaccolgonoconcantieampi gesti delle braccia mentre lui si avvicina camminando nell’acqua bassa; a guidarlo, dinanzi a sé, l’ago che mai vacilla, che sempre indica un’unicadirezione,ilfuturo. Povero ragazzo! Povero ragazzo! Venute da chissà dovelelacrimesonosgorgate e mi hanno annebbiato la vista. Povero John, che ai vecchi tempi sarebbe stato destinato a diventare un giardiniere,amangiarepanee marmellata a pranzo, a bere daunbarattolodilattaseduto sull’uscio di servizio, in guerra ora per tutti gli umiliati e i feriti, gli oppressi eidenigrati,pertuttiipiccoli giardinieridelSudafrica! Nel freddo del primo mattino ho sentito che il cancello sul retro veniva forzato.Vercueil,hopensato: è tornato Vercueil. Poi ho sentito il campanello, uno squillo, lunghi trilli, perentori, impazienti, e ho capitochenoneraVercueil. Mi ci vogliono interi minuti adesso per fare le scale, specialmente se sono sotto l’effetto delle medicine. Mentre scendevo, nella semioscurità della casa, hannocontinuatoasuonareil campanello, a battere colpi contro la porta. – Sto arrivando! – ho gridato piú forte che ho potuto. Ma ero troppo lenta. Ho sentito il cancello sul retro aprirsi di schianto. Ne è seguita una rafficadicolpiallaportadella cucina, voci che parlavano afrikaans. Poi, sordo e insignificante, come un sasso che ne colpisca un altro, ho percepitouncolpod’armada fuoco. Poi è caduto il silenzio attraverso il quale ho udito chiaramente il tintinnio di vetriinfrantumi.–Aspettate! – ho gridato, e ho corso, realmente, ho corso, non credevo di esserne capace, precipitandomiversolaporta dellacucina.–Aspettate!–ho gridato, battendo sul vetro dellafinestra,mentrecercavo a tentoni il chiavistello e il catenaccio–Fermi,aspettate! C’era qualcuno in piedi sulla veranda, con un soprabito blu, che mi voltava la schiena. Nonostante mi abbiasentito,nonsiègirato. Ho tolto l’ultimo catenaccio, ho spalancato la porta e mi sono trovata in mezzo a loro. Avevo dimenticato di indossare la vestaglia, avevo i piedi scalzi, ero là nella mia camicia da notte bianca come, per quantopossoimmaginare,un corpo ritornato dal regno dei morti.–Aspettate!–hodetto. –Nonfateglidelmale,èsolo unbambino! Eranointre.Dueeranoin uniforme. Il terzo, che indossava un pullover con una fila di renne che correva attorno al petto, aveva una pistolapuntataversoilsuolo. – Datemi la possibilità di parlargli – ho detto, mentre mi inoltravo tra le pozzanghere formatesi nella notte. Mi hanno osservata stupiti,manonhannocercato difermarmi. La finestra della stanza di Florence era in frantumi. La stanza era avvolta nel buio; ma attraverso il buco ho intravisto una figura accucciata dietro il letto nell’angolopiúlontano. – Apri la porta, ragazzo mio – ho detto. – Non gli permetterò di farti del male, teloprometto. Era una bugia. Era perduto, non era in mio potere salvarlo. Eppure come unflussomispingevaversodi lui.Avreivolutoabbracciarlo, proteggerlo. Uno dei poliziotti mi è venuto accanto, rimanendo schiacciato contro il muro. – Gli dica di venire fuori – ha detto. Mi sono rivolta a lui come una furia. – Andatevene! – ho urlato, e sono caduta preda di un attaccoditosse. Il sole stava sorgendo, roseo, in un cielo pieno di nubiinfuga. –John!–l’hochiamatotra icolpiditosse.–Vienifuori! Non permetterò che ti tocchino. Ora l’uomo del pullover eraalmiofianco.–Glidicadi consegnarelearmi–hadetto avocebassa. –Qualiarmi? – Ha una pistola, e chissà che altro. Gli dica di consegnarcele. –Primapromettachenon glifaretedelmale. Lesueditasisonorichiuse sulmiobraccio.Hocercatodi resistere,maeratroppoforte. – Si prenderà una polmonite se resta qua fuori – ha detto. Qualcosa mi si è posato addosso da dietro: un cappotto, un soprabito, il soprabito di uno dei poliziotti.–Neemhaarbinne – ha mormorato. Mi hanno condotto in cucina e hanno chiusolaporta. Mi sono seduta, mi sono rialzata. Il soprabito puzzava di fumo di sigarette. L’ho gettato sul pavimento e ho aperto la porta. I piedi erano lividi per il freddo. – John! – ho chiamato. I tre uomini erano assiepati intorno a una radio. L’uomo che mi aveva dato il cappotto si è voltato con un’aria esasperata. – Signora,èpericolosoqui–mi ha ammonito. Mi ha ricondottoincucina,manon ha trovato la chiave per chiuderelaporta. –Èsolounbambino–ho detto. –Cilascilavorare,signora –harisposto. –Iovistoguardando–ho detto. – Osservo tutto quello che fate. Ve l’ho detto, è solo unbambino! Ha preso fiato come se stesse per rispondere, poi ha emesso un sospiro e ha aspettato che finissi di parlare. Un uomo giovane, robusto, dall’ossatura massiccia.Figliodiqualcuno, cuginodimolti.Innumerevoli cugini,innumerevolizieezii, prozie e prozii intorno a lui, dietrodilui,sopradiluicome un coro, che lo guidano, lo incitano. Cosa potevo dire? Che cosa avevamo in comune che avrebbepotutoconsentireun rapporto,aeccezionedelfatto che lui era lí per difendermi, perdifendereimieiinteressi, insensolato? –Ekstaannieaanjoukant nie–hodetto.–Ekstaanaan dieteenkant.–Iostodall’altra parte della barricata. Ma anchesull’altrasponda,l’altra sponda del fiume. Sulla riva piú lontana, e guardo indietro. Siègirato,ispezionandoil fornello,illavello,lemensole, tenendo occupata die ou damementreisuoicompagni svolgevano il loro dovere fuori.Tuttoinunsologiorno dilavoro. – Ecco tutto – ho detto. – Hofinito.Nonstavoparlando convoi,comunque. Con chi allora? Con te: sempre con te. Come vivo, comehovissuto:lamiastoria. Hasquillatoilcampanello. Altri uomini, uomini con stivali e berretti e tute mimetiche, camminavano pestandoipiediperlacasa.Si sono assiepati alla finestra della cucina. – Hy sit daar in die buitekamer – ha spiegato un poliziotto, indicando la stanza di Florence. – Daar’s net die een deur en die een venster. – Nee, dan het ons hom – ha detto uno dei nuovi arrivati. –Viavverto,osservotutto quellochefate–horipetuto. L’uomosiègiratoversodi me. – Conosce il ragazzo? – hachiesto. –Sí,loconosco. –Sapevacheèarmato? Ho alzato le spalle. – Dio salvi i disarmati di questi tempi. Qualcun altro è entrato, una giovane donna in uniformeconun’ariafrescae fragrante. – Is dit die dame dié?–hachiesto;epoirivolta ame:–Dobbiamoevacuarela casa per un po’, finché non sarà tutto finito. Non c’è qualche posto dove vorrebbe andare,amici,parenti? – Io non me ne vado. Questaècasamia. La sua cortesia, e le sue premurenonhannovacillato. – Lo so – ha detto – ma è troppo pericoloso rimanere qui. Dobbiamo chiederle di allontanarsisoloperunpo’. Gli uomini attorno alla finestra avevano smesso di parlare ora: erano impazienti che me ne andassi. – Bel die ambulans, ha detto uno di loro.–Ag, sy kan sommer by diestasiewag–harispostola donna.Poisièrivoltaame. – Venga adesso, signora... – Aspettava che le dicessi il mio nome. Non l’ho fatto. – Una bella tazza di tè caldo – haofferto. –Iononmimuovodaqui. Hannodatoallemieparole lo stesso peso che si dà a quellediunbambino.–Gaan haal ’n kombers – ha detto l’uomo–sy’samperblouvan diekoue. Ladonnaèsalitadisoprae hafattoritornoconlacoperta che avevo sul letto. Me l’ha avvolta intorno, mi ha sostenuto e mi ha infilato le pantofole. Nessun segno di disgusto per le mie gambe, per i piedi. Una brava ragazza,educataperdiventare labravamogliediqualcuno. – Ci sono delle pillole o medicineoaltrochevorrebbe portareconsé?–hachiesto. –Iononmenevado–ho ripetuto aggrappandomi alla sedia. Lei e l’altro uomo si sono scambiati parole sussurrate. Senza preavviso mi sono sentita sollevare da dietro, sotto le braccia. La donna mi hapresoperlegambe.Come fossi un tappeto mi hanno portatafinoall’uscio.Ildolore mi torturava la schiena. – Mettetemigiú!–hogridato. – Fra un momento – ha detto la donna per tranquillizzarmi. – Ho un cancro! – ho urlato.–Mettetemigiú! Cancro!Chegioiascagliare quella parola contro di loro! Li ha inchiodati là dove si trovavanocomeuncoltello.– Sit haar neer, dalk kom haar ietsoor–hadettol’uomoche mi sosteneva. – Ek het mos gesêjymoetdieambulansbel –. Con cautela mi hanno sistematasuldivano. – Dove ha male? – ha chiesto la donna, corrugando lafronte. – Al cuore – ho risposto. Sembrava perplessa. – Ho un cancronelcuore–.Alloraha capito; ha scrollato la testa come se stesse scacciando dellemosche. – Le fa male essere trasportata? – Ho sempre male – ho risposto. Ha incontrato lo sguardo dell’uomo che stava dietro di me; qualcosa è passato tra loro di cosí buffo che lei non ha potuto trattenere un sorriso. – L’ho preso bevendo dall’amaro calice – ho insistito. Cosa importava se mi credevano una svitata? – Probabilmente lo prenderete anche voi un giorno. È difficilesfuggirgli. C’è stato un frastuono di vetri rotti. Entrambi sono corsi fuori dalla stanza, mi sono alzata e zoppicando gli sonoandatadietro. Niente era mutato ad eccezionediunsecondovetro rotto.Ilgiardinosulretroera vuoto; i poliziotti, una mezza dozzina adesso, erano raggruppati sulla veranda, i fucilispianati. –Weg! – ha urlato uno di lorofuriosamente.–Kryhaar weg! La donna mi ha riaccompagnato dentro. Quandohachiusolaportac’è stata una breve esplosione, una scarica di colpi, poi un silenzio attonito, poi parole bisbigliate; proveniente da chissàdove,ilguaitodelcane diVercueil. Ho cercato di aprire la porta, ma la donna mi ha tenutoferma. –Segliavetefattodelmale nonveloperdoneròmai–ho detto. – È tutto a posto, chiameremo di nuovo l’ambulanza – ha detto, nel tentativodirabbonirmi. Ma l’ambulanza era già lí, parcheggiatasulmarciapiede. Gruppi di persone concitate vi si erano raccolte intorno, venute da ogni direzione, vicini, passanti, giovani e vecchi, bianchi e neri; dai balconidegliappartamentidi fronte la gente guardava giú. Quando la donna e io ci siamo affacciate sulla porta d’ingresso stavano trasportando il ragazzo in barella lungo il vialetto, con addosso una coperta, poi lo hanno caricato sull’ambulanza. Ho fatto per salire nell’ambulanza insieme a lui; uno degli infermieri mi ha persino sorretto per un braccio per aiutarmi; ma è intervenuto un poliziotto. – Aspetti, manderemo un’altra ambulanza per lei – ha ordinato. – Non voglio un’altra ambulanza – ho protestato. Ha assunto un’espressione gentileesconcertata.–Voglio andare con lui – ho detto, e hofattounaltrotentativoper salire a bordo. La coperta è cadutaperterra. – No – ha ordinato. Ha fatto un cenno e l’infermiere hachiusoleporte. –CheDiociperdoni!–ho sospirato. Con la coperta stretta intorno alle spalle mi sono avviata lungo Shoonder Street,lontanodallafolla.Ero quasi arrivata all’angolo quandoladonnaindivisami ha raggiunto rincorrendomi. –Devetornareacasaadesso! –mihaordinato.–Nonèpiú casa mia – ho risposto infuriata, e ho continuato a camminare. Mi ha preso per un braccio; mi sono liberata. – Sy’s van haar kop af – ha aggiunto senza rivolgersi a nessuno in particolare, rinunciandoall’impresa. In Buitenkant Street, sotto il cavalcavia, mi sono seduta per riposarmi. Un costante flusso di auto scorreva imperterrito in direzione della città. Nessuno che mi notasse. Con i capelli spettinati e la coperta rosa avreipotutofarespettacoloin Shoonder Street; qui, in mezzo ai detriti e alla sporcizia, facevo semplicemente parte di questaterradelleombre. Un uomo e una donna sono passati dall’altro lato della strada. Conoscevo la donna? Era lei che Vercueil aveva portato a casa, oppure tutte le donne che bazzicano l’Hotel Avalon e la rivendita diliquoriSollyKramerhanno le medesime gambe sottili e deturpate? L’uomo, che portava una busta di plastica annodatasullespalle,nonera Vercueil. Mi sono avvolta meglio nella coperta e mi sono sdraiata. Nelle ossa sentivo il rombo del traffico sul cavalcavia. Le pillole erano a casa, la casa in altre mani. Potevo sopravvivere senza le pillole? No. Ma volevo sopravvivere? Cominciavo a sentire quell’indifferenza e quella pace che provano gli animaliquandosentonocheè giunta la fine e s’infilano, pigri e infreddoliti, nel buco del terreno dove tutto si ridurrà al lento battito del cuore. Dietro un pilastro di cemento, in un luogo dove il sole non splendeva da trent’anni, mi sono rannicchiata sul fianco sano, per ascoltare il pulsare del dolore che poteva anche esserescambiatoperilbattito delmiopolso. Devo aver dormito. Deve esser trascorso del tempo. Quando ho aperto gli occhi c’era un bambino inginocchiato accanto a me, chetastavatralepieghedella coperta. Le sue mani frugavano sul mio corpo. – Non c’è niente per te – ho provato a dire, ma mi si era staccata la dentiera. Dieci annialmassimo,conilcranio rasato, i piedi nudi e uno sguardo duro. Dietro di lui due compagni, persino piú piccoli. Mi sono tolta la dentiera.–Lasciatemiinpace – ho detto: – sono malata, vi prenderete una malattia se nonmilasciateinpace. Lentamente si sono allontanati, come corvi, sono rimastiadaspettare. Dovevo liberarmi. Con sollievo, ho urinato là dove giacevo. Grazie a Dio fa freddo, ho pensato, grazie a Dio per questo intorpidimento: tutte le cose si accordano per rendere facileilparto. I bambini si sono nuovamente avvicinati. Ho aspettato incurante le loro mani rapaci. Il rombo delle ruote mi cullava, come una larva in un alveare, ero assorbita dal brusio del vortice del mondo. L’aria rimbombava di suoni. Migliaia di ali che passano e ripassano senza sfiorarsi. Come poteva esserci posto per tutti? Come può esserci postoneicieliperleanimedi tutti i morti? Perché, dice Marco Aurelio, esse si fondono l’una nell’altra: bruciano e fondono e cosí vengono restituite al grande ciclo. Mortedopomorte.Cenere d’ape. Il lembo della coperta è stato sollevato. Ho percepito lalucesullepalpebre,eanche freddo sulle guance dove le lacrime avevano sostato. Qualcosa mi premeva tra le labbra,spintoconforzatrale gengive. Mi sentivo soffocare emisonodivincolata.Tuttie treibambinieranointornoa me adesso, avvolti nell’oscurità, potevano anche essercene altri dietro di loro. Cosa stavano facendo? Ho tentato di spingere via la mano ma a quel punto ha premuto con piú insistenza. Un orribile suono si è sprigionatodallamiagola,un suono secco come di legna spezzata. La mano si è allontanata. – Non... – ho detto;mamidolevailpalato, era difficile pronunciare parole. Cosavolevodire?Smettila! Non vedi che non ho niente?? Nonhaipietà??Cheassurdità. Perchédovrebbeessercipietà al mondo? Ho pensato agli scarafaggi, a quei grandi scarafaggi neri con il dorso arcuato, moribondi, che muovono debolmente le zampette mentre le formiche li assalgono a frotte, mordendo le parti tenere, le giunture, gli occhi, strappando la carne della bestiola. Eraunbastone,nient’altro, un bastoncino di pochi centimetri, quello che mi ha ficcatoinbocca.Hosentitoil sapore dei granelli di sporciziacheavevaattaccati. Con la punta del bastone mi ha sollevato il labbro superiore. Mi sono scostata e hocercatodisputare.Luisiè alzato in piedi impassibile. Conilpiedenudohascalciato e una piccola pioggia di sassolini e polvere mi ha colpitolafaccia. È passata un’auto che ha proiettato sui bambini il fascioluminosodeifari.Loro si sono incamminati verso Buitenkant Street.. È ripiombatal’oscurità. Sono accadute davvero queste cose? Sí, queste cose sono avvenute. Non c’è nient’altro da dire. Sono avvenuteaunpassodaBreda Street e Shoonder Street e Vrede Street, dove un secolo fa i patrizi di Cape Town hanno dato ordini perché fossero costruite case ariose per loro e per tutti i loro discendenti, senza prevedere che un giorno, all’ombra di quelle case, sarebbero tornati arazzolareipolli. C’era come una nebbia nella mia testa, un fosco turbine. Tremavo; parossismi di sbadigli si susseguivano. Per un po’ mi è sembrato di esseresospesanelnulla. Poi,qualcosamihaalitato sulla faccia: un cane. Ho cercato di scacciarlo ma ha trovato un varco tra le mie dita. Allora ho ceduto, pensando: ci sono cose peggioridelnasoumidodiun cane, del suo alitare affannato.Holasciatochemi leccasse la faccia, le labbra, che leccasse il sale delle lacrime. Baci, se si vuole guardarlidaunaltropuntodi vista. C’eraqualcunoconilcane. Avevo riconosciuto l’odore? Era Vercueil, oppure tutti i vagabondi odorano di foglie macerate, di biancheria intima che marcisce nella cenere? – Vercueil? – ho gracchiato,eilcanehaguaito con eccitazione, facendo un profondo starnuto proprio sullamiafaccia. Unfiammiferohabrillato. Sí, era Vercueil, con tanto di cappello e tutto. – Chi l’ha lasciataqui?–hadomandato. – Io stessa – ho risposto, cercando di evitare la zona dolente del palato. Il fiammifero si è smorzato. Sonotornatelelacrime,cheil canehaprontamenteleccato. Con quelle scapole sporgenti e il torace stretto comeilcollodiungabbiano, non potevo immaginare che Vercueil potesse essere tanto forte. Ma mi ha sollevato, bagnaticcia com’ero e mi ha portato via. Ho pensato: quarant’anni da quando un uomomihapresoinbraccio. La sfortuna di essere alte. È cosí che finirà la storia: trasportatadabracciarobuste attraverso la sabbia, oltre le acque basse, oltre i frangenti, fino alle piú oscure profondità? Eravamo lontani dal cavalcavia, immersi in una pace profonda. Come stava diventando tutto improvvisamente piú sopportabile! Dov’era il dolore?Ancheildoloreeradi buon umore? – Non torniamo in Shoonder Street –hoordinato. Siamo passati sotto un lampione.Honotatolosforzo che gli segnava i muscoli del collo, sentivo il suo respiro pesante. – Mi metta giú per un momento – ho detto. Mi ha messo giú e si è riposato. Quando arriverà il momento in cui la giacca gli cadrà di dosso e grandi ali gli spunterannodallespalle? Mi ha portato su per Buitenkant Street, abbiamo attraversato Vrede Street, la strada della pace, e poi, camminando piú lentamente, vacillando prima di muovere il passo successivo, siamo arrivati in un luogo alberato, scuro. Attraverso i rami scorgevolestelle. Mihamessogiú. – Sono cosí felice di rivederla–hodetto,leparole mi venivano dal cuore, erano dette con il cuore. E poi: – Sonostataattaccatadaalcuni bambini prima che arrivasse lei. Attaccata, o profanata o esplorata, non saprei bene cosaesattamente.Eccoperché parlo in questo strano modo. Mihannoinfilatounbastone inbocca,nonriescoancoraa capire perché. Che divertimentocitrovano? – Volevano i suoi denti d’oro – mi ha spiegato. – Ottengono denaro dal monte deipegni. –Dentid’oro?Strano.Non ho denti d’oro. Mi sono tolta la dentiera in ogni caso. Eccoliimieidenti. Da qualche parte nel buio èandatoaprenderescatoloni dicartone,scatoloniaperti.Li ha distesi e mi ha aiutato a sdraiarmi. Poi, senza fretta, senzacerimonie,sièsdraiato anche lui voltandomi la schiena.Ilcanesièaccucciato tralenostregambe. –Vuoleunpo’dicoperta? –hodomandato. –Stobenecosí. Ètrascorsodeltempo. – Scusi, ma ho una sete terribile – ho sussurrato. – Non c’è dell’acqua in questo posto? Sièalzatoedètornatocon una bottiglia. L’ho annusata: vino dolce, la bottiglia mezza piena.–Ètuttoquellocheho – ha detto. L’ho buttato giú. Nonèstatod’aiutoperlasete, ma nel cielo le stelle hanno cominciato a dondolare. Tutto appariva remoto: l’odore di terra umida, il freddo, l’uomo accanto a me, ilmiostessocorpo.Comeun granchio che ripiega le chele, stanco dopo una lunga giornata, persino il dolore si era assopito. Io sono ripiombatanelbuio. Quando mi sono svegliata mi sono accorta che si era girato e mi aveva posato un bracciointornoalcollo.Avrei potuto liberarmi, ma ho preferito non disturbarlo. Cosí mentre il nuovo giorno avanzava a passi lenti, io giacevofacciaafacciaconlui, immobile. Una volta ha apertogliocchi,all’ertacome quelli di un animale. – Sono ancora qui – ho mormorato. Harichiusogliocchi. È sopraggiunto un pensiero:chi,dituttigliesseri sulla terra, conosco meglio a questo punto? Lui. Ogni singolo pelo della sua barba, ogni ruga della sua fronte mi è familiare. Lui, non tu. Perché lui è qui, accanto a me,ora. Perdonami, ho poco tempo, devo fidarmi del mio cuore e dire la verità. Cieca, ignorante, io seguo la verità, vadodovemiporta. – È sveglio? – ho mormorato. –Sí. –Iragazzisonomortitutti e due adesso – ho detto. – Li hannouccisientrambi.Losa? –Loso. – Sa che cosa è successo a casa? –Sí. –Ledispiaceseparlo? –Parlipure. – Lasci che le racconti: ho incontrato il fratello di Florence il giorno in cui Bheki è morto, fratello o cuginooquelcheè.Unuomo istruito. Gli ho detto che speravo che Bheki non si fossemailasciatocoinvolgere nella,comepossochiamarla?, nella lotta. È ancora un bambino, ho detto: Non è ancora pronto. Se non fosse per quel suo amico, non si sarebbelasciatocoinvolgere. –Inseguitohoparlatocon lui al telefono. Gli ho detto sinceramente quello che pensavo del cameratismo in nome del quale ora quei due ragazzi sono morti. Una mistica della morte, cosí l’ho definito. Ho biasimato le persone come Florence e come lui per non aver fatto nienteperscoraggiarlo. – Lui ha ascoltato educatamente. Avevo diritto allemieopinioni,mihadetto. Manonloavevoconvinto. – Ma ora mi chiedo: Che diritto ho di avere opinioni sul cameratismo o su altro ancora? Che diritto ho di desiderare che Bheki e il suo amico non avessero preso parte ai disordini? Avere opinionisottovuoto,opinioni che non interessano nessuno, è,misembra,comenonavere nulla. Le opinioni devono essere ascoltate dagli altri, ascoltate e soppesate, non soloascoltatepereducazione. Eperesseresoppesatedevono avere un peso. Thabane non ha preso in considerazione quello che ho detto. Non ha dato peso a quello che ho detto. Florence non mi sente neppure. Per Florence quello che penso non ha nessuna importanza,loso. Vercueil si è alzato, è andato dietro un albero, ha urinato. Poi, con mia grande sorpresa,ètornatoasdraiarsi. Il cane si è rannicchiato vicinoalui,latestasulcavallo dei calzoni. Con la lingua ho tastato la piaga che avevo in boccaechesapevadisangue. –Nonhocambiatoidea– ho proseguito. – Continuo a detestare questi appelli al sacrificio che finiscono con giovani morti dissanguati nel fango. La guerra non è mai ciòchefingediessere.Gratta la superficie e troverai, sempre,vecchichemandanoi giovani a morire in nome di questaoquell’altraastrazione. A dispetto di ciò che dice Thabane (non biasimo lui, il futuro arriva camuffato, se si presentasse nudo rimarremmo pietrificati alla sua vista), rimane una guerra dei vecchi contro i giovani. Libertà o morte! gridavano Bhekieisuoiamici.Paroledi chi?Noncertoleloro.Libertà omorte!,nonhodubbi,quelle due bambine fanno le prove nelsonno.No!Iovorreidire: Metteteviinsalvo! – A chi appartiene veramente la voce della saggezza, signor Vercueil? A me, credo. Eppure, chi sono io, chi sono io per avere una voce? Come posso incitarli a voltare onorevolmente le spalle a quel richiamo? Che cosa mi è dato fare se non sedere in un angolo con la boccachiusa?Iononhovoce; l’ho perduta molto tempo fa, forse non ne ho mai avuta una.Nonhovoce,eccotutto. Il resto dovrebbe essere silenzio. Ma con questa, qualunque cosa sia, questa voce senza voce, io vado avanti.Econtinuoaparlare. Stava forse sorridendo Vercueil? Aveva il volto nascosto. In un sussurro sdentatoimpastatodisibilanti hocontinuato. – Molto tempo fa è stato commesso un crimine. Quantotempofa?Nonloso. Ma certamente prima ancora del1916.Cosítantotempofa cheiocisononatadentro.Fa parte del mio retaggio. Fa partedime,ionefaccioparte. – Come ogni crimine anche quello aveva il suo prezzo.Quelprezzo,pensavo, dovrà essere pagato con la vergogna: con una vita di vergogna e con una morte vergognosa,illacrimata,inun angolo buio. L’ho accettato. Non ho cercato di sottrarmi. Nonostantenonsitrattassedi un crimine che avevo voluto io, era stato commesso in nomemio.Avoltemelasono presa con gli uomini che commettevano nefandezze (ne è stato testimone lei stesso,unarabbiavergognosa tanto stupida quanto ciò controcuisiscagliava)maho accettato anche, in un certo senso, che essi vivessero in me. Cosí che quando negli accessi di rabbia io li desideravo morti, desideravo anchelamiamorte.Innome dell’onore. Di una nozione onorabile dell’onore. Honesta mors. –Nonhoideadichecosa sia la libertà, signor Vercueil. Sono sicura che neppure Bhekieisuoiamicil’avessero. Forse la libertà è sempre e soltanto ciò che rimane inimmaginabile. Eppure, riconosciamo la sua negazione quando la vediamo, non è cosí? Bheki noneralibero,elosapeva.Lei non è libero, almeno non su questaterra,enemmenoiolo sono. Io sono nata in schiavitú e molto probabilmente morirò in schiavitú. Una vita ai ceppi, una morte ai ceppi: fa parte del prezzo, non c’è da scherzare,nédapiagnucolare. – Quello che non sapevo, quello che non sapevo (mi ascolti bene ora!) è che il prezzo era ancora piú alto. Avevo sbagliato i calcoli. In qualemomentosièinsinuato l’errore?Avevaqualcosaache fare con l’onore, con la nozione alla quale mi aggrappavo nella buona e nellacattivasorte,derivatami dall’educazionericevuta,dalle letture, secondo cui l’animo dell’uomo d’onore è invulnerabile. Sono sempre andata in cerca dell’onore, dell’onore personale, usando la vergogna quale guida. Finché provavo vergogna sapevodinonaverincontrato ildisonore.Eccoilruolodella vergogna: era un punto di riferimento, qualcosa che restava sempre al suo posto, qualcosa verso cui poter tornare, come un cieco, qualcosa da toccare, che ti indicasse il punto in cui ti trovavi. Per il resto ho mantenuto una discreta distanza dal mio senso di vergogna. Non ho esagerato. La vergogna non è mai diventata un piacere indecente;nonhamaismesso di mordermi. Non ne ero orgogliosa, me ne vergognavo.Lamiavergogna, solo mia. Cenere nella mia bocca giorno dopo giorno dopogiorno,chenonhamai smessodiavereilsaporedella cenere. –Èunaconfessionequella che faccio qui, questa mattina,signorVercueil–ho detto. – Una confessione piena per quanto è possibile. Non nascondo alcun segreto. Sonostataunabravapersona, posso confessarlo liberamente.Sonoancorauna brava persona. Ma che tempi sonomaiquesti,seessereuna brava persona non è sufficiente! – Quello che non avevo calcolatoerachemoltodipiú erarichiestocheilsoloessere buoni.Perchéc’èinflazionedi persone buone in questo paese. Ce n’è da vendere, di buoni o quasi buoni. Quello che i tempi richiedono è ben altro che la bontà. Questi tempi richiedono eroismo. Una parola che, quando la pronuncio, sembra una parola straniera sulle mie labbra. Dubito di averla mai usata prima, persino a lezione.Perchéno?Forseper rispetto. Forse per pudore. Cosí come si abbassa lo sguardo di fronte a un uomo nudo. Penso che a lezione avrei usato piuttosto l’espressione status eroico. L’eroe con il suo status di eroe. L’eroe, quell’antica figuraignuda. Un profondo ruggito è scaturito dalla gola di Vercueil.Misonosportasudi lui, ma tutto quello che vedevoeralacortabarbasulla sua guancia e un orecchio peloso. – Vercueil! – ho sussurrato. Non si è mosso. Dormiva? Faceva finta di dormire? Quanto di quello che avevo detto era rimasto inascoltato? Aveva sentito quando parlavo della bontà e dell’eroismo? Dell’onore e dellavergogna?Continuavaa essereunaveraconfessionese nonvenivaascoltata?–Mista ascoltando, oppure l’ho fatta addormentare? Sono andata dietro un cespuglio. Gli uccelli cantavano tutt’attorno. Chi l’avrebbe detto che c’era un tale tripudio di volatili nei sobborghi! Era come in Arcadia. Nessuna meraviglia che Vercueil e i suoi amici preferissero vivere all’aperto. A che serve un tetto se non solo per riparare dalla pioggia? Vercueil e i suoi compagni. Mi sono sdraiata nuovamente accanto a lui, avevo i piedi freddi e infangati. Era già piuttosto chiaro ora. Distesi su quel foglio di cartone, in quello spazio aperto, tutti i passanti avrebbero potuto vederci. Cosí dobbiamo apparire anche agli occhi degli angeli: persone che si muovono in case di vetro, ogni nostro gesto visibile. Visibili anche i nostri cuori, che battono in petti di vetro. Il canto degli uccelli ci investiva come una pioggiadall’alto. –Misentopropriomeglio questamattina–hodetto.Ma forse dovremmo tornare adesso. Il miglioramento è sempre un avvertimento del peggiochedevevenire. Vercueil si è seduto, si è tolto il cappello, si è grattato la testa con le lunghe unghie sporche. Il cane ritornato trotterellando da una delle suesortitesiagitavaintornoa noi. Vercueil ha ripiegato il cartoneelohanascostoinun cespuglio. – Lo sa che mi è stato asportatounseno?–hodetto all’improvviso. Sembrava irrequieto, imbarazzato. – Adesso mi dispiace, certo. Mi dispiace avere questo marchio. Diventa come voler vendere un mobileconunosfregioocon una bruciatura. È una sedia ancora in buone condizioni, dici, ma alla gente non interessa. Alla gente non piacciono gli oggetti segnati. Sto parlando della mia vita. Possononessereperfetta,ma è pur sempre una vita, non una vita a metà. Ho pensato divenderlaodispenderlaper salvareilmioonore.Machila accetterebbe nel suo stato attuale? È come tentare di spendere una dracma. Una moneta valida altrove, ma non qui. Dalle caratteristiche sospette. – Ma non mi sono ancora del tutto arresa. Sto ancora cercando qualcosa per cui valga la pena vivere. Lei ha deisuggerimenti? Vercueil si è rimesso il cappello,seloèsistematoper bene prima davanti e poi dietro. – Mi piacerebbe comprargliene uno nuovo – hodetto. Ha sorriso. Mi sono attaccata al suo braccio; lentamente ci siamo incamminati lungo Vrede Street. – Lasci che le racconti il sognochehofatto–hodetto. – L’uomo del sogno non aveva il cappello, ma penso che fosse lei. Aveva lunghi capelli oleosi pettinati all’indietro–.Lunghieoleosi; sporchi, anche, che pendevano sulle spalle come tantecodeditopo;maquesto nonl’hodetto. – Eravamo al mare. Mi stava insegnando a nuotare. Mi teneva per le mani e mi tirava mentre io, lunga distesa, scalciavo. Indossavo un costume lavorato ai ferri, di quelli che si usavano ai vecchi tempi, azzurro. Ero bambina. Ma nei sogni si è semprebambini. – L’uomo mi tirava camminando all’indietro nell’acqua, fissandomi negli occhi.Avevagliocchicomei suoi. Non c’erano onde, solo qualche piccola increspatura sull’acqua, che brillava nella luce. Anche l’acqua era oleosa. Quando il suo corpo smuoveva la superficie, un’onda lo investiva con la densa lucentezza propria dell’olio. Ho pensato tra me: olio di sardine; io sono la piccola sardina, mi sta portando al largo nell’olio. Volevo dirgli Torna indietro, manonosavoaprirelabocca per paura che l’olio vi fluisse dentro e allagasse i polmoni. Annegare nell’olio: non ne avevoilcoraggio. Ho fatto una pausa per farloparlare,maèrimastoin silenzio. Abbiamo voltato l’angolodiShoonderStreet. –Naturalmentenonlesto raccontandoilsognoinmodo del tutto innocente – ho detto.–Ilraccontodettagliato diunsognonascondesempre unsecondofine,maquale? –Ilgiornoincuil’hovista per la prima volta dietro al garageerailgiornoincuiho avuto la brutta notizia sulle mie condizioni, sul mio caso. Era piú che una coincidenza. Mi sono chiesta se lei non fosse, perdoni la parola, un angelovenutoamostrarmila via.Naturalmentenonloera, non lo è, non può esserlo, lo sobene.Maquestaèsolouna metà della storia, non è cosí? Percepiamo le cose per metà, maperl’altrametàlecreiamo anche. – Cosí ho continuato a raccontarmi storie in cui lei mimostrailcamminoeiola seguo. E se non proferisce parola,èperché,midico,agli angeli non è dato parlare. L’angelo cammina avanti, la donnasegue.Luihagliocchi aperti,luivede;leihagliocchi chiusi, è ancora immersa nel sonno terreno. Ecco perché continuo a rivolgermi a lei per farmi guidare, per avere aiuto. La porta d’ingresso era chiusamailcancellosulretro era spalancato. I vetri rotti noneranostatispazzativia,la portadellastanzadiFlorence pendeva sbilenca. Ho abbassato lo sguardo, camminando cautamente, non ancora preparata a guardare nella stanza, non ancoraforteabbastanza. La porta della cucina non era chiusa. Non avevano trovatolachiave. –Vengadentro–hodetto aVercueil. Lacasaeraenoneracome era stata. In cucina c’erano cose fuori posto. Il mio ombrelloeraappesodovenon eramaistatoprima.Ildivano era stato spostato e aveva lasciato scoperta una vecchia macchia sul tappeto. E su tutto uno strano odore: non di fumo di sigarette e sudore ma qualcosa di piú pungente epenetrantechenonriuscivo a identificare. Hanno lasciato il loro marchio su tutto. Ho pensato:lavoratorimeticolosi. Alloramisonoricordatadelle cartesulloscrittoio,lalettera, tutte le pagine scritte sinora. Anche quella! Ho pensato: avranno letto anche quella! Dita sudice hanno voltato le pagine, occhi che non conoscono amore hanno scrutato le nude parole. – Mi aiuti a salire di sopra – ho chiestoaVercueil. La cartellina, lasciata aperta l’ultima volta che ho scritto, adesso era chiusa. La serratura dell’archivio era rotta. C’erano dei vuoti tra i librisugliscaffali. Le due stanze inutilizzate eranostateentrambeforzate. Avevano frugato nell’armadio,nellacassettiera. Non è stato risparmiato niente. Come nell’ultima visita dei ladri. La ricerca un mero pretesto. Il vero fine è toccare, manipolare tutto. Con spirito malvagio. Come lo stupro: un modo per insozzareunadonna. Mi sono voltata verso Vercueil, ero senza parole, nauseata. – C’è qualcuno di sotto – hadetto. Dal ballatoio potevamo udirequalcunocheparlavaal telefono. La conversazione si è interrotta. Un giovane in uniforme è comparso nell’ingresso e ci ha salutati conuncennodelcapo. –Cosacifaincasamia?– glihochiesto. –Èsolouncontrollo–ha risposto gaiamente. – Non volevamo che degli estranei entrassero in casa –. Si è ripreso cappello, cappotto e fucile. Era del fucile quell’odore? – Gli investigatori saranno qui alle otto – ha annunciato. – Io aspetterò di fuori –. Ha sorriso; sembrava credere di avermi reso un servizio; sembrava aspettarsi un ringraziamento. –Devofareunbagno–ho dettoaVercueil. Ma non ho fatto il bagno. Ho chiuso la porta della cameradaletto,hopresodue delle pillole rosse e mi sono sdraiata tremante da capo a piedi.Iltremoreèpeggiorato fino a scuotermi come una foglia durante una bufera. Avevo freddo ma il tremito noneradovutoalfreddo. Un minuto alla volta, mi sono detta: non crollare proprio adesso, pensa solo al prossimoistante. Iltremitosièplacato. L’uomo, ho pensato: l’unica creatura per cui una parte dell’esistenza è affidata all’ignoto, al futuro, come un’ombra che si allunghi davanti a lui. Che si ostina a tentare di raggiungerla, quell’ombra che avanza, per trovare una dimora nell’immagine della sua speranza.Maio,iononposso permettermi di essere uomo. Devo essere qualcosa di piú piccolo, di piú cieco, di piú vicinoallaterra. Ho sentito bussare e poi Vercueilèentratoseguitodal poliziottocheieriindossavail maglioneconlerenne,orain giacca e cravatta. Ho ricominciato a tremare. Ha fatto cenno a Vercueil di lasciare la stanza. Mi sono seduta in mezzo al letto. – Non se ne vada, signor Vercueil – ho detto; e poi al poliziotto:–Chedirittohadi entrareincasamia? – Ci preoccupavamo per lei –. Non sembrava affatto preoccupato. – Dov’era la notte scorsa? – E poi, visto che non rispondevo: – È sicura di poter stare da sola, signoraCurren? Nonostantetenessistrettii pugni,iltremoreèaumentato fino a scuotermi convulsamente.–Iononsono sola! – gli ho gridato. – È lei cheèsolo! Non si è lasciato scoraggiare. Anzi, sembrava incitarmiacontinuare. Datti un contegno, ho pensato!Tirinchiuderanno,ti dichiareranno folle e ti porterannovia! – Che cosa vuole? – ho chiestoconpiúcalma. – Voglio solo farle alcune domande. Come ha conosciuto quel ragazzo, Johannes? Johannes: era dunque quello il suo vero nome? Sicuramenteno. – Era un amico del figlio della mia domestica. Un compagnodiscuola. Ha tirato fuori dalla tasca unregistratoreelohaposato sullettoaccantoame. –Edov’èilfigliodellasua domestica? – È morto e sepolto. Sicuramente sa già queste cose. –Checosaglièsuccesso? –Glihannosparatolaggiú, nellazonadeiFlats. –Ecenesonoaltrichelei conosce? –Altricosa? –Altriamici. – Migliaia. Milioni. Piú di quantinepossacontare. – Intendevo, altri di quel gruppo. Ce ne sono altri che hannousatolasuacasa? –No. – E sa come sono arrivate quellearminelleloromani? –Qualiarmi? – Una pistola. Tre detonatori. – Non ne so nulla di detonatori. Non so neppure cosasiaundetonatore.Mala pistolaeramia. –Gliel’hannorubata? –L’hoprestataaloro.Non aloro,alragazzo,aJohn. –Gliel’hadatalei?Erasua lapistola? –Sí. – Perché gli ha dato la pistola? –Perchésidifendesse. – Perché si difendesse da chi,signoraCurren? – Perché si difendesse dagliattacchi. –Echetipodipistolaera, signora Curren? Può mostrarmiilportod’armi? – Non ne so niente di tipi dipistole.Cel’avevodatanto tempo, prima che cominciassero a fare tante storiesulportod’armi. – È sicura di avergliela data? Sa che stiamo parlando diunreatoperseguibile. Le pillole cominciavano a fare effetto. Il dolore nella schiena pareva già piú distante, gli arti cominciavano a rilassarsi, l’orizzonte si allargava di nuovo. – Vuole davvero proseguire con queste assurdità?–hodetto.Misono sdraiataehochiusogliocchi. Mi girava la testa. – Stiamo parlando di persone morte. Non potete piú fargli niente adesso. Sono salvi. Avete già eseguito le condanne. Perché preoccuparsi di un processo? Perché non dichiarate chiuso ilcaso? Ha ripreso il registratore, ha maneggiato i tasti, lo ha rimesso sul cuscino. – Un semplicecontrollo–hadetto. Conunlanguidogestodel braccio ho spinto via il registratore. Lo ha afferrato primachecadesseperterra. – Avete frugato tra le mie carte private – ho detto. – Avete preso libri che mi appartengono. Li rivoglio indietro. Voglio tutto indietro. Tutte le mie cose. Non sono cose che vi riguardano. –Nonlimangeremoisuoi libri,signora.Riavràtuttoalla fine. – Non rivoglio tutto alla fine. Rivoglio tutto adesso. Sonomiei.Sonocoseprivate. Ha scrollato la testa. – Questa storia non è privata, signora Curren. Lo sa bene. Nonc’èpiúnientediprivato. Il torpore aveva raggiunto la mia lingua ora. – Se ne vada – ho detto con la bocca impastata. – Ancora qualche domanda. Dov’era la scorsa notte? –ConilsignorVercueil. – È questo il signor Vercueil? Mi costava un grande sforzo aprire gli occhi. – Sí – homormorato. –ChièilsignorVercueil? –Epoiconuntonodeltutto differente:–Wieisjy? – Il signor Vercueil si occupadime.Èilmiobraccio destro.Vengaqui,Vercueil. Ho allungato il braccio trovando la stoffa del pantalone di Vercueil, poi la sua mano, la mano invalida conleditaanchilosate.Conla presa insensibile, rapace, tipica dei vecchi mi ci sono aggrappata. –InGoodsnam–hadetto il detective, già lontano, altrove. In nome di Dio: una mera esclamazione, o un’imprecazione lanciata a noidue?Holasciatolapresa, cominciavo a scivolare lontano. Miècomparsadavantiuna parola: Thabanchu, Thaba Nchu. Ho cercato di concentrarmi. Nove lettere, anagramma di cosa? Con grandesforzohospostatolab all’inizio. Poi mi sono addormentata. Mi sono svegliata assetata, confusa, dolorante. Il quadrante dell’orologio mi fissava, ma non riuscivo a distinguerelelancette.Lacasa era silenziosa del silenzio dellecaseabbandonate. Thabanchu: banch? bath? Conmaniintorpiditemisono liberata dal lenzuolo che mi avvolgeva. Devo fare un bagno? Ma i piedi non mi hanno condotta in bagno. Tenendomi al corrimano, piegata in due, lamentandomi, sono scesa di sottoehochiamatoilnumero di Guguletu. Il telefono squillava e squillava. Poi, finalmente, qualcuno ha risposto, la voce di un bambino,unabambina.–C’è il signor Thabane? – ho chiesto. – No. – Allora posso parlare con Florence Mkubuleki? No, non Mkubuleki, Mkubukeli? – La signora Mkubukeli non abita qui.–Malaconoscialmeno? –Sí,laconosco.–Lasignora Mkubukeli? – Sí. – E tu chi sei?–SonoLily.–Li-li.–Sei solaincasa?–C’èanchemia sorella. – Quanti anni ha tua sorella? – Ha sei anni. – E quantiannihaitu?–Dieci.– Puoi portare un messaggio alla signora Mkubukeli, Lily? –Sí.–Riguardasuofratello,il signor Thabane. Deve dirgli di stare attento. Dille che è molto importante. Il signor Thabanedevestareattento.Io sono la signora Curren. Puoi scrivertelo? E questo è il mio numero –. Ho dettato il numero, ho sillabato il mio nome. Curren: sei lettere, anagrammadicosa? Vercueil ha bussato ed è entrato. – Vuole mangiare qualcosa?–hadetto. – Non ho fame. Ma lei si prepari qualcosa con quello chec’è. Volevo stare da sola. Ma luièrimastolíemiguardava con curiosità. Ero seduta a letto, i guanti infilati, il notes sulle ginocchia. Per mezz’ora ero rimasta a contemplare la paginabianca. –Aspettosolochelemani siriscaldino–hodetto. Ma non erano le mani fredde a impedirmi di scrivere. Erano le medicine, che ora prendevo in dosi maggiori e piú frequentemente. Sono come fumogeni. Le ingoio ed esse sprigionano una nebbia dentro di me: la nebbia dell’estinzione. Non posso prendere le pillole e continuareascrivere.Dunque senza dolore niente scrittura: una nuova terribile regola. Solo che una volta prese le pillole, niente piú è cosí terribile, tutto torna indifferente,indifferenziato. Nonostante tutto, scrivo. Nel cuore della notte, con Vercueil che dorme di sotto, io riprendo questa lettera per dirti un’ultima cosa a proposito di «John», quel ragazzo testardo per il quale nonhomaiprovatosimpatia. Volevo dirti che, nonostante la mia antipatia per lui, ora è conme,piúpalesemente,piú acutamente di quanto non lo siamaistatoBheki.Luiècon meoiosonoconlui:conluio con il suo fantasma. Ora è notte fonda, ma è anche il grigio del mattino in cui se n’eandato.Iosonoquialetto, masonoanchenellastanzadi Florenceconlasuafinestrae lasuaportaenessun’altravia d’uscita. Fuori dalla porta uomini attendono, acquattati come cacciatori, per regalare al ragazzo la sua morte. Lui tieneingrembolapistolache, per un breve intervallo di tempo, tiene a bada i cacciatori; quello era il loro grande segreto, suo e di Bheki, quello che avrebbe fatto di loro degli uomini; io sono al suo fianco o mi libro sudilui.Tienelacannadella pistola tra le ginocchia; la fa scorrere su e giú. Sta in ascolto delle voci di fuori, io ascolto con lui. Si sta preparando per il fuoco che soffocherà i suoi polmoni, il calcio che spalancherà la porta,iltorrentedifuocoche lo spazzerà via. Si sta preparando per sollevare la pistola in quell’istante e spararel’unicocolpocheavrà il tempo di sparare nel cuore dellaluce. Non batte ciglio, gli occhi fissi alla porta attraverso la quale sta per lasciare il mondo.Halaboccasecca,ma non ha paura. Il cuore batte ritmicamente nel petto come unpugno,siapreesichiude. I suoi occhi sono aperti mentreimiei,nonostantestia scrivendo,sonochiusi.Imiei occhi sono chiusi perché possanovedere. In questo lasso di tempo nonc’ètempo,sebbeneilsuo cuorebattauntempo.Iosono qui nella mia stanza in piena notte ma sono anche con lui, sempre, come sono con te oltrel’oceano,libratainvolo. Un tempo sospeso, ma non eterno. Un tempo presente, una sospensione, prima del ritorno del tempo in cui la porta si spalanca e noi incontriamo, prima lui, poi io, l’immenso bagliore accecante. IV. Ho sognato Florence, era un sogno o una visione. Nel sogno la vedo di nuovo camminare lungo Government Avenue, con HopepermanoeBeautysulla schiena.Tutteetreindossano una maschera. Ci sono anch’io,alcentrodiunafolla di persone d’ogni tipo e condizione. C’è aria di festa. Iocostituiscol’attrazione.Ma Florence non si ferma a guardare. Lo sguardo fisso dinanziasé,passaoltrecome se camminasse in mezzo a un’adunatadispettri. Gli occhi della sua mascherasonocomegliocchi delle raffigurazioni nelle antiche culture mediterranee: grandi, ovali, con la pupilla nel centro: gli occhi a mandorladiunadea. Io mi trovo di fronte agli edifici del Parlamento, circondata dalla folla, ed eseguo i miei giochi di prestigio con il fuoco. Dietro di me torreggiano grandi querce.Malamiamentenon è concentrata sui giochi. Osservo Florence. Il suo cappotto scuro, il suo vestito trasandato sono spariti. Con la sottoveste bianca smossa dalvento,ipiedinudi,ilcapo scoperto e cosí pure il seno e la spalla destra, procede; una delle bambine, mascherata, nuda, le trotterella speditamente accanto, l’altra allungaunbraccioaldisopra della sua spalla per indicare qualcosa. Chi è questa dea che appare nella visione con il seno scoperto fendendo l’aria? È Afrodite, ma non Afrodite la dolce sorridente, patrona del piacere: una piú arcaicafigura,unafiguradella necessità, di grida nel buio, acute e laceranti, di terra e sangue, che compare per un istante,simostra,escompare. La dea non pronuncia richiami, non fa cenni. Il suo occhioapertomavacuo.Vede manonvede. In fiamme, impegnata nel mio numero, io rimango paralizzata. Le fiamme che escono da me sono azzurrine come il ghiaccio. Non provo dolore. È una visione legata al tempo del sogno della scorsa notte ma è anche fuori dal tempo. Per sempre la dea procede lenta, per sempre rapitainunaposadisorpresa e rimpianto, ma io non la seguo. Sebbene io continui a scrutare nel vortice dal quale è emersa la visione, la scia della dea e delle sue figlie divinerimanevuota:ladonna che dovrebbe passare al suo seguitononèlà,ladonnacon serpidifuocotraicapelliche agitalebracciamentregemee danza. Ho raccontato il sogno a Vercueil. – È vero? – mi ha domandato. –Vero?Certocheno.Non èneppureautentico.Florence nonhanullaachefareconla Grecia. Le figure che compaiono in sogno hanno sempre un altro significato. Sono segni, segni che stanno peraltrecose. –Eranovere?Leieravera? – ha ripetuto, interrompendomi, rifiutando dilasciarsisviare.–Chealtro havisto? –Chealtro?C’èdell’altro? Lei lo sa? – ho detto piú dolcemente, seguendo il filo deisuoipensieriora. Ha scrollato la testa confuso. – Da quando ci siamo incontrati – ho detto – io sonorimastasullaspondadel fiume ad aspettare il mio turno. Aspetto qualcuno che vengaemiconducadall’altra parte. Ogni istante, ogni giorno lo passo qui in attesa. Ecco cos’altro vedo. Lo vede anchelei? Nonharisposto. – La ragione per cui mi ostino a non voler tornare in ospedaleècheinospedalemi metterebbero a dormire 1. Questa è l’espressione che si usa per gli animali, per benevolenza, ma potrebbe essere usata anche per le persone. Mi farebbero dormire un sonno senza sogni. Mi farebbero ingoiare foglie di mandragora per farmi assopire, per farmi cadere nel fiume e allora annegherei e sarei trascinata via.Nonvoglioattraversareil fiume a quel modo. Non posso permettere che accada. Sono arrivata troppo oltre. Nonpossopermetterechemi chiudanogliocchi. –Checosavuolevedere?– hachiestoVercueil. –Vogliovederecomeleiè realmente. Ha alzato le spalle, diffidente.–Echisonoio? – Soltanto un uomo. Un uomo venuto senza essere stato invitato. Di piú non possoancoradire.Elei? Hascrollatolatesta.–No. – Se vuole fare qualcosa per me – ho detto – può aggiustare l’antenna della radio. – Non vuole che porti di soprailtelevisore,invece? –Mivieneilvoltastomaco a guardare la televisione. Mi favomitare. – La televisione non può dare il vomito. Sono solo immagini. – Non esiste niente di cui si possa dire: sono solo immagini. Ci sono uomini dietroleimmagini.Invianole loroimmaginipernausearela gente.Losacosaintendodire. – Le immagini non possonodareilvomito. Qualche volta fa cosí: mi contraddice, mi provoca, mi stuzzica, in attesa dei primi segnalidiirritazione.Èilsuo modo di canzonarmi, cosí maldestro, cosí sgraziato che mifatenerezza. – Aggiusti l’antenna, per favore, è tutto quello che le chiedo. Èandatodisotto.Qualche minuto dopo ho udito il suo passo pesante su per le scale ed è tornato con il televisore tralebraccia.Lohaposatodi frontealletto,lohacollegato alla presa, lo ha acceso, ha armeggiatoconl’antennaesi è fermato lí accanto. Era pomeriggio. Contro un cielo turchino sventolava una bandiera. La banda suonava l’innodellaRepubblica. –Spenga–hoordinato. Ha alzato ancora di piú il volume. –Spenga!–hourlato. Si è girato di scatto, incrociando il mio sguardo furioso. Poi, con mia grande sorpresa, ha cominciato a muovere i piedi ritmicamente. Dondolando i fianchi, tendendo le braccia, schioccando le dita, ha improvvisato una danza, un vero e proprio ballo, al ritmo di una musica che non avrei mai pensato adatta al ballo. Canticchiava anche le parole. Quali? Sicuramente non quellecheioconoscevo. – Spenga! – ho gridato di nuovo. Una vecchia, sdentata e infuriata: dovevo essere uno spettacolo. Ha abbassato il volume. –Spenga! Ha spento il televisore. – Non se la prenda cosí – ha mormorato. – E allora non sia sciocco, signor Vercueil. E non mi prendaingiro.Nonsiprenda giocodime. – Sí, ma perché prenderselatanto? – Perché ho paura di andare all’inferno e di dover sentire Die stem per tutta l’eternità. Hascrollatolatesta.–Non si preoccupi, – ha detto – finiràtutto.Abbiapazienza. – Non ho abbastanza tempo per avere pazienza. Forseleihatempo,maiono. Hascossodinuovoilcapo. –Forseancheleihatempo– hasussurrato,rivolgendomiil suo sorriso lascivo e pieno di denti. Èstatoperunistantecome se il firmamento si fosse spalancato con un’esplosione di luce. Affamata di buone notizie dopo una vita di cattive notizie, incapace di trattenermi, gli ho sorriso. – Davvero?–hodetto.Hafatto cennodisíconlatesta.Come due folli ci sorridevamo l’un l’altra. Ha schioccato le dita per sottolineare il momento; impacciato come un pellicano, tutto piume e ossa, haripetutounpassodellasua danza. Poi se ne è andato, è salitosullascala,hariparatoil cavo rotto, e io ho riavuto la miaradio. Ma cosa c’era da sentire? Le onde radio traboccanti degli annunci commerciali di tuttelenazionichevendonoi loro prodotti, tanto che la musica ne esce come soffocata. Mi sono addormentata con Un americanoaParigiemisono risvegliata con l’insistente picchiettare dell’alfabeto morse. Da dove proveniva? Daunanaveinaltomare?Da unqualchevecchiovaporetto che solca le acque tra Walvis Bay e l’isola di Ascensione? I punti e i trattini si susseguivano senza fretta, senza inciampi, in un flusso che prometteva di rimanere tale in eterno. Qual era il messaggio? Era importante? Quel picchiettare, come pioggia, una pioggia di significato,mieradiconforto, rendeva sopportabile la notte mentre giacevo in attesa che si avvicinasse l’ora della prossimapillola. Dicochenonvoglioessere messaadormire.Malaverità è che senza il sonno non resisterei. Qualunque cosa porti con sé, il Diconal almeno porta il sonno, o un simulacrodelsonno.Quando il dolore si ritira, quando il tempo accelera, quando l’orizzonte si alza, l’attenzione, concentrata come una lente ustoria sul dolore, può allentarsi per un po’; posso tirar fiato, dischiudere i pugni serrati, stendere le gambe. Ringrazia per questo momento di misericordia, mi dico: per il corpo malato ma intorpidito, per l’anima assonnata, per metà fuori dal bozzolo, che cominciaafluttuare. Ma la tregua non è mai lunga. Le nuvole mi ricoprono, i pensieri si riaddensano per prendere la forma di un fitto sciame di mosche rabbiose. Scuoto il capo e cerco di scacciarli via. Questa è la mia mano, dico, mentrespalancogliocchiper fissarelevenechenesolcano ildorso;questoèilcopriletto. Poi,rapidocomeunfulmine, qualcosa si abbatte. Un momento sono persa, un momento dopo sono lucida, ancora là a fissare la mano. Tra questi due istanti un’ora può essere trascorsa o il battito di un ciglio durante il quale io ero assente, perduta, in lotta contro qualcosa di denso e gommoso che m’invadelaboccaeafferrala lingua alla radice, qualcosa chevienedalleprofonditàdel mare. Emergo scrollando la testa come un nuotatore. In gola un sapore di bile, di zolfo. Pazzia! Mi dico: ecco qualèilsaporedellapazzia! Una volta mi sono svegliata con la faccia rivolta almuro.Avevounamatitain mano, la punta spezzata. Dappertutto, sul muro, c’erano segni obliqui e sgangherati, privi di senso, prodottidameodaqualcuno dentrodime. Ho telefonato al dottor Syfret. – Il Diconal mi fa semprepiúunostranoeffetto – ho spiegato, cercando di descrivere il tipo di reazione. – Mi chiedo se non ci sia qualcosa di alternativo che possaprescrivermi. – Non credevo che si considerasse ancora una mia paziente – ha risposto il dottor Syfret. – Dovrebbe essere in ospedale, dove potrebbero curarla. Non possovisitarlapertelefono. – Non le chiedo molto – ho detto. – Il Diconal mi dà delle allucinazioni. Non c’è nient’altro che possa prendere? – E io le dico che non posso darle delle cure senza visitarla.Nonèmiaabitudine farlo, né lo fanno i miei colleghi. Sono rimasta in silenzio percosítantotempochedeve averpensatochefossecaduta la linea. La verità era che vacillavo. Ma non capisce?, volevo dirgli: sono stanca, stanca da morire. In manus tuas: mi affido alle sue mani, si occupi di me, oppure, se non può, faccia ciò che si avvicina di piú a quello che chiedo. – Mi consenta un’ultima domanda – ho detto. – Le reazioni che ho io, le hanno avuteanchealtrepersone? –Ognipazientereagiscein modo diverso ai medicinali. Sí, è possibile che le sue reazioni siano dovute al Diconal. – Allora se per caso le si intenerisceilcuore–hodetto – potrebbe ordinare una nuova prescrizione telefonando alla farmacia AvaloninMillStreet?Nonmi faccio illusioni sulla mia condizione, dottore. Non ho bisognodicure,solodiaiuto persopireildolore. –Eseleicambiasseideae volesse vedermi, in qualunquemomento,signora Curren, a qualsiasi ora del giorno e della notte, non ha chedatelefonare. Un’ora piú tardi ha squillato il campanello. Era il corriere della farmacia che portavalanuovamedicinain una dose per quattordici giorni. Ho telefonato al farmacista. – Tylox, – ho chiesto – è il piú forte che esiste? –Checosaintende? – Intendo, è l’ultimo che prescrivono? – Non è cosí che vanno le cose, signora. Non c’è un primoeunultimo. Ho preso due delle nuove pillole. Ancora una volta il miracoloso recedere del dolore,l’euforia,lasensazione del ritorno alla vita. Mi sono fatta il bagno, sono tornata a letto, ho cercato di leggere, sonosprofondatainunsonno confuso. Nel giro di un’ora erodinuovosveglia.Ildolore si stava insinuando, accompagnatodaunsensodi nausea e dalla prima punta della familiare ombra di depressione. La medicina contro il dolore: un raggio di luce, ma poibuioraddoppiato. Vercueilèentrato. –Hopresolenuovepillole – ho detto. – Non c’è miglioramento. Forse sono solo un po’ piú forti; ecco tutto. – Ne prenda un’altra – ha detto Vercueil. – Non è obbligataadaspettarequattro ore. Il consiglio di un alcolizzato. – Lo farò di certo – ho detto. – Ma se sono libera di prenderle quando voglio, perché non prenderle tutte insieme? Tranoiècadutoilsilenzio. –Perchéhasceltoproprio me? –Nonl’hoscelta. – Perché è venuto qui, in questacasa? –Nonavevacani. –Ebasta? –Pensavochenonavrebbe fattostorie. –Ehofattostorie? Mièvenutovicino.Aveva il viso gonfio, ho fiutato l’alcolnelsuoalito.–Sevuole che l’aiuti, lo farò – ha detto. Si è chinato su di me, mi ha preso per la gola, il pollice posato lievemente sulla laringe,letreditaanchilosate chiusedietroilmioorecchio. – No – ho sussurrato e ho spinto via la sua mano. Gli occhi mi si sono colmati di lacrime. Ho afferrato le sue mani battendomele sul petto, in un gesto lamentoso alquantostranoperme. Dopo poco mi sono calmata.Èrimastochinatosu di me, lasciandomi fare. Il cane ha posato il naso sul bordodellettoannusandoci. – Lascerebbe che il cane dormaconme?–hochiesto. –Perché? –Periltepore. –Nonlofarà.Dormesolo conme. – Allora dorma qui anche lei. Ho aspettato a lungo mentre lui scendeva di sotto. Ho preso un’altra pillola. Poi la luce sul ballatoio si è spenta. L’ho udito togliersi le scarpe. – Si tolga anche il cappello, per una volta – ho detto. Sièsdraiatoallemiespalle, sopra la coperta. Mi ha investitol’odoredeisuoipiedi sporchi.Hafischiatopiano;il cane è saltato sul letto, ha eseguito la sua danza circolare, si è sistemato tra le sue gambe e le mie. Come la spada di Tristano, per mantenercicasti. La medicina ha compiuto il prodigio. Per mezz’ora, mentre lui e il cane dormivano, io sono rimasta sdraiata, immobile, libera dal dolore, l’anima che vegliava guardandosiintorno.Dinanzi ai miei occhi si è formata l’immagine di Beauty che cavalcava verso di me sulle spalle della madre, sobbalzando, guardando imperiosamenteavanti.Poila visioneèandatasbiadendosie nuvole di polvere, le polveri diBorodino,sisonosollevate roteando fino a offuscarmi la vista, come le ruote del carro dellamorte. Ho acceso la luce. Era mezzanotte. Stenderò presto un velo pietoso. Questa non ha mai preteso di essere la storia di un corpo, ma dell’anima che esso ospita. Non ti mostrerò ciò che troveresti insopportabile: una donna intrappolata in una casa in fiamme che corre da una finestra all’altra, che chiede aiutoafferrandosiallesbarre. Vercueil e il suo cane, addormentati tanto placidamente accanto a questo torrente di disperazione. Compiono il proprio dovere, in attesa che l’anima emerga. L’anima, neofita, ancora umida, cieca, ignorante. Adessoconoscolastoriadi comehapersol’usodelledita. È stato per un incidente accaduto in mare. Hanno dovuto abbandonare la nave. Nellaconfusionelasuamano è finita in una puleggia ed è rimasta schiacciata. Per tutta la notte lui con altri sette uomini e un ragazzo sono rimastiinbaliadeifluttisudi unascialuppa.Ilgiornodopo sonostatitrattiinsalvodaun peschereccio russo e la mano glièstatamedicata.Maallora eratroppotardi. – Ha imparato un po’ di russo?–hochiesto. Tuttociòchericordava,ha detto,eraxorosho. – Nessuno ha menzionato Borodino? – Non mi ricordo di Borodino. – Non ha pensato di restareconirussi? Mi ha guardato in modo strano. Non è mai piú stato in maredaallora. –Nonlemancailmare?– hochiesto. – Non metterò mai piú piede su una barca – ha rispostoseccamente. –Perché? –Perchélaprossimavolta nonsareicosífortunato. – Come può dirlo? Se avesse fiducia in se stesso potrebbe camminare sulle acque.Noncredeneimiracoli dellafede? Èrimastoinsilenzio. – O una tromba d’aria potrebbe trascinarla fuori dall’acqua e depositarla sulla terraferma.Ecisonosemprei delfini. I delfini portano in salvo i naufraghi, no? A proposito, perché ha fatto il marinaio? – Non pensi sempre al futuro.Nonsemprelosai. Ho pizzicato con dolcezza l’anulare.–Senteniente? – No. I nervi sono atrofizzati. Ho sempre saputo che aveva una storia da raccontare, e ora comincia a raccontarla, comincia dalle dita della mano. Storie da marinaio. Ci credevo? In fondononm’importava.Non v’è bugia che non contenga un nocciolo di verità. Si deve solosaperascoltare. Haanchelavoratoalporto, sollevando casse e scaricandole. Un giorno, ha raccontato, nello scaricare una cassa, hanno sentito un cattivoodoreel’hannoaperta trovandovi il corpo di un clandestino che era morto di fameinquelnascondiglio. –Dadoveveniva? – Dalla Cina. Da molto lontano. Ha anche lavorato per la SPCA 2,alcanile. – È là che ha preso ad amareicani? – Sono sempre andato d’accordoconicani. – Aveva un cane da bambino? – Mmh – ha mormorato, senza intendere niente di particolare. Da un pezzo aveva deciso che poteva permettersi di scegliere a qualidellemiedomandedare ascoltoeaqualino. Nonostante ciò, pezzo dopopezzohomessoinsieme la storia di una vita oscura come ogni altra su questa terra. Cosa gli riserva il futuro, mi domando, quando l’episodio della vecchia nella sua grande casa sarà concluso?Unamanoinvalida, incapacediadempiereatuttii suoicompiti.Lasuaabilitàdi marinaio nel fare i nodi, persa.Nonpiúabile,nonpiú presentabile. Giunto a metà del cammino e senza una moglie al fianco. Solo: stoksielalleen: un bastone in un campo vuoto, un’anima solitaria, sola. Chi veglierà su dilui? –Chenesaràdileiquando noncisaròpiú? –Andròavanti. –Nesonocerta;machici saràafarlecompagnia? Ha sorriso esitante. – Ho bisogno di compagnia nella miavita? Non una replica. Una domandaveraepropria.Non lo sa. Lo sta chiedendo a me, quest’uomocosírudimentale. – Sí. Credo che abbia bisogno di una moglie, se l’idea non le sembra troppo bizzarra. Persino quella donna che aveva portato qui andrebbe bene, se nel suo cuore coltiva un qualche sentimentoperlei. Hascrollatolatesta. – Non importa. Non è di matrimonio che sto parlando madiqualcosad’altro.Vorrei poterle promettere che veglierò su di lei, ma non ho un’ideaprecisadiciòcheciè consentito dopo la morte. Forse non sarà affatto permesso vegliare su alcuno, o molto poco. Ogni posto ha le sue regole e, non importa quanto lo si desideri, potrebbe non essere consentito aggirarle. Potrebbero persino non essere consentiti segreti, vegliaredinascosto.Potrebbe non esserci modo di conservare un posto nel cuore, segreto, per lei o per qualcunaltro.Tuttopotrebbe esserecancellato.Tutto.Èun pensiero terribile. Sufficiente afarciribellare,afarcidire:se è cosí che vanno le cose, rinuncio;eccoilmiobiglietto, lo restituisco. Ma dubito molto che la restituzione del biglietto sia prevista, qualunquesialacausa. – Ecco perché non dovrebbe restare cosí solo. Perché forse dovrò andarmenedefinitivamente. Era seduto sul letto e mi dava le spalle, incurvato, teneva la testa del cane tra le ginocchiael’accarezzava. –Capisce? – Mmh –. Quel mmh potrebbe significare sí ma, in realtà,nonsignificanulla. –No,nonmicapisce.Non mi capisce affatto. Non è la prospettiva della sua solitudine che mi sgomenta, ma la prospettiva della mia solitudine. Ogni giorno esce a fare la spesa. Alla sera cucina, poi rimane curvo accanto a me, peraccertarsichemangi.Non homaifamemanonhocuore di dirglielo. – Non riesco a mangiare se mi guarda – ho detto molto gentilmente, poi honascostoilciboel’hodato alcane. La sua specialità è pane bianco fritto nell’uovo, guarnito con tonno e salsa di pomodoro. Avrei dovuto avere la lungimiranza di darglilezionidicucina. Nonostante abbia a disposizione l’intera casa per sistemarsi, vive di fatto nella mia stanza. Lascia in giro sacchettivuoti,buttaperterra vecchie cartacce, che turbinanocomefantasminon appenasiformaunacorrente d’aria. – Porti via la spazzatura – l’ho pregato, ha promesso di farlo, e qualche volta lo fa, ma poi ne lascia dell’altra. Dividiamounletto,piegati l’uno sull’altra come una pagina piegata in due, come due ali piegate: vecchi compagni, compagni di branda, congiunti, coniugi. Lectus genialis, lectus adversus.Leunghiedeipiedi, quando si toglie le scarpe, sonogiallastre,quasimarroni, come corno. Piedi che tiene lontani dall’acqua per paura di cadere: cadere nelle profonditàdoveèimpossibile respirare.Unacreaturaarida, una creatura d’aria, come quelle fate-locuste di Shakespeare con sferze di ragnatela e impugnature d’osso di grillo. Enormi sciami,nateinaltomaresulle ali del vento, là dove non si scorge la terraferma, stanche, si ammucchiano incessantemente le une sulle altre, decise a ricoprire l’Atlantico tante ve ne sono. Ingoiate tutte, però, fino all’ultima.Fragilialisulfondo delmaresospiranocomeuna miriadedifoglie;occhimorti a milioni; e i granchi che si aggiranotraloro,leafferrano, ledivorano. Luirussa. A fianco del suo maritoombra tua madre ti scrive. Perdonami se il quadro in qualche modo ti offende. Si deve amare ciò che è piú vicino. Si deve amare ciò che è a portata di mano, come fannoicani. SignoraV. 23 settembre, equinozio. Una pioggia battente cade da un cielo che si è rinserrato contro le montagne, cosí basso che lo si può raggiungere con il manico della scopa e toccarlo. Un suono dolce e attutito, come una grande mano, una mano d’acquacheavvolgelacasa,il picchiettare sulle tegole, lo sgocciolare della grondaia smettono di essere rumori, divengono un infittirsi, un liquefarsidell’aria. – Cos’è questo? – ha domandatoVercueil. Avevainmanounpiccolo scrigno di palissandro. Se tenuto aperto contro la luce secondo una certa angolazione si intravede un giovanedaicapellilunghicon unabitodifoggiaantica.Sesi cambia angolazione, l’immagine si scompone in striature argentee dietro una superficiedivetro. – È una foto d’altri tempi. Diprimadell’invenzionedella fotografia. –Chiè? – Non sono sicura. Potrebbe essere uno dei fratellidimiononno. – La sua casa sembra un museo. (È andato a ispezionare le stanze in cui ha fatto irruzionelapolizia). – In un museo gli oggetti recanodelleetichette.Questo è un museo dove le etichette sono andate perdute. Un museo in rovina. Un museo che dovrebbe essere dentro unmuseo. –Dovrebbevenderliquesti vecchi oggetti se non li vuole piú. – Li venda lei se vuole. Vendaancheme. –Chevendo? – Venda i capelli. Le ossa. Si venda pure i miei denti. A meno che non pensi che io nonvalganulla.Èunpeccato non avere una di quelle carriole che usavano i bambiniperportarcidentroil fantoccio di Guy 3. Potrebbe portarmi per le strade con unaletteraappuntatadavanti. Poi potrebbe darmi fuoco. O potrebbe portarmi in luoghi ancorapiúoscuri,ladiscarica dei rifiuti per esempio, e buttarmilà. Primaerasolitoandaresul balcone quando voleva fumare. Adesso fuma sul ballatoio e il fumo s’insinua nella stanza. Non posso sopportarlo. Ma è venuto il tempo di cominciare ad adattarsi a ciò che non sopporto. Mi ha visto mentre lavavo la biancheria intima nel lavandino.Eraunasofferenza dover stare chinata: senza dubbio dovevo offrire uno spettacolo penoso. – Posso farlo io – ha detto. Ho rifiutato.Mapoinonriuscivo a raggiungere le corde per stendere,cosíhadovutofarlo lui: la biancheria di una vecchia,ingrigita,sfilacciata. Quando il dolore morde piú forte e io rabbrividisco e impallidisco e un sudore freddo s’impadronisce di me, lui qualche volta mi tiene la mano.Iomicontorcoaquella stretta come un pesce preso all’amo; sono consapevole di avere dipinta in volto un’espressione orribile, l’espressionediquandosièal culmine dell’amplesso: brutale, famelica. A lui non piace quell’espressione; gira gli occhi dall’altra parte. Per quanto mi riguarda, penso: lascia che veda, lascia che imparicomecisisente! Porta un coltello in tasca. Non un coltello a serramanico ma un pericoloso coltello dalla lama lunga e la punta affilata conficcata in un tappo di sughero.Quandovienealetto loposasulpavimentoaccanto asé,insiemeaisoldi. Cosísonobenprotetta.La morte ci penserà due volte prima di avvicinarsi a questo caneeaquest’uomo. Mi ha chiesto, che cos’è il latino? Una lingua morta, gli ho risposto,lalinguacheparlano imorti. – Davvero? – ha domandato. L’idea sembrava incuriosirlo. –Sí,davvero–horisposto. – La si sente solo ai funerali. Ai funerali e ogni tanto ai matrimoni. –Loparla? Ho recitato un brano di Virgilio, Virgilio sui morti senzasepoltura: necripasdaturhorrendaset raucafluenta transportarepriusquam sedibusossaquierunt. Centumerrantannos volitantquehaeclitora circum; tumdemumadmissistagna exoptatarevisunt 4. – Cosa vuol dire? – ha chiesto. – Vuol dire che se non spedirà la lettera a mia figlia io per cent’anni non troverò pace. –Nonèvero. – Sí, è vero. Ossa: è la parola latina che significa diario. Qualcosa su cui sono incisi i giorni della nostra vita. Piú tardi è tornato da me. – Ripeta di nuovo il latino – ha chiesto. Ho recitato il brano mentre le sue labbra si muovevano come per riprodurre quei suoni. Sta memorizzando, ho pensato. Manoneracosí.Erailritmo del dattilo che gli risuonava dentro, con quella sua capacitàdifarvibrareilpolso, lagola. – Era questo che insegnava? Era questo il suo lavoro? – Sí, era il mio lavoro. Mi guadagnavo da vivere cosí. Restituendolavoceaimorti. –Echipagava? – I contribuenti. La gente del Sudafrica, la gente importanteequellameno. – Potrebbe insegnarlo ancheame? – Avrei potuto insegnarglielo. Avrei potuto insegnarlemoltosuiRomani. Non altrettanto sui Greci. Poteiancorafarlo,manonci sarebbetempopertutto. Eralusingato,lovedevo. – Troverebbe facile il latino – ho detto. – Riuscirebbe a memorizzare unagranquantitàdicose. Un’altra sfida lanciata, un altro segnale che io so. Sono come una moglie con un maritochehaunarelazionee voglia tenerla segreta, e lo rimprovera per indurlo a confessare. Ma le mie allusioni non lo smuovono. Lui non nasconde niente. La sua ignoranza è reale. La sua ignoranza:lasuainnocenza. – C’è qualcosa che non torna,nonèvero?–hodetto. – Perché non parla, semplicemente, restando a guardare dove le parole la conducono? Ma lui era su una soglia che non poteva oltrepassare. Se ne stava in piedi, immobilizzato, senza parole, nascosto dietro il fumo della sigaretta, strizzando gli occhi cosíchenonpotessiguardarci dentro. Il cane gli girellava intorno, poi si è avvicinato a me, si è riallontanato, irrequieto. È possibile che sia il cane, non lui, a essermi stato mandato? Non lo vedrai mai, suppongo. Mi sarebbe piaciuto mandarti una foto, ma la macchina fotografica mièstataportataviadailadri. In ogni caso, non è di quelle persone che vengono bene in fotografia. Ho visto la foto sulla sua carta d’identità. Sembra un prigioniero che qualcuno abbia strappato a unacellabuia,spingendoloin una stanza illuminata da una luce accecante, mettendolo controunmuroegridandogli di stare fermo. Un’immagine rubata, presa con la forza. È come una di quelle creature per metà fantastiche che in fotografia appaiono solo in formadimacchie,ombreche si annidano nel sottobosco, potrebbero essere uomini o belve o semplicemente una macchia nell’emulsione: inspiegabile,noncomprovata. Oppureunadiquellecreature che esorbitano dalla cornice, chelascianonellatrappoladel diaframma un braccio o una gambaounatestavoltata. – Le piacerebbe andare in America?–glihochiesto. –Perché? – Per portare la lettera. Invece di spedirla, potrebbe portarla di persona: volare in America e tornare qui. Sarebbe una bella avventura. Meglio che andare per mare. Mia figlia verrebbe a prenderlaesioccuperebbedi lei.Leprocurereiibigliettiin anticipo.Ciandrebbe? Ha sorriso spavaldamente. Ma alcuni dei miei scherzi toccanountastoamaro,loso. –Dicosulserio–hodetto. Ma la verità è che non è una proposta seria. Vercueil con un bel taglio di capelli, benvestito,chesiaggiranella tua camera per gli ospiti alla ricerca disperata di qualcosa da bere, troppo timido per chiedere; e tu nella stanza accanto, i bambini addormentati, tuo marito addormentato, intenta nella lettura di questa lettera, di questa confessione, questa follia,nonèpensabile.Nonlo voglio, diresti tra i denti: questo è ciò da cui sono fuggita venendo qui, perché deve continuare a perseguitarmi? A tempo perso ho riguardato le fotografie che mi hai mandato dall’America nel corso degli anni, osservando ciò che appare sullosfondo,tuttequellecose che volenti o nolenti sono finite nel quadro quando hai scattatolafoto.Nellafotoche haimandatodeiduebambini in canoa, per esempio, i miei occhi vagano dai loro volti alle increspature sull’acqua del lago, al verde cupo degli abeti, per poi tornare a posarsi sui loro giubbotti arancioni che sostituiscono i vecchi braccioli. La loro superficie grezza leggermente sfavillantequasimiipnotizza. Gomma o plastica o una via di mezzo tra le due: una qualche sostanza ruvida al tatto, resistente. Perché questo materiale, a me sconosciuto, forse sconosciuto all’intera umanità, sagomato, sigillato, gonfiato, legato al corpo dei tuoibambini,rappresentaper me tanto chiaramente il mondo in cui vivi ora, e perché mi deprime tanto? Non ho una risposta. Ma poiché questo mio scritto mi hadivoltainvoltaportatoda uno stato di smarrimento a un principio di comprensione, consentimi di dire,contuttalaprudenzadel caso, che forse mi deprime il fatto che i tuoi bambini non annegherannomai.Tuttiquei laghi, tutta quell’acqua; una terra di laghi e di fiumi; e tuttavia,seperpurocasoloro scivolassero dalla canoa, galleggerebbero tranquillamente nell’acqua, sostenuti da quelle loro brillanti ali arancioni, fino all’arrivodiunmotoscafoche li prelevi e li porti in salvo e tuttotornerebbeaposto. Un parco di divertimenti, lo definisci sul retro della fotografia. Il lago addomesticato, addomesticata la foresta, ribattezzata. Dici che non vuoi altri bambini. La linea si estinguerà, allora, con questi due ragazzi, semi piantati nelle nevi del continente americano, che non annegheranno mai, la cui aspettativa di vita supera i settantacinque anni e piú. Persinoio,chevivosullerive di acque che inghiottiscono uomini robusti, dove l’età media diminuisce ogni anno, sto morendo di una morte priva di illuminazioni. In che cosa possono sperare questi due poveri ragazzi, non certo privilegiati, che remano in quel parco di divertimenti? Morirannoasettantacinqueo ottantacinque anni, stupidi comequandoeranonati. Desiderolamortedeimiei nipoti? Giunta a questo punto, starai gettando via questa pagina disgustata? Vecchia pazza! starai gridando? Non sono nipoti miei. Sono troppo lontani per essere bambini miei in ogni caso.Nonmilascioallespalle una famiglia numerosa. Una figlia. Un consorte e il suo cane. Non desidero affatto la loro morte. I due bambini, le cuivitehannosfioratolamia, perlacronacasonogiàmorti. No, desidero che i tuoi bambini vivano. Ma non saranno le ali che gli hai assicurato attorno al corpo a garantirgli la vita. La vita è polvere incrostata tra le dita deipiedi.Lavitaèpolvereche scricchiola tra i denti. La vita èmorderelapolvere 5. Oppure:lavitaèannegare. Cadere nell’acqua, andare a fondo. – Sta per abbattersi su di me il tempo in cui dovrò dipenderedall’aiutoaltruiper i rituali piú intimi. È tempo allora di porre fine a questa dolorosa storia. Non che dubiti della collaborazione di Vercueil. Quando si tratta di risoluzioni definitive, non dubito piú di lui in alcun modo.C’èsemprestatainlui una vaga seppure inaffidabile sollecitudine nei miei riguardi, una sollecitudine chenonriesceaesprimere.Io sono caduta e lui mi ha sostenuto. Non è stato lui a cadere sotto le mie cure quando è arrivato, ora lo capisco, né io sono caduta sotto le sue: siamo caduti l’uno sotto l’altra, incespicando e rialzandoci ripetutamentedaallora,negli altiebassidiquellareciproca elezione. Tuttavia lui è ben lungi dall’essere una nurse, una nourrice,unanutrice,comeio laimmagino.Èarido.Ciòche beve non è acqua ma fuoco. Forse è per questo che non riesco ad immaginare bambini nati da lui: perché il suosemesarebbearido,secco ebrunocomepollineocome lapolverediquestaterra. Hobisognodilui,dellasua presenza, del suo conforto, delsuoaiuto,maancheluiha bisogno di aiuto. Ha bisogno dell’aiutochesolounadonna può dare a un uomo. Non seduzione ma induzione. Lui non sa amare. Non parlo dei moti dell’animo, ma di qualcosadipiúsemplice.Non sa come si ama, come non lo sa un bambino. Non sa quali chiusure lampo e bottoni e ganci aspettarsi. Non sa cosa vadove.Nonsacomefareciò chedevefare. Piú si avvicina la fine, piú fedele diventa. Eppure devo ancoraguidarelasuamano. Ricordo il giorno in cui sedevamo in macchina, quando mi ha offerto i fiammiferi e mi ha detto di Farlo. Ero offesa. Ma ero giusta con lui? Adesso mi sembrachelasuaconcezione della morte non sia diversa dalla concezione che una vergine ha del sesso. La curiosità è la medesima. La curiosità di un cane che ti annusa in mezzo alle gambe, scodinzolando,lalinguarossa e goffa come un pene penzolante. Ieri, mentre mi accompagnavainbagno,misi è aperta la camicia e l’ho sorpreso a fissarmi. Come quei bambini in Mill Street: nonmostravaalcunadecenza. La decenza: l’inesplicabile; il fondamento di ogni etica. Cose che non facciamo. Distogliamo lo sguardo quando l’anima abbandona il corpo, versiamo lacrime o copriamo gli occhi con le mani.Distogliamolosguardo dalle cicatrici, luoghi da cui l’anima ha lottato per uscire ed è stata respinta indietro, rinchiusa,ricucitadentro. Gli ho chiesto se dava ancoradamangiareaigatti.– Sí–harisposto,mamentiva. Perchéigattisonoscomparsi, sono stati cacciati via. Mi dispiace? No, non piú. Dopo essermi presa cura di te, di lui,nonc’èrimastopostoper altro nel mio cuore. Il resto può, come si dice, andare in malora(gotothepot). La scorsa notte, sentendo avanzareilgelo,hocercatodi telefonartiperdirtiaddio.Ma non hai risposto. Ho sussurrato il tuo nome. – Figliamia,bambinamia–ho sussurrato all’oscurità, ma tutto ciò che ho visto è stata una foto: una tua immagine, non tu. Tagliata, ho pensato: interrotta anche la linea. Ora non c’è piú niente a trattenermi. Mamisonoaddormentata e risvegliata, ed ero ancora qui,equestamattinamisento abbastanza in forze. Allora, forse, non sono solo io a chiamare.Forsequandosento freddo è perché vengo richiamata fuori dal corpo, attraverso i mari, senza saperlo. Come vedi, credo ancora neltuoamore. Ti libererò presto da questa catena di parole. Non c’è bisogno di dispiacersi per me. Ma dedica un pensiero a quest’uomo rimasto indietro, chenonpuònuotare,enonsa ancoravolare. Ho dormito e mi sono svegliata infreddolita: lo stomaco, il cuore, le ossa raggelati.Laportadelbalcone eraaperta,letendescomposte dalvento. Vercueil era sul balcone e contemplava un mare di foglie fruscianti. Gli ho toccatoilbraccio,lespallealte espigolose,inodiossutidella spinadorsale.Conidentiche mibattevanohodetto:–Che cosastaguardando? Non ha risposto. Gli sono andatapiúvicino.Unmaredi ombre sotto di noi, e uno schermo di foglie ondeggianti, fruscianti, come scaglienell’oscurità. –Èvenutoilmomento?– hodetto. Sono tornata a letto, reimmergendomi nel tunnel sotto le lenzuola fredde. Si è apertounvarcofraletende;è entrato accanto a me. Per la prima volta non ho sentito alcun odore. Mi ha preso tra le braccia stringendomi con vigore, cosí che il respiro mi haabbandonatoinunistante. Non v’era tepore che potesse veniredaquell’abbraccio. 1[Ininglesel’espressionetoput tosleepèuneufemismocheindica lasoppressionedeglianimali]. 2[SocietyforthePreventionof CrueltytoAnimals]. 3[Fantocciodagliabitidifoggia antica che veniva portato per le stradedaibambiniepoibruciatoil 5 novembre, giorno della ricorrenza della cosiddetta «congiura delle polveri», ordita da Guy Fawkes, giustiziato per aver tentato nel 1605 di far saltare in aria re Giacomo I e il Parlamento. Ancora oggi si festeggia la ricorrenza con fuochi d’artificio, mentre il fantoccio di Guy viene bruciato su Parliament Hill a Hampstead]. 4 [«Non è concesso le rive paurose, le rauche correnti | passare, prima che l’ossa riposino nella loro dimora: | cento anni erranoeintornoallidosvolazzano: | poi, finalmente ammessi, lo stagno bramato rivedono»: Virgilio, Eneide, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1967,libroVI,vv.327-330,p.223]. 5[Ininglesel’espressionetobite thedustsignifica«morire»]. Il libro I L CORPO DI U NA donna chiamata ad affrontarelamalattia. Il corpo esile di un derelitto alcolizzato. Il corpo politico del Sudafrica afflitto dall’apartheid. Il Sudafrica deglianniOttanta,abitatoda un cancro che lentamente s’insinuasottopelleereclama aségiovanivittime,iragazzi delletownship,impegnatinei boicottaggi delle scuole, perseguitatidallapoliziaedai militari. La signora Curren, un’insegnante in pensione, diviene suo malgrado testimone di eventi storici violenti, di cui radio e televisione non dicono nulla, madicuisonoprotagonistii figli della domestica: l’anziana signora si ritrova a dovermedicareeidentificare i corpi dei ragazzi. Questa lunga e lenta agonia, individuale e privata, ma anche collettiva e pubblica, è racchiusanellepaginediuna letteracheladonnalasceràin ereditàallafiglialontana,che da tempo ha voltato le spalle al paese. Latore di questa missiva sarà forse il signor Vercueil, il misterioso compagno dei suoi ultimi giorni di vita: angelo maledetto, messaggero, parassita? In un tempo di strane alleanze, in cui non ci sono piúnépadri,némadri,incui i bambini vengono temprati alla guerra e alla morte, in questa età di ferro è difficile intravedere un futuro diverso, quando il Sudafrica potrebbe risorgere come una fenice dalle proprie ceneri. Il romanzo epistolare della signora Curren rimane dolorosamente e spietatamentedisincantato. Traduzione Concilio. di Carmen L’autore J. M. Coetzee ha vinto nel 2003ilpremioNobelperla Letteratura ed è uno dei piú importanti narratori sudafricani. Einaudi ha pubblicato: La vita e il tempo di Michael K., Infanzia, Gioventú, Terre al crepuscolo, Aspettando i barbari, Vergogna, Elizabeth Costello, Nel cuore del paese, Il Maestro diPietroburgoeFoe. Dello stesso autore L’infanziadiGesú Doppiareilcapo Tempod’estate Lavoridiscavo Diariodiunannodifficile LavitaeiltempodiMichaelK Nelcuoredelpaese Spiaggestraniere SlowMan IlMaestrodiPietroburgo Foe Aspettandoibarbari ElizabethCostello Terrealcrepuscolo Gioventú Infanzia Vergogna TitolooriginaleAgeofIron ©1990byJ.M.Coetzee, byarrangementwithPeter LampackAgency,inc55th Avenue, suite1613,NewYork10176-0187 USA ©2006GiulioEinaudieditore s.p.a.,Torino Incopertina:foto©Paula Bronstein/Liaison/Getty Images. Progettografico:46xy. Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzatodall’editore,aitermini eallecondizioniallequalièstato acquistato o da quanto esplicitamenteprevistodallalegge applicabile. 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