1. Il controllo mentale 2. Il processo di controllo mentale
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1. Il controllo mentale 2. Il processo di controllo mentale
Psichiatria e Psicoterapia Analitica (2002), 21, 2: 138-149 Psicoterapia e Scienza Cognitiva LA TEORIA DEL CONTROLLO MENTALE Silvia Giovinazzo, Francesca Siano 1. Il controllo mentale Ogni volta che tentiamo di modificare i nostri pensieri, emozioni, motivazioni, o altri stati mentali, stiamo esercitando un controllo sulla nostra mente. Nella storia della psicologia, molti sono stati i tentativi di comprendere l’autocontrollo della mente e dell’emozione. Secondo William James (1890), una cognizione non voluta può essere evitata spostando la propria attenzione su un altro pensiero: l’abilità di influenzare il proprio stato attentivo è il fenomeno centrale della volontà. Nella letteratura psicoanalitica la nozione di controllo mentale, come qualcosa che una persona deve fare per evitare emozioni o idee non volute, segue direttamente dalla nozione di Freud che la repressione ed altri processi difensivi nascono per influenzare i contenuti della consapevolezza. Questo approccio supporta l’idea che possiamo controllare la nostra mente non per capriccio, ma perché abbiamo forti ragioni per farlo. Nelle teorie del controllo sviluppate in ingegneria, gli psicologi hanno trovato utili spunti per esaminare i meccanismi necessari per produrre controllo nell’azione umana. Un notevole corpo di ricerche sull’autoregolazione, sull’autocontrollo e sulle tecniche di autogestione contribuisce alla comprensione di questo meccanismo. Gli studi sulle strategie di coping, infine, esaminano le tecniche psicologiche che le persone impiegano per far fronte allo stress; questi aggiungono un ulteriore spunto di riflessione sulle scelte particolareggiate di strategie che possono essere utilizzate per occuparsi dei propri stati mentali. 2. Il processo di controllo mentale Wegner (1997) ha elaborato una teoria generale del controllo mentale ritenendo che esso possa contribuire al mantenimento di disturbi emotivi caratterizzati dal verificarsi di pensieri persistenti e dal tentativo di controllarli. Ma qual’è il meccanismo mentale che permette alla mente di controllare se stessa? Secondo l’autore, in questo meccanismo intervengono due differenti tipi di processi: – un Processo di Selezione di Stato Mentale, che individua e mantiene uno stato mentale desiderato (una persona cerca di essere meno nervosa prima di parlare in pubblico); – un Processo di Controllo Mentale, che permette la realizzazione attiva dello stato mentale desiderato attraverso un movimento voluto verso di esso (la persona tenta di superare il nervosismo immaginando che il pubblico sia lì seduto, nudo e imbarazzato). 138 La teoria del controllo mentale 2.1 Processo di Selezione di Stato Mentale Le persone possono rappresentarsi, e quindi selezionare, stati della mente preferibili ed alternativi a quelli che sperimentano o che prevedono di sperimentare e tale scelta, sebbene a volte intenzionale e consapevole, può risentire dell’influenza di processi non deliberati ed inconsapevoli. Alcune tendenze, come ad esempio il timore di sperimentare ansia (Reiss, Peterson, Gursky, Mc Nally 1986), si presentano come caratteristiche stabili che predispongono la persona verso la selezione di particolari stati. Anche le situazioni sociali possono offrire sollecitazioni molto forti (Bargh 1990): possiamo, ad esempio, sperare di controllare la nostra rabbia verso un superiore quando siamo in sua presenza. Potendo le persone rappresentarsi potenziali stati della mente, che diventano obiettivo di selezione, si determina una priorità di stati mentali che orienta la persona a selezionare quello per lei preferibile in quella situazione. 2.2 Processo di Controllo Mentale Dato un particolare stato mentale selezionato per il controllo, il problema è capire come questo controllo viene esercitato. Sulla base del modello cibernetico, ogni genere di controllo comporta almeno due processi: un “processo operativo” che fa qualcosa ed un “processo di monitoraggio” che controlla se questa cosa è stata fatta (Miller, Galanter, Pribram 1960). Solo recentemente l’attenzione teorica si è rivolta verso l’influenza reciproca (interplay) tra questi due processi nell’azione del controllo mentale. Wegner ha elaborato la teoria dei “processi paradossali di controllo mentale” proponendo, in particolare, che il meccanismo della soppressione del pensiero potrebbe essere compreso attraverso l’azione reciproca tra processo operativo e di monitoraggio (). Il risultato più indicativo di una sua ricerca (Wegner 1994; Wegner, Zanakos 1994) fu il cosiddetto “effetto rebound”: i soggetti ai quali fu chiesto di sopprimere pensieri relativi ad un “orso bianco” riportavano, in una seconda fase della ricerca, un numero significativamente più elevato di pensieri riguardo “l’orso bianco” rispetto al gruppo di controllo. Nella soppressione di un pensiero intervengono quindi: – il processo operativo, costituito da una ricerca deliberata e consapevole di pensieri che non siano il “pensiero-bersaglio” (orso), e dal mantenimento di questi a livello consapevole; ogni verificarsi del pensiero-bersaglio comporta la sua associazione al pensiero in corso e, quindi, la ricerca di un nuovo distrattore. – il processo di monitoraggio paradossale, che Wegner chiama “ricerca automatica del bersaglio”, che controlla l’eventuale presenza del pensiero-bersaglio; il suo riconoscimento segnala il fallimento nel raggiungimento dello stato desiderato (la non presenza del pensierobersaglio). I due processi, interagendo nel tempo, determinano il controllo mentale. Il processo operativo, che è guidato consapevolmente e richiede sforzo ed abilità, in genere domina il processo di monitoraggio e “riempie” la mente di pensieri e sensazioni rilevanti per lo stato desiderato. Allo stesso tempo il processo di monitoraggio, che invece è inconsapevole e richiede meno sforzo ed abilità, ricerca “furtivamente” quei contenuti mentali che indicano quando è necessario il controllo, regolando così l’inizio o meno del processo operativo. D’altra parte, 139 Silvia Giovinazzo, Francesca Siano se il processo di monitoraggio fosse potente quanto il processo operativo, esso potrebbe travolgere tutti i tentativi di controllo mentale attraverso un accesso estremo di pensieri e sensazioni contro-intenzionali. Poiché però il processo di monitoraggio è attento agli errori nel controllo, esso rende la mente sensibile a quelle condizioni che indicano un fallimento nel controllo intenzionale. Quando la capacità mentale è compromessa e il lavoro faticoso del processo operativo è limitato, questa sottile sensibilità può paradossalmente creare quello stato mentale che il processo operativo cerca di controllare. In altre parole, in una situazione di carico mentale, l’intenzione di controllare la mente determina un sistema di monitoraggio che non solo cerca il fallimento dell’operazione di controllo, ma tende esso stesso a creare quel fallimento. Gli studi sperimentali sul controllo degli stati mentali (Wegner, Erber 1992; Wegner, Wenzlaff 1997), indicano che quando le persone sono in grado di controllare uno stato mentale, l’imposizione di una pressione mentale non solo mina il loro controllo, ma crea un capovolgimento paradossale del controllo stesso (Wegner 1994). Uno dei paradossi più riconosciuti riguarda l’atto della concentrazione. Il tentativo di concentrarsi sulle parole di questa frase produce un processo operativo che aumenta l’accessibilità cognitiva delle parole, e un processo di monitoraggio che sottilmente aumenta l’accessibilità d’ogni cosa che non sia questa frase. Normalmente, il processo operativo è predominante e così si ottiene una concentrazione efficace. Ma ogni volta che aumentano le distrazioni, il processo operativo faticoso viene indebolito, a differenza del processo di monitoraggio che così accrescerà l’accessibilità cognitiva d’ogni cosa che non siano le parole. 3. Strategie di Controllo Mentale Diversi sono i modi attraverso i quali le persone tentano di esercitare un controllo mentale e molti cambiamenti mentali consapevoli potrebbero essere prodotti da un processo operativo per questo scopo. È importante quindi conoscere la distinzione tra le diverse forme di strategie di controllo mentale. Una prima distinzione è tra le strategie mentali, che avvengono nella mente di un individuo e che richiedono sforzo mentale per risultare efficaci (ad esempio, il tentativo di focalizzare l’attenzione su un libro) e le strategie situazionali, che comportano l’organizzazione di cambiamenti ambientali per ottenere lo stato mentale desiderato (Schneider 1993, Wegner 1989). Il tentativo, ad esempio, di sopprimere pensieri relativi ad un evento traumatico “andando via dal luogo del trauma”, è una strategia che produce un processo operativo che sorveglia il comportamento di “andare via”, e un processo di monitoraggio che esamina se c’è stato un fallimento in quel comportamento. Non c’è un’operazione ordinata che cerca di non pensare al trauma, e non c’è un monitor paradossale attento a pensieri trauma-rilevanti. Quando il controllo è esercitato sull’ambiente, l’imposizione intenzionale del controllo stesso può essere dimenticata; per questo gli effetti paradossali non si verificano nel controllo situazionale. Un’ulteriore distinzione è tra le strategie mirate ad un avvicinamento ad uno stato della mente (essere rilassati), e quelle dirette all’evitamento (non essere ansiosi), che si differenziano nel modo di incorniciare il piano di ricerca (Tversky, Kahneman 1981). Le ricerche di avvicinamento sono articolate in termini di stato desiderato: il processo operativo cerca di avvicinare solo i contenuti su cui la persona desidera concentrarsi (pensieri men140 La teoria del controllo mentale tali rilassanti) mentre il processo di monitoraggio cerca ogni altro elemento che non sia l’elemento-bersaglio e che rivela il fallimento nel creare tali contenuti (sia pensieri “ansia-producenti” sia un’ampia gamma di pensieri neutrali o “rilassamento-irrilevanti”). In una situazione di carico mentale o di stress, la persona che sta cercando di rilassarsi sarà portata ad accedere sia a sensazioni o pensieri non rilassanti, sia ad un ampio raggio di pensieri e sensazioni che sono irrilevanti al rilassamento. Questo potrebbe portare solo ad un piccolo aumento dell’ansia. Le ricerche di evitamento sono invece articolate in termini di stato indesiderato. Per evitare l’ansia, sono necessari contenuti mentali non ansiosi; cosi, durante la soppressione del pensiero, il processo operativo cercherà di avvicinare elementi che non siano l’elemento-bersaglio (sia contenuti rilassanti, sia contenuti neutrali o “rilassamento-irrilevanti”), mentre il processo di monitoraggio cercherà solo l’elemento-bersaglio (contenuti “ansia-rilevanti”). Stress o carico mentale porteranno la persona che sta cercando di non essere ansiosa a focalizzarsi particolarmente su pensieri e sensazioni ansia-rilevanti. Gli studi sul controllo dell’umore hanno evidenziato una maggior presenza di effetti paradossali quando le persone cercano di sopprimere uno stato (es. non essere triste), piuttosto che quando cercano di creare il suo opposto (es. essere felici) (Wegner, Erber e Zanakos 1993). Questo avviene anche nell’attenzione: le persone, infatti, trovano più difficile sopprimere un determinato pensiero piuttosto che concentrarsi su un altro. Le intenzioni di controllo mentale, inoltre, possono essere collegate; per esempio, invece di cercare esclusivamente di non pensare ad un “orso bianco”, una persona potrebbe cercare di distogliere l’attenzione da questo pensiero concentrandosi su qualcosa di specifico, ad esempio una “macchina nera”: due strategie semplici di controllo mentale si congiungono in una strategia composta (Wegner, Schneider, Carter e White 1987). Nella soppressione, Wegner e Schneider (in Wegner, Wezlaff 1997) distinguono due forme di strategie composte che, pur avendo gli stessi processi alla base, si differenziano nel modo in cui si modificano. La prima forma è la soppressione primaria con concentrazione ausiliaria, strategia denominata comunemente “distrazione”, dove l’intenzione della persona è sopprimere un pensiero concentrandosi su qualcos’altro: la persona evita, per esempio, di pensare ad un appuntamento medico leggendo un libro. In questa strategia lo scopo è sopprimere, così diverse strategie di concentrazione possono essere utilizzate se quella operante fallisce: se un libro non è abbastanza avvincente da tenere la mente lontana dal pensiero-bersaglio, la persona potrebbe decidere di fare un’altra cosa, come guardare la televisione. La seconda forma, complementare alla prima, è la concentrazione primaria con soppressione ausiliaria, dove la persona sopprime un pensiero nella speranza di riuscire a concentrarsi su qualcos’altro: la persona si concentra sulla lettura di un libro per evitare i pensieri relativi all’appuntamento. In essa lo scopo è concentrarsi, così differenti strategie di soppressione possono sostituire quella operante se essa è inefficace: se evitare il pensiero è insufficiente per promuovere una concentrazione efficace sul libro, per cui la persona ogni cinque minuti va al frigorifero, la scelta successiva potrebbe essere evitare il pensiero del cibo. Le persone possono, infine, controllare la loro mente cercando di focalizzare l’attenzione in un modo particolare o da una certa prospettiva: le strategie interpretative possono esser viste come tecniche di controllo mentale utilizzate quando il riorientamento diretto dell’attenzione potrebbe risultare difficile. Concettualizzare il bere alcolici come un tradire la propria famiglia può permettere ad un individuo di esercitare un controllo che non ha la forma di uno specifico 141 Silvia Giovinazzo, Francesca Siano avvicinamento o evitamento: una forma di controllo mentale che si attua attraverso una trasformazione interpretativa. La realizzazione che le persone spesso formano specifiche intenzioni composte di controllo mentale, e che queste intenzioni possono produrre processi operativi e di monitoraggio molto diversi, suggerisce che occorre esaminare più a fondo “come” le persone si rappresentano ogni particolare intenzione di controllo mentale. Ciò che un individuo conosce del tipo di funzionamento che è in grado di mettere in atto in un determinato contesto o di fronte un determinato compito, influenza in modo determinante il processo di attuazione di determinate strategie. La capacità di regolare i propri stati mentali, infatti, richiede non solo di riconoscere che il proprio stato mentale non è quello desiderato ma anche di utilizzare queste informazioni e quelle contestuali per modificarlo. La capacità di comprendere i fenomeni mentali e di operare su di essi per fronteggiare specifici stati problematici rientra nel concetto di metacognizione definita da Carcione e coll. (in Semerari 1999) “la capacità dell’individuo di compiere operazioni cognitive euristiche sulle proprie e altrui condotte psicologiche, nonché la capacità di utilizzare tali conoscenze a fini strategici per la risoluzione di compiti e per padroneggiare specifici stati mentali fonte di sofferenza soggettiva”. Un elemento di conoscenza metacognitiva, quindi, influenza le condotte cognitive ed è in stretta relazione con i processi di controllo attuati e con le strategie individuali di analisi e soluzione di problemi. Uno degli aspetti costitutivi della funzione metacognitiva è, secondo Semerari (1999) il concetto di mastery: essa rappresenta la capacità dell’individuo di affrontare il proprio stato e i propri processi psicologici non come semplici dati di fatto ma in termini di problemi da risolvere (“Ho paura ® Non posso aspettare che mi passi così come mi è venuta”), elaborando strategie di intervento efficaci per la risoluzione di compiti cognitivi e per padroneggiare stati mentali problematici. Una cosa è, infatti, monitorare e riconoscere i propri contenuti di pensiero e le proprie emozioni, un’altra è riflettere su di essi in modo integrativo, un’altra ancora è utilizzare attivamente tale conoscenza per attuare strategie efficaci di regolazione. Il soggetto, inoltre, deve essere in grado di impostare strategie progressivamente più sofisticate che possono essere suddivise (Semerari 1999) in tre livelli in base alle abilità metacognitive che richiedono. Il primo livello consiste nel modificare lo stato mentale intervenendo, consapevolmente, sull’organismo attraverso strategie di evitamento o utilizzando il contesto relazionale come supporto (prendere l’autobus con un’amica per evitare di avere paura). Il secondo livello comprende strategie di regolazione volontaria del proprio assetto mentale modificando attivamente l’attenzione e la concentrazione, il pensare o il non pensare, ad un problema (“Cerco di distrarmi e di non pensare alla solitudine”). Le strategie di terzo livello, richiedono il ricorso ad attività mentali ancora più complesse e comprendono la critica sulle credenze alla base dello stato problematico, l’utilizzo di conoscenze sul proprio funzionamento mentale e l’accettazione dei limiti personali nel padroneggiare se stessi o influire sugli eventi. 4. Controllo Mentale ed Emozione Pensieri, emozioni e fisiologia condividono una relazione interattiva e di reciproca influenza. Il variare di un elemento di questo processo interattivo potrebbe alterare l’intero sistema e 142 La teoria del controllo mentale dare ad un individuo un motivo per cercare di ottenere stati desiderabili, non solo mentali ma anche di umore. Nella nostra vita emotiva, tuttavia, non esiste un meccanismo che ci permette di ottenere e mantenere uno stato d’umore desiderato; occorre invece agire sulla manipolazione di alcuni processi che a loro volta influenzeranno le emozioni. I pensieri sono il bersaglio più ovvio e vantaggioso per tale intervento: gli stati fisiologici ed emotivi possono essere eccessivamente difficili da modificare senza qualche tipo di sforzo consapevole e “mentale” che identifichi, ispezioni e “ridirezioni” i pensieri. Attraverso il controllo mentale, quindi, è possibile ottenere un controllo anche sui fattori che attivano le emozioni. In questo paragrafo, l’attenzione è rivolta alle conseguenze delle strategie di controllo mentale che le persone comunemente impiegano nel tentativo di controllare il proprio umore. I risultati di studi sperimentali sulla manipolazione dell’umore sono coerenti con la generale scoperta che individui disturbati emotivamente sono tormentati da pensieri intrusivi e negativi. Per esempio, le ricerche hanno documentato che gli individui depressi sono particolarmente inclini a riportare pensieri sfavorevoli nei confronti di se stessi, il mondo e il futuro (Beck 1976). L’analisi delle descrizioni del “flusso di consapevolezza” di questi individui indica una preponderanza di pensieri negativi ricorrenti che essi stessi riconoscono come contributi principali del loro stato infelice (Wenzlaff, Wegner & Roper 1988). Pensieri negativi non-voluti dominano anche la vita mentale di individui che sperimentano ansia fastidiosa, rabbia, gelosia e altre emozioni non piacevoli (Eysenk 1992, Tice e Baumeister 1993). Individui con disturbi emotivi riferiscono non solo di essere più preoccupati di migliorare il loro umore rispetto ad individui normali, ma anche di spendere più tempo ed energie nel raggiungimento di questo scopo. Questo fatto solleva un paradosso: quegli individui che dedicano la maggior parte del loro tempo e della loro attenzione a ristabilire il loro umore, sembrano essere gli stessi che più probabilmente soffrono di persistenti problemi emotivi. Una spiegazione di questa apparente anomalia è che tali individui impiegano strategie di controllo controproducenti che in realtà alimentano i pensieri che sono causa delle loro emozioni negative. La soppressione di pensieri negativi è una delle strategie di controllo dell’umore più utilizzata da individui depressi e ansiosi; tale forma di controllo mentale, come abbiamo visto, può avere conseguenze negative. Essa, infatti, comporta l’attivazione sia del processo operativo intenzionale, che ricerca contenuti mentali che produrrebbero lo stato desiderato (pensieri positivi o assenza di pensieri negativi), sia del processo paradossale di monitoraggio che ricerca quei contenuti mentali che segnalano l’insuccesso nel raggiungimento dello stato desiderato. Abbiamo visto, inoltre, che la normale efficacia del processo operativo intenzionale può essere indebolita quando la capacità d’attenzione è diminuita, permettendo così al monitor paradossale di esercitare un’influenza maggiore. Molte ricerche indicano che, rispetto individui normali, persone con disturbi emotivi dispongono di minori risorse cognitive e questo pregiudica la loro abilità di eseguire compiti faticosi (Dobson e Dobson 1981, Eysenk 1992). Questo stato di cose compromette gli sforzi di controllo mentale intensificando l’impatto del sistema di monitoraggio e aumentando l’accessibilità di pensieri negativi che depressi ed ansiosi cercano di evitare. I pazienti ossessivi spesso cercano di modificare i propri stati mentali sforzandosi di distrarsi. Come osserva Mancini (2001), gli effetti controproducenti di tale modalità avvengono per due ragioni fondamentali: perché per controllare di non aver pensato a qualcosa bisogna inevitabil143 Silvia Giovinazzo, Francesca Siano mente pensarci e perché il tentativo di soppressione avviene mentre la mente del soggetto è impegnata, utilizzando risorse cognitive, sul fronte della prevenzione. Oltre le ridotte risorse cognitive, ci sono almeno altre due ragioni per cui gli effetti paradossali del controllo mentale potrebbero verificarsi specialmente con umore depresso o ansioso. Una è che questi individui sono talmente abituati a pensare negativamente che questa è diventata una tendenza automatica (Beck 1967). Una volta che un pattern di pensieri è diventato automatico, è facilmente attivabile, a volte senza intenzione, e richiede un maggior grado di sforzo per inibirlo. I pensieri automatici negativi mostrano più probabilmente queste proprietà perché l’accompagnato stato di umore negativo serve a rendere i pensieri umore-congruenti più accessibili (Bargh 1989, Gilbert 1989, Posner e Snyder 1975) e, quindi, più facilmente introdotti nella consapevolezza dal processo di monitoraggio. Un’altra ragione che aumenta la probabilità di effetti paradossali nelle persone depresse o ansiose è l’aumentato auto-focus associato con l’umore negativo. Ne consegue una maggiore accessibilità di informazioni auto-referenti che compromettono il sistema operativo umore-incongruente e rafforzano il processo di monitoraggio umore-congruente. Secondo Wegner e Zanakos (1994), una tendenza cronica e generalizzata a controllare i propri pensieri può essere considerata un fattore di rischio per condizioni psicopatologiche causando sintomi di ossessione, depressione e ansia. Wegner (1989) sostiene che il circolo vizioso della soppressione di un pensiero, aumento dello stesso, e ancora (maggiore) soppressione e (maggiore) aumento può essere sufficiente a trasformare un pensiero neutrale in una intrusione ossessiva. Conferme indirette all’idea che la soppressione del pensiero abbia un suo ruolo nello sviluppo delle ossessioni patologiche, vengono da diverse ricerche (Rutledge 1998, Salkovskis 1999) che esaminano il ruolo dei tentativi di soppressione di pensieri intrusivi spiacevoli nella sintomatologia ossessiva. Muris e al. (1996) e Wegner e Zanakos (1994) trovarono, in un gruppo non clinico, una correlazione significativa tra i punteggi del WSBI (White Bear Suppression Inventory), che misura le differenze individuali nella motivazione a sopprimere pensieri non voluti, e i punteggi del MOCI (Maudsley Obsessive-Compulsive Inventory). Trinder e Salkovskis (1994), in una ricerca, trovarono che i soggetti cui veniva chiesto di sopprimere un pensiero negativo intrusivo recente, riportavano più intrusioni ed un disagio maggiore rispetto il gruppo di controllo. Una delle maggiori conclusioni dello studio di Rachman e De Silva (1978) è che le intrusioni ossessive nei pazienti DOC e nei soggetti normali sono molto simili nel contenuto, ma differiscono in termini di frequenza, intensità, disagio e soppressione. I risultati di tali studi dimostrano lo stretto collegamento tra la soppressione, l’aumento di frequenza delle intrusioni ossessive e la valutazione emotiva dell’intrusione stessa. Recenti studi, inoltre, suggeriscono che la soppressione del pensiero può essere coinvolta anche nel comportamento compulsivo. Per esempio, Muris, Merckelbach e Clavan (1997) confrontando i rituali di soggetti normali e di pazienti DOC, osservarono che essi non differivano nel contenuto ma in termini di frequenza, intensità, disagio e soppressione. In uno studio di Rassin, Merckelbach, Muris e Stapert (1999), soggetti con alti punteggi nel WBSI sperimentavano i propri rituali come più intensi, più disagevoli e provocanti maggior resistenza rispetto i soggetti con punteggi bassi. Queste scoperte sono coerenti con la nozione che la soppressione del pensiero ha un suo ruolo nello sviluppo di compulsioni patologiche. La domanda che sorge è se la soppressione e i suoi effetti paradossali realmente agiscono come antecedenti nell’eziologia di intrusioni e rituali patologici. 144 La teoria del controllo mentale Sebbene le ricerche sostengano tale collegamento causale, c’è da tener conto di altre descrizioni più articolate sullo sviluppo dei sintomi DOC. Ad esempio, il bias cognitivo conosciuto come “fusione pensiero-azione”, TAF (Rachman, Thordarson, Shafran and Woody 1995; Rachman 1992; Rachman 1997), può contribuire ad un esagerato senso di responsabilità e, successivamente, indurre alla soppressione, concettualizzata come una secondaria e possibile reazione controproducente alle intrusioni-TAF. I risultati degli studi di Rassin Merckelbach, Muris e Spaan (1999) e di Rassin, Muris, Schmidt e Merckelbach (2000), sono coerenti con l’idea che sia il bias TAF a promuove il pensiero intrusivo precedendo i tentativi di soppressione: l’interpretazione dell’intrusione sembra essere una causa fondamentale dei sintomi ossessivo-compulsivi più della tendenza a sopprimere le intrusioni. Si evidenzia, quindi, la necessità di ulteriori studi che esaminino la precisa dinamica tra questi due fattori. Esaminando gli effetti della soppressione in pazienti con Disturbo d’Ansia Generalizzata (GAD), Becker, Rinck, Roth e Margraf (1998) hanno riscontrato una maggior difficoltà di questi soggetti, rispetto al gruppo di controllo, nel sopprimere i pensieri riguardanti le loro preoccupazioni ed un immediato “effetto enhancement” (di accrescimento) quando tentavano di sopprimerle. Ma queste scoperte non dimostrano che la soppressione del pensiero sia il meccanismo sottostante le preoccupazioni nei soggetti GAD. Inoltre, esiste in letteratura una prospettiva diversa (Purdon 1999; Rassin, Merckelbach e Muris 2000) secondo la quale il “preoccuparsi” sarebbe una reazione cognitiva, un atto di evitamento della paura in situazioni di incertezza e ambiguità: le ricerche (Borkovec, Inz 1990) suggeriscono che, piuttosto che essere preceduto da meccanismi di evitamento mentale come la soppressione, il “preoccuparsi” è un atto dell’evitamento mentale. Dalle ricerche emerge che la soppressione del pensiero accompagna anche la fobia e l’umore depresso, ma non c’è ragione di credere che essa abbia un ruolo causativo nell’eziologia in questi disordini. Wenzlaff, Wegner e Roper (1988), in uno studio, osservarono che gli individui depressi manifestano un deficit nell’abilità di sopprimere pensieri indesiderati, negativi. I risultati mostrano che l’efficacia degli sforzi di soppressione di questi individui è di breve durata: la depressione minaccia il controllo mentale su pensieri negativi rafforzando così gli effetti paradossali della soppressione del pensiero. C’è da notare però che in queste analisi la soppressione è un prodotto piuttosto che un determinante dell’umore depresso. Questa interpretazione ben si adatta alla visione di Rachman secondo il quale l’umore depresso danneggia la controllabilità dei pensieri intrusivi, mentre l’ansia aumenta la natura minacciante di tali cognizioni. Nonostante l’evitamento e le intrusioni siano caratteristiche del Disturbo Acuto da Stress, c’è un solo studio che indaga gli effetti della soppressione del pensiero in individui con tale disturbo (Harvey e Bryant 1998); da esso emerge che tali soggetti riportano livelli più alti di ansia, pensieri trauma-collegati e soppressione. Il Disturbo Post Traumatico da Stress è caratterizzato da un persistente “rivivere l’evento traumatico”, in forma di ricordi intrusivi e ricorrenti, e dall’evitamento di stimoli ad esso associati, inclusi pensieri ed emozioni. Questo evitamento può avere un ruolo nella persistenza del disturbo in quanto, non permettendo la piena attivazione delle strutture che mantengono la risposta fobica agli stimoli associati all’evento traumatico, interferisce con i processi di adattamento (Foa, Steketee e Rothbaum 1989). I risultati delle ricerche (Rassin, Merckelbach e Muris 2000) suggeriscono che, nonostante ci sia un collegamento tra soppressione e patologia, sono le intrusione a dare avvio all’evitamento attivo piuttosto che il contrario: l’intrusione precede l’evitamento, il quale è considerato come strategia, sebbene maladattiva, di coping in risposta al disagio risultante dai ricordi intrusivi. Questo concorda con quanto suggerito da Wells e Mattheus (1994), secon145 Silvia Giovinazzo, Francesca Siano do i quali le convinzioni sulla ricorrenza del pensiero potrebbero aumentare il disagio e quindi la motivazione a sopprimere. Per quanto riguarda, infine, gli effetti delle strategie di soppressione del pensiero sulla memoria, è ipotesi condivisa che gli adulti che hanno sperimentato eventi traumatici nell’infanzia possono far fronte a queste esperienze impegnandosi in una soppressione selettiva dei ricordi traumatici (Terr 1991); così, la soppressione del pensiero potrebbe essere alla base dell’amnesia psicogena o, secondo il DSM IV, dissociativa. Ma è difficile conciliare le osservazioni di Wegner, secondo cui la soppressione del pensiero porta ad una iperaccessibilità dello stesso, con l’idea che l’azione deliberata di escludere un ricordo porti facilmente alla sua rimozione dalla consapevolezza. Soggetti che hanno sperimentato un trauma, è molto improbabile che sviluppino una totale amnesia dissociativa: quello che più spesso accade è che ci sia un ricordo incompleto del trauma che può dipendere anche da uno stile di coping basato su strategie di evitamento, come ad esempio la soppressione del pensiero. Recenti studi hanno dimostrato che la soppressione del pensiero può avere effetti che compromettono la memoria episodica (Wegner, Quillian e Houston 1996); altri hanno trovato correlazioni significative tra il WBSI e la Scala delle Esperienze Dissociative (Rassin, Merckelbach e Muris 2000). Ma nonostante ci siano prove che suggeriscono che la soppressione del pensiero abbia un effetto negativo sulla memoria episodica, i precisi dettagli di questa connessione non sono ancora ben compresi. Sono necessari, quindi, studi specifici che definiscano la consistenza, i limiti e le variabili di tale strategia e dei suoi effetti sulla memoria. Conclusioni Sebbene gli studi dimostrino che le manovre di soppressione del pensiero sono presenti in un’ampia varietà di problemi e disordini mentali, il modello della soppressione paradossale del pensiero, proposto da Wegner, non spiega pienamente la relazione tra soppressione del pensiero, intrusione cognitiva e psicopatologia. Alcuni aspetti vanno valutati più dettagliatamente. Ad esempio, negli studi precedenti, preoccupazioni, ricordi traumatici intrusivi, pensieri ansiogeni e pensieri intrusivi sono stati trattati come fenomeni simili che possono o non diventare bersagli della soppressione; queste manifestazioni dell’intrusione cognitiva condividono un numero di caratteristiche ma differiscono anche in aspetti importanti. È necessaria quindi un’accurata tassonomia delle intrusioni cognitive, e delle dimensioni su cui esse variano, che permetta di formulare ipotesi più raffinate circa le dinamiche sottostanti tali intrusioni e il ruolo giocato, in queste, dalla soppressione del pensiero. In secondo luogo, si pensa alla soppressione del pensiero come ad un fenomeno unitario, mentre esiste una letteratura ampia, anche se dispersiva, sulle strategie che le persone utilizzano per far fronte alle intrusioni cognitive; è improbabile che tutte le strategie abbiano effetti controproducenti che concorrono allo stesso modo alla persistenza della psicopatologia. Potrebbe essere interessante valutare, ad esempio, le credenze metacognitive sulle strategie di controllo, per verificare, se e come, si collegano agli effetti controproducenti della soppressione. Un secondo problema che necessita di ulteriori studi riguarda le complesse interazioni tra umore, intrusioni cognitive, strategie cognitive di coping e tipi di psicopatologia. I risultati di alcune ricerche suggeriscono, ad esempio, che la disforia riduce l’accettabilità di alcune intrusioni; l’umore potrebbe quindi far scattare la soppressione del pensiero e dare così origine alle 146 La teoria del controllo mentale ruminazioni ossessive (Freeston e al. 1991, Rachman 1978). Si può concludere che la soppressione del pensiero, pur non avendo un ruolo causativo determinante nello sviluppo di diversi sintomi psicopatologici, rappresenti una strategia di controllo frequentemente utilizzata le cui conseguenze paradossali rappresentano un fenomeno marcato. Occorrono però ricerche più dettagliate che, distinguendo i complessi fenomeni implicati, permettano di valutare la complessa interazione tra i processi di controllo mentale, in particolare le strategie di soppressione del pensiero, e le diverse manifestazioni psicopatologiche. Riassunto Il tentativo, consapevole, di evitare alcuni pensieri spiacevoli è noto come soppressione del pensiero. Le ricerche hanno documentato gli effetti paradossali che tale meccanismo può avere in quanto porta ad un aumento della frequenza del “pensiero da sopprimere”. La soppressione del pensiero rientra nell’ampio complesso delle strategie di controllo mentale, alcune delle quali hanno un’influenza sulle diverse patologie, se non in un senso causativo almeno nel mantenimento del problema. Scopo di questo articolo è esaminare la teoria e le ricerche sul controllo mentale, nel tentativo di comprenderne le diverse strategie e le loro conseguenze. Summary Key Words: Thought Suppression - Strategies of Mental Control The conscious attempt to avoid some unpleasant thoughts is known as thought suppression. Researches have documented the paradoxical effects such process may have in that it leads to an increased frequency of the “to be suppressed thought”. Thought suppression is part of a wide set of strategies of mental control, some of which influence various psychopathologies, if not with a causative role at least in the maintenance of problem. The present article examines theory and researches about mental control, in the attempt to understand its various strategies and their consequences. Bibliografia Bargh, J.A. (1990): Auto-motives: preconcious determinants of social interaction. In Higgins E.T. & Sorrentino R.M. (Eds.), Handbook of motivation and cognition, vol.2. New York: Guilford. Bargh, J.A. (1989): Conditional automaticity: varieties of influence in social perception and cognition. In J.S. Uleman & J.A. 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