Introduzione - Jura Gentium

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Introduzione - Jura Gentium
Introduzione
Non regalate terre promesse
a chi non le mantiene
(Fabrizio De André, Rimini)
L’alterità terrorizza. Nel passaggio di millennio i conflitti
più minacciosi e violenti parlano il linguaggio delle identità,
delle fedi e delle appartenenze anche quando esprimono interessi economici e strategie geopolitiche. Alla narrazione
sull’universalità dei valori elaborati nell’ambito della cultura
europea, a cominciare dai diritti umani e dalla democrazia, si
contrappone la riaffermazione di verità rivelate, assolute e
non negoziabili. Una complessa varietà di movimenti fondamentalisti attraversa le tre religioni del Libro – ebrei dei diversi livelli di ortodossia, cattolici integralisti, ortodossi teocratici ed evangelici born again, sunniti e sciiti – ma investe
anche le culture politeiste, a cominciare dall’India. E tuttavia
ha trovato le sue espressioni più eclatanti nel terrorismo jihadista, da New York a Parigi, da Giacarta a Ouagadougou, e
nella costruzione di stati in territori dove disinvolte interpretazioni della Sharia trovano la loro Ortung. Ai confini della
Fortezza Europa si muore, si respinge, si rinchiude nei campi
e anche al suo interno si alzano muri fisici e sociali: forze politiche isolazioniste, xenofobe, più o meno apertamente razziste conquistano il potere od ottengono clamorosi successi
elettorali, mentre negli Stati Uniti promettere la chiusura delle frontiere e l’espulsione degli islamici fa aumentare i consensi in vista delle elezioni presidenziali. Fin dai primi saggi
di Samuel Huntington gran parte della comunità scientifica
ha rigettato la tesi dello “scontro di civiltà” e tuttavia l’espressione riaffiora continuamente come una profezia che si autoavvera,1 mentre pochi esponenti politici sono capaci di resistere a dichiarare “siamo in guerra!”. In generale, l’“Occidente”
si sente assediato e in diverse parti del pianeta sono ora i cri-
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stiani ad apparire minacciati e perseguitati. Di fronte alla
drammaticità di questi scenari tornare a occuparsi della conquista dell’America, avvenuta più di cinque secoli fa, potrebbe essere considerata una mera esercitazione accademica, se
non un ozioso passatempo intellettuale.
Questo libro parte dall’ipotesi che non sia così. Il confronto violento con sistemi sociali e culturali differenti segna tutta
la storia della cristianità europea e della modernità occidentale. L’anno in cui si colloca convenzionalmente l’inizio dell’epoca moderna vede insieme la fine dell’ultimo regno musulmano nella penisola iberica, con l’assedio di Granada e la
strage degli islamici che fa seguito alla cacciata degli ebrei, e
il viaggio di Cristoforo Colombo verso occidente, che apre la
via alla conquista europea del Nuovo Mondo, cioè al più grande genocidio di cui si abbia memoria storica.
L’incontro dei cristiani europei con popolazioni radicalmente “altre” si risolve immediatamente nel depredare, assoggettare, sfruttare. Questo approccio è evidente già nel resoconto del primo viaggio di Colombo, che trova nella quasi
totalità dei casi indigeni meravigliati e attoniti, ma comunque ben disposti nei suoi confronti – è fra l’altro salvato dal
naufragio dal re Guacanagarí di Haiti – e tuttavia non mostra
alcun dubbio sulla legittimità della presa di possesso delle
terre scoperte in nome dei re cattolici di Castiglia e León, né
sul massiccio ricorso alle armi nel caso dei primi blandi tentativi di resistenza, né sulla cattura di alcuni nativi come
schiavi. Al suo ritorno i sovrani spagnoli si preoccupano di
ottenere da papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia) gli stessi
privilegi concessi al Portogallo per la conquista dell’Africa. In
effetti la bolla Inter caetera divinae del maggio 1493 affida loro
il mandato esclusivo per la predicazione del cristianesimo oltre una linea posta a ovest delle isole di Capo Verde, collegato
al diritto di sottomettere le popolazioni. Già durante il secondo viaggio di Colombo inizia la conquista militare e la repressione violenta delle prime rivolte indigene, mentre si avvia la
deportazione di schiavi e il repartimiento della popolazione
locale fra gli spagnoli per impiegarla in forme servili di lavoro, secondo la modalità che sarà sistematizzata con l’istituzione dell’encomienda.
È solo nel 1511, con l’arrivo in America di soggetti relativamente indipendenti dal sistema coloniale, specificamente
con la fondazione della prima comunità dell’ordine domenicano all’Hispaniola, che lo spopolamento già irreversibile dei
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nativi viene riconosciuto e vengono denunciati le violenze e
l’estremo sfruttamento. L’evangelizzazione di infedeli che
non hanno mai conosciuto la rivelazione rappresenta insieme
la prima giustificazione ideologica della conquista e la potente motivazione per contestarne le modalità, che si risolvono
nella disumanizzazione dei nativi: “¿éstos no son hombres?”
chiedono i frati predicatori. È il primo atto di una discussione
che investirà la Spagna per decenni, attraversata da questioni
teologico-giuridiche che contribuiranno alla fondazione del
pensiero politico moderno. Un dibattito intenso e significativamente aperto, durante il quale si confronteranno i partigiani dei coloni, i difensori degli indiani, le istanze della corona
con i suoi macroscopici interessi e i “dubbi di coscienza” di
alcuni sovrani.
Occorre infatti tenere presente che la conquista spagnola
non è avvenuta secondo le modalità di una occupazione territoriale a opera di moderni eserciti professionali e di consolidate burocrazie amministrative. Fin dal primo viaggio di Colombo, pur finanziato dalla corona, si è trattato di una serie di
iniziative personali, non sempre promosse e in molti casi
neppure autorizzate dai sovrani e dai loro rappresentanti; il
caso più eclatante è quello di Hernán Cortés che ha avviato la
conquista del Messico nonostante il divieto del governatore
Diego Velázquez. La possibilità di esercitare un reale controllo sull’azione dei conquistatori e dei coloni da parte dei sovrani che si trovavano in Europa era resa problematica dalla lentezza e dalla difficoltà delle comunicazioni e l’effettività delle
stesse riforme legislative si rivelava estremamente fragile, incontrando resistenze già nei funzionari che avrebbero dovuto
metterle in opera, fino a forme di aperta ribellione. Nello stesso sistema coloniale si confrontavano gruppi e interessi diversi, dai conquistatori ai razziatori di schiavi, ai coloni delle differenti ondate, ai funzionari del governo e dell’amministrazione,
alla Chiesa nelle sue varie articolazioni, dai vescovi ai chierici, ai differenti ordini religiosi discordanti sulla pratica pastorale e divisi al loro interno. Ciò ha contribuito a un dibattito
relativamente libero, che ha coinvolto giuristi, teologi e umanisti e ha prodotto significative innovazioni teoriche.
Protagonista di questo dibattito è stato Bartolomé de Las
Casas (o Causus), che ha maturato la sua scelta di campo dalla parte degli indigeni mentre si trovava fra Haiti e Cuba come chierico-colono, cappellano delle spedizioni di “pacificazione” ed encomendero. Nella sua militanza pratica e teorica
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per arrestare la distruzione dei nativi e liberarli dalla soggezione ha cercato una via per il confronto fra differenti sistemi
sociali e culturali che non si risolvesse immediatamente nella
sottomissione violenta e garantisse il riconoscimento degli
interlocutori nella loro dignità. È riuscito a portare la denuncia delle guerre di conquista e dello sfruttamento fin nel cuore
del potere spagnolo e imperiale, guadagnando credito e fiducia fra alcuni dei principali dignitari della corte e fra gli stessi
sovrani, in particolare Carlo V.
“Sia a livello pratico che a livello teorico, l’anticolonialismo risale alle origini stesse del colonialismo,”2 scrive Robert
Young nella sua storia dei postcolonial studies. Se il postcolonialismo si colloca “in una relazione simbiotica con questa
tradizione”, il “padre fondatore” dell’anticolonialismo europeo è Las Casas, capace di porre questioni “che continueranno a perseguitare il colonialismo fino alla sua dissoluzione”.
Sostenendo che come sudditi del re di Spagna gli indiani sono titolari degli stessi diritti degli spagnoli egli, continua
Young, ha posto le basi sia per l’approccio riformista sia per
quello radicale alla colonizzazione. Da una parte “ha elaborato l’argomento per l’assimilazione” poi sviluppato nel modello francese di governo, che vede le colonie come una parte
della madrepatria. Dall’altra parte “ha messo in questione
l’intero fondamento giuridico del dominio europeo e nel farlo
ha promosso il fondamento legittimo della resistenza a esso”.3 Le opere di Las Casas, conclude Young, contribuiranno
al mito del buon selvaggio e allo sviluppo dei diritti umani
universali, mentre la sua denuncia del “peccato originale”
della conquista è stata vista come l’origine della Teologia della liberazione latinoamericana. In appena un capoverso
Young evoca così gran parte delle questioni-chiave che si pongono nell’interpretazione dell’opera di Las Casas: l’alternativa
fra l’approccio riformista e quello radicale, il senso del suo
umanitarismo e dell’attribuzione universalistica dei diritti e
dei poteri a tutti gli esseri umani, la sua teologia, il tipo di
sguardo che ha rivolto agli indigeni.
In quasi cinque secoli di dibattito, le differenze nelle valutazioni del pensiero e dell’opera di Las Casas sono state marcate in una gamma che va dalla demonizzazione all’apologia
acritica; il “Protector de los indios” è stato visto – dagli avversari suoi contemporanei e poi in particolare nell’epoca franchista – come un diabolico traditore della missione civilizzatrice della nazione spagnola o, al contrario, considerato come
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solidale all’imperialismo politico ed ecclesiastico e come corresponsabile dell’etnocidio culturale degli indigeni, al quale
avrebbe fornito una legittimazione potente proprio perché
faceva appello a mezzi non violenti; è stato analizzato come
uno psicopatico dalla doppia personalità o venerato come
profeta e apostolo delle Americhe. Gli interpreti più favorevoli hanno esaltato il significato critico e le potenzialità emancipative del suo pensiero, enfatizzandone i passaggi di sconcertante radicalità e di inquietante durezza, o al contrario hanno
cercato di smussarne l’“estremismo” per ricondurlo nell’ambito dell’ortodossia tomistica condivisa da ogni buon domenicano.
Las Casas non ha soltanto esercitato un’azione significativa sui decisori politici della sua epoca; la sua influenza si è
prolungata nei secoli successivi, a partire dall’ampia diffusione della sua Brevísima relación de la destrucción de las Indias,
tradotta e pubblicata nelle principali lingue europee, che verrà
fra l’altro utilizzata in area protestante in funzione antispagnola, fornendo argomenti per la cosiddetta Leyenda negra cui
risponderà la contronarrazione ispanofila, o White Legend.
Ma, al di là dell’influenza politica immediata, le opere lascasiane hanno un grande rilievo teorico: dischiudono filoni di
riflessione critica che saranno ripresi e sviluppati nei secoli
successivi. Gli interpreti hanno fatto riferimento al discorso
dei diritti umani, alla fondazione del diritto internazionale, alla sovranità popolare, oltre che alla critica del colonialismo; si
potrebbe aggiungere che Las Casas propone una prima denuncia dello sfruttamento moderno del lavoro.
In questo volume si cercherà dunque di discutere l’importanza e l’originalità del pensiero politico e giuridico di Las
Casas, piuttosto che interpretare la sua biografia e approfondire i dettagli del suo impegno pratico in favore degli indigeni
americani. Ciò non significa sottovalutare il rilievo della sua
attiva militanza. Anzi, proprio perché prende parte per gli indigeni Las Casas – nel quadro della prima globalizzazione
conseguente alla conquista europea dell’America e dello choc
culturale derivante dalla scoperta di popoli radicalmente differenti – è fra i primi ad assumere una prospettiva che si allontana molto da quella tipica dei cristiani spagnoli; proprio
per questo offre uno sguardo interpretativo originale, che si
apre al tentativo di comprendere l’alterità e al riconoscimento dei contesti culturali. Ritornare sulla soglia della modernità, alla prima discussione sulla legittimità dell’espansione eu-
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ropea in altri continenti, sul senso dell’affermazione della sua
cultura dominante e della predicazione del cristianesimo in
regioni che non lo hanno mai conosciuto, può allora contribuire ad ampliare la prospettiva con la quale guardiamo alla
contemporaneità e alle sue tragedie, aumentando la profondità di campo.
Per perseguire questo obiettivo occorrerebbe un lavoro
analogo a quello svolto dagli storici della Cambridge School
per altre epoche e altre esperienze: una ricostruzione puntuale del contesto linguistico, a cominciare dallo scrutinio delle
relazioni dei conquistatori e dei cronisti, dei documenti della
corte, del Consiglio delle Indie e della Casa delle contrattazioni, degli epistolari, degli interventi dei grandi intellettuali così
come delle figure di secondo piano nella discussione teologica, giuridica e politica.4 E, ovviamente, si dovrebbe confrontare tutto questo con quel poco della voce dei nativi che è filtrato fino a noi. Ciò non rientra nei limiti del presente lavoro,
che non pretende alcuna completezza nella ricostruzione storica e non ha comportato ricerche filologiche originali: è basato sulla lettura delle Obras completas di Las Casas5 e sullo
stato dell’arte delle interpretazioni biografiche.
L’esperienza esistenziale di Las Casas attraversa una serie
di “conversioni” (da cappellano dei conquistadores ed encomendero a difensore degli indiani; da Realpolitiker riformista a profeta radicale; da sostenitore dell’utilizzazione degli
schiavi africani ad abolizionista; da mite colonizzatore a critico del colonialismo) e il suo pensiero guadagna nel tempo in
originalità e radicalità. Nell’interpretarlo si cercherà di rendere conto anche delle tensioni che lo attraversano, chiedendosi
di volta in volta se si tratta di aporie irrisolte, oppure se non
siamo di fronte a opposizioni dialettiche, in definitiva produttive di conoscenza. Schematizzando, si possono indicare
alcune di queste tensioni: nel retroterra culturale, fra il bagaglio della tradizione scolastica e le aperture all’umanesimo e
all’empirismo (capitolo 1); sulla teoria della guerra giusta, fra
la sua radicalizzazione in funzione della difesa degli indigeni e la messa in questione dello stesso paradigma teologicogiuridico che la sostiene (capitolo 2); sul tema della schiavitù,
fra lo svuotamento dall’interno della dottrina aristotelica e la
teorizzazione della libertà naturale di tutti gli esseri umani
(capitolo 3); nelle indagini protoantropologiche, fra il contestualismo prospettivistico e l’universalismo cristiano, fra il
riconoscimento dell’altro e la sua idealizzazione oggettivante
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(capitolo 4); in teoria politica, fra la riproposizione delle categorie aristoteliche in funzione dell’apologia delle istituzioni indigene e la teorizzazione dell’uguaglianza e dell’autogoverno,
fra la fondazione dell’autonomia delle comunità e la legittimazione della giurisdizione dell’impero (capitolo 5). Tutte tensioni che si ritrovano nel tentativo di rendere compatibili l’affermazione della legittimità dell’evangelizzazione e la denuncia
dell’illegittimità della conquista. La questione fondamentale
nell’interpretazione del pensiero di Las Casas (capitolo 6), che
ci riporta alle ambivalenze e alle aporie del nostro universalismo democratico e dello sguardo benevolo con cui ci rivolgiamo all’alterità.
Ringraziamenti
È stato Danilo Zolo, diversi anni fa, a propormi di scrivere
per i Quaderni Jura Gentium un volume su Las Casas. Si sarebbe aspettato, temo, di vederlo uscire molto prima. Essere
arrivato in fondo è anche un modo di ringraziarlo per questi
trenta anni in cui ho avuto la fortuna di conoscere da vicino la
sua radicalità teorica, di incontrare il suo impegno civile e di
imparare dal suo rigore scientifico; e, soprattutto, di godere il
privilegio della sua amicizia.
Ho svolto una parte fondamentale della ricerca a New York,
nell’ambiente ideale del Philosophy Department della New
School for Social Research e poi del Department of Political
Science della Columbia University. Ringrazio di cuore Chiara Bottici e Nadia Urbinati che mi hanno invitato come visiting scholar e Valeria Giglioli che ha reso possibile tutto ciò.
Fra le persone che ho incontrato durante quella preziosa
esperienza non posso non citare almeno Cinzia Arruzza, Richard Bernstein, Giovanna Borradori, Barbara Carnevali, Benoit Challand, Susanna Mancini, Dmitri Nikulin, Gloria Origgi, Spurgen Thompson e Camila Vergara. I miei studi sui temi
teorici legati alla conquista devono molto al confronto con
Marco Geuna e Lorenzo Milazzo. Quest’ultimo ha contribuito, insieme a Leonardo Marchettoni, Stefano Pietropaoli, Ilaria Possenti, Filippo Ruschi, Francescomaria Tedesco, alla
revisione, in tempi rapidissimi, del manoscritto; li ringrazio
per il lavoro attento, gli spunti critici e, non ultimo, il benevo-