Sono una ragazza come tante al mondo. Una sognatrice che va

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Sono una ragazza come tante al mondo. Una sognatrice che va
Sono una ragazza come tante al mondo. Una sognatrice che va incontro ai suoi comuni desideri, che affronta
questo lungo viaggio su un confine sterminato di acqua e sale, che mi separa dalla felicità e divide l’inferno
dal paradiso e il bene dal male.
Siamo più di quaranta in questo guscio di noce, obbligati a restare seduti, incollati tra noi per reggere meglio
l’urto della prua sulle onde, che schiaccia la pelle di questo oceano scuro, nero come il carbone. Siamo in tanti qui... Forse troppi! Quaranta storie di vita tutte diverse tra loro, che possono però trasformarsi in un solo
unico volto, un’unica ennesima tragedia a cui segue l'estenuante ulteriore lunghissimo sospiro di tristezza,
che ci dedica chi conoscerà la nostra sfortunata sorte se, mentre navighi questo immenso deserto di mare, si
para davanti un minaccioso vento, sventurato e cattivo, che soffia contro la tua sorte e si diverte a farti morire dalla paura, o si accanisce su di te fino ad affondarti ogni speranza giù nel mare.
Kabir, il mio innamorato è partito da due anni. L'ultima sua lettera l'ho ricevuta qualche mese fa che mi raccontava di stare bene e di trovarsi in un centro di raccolta profughi in attesa che gli venisse data una destinazione e da lì cominciare a farsi apprezzare con il suo lavoro di medico, perché lui ha studiato per curare le
persone, assistere i malati e fare del bene agli altri... quegli stessi altri che non sanno niente di lui e della sua
travagliata storia, e si limitano a giudicarlo dal colore della pelle o dal luogo da cui è partito per sfuggire alla
morte. Riuscirà a realizzare il suo sogno, ne sono certa, ma non posso più aspettare e morire lentamente
nell’attesa silenziosa di una sua lettera che non arriva mai. Devo andarlo a cercarlo.
Forse è in pericolo... Ha bisogno di me! E così son partita, perché è il cuore ad imporlo.
Accanto ho una ragazza che tiene stretto in braccio un bambino. Prova a sorridermi, come a voler condividere un po’ della sua pena. Mi chiede di dove sono e le rispondo «Galcaio», in un soffio di fiato, tanto sottile da
non sentirmi la voce. Le racconto che sono partita dalla Somalia ed ho attraversato l’Etiopia, il Sudan e
l’Egitto, dove mi sono imbarcata in questo viaggio temerario. Anche lei viene da terre lontane, martoriate
dalla guerra. Vuole raccontarsi, farmi compagnia con la sua storia e le sue parole che le scivolano di bocca e
si vanno a disperdere sulla cresta del mare. Ma ha tanta paura. Gliela leggo negli occhi e in un mento che vibra di continuo, come prima di piangere. Mi racconta di essere partita da Keren in Eritrea, dopo che il marito
è stato ucciso da guerriglieri dell'Isis, che ammazzano chiunque capiti sulla loro strada, se non è disposto a
trasformarsi in martire che inneggia al Califfato e combatte per la loro sporca guerra santa.
È scappata di notte, confondendosi al buio con la sua pelle nera per non finire nelle mani assassine di chi
l’avrebbe violentata e poi ammazzata, insieme a suo figlio Ahmed, ancora troppo piccolo per trasformarlo in
un guerriero o buono da indossare una carica di esplosivo.
Nura, questo il suo nome, non riesce ad andare avanti con le parole. Il pianto le ha rubato il fiato in gola. Le
accarezzo una spalla, ma so di non essere di nessun conforto. Vorrei sostenere la sua pena, ma non ne sono
capace. Poi, d’un tratto, una voce urla qualcosa e ci obbliga a voltarci di scatto. Perché lo scafista ci comanda
di stare giù, con la testa curvata fino a toccare le gambe? Qualcosa non va, c’è un pericolo o cosa? Qualcuno
col dito punta davanti a noi, dove la linea invisibile che divide il mare dal cielo viene interrotta dalla prua di
una nave, che spunta improvvisa e a sirena spiegata ci raggiunge per chiedere al pilota di fermare la barca,
perché la nostra corsa finisce qui!
Lui non vuole obbedire, ma i militari si accostano minacciosi all'imbarcazione. Siamo stati intercettati e da
questo istante il destino cambia, trasformandoci da clandestini in profughi.
Mi alzo e afferro la mano di un ragazzo, dalla faccia pulita e due occhi pieni di compassione, che mi aiuta a
salire sulla loro barca, che non balla come quella su cui sono stata per più di venti ore. Uno alla volta trasbordiamo sulla pilotina che ci accompagnerà a riva, dove ci sarà chi ci accoglie, ci copre i corpi stremati dal fred-
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do con delle coperte di alluminio sottile e ci darà un pasto caldo, per prepararci al ritorno, nel punto esatto
da cui siamo partiti: l’inferno!
Guardo in basso sulla barca e vedo Nura con suo figlio tenuto per la mano. La donna sembra voglia essere
l’ultima ad abbandonare quel sogno, come a doverlo prolungare il più possibile. Sale il bambino. Adesso
manca solo sua madre e un altro ragazzo e poi tutti siamo su quest’altra barca, mentre c’è qualcuno che si
prende già cura di noi, parlandoci in una lingua che non capisco, ma che basta ascoltare per immaginare che
ci chieda di restare tranquilli, tanto il peggio è passato o, forse, deve ancora venire.
Mentre ringrazio chi mi dà una coperta per coprirmi le spalle, un urlo agghiacciante mi obbliga a voltarmi di
scatto verso il mare. Quello che sto per assistere è un dolore che mi piega in due dalla pena. Lo scafista, un
attimo prima che l’ultima donna e un ragazzo fossero trasbordati prova a scappare, avviando il motore per
tentare la fuga.
E’ partito e il suo scatto in avanti lascia tutti sorpresi, anche gli ultimi due suoi viaggiatori, che perdono
l’equilibrio e si lasciano spingere dal vuoto nel mare, ora calmo e tranquillo, ma pur sempre profondo, buio e
bagnato. Nura grida qualcosa, ma nessuno la ascolta. Voglio tuffarmi, ma non me lo permettono: due mani
forti mi bloccano e mi spingono indietro. Assisto alla scena senza fiato in gola. Il corpo della donna se lo inghiotte il mare mentre io mi sento lentamente morire. Un militare si tuffa per andarla a salvare. Scende giù: il
mare si inghiotte anche lui. Ma perché non torna indietro? Perché tanto tempo? Non so cosa fare.
Mi svincolo dalla presa del militare e corro ad abbracciare il figlio di Nura. Lo tengo stretto al mio petto e copro i suoi occhi, come a dovergli nascondere uno strazio imminente. Lui piange, io ho paura. Il militare sceso
giù negli abissi, finalmente, torna in superficie e con lui anche Nura, tenuta stretta in un abbraccio di spalle.
Chiede subito aiuto e un presagio cattivo mi svuota il sangue nelle vene. L’altro ragazzo finito in mare si
muove, mentre la donna resta immobile a galleggiare.
Non è possibile; non ci credo. Non può essere andata così, grido a me stessa tra i pensieri.
Nura non si è potuta arrendere proprio adesso. Non è possibile che dopo tutto quello che hanno visto i suoi
occhi si sia lasciata bagnare la vita fino alla morte.
Mentre piango in silenzio, il mio corpo trema dalla paura e con me il piccolo Ahmed, che non ha ancora compreso il dramma che lo riguarda e gli apparterrà per sempre.
Darei la vita per cambiare il finale a questa assurda tragedia. Il corpo immobile di Nura viene portato sulla
barca. Ha bevuto troppa acqua. Serve farle un massaggio cardiaco ed aiutarla a respirare. Si inginocchia un
signore, credo medico perché sa come muovere le mani per chiudere il naso alla donna, che resta immobile e
ad occhi chiusi, mentre dalla bocca le gettano aria nei polmoni, svuotati di ossigeno e pieni solo d'acqua e di
sale, che le hanno consumato il respiro in un attimo.
Ma perché proprio lei? Perché nel mare ci è finita l'unica donna che non sapeva nuotare?
Ed io ora cosa faccio? Il figlio di Nura è qui, tra le mie braccia. Dovrei dirgli che sua madre è annegata e tornare a pensare a me e al mio crudele destino che mi riporterà in terre piene di guerra e fame? Sono confusa,
ma ho solo una scelta da fare: quella di prendermi cura di Ahmed, lasciato solo al mondo. Nessuno sa che tra
le braccia il bambino che stringo non è mio figlio. Per loro sono solo una donna dal volto scuro, uguale a tutte
le altre, clandestina da riportare dov’è partita. Ed io tornerò nella mia terra di deserto e sole che brucia e fa
nera la pelle, con un sogno infranto nel cuore, un amore lasciato dall'altra parte del mare che, forse, mai più
rivedrò, e in braccio un figlio non mio, che io e la mia famiglia ameremo come uno di noi.
Il mio viaggio di speranza è terminato ancora prima di iniziare o, forse, è servito a dare un nuovo senso alla
mia vita, che non sarà più fatta di attese ma certezze, quelle che mi serviranno per prendermi cura di questo
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bambino, che proverò ad amare con tutta me stessa, cercando di fargli dimenticare in fretta questa maledetta notte di dolore.
Ce la metterò tutta. Sì, mi convinco da sola, mentre qualcuno mi chiede se il bambino stretto in braccio è mio
figlio: «Sì», confermo ancora una volta: «Questo bambino è mio figlio».
Stiamo arrivando a terra. Vedo le luci del porto e una folla di persone ad aspettarci. Vorrei piangere, urlare
contro questo maledetto cielo nero tutta la mia rabbia, ma non mi è permesso arrendermi proprio ora. Non
posso! C’è da onorare la memoria di una donna che ha provato a salvare la sua vita e quella del figlio, dimostrandosi un’eroina a cui non sarà consegnata nessuna medaglia, ma solo un numero per registrarla e poi
sotterrare in chissà quale anonimo campo, accrescendo il numero dei cadaveri da riportare nell'ennesima notizia da telegiornale, per la quale nessuno piangerà il suo ultimo sogno, affondato per sempre, mentre io mi
ritrovo madre senza ancora essere stata sposa di nessuno.
Annuisco in silenzio a me stessa, mentre mi prometto che farò di tutto per aiutare a crescere il figlio di una
donna sventurata, che nel suo ultimo viaggio ha incrociato la morte, ma ha saputo dare anche inizio ad una
nuova vita: quella mia, che si prenderà cura di suo figlio, da amare come se fosse anche un po' il mio, affinché anche da una tragedia di morte possa trionfare l'amore per la vita.
In memoria di tutte le vite che si spengono nel mare come stelle cadenti
e che, prima o poi, ci lasceranno al buio e senza più luci di notte nel cielo
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PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA
Concorso "Memorial Vallavanti Rondoni 2016" di Caorso (PC)
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