1 holzer - Fondazione Adriano Olivetti
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1 holzer - Fondazione Adriano Olivetti
KUTLUG ATAMAN, FRANCIS FUKUYAMA, CARLOS GARAICOA, JENNY HOLZER, WILLIAM KENTRIDGE, PAOLO JEDLOWSKI, SEBASTIANO MAFFETTONE, AVISHAI MARGALIT, GUIDO MARTINOTTI, FABIO MAURI, SANTIAGO SIERRA, PETER SLOTERDIJK, MICHELE TRIMARCHI Periodico Bimestrale – Spedizione in a. p. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - filiale di Viterbo Direttore Giancarlo Bosetti Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Euro 8,00 Un mese di idee Numero Speciale Lo sguardo dell’arte contemporanea Emergenze del mondo Eventi a Milano di Giancarlo Bosetti di Bartolomeo Pietromarchi uasi un catalogo. Questo numero di «Reset» assomiglia – nella sua funzione, non nel peso e nel prezzo, solo nella funzione – a quei volumoni che accompagnano gli eventi d’arte. È una guida a quel che un grappolo eccezionale di artisti contemporanei vuole esprimere con uno sguardo che non ha paura del «lato oscuro». Emergenze – l’intero ciclo di eventi, installazioni e discussioni – è nata sotto il titolo che diceva proprio così: Not Afraid of the Dark, «nessuna paura del buio». Un annuncio che indica l’intenzione di vedere e far vedere cose sepolte sotto la routine del vivere quotidiano, perché importunano, perché sfidano la nostra pigrizia con improvviso fracasso, perché rompono il torrente mediatico che trasforma i fatti più strazianti in intrattenimento, audience, rumore di fondo. Queste «cose» del lato oscuro sono le verità schiacciate dal potere, sono trucchi e manipolazioni che popolano anche l’universo denominato libertà d’informazione, sono vite sradicate e scagliate altrove con furia, sono genocidi, sono spazi urbani deformi, sono inquietudini metropolitane dove si urtano miserie e ineguaglianze violente, sono i dati di fatto dell’alterazione climatica del pianeta che sfidano le nostre buone intenzioni, sono le memorie di dittature totalitarie che si riaffacciano con il loro sentore di morte e sono anche i nostri peccati di oblio, sono l’accendersi di immensi serbatoi di odio sotto le insegne di nuove tribù e di nuove rivendicazioni di identità e di purezza. Di tutto questo l’arte fa l’inventario e forse qualche cosa di più. Noi su queste pagine ci occupiamo delle «emergenze» con il linguaggio della filosofia, delle scienze sociali, della politica, e come vedrete non ci rinunciamo neanche qui, con l’aiuto dei saggi di Francis Fukuyama, Paolo Jedlowski, Avishai Margalit, Guido Martinotti, Peter Sloterdijk, Michele Trimarchi e altri studiosi. Ma al centro dell’attenzione vogliamo mettere questa volta lo sguardo dell’artista, perché semplicemente è capace di una sintesi che scavalca tutti i confini disciplinari, con invenzioni e provocazioni: la forza della scrittura e della parola (Carlos Garaicoa), che emerge sopra la tecnologia, che si scaglia su palazzi e facciate (Jenny Holzer) o sul corpo umano (Fabio Mauri), sulla sua pelle variamente colorata e logorata (Santiago Sierra), sulle facce che raccontano storie (Kutlug Ataman), sulla «scatola nera» del nostro mondo (William Kentridge), una specie di scrigno con dentro le spiegazioni che stiamo cercando in una caccia al tesoro che non finisce mai. n una società in cui lo stato di crisi è divenuto la regola e dove le emergenze umanitarie e sociali non sono più «quelle degli altri», ma riguardano tutti, l’arte e la cultura devono giocare un ruolo importante, di sensibilizzazione e di riflessione, impegno e responsabilità. Recuperare significato e necessità dell’attività artistica, che non sia solo spettacolarizzazione e consumo culturale, è oggi divenuta una priorità di molti artisti che sono tornati a porsi domande sulla propria identità e, attraverso l’opera, a confrontarsi con il mondo e la realtà. Superata l’epoca dell’ideologia politica e sociale, l’artista si assume il rischio di proporre uno sguardo altro, un dis-velamento per la coscienza collettiva spesso assopita e indifferente. Dall’arte visiva al teatro, dal cinema alla letteratura, alla fotografia ma anche all’architettura e al design di ricerca, la riscoperta di un ruolo sociale e di un impegno civile di fronte alle emergenze del mondo rappresentano una sensibilità comune sulla quale poter scambiare riflessioni da prospettive diverse e intervenire con gli strumenti della cultura. Lo «spazio pubblico» torna a essere il luogo per una società che, per il fatto di essere sempre più complessa, plurale, multiforme, ha la necessità di recuperare segni e significati per ricostruire un’identità condivisa. In questa prospettiva l’arte e la cultura possono indicare dei percorsi possibili, operando in una dimensione simbolica radicata però nel contesto reale. Facendo leva sull’immaginario come strumento di coesione e sensibilizzazione, si pongono le basi per un progetto collettivo inedito di socialità e condivisione. Questo numero di «Reset» si inserisce in un progetto più ampio dal titolo Emergenze che utilizza vari canali per affermare questa necessità. Dalla mostra Not Afraid of the Dark al ciclo di incontri La cultura delle emergenze, dalle pagine dell’inserto domenicale de «Il Sole 24 Ore» ai progetti speciali degli artisti nella città, a Milano dal 25 marzo al 27 maggio artisti, scrittori, intellettuali, operatori del terzo settore e di realtà economiche sensibili al sociale si incontrano, si confrontano e discutono di alcune tematiche «emergenti»: da quelle dell’agenda politica globale e mediatica a quelle più invisibili, e forse più insidiose, che il senso comune tende ad ignorare o a dimenticare (vedi programma a pagina 98). Gli artisti che partecipano al progetto Emergenze sono stati invitati a realizzare delle pagine di questo numero. Le loro opere introducono sessioni tematiche che, come è nello spirito del progetto, possano far dialogare di argomenti comuni artisti e intellettuali, nella convinzione che sia necessario mettere a punto nuovi strumenti e approcci inediti per un futuro possibile. Q I Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 3 Reset Numero speciale William Kentridge Lo sguardo dell’arte contemporanea di Giancarlo Bosetti 3 The Black Box di William Kentridge 54 Emergenze del mondo. Eventi a Milano di Bartolomeo Pietromarchi 3 Un teatro per l’orrore di Maria-Christina Villaseñor 59 Jenny Holzer Archivio di Jenny Holzer 6 Aforismi visivi nelle città di Marie-Laure Bernadac 13 Le segrete trincee della politica di Thomas Blanton 14 Carlos Garaicoa Studio tipografico per le parole di Carlos Garaicoa 18 Entro i limiti della sola memoria Avishai Margalit con Giancarlo Bosetti 63 Kutlug Ataman Küba di Kutlug Ataman 66 Un manuale per chi guarda Dialogo tra Kutlug Ataman e Marco Belpoliti 70 L’orrore in diretta della guerra di Antonio Somaini 73 Mappa mediatica dell’emergenza di Francesco Casetti 74 Soci fondatori Paolo Bernasconi, Luciano Berio (= ) Piero Bevilacqua, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio (= ), Giancarlo Bosetti, Michelangelo Bovero, Massimo Bucchi, Marina Calloni, Pierluigi Cerri, Giuseppe Citino, Federico Coen, Renzo Costi, Giorgio De Michelis, Carmine Donzelli, Francesco Erbani, Giulio Ferroni, Vittorio Foa, Elisabetta Galeotti, Mariella Gramaglia, Sebastiano Maffettone, Mauro Mancia, Pietro Marcenaro, Alberto Martinelli, Guido Martinotti, Francesco Micheli, Edwin Morley Fletcher, Salvatore Morvillo, Leo Nahon, Valerio Onida, Andrea Salerno, Michele Salvati, Olga Scevkenova, Eugenio Somaini, Federico Stame, Concetto Testai (= ), Salvatore Veca, Riccardo Viale, Giovanna Zincone Comitato di direzione Giancarlo Bosetti, Alberto Martinelli, Guido Martinotti, Michele Salvati, Giovanna Zincone Redazione Caporedattore: Alessandro Lanni Elisabetta Ambrosi, Mauro Buonocore, Marina Calloni, Antonio Carioti, Nina zu Fürstenberg, Corrado Ocone, Andrea Salerno, Riccardo Staglianò, Nadia Urbinati (New York) Correzione testi: Agenzia La Zia Julia Segreteria di redazione: Letizia Durante [email protected] - www.reset.it Spettatori, sorveglianti o sorvegliati? di Roberto Escobar 77 Consiglio di amministrazione Presidente: Federico Stame Amministratore Delegato: Domenico Grassi Giancarlo Bosetti, Pietro Di Nola, Francesco Micheli, Vittorio Terrenghi, Giovanna Zincone Fabio Mauri Pubblicità per inserzioni pubblicitarie su «Reset» +39(0)6.68407011 - +39(0)6.68807262 (fax) Lo spazio dei senza patria Okwui Enwezor con Flaminia Gennari Santori 27 Inverosimile di Fabio Mauri 80 Copertina Foto di Francesco Zizola Le tre inquietudini (delle) capitali di Guido Martinotti 29 Attraversando lo specchio dell’ideologia Intervista a Fabio Mauri di Stefano Chiodi 87 Gusci per rifugiarsi dal mondo di Peter Sloterdijk 33 A cosa serve la critica di Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi 91 Per Carlos. La città che vive di Adriano Pedrosa 25 11/9, tutti spettatori del disastro di Mauro Carbone 26 Santiago Sierra Studio economico della pelle degli abitanti di Caracas di Santiago Sierra 38 L’uomo trattato come carne di Bartolomeo Pietromarchi 43 Saggio sull’identità di Francis Fukuyama 45 Se è l’agenda a dettare il Tempo di Paolo Jedlowski 46 Arte al limite e diritti della creatività di Sebastiano Maffettone 51 4 La necessità dell’ombra di William Kentridge 62 Direttore responsabile Giancarlo Bosetti Economia e creatività Una necessaria complicità di Michele Trimarchi 94 «La filantropia aziendale? Non basta più» Gianluca Winkler con Elisabetta Ambrosi 94 Parola chiave: ambiente Intervista a Nicolò Dubini 95 La cultura nella strategia d’impresa Intervista a Fulvio Conti di Elisabetta Ambrosi 96 Questo numero è realizzato in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti In redazione Ilaria Uzielli Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Immagini Le immagini prive di didascalia sono di Ludovica Valori Impaginazione Alberto Pagano Stampa Sograf S.r.l. Via Alvari, 36 - 00155 Roma Abbonamenti Picomax S.r.l. - Servizio Abbonamenti Via Borghetto, 1 – 20122 Milano Tel. 02/77428040 - Fax 02/76340836 e-mail: [email protected] c/c postale n. 42128207 intestato a Picomax - Servizio Abbonamenti Richiesta numeri arretrati o mancati arrivi Tel. +39(0)6.68407011 - fax +39(0)6.68807262 Chiuso in redazione il 2 marzo 2007 Editore Reset srl Piazza Erculea 9, 20122 Milano Autorizzazione Tribunale di Roma dell’11 Marzo 1994, n. 90/94 Redazione e amministrazione via San Pantaleo, 66 - 00186 Roma Tel. +39(0)6.68407011 - fax +39(0)6.68807262 Distribuzione in edicola A. Pieroni s.r.l. Viale Vittorio Veneto, 28 - 20124 Milano Tel. 02.29000221, fax 02.6597865 INFORMATIVA DECRETO LEGGE 196/2003 L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax S.r.l., Responsabile dei dati, via Borghetto 1, 20122 – Milano. Le informazioni custodite nell’archivio elettronico Picomax verranno utilizzate al solo scopo d’inviare agli abbonati vantaggiose proposte commerciali (legge 196/2003). Jenny Holzer La bugia del potere E il potere delle parole nei lavori dell’artista americana Archivio di Jenny Holzer Aforismi visivi nelle città di Marie-Laure Bernadac Le segrete trincee della politica di Thomas Blanton Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 5 Jenny Holzer Archivio di Jenny Holzer L’artista, l’opera a oltre venticinque anni Jenny Holzer dissemina nelle città di tutto il mondo i suoi Truisms: sintetiche frasi in cui enuncia visioni contraddittorie del mondo, del rapporto uomo-donna, del potere e della giustizia. Dai manifesti alle magliette, dalle proiezioni allo xeno, ai led luminosi, al web. Brevi aforismi, slogan, frasi poetiche enunciate alla stregua di messaggi pubblicitari, spesso ricorrendo a caratteri luminosi analogamente a quanto accadeva nei lavori di Kosuth, Merz e Nauman. Messaggi sociali, politici o suggestioni che provengono dall’inconscio. Nel caso della Holzer, il ricorso al testo e alla parola non ha però un significato di ricerca linguistica, quanto di uso del linguaggio per il suo carattere evocativo e significante. Più che visioni del mondo in dialogo tra loro, queste brevi frasi si pongono in dialogo con l’ambiente, nel senso più generale del termine: dall’architettura cittadina ai ritmi della vita quotidiana, alla gente. Holzer ha esposto i suoi lavori in musei come il Solomon R. Guggenheim di New York (1989), il Centre Pompidou di Parigi (1996), il Museum of Modern Art (1997) e il Whitney Museum of American Art di New York (1999), l’Oslo Museum of Contemporary Art (2000) e la Neue Nationalgalerie di Berlino (2001). Nel 1990, la Biennale di Venezia le assegna il Leone d’Oro e riceve nel 2004, in patria, il Public Art Network Award. D 6 Nata a Gallipolis (Ohio) nel 1950, Jenny Holzer vive a New York. È tra le più note artiste concettuali statunitensi. Tra i lavori degli ultimi anni significativo quello su lettere, email e testimonianze di politici, soldati e prigionieri coinvolti nelle guerre del dopo 11 settembre (Iraq, Afghanistan, Baia di Guantanamo, ecc.). Pochi giorni prima delle elezioni presidenziali del 2004, alcuni di questi documenti sono stati proiettati sulla facciata della George Washington University’s Gelman Library, sede del National Security Archive: associazione non governativa e non profit che combatte da tempo a favore della pubblica divulgazione di tali documenti. Le proiezioni di Jenny Holzer nello spazio pubblico giocano sul sottile e ambiguo confine tra il pubblico e il privato, tra il segreto e l’evidente. Documenti governativi desecretati, lettere di condannati a morte, istruzioni per gli interrogatori, il continuo passaggio tra la sfera privata e intima e quella pubblica e ufficiale, sottolinea la distanza tra la verità e il potere, tra il detto e il non detto, tra ciò che bisognerebbe sapere e quello che viene occultato. La dimensione pubblica e urbana del suo lavoro riafferma la necessità di uno spazio pubblico che torni ad essere luogo di discussione e di informazione dove il fondamento dei principi democratici possa essere riaffermato. Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Pagina 5 Lustmord Inchiostro su pelle Proiezione per la «Süddeutsche Zeitung»», Ed. n. 46, 1993 In collaborazione con Tibor Kalman © 2007 Jenny Holzer, membro della Artists Rights Society (ARS), New York / SIAE, Roma Foto: Alan Richardson Pagina 7 For the City, 2005 Proiezione luminosa The Elmer Holmes Bobst Library, New York University, New York Presentato da Creative Time, New York © 2007 Jenny Holzer, membro della Artists Rights Society (ARS), New York SIAE, Roma Foto: Attilio Maranzano Testo: U.S. Department of the Army, Army Investigative Files, Executive Summary, 28 giugno 2004, (American Civil Liberties Union) Pagina 8 For the City, 2005 Proiezione luminosa Rockefeller Center, New York Presentato da Creative Time, New York © 2007 Jenny Holzer, membro della Artists Rights Society (ARS), New York SIAE, Roma Foto: Attilio Maranzano Testo: «Necessary and Impossible» da Middle Earth di Henri Cole. Copyright © 2003 Henri Cole. Utilizzato per/ristampato con il permesso di Farrar, Straus e Giroux, LLC. Pagina 9 U.S. Department of Defense, Sworn Statement of Detainee, 18 dicembre 2003, (American Civil Liberties Union) www.aclu.org/torturefoia/released/ 032505/1181_1280.pdf Pagina 10-11 For Naples, 2006 Proiezione luminosa Basilica di San Francesco di Paola © 2007 Jenny Holzer, membro della Artists Rights Society (ARS), New York SIAE, Roma Foto: Attilio Maranzano Testo: Ecclesiaste 9:17-18 Pagina 12 U.S. Department of Defense, Email from Redacted to Redacted, 14 agosto 2003, «Wish List» (American Civil Liberties Union) www.aclu.org/torturefoia/released/041905 Sezione 3, p 59 L’autorizzazione all’uso delle immagini è stata concessa a titolo gratuito Jenny Holzer Aforismi visivi nelle città di Marie-Laure Bernadac enny Holzer ha a disposizione più di un arco eppure, dal 1977, ha utilizzato un’unica e sola freccia, caustica, precisa ed efficace: la scrittura. Il linguaggio è il veicolo del suo pensiero visivo: parole, frasi e testi sono il fondamento del suo vocabolario formale. In un mondo bombardato da immagini, il suo uso unico e ripetitivo del linguaggio è un modo per affermare che, nonostante il predominio della tecnologia sulle nostre vite, la scrittura conserva ancora il suo potere sovversivo e la sua capacità di comunicare. Che siano orizzontali o verticali, quadrati o rettangolari, stampati o elettronici, ogni superficie e ogni spazio, sia pubblico che privato, fanno da ospite alle parole della Holzer: i manifesti per strada, le targhe metalliche, i biglietti, le magliette, i corti televisivi, i tabelloni per le affissioni, i segnali elettronici, le panchine di pietra e, dal 1996, le proiezioni luminose. Il flusso della scrittura emerge – statico e solido qua, in movimento e immateriale là – in forme che sono allo stesso tempo pittoriche e scultoree. Con i led e le proiezioni luminose, i colori vibrano nella retina e si assemblano in composizioni pittoriche, mentre le forme strutturali del linguaggio hanno una presenza materiale come la scultura. Segnato dal minimalismo e dall’arte concettuale e influenzato dalla letteratura femminista nella sua denuncia degli abusi patriarcali, il linguaggio artistico di Jenny Holzer spinge i limiti delle parole, dei corpi e dello spazio. Dagli anni Ottanta, il concetto di corpo si è spesso espresso nel suo lavoro attraverso la metafora della pelle. Il suo manifesto per il Festival d’Automne di Parigi, nel 2001, proclamava «Je lis ta peau» (Io leggo la tua pelle). Questo titolo, dalla serie Arno (1996), evoca i testi di Lustmord (199395) che apparvero dapprima scritti sulla pelle umana e, poi, stampati in inchiostrosangue sul magazine della «Süddeutsche Zeitung»; quel lavoro era concepito in risposta agli stupri e agli omicidi commessi durante la guerra dei Balcani. La recente esibizione della Holzer alla Galleria Yvon Lambert di New York presentava una stampa con le parole «MY SKIN» su una montagna vicino Bregenz, in Austria: le parole stesse erano formate dai raggi di luce proiettata. I suoi primi testi, i Truismi (197779), erano stampati su manifesti e incollati sui muri in giro per Manhattan. Anni dopo, la Holzer si è avvicinata alla superficie urbana come fosse una pelle, questa volta utilizzando la luce per proiettare testi in larga scala sui monumenti, sui fiumi, sulle facciate delle città di tutto il mondo. Se l’arte di Jenny Holzer continua ad affascinarci, rinnovandosi sempre pur rimanendo fedele alle proprie ambizioni originarie, è grazie all’interazione tra le forze fondamentali e trainanti delle parole, dei corpi e dello spazio. Che lei usi i suoi testi o quelli di altri, J il lavoro della Holzer esibisce sempre parole rappresentate fisicamente, collocate in uno spazio quasi infinito, iscritte in ogni tipo di superficie immaginabile, dal fluido al solido. L’impegno politico è sempre presente, come evidenziato dalla scelta della poesia di Henri Cole in opposizione a George W. Bush («To the Forty-Third President»), che la Holzer ha proiettato nella città di New York poco dopo le elezioni del 2004, o dalla selezione, tra gli altri, di poeti palestinesi, israeliani, iracheni e polacchi i cui testi sono stati proiettati in una varietà di luoghi simbolici e strategici di Vienna. La strategia della Holzer di collocare le sue opere d’arte nell’arena pubblica – in maniera simile all’approccio dei costruttivisti russi, che sostennero la funzione utilitaristica dell’arte – è fondamentale per il suo lavoro. Il suo lavoro parla tanto a nome della letteratura quanto a nome di una moltitudine di opinioni politiche, tutte divergenti. Lei non prende le parti, ma denuncia invece la barbarie, la guerra, l’ingiustizia, l’abuso dei diritti umani. La questione dell’autore è sempre stata uno dei punti centrali nell’approccio artistico della Holzer. In effetti, nell’arte concettuale, il testo è servito spesso a far scomparire non solo l’immagine o l’oggetto, ma anche l’autore – che questa fosse o meno l’intenzione dell’artista. I testi della Holzer sono una combinazione esplosiva di retorica contraddittoria. Non sappiamo chi stia parlando o a chi. È un uomo, una donna, un bambino? Questa gamma di persone che parlano da molteplici punti di vista, come se l’autore fosse stato abitato da voci differenti, può essere considerata una caratteristica della scrittura delle donne, come il frequente ricorso ad aforismi, a proverbi e a detti presi in prestito dalla cultura popolare, con la loro aura di saggezza. Tra il 1977 e il 2001, la Holzer scrisse tredici composizioni: qualche riferimento a uno specifico momento storico, altri al suo stesso approccio artistico; alcuni dei testi erano concepiti per una location specifica, altri traevano Chi è Marie-Laure Bernadac arie-Laure Bernadac è sopraintendente generale dei beni storici e artistici e chargée de mission per l’arte contemporanea al Museo del Louvre. Ha lavorato al Museo Picasso (1980-1992), al Centre Georges Pompidou, nella sezione di arti grafiche (1992-1997), al CAPC, museo di arte contemporanea di Bordeaux (19972000). Ha pubblicato numerose opere sugli scritti di Picasso, di Louise Bourgeois, di Jenny Holzer. M Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 spunto dalla vita privata dell’artista. Con poche eccezioni, tra cui l’Inflammatory Essays and Laments, si tratta di scritti composti da frasi brevi. Il mezzo della Holzer è l’aforisma, non la lezione. La scelta dei titoli rivela l’estensione dei suoi scritti, dai proverbi (Truismi) alle elegie, dai salmi ai lamenti, dai colori (Blue) ai nomi di luogo (Erlauf, Arno). La Holzer non si considera una scrittrice o una poetessa e, qualche tempo fa, iniziò a utilizzare la scrittura di altri nelle sue opere. Questa mossa era motivata dalla modestia e da un desiderio di dare evidenza a testi che lei riteneva cruciali per comprendere la complessità del mondo e delle emozioni umane. La scelta di Elfried Jelinek, ad esempio, non è casuale. Non è difficile vedere cosa lega le due artiste: la violenza nascosta dei rapporti familiari, le raffigurazioni dell’ordine sociale borghese come una caricatura repulsiva, il caso del mondo e la sua poesia frammentaria e, infine, il femminismo militante. Al di là della bellezza visiva delle proiezioni della Holzer a Vienna, siamo felici che ci abbia fatto leggere poeti eccellenti, tra cui Wislawa Szymborska, che ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura. Presentando questi scritti in pubblico, la Holzer afferma il potere della poesia in modo spettacolare: «La poesia impegna la vera conoscenza contro l’ignoranza, la barbarie e il razzismo. Attraverso la poesia, mi sento capace di affrontare le menzogne e la slealtà. Sono in grado di abbassare le maschere indossate da coloro che ripetono slogan illusori», ha commentato il poeta iracheno Fadhil Al-Azzawi in un articolo del 2006, En vers déchaînés (In verso sciolto). Gli autori scelti dalla Holzer sono combattenti della resistenza, che lottano per i diritti umani e la libertà: molto versati nell’ironia e nella derisione delle prevaricazioni, essi traggono ispirazione da un’osservazione lucida e dettagliata della vita quotidiana. Yehuda Amichai, uno dei più importanti poeti israeliani, rivoluzionò il linguaggio poetico attraverso l’uso di nuove espressioni idiomatiche, dello slang e del linguaggio della cultura pop. Nella sua poesia «He Embraces His Murderer», il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish evoca non solo il conflitto fratricida tra ebrei e arabi, ma anche i sentimenti contradditori dell’esilio e dell’appartenenza. Wislawa Szymborska, i cui testi alternano estasi e disperazione, parla de «la gioia di scrivere./ Il potere di preservare./ Vendetta di una mano mortale». Tutti questi poeti parlano di guerra, di morte e del desiderio di pace: «La scrittura è un cucciolo che morde la mano del Nulla. La scrittura ferisce senza provocare sangue». Queste parole di Fadhil Al-Azzawi potrebbero definire tutta l’arte di Jenny Holzer. (Traduzione di Martina Toti) 13 Jenny Holzer Le segrete trincee della politica di Thomas Blanton l periodo tra il crollo dell’Unione Sovietica e quello del World Trade Center potrà ben essere ricordato dalla storia come il «decennio dell’apertura». In tutto il mondo, i movimenti sociali hanno colto la scomparsa del comunismo e il declino delle dittature come un’occasione per chiedere governi più aperti, democratici, capaci di rispondere. E i governi hanno risposto. L’ex presidente russo Boris Eltsin aprì, in parte, gli archivi sovietici. L’ex presidente statunitense Bill Clinton declassificò più segreti di Stato di tutti i suoi predecessori messi insieme. In tre continenti le Commissioni Verità denunciarono sparizioni e genocidi. I pubblici ministeri diedero la caccia ai terroristi di Stato, i tribunali misero in galera i generali e internet sovvertì la censura ed erose il monopolio dei mezzi di comunicazione di Stato. Cosa più impressionante di tutte, durante quel decennio, 26 paesi – dal Giappone alla Bulgaria, dall’Irlanda al Sudafrica, dalla Thailandia alla Gran Bretagna – emanarono normative formali che garantivano ai loro cittadini il diritto di accedere alle informazioni governative. Nel 2001, nella prima settimana dopo che la legge di accesso giapponese era divenuta effettiva, i cittadini presentarono più di 4.000 richieste. Più di mezzo milione di thailandesi utilizzarono l’Official Information Act nei primi tre anni dalla sua entrata in vigore. Il Freedom of Information Act (Foia) statunitense, dal canto suo, si classifica come la legge di accesso più invocata al mondo. Nel 2000, il governo federale degli Stati Uniti ricevette più di due milioni di richieste da cittadini, aziende e stranieri (la legge è aperta a «qualsiasi persona»), e spese circa un dollaro per abitante (253 milioni di dollari) per applicare la normativa. Anche le istituzioni multilaterali stanno cercando di rispondere alle sfide della libertà di informazione, presentate I dai loro Stati membri (come nell’Unione Europea, dove Svezia, Danimarca e Finlandia criticano la cultura della segretezza preferita da Germania e Francia) e dalla società civile (la Banca Mondiale sta ora organizzando a malincuore una politica di trasparenza). Nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre, quando il controllo delle informazioni è emerso come un’arma cruciale nella guerra contro il terrorismo, apparvero segnali preoccupanti che i governi avrebbero potuto porre fine al «decennio dell’apertura». Ma, a livello mondiale, nuove misure di sicurezza e leggi sulla censura sono state rarissime. Il Canada considerò la possibilità di concedere il potere di deroga alla longeva legge di accesso al proprio ministro della Giustizia per motivi di emergenza o per ragioni legate al terrorismo ma, poi, fece marcia indietro. L’India approvò l’Ordinanza di Prevenzione del Terrorismo, che prevedeva periodi di carcere per i giornalisti che non avessero collaborato con le forze dell’ordine, ma non si sono mai verificate ancora situazioni di questo genere. La Gran Bretagna ha ritardato l’entrata in vigore della sua nuova legge sull’accesso alle informazioni fino al 2005 dichiarando che il ritardo non aveva nulla a che fare con l’11 settembre. Paradossalmente, la segretezza ha fatto il suo ritorno più drammatico nel paese che dichiara di essere il più democratico. Anche prima degli attacchi di Al Qaeda, l’amministrazione Bush aveva rivendicato il privilegio esecutivo per molte richieste di informazioni di rilievo, respingendo le interrogazioni del Congresso riguardo ai nomi di consulenti privati in materia di politica energetica e bloccando la pubblicazione dei documenti dell’era Reagan con il Presidential Records Act. Ma l’11 settembre ha trasformato questa tendenza in un’abitudine, a volte ragionevole (come nel caso dei dettagli delle operazioni speciali in Afghanistan) ma più spesso arbitraria. Negli ultimi mesi, i funzionari della Casa Bianca hanno concesso agli ex presidenti poteri di veto sulla pubblicazione degli atti delle loro amministrazioni, hanno ordinato alle agenzie di rispondere nella maniera più restrittiva e legalistica possibile alle richieste del Foia, e hanno denunciato fughe di notizie anche quando sindaci e forze dell’ordine locali lamentavano l’incapacità del governo federale di condividere le informazioni. L’ossessione per la segretezza dell’amministrazione Bush si dimostrerà probabilmente fallimentare, perché, come i mercati, i governi non lavorano bene nel segreto. Coloro che si sono opposti in modo più efficace al desiderio presidenziale di tribunali militari segreti non sono stati i difensori delle libertà civili, ma i pubblici ministeri e gli avvocati militari che hanno insistito su processi più aperti e su un maggiore rispetto dei diritti fondamentali, su base legale e costituzionale oltre che per ragioni di efficacia. I pubblici ministeri sanno quello che il presidente Bush non sa, ovvero che la trasparenza combatte il terrorismo dando forza ai cittadini, eliminando le politiche peggiori e responsabilizzando i funzionari (non ultimi i despoti stranieri che si sono temporaneamente alleati agli Stati Uniti nella guerra al terrorismo). Più estesamente, al di fuori degli Stati Uniti, le motivazioni dietro il movimento per la libertà di informazione restano generalmente immutate dalla guerra al terrorismo. I sostenitori dell’apertura stanno sfidando con successo il potere radicato e burocratico dello Stato sostenendo che il diritto dell’opinione pubblica di sapere non è solo un imperativo morale, è anche uno strumento indispensabile per contrastare la corruzione, lo spreco e una governance misera. Chi è Thomas Blanton homas S. Blanton è direttore del National Security Archive della George Washington University dal 1992. È direttore di collana delle pubblicazioni su web, cd-rom, stampa e documentari dell’Archivio, che arrivano a totalizzare più di 500.000 pagine. E autore tra l’altro di White House E-Mail: The Top Secret Computer Messages the Reagan-Bush White House Tried to Destroy (New Press, 1995), ed è co-autore di The Chronology (Warner Books, 1987) sul caso IranContra, di Litigation Under the Federal Open Government Laws (ACLU, 1993). I suoi articoli sono apparsi sull’International «HeraldTribune», sul «New York Times», sul «Washington Post», sul «Los Angeles Times», su «Wall Street Journal», sul «Boston Globe», sul «Wilson Quarterly», sul «Radcliffe Quarterly», su «The Cold War International History Project Bulletin», e su molte altre riviste. È uno dei membri fondatori di freedominfo.org. T 14 Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Jenny Holzer La maggior parte delle leggi sulla libertà di informazione oggi nel mondo sono comparse a causa della competizione per il potere politico tra parlamenti e governi, tra partiti di maggioranza e partiti di opposizione e tra regimi presenti e regimi passati. Più che gli ideali ha potuto la politica La maggior parte delle leggi sulla libertà di informazione oggi nel mondo sono comparse a causa della competizione per il potere politico tra parlamenti e governi, tra partiti di maggioranza e di opposizione e tra i regimi presenti e quelli passati. In effetti, la prima legge sulla libertà di informazione – l’atto per la libertà di stampa svedese del 1766 – venne guidata dalla politica di partito, poiché la nuova maggioranza parlamentare cercava di consultare documenti che il governo precedente aveva tenuto segreti. Il passato scandaloso della trasparenza Allo stesso modo, il Foia statunitense, che è emerso come modello per i riformisti in tutto il mondo, non è stato il prodotto dell’illuminismo democratico, ma piuttosto della partigianeria democratica. La legge nasceva da dieci anni di audizioni congressuali (1955-65) in cui la maggioranza democratica cercava di accedere alle decisioni prese dal gruppo esecutivo repubblicano sotto l’ex presidente Dwight D. Eisenhower. Il Foia statunitense, nella sua forma odierna – con ampia copertura, esenzioni limitate e un importante riesame da parte della Corte nel caso in cui il governo decida di trattenere le informazioni – è, in realtà, una versione emendata della legge del 1966, che venne modificata nel 1974 da un Congresso democratico a causa di un veto posto dall’allora presidente repubblicano Gerald Ford. Il Foia statunitense non avrebbe avuto una portata così vasta se non fosse stato per Watergate. In effetti, a livello mondiale, gli scandali sono rimasti un catalizzatore per i movimenti per la libertà di informazione. Il Canada approvò la sua normativa sulla libertà di informazione nel 1982, in seguito agli scandali sulla sorveglianza della polizia e sulla regolazione di governo dell’industria. Le proteste pubbliche per le condizioni dell’industria del confezionamento della carne e per l’amministrazione di una banca del sangue spinsero l’Irlanda a varare una legge simile nel 1997. In Giappone, la legge d’accesso nazionale del 1999 seguì due decenni di scandali, dal caso di corruzione della Lockheed negli anni Settanta all’insabbiamento burocratico della contaminazione da HIV di sangue e emoderivati negli anni Novanta. Il movimento per la trasparenza delle informazioni giapponese iniziò venti anni fa quando ordinanze locali portarono alla luce falsificazioni sistematiche dei resoconti governativi e mostrarono la diffusione della corruzione all’interno dei settori delle opere pubbliche e dell’edilizia giapponesi – un sistema di corruzione politica, baluardo di quarant’anni di dominio monopartitico. Se lo scoppio di scandali è stato un catalizzatore per la riforma in paesi con una lunga tradizione democratica, altrove il crollo dei re- gimi totalitari ha contribuito a guidare il movimento per la libertà di informazioni. In Europa, dove, negli anni Novanta, la riforma amministrativa si era arenata nella maggior parte dei paesi ex comunisti (a causa dei frequenti cambiamenti di governo e di un dibattito corrosivo riguardo all’interdizione degli ex funzionari del Partito comunista dai pubblici uffici), l’Ungheria prese l’iniziativa e varò una legge per la libertà di informazione nel 1992. La legge ungherese fu, in parte, la vendetta del nuovo regime contro i suoi predecessori comunisti, vendetta che apriva i loro archivi e li rendeva responsabili dei misfatti precedenti. Rassicurati dal successo del modello ungherese, sottoposti alle pressioni delle organizzazioni non governative della «società aperta» come quelle fondate dal filantropo milionario George Soros, e ansiosi di entrare nell’Unione Europea e nella Nato, altri paesi ex comunisti si impegnarono nel dibattito sulla libertà di informazione nell’ultima parte degli anni Novanta. La nuova normativa sulla libertà di informazione venne attuata in Estonia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Bulgaria tra il 1998 e il 2000 – e persino in Bosnia ed Erzegovina nel 2001, per ordine dell’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa. L’Official Information Act thailandese del 1997 fu l’apice di un processo di riforma politica che era iniziato nel 1992 con dimostrazioni di massa contro il regime militare e che era diventato ancora più urgente con la crisi economica del 1997. Una richiesta presentata da una madre scontenta cambiò l’intero sistema scolastico primario e secondario del paese. Nel Sudafrica del dopo apartheid, la costituzione del 1994, sotto la quale Nelson Mandela arrivò al potere, comprendeva una disposizione specifica che garantiva ai cittadini l’accesso alle informazioni di Stato e la legge di implementazione del Sudafrica, varata nel 2000, è probabilmente la più forte al mondo. Fissare un nuovo standard Oggi, come conseguenza della globalizzazione, il concetto stesso di libertà di informazione si sta estendendo dall’istanza puramente morale di un’incriminazione della segretezza fino a includere un significato di valore più neutrale – come un’altra forma di regolamentazione di mercato, di amministrazione del governo più efficiente, e come un elemento che contribuisce alla crescita economica e allo sviluppo delle industrie dell’informazione. L’adozione da parte dell’Ungheria di una legge per la libertà di informazione, per esempio, ha indicato un rifiuto del suo passato comunista. Ma forse, cosa anche più importante, la normativa ha combinato nuovi diritti di accesso ad atti governativi con forti disposizioni per la protezione dei dati per le imprese, nel tentativo di attrarre l’investi- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 mento delle aziende tedesche conformandosi agli standard europei – e, in particolare, a quelli della Germania – che salvaguardano i segreti commerciali e le informazioni personali. Le misure di trasparenza finanziaria non contribuiscono necessariamente alla causa della riforma politica, ma abili patrocinatori hanno attinto al linguaggio della trasparenza per sollecitare la liberalizzazione politica a livello locale. In effetti, in Cina i riformatori, come anche gli attivisti anticorruzione del Partito comunista, stanno utilizzando questo argomento per contribuire ad aprire il processo di decision-making nei governi locali e provinciali. La loro tesi, che acquisisce maggior peso ora che la Cina è entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, è che i governi regolanti e le aziende (specialmente quelle globali) possono essere rese più efficaci promuovendo la piena esposizione delle loro attività, piuttosto che facendo affidamento su burocrazie molteplici in paesi molteplici che offrono molteplici opportunità di corruzione. È più probabile che riescano questi sforzi di promuovere la trasparenza a livello locale che qualsiasi tentativo di implementare un ordinamento nazionale per la libertà di informazione – specialmente uno che si applichi al law enforcement, alla sicurezza nazionale o alle decisioni del Partito comunista. L’appartenenza a un’organizzazione sovranazionale come l’Omc non sempre incoraggia la trasparenza – come quando la Nato rifiuta di rendere noti i documenti senza un consenso tra tutti i suoi membri o richiede alla Polonia di adottare una nuova legge sul segreto di Stato. Ma più spesso, le organizzazioni sovranazionali creano una domanda per un maggiore accesso alle informazioni, sia all’interno che tra i paesi. Queste istituzioni di governance globale o regionale determinano flussi di informazione molteplici tra governi nazionali, organizzazioni multinazionali, media, gruppi di privati cittadini, che utilizzano le informazioni per influenzarsi reciprocamente, spesso con un significativo impatto domestico. Ad esempio, la stampa slovacca riferì delle critiche dell’Unione Europea alle statistiche economiche fuorvianti sotto il governo dell’ex primo ministro Vladimir Meciar. Questa pubblicità negativa portò a una riorganizzazione dell’ufficio statistico di Stato e contribuì sia al declino politico di Meciar che all’adozione formale da parte della Slovacchia di una legge per la libertà di informazione. La «società aperta» dell’informazione Facendo un buon uso degli appelli alla morale e all’efficienza, il movimento internazionale per la libertà di informazione è sul punto di cambiare la definizione di governance demo- 15 Jenny Holzer Il movimento per la trasparenza delle informazioni non sa neppure di essere un movimento: i suoi membri reinventano la ruota continuamente. Il regime ideale di apertura è rappresentato da governi che rendono pubbliche così tante informazioni che la richiesta formale per notizie specifiche diventerebbe quasi inutile cratica; sta creando una nuovo modello, una nuova attesa e un nuovo requisito minimo perché qualsiasi governo sia considerato una democrazia. Eppure, allo stesso tempo, il movimento per la trasparenza delle informazioni non sa neppure di essere un movimento: i suoi membri reinventano la ruota continuamente e cercano modelli rilevanti. Inoltre, gli interessi radicati dello Stato continuano a lanciare vigorosi contrattacchi, negli Stati Uniti e altrove, citando la sicurezza nazionale e la necessità di privacy nel processo deliberativo come contrappesi alle tesi a favore della libertà di informazione. Il regime ideale di apertura sarebbe rappresentato da governi che rendono pubbliche così tante informazioni che la richiesta formale per notizie specifiche (e il conseguente processo amministrativo e legale) diventerebbe quasi inutile. Finora, i sostenitori dell’apertura hanno raggiunto un accordo sui cinque fondamenti che caratterizzano le normative sulla libertà di informazione efficaci. Innanzitutto, questi dovrebbero iniziare con la presunzione di apertura. In altre parole, lo Stato non possiede le informazioni, che appartengono ai cittadini. Tradizionalmente, ovviamente, «L’état, c’est moi», come dichiarò il re di Francia Luigi XIV. Rovesciare questa istanza legale e la sua eredità negli atti di segretezza ufficiali (che ignorano il «diritto di sapere» del pubblico) resta la priorità più alta per i movimenti per la libertà di informazione. In secondo luogo, qualsiasi eccezione alla presunzione di apertura dovrebbe essere limitata quanto possibile e scritta nella norma- 16 tiva, non soggetta a trasformazioni burocratiche e al cambio di amministrazione. I riformatori in Giappone indicano che esenzioni per la privacy eccessivamente ampie sono un ostacolo enorme, poiché permettono ai burocrati di trattenere qualsiasi elemento di identificazione personale, indipendentemente dal fatto che rendendolo noto si invada la privacy della persona. Di conseguenza, i documenti che vengono rilasciati hanno l’aspetto di una groviera, con i nomi di ogni funzionario cancellati, compreso persino quello del primo ministro. In terzo luogo, qualsiasi eccezione alla pubblicazione delle informazioni dovrebbe basarsi su un identificabile danno a specifici interessi dello Stato, sebbene molti ordinamenti indichino solo categorie generali come «la sicurezza nazionale» o «le relazioni estere». Il che rientra, perlopiù, nel senso comune: è facile cogliere un danno dalla pubblicazione di dati che riguardano, per esempio, la progettazione di testate chimiche, l’identità delle spie che potrebbero essere uccise se esposte, le posizioni bottom-line in negoziati imminenti, e simili. La maggior parte dei segreti di governo, tuttavia, è di gran lunga più soggettiva e, semplicemente, variabile nel tempo. L’ex segretario di Stato statunitense Lawrence Eagleburger ha dichiarato che la maggior parte dei segreti di cui è stato testimone nella sua carriera di governo avrebbe potuto facilmente esse resa nota nei dieci anni successivi alla loro creazione. In quarto luogo, anche laddove esiste un danno identificabile, questo deve avere un peso maggiore rispetto agli interessi pubblici ser- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 viti dal rilascio delle informazioni. Non si serve nessun interesse pubblico rendendo noto il progetto di un’arma nucleare, ma le politiche che regolano l’uso delle armi nucleari sono al cuore della governance e del dibattito pubblico. Gli Stati Uniti hanno reso pubblici persino i dettagli sul reclutamento e sul pagamento delle spie quando quelle informazioni erano necessarie in un procedimento legale (un’altra forma di interesse pubblico) come nel processo all’ex uomo forte panamense Manuel Noriega. In quinto luogo, un tribunale, un commissario per l’informazione, un ombudsman o un’altra autorità, che sia indipendente dalla burocrazia originale che detiene le informazioni, dovrebbero risolvere qualsiasi disputa sull’accesso. In Nuova Zelanda, l’ombudsman può permettere la diffusione delle informazioni da parte delle agenzie. In Giappone, un gruppo di tre giudici decide gli appelli. E negli Stati Uniti, un giudice federale ha recentemente ordinato, sotto il Foia, la pubblicazione dei documenti sulla politica energetica che il vicepresidente Dick Cheney aveva rifiutato di concedere al Congresso. Nel cercare di implementare questi principi fondamentali, il movimento per la libertà di informazione può focalizzarsi troppo sulle leggi e sul linguaggio legale. I media liberi e la società civile attiva possono essere più importanti della normativa: nelle Filippine, per esempio, senza una legge d’accesso alle informazioni formale, i media e le Ong hanno aperto gli archivi governativi e hanno persino rovesciato l’ex presidente Joseph Estrada. L’abitudine al dissenso e all’opposizione può anche danneggiare il movimento, perché gli attivisti devono imparare a lavorare insieme oltre che contro i governi per raggiungere un’apertura reale. Le burocrazie confonderanno sempre i cittadini a meno che i riformatori trovino dei modi per cambiare gli incentivi burocratici (premiando e promuovendo i funzionari che rispondono) e per sviluppare una valutazione dei limiti di risorse degli amministratori e delle pressioni politiche. Forse l’ultima sfida per il movimento per la libertà di informazione sarà la necessità per i governi come per i cittadini di adattarsi a un nuovo clima culturale e psicologico. Nel giapponese colloquiale, ad esempio, il termine okami (dio) viene utilizzato comunemente per riferirsi ai funzionari di governo. «Non ci si può lamentare degli dei», dichiarò un attivista giapponese a un giornale sintetizzando la difficoltà percepita dalle persone ordinarie di confrontarsi con il governo. Oppure, nelle parole dell’attivista bulgara Gergana Jouleva, «la democrazia non è un compito facile per le autorità né per i cittadini». Thomas Blanton, The World’s Right to Know, «Foreign Policy», n. 131 (Washngton, D.C.: Carnegie Endowment dor International Peace, July-August 2002) (Traduzione di Martina Toti) Carlos Garaicoa Confini e conflitti La violenza del mondo nelle parole. Strategie di difesa sul pianeta Terra Studio tipografico per le parole di Carlos Garaicoa Per Carlos. La città che vive di Adriano Pedrosa 11/9, tutti spettatori del disastro di Mauro Carbone Lo spazio dei senza patria Intervista a Okwui Enwezor di Flaminia Gennari Santori Le tre inquietudini (delle) capitali di Guido Martinotti Gusci per rifugiarsi dal mondo di Peter Sloterdijk Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 17 Carlos Garaicoa Studio tipografico per le parole di Carlos Garaicoa L’artista, l’opera arlos Garaicoa (L’Avana, 1967) pone come oggetto di indagine della sua ricerca la città, alternando fotografia, installazione, video e disegno. Attraverso la messa in scena di memorie urbanistiche ed architettoniche, l’artista racconta la sua Cuba e ne fa un ritratto realistico, appassionato, quasi antropologico, ma anche poetico, carico di ricordi, di spazi e luoghi dimenticati. «Il mio lavoro è un dialogo continuo con lo spazio pubblico di ambienti differenti, non solo con l’Avana». Trasformandosi quasi in archeologo urbano, Garaicoa muove alla ricerca di tracce, segni e vestigia del (recente) passato, testimonianze di rapporti, relazioni e legami che via via si sono allentati o interrotti. Fedelmente ancorato all’antico concetto di civitas, ne documenta il rapido declino, sperimentandone allo stesso tempo una sorta di riscatto, un tentativo di rivincita. Tra le più spettacolari installazioni realizzate negli ultimi anni, il lavoro intitolato Autoflagelación, supervivencia, insubordinación (composta di decine di maquettes di materiali diversi accostate a costituire una città immaginaria) o Now let’s play to disappear, dove l’artista propone una grande metropoli interamente realizzata in cera: gli edifici bruciano e si consumano lentamente allo stesso tempo infondendo vita, luce e calore. C 18 Garaicoa ha recentemente esposto al Moma di New York (2005). Ha inoltre partecipato alla Biennale di Tirana (2005); alla Biennale di San Paolo del Brasile (2003), a Documenta, a Kassel (2002). Nel 2006 le sue opere sono state esposte presso importanti istituzioni museali in Germania, Spagna, Canada e Stati Uniti. La riflessione sullo spazio urbano e architettonico, sul suo valore politico e sociale, è in questi disegni riferita ad una dimensione tipografica, dove lo studio della forma della parola è metafora del ruolo dell’architetto e dell’urbanista che, su scala diversa, danno forma allo spazio abitabile e abitato. La stretta relazione tra forma e contenuto è resa qui ancor più evidente dal significato delle parole che nascondono la loro brutalità e violenza dietro un’estetica che riecheggia gli stilemi dell’avanguardia russa d’inizio Novecento. Dalla natia Cuba un riferimento ad una estetica ideologica ma che sottilmente cela un inno alla libertà di espressione. A pagina 17, Nell’erba dell’estate, 1997, Video installazione. Nelle pagine seguenti, dalla serie Studio tipografico per le parole, 2006 matita su carta, cm 21x29,7. Per gentile concessione dell’artista e Galleria Continua (San Gimignano Beijing). Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Carlos Garaicoa Per Carlos. La città che vive di Adriano Pedrosa a città è lì. Sta aspettando che tu la incontri, la esplori, che tu la viva e, soprattutto, che tu la ricordi. Ci devi tornare e, dopo molti anni, devi assolutamente fartici una scopata, averci una storia d’amore o un incubo, farci una bella scazzottata. Piangi, ridi, cammina, corri e accelera a tutta velocità attraverso le sue strade, parchi, acque, giorni e notti. Ti ci devi innamorare o ammalare. Tutte le volte che ci torni, la città cambia; esperienze nuove si inscrivono su vecchie memorie. Nuove scritte si sovrappongono alle vecchie. Con il tempo diviene più complessa e sfuggente, cresce. La ami, ti manca terribilmente, te ne dimentichi. Non vuoi assolutamente tornarci. Ti fa sentire felice. Ti rattrista. Con il passare delle stagioni, degli anni, con il cambiare degli stati d’animo, questa intricata rete di esperienze influenza e contamina, si riflette e proietta sull’architettura e sullo sviluppo urbanistico della città, sulle sue temperature e sulla sua aria, si rispecchia nei suoi edifici, nei suoi cieli e nelle sue stelle, nei suoi angoli, nei suoi testi, nei suoi linguaggi, nelle sue persone. La città è unica per ognuno di noi, come il più intimo di tutti gli oggetti. Appartiene Quattro cubani, a te, e a te solamente. Sarà fedele per sempre e non si prenderà mai beffa di te. Nessuno te la porterà via. È fortemente influenzata dalle persone con le quali entri in contatto (in particolar modo attraverso i canali dell’amore e dell’odio, attraverso il passato e il presente), talvolta lì, oppure altrove. La città è infinita, non ha fine, ce ne sono a migliaia, ovunque. Tutte che pulsano, si espandono, crescono e cambiano, allo stesso tempo o in tempi successivi, per divenire un’unica grande città. È visibile e invisibile. La città è lì, concretamente, nel corpo e nello spirito, che ti risucchia e ti circonda. Non ha spazi vuoti, ogni angolo è occupato o preso dal suo corpo opulento e onnipresente (quelli che, in un primo momento, potrebbero essere scambiati per dei vuoti, in effetti non sono altro che presenze densamente stipate). La città ti tocca e tu la respiri. È una L presenza che ti sovrasta. La vedi tutti i giorni, in ogni momento e ovunque, non la puoi abbandonare e lei non ti lascerà andare via. La città è nei tuoi pensieri, sogni e incubi; è nelle immagini, nei film, nei suoni, nei libri che vedi, ascolti, leggi e scrivi. Pervade la tua immaginazione, il tuo immaginario, il tuo repertorio di immagini. La città è e non è, allo stesso tempo, la tua casa. Proiettandoti, riflettendoti o identificandoti con essa, puoi ritrovartici, trovarvi le tue radici, la tua immagine e tua madre. Ti abbraccia e conforta. Qui trovi il senso di appartenenza, la lingua madre, la cultura comune, 1997, video installazione. una comunità protettiva. Sono questi spazi interiori, ascrivibili a un micro-livello, che configurano un paesaggio urbano intimo. In casa ogni elemento architettonico può conservare almeno un ricordo: una teiera, un in- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 terruttore, un cuscino, una maniglia, uno specchio, un pezzo di tappezzeria o un cavo lente o irrimediabilmente perso, una mattonella o un vetro rotti, la vernice che inizia a staccarsi e a cadere, il tubo che perde, una macchia, un segno, una fessura, la luce e l’oscurità, l’attico come la cantina. La città-casa è unica e solo tua, una città nella città, dove la pianificazione stradale si fa domestica, e i diagrammi pubblici sono convertiti in privati. Le paure e le fobie giacciono al buio, al di sotto o al di là di strati di mura, scale, tende, mattonelle, tessuti, specchi, pittura, carta da parati o tappezzeria, pronte a emergere e a mostrare le loro facce strane e familiari, le loro forze. Straripante di personaggi letterari, la città è un testo, un poema, un palinsesto in continua mutazione, frammentazione e proliferazione, un luogo di cancellazione e di riproduzione. La leggi, la rileggi, e la interpreti male di continuo: una strada, un segnale, un semaforo, un albero, una finestra, una camera da letto, un’amante. Scrivi e riscrivi la città quotidianamente, con diligenza, senza sosta. Fai fatica a trovare un linguaggio appropriato, un formato, un aspetto, uno stile, un tono, un accento che possa trasformare il suo rigido diagramma, la sua griglia serrata, in un essere vivente, organico e fluido. La città è comprensibile solo in maniera parziale e frammentata. Guardala dall’alto, da un piccolo schermo ovale trasparente e incrinato. Puoi avere la presunzione di riuscire ad abbracciarla e controllarla, ma anche a volo d’uccello, la realtà è solo quella che riesci a vedere in una tessera di puzzle nuvoloso, reso minuscolo dalla distanza e dalla velocità. La città, vera, totale, universale, non giace nella moderna luce urbana, nella sua aria, geometria, circolazione o trasparenza. Risiede piuttosto nei suoi recessi, nelle sue segrete chiuse e inaccessibili, nelle cantine scure e negli attici luminosi, nei suoi sotterranei dimenticati, nei suoi intestini, nei suoi interstizi e fessure. La cartografia di questi luoghi, la descrizione tecnica – potrai concludere – sono del tutto inutili. 25 Carlos Garaicoa 11/9, tutti spettatori del disastro di Mauro Carbone orse si può parlare dell’11 settembre come del primo evento storico mondiale in senso rigoroso: l’urto, l’esplosione, il lento crollo – tutto ciò che irrealmente non era più Hollywood, ma spietata realtà, si è compiuto letteralmente davanti agli occhi del pubblico di tutto il mondo», ritiene il filosofo tedesco Jürgen Habermas. «Come se per qualche motivo ci fossimo ritrovati per caso tutti lì, ad assistere allo stesso incidente stradale», chiosa lo scrittore americano David Foster Wallace con dolente understatement. Ad assistere allo stesso naufragio, insomma. Non dunque un «naufragio con spettatore», in cui il secondo riesca a mantenere dal primo, come raccomanda la metafora di Lucrezio, una «distanza di sicurezza»: quella che, a sua volta, Immanuel Kant giudica necessaria perché uno spettacolo spaventevole susciti sentimenti sublimi. No, non un «naufragio con spettatore» è avvenuto l’11 settembre 2001, dicevo. Piuttosto un naufragio al quale – abbiamo sentito – tutti siamo stati spettatori, dall’essere stati spettatori dello stesso naufragio sentendoci accomunati, a quei naufraghi e fra noi, a nostra volta resi perciò naufraghi: mondo la cui carne fa di carne chi a quel mondo partecipa, insegna Merleau-Ponty. E sentirsi accomunati significa scoprirsi comunità, sorprendendosi a riconoscerne parte persino chi può inneggiare al suo massacro: vertiginosa implosione di ogni rassicurante distinzione fra Abele e Caino che ha fatto da eco – assordante – all’implosione delle Torri Gemelle. Dell’essere stati spettatori dell’evento dell’11 settembre – dell’esserlo stati insieme, come generalmente, e significativamente, è accaduto – David Foster Wallace ha dato una descrizione d’inesauribile intensità: «F Tutti fissavano, paralizzati dall’orrore, uno dei pochi spezzoni di filmato che poi la Cbs non ha più ritrasmesso, cioè una ripresa da lontano, in grandangolo, della Torre Nord e della griglia d’acciaio sventrata dei piani più alti in fiamme, e di certi puntini che si staccavano dall’edificio e scendevano lungo lo schermo in mezzo al fumo, che poi quella tipica zoomata a scatti rivelava essere persone in carne e ossa, con indosso cappotti, cravatte e gonne, e scarpe che si sfilavano dai piedi mentre loro cadevano, con certa gente che pendeva da cornicioni o travi per poi lasciarsi andare, ribaltandosi o contorcendosi mentre cadeva, e una coppia che sembrava quasi (era impossibile da verificare) abbracciarsi mentre veniva giù per tutti quei piani, riducendosi nuovamente a un paio di puntini quando la telecamera all’improvviso tornava in campo lungo – non ho idea di quanto durasse il filmato. [...] allora tutti i presenti si sono poggiati allo schienale delle poltrone guardandosi con espressioni che sembravano al tempo stesso infanti- 26 li e orribilmente vecchie. Un paio di loro devono aver emesso qualche suono. Non saprei cos’altro si possa dire. Sembra grottesco raccontare di essere rimasti traumatizzati da un filmato quando le persone nel filmato stavano morendo. C’era qualcosa, in quelle scarpe che cadevano giù, che rendeva il tutto anche peggiore. Che cos’era questo «qualcosa»? Forse, assurdamente, il particolare che «all’intera popolazione mondiale [...] trasformata in una platea di testimoni oculari impietriti» meglio mostrava come quelle persone non solo stessero morendo, non solo morendo uccise, ma anche morendo umiliate, negate – come sempre fa l’umiliazione – nella loro più normale individualità, singolare ossimoro su cui occorrerebbe riflettere. Perché, a pensarci bene, nel nostro abbigliamento di occidentali forse nulla è tanto normalmente individuale quanto le scarpe, in cui resterà per sempre impressa la forma senza uguali che ciascuno di noi ha dato loro. Per questo «in quelle scarpe che cadevano giù» c’era qualcosa di simile a quanto c’era nelle montagne di scarpe dei campi di sterminio nazisti, restate le sole testimoni del peggio. Forse, allora, quel «qualcosa» indicato da Foster Wallace era un’estrema ammissione di «vulnerabilità», per usare una parolachiave del commento che all’evento dell’11 settembre 2001 ha offerto, tre mesi più tardi, Judith Butler. In questo senso quel «qualcosa» sembra lo stesso cui Butler si riferisce: «qualcosa che ci mostra i nostri legami con gli altri, sottolineando come quei legami corrispondano esattamente a quello che siamo e che ci costituisce come persone». A mia volta credo di averlo incontrato, quel «qualcosa», una decina di giorni dopo l’11 settembre 2001 alla Pennsylvania Station di New York, dov’ero, come si dice, in transito. Improvvisamente mi trovai di fronte un muro affollato di cartelli, ciascuno diverso e tutti attraversati dalla stessa scritta: Missing. Da ognuno mi guardava un volto scomparso nel crollo delle due Torri e mi parlava la storia, banale e irripetibile, dei suoi affetti. Scritti al computer oppure a pennarello, talvolta decorati da qualche disegno infantile, stretti intorno alla foto di una persona fermata in un’istantanea ignara o in una posa di rito, erano i cartelli preparati dai familiari per implorarne notizie. Disposti sul muro ma irriducibili a tessere di un mosaico, che stanno costrette nei limiti loro assegnati per non disturbare la composizione (e la compostezza) dell’insieme, quei cartelli lottavano disperatamente contro qualsiasi ordine per avere, ciascuno per sé, ogni attenzione. Anche se, in realtà, «dicono “scomparso”, non nel senso che “lo stanno cercando” ma nel senso di sentire la loro mancanza», è Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 stato osservato con profondità da Charles Bernstein in Reporter Liberty Street: quella mancanza che chiedevano a chi li vedeva di condividere. Che convocavano chi li vedeva a condividere. Che costringevano chi li vedeva a condividere. Perché erano immagini che contenevano un dolore incontenibile. Immagini di un dolore irrappresentabile, insomma, aggrappate a dettagli privati nella cui insignificante quotidianità – nella cui più normale individualità, appunto – chiunque finiva con sorpresa per riconoscersi, spontaneamente ma con disagio. Come in quelle scarpe che cadevano giù, l’emozione per le quali ritorna, in un romanzo di Lynne Sharon Schwartz il cui titolo originale (The Writing on the Wall) evoca peraltro proprio quei cartelli, in termini singolarmente simili alle parole di Foster Wallace: «E poi le scarpe. Le scarpe sono la cosa peggiore». Emozione contrastata. Emozione dalla cui violenza era impossibile difendersi. I suoi echi si possono ancora incontrare fermandosi davanti all’elenco delle vittime esposto nella stazione della metropolitana di Union Square. È forse quest’emozione che può dirsi oggi sublime? Certo lo spettatore non riesce più a distinguersi dal naufrago. Non riesce davvero a difendersi dal naufragio. «Il dolore che avvolge queste colonne è inimmaginabile e continuiamo a fissarlo come travolti da un mare in tempesta», ha scritto chi ha visto quei cartelli in un’altra stazione della metropolitana, modificando proprio nel senso appena indicato l’analoga immagine kantiana del sublime. Perché, come le scarpe che cadevano giù, così quei cartelli ricordavano che «il corpo implica mortalità, vulnerabilità, partecipazione: la pelle e la carne ci espongono allo sguardo altrui, ma anche ai contatti e alla violenza». Brano tratto dal libro Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri). Un’anticipazione per gentile concessione dell’editore. Per motivi di spazio sono state eliminate le note presenti nell’originale. Chi è Mauro Carbone auro Carbone insegna Estetica presso l’Università degli Studi di Milano. È autore di Ai confini dell’esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust (1995), Il sensibile e l’eccedente (1996), Di alcuni motivi in Marcel Proust (1998), La carne e la voce. Un dialogo tra estetica ed etica (2003). Membro del comitato direttivo della rivista «Chiasmi International», è stato anche membro dell’International Symposium on Phenomenology. M Carlos Garaicoa Lo spazio dei senza patria Intervista a Okwui Enwezor di Flaminia Gennari Santori el suo lavoro ha affrontato le questioni più problematiche della relazione contemporanea tra l’individuo e la governance globale. Un esempio in questo senso è l’edizione della Biennale di Siviglia, The Unhomely: Phantom Scenes in Global Society. Quali sono le principali prospettive che ha scelto per affrontare questi temi, attraverso un’ampia varietà di proposte artistiche? Una delle cose che mi interessa fare è affrontare una questione molto semplice: come si pensa storicamente nel presente. Lo sradicamento (Unhomely) è una caratteristica della condizione della modernità. Questo è un mondo di persone in transito, incapaci di attraversare confini. Il più ampio contesto di tutto ciò è rappresentato dalla prolungata guerra al terrore, che ha definito uno specifico e contemporaneo stato di eccezione in cui l’individuo affronta continue minacce alla sua sovranità: sono queste le problematiche che definiscono questo momento in cui lo sradicamento incontra l’individuo. Volevo articolare questa nozione in termini semplificati e, se vuole, prosaici, e sottrarla alla nozione freudiana di inquietante o alle prospettive psicoanalitiche. N Gli artisti rispondono in modi differenti a questa attuale condizione dello sradicamento. Per esempio Mona Hatoum, che non è presente nella mostra, è un’artista che ha fatto del tema dello sradicamento uno dei principali strumenti del suo lavoro, con estremo rigore analitico, attraverso l’indagine sui lager e il lavoro sulla Palestina come forma rappresentativa del lager. Le opere, i gesti e le proposte degli artisti su questi temi stanno cominciando veramente a costituire una formale risposta a queste domande, e la mostra è concepita come un luogo in cui affrontare queste problematiche, sorte negli ultimi cinquant’anni e intensificatesi dall’inizio della guerra al terrore. La scultura occupa una posizione centrale all’interno della concezione della mostra, in particolare nel modo in cui certi tipi di sculture articolano una comprensione spaziale completamente diversa della griglia: non più come lo spazio razionale cartesiano come era prima concepito dal costruttivismo ed è stato poi esteso dal minimalismo, ma come uno spazio difficile di abitazione. Queste sculture articolano l’idea di spazio come luogo cintato, e affrontano le questioni dei limiti spaziali posti agli individui e alle so- cietà. Perciò la scultura fornisce un punto di partenza per come si possono pensare le forme di incarcerazione: non specificamente come imprigionamenti fisici, ma come la forma logica dell’esclusione, come le logiche discipline di potere che dominano l’individuo e minacciano, ancora una volta, la sua sovranità. Andreas Slominski, per esempio, con le sue trappole, ha trattato i temi della delimitazione spaziale e del luogo chiuso. Una delle molte idee che lei avanza nella mostra è il concetto di socievolezza (Neighbourliness), una nozione che per lei non è né prossimità né intimità ma qualcosa di più complesso, che va oltre entrambe. Se lo sradicamento è il mondo in cui viviamo, la ricerca della socievolezza è una forma possibile di resistenza a esso? Il concetto di socievolezza, ancora una volta, è strettamente collegato al modo in cui noi pensiamo storicamente nel presente. Dall’11 settembre molta gente che non ha letto il libro di Samuel Huntington Lo scontro di civiltà ha preso quel lavoro come un esempio storico della risposta all’11 settembre, e una prova che l’islam e l’Occidente sono asso- lutamente irriconciliabili a causa della loro profonda tensione culturale, filosofica e teologica. Secondo tale prospettiva non ci sarebbe alcuna possibilità di riconciliare le logiche attraverso le quali questi due mondi hanno concepito le loro società. La prospettiva di Huntington dello «scontro di civiltà» è certamente una semplificazione esagerata di una serie estremamente complessa di relazioni culturali, religiose e sociali che attraversano Occidente e non-Occidente, e tuttavia è diventata sinistramente popolare negli ultimi anni. Con il concetto di socievolezza volevo proporre qualcosa di molto meno antagonistico ma che nondimeno è impegnato nell’esplorazione delle tensioni che ho citato. Quello che intendo con socievolezza è un concetto che non è né antagonistico né opposizionale, ma che è in grado di riconoscere una differenza, nel pieno riconoscimento della molteplicità delle differenze interne a ogni società. Una delle mie domande iniziali era: come ci siamo spostati da posizioni di riconoscimento a posizioni di non-riconoscimento che hanno prodotto in vario modo l’architettura della sorveglianza in cui viviamo oggi? Questa visibilità e la continua esposizione del soggetto che Chi sono Okwui Enwezor e Flaminia Gennari Santori kwui Enwezor è il direttore artistico della seconda Biennale Internazionale di Arte Contemporanea di Siviglia. Enwezor è anche il preside degli Affari Accademici e il Vice presidente senior dell’Art Institute di San Francisco. Ha ricoperto incarichi di visiting professor di Storia dell’Arte presso le università di Pittsburg, Columbia, New York, Illinois, Urbana-Champaign e di Umea in Svezia. È stato direttore artistico di Documenta 11 a Kassel, in Germania (1998-2002) e della seconda Biennale di Johannesburg (196-1997). O laminia Gennari Santori, storica dell’arte, è research fellow al Metropolitan Museum of Art dove si occupa di storia del collezionismo, dei musei e della recezione dell’arte nel ventesimo secolo. Dal 2002 al 2006 ha coordinato le ricerche della Fondazione Adriano Olivetti. Tra le sue pubblicazioni, The Melancholy of Masterpieces (Milano, Five Continents, 2004) e, con Bartolomeo Pietromarchi, Osservatorio Nomade: Immaginare Corviale (Milano, Bruno Mondadori, 2006). F Olivo Barbieri, Site specific Los Angeles 05, 2005. Cm 122x152,4. Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 27 Carlos Garaicoa «Lo sradicamento è la condizione per eccellenza della modernità e perciò ha attributi storici: una delle cose che mi interessa è mostrare come queste tematiche siano state sempre parte del modo in cui gli artisti hanno riflettuto sul loro rapporto con il proprio ambiente sociale» tutti noi sopportiamo non implica il riconoscimento, ma esattamente l’opposto: un misconoscimento del soggetto e della sua costituzione. La conseguenza è che questa estrema visibilità produce una forma di indifferenza: l’apparato diventa cieco nei confronti del soggetto. Ma all’interno di questo contesto, come sono affrontate e vissute le questioni e le condizioni della socievolezza? Questo è il punto in cui la nozione di prossimità e di intimità viene in essere. Detto ciò, ci sono due modi di pensare la prossimità: la si può pensare come uno stato di breve distanza in cui l’altro è sull’altro lato ma non troppo lontano, e che crea una sorta di relazione reciproca, anche se potrebbe essere segnata dall’ambivalenza. Oppure si può pensare alla prossimità come a una forma di disturbante vicinanza, ed è questa particolare forma di prossimità a interessarmi: l’altro è così vicino da venir percepito come una minaccia e un pericolo alla coerenza di uno spazio architettonico e culturale omogeneo. Un chiaro esempio di ciò è il paradosso della ristrettezza dello stretto di Gibilterra e il grande gap tra Spagna e Nord Africa. Sebbene sia una distanza geografica brevissima, in termini di spazio psicolo- gico è enorme, e lo trasforma in uno spazio difficile e minaccioso. In questo, come in molti altri casi, la breve distanza è trasformata in una vicinanza disturbante e non posso pensare a niente di meglio che al lavoro degli artisti, riguardo al modo di affrontare questa realtà in tutta la sua complessità. Absalon, Ursula Biemann, Yto Barrada, James Casebere, Harun Farocki, Peter Friedl, Toba Khedori, Marcia Kure, tutti lavorano o hanno lavorato sulla mappatura, sull’interpretazione e sull’espressione di queste condizioni di socievolezza e di disturbante vicinanza che ho qui descritto. La posizione geografica di questa mostra ha avuto un ruolo nel concepimento della mostra stessa? E più in generale qual è la relazione tra i più ampi temi globali che lei affronta nei suoi progetti e le specifiche ubicazioni delle esposizioni? Ovviamente questa mostra è molto sensibile alle condizioni che costituiscono aspetti specifici della realtà quotidiana spagnola. Se vuole, l’ubicazione della mostra diventa un case study tra i molti altri offerti dagli artisti nell’esposizione. In questo modo lo stesso luogo diventa una spe- Ursula Biemann, Estrecho Complex, 2003. Installazione multimedia, dimensioni variabili 28 cie di dimensione-ombra all’interno della mostra, tuttavia non citata esplicitamente. E in questo caso, certamente, il rapporto tra Spagna e Nord Africa diventa un altro contesto-ombra, così come la relazione tra Africa occidentale e isole Canarie. Ma anche se la mostra è stata creata specificamente per la Biennale di Siviglia, è stata concepita veramente per affrontare idee globali. Molti artisti presenti prendono la città come il loro terreno di indagine o produzione. La «città» come paradigma dominante dell’esperienza contemporanea è senz’ombra di dubbio uno degli interessi della sua esposizione. Pensa che sia arrivato il momento di andare oltre questo paradigma e di «usare» o di guardare la città in altri termini? L’arte contemporanea è piena di ogni sorta di progetti sulla città, sull’utopia e così via. Volevo che ci fosse una differenza, un confine molto leggero tra quello che penso e queste manifestazioni: non volevo fare un progetto sull’impegnarsi con la città o sull’intensa interazione tra opere d’arte e città. Quello che volevo fare era prendere tutti gli strumenti attraverso i quali gli artisti fanno arte nella città e reinserirli nello spazio della mostra come fosse un luogo specifico per la produzione di certe idee sulla spazialità e su asintotiche questioni di spazio. Sono interessato al modo in cui pensiamo lo spazio e al modo in cui abitiamo e viviamo lo spazio, non solo e semplicemente la città. Perché sappiamo che la città non è solo il luogo della manifestazione urbana senza limiti, ma ha inclusa in sé la più grande varietà di modi di vivere, e la più grande varietà di modi di reagire al sistema. Volevo lavorare con metafore, non con supersemplificazioni di ciò che significa una città. Volevo cercare quegli attributi e reinserirli nello spazio della mostra, che così diventa un utile motore di ricerca attraverso il quale possiamo stabilire un rapporto con la città, e andare anche oltre di essa. Volevo tendere il mio pensiero oltre le questioni molto specifiche che vengono Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 generate all’interno del campo dell’arte contemporanea negli ultimi anni, e andare oltre l’architettonico per concentrarmi sulle condizioni di vita e le condizioni di produzione. Molti artisti della biennale si impegnano sul concetto di sorveglianza, al punto che una possibile traiettoria all’interno della mostra potrebbe essere la nozione di sorveglianza così come è stata esplorata dall’arte contemporanea negli ultimi decenni. La sorveglianza è un mezzo di affrontare il modo in cui oggi pensiamo storicamente? Lo sradicamento è la condizione per eccellenza della modernità e perciò ha attributi storici: una delle cose che volevo fare era vedere come gli artisti hanno trattato questo tema negli ultimi venticinque anni, per mostrare come queste tematiche siano state sempre parte del modo in cui gli artisti hanno riflettuto sul loro rapporto con il proprio ambiente sociale. Così la mostra possiede una dimensione storica, anche se io mi sto occupando più specificamente di artisti contemporanei. La sorveglianza non era un tema che avevo in mente in particolare, quando preparavo la mostra. Tuttavia è certamente un tema o una prospettiva ricorrente: come le immagini di Olivo Barbieri, di città dell’altro mondo divenute quasi delle rovine di civiltà, luoghi che riconosciamo e che pure sembrano assolutamente sconosciuti, in cui la miniaturizzazione dello spazio conduce alla miniaturizzazione delle persone. L’opera di Harum Farocki, I thought I was seeing convicts, è un’analisi esemplare di sorveglianza e dell’intero regime del panoptycon, come tecnica che lo Stato impiega non solo per controllare ma anche per governare il carattere dei sorvegliati e perciò possedere completamente il loro corpo. Queste per me sono questioni cruciali, che la filosofia ha proposto tanto tempo fa: gli artisti si pongono oggi queste domande molto difficili ma anche molto importanti, e questa mostra è stata concepita come un luogo per sollevare e affrontare queste questioni. Carlos Garaicoa Le tre inquietudini (delle) capitali di Guido Martinotti facile oggi trovare in libreria pubblicazioni dai titoli roboanti come La morte delle distanze (ed. Cairnscross), Il mondo è piatto, per non parlare dello strapazzato Non luoghi (Marc Augé, ma l’originale è in Melvin Webber). In generale si tratta di concetti con scarso fondamento teorico, ma la loro proliferazione richiama ovviamente l’attenzione su un comune problema reale: la transizione da sistemi economici e sociali dominati da quella che gli economisti del territorio chiamavano «la tirannia dello spazio» a sistemi economici e sociali in cui questa tirannia è moderata, se non eliminata dallo sviluppo indipendente, ma convergente, di due «traiettorie tecnologiche» (e uso la terminologia tecnica di Alain Gras, a ragion veduta): i macrosistemi tecnologici della mobilità e quelli dell’informazione. I mutamenti sociali collegati a queste tecnologie sono molto profondi e, non sorprendentemente, creano altrettanto profonde inquietudini, vissute soprattutto nei centri del sistema, le capitali del mondo in cui gli effetti di questi processi sono osservabili d vicini ed esperimentati, per così dire, nell’esperienza quotidiana. Ciò non vuol dire che ai margini del sistema non si vivano conseguenze anche più catastrofiche dei cambiamenti che avvengono oggi su scala planetaria, ma solo che nei grandi centri urbani la coscienza di questi cambiamenti è più acuta e la riflessione più diffusa. Non dimentichiamo che le stime sull’andamento demografico a cavallo dei secoli XX e XXI indicano che proprio in questo periodo si sta verificando un fenomeno di portata planetaria: per la prima volta da quando ha fatto la sua comparsa, come prodotto fisico della or- È ganizzazione umana da cinquanta a centoventi secoli orsono, la popolazione urbana del pianeta è diventata maggioranza sulla terra. E salvo imprevisti eventi di gigantesche dimensioni, guerre, epidemie, catastrofi naturali, sempre possibili anche se non molto probabili o prevedibili, questa proporzione è destinata a crescere e a crescere soprattutto nelle regioni meno sviluppate del mondo. Il fatto macroscopico è che nel corso del XX secolo la popolazione umana sul pianeta è raddoppiata due volte. Questi macrofenomeni hanno dato origine a una amplissima letteratura sul luogo o «locale» (in inglese, da Giddens) che non ha molto chiarito i problemi essendo perlopiù coniugata in termini politico-ideologici, come nel famoso motto «think global-act local» degli attivisti dei movimenti mondialisti. Non è qui il luogo per addentrarci in una disanima delle fallacie di questo tipo di espressioni, che ovviamente hanno una loro verità: in fondo al «locale» c’è sempre almeno una persona, ma la retorica localistica sfuoca il problema facendo coincidere «locale» con «piccola comunità», un errore ideologico che distorce fortemente in molti campi, la comprensione del rapporto delle società insediate in un certo «luogo» e il resto del sistema sociale. Metropoli, spazio incerto Il punto che mi interessa sottolineare è che le inquietudini «capitali» del nostro tempo si sono facilmente trasformate in inquietudini «delle» capitali che sono la sede della elaborazione e della narrativa del nostro tempo, acquistando via via, come una crescente va- langa mediatica una coloritura sempre più emergenziale che si riflette anche nel titolo di opere non necessariamente rivolte solo al grande pubblico, ma si riflette soprattutto nella narrazione artistica. Visti dall’osservatorio del mondo urbano i macroprocessi che contribuiscono alle inquietudini sono prevalentemente tre: La recessione dei confini Lo sviluppo delle Popolazioni Non Residenti La doppia ermeneutica La recessione dei confini è un processo molto generale che riguarda sia i fenomeni fisici che l’ampliamento delle conoscenze e della coscienza dei limiti. La città tradizionale aveva ben precisi confini e una ben definita popolazione, sia pure in entrambi i casi con qualche variabilità attorno a queste definizioni, ma il concetto era chiaro e condiviso. La coincidenza di una popolazione con un territorio ben delimitato è al tempo stesso il portato fondativo dell’urbanizzazione antica, largamente basata sull’idea di città-stato cioè della sovrapposizione tra polis e astu, tra la città sociale e la città costruita, e il rafforzamento che di questa coincidenza si è avuto con la razionalizzazione del territorio a fini amministrativi sostenuto dalla diffusione dello stato moderno. A partire dai primi decenni del XX secolo questa identificazione o sovrapposizione comincia a venire meno: i confini della città reale, che si configura come un’area metropolitana cioè una entità territoriale funzionale costituita da una unità centrale, «core» e da Chi è Guido Martinotti uido Martinotti è professore ordinario di Sociologia urbana all’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di sociologia urbana, analisi comparata delle aree metropolitane, tempi e qualità della vita nelle città, sociologia del turismo, sociologia visuale, banche dati per le scienze sociali, analisi comparata dei sistemi di istruzione superiore, insegnamento delle scienze sociali. La memoria e il tempo. Per le Scuole superiori (tre voll. con Beonio Brocchieri e Colarizi, Einaudi, 2006); E learning (con Dal Fiore, McGraw-Hill Companies, 2006); L’abitare nell’area metropolitana milanese (con Zajczyk, Franco Angeli, 1999); Metropoli. La nuova morfologia sociale della città (Il Mulino, 1993). G Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 29 Carlos Garaicoa È facile oggi trovare pubblicazioni dai titoli roboanti come La morte delle distanze: la loro proliferazione richiama l’attenzione sulla transizione verso sistemi in cui la tirannia dello spazio è moderata dallo sviluppo di due traiettorie: i macrosistemi tecnologici della mobilità e quelli dell’informazione una area circostante «periphery» («rings», «fasce», «hinterland», «periurbain»). L’unità funzionale è essenzialmente un bacino di pendolarità, che è stato a volta a volta chiamato, DUS (Daily Urban System) o FUR (Functional Urban Region). L’aspetto importante di questo sviluppo che ha interessato prima gli Stati Uniti e poi anche l’Europa, è lo svincolamento della unità urbana «funzionale» da una precisa delimitazione territoriale. L’area centrale (core) è normalmente definita da un confine amministrativo ben definito, ma l’area metropolitana non è facilmente definibile perché è un concetto appunto «funzionale» non territoriale, per di più variabile nel tempo. I confini del sistema recedono, si allontanano e, anche perdono di precisione, sono meno definibili, anche se non del tutto inesistenti. La città si perde in uno spazio incerto che ha eccitato la fantasia della popolarizzazione iperbolica: «città continente» o addirittura «città mondo» e persino «città infinita» in un crescendo tronitruante inversamente proporzionale alla chiarezza delle idee. È difficile trattare di questi argomenti, che si occupano di fenomeni che spesso cambiano sotto i nostri occhi, usando un vocabolario accade- mico aulico, ammesso che esista ancora. Nella vulgata corrente prevale ancora la visione ottocentesca della contrapposizione tra città e campagna, ma questa contrapposizione è fittizia ed è il prodotto di concezioni obsolete, anche se tuttora ampiamente diffuse nell’opinione pubblica. Il geografo svedese Staffan Helmfrid nota che «gli abitanti delle città desidererebbero trovare nel paesaggio il prodotto di una società rurale che vive in armonia con se stessa e con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età dell’Oro». E rimproverano agli agricoltori di contaminare questa natura con le loro pratiche agricole sempre più meccanizzate, dipendenti dall’impiego di prodotti chimici e distruttive del tessuto rurale tradizionale. Ma è proprio la crescita impetuosa delle città che, in duecento anni, con un ritmo progressivamente accelerato, ha invertito i termini del rapporto tra popolazione rurale e popolazione urbana, portandolo dalla cifra di 90 e 10% di 58 dei 60 secoli che marcano l’insediamento agricolo europeo al 10% dell’attuale popolazione rurale in questo continente, a richiedere una sempre maggior produttività agricola. La quale a sua volta, porta alla de- vastazione dell’insediamento rurale tradizionale. Il fenomeno apparente della fuga verso le campagne altro non è che un aspetto della crescita metropolitana che è continuata indisturbata anche negli ultimi anni. Se si fa una semplice analisi della distribuzione dei comuni esterni ai confini delle aree metropolitane del 1991, che hanno visto crescere la propria popolazione si vedrà che sono in grandissima parte comuni adiacenti alle precedenti aree metropolitane, oppure comuni in aree con una specifica vocazione turistica. L’Italia metropolitana cresce e la tradizionale campagna si spopola. Contribuiscono a questo fenomeno di recessione dei confini vari processi legati ai differenziali di rendita urbana, alle trasformazioni dell’uso delle abitazioni e agli stili di vita, oltre che alla diffusione delle tecnologie dell’informazione che permettono e anzi impongono di passare una crescente parte del proprio tempo in casa. Questo fa sì che a parità di altri fattori, reddito, composizione famigliare, stile di vita, occupazione, ci sia una pressione verso la ricerca di abitazioni più spaziose, e che, sempre a parità di altri fatto- Medio Oriente Palestina, l’arte oltre il muro di Lucia Tozzi el 1997 un grosso cavallo di legno venne posizionato nel punto più trafficato della frontiera Usa-Mexico, tra Tijuana e San Diego. Le sue linee pulite e il riferimento al ciclo omerico ne facevano un oggetto del tutto estraneo al paesaggio circostante, un collage impazzito di automobili, cartelli intimidatori, insegne tex-mex, colori sgargianti offuscati dalla polvere, lamiera, sudore, smog, musica norteña. Concepito nell’ambito di InSite, un network di istituzioni messicane e statunitensi finalizzato alla produzione artistica sul territorio frontaliero, Toy an Horse di Marcos Ramírez «Erre» è un’opera che reagisce al processo di solidificazione e militarizzazione del confine avviato da Clinton tre anni prima con l’«Operation Gatekeeper». Pur non essendo né l’unico né, forse, il più interessante tra gli interventi artistici prodotti a Tijuana negli ultimi anni, il cavallo di «Erre» è diventato quasi subito il simbolo di una svolta percettiva: al mito trasgressivo della promiscuità, dei traffici loschi, si è affiancata l’epopea dei migranti. La politica statunitense di chiusura ha catalizzato l’attenzione degli intellettuali sulle centinaia di clandestini che ogni anno muoiono attraversando il deserto, sull’urbanizzazione incontrollata sul fronte messicano e sullo sfruttamento nelle maquiladoras. La vitalità di quel luogo corrotto, tequila sexo marijuana, che ha fatto da sfondo a pellicole come Touch of Evil di Orson Welles o Traffic di Steven Soderbergh, appare ora offuscata dai tetri film di Iñarritu, dalle storie raccontate da Richard Rodriguez in Ossa nel deserto (Adelphi 2006) o dalle immagini e dalle cifre contenute in Aqui es Tijuana (Blackdog Publishing 2006). I saggi di Mike Davis, i progetti urbani di Teddy Cruz, gli oggetti transborder creati dal collettivo di artisti tijuanensi Torolab e persino un videogame (www.turistafrontizero.net, di Ricardo Dominguez e Coco Fusco) provvedono a smontare pezzo per pezzo l’immagine affascinante di un limite poroso, di un territorio ibrido dove assaporare la libertà di piaceri illegali, riportando ossessivamente il discorso sulla materialità della barriera. N 30 L’apparato di reti, palizzate metalliche, torrette di avvistamento, fili elettrificati e polizia di frontiera non è solamente la manifestazione della violenza unilaterale di un singolo Stato nei confronti del vicino, ma anche la cruda smentita dell’idea di globalizzazione come superamento dei confini, propagandata senza sosta dalla retorica neoliberista. Il decentramento e la deterritorializzazione delle nuove forme di potere politico ed economico prodotte dal declino degli Stati-nazione sono infatti processi fondati sul rafforzamento e sulla moltiplicazione dei confini, anziché sulla loro decadenza, e soprattutto sulla radicale asimmetria della libertà di movimento: come membrane semipermeabili, le frontiere sono aperte per i flussi di merci e persone dei paesi «forti», mentre ostacolano la circolazione di prodotti (per esempio quelli agricoli) e naturalmente dei migranti provenienti dalle aree deboli. Le barriere «difensive», inoltre, si estendono spesso al di là del territorio che sono deputate a proteggere – è il caso dell’Europa, che accordandosi con la Libia e i paesi ex sovietici si è dotata di una seconda cintura di sorveglianza –, mentre l’offensiva neocoloniale, non potendosi più avvalere dell’esercizio della sovranità diretta sul territorio, opera tramite la creazione di un sistema sempre più ampio di enclave commerciali, finanziarie e turistiche iperfortificate. Dove non arriva il diritto internazionale, in altre parole, sono le corporations a portare avanti il processo di recinzione-appropriazione. Quello che si sta imponendo in scala globale è un modello di segregazione analogo a quello sudafricano, dove una minoranza ricca elabora strumenti brutali e raffinati insieme per relegare la maggioranza povera nello spazio più ristretto e privo di risorse, mirando contemporaneamente a ridurre le occasioni di contatto anche temporaneo con l’altra parte. A differenza dell’élite sudafricana d’antan, però, le democrazie occidentali hanno ufficialmente rinunciato a servirsi di uno strumento semplice ed efficace come la superiorità razziale, e si trovano quindi nella continua necessità di cercare giustificazioni sempre più macchinose al regi- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Carlos Garaicoa I mutamenti sociali collegati a queste tecnologie creano profonde inquietudini, vissute soprattutto nelle capitali del mondo. Ciò non vuol dire che ai margini del sistema non si vivano conseguenze anche più catastrofiche dei cambiamenti di oggi. Ma che solo nei grandi centri la coscienza di questi cambiamenti è più acuta ri, queste abitazioni si trovino nelle aree esterne delle grandi metropoli. Il risultato è che le città crescono in territorio molto più rapidamente che in popolazione. «Cottage tecnologici» sì, ma... C’era una volta…«In antichità – scrive Giddens – non era possibile separare il luogo dallo spazio-tempo». Neppure gli dei potevano farlo: prendete il punto di svolta nell’Odissea, quando Atena, traendo vantaggio dal pigro risveglio di Zeus, lo convince ad annullare la dannazione imposta al suo protetto Odisseo da Poseidone, vale a dire il perenne viaggiare. Zeus decide di mandare Hermes, il messaggero, all’isola in cui Odisseo, essendosi innamorato della Ninfa Calipso, è rimasto per sette anni, interrompendo il lungo viaggio verso casa. Nell’era di internet, l’ordine arriverebbe istantaneamente, ma nell’età dell’unità del luogo e del tempo della narrativa teatrale, persino l’immaginazione doveva seguire determinate regole. Hermes poteva viaggiare a velocità di sogno, ma si doveva comunque spostare fisicamente. «Volò il potente Argheifonte…piombò dal cielo sul mare; e si slanciò sull’onde, come il gabbiano che negli abissi paurosi del mare instancabile, i pesci cacciando, fitte l’ali bagna nell’acqua salata; simile a questo, sui flutti infiniti Ermete correva» (Od, V, 50). Successivamente Hermes si lamenta della fatica del viaggio. «E chi volentieri traverserebbe tant’acqua marina, infinita? Non è neppure vicina qualche città di mortali che fanno offerte ai numi, elette ecatombe» (Od, V, 101). In breve, si tratta di un lungo viaggio senza pause pranzo. Nessun McDonald, nessun Burger King, né Pizzarite, Pavesini o International Houses of Pancake e neppure il profumo dei sacrifici. La storia è davvero interessante perché spiega chiaramente che anche nel mondo fantasmagorico dell’Odissea, viaggiare doveva essere reale, confermando l’intuizione sociologica della natura «sradicata» delle società contemporanee, in cui la mobilità è non soltanto una dinamica sociale importante, ma anche una caratteristica culturale dominante. Si va dall’implicito dileggio del viaggio nel bellissimo verso di Orazio che tutti i liceali italiani hanno studiato a memoria, alla affermazione di Blaise Pascal («Il problema degli uomini è che sono capaci di stare tranquilli nella loro stanza») entrambe frutto di culture in cui il viaggiare era raro, faticoso, costoso e pericoloso all’inversione completa del punto di vista incorporata nel famoso logo della Cunard Lines. Nelle sue varie forme e connotazioni, la mobilità è un fenomeno sociale dominante ma, mentre il movimento delle popolazioni attraverso la superficie del pianeta è una delle caratteristiche più antiche della specie umana, non c’è dubbio che sia la città, in particolare la città contemporanea, a fornire l’ambiente fisico e culturale in cui il sistema di mobilità si è sviluppato al suo massimo. Quando parliamo di un «sistema di mobilità» ci riferiamo sia ai sistemi tecnologici, quali le infrastrutture a sostegno della mobilità, sia al fatto che tali sistemi non sono soltanto limitati all’infrastruttura fisica – l’hardware, per così dire – ma includono anche componenti economiche, culturali e sociali – il software. Questo punto è stato sottolineato in modo esemplare da Alain Gras con il suo concetto di «macrosystème». Sfortunatamente questo concetto non è entrato nella pratica corrente. Gli aspetti sociali e culturali, e perfino quelli economici, sono spesso trattati come variabili residue, ri- Medio Oriente me di apartheid che stanno di fatto istituendo. A porre fine a questo dispendio di energie è giunto come la manna dal cielo il problema della sicurezza. Da quando è diventato possibile agitare in qualunque contesto la minaccia del terrorismo, la politica dell’esclusione ha subito un impulso straordinario, e i suoi oppositori sono stati pressoché ridotti al silenzio: in fin dei conti quale argomento è più chiaro, condivisibile e inattaccabile della legittima difesa? E dal momento che in ogni straniero, in ogni emarginato, in ogni «altro» può nascondersi un terrorista, cancelli e barriere sono diventati indispensabili non solo alla dimensione dei confini geopolitici, ma anche a livello regionale, metropolitano, urbano. Negozi, uffici pubblici e privati, condomini, gated communities, università, attrezzature sportive, parchi, musei, villaggi turistici, stazioni, parcheggi, reclamano recinzioni e sorveglianza che permettano di passare dall’uno all’altro in automobile senza rischiare il minimo incontro con gli Altri. Il risultato è stato un processo di privatizzazione del territorio, di erosione dello spazio pubblico a spese di chi non ha diritti e denaro per comprarselo. Pochi riescono a sfuggire alla campagna paranoica imposta dalla politica e dai media di paesi che spesso, peraltro, registrano tassi di sicurezza mai raggiunti in nessuna epoca precedente. Le analisi più lucide provengono invece dagli artisti e urbanisti di area israelo-palestinese: sono le loro opere e i loro scritti a scartare nella maniera più decisa dalla ridondanza del circuito comunicativo, mostrando in modo inequivocabile la relazione di causa-effetto tra la manipolazione della paura in Israele e l’emergenza reale in cui mal sopravvive la popolazione palestinese. Secondo Eyal Weizman, che ha raccontato meglio di chiunque altro la pianificazione degli insediamenti sionisti allo scopo di frammentare il territorio palestinese, «dato che nei primi anni dell’occupazione la costruzione degli insediamenti dipendeva dall’annessione di territorio palestinese di proprietà privata, e che la proprietà privata poteva essere requisita solo se lo Stato dichiarava che era necessario per ragioni di sicurezza, ogni singola trasformazione dell’ambiente costruito veniva motivata come strategica, e tutti gli insediamenti venivano dichiarati una necessità militare». La prima regola consisteva nel costruire in posizione dominante, secondo la tipologia «torre e steccato», poi si collegavano le colonie con strade veloci e isolate dal contesto, che fungessero anche da barriere, e infine con il muro di Sharon si è cercato di inglobare la massima quantità – e la migliore qualità – di terra, separando il 65% dei palestinesi da risorse primarie come acqua e campi. Tutte misure ufficialmente temporanee, eccezioni destinate per forza di cose alla cristallizzazione. Intorno a questo «spaziocidio» – la definizione è del sociologo Sari Hanafi – sono stati organizzati un grande numero di mostre e incontri, che hanno prodotto un’accelerazione di pensiero difficile da cogliere all’esterno. In un’atmosfera decisamente più tesa rispetto all’America, che nessuna moda tex-mex o turbo-folk contribuisce ad attenuare, un forum come «Artist Without Walls» declina tutte le possibili versioni di violazione del muro: finestre virtuali, trompe-l’œuil, azioni di sconfinamento, mentre Jack Persekian, direttore della Fondazione Al-Ma’Mal di Gerusalemme Est, ha dovuto progettare il CAMP (Contemporary Art Museum of Palestina), un museo itinerante, per potere mostrare le opere della collezione a quel 95% di palestinesi rinchiusi in enclave di diversa estensione, privati di qualsiasi libertà di movimento. L’arte concepita in questi territori ha maggiori probabilità di sfuggire ai cliché di un impegno stantio, di natura tematica («migrazioni», «identità», «conflitti» e gli stessi «confini», da un po’ di tempo a questa parte), dettato dalle mode curatoriali internazionali né più e né meno del ciclico allungarsi delle gonne e del ritorno dei colori pastello nell’haute couture. Messi dunque da parte l’eccesso metaforico e il saccheggio di frammenti filosofici da testi preferibilmente deleuziani, le opere degli artisti mediorientali rivelano la dimensione globale del muro. Israele è di fatto un laboratorio, la sua «urbanistica di guerra» e le sue politiche spaziali costituiscono un paradigma riproducibile in qualsiasi parte del mondo. Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 31 Carlos Garaicoa Le inquietudini «capitali» del nostro tempo si sono facilmente trasformate in inquietudini «delle» capitali, che sono la sede della elaborazione e della narrativa del nostro tempo, acquistando via via una coloritura sempre più emergenziale che si riflette soprattutto nella narrazione artistica unite sotto un’unica voce (vagamente definita) di «domanda» di mobilità, dimenticando di suggerire l’aspetto complementare della mobilità, vale a dire l’accessibilità, un bisogno dominante e altamente valutato delle organizzazioni sociali contemporanee. Ma a ciò si arrivati perché vi è stato anche un radicale mutamento culturale, aiutato da ben individuabili movimenti artistici e filosofici tra i quali i Futuristi occupano un posto significativo lasciando l’impronta della loro proclività al dinamismo sull’immagine di Milano, la città che più di ogni altra si identifica con il Futurismo. La cultura della mobilità è interconnessa alla diffusione delle tecnologie ICT, Information and Communication Technologies. Contrariamente alle aspettative ampiamente annunziate, la diffusione degli strumenti d’informazione accessibili «da casa» non ha condotto le città a un playback tecnologico della rivoluzione industriale, trasformandole in una costellazione diffusa di «cottage tecnologici per telelavoratori». Le nostre case si sono, in effetti, trasformate in una piattaforma per una miriade di macchine ICT, ma contemporaneamente, paradosso non ancora completamente spiegato, le città continuano a svilupparsi e i sistemi di trasporto sono sottoposti a pressioni inesorabili, malgrado (o piuttosto in concomitanza con) la diffusione delle reti di informazione. L’analisi di ciò che accade nelle grandi aree metropolitane urbane e nel mondo può aiutare a chiarire tale paradosso. Una città…«scoppiettante di energia» Lo sviluppo delle PNR Popolazioni Non Residenti, provoca un indebolimento dei legami tra popolazioni e spazio e contribuisce alla situazione emergenziale nelle nuove forme urbane. Nella città tradizionale, su cui tutto lo stato attuale delle conoscenze della vita urbana è ancora in gran parte modellato, la popolazione che vive nella città ha coinciso quasi interamente con la popolazione che lavora nella città. I limiti della città hanno incluso entrambe le popolazioni su un unico territorio; per secoli, e fino agli ultimi tempi, questo spazio è stato circondato da mura ed è stato ordinatamente separato dal resto del territorio. La rivoluzione industriale non ha molto cambiato questa situazione; la produzione delle merci nel settore secondario richiede principalmente lo spostamento delle materie prime, delle merci manufatte e del capitale, mentre gli operai e gli imprenditori rimangono in gran parte concentrati nelle aree urbane. Soltanto il ventesimo secolo ha determinato un cambiamento radicale. Osservando la forma della città nella prima metà di questo secolo, notiamo come il pendolarismo abbia influenzato la scena urbana in termini di infrastruttura, di creazione di nuove e distintive zone residenziali e di cambiamenti radi- 32 cali nei vecchi centri. Il risultato è ciò che definisco metropoli di prima generazione, caratterizzata da una città-nucleo e da vaste zone circostanti, principalmente basate su regioni urbane funzionali o su bacini di pendolarità giornaliera. Non c’è nessun dubbio che quel che è stato denominata «un’area metropolitana standard», dopo un numero considerevole di studi, culminati nei tardi anni 60, sia, di fatto, una nuova razza di animale urbano. Come Norman Gras ha detto una volta, «la grande città, la città eccezionale…si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica», ma la metropoli economica è appunto un nuovo spazio fisico non facilmente determinabile, senza particolari segni ai confini: nella città si entra, mentre nella metropoli si arriva. E spesso non riusciamo bene a cogliere la caratteristica della nuova forma urbana. Nel migliore dei casi, quando se ne parla, la si immagina come un’area del tutto autonoma dalla città, commettendo un grave errore, criticato con forza da Deyan Sudjic. «Immaginate – scrive Sudjic – il campo di forza attorno a un cavo dell’alta tensione, scoppiettante di energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000 volts in uno qualsiasi dei punti della sua lunghezza, e avrete una idea della natura della città contemporanea. Il richiamo di Sudjic all’energia elettrica offre un felice accostamento per un raccordo con il tema delle nuove tecnologie. Infatti, di pari passo con la diffusione della motorizzazione privata, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione ha dato una spinta decisiva alla formazione della nuova città. Da un lato cambiando l’organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e distribuisce nello spazio, secondo un modello ormai largamente noto che va sotto il nome di economia post-fordista. Dall’altro per i cambiamenti indotti dalle «macchine per l’abitare». In parte si è trattato di un processo simile a ciò che è avvenuto in fabbrica, con l’avvento di macchine «time and labour saving», cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne. Ora però questo tempo viene impiegato da beni «time consuming», tutte quelle macchine che servono a consumare il tempo liberato e di cui noi ci riempiamo progressivamente la casa. Primo tra tutte il più grande mangiatore di tempo che è la televisione. «Spiralling in and out» Le abitazioni diventano più comode, ma richiedono più spazio e a parità di reddito lo spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta cresce attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, si intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione. Va da sé che questo scoppiettio è costoso proprio in termi- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 ni di consumo energetico. Come accadde con tutti i luoghi comuni (molte scuse per l’inevitabile gioco di parole) di successo, la ripetizione ossessiva dell’idea di non-luogo, lanciata da Melvin Webber e popolarizzata da Marc Augé, rivela la sua inerente debolezza analitica proprio dalla sua diffusione. Capiamo istintivamente cosa siano i «non-luoghi» quali i parcheggi, gli aeroporti, i terrains vagues, i supermercati, centri commerciali e malls. Ma lo capiamo così bene, non perché siano dei non-luoghi, termine evocativo, quanto superficiale e senza senso a una seconda lettura, ma piuttosto perché sono proprio i luoghi della città in cui oggi viviamo. I cosiddetti «non-luoghi» sono niente altro che i luoghi tipici della città contemporanea che ci paiono astratti, impersonali, anonimi e forse anomici, perché ideologicamente confrontati con i luoghi della nostalgia, che, come scrivono Amin e Thrift, sono colpiti dalla mercificazione (commodification), dalla materializzazione (thingsification), dalla velocizzazione (speed up) e dalle comunicazioni di massa (mass media). E, ancora una volta, la nuova struttura sociale non è irrilevante per la morfologia fisica, se si guarda l’area di Milano si può vedere che l’area metropolitana non è solo una più grande Milano. È una nuova struttura funzionale in forte interazione funzionale con la tradizionale città comunale. Ma il vecchio centro ha ancora la massima concentrazione di offerta culturale. La doppia ermeneutica deriva da una caratteristica specifica di quella che Giddens chiama «modernità radicale» e che definisce come «Ordinamento e riordinamento riflessivo dei rapporti sociali. Nessuna epoca, dice Giddens, ha mai avuto i mezzi e l’inclinazione diffusa per ragionare su se stessa come la nostra. Tuttavia diversamente dalla posizione positivistica, Savoir, pour prevoir, pour pouvoir, che ha retto l’impostazione universale sulla plasmabiltà della società da Comte al Gosplan e oltre, oggi sappiamo che la sequenza è erronea, perché la conoscenza opera un continuo «spiralling in and out» dalla realtà sociale provocando una doppia interazione (la doppia ermeneutica). Un caso ben noto sono i sondaggi, che sono in grado il più delle volte di misurare con molta precisione lo stato dell’opinione al momento Tx , ma che spesso mancano il «prevoir» perché nel momento stesso in cui i risultati vengono conosciuti, gli attori interagiscono con la realtà: il sapere entra ed esce dalla realtà mutandola. Ma ovviamente il fenomeno è molto più vasto del sondaggio e spiega la crescente smisurata importanza assunta dai mass media. In conclusione, lo spazio non è stato ucciso, ma si sono aggiunti altri spazi la cui esplorazione è appena cominciata con la diffusa inquietudine di chi si avventura in un territorio ignoto. Carlos Garaicoa Gusci per rifugiarsi dal mondo di Peter Sloterdijk esidero richiamarmi al concetto di emergency design1. Non potendo essere altrimenti, vorrei adottare un tono prevalentemente filosofico, esulando però dalla metodologia della mia disciplina e parlando, con il metodo dell’interpretazione di immagini, di oggetti visuali – rilevanti tanto dal punto di vista artistico che filosofico – che mi appresto a presentarvi. La differenza fondamentale rispetto alla storia dell’arte vera e propria consisterà, come scoprirete rapidamente, nel fatto che mi riferirò soltanto a singole immagini, mentre uno storico dell’arte notoriamente viene al dunque solo nel momento in cui vede due immagini che può confrontare fra loro. L’opera dell’artista giapponese Tatsumi Orimoto, dal titolo In the Box (vedi immagine), del 2001 lascia trapelare una evidente tendenza heideggeriana. Prima di occuparmi più approfonditamente di questa suggestiva immagine, desidero spendere alcune parole sull’imperativo sistemico: «Opera una differenziazione» – draw a distinction. Senza dubbio questa esortazione è indice di una forma mentis molto interessante, se con il suo apporto riusciamo a risolvere, attraverso la trasposizione in un’altra prospettiva, la questione dell’inizio, sulla quale tanto inchiostro è stato versato nella filosofia tradizionale. Assumiamo quindi come punto di partenza non più un primo concetto, ma una prima differenziazione – in altri termini, sostituiamo la ricerca dell’origine e della sostanza di ogni cosa con l’interesse per le classificazioni attraverso cui suddividere la molteplicità delle cose in insiemi diversi. Operare una prima differenziazione tuttavia non sempre ci è facile, poiché solitamente non siamo preparati ad attenerci a priori a un imperativo di questo tipo. La mia prima reazione a una tale proposta sarebbe probabilmente quella di aggrapparmi all’appiglio D fornitomi dall’imperativo in quanto tale: la mia prima differenziazione sarebbe quindi, quasi di riflesso, quella fra persone che sfortunatamente devono compiere una classificazione del genere e persone che sono nella favorevole condizione di non farlo. Un passo oltre e approdiamo alla differenziazione fra chi suddivide tutto in due classi e chi invece se ne astiene. Partendo da tali basi è piuttosto facile arrivare a parlare dell’immagine raffigurata. Poiché infatti a questo proposito non dobbiamo che eliminare l’opzione relativa alle persone che non suddividono tutto in due classi, i «non-classificatori» non ci occorrono più. Di conseguenza restano solamente quanti differenziano tutto nel modo indicato. La massa dei «classificatori» andrebbe poi ulteriormente suddivisa, ed è con la differenziazione che arriviamo direttamente all’immagine in questione. Suddividiamo, dunque, fra individui adeguati al proprio mondo e individui per i quali le cose stanno altrimenti. A mio parere con questa differenziazione abbiamo in mano una chiave che ci svela in modo diretto la sostanza del lavoro di Orimoto. Poiché, checché si voglia dire della scena in questione, essa rappresenta comunque in modo manifesto una persona intenta a riflettere sulla propria adeguatezza rispetto all’ambiente circostante attuale. Fonti biografiche ci informano tra l’altro che Orimoto in questa scena si trova fra le proprie mura domestiche – tuttavia questa sede non può soddisfare l’artista nel suo anelito verso una localizzazione convincente. Essere nel proprio appartamento non gli è sufficiente, egli vuole «localizzarsi» in un modo più radicale. A questo scopo opera una distinzione fra quanti sono «a casa», là dove sono a casa, e quanti anche a casa propria non sono «a casa». Si potrebbe anche dire che lavora con la differenza fra adeguati e inadeguati, fra adattati e disadattati, fit e misfit. L’artista annovera manifestamente se stesso nella seconda categoria, perché chi si impacchetta in un cartone all’interno della propria abitazione fa un chiaro outing di disadattamento. All’interno dei misfit opererei poi un’ulteriore diversificazione, ovvero quella fra gli individui che nella vita possono comunque riuscire a cavarsela e quelli per i quali non c’è niente da fare. L’artista del quale ci stiamo occupando sceglie, mi sembra, la prima categoria, crede di poter ancora riuscire in qualcosa nella vita, almeno fintantoché non gli vengono meno le forze e i mezzi per venire a capo del proprio status di disadattato. In una certa misura Orimoto crea con il suo scatolone un emblema del disagio esistenziale dell’artista e dell’intellettuale, laddove queste categorie di persone di regola altro non sono che dei disadattati che in un modo o nell’altro sono riusciti ad avere la meglio sulla propria inadeguatezza a tutto il mondo circostante. Per descrivere l’attività dell’artista all’interno della scena in questione propongo l’espressione di «Selbstaufräumung» («ri-collocarsi»). L’immagine esprime inequivocabilmente il tentativo di un uomo di collocarsi in modo più adeguato – come se la sua posizione nello spazio delle proprie quattro mura fosse ancora troppo indefinita. In qualità di disadattato a casa propria, egli intraprende uno sforzo per ri-collocarsi se stesso e adat- Chi è Peter Sloterdijk eter Sloterdijk, professore di estetica e filosofia all’Università di Karlsruhe, è autore di testi originali come Critica della ragion cinica (1983) e la trilogia Sfere, parzialmente tradotta in italiano (L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, 2005). Tra i suoi libri pubblicati in Italia ci sono: Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (Bompiani, 2004), Il mondo dentro il capitale (Meltemi, 2006). L’ultimo libro uscito in Germania è Zorn und Zeit (Suhrkamp Verlag, 2005). P Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 33 Carlos Garaicoa In una certa misura Orimoto crea con il suo scatolone un emblema del disagio esistenziale dell’artista. L’immagine esprime il tentativo di un uomo di collocarsi in modo più adeguato: in qualità di disadattato a casa propria, egli intraprende uno sforzo per ri-collocare se stesso e adattarsi a uno spazio più preciso tarsi a uno spazio più preciso – nello specifico, uno spazio più ristretto. In generale si può forse dire che i misfit in grado di ottenere qualcosa nella vita riscoprono ex novo l’ambiente che li circonda, sostituendo un ambiente inadeguato con uno adeguato. Per quanto concerne Orimoto, egli intraprende un bizzarro esperimento di autoimballaggio. Rimpicciolisce lo spazio che gli spetta, quasi a voler dire «Io non ho pretese di spazio così grandi come quelle solitamente accampate dalle “persone adeguate”. La mia stessa casa per me è troppo grande, e più che mai il mondo è sovradimensionato rispetto ai miei bisogni». Di conseguenza l’artista risolve il proprio disagio nel mondo trovando un espediente per ridurre la superficie d’attrito con il tutto. Egli sceglie la de-escalation spaziale: dal mondo alla casa, dalla casa alla scatola. Un ordine riuscito Desidero sottoporvi una seconda immagine: La giapponese addormentata (vedi immagine), che a un primo sguardo sembra molto lontana dal sarcasmo di Orimoto. Nondimeno mostra una persona che, come illustrerò, ha un problema analogo – quello della propria collocazione – da risolvere, sebbene con mezzi di gran lunga più armonici. Tra l’altro, potrebbe trattarsi in questo caso di una delle più antiche fotografie scattate sul territorio giapponese. Fa parte di una serie di matrici rese accessibili di recente in un bel volume 34 illustrato con vedute del Giappone degli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo2. È ritratta una persona in apparenza decisamente in grado di venire a capo della propria vita. Questa giapponese addormentata potrebbe essere stata una delle prime modelle giapponesi – ovviamente non dobbiamo partire dal presupposto che si tratti di una spontanea scena casalinga; c’è invece un allestimento che obbedisce a un programma ideologico messo in scena in maniera meticolosa. Questa giovane rappresenta manifestamente la prova della tesi per cui fra uomo e mondo può sussistere un adattamento armonico, se l’uomo si muove all’interno dei confini della vita casalinga tradizionalmente tramandata. L’immagine parla all’osservatore con un tono affermativo che esprime al contempo un atteggiamento nostalgico: colui il quale, al suo posto nel mondo, riesce a sentirsi inserito in modo così naturale come la giovane nella sua camera da letto è senza dubbio una creatura felice. Non mancano gli attributi della metodica vita domestica. La bella addormentata giace sul classico poggiatesta, tipico accessorio da notte giapponese. Al suo fianco c’è anche un hibachi, una piccola stufa portatile, un elemento indispensabile della cultura abitativa orientale. Indossa un kimono da notte, un seno è scoperto – un segno di disinvoltura notturna. Questa addormentata è chiaramente un’ambasciatrice: il suo compito è quello di mostrare che l’umano esserenel-mondo di stile giapponese racchiude Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 l’intensità della partecipazione a un ordine riuscito, ammesso che esso sia in grado di trarre profitto dalla immemorabile integrità delle notti paesane o cittadine. L’individuo, al sicuro all’interno dei propri spazi, qui non ha problemi con la sua formattazione. Al contrario, la propria collocazione viene presentata come un adempimento culturale naturale. Essa torna utile agli individui nella misura in cui questi possiedono la consapevolezza che le loro notti restano raffinate e sicure come ai bei vecchi tempi. La rimozione del mondo Desidero dimostrare nel prosieguo che l’integrità notturna non è affatto una questione sempre così semplice. Nell’immagine a pagina 35 viene presentato effettivamente un caso critico dell’umana ricerca dell’integrità notturna. La scena è inequivocabile: in essa incontriamo il fenomeno del misfit, del disadattato, nella sua forma più radicale, poiché viene mostrato un senzatetto che in pieno giorno, in strada, nel bel mezzo di un’isola spartitraffico si ritira nella clausura del sonno sotto uno scatolone. Non è facile dire in che paese si svolga la scena, potrebbe trattarsi del Pakistan come dell’India del Nord – andrebbe forse chiarito da filologi in grado di decifrare le scritte sui camion visibili sullo sfondo. L’uomo rappresentato in primo piano, mentre dorme sotto il suo scatolone è qualcuno che ha risolto con metodi minimalisti il problema della propria collocazione. Dormire significa in generale obbedire all’imperativo organico di una provvisoria ritirata dal mondo. Nella scena data ciò non può accadere come nell’immagine precedente, che inseriva il sonno in un contesto armonico. L’addormentato in questione ricorre qui a una tecnica di isolamento primitiva, coprendo con il cartone i sistemi nervosi più esposti, gli organi nell’area del capo, mentre è costretto a lasciare il resto del corpo alla luce e al frastuono del mondo esteriore. Il cartone è qui un’allusione a un’area protetta minima in cui il dormiente, con maggiore o minore successo, si ritira. Egli utilizza lo scatolone come un elmo cartonato che abbozza una specie di protezione uditiva. Ovviamente non è vero l’adagio tanto spesso ripetuto secondo cui l’orecchio sarebbe un organo che non si può «spegnere» a propria discrezione. Al contrario, il sonno, qui come altrove, è la dimostrazione quotidiana del fatto che gli individui sono in grado di non sentire intenzionalmente, in modo mirato. Fintanto che godono del privilegio di esser deboli d’udito, i dormienti tutelano la propria occasione di creare, anche nel bel mezzo di un baccano infernale, nel centro di una metropoli asiatica, una sorta di camera del silenzio. Quest’immagine è interessante soprattutto perché mette in Carlos Garaicoa Il modus vivendi dell’era moderna permette alla maggioranza di adempiere con successo alla propria collocazione. Quella moderna è un’era degli idilli, che tuttavia si urtano talvolta in modo così violento che, per evitare la guerra, si è costretti a inserirli in tentativi di ri-collocazione di un livello superiore evidenza la quantità minima di spazio necessaria al disadattato per la sua ritirata dall’ambiente inadeguato. Qui comprendiamo che lo spazio esistenziale in una certa misura ha sempre la qualità di uno spazio di immunità – se per immunità intendiamo la somma degli adempimenti individuali di un sistema biologico attraverso la cui produzione esso soddisfa le condizioni per la propria integrità. Di tali condizioni di integrità fa parte chiaramente una buona dose di capacità di ignorare il mondo circostante. Il dormiente compie qui evidentemente una prestazione record in termini di emergency design. Egli rimuove il mondo, facendo uso di tecniche di disconoscimento attivo. In questa maniera egli scioglie l’enigma della natura umana in condizioni di stress: essere proprio nel mezzo e, al contempo, altrove. Quest’immagine è antropologicamente informativa perché in essa si può leggere di come gli individui affrontino il pericolo del degradamento dovuto all’oppressione costante dell’essere-nel-mondo in condizioni estreme. Un nomadismo urbano Ho selezionato un’altra immagine che dovrebbe fornire un esempio di come nel mondo asiatico si rifletta anche in forme tecniche e pragmatiche sulla questione della «precarietà abitativa». In questo caso illustro un’abitazione concepita da architetti giapponesi per donne non residenti a Tokyo, un progetto del 1989 (vedi immagine a pagina 36). Tale proposta interpreta le esigenze di spazio di persone che falliscono in maniera cronica nella consueta localizzazione di sé nel contesto borghese. Si tratta, nel lavoro in questione, di un eloquente intervento architettonico in cui la difficoltà di trovare una casa viene riconosciuta come una situazione umana fondante. In esso si aspira a un compromesso fra lo stile di vita nomade e quello urbano, come se la tenda e la casa dovessero accordarsi su una soluzione intermedia. A questo proposito mi concedo di fare un rimando: nella filosofia del XX secolo il fenomeno della precarietà abitativa («Unbehaust») è stato innalzato a segno distintivo della conditio humana – e gli equivalenti architettonici di questo concetto, naturalmente, non si fanno attendere. L’immagine L’uomo nello scatolone tratta questo nesso in modo esplicito. Dagli anni Venti Buckminster Fuller, uno dei grandi fra i pionieri della nuova architettura, lavorava a una serie di innovativi modelli abitativi che riunì sotto il nome di «Dymaxion». Nelle macchine abitative di Fuller viene ricalcolato il fabbisogno di spazio delle persone mobilitate. In questo contesto, mobilitazione significa partecipazione al trend della decontestualizzazione del vincolo sociale – applicato alla situazione americana, significa dissolvimento della città a favore di agglomerati suburbani. Di conseguenza gli individui vengono inseriti in moduli abitativi prefabbricati calcolati secondo criteri di efficienza ed ergonomia. Qualunque gesto tipico, qualunque possibile passo dell’inquilino viene, in questo genere di unità abitativa, perfettamente previsto e supportato dall’allestimento interno. L’appartamento mobile diviene così una monade architettonica, in cui tutte le funzioni essenziali si svolgono all’interno, mentre il vincolo della macchina abitativa e quello dei suoi abitanti con l’esterno rimangono più o meno facoltativi. Con l’unità abitativa Dymaxion viene fatta una proposta a quelle persone disposte a rinunciare a un proprio ancoraggio all’interno di contesti urbani. Buckminster Fuller esplorava già allora l’intuizione secondo cui abitazioni e mezzi di trasporto dovessero in sostanza essere la stessa cosa. Proprio come alle automobili era stato promesso un futuro grandioso, così egli contava di poter inondare il mondo di container abitabili – deve aver momentaneamente pensato che si potesse sfruttare per il suo modello Dymaxion un mercato di oltre 100 milioni di esemplari. De facto Buckminster Fuller è riuscito a trasporre il paradigma del veicolo nell’unità abitativa – beninteso che si tratti di un veicolo che deve essere fissato in specifici, appositi parcheggi. Le abitazioni Dymaxion dovrebbero essere sostenute da piloni – il loro vincolo col suolo così si scioglierebbe in Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 modo progressivo e soltanto attraverso gli allacci infrastrutturali si manterrebbe un residuale riferimento ambientale. Lusso e cinismo Desidero infine esporre un grado superiore di evoluzione del problema della collocazione del disadattato: è un modello presentato nel 1981 dal team di architetti SITE (Alison Sky, Michelle Stona, Joshua Weinstein, James Wines) col nome di High-Rise of Homes. Si tratta naturalmente di una costruzione altamente ironica e già il solo utilizzo dell’espressione home, nel contesto dato, non lascia presagire niente di buono. Questo lavoro si può definire al meglio come un metaidillio. L’ipotesi di lavoro del disegno consiste nella prospettiva secondo cui il modus vivendi dell’era moderna permette a una maggioranza di individui di adempiere con successo alla propria localizzazione. Contrariamente ai correnti cliché di stampo cultural-critico, quella moderna è un’era degli idilli – il che significa anche, però, che in essa la produzione di idilli attraversa una fase critica. I singoli idilli si urtano talvolta reciprocamente in modo così violento che, per evitare la guerra degli idilli, si è costretti a inserirli in tentativi di localizzazione di un livello superiore. È proprio questo ciò che viene presentato in modo davvero esemplare dal team SITE. Qui si assiste a numerosi, isolati tentativi di auto-localizzazione, grazie ai quali un gran numero di disadatta- 35 Carlos Garaicoa L’emergency design parte dal presupposto che il mondo, pensato come campo di eventi, rappresenta sempre uno spazio di disturbo e di offesa. Stanti così le cose, sono necessarie architetture spontanee che ricreino l’adeguatezza perduta. L’emergency design è la realizzazione concettuale di questo stato di fatto ti si crea uno spazio più adeguato nel mondo. Così, inevitabilmente, ne deriva che lo spazio per gli idilli diventa piuttosto esiguo. Per smorzare la concorrenza fra gli idilli viene inventato un nuovo tipo di torre, che non ha altra ragion d’essere se non quella di tentativo di collocazione di secondo livello. Prima i disadattati si assestano e tentano di passare al settore dei non-disadattati (il che si direbbe, in linguaggio comune, la ricerca di relazioni sociali); poi i loro tentativi di collocazione vengono a loro volta collocati e introdotti nella torre degli idilli. Mi sembra che ci troviamo in questo caso di fronte a un commento estremamente intelligente sulla situazione abitativa all’interno dei paesi ricchi. Il metaidillio chiarisce che le numerose homes si scherniscono a vicenda. Esse costituiscono un fitto conglomerato le cui cellule consistono di costrutti individuali di felicità. La loro sommatoria costituisce una tragica vacuità – il perfetto simbolo della conditio humana nell’epoca del lusso. In questo modello si può anche rilevare, per inciso, che soltanto dei perfetti cinici possono essere dei buoni architetti. Cosa si può imparare dalla serie di riflessioni sul comportamento spaziale dell’uomo 36 moderno suscitata dalle immagini selezionate? Mi sembra che la conseguenza più importante dell’osservazione di tali immagini riguardi la definizione del concetto contemporaneo di mondo. Com’è noto, la filosofia classica ha interpretato il mondo come quintessenza della sostanza – l’espressione «mondo» significava tradizionalmente il cosmo delle essenze gerarchicamente ordinato in cui tutto si trova, o dovrebbe trovarsi, al proprio posto. La filosofia moderna, al contrario, (nella sua variante wittgensteiniana) ha sviluppato la dottrina per cui il mondo sarebbe «tutto ciò che accade» – col che si intende un mosaico livellato di fattispecie più o meno di pari grado. D’altro canto Heidegger ha suggerito un concetto di mondo che in questo vede lo sfondo degli umani progetti di senso. Mi sembra che dal concetto di mondo di Heidegger all’emergency design il passo sia breve. Il progettista di emergency design parte dal presupposto che il mondo costituisca di per sé un campo di collisioni. Le collisioni sono sorprese che, secondo la natura delle cose, non risultano sorprendenti. Una collisione è un punto d’intersezione tra serie che evolvono prima separatamente per poi generare, in determinati punti di intersezione, delle catastrofi. Laddove le serie di avvenimenti si intersecano, si verificano prevedibilmente effetti imprevedibili. L’emergency design è un concetto con il quale la teoria dei sistemi immunitari generali compie un passo in avanti. Con esso viene elaborata una cornice in cui sistemi biologici, sistemi giuridici, sistemi assicurativi e artistici possono essere descritti attraverso espressioni affini. Questo design parte dal presupposto che il mondo, pensato come campo di eventi, rappresenta sempre inevitabilmente anche uno spazio di disturbo e di offesa. Il mondo è il luogo in cui gli individui fanno esperienza del proprio soccombere alla disintegrazione, al proprio degrado, allo smarrimento. Stanti così le cose, sono necessarie architetture spontanee il cui senso integrale consista nel ricreare l’adeguatezza perduta. L’emergency design è la realizzazione concettuale di que- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 sto stato di fatto. Ciò che chiamiamo cultura è inseparabile dalla produzione di un sistema di regole relative a pratiche rigenerative. Queste nascono in risposta all’esperienza secondo cui l’idillio non ha mai l’ultima parola. La salute è una buona cosa, ma la cura è migliore. L’intelligenza del sistema immunitario si esprime in aspettative di lesioni incarnate o istituzionalizzate, in aspettative di disintegrazione, di collisione – parlando più in generale, in aspettative di sorpresa. Questa intelligenza tende a una sorta di Metafitness – concetto con cui si intende l’adattamento attraverso cui ci adeguiamo a situazioni per le quali non possiamo essere adeguati. L’uomo dell’emergency design è il misfit che tenta di preparasi a ciò per cui non esiste preparazione alcuna. Detto esplicitamente: mi batto affinché un concetto apparentemente già ben introdotto quale quello di immunità venga nuovamente, radicalmente problematizzato. Da questa arringa deve emergere in modo chiaro che entrambi i concetti correntemente noti di immunità, quello giuridico e quello medico, sono insufficienti nel momento in cui si va a esaminare le questioni qui affrontate relative ad adattamento e disadattamento. Si profila all’orizzonte un concetto di immunità che presenta una relazione fino a ora poco sviscerata con il concetto di cultura. In futuro daremo seguito alla supposizione che la «cultura» nella sensibilità corrente non abbia rappresentato altro che un semplicistico accenno alle strategie di immunità di un gruppo di sopravvissuti. Questa concezione naïf del temine «cultura» dovrebbe essere tradotta in futuro in modelli elaborati di una immunologia generale. Giunta a questo punto, la filosofia contemporanea ha fatto la sua parte, ora si può lasciare il campo alle altre discipline. (Traduzione di Sabra Befani) Note: 1 L’Institut für Designforschung della Hochschule für Gestaltung und Kunst di Zurigo ha curato nel 2006 il primo Simposio internazionale di Emergency Design (espressione coniata da Yana Milev, curatrice dell’evento), cui hanno preso parte esponenti di tutte le discipline attinenti, dalla filosofia alla scienza, dall’arte all’urbanistica, dal design alla politica e all’economia: «L’Emergency Design, che cambia il nostro modo di guardare ai sistemi e alle strutture sociali, è un metodo di produzione spaziale e culturale basata sul modello della crisi. Nella tesi dell’Emergency Design si definisce “crisi” l’andamento ciclico-dinamico di situazioni, ordini e spazi. [...] L’Emergency Design è la creazione di scenari basati sulla crisi, la creazione di laboratori di nuovo ordinamento urbano e di deculturizzazione» [ndt]. Cfr: http://www.hgkz.ch/pages/de/verwaltung/Mediendienst/EmergencyDesignSymposium.php 2 Giappone. I barbari svelarono la terra del Sol Levante. Fotografie e ricordi dell’età aurea della semplicità e dell’onestà, a cura di Klaus Eisele, Bonte’sche Bibliothek für Kunst- und Kulturgeschichte, vol. 2, Stuttgart, 2003. Santiago Sierra Il colore dei corpi Multiculturalismo? L’arte misura le differenze tra gli uomini Studio economico della pelle degli abitanti di Caracas di Santiago Sierra L’uomo trattato come carne di Bartolomeo Pietromarchi Saggio sull’identità di Francis Fukuyama Se è l’agenda a dettare il Tempo di Paolo Jedlowski Arte al limite e diritti della creatività di Sebastiano Maffettone Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 37 Santiago Sierra Studio economico della pelle degli abitanti di Caracas di Santiago Sierra L’artista, l’opera ato a Madrid (1961) ma da anni residente a Città del Messico, Santiago Sierra si è progressivamente distinto negli ultimi anni grazie ad un lavoro politico e sociale che riflette su temi legati ai diritti e allo sfruttamento degli emarginati, realizzando performance, installazioni e video dal forte coinvolgimento emotivo. Realizzate il più delle volte mettendo in moto le dinamiche del salario, le sue performance si risolvono spesso in un atto clandestino o vandalico rappresentato sotto gli occhi di tutti come un evento. In Linea di 250 cm tatuata su 6 persone remunerate (1999), Sierra recluta sei giovani disoccupati cubani per far loro tatuare in modo permanente una linea sulla schiena; durante la Biennale di Venezia del 2001, 133 ambulanti abusivi sono stati pagati centoventi mila lire ciascuno per farsi tingere i capelli di biondo. In 68 persone pagate per bloccare un ingresso al museo (2000), in occasione dell’inaugurazione del festival internazionale dell’arte presso il Museum of Contemporary Art di Pusan in Korea, 68 disoccupati sono stati pagati per fare un sit-in di 3 ore davanti all’ingresso del museo, riportando cartelli che annunciavano la paga ricevuta per l’azione. Nello stesso anno, in un lavoro presso P.S.1. di New York, una persona è stata pagata per rimanere due settimane di seguito reclusa dietro un muro di mattoni, con un unico spiraglio da cui riceveva cibo, mentre il resto del museo rimaneva vuoto. Tra le ultime prove dell’artista ricordiamo il Padiglione Spagnolo alla 50a Biennale di Venezia (2003), a cui si poteva accedere solo se in possesso di un passaporto iberico; 300 tonnellate alla Kunsthaus di Bregenz (2004), una possente installazione in cemento del peso di trecento tonnellate che ha portato agli estremi le capacità strutturali del mu- N 38 seo, al punto che potevano entrare solo quaranta visitatori alla volta. Invitato ancora una volta alla 51a Biennale di Venezia (2005), Sierra ha concepito un’installazione in cui una voce scandisce i nomi dei paesi che non hanno partecipato alle varie edizioni ed elenca dettagli tecnici e finanziari del «sistema Biennale»: ne emerge una lettura critica, in cui l’istituzione è vista esclusivamente sotto un profilo politico-economico. Nel progetto realizzato a Caracas, Sierra ha elaborato una fotometria della pelle della schiena di diverse persone, dividendoli in tre gruppi sociali (poveri, classe media, ricchi) a seconda del reddito dichiarato (zero, mille, un milione di dollari). Elaborando il valore economico medio del tono di grigio per ogni gruppo ne ha dedotto alla fine il valore economico del colore bianco assoluto e del colore nero assoluto. L’opera di Sierra percorre i confini e gli incerti limiti tra il valore etico e la sua formalizzazione estetica ponendo lo spettatore di fronte al dilemma dell’artisticità dell’opera e della moralità dei suoi contenuti. La spersonalizzazione dell’essere umano e la sua sublimazione estetica sono ricondotti violentemente al loro valore economico e di merce, riflettendo sulle conseguenze dei flussi finanziari, del lavoro umano privato della sua dignità, e sui meccanismi e le deviazioni che regolano l’economia contemporanea, compresa quella dell’arte. A pagina 37, Gli Anarchici/The Anarchists, 2006. Volume!, Roma - foto B/N su forex 126X186,5 cm. Courtesy prometeogallery di Ida Pisani Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 GRUPO POBRES (0 USD) GRUPO MEDIA (1,000 USD) GRUPO RICOS (1 000,000 USD) ¨ stata fotografata la pelle delle schiene di 10 persone che hanno dichiarato di avere zero dollari, ottenendo il ton di grigio per questo valore. In seguito Ł stata fotografata la pelle di schiena di 10 perosne che hanno dichiarato di avere mille dollari ottenendo ferente. Alla fine Ł stata fotografata la pelle delle schiene di 10 persone che hanno dichiarato di avere un milione di dollari medio differente di quelli precedenti.›› Santiago Sierra L’uomo trattato come carne di Bartolomeo Pietromarchi Il fatto da cui deve partire ogni discorso sull’etica è che l’uomo non ha né ha da essere o da realizzare alcuna essenza, alcuna vocazione storica o spirituale, alcun destino biologico. Solo per questo qualcosa come un’etica può esistere: poiché è chiaro che se l’uomo fosse o avesse da essere quella o questa sostanza, questo o quel destino, non vi sarebbe alcuna esperienza etica possibile – vi sarebbero solo compiti da realizzare. Giorgio Agamben, La comunità che viene, Einaudi, Torino 2001, p. 39. loro sguardo. In Los Castiogados (2006) la fotografia documenta un’azione: l’artista ha chiesto a diciotto cittadini tedeschi nati prima del 1939 di stare seduti in un posto per quattro ore al giorno e di girarsi viso al muro per mezz’ora. Noia, frustrazione, disagio. L’inversione dello specchio, attraverso il quale Sierra esercita il genere del ritratto, ribalta la posizione dello spettatore che richiederebbe che una testa vista di spalle dichiari la propria identità, mentre ciò che resta è solo il desiderio inappagato di chi osserva, singolo nella violenza del suo bisogno, ri-preso a sua volta nell’atto linguistico che recide il dialogo io/tu, rivelandone la forzatura epistemologica. Questi esercizi di Santiago Sierra mettono in scena un’inazione, come «violenza etica» – se consideriamo l’etica come filosofia dell’azione in senso arendtiano – che deriva da un discorso sul volto e la negazione dell’identità dell’atro, che viene ridotto a pura presenza. I lavori di Santiago Sierra non intendono il realismo in un senso politico, ma piuttosto forzano i limiti della possibilità politica. I suoi progetti si riferiscono spesso al corpo umano (alle sue proporzioni, alla sua energia simbolizzata nel lavoro fine a se stesso), in una tensione tra l’universale e l’assoluto che tende a eliminare ogni carattere contestuale, in lavori che pure sono sempre site specific. Progetti come 465 personas remuneradas (Museo Rufino Tamayo, Città del Messico 1999) o Personas remuneradas con 30 soles (Galería Pancho Fierro, Lima 2001) in cui un determinato numero di persone viene pagato semplicemente per stare in uno spazio espositivo, rappresentano ciò che resta dell’uomo, arrischiando il significato della parola «uomo» nel senso contemporaneo. Ciò che viene dichiarato con ostentazione è solo il fatto che l’uomo sia trattato come corpo produttivo, un corpo pensato come merce, simile a quello della prostituta, la cui carne non ha più a che fare con il piacere e il desiderio, ma è solo fattore di scambio. Questo divenire merce dei corpi realizza l’egemonia economica dello scambio, in cui la prooduttività ha perso ogni suo fine. un assunto del pensiero moderno che il riconoscimento del sé avvenga attraverso la possibilità che gli altri hanno di «rispecchiare» la nostra condizione. Appurare che l’altro è simile a me è un tacito ricorso alla funzione dello specchio, ma, come nota Judith Butler, spesso funziona piuttosto come una finestra (J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 59-63). Questa visione sfuggente che si apre verso uno spazio esterno, altrove, mette in scena un riconoscimento che si evince piuttosto come desiderio di riconoscimento: la domanda «chi sei?» non trova una risposta definitiva che possa soddisfare l’altro, ma rimane in bilico, in attesa di essere soddisfatta. Ciò che resta è il desiderio di conoscere il soggetto dietro la maschera. Coprirsi il volto è un gesto di vergogna, ma può essere anche un sintomo del rifiuto di un’identità imposta o negata. Nelle azioni di Santiago Sierra i corpi delle persone pagate per (farsi) compiere un’azione sono girati spesso di spalle. Questo atto di violenza, rispetto alla comunicazione dei volti, rispetto al loro essere sorgente del linguaggio, rivela un esercizio di violenza etica, perché comporta che l’altro si disponga a cercare dietro la maschera, a voltare il volto dell’altro, esperire ancora una volta la violenza della comunicazione, nella forzatura di richiedere che l’altro «dia conto di sé» e si assuma le sue responsabilità. Ma quali responsabilità hanno le nuche dei ritratti collettivi di Santiago Sierra? Le recenti serie fotografiche 114 Ciudadanos de Stommeln (2006) e 89 Huichols (2006) sono dei ritratti collettivi di due comunità diverse, fotografate attraverso la catalogazione delle teste dei soggetti visti di spalle. I volti non solo sono obliterati, ma guardano Santiago Sierra, Una persona, 2005. Galleria Civica di Trento, Trento, Italia - Foto a loro volta un muro che limita il b/n 180x120 cm. Courtesy prometeogallery di Ida Pisani. È Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Il silenzio osceno Il corpo, come struttura comunicativa, sembra essere diventato il campo in cui ha luogo quel lavoro senza fine che è il linguaggio stesso. Nell’economia postindustriale il lavoro viene assimilato, da un punto di vista psicologico e sociologico, alla produzione linguistica. Secondo Paolo Virno il lavoro del linguaggio non dà luogo a un oggetto estrinseco e duraturo (il prodotto), ma si tratta di un’attività senza opera (Paolo Virno, «Lavoro e linguaggio», in Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, a cura di U. Fadini e A. Zanini, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 182 sgg.). Il superamento della dimensione classica del totalitarismo, e l’integrazione del linguaggio direttamente nell’economia delle dinamiche produttive, hanno portato a delle letture del corpo come struttura soprattutto linguistica, flusso di dati e informazioni, segni e sintomi, operando uno slittamento continuo dei confini dalle dimensioni estreme, mediatizzate e anestetizzate nel caso del corpo osceno, reso spettacolo. Rimuovere la relazione tra corpo e lavoro, ovvero tra linguaggio e azione, vuol 43 Santiago Sierra Di fronte all’impossibilità dell’arte di cambiare i disequilibri del mondo globalizzato, Santiago Sierra mette in scena la politica nel suo funzionamento reale, così come i corpi in silenzio di tutte le persone che prendono parte alle sue azioni funzionano solo come corpi per il lavoro senza finalità dire rendere il corpo osceno, laddove per osceno si intende tutto ciò che è fuori dalla scena. Nel progetto compiuto a Caracas lo scorso anno Estudio economico de la piel de los Caraqueaceos, Sierra ha elaborato una fotometria della pelle della schiena di diverse persone, dividendoli in tre gruppi sociali (poveri, classe media, ricchi). Stabilendo un valore economico di riferimento per la tonalità del grigio, l’artista ha potuto così dedurre il valore economico corrispettivo del bianco assoluto e del nero assoluto, traducendo un dato biologico in un fattore estetico, ma anche economico. La visione ravvicinata del colore della pelle denuncia un’appartenenza culturale, che diventa base della costituzione della classe sociale, ma anche fonte di un ordine simbolico che rappresenta la negritudine come colorata, mentre il bianco dell’uomo occidentale non è considerato ancora un colore. Ancora, accanto al rapporto tra dato biologico e fattore economico, si inscrive anche la presenza dell’elemento estetico, relativo alla percezione dei colori, spesso presente in maniera esplicita nel lavoro di Sierra, sia con riferimenti diretti o indiretti alla storia dell’arte nel suo percorso concettuale e minimal, sia come costruzione formale dell’opera in sé. Il rigore formale diventa, quindi, un elemento che tiene in bilico il versante etico/morale accanto quello puramente e semplicemente estetico, producendo lo spaesamento dello spettatore di fronte alla «estetizzazione del gesto violento» e costringendolo al giudizio etico. Di fronte all’impossibilità dell’arte di cam- biare i disequilibri del mondo globalizzato e non accettando l’ipocrisia dell’artista che denuncia le condizioni dei subalterni, Santiago Sierra mette in scena la politica nel suo funzionamento reale, così come i corpi in silenzio di tutte le persone che prendono parte alle sue azioni funzionano solo come corpi per il lavoro senza finalità. Lo spettatore si trova in questo senso di fronte a uno spettacolo pornografico: spettacolo perché la costruzione della scena e la presenza dei corpi obbligano alla visione, pornografico perché il modo in cui questa visone ha luogo ha a che fare con un corpo pagato per essere consumato. I corpi al lavoro nelle azioni di Sierra vengono messi in condizione di non poter usufruire dei mezzi di produzione del linguaggio (il loro stesso corpo) e, come un attore porno, vivono un’illusione di libertà, di autonomia. L’attore porno, come la persona pagata per un progetto di Sierra, rifugge da una prospettiva di vita fondata sul lavoro «operaio» tradizionale: il primo subisce la fantasmagoria del cinema, il secondo l’euforia di essere pagato per aver fatto un lavoro inutile o semplicemente essere «stato» di fronte a un pubblico, in uno spazio che non è un luogo (di lavoro) vero e proprio, ma un museo o una galleria. Questi corpi sono rimasti (vuoti) «a perdere» rispetto alla fine del lavoro tradizionale. «Se le “grafie del porno” contaminano le altre forme di comunicazione sociale – dalla pubblicità all’informazione – grazie alla loro potenza immaginifica capace di far leva sulle strutture profonde del desiderio degli individui, la messa Santiago Sierra, L’acquisto di un premio, 2007. Prometeogallery di Ida Pisani, Milano - Leone d’oro vinto da Regina José Galindo come miglior artista under 35 alla 51a biennale di Venezia. Courtesy prometeogallery di Ida Pisani. 44 Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 in scena della pornografia – una volta tipica produzione autoreferenziale “fordista”, del bordello – si fa stereotipo della diffusione generalizzata del bordello come schema postfordista dei rapporti di lavoro». Roberto Callegari, Il mestiere di godere, in «Millepiani», n. 29, giugno 2005. Il volto traduce la questione dell’inazione di un corpo che risulta interamente ammutolito. Ma il corpo, nel caso di Sierra, corrisponde a delle persone che appartengono principalmente a delle classi subalterne. Già Gayatri C. Spivak aveva collegato il problema delle classi subalterne a quello del linguaggio (Gayatri C. Spivak, «Can the Subaltern Speak?», in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di C. Nelson e L. Grossberg, University of Illinois Press, Urbana 1988). Come possono parlare i subalterni? Il problema è quello del linguaggio e dell’accento, relativo alla possibilità del colonizzato di scagionarsi dalla lingua del colonizzatore. Allora come l’immagine del corpo viene data attraverso una visone pornografica, così la voce esclusa da questo immaginario si fa sentire solo se diventa oscena. E non è un caso che il «corpo per il lavoro» pagato da Sierra, una volta ridotto a nuda vita, quando scelga di parlare lo faccia attraverso la bestemmia. Santiago Sierra non interviene mai sui modi in cui le persone pagate scelgono di adempiere alle sue richieste: ognuno lo può fare come meglio crede. Nell’azione avvenuta presso la galleria Volume! la notte di Natale del 2006 alcuni anarchici sono stati invitati a sedere nello spazio della galleria con i cappelli dell’inquisizione in testa, spalle al pubblico. Accanto a loro una radio trasmetteva la messa di Natale celebrata dal papa Benedetto XVI in Vaticano. Come argomenterebbe la Spivak, Sierra non vuole parlare per loro, ma nemmeno li mette in condizione di parlare per sé, visto che sono con la faccia al muro. Da questa posizione subordinata rispetto al pubblico che si trova alle loro spalle, la situazione che viene messa in scena è di enorme tensione e capita che qualcuno inizi a bestemmiare contro il papa e la Chiesa, a fumare marijuana e, dunque, a costringere il pubblico che è dietro a subire la condizione di disagio in cui si trovano. La bestemmia diventa allora l’unico linguaggio di libera azione del subalterno, per parlare senza intercessione. La bestemmia entra a far parte del lavoro di Sierra per quella sua connotazione traumatica di reale che comporta, in cui la messa in scena pornografica, quanto l’oscenità del mutismo dei corpi costretti a un lavoro senza finalità (essere pagati per ascoltare una messa) funzionano come un’ostruzione dello spazio condiviso, un’aporia del senso. Santiago Sierra Saggio sull’identità di Francis Fukuyama e moderne politiche identitarie hanno origine da una lacuna nella teoria politica alla base della democrazia liberale. Ovvero, il silenzio del liberalismo quanto alla collocazione e al significato dei gruppi. La linea di pensiero della teoria politica moderna che parte da Machiavelli e, passando per Hobbes, Locke e Rousseau arriva sino ai Padri fondatori Usa, vede la questione della libertà politica come elemento di contrapposizione tra Stato e individui piuttosto che Stato e gruppi. Hobbes e Locke, ad esempio, sostengono che gli esseri umani godono di diritti naturali in quanto individui allo stato naturale. Diritti che possono essere garantiti soltanto a mezzo di un contratto sociale il quale impedisca che la ricerca, da parte del singolo individuo, dell’interesse personale non danneggi il prossimo. Il liberalismo moderno nacque soprattutto come reazione alle guerre di religione che infiammarono l’Europa all’indomani della Riforma. Sanciva il principio della tolleranza religiosa, cioè l’idea che gli obiettivi della religione non possano essere perseguiti all’interno della sfera pubblica secondo meccanismi che limitano la libertà religiosa di altre chiese o sette. (Come vedremo più avanti, in numerose democrazie europee moderne l’effettiva separazione tra Stato e Chiesa non è mai stata raggiunta). Tuttavia, mentre il liberalismo moderno ha fissato in termini chiari il principio secondo cui il potere dello Stato non va utilizzato per imporre credenze religiose sugli individui, non ha chiarito se la libertà individuale possa o meno entrare in conflitto con i diritti della popolazione al fine di affermare una particolare tradizione reli- L giosa. La libertà, intesa non come libertà degli individui ma di gruppi culturali, etnici o religiosi e volta a proteggere la loro identità di gruppo, non fu considerata quale tema centrale dai Padri fondatori, forse perché i neo-coloni erano piuttosto omogenei tra i loro. Scriveva John Jay (nel secondo volume dei Federalist Paper): «[È] un popolo che discende da comuni antenati, che parlavano la stessa lingua, professavano la stessa religione, condividevano gli stessi principi». In Occidente, le politiche identitarie cominciarono a imporsi seriamente dopo la Riforma. Martin Lutero sosteneva che la salvezza poteva essere raggiunta soltanto attraverso uno stato di fede interiore, e stigmatizzava l’importanza accordata dai cattolici alle «opere», ossia il conformismo esteriore rispetto a una serie di norme sociali. La Riforma, quindi, identificava l’autentica religiosità con uno stato soggettivo individuale, dissociando l’identità interiore dalla prassi esteriore. Il filosofo canadese Charles Taylor ha descritto efficacemente il successivo sviluppo storico delle politiche identitarie. Rousseau additava, nel Secondo Discorso e nelle Promenades, l’esistenza di un profondo clivage tra il nostro «io» esteriore, frutto degli usi e delle convenzioni sociali, e la nostra autentica natura interiore. La felicità risiede nella riscoperta dell’autenticità interiore. Tale teoria fu poi ulteriormente sviluppata da Johann Gottfried von Herder, il quale sosteneva che l’autenticità interiore fosse rinvenibile non soltanto nei singoli individui ma tra la popolazione, nella riscoperta di quella che oggi definiamo cultura popolare. Per dirla con Taylor, «è questo il potente ideale che ci è stato tra- mandato. Esso accorda importanza morale a una sorta di contatto con l’“io”, con la propria natura interiore, che è considerata in pericolo di perdersi [...] con le spinte al conformismo sociale». Il clivage tra il proprio «io» interiore ed esteriore non è frutto soltanto del mondo delle idee, ma della realtà sociale nelle moderne democrazie di mercato. Dopo le rivoluzioni americana e francese, l’ideale della «carrière ouverte aux talents» è stato progressivamente messo in pratica, man mano che venivano rimosse le tradizionali barriere alla mobilità sociale. Così, lo status sociale dell’individuo cominciava a essere qualcosa da conquistare piuttosto che accettare. Ossia, il frutto del proprio talento, lavoro e sacrificio invece che del fortuito status di nascita. Il percorso personale dell’individuo, quindi, consisteva nella ricerca e nella realizzazione di un disegno interiore, piuttosto che nell’adeguamento alle aspettative dei propri genitori, parenti, compaesani o del proprio sacerdote. Sostiene Taylor che l’identità moderna sia intrinsecamente politica, dato che esige riconoscimento. L’idea secondo cui la politica moderna si basa sul principio del riconoscimento universale proviene da Hegel. È sempre più evidente, però, che il riconoscimento universale fondato su di un’umanità individuale condivisa non è sufficiente, soprattutto con riferimento a gruppi che, in passato, sono stati oggetto di discriminazioni. Le moderne politiche identitarie, dunque, sono imperniate sulle istanze di riconoscimento delle identità di gruppo. Ossia, l’affermazione pubblica della pari dignità di gruppi in passato marginalizzati; dagli abitanti del Québec agli afroa- Chi è Francis Fukuyama rancis Fukuyama (Chicago 1952) insegna economia politica internazionale alla Paul H. Nitze School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University di Washington. Dal 2002 è membro del Council of Bioethics, organo della presidenza degli Stati Uniti. Tra le sue opere ricordiamo: La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli, 1992), La fiducia (Rizzoli, 1996), La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale (Baldini&Castoldi, 1999), L’uomo oltre l’uomo (Mondadori, 2002), Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo (Lindau, 2004), America al bivio. La democrazia, il potere e l’eredità dei neoconservatori (Lindau, 2006). F Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 45 Santiago Sierra Le radici dell’islamismo radicale, secondo Olivier Roy, non sono culturali. Il fenomeno non è la conseguenza di un qualcosa di intrinseco all’islam o alla cultura che questa religione ha prodotto. Piuttosto, l’islamismo radicale è venuto alla ribalta perché l’islam si è «deterritorializzato» mericani, alle donne, sino alle popolazioni indigene e agli omosessuali. Non è un caso che Charles Taylor sia canadese: le politiche identitarie e il multiculturalismo contemporaneo sono nati, per molti aspetti, proprio in Canada con le istanze per il riconoscimento dei diritti della comunità francofona. La legge 101 del 1977 viola il principio liberale della parità di diritti individuali: i francofoni godono di diritti linguistici non condivisi dagli anglofoni. Il Québec venne riconosciuto quale «società distinta» nel 1995 e «nazione» nel 2006. Il multiculturalismo – inteso non soltanto come tolleranza della diversità culturale ma come istanza di riconoscimento legale dei diritti di gruppi razziali, religiosi o culturali – si è ormai affermato in quasi tutte le moderne democrazie liberali. Nel corso dell’ultima generazione, la politica Usa è stata profondamente segnata dalle controversie attorno alle politiche di «affirmative action» a favore degli afroamericani, del bilinguismo e del matrimonio gay perorate da gruppi in passato marginalizzati, i quali esigono il riconoscimento dei loro diritti non soltanto come individui ma come membri di un gruppo. E la tradizione lockeana dei diritti individuali, profondamente radicata negli Usa, ha reso le battaglie volte ad asserire i diritti dei gruppi straordi- nariamente controverse, molto più che nell’Europa moderna. L’ideologia islamista radicale all’origine degli attacchi terroristici del decennio scorso va considerata soprattutto quale manifestazione delle moderne politiche identitarie, piuttosto che della cultura musulmana tradizionale. In tal senso, essa non è dissimile da alcuni vecchi movimenti politici che ben conosciamo. Il fatto che sia moderna non la rende meno pericolosa, ma aiuta a fare luce sulla questione e sulle eventuali soluzioni. L’idea che l’islamismo radicale contemporaneo rappresenti una forma di politica identitaria è stata avanzata con particolare fervore e convinzione dall’intellettuale francese Olivier Roy nel suo libro Globalised Islam (Hurst 2004). Le radici dell’islamismo radicale, spiega Roy, non sono culturali. In altre parole, il fenomeno non è la conseguenza di un qualcosa di intrinseco all’islam o alla cultura che questa religione ha prodotto. Piuttosto, sostiene Roy, l’islamismo radicale è venuto alla ribalta perché l’islam si è «deterritorializzato», riaprendo l’intera questione dell’identità musulmana. Questione che non si è nemmeno posta nelle società musulmane tradizionali, né in quelle cristiane. In una società musulmana tradizionale, l’individuo riceve la propria identità dai suoi genitori e dal contesto sociale in cui si trova. Tutto – dal clan ai parenti, all’imam locale sino alla struttura politica dello Stato – ancora le singole identità a un particolare ramo del credo islamico. Non è questione di scelta. Come il giudaismo, l’islam è una religione profondamente legalistica, nel senso che il credo religioso consiste nell’osservanza di una serie di norme sociali determinate esternamente. Norme ben localizzate, in conformità con tradizioni, usanze, santi e consuetudini di determinati luoghi. La religiosità tradizionale non è universalistica, a dispetto dell’universalismo dottrinale dell’islam. Secondo Roy, l’identità comincia a essere problematica proprio quando i musulmani abbandonano le società tradizionali emigrando, ad esempio, in Europa occidentale. In quel momento, infatti, la propria identità di musulmano non è più rispecchiata dalla società esterna; al contrario, aumentano le spinte ad adeguarsi alle norme culturali dominanti in Occidente. Il problema dell’autenticità si presenta ora in maniera assolutamente inedita rispetto alle società tradizionali, poiché si è formato un gap tra la propria identità interiore di musulmano e il proprio comportamento rispetto alla società esterna. Ciò che spiega le continue domande poste agli imam, nei siti web islamici, su Mass media Se è l’agenda a dettare il Tempo di Paolo Jedlowski l Novecento è stato ossessionato dalla memoria. Probabilmente perché ha avvertito di perderla. Tuttavia, come il secolo precedente, il Novecento è stato ambivalente a riguardo. Da un lato, è stata la modernità tutta che, da quando ha incominciato a dispiegarsi, ha provocato fenomeni che possono essere descritti come una perdita di memorie, o quanto meno del loro versante sociale, le tradizioni. Il mutamento continuo, regolare, veloce e forse persino via via accelerato di tutti gli aspetti delle nostre condizioni di vita ha reso man mano inservibile l’esperienza delle generazioni passate. Ma, dall’altro lato, la modernità è stata anche il tempo dei musei, degli archivi, dei monumenti e delle biblioteche. Epoca del mutamento incessante, è stata anche l’epoca in cui è stato più vivo il senso della storia, e in cui si è prestata al passato la maggiore attenzione. I media più caratteristici del Novecento, la radio e la televisione, si prestano a consumi effimeri, suggeriscono un’esperienza volatile; ma altri, nati già nel secolo precedente e poi sempre più sviluppati, permettono invece di fissare il passato, di custodirlo e riaccedervi in modi mai prima conosciuti. Fotografie, registratori, cinema, video e infiniti altri marchingegni fermano il tempo, ne conservano le tracce, permettono di riprodurle in altri momenti e altri luoghi. Si tratta di memorie esteriorizzate, la cui efficacia è proporzionale al grado in cui effettivamente sono consultate, ma sono memorie estese, capillari e a portata di tutti. A che punto è oggi questa storia? Quali atteggiamenti ci caratterizzano nei confronti della memoria? Se si bada ai racconti attraverso cui la contemporaneità è rappresentata dalle arti narrative – nei romanzi, al cinema, nelle soap opera – la situazione pare, di nuovo, ambivalente. A un interesse inesausto per il passato fa riscontro il timore (e a volte il desiderio) di perdere la capacità del ricordo. I 46 Quanto all’interesse, è testimoniato dal peso che vicende legate alla ricerca del tempo perduto continuano ad avere nelle trame dei racconti che narriamo e ascoltiamo. Il passato autobiografico e quello collettivo vi compaiono ancora e molto spesso come scrigni: serbatoi di identità, di segreti che attendono di essere svelati, di seminagioni originarie di senso. Spesso questi racconti non mancano di mettere in scena qualcosa di davvero importante: la sensazione del fatto che vivendo dimentichiamo l’essenziale, e che la memoria può aiutare a recuperarlo. O, ancora più importante, che vivendo lasciamo tracce che le memorie altrui conservano, in modo tale che la trama e il senso delle nostre stesse vite sono custoditi da ciò che altri rammentano. Il significato della memoria della Shoah, ad esempio, per chi non è ebreo, è esattamente questo. Ma anche sul piano individuale, infiniti romanzi ripropongono protagonisti i quali, in un modo o nell’altro, si imbattono in ricordi altrui che, se accettati, modificano la percezione di sé. Due esempi, scelti quasi a caso in una messe pressoché sterminata: La forza del passato di Sandro Veronesi tra i romanzi, Niente da nascondere (Caché), di Michael Haneke, tra i film. Anche il gusto per storie di figli perduti e ritrovati, di parentele riscoperte, di agnizioni improvvise non è che la versione popolare di ciò di cui queste storie sono metafora: che della nostra stessa vita non siamo stati i soli protagonisti, né i più affidabili fra i testimoni. D’altro canto, una moltitudine di racconti mette in scena la perdita della memoria. La continuità del soggetto, il suo senso del sé, ne sono incrinati o minacciati. Che una certa dose di oblio sia necessaria alla vita è ovvio. Ma l’eccesso di oblio fa paura. Per qualche motivo, è soprattutto sulla sparizione della memoria a breve termine che si concentra la narrativa. Il prototipo è quel racconto – vero: Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Santiago Sierra Le moderne società liberali in Europa e Nord America tendono a essere deboli in termini di identità; molte celebrano il proprio pluralismo e multiculturalismo, asserendo sostanzialmente che la loro identità consiste proprio nel non avere alcuna identità. Ciononostante, l’identità nazionale è ancora nel dna di tutte le democrazie cosa sia haram (proibito) e cosa halal (permesso). In Arabia Saudita, però, se sia haram stringere la mano a un insegnante di sesso femminile, ad esempio, è questione che nemmeno si pone, dato che tale categoria sociale è pressoché inesistente. L’islamismo, una risposta Islamismo radicale e jihadismo nascono in risposta alla ricerca dell’identità che consegue da tutto ciò. Queste ideologie possono dare una risposta al giovane musulmano olandese o francese che si chiede «Chi sono?»: sei membro di una umma globale definita dall’adesione a una dottrina islamica universale cui sono stati sottratti usanze, santi, tradizioni et similia locali. L’identità musulmana, dunque, diviene questione di credo interiore piuttosto che di conformismo esteriore alla prassi sociale. Il che, secondo Roy, provoca una «protestantizzazione» del credo musulmano, per cui la salvezza risiede in uno stato soggettivo che mal si accorda con il comportamento esteriore del singolo. Ecco perché Mohammed Atta e diversi altri cospiratori dell’11 settembre hanno potuto, come si presume, bere alcool e andare in uno strip club prima dell’attacco alle Torri Gemelle. Considerando l’islamismo radicale quale forma di politica identitaria, diviene chiaro anche come mai i musulmani europei di seconda e terza generazione abbiano deciso di aderirvi. Generalmente, gli immigrati di prima generazione non hanno subito il distacco psicologico dalla cultura della loro terra d’origine, e hanno portato con sé, nelle loro nuove case, le usanze tradizionali. I loro figli, invece, spesso disprezzano la religiosità dei genitori ma, al contempo, non riescono a integrarsi nella cultura della nuova società in cui vivono. Presi tra due culture nelle quali non riescono a identificarsi, essi provano forte attrazione per l’ideologia universalista del jihadismo contemporaneo. Olivier Roy ingigantisce le ragioni per cui l’islamismo radicale andrebbe considerato come fenomeno precipuamente europeo; in realtà, esistono numerose altre cause alla base dell’emersione delle ideologie radicali in Medio Oriente. Arabia Saudita, Pakistan, Iran e Afghanistan sono tutti paesi esportatori dell’ideologia islamista radicale, e l’Iraq potrebbe entrare nel novero in futuro. L’analisi di Roy, tuttavia, è applicabile anche ai paesi musulmani, perché è l’importazione della modernità in quelle società a provocare crisi d’identità e radicalizzazione. La globalizzazione, pilotata dalla tecnologia e dall’apertura economica, ha offuscato i confini tra mondo sviluppato e società musulmane tradizionali. Non a caso, i fautori dei recenti complotti ed episodi terroristici sono o erano molto spesso musulmani europei o radicalizzatisi nel Vecchio Continente, o ancora provenienti da sfere privilegiate delle società musulmane con la possibilità, quindi, di stringere contatti con l’Occidente. Mohammed Atta e gli altri cospiratori degli attacchi dell’11 settembre rientrano in questa categoria, come pure Mohammed Bouyeri (l’assassino del regista olandese Theo van Gogh), gli attentatori dell’11 marzo a Madrid, quelli del 7 luglio a Londra e i musulmani britannici accusati di avere ordito l’attentato contro alcuni velivoli la scorsa estate. Va anche rimarcato che i leader di Al Qaeda Osama bin Laden e Ayman alZawahiri sono entrambi uomini istruiti, con un’estesa conoscenza e libero accesso al mondo moderno. Se l’islamismo radicale contemporaneo viene letto quale frutto delle politiche identitarie, ergo come fenomeno moderno, due sono le implicazioni che ne conseguono. Primo, ci siamo già confrontati con questo problema negli anni delle politiche estremiste del XX secolo, con i giovani che diventavano anarchici, bolscevichi, fascisti o membri della banda Baader-Meinhof. Come hanno mostra- Mass media è un caso clinico – presentato da Oliver Sacks nel suo L’uomo che scambiò la moglie per un cappello dove un personaggio saluta, chiede cortesemente il nome dell’interlocutore, e dopo pochi secondi ricomincia da capo. Fra i racconti più intensi a questo proposito citerò Memento, di Christopher Nolan; più lieve, 50 volte il primo bacio di Peter Segal. In entrambi i casi i protagonisti, colpiti da amnesia anterograda, ricordano quello che accade soltanto per pochi minuti, poi lo dimenticano. La loro vita è fatta così di episodi staccati, in cui tutto ricomincia ogni volta di nuovo. L’interesse della fiction per personaggi dotati di problemi con la memoria è probabilmente sintomo di un aspetto della condizione collettiva contemporanea: del carattere frammentario sia dell’esperienza dello spettatore tipico dei prodotti delle industrie mediali, sia dell’esperienza che si deposita nella nostra vita reale, più o meno polverizzata in un flusso di episodi sconnessi. Un’esperienza che è forse più opportuno chiamare inesperienza, rammentando le celebri note di Walter Benjamin sulla modernità come epoca in cui l’esperienza scompare. Importante per comprendere tendenze e paure, la fiction non è però strumento sociologico del tutto affidabile. Le condizioni più diffuse oggi, concretamente, non sono né quelle di un’intensa attenzione per la memoria, né quelle di una radicale sparizione della nostra capacità di conservare il passato. La situazione attuale è piuttosto quella di esseri umani oberati da un lato da un eccesso di stimoli, e dall’altro da un eccesso di quelle che chiamerei, prendendo a prestito il termine dagli psicologi, memorie di lavoro. L’eccesso di stimoli significa che ciò che oggi siamo in grado di percepire è troppo per essere ricordato. A volte, addirittura per essere propriamente notato; di norma, troppo per essere conservato. Questo provoca a volte rigetto, altre volte confusione, indistinzione delle rilevanze, cortocircuiti indesiderati (o, in qualche caso, desiderabili: come formazione di nuove connessioni di senso; ma praticare la confusione come forma d’arte o di conoscenza non è da tutti). In ogni caso, una massiccia dose di oblio è correlata a una massa di informazioni ingestibile. Quanto all’eccesso di memorie di lavoro, significa che, di fatto, la complessità della vita quotidiana di oggi richiede una costante e capillare capacità di ricordo: appuntamenti, scadenze, bollette, password, codici di accesso a telefoni, bancomat, servizi informatici. Vivere nella complessità, aiutati da mezzi che ci consentono e suggeriscono il pregio della velocità, vuol dire poter fare una miriade di cose: ma ogni attività richiede che si ricordino relazioni, nomi, incombenze, vicende pregresse, progetti in corso, intenzioni. E ancora: forme di pratiche, etichette, modi d’uso di oggetti che si rinnovano per di più di continuo. Dobbiamo ricordare infinite cose, semplicemente per continuare a vivere quotidianamente. Questa situazione rende conto sia del desiderio, che a volte ci coglie, di una memoria rilassata, sia della paura, che altrettante volte avvertiamo, di smarrire i ricordi. In concreto, nelle nostre vite di ogni giorno, non siamo né molto inclini al ricordo disteso né del tutto privi della capacità di conservare e di rammentare il passato. Ma il nostro tempo quotidiano è quello dell’agenda: non il presente, ma il futuro a breve, che necessita di memorie altrettanto brevi. L’autore insegna sociologia all’università «L’Orientale» di Napoli. Tra i suoi libri Un giorno dopo l’altro (Bologna 2005). Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 47 Santiago Sierra La gran parte dei paesi europei tende a concepire il multiculturalismo quale cornice per una convivenza di culture separate, piuttosto che come meccanismo di transizione volto a integrare i nuovi arrivati nella cultura dominante (ciò che Amartya Sen ha definito «pluralità di monoculturalismi») to Fritz Stern, Ernest Gellner e altri, la modernizzazione e la transizione dalla Gemeinschaft (comunità) alla Gesellschaft (società) sono processi profondamente alienanti di cui hanno fatto esperienza negativa innumerevoli individui in diverse società. Ora è la volta dei giovani musulmani. Se nella religione musulmana vi sia qualcosa in particolare che incoraggia tale radicalizzazione rimane una questione aperta. Dopo l’11 settembre, si è diffusa tutta una letteratura volta a dimostrare come la violenza e persino gli attacchi suicidi abbiano profonde radici storiche o coraniche. È bene ricordare, però, che in numerose circostanze storiche le società musulmane sono state più tolleranti dei loro omologhi cristiani. Il filosofo ebreo Maimonide nacque nella Cordova musulmana, variegato centro culturale e di apprendimento, e Baghdad ha ospitato per molte generazioni una delle maggiori comunità ebraiche al mondo. Considerare l’attuale islamismo radicale come un’inevitabile propaggine dell’islam sarebbe come giudicare il fascismo quale apogeo di secoli di cristianesimo in Europa. Secondo, il problema del terrorismo jihadista non si risolverà esportando modernizzazione e democrazia in Medio Oriente. All’amministrazione Bush, secondo cui il terrorismo è alimentato dall’assenza di democrazia, sfugge che un cospicuo numero di terroristi si è radicalizzato in paesi europei democratici. Modernizzazione e democrazia sono di per sé elementi positivi ma, nel mondo musulmano, l’eventualità che esacerbino il terrorismo invece di rintuzzarlo è, sul breve periodo, più che probabile. Le moderne società liberali in Europa e Nord America tendono a essere deboli in termini di identità; molte celebrano il proprio pluralismo e multiculturalismo, asserendo sostanzialmente che la loro identità consiste proprio nel non avere alcuna identità. Resta il fatto, però, che l’identità nazionale è ancora nel dna di tutte le democrazie liberali contemporanee. La sua natura, però, per certi versi cambia spostandoci, ad esempio, dal Nord America in Europa, ciò che aiuta a spiegare come mai l’integrazione dei musulmani sia così difficile in paesi come Olanda, Francia e Germania. Differenze tra Europa e Usa Seymour Martin Lipset sosteneva che l’identità americana non potesse che essere di natura politica e potentemente influenzata dal fatto che gli Usa sono nati da una rivoluzione contro l’autorità dello Stato. Il credo americano si basava su cinque valori fondamentali: uguaglianza (non in termini di risultato ma di pari opportunità), libertà (o antistatalismo), individualismo (inteso come facoltà, da parte degli individui, di determinare la propria collocazione sociale), populismo e liberismo. 48 Essendo tali qualità sia politiche che civiche, erano in teoria accessibili a ogni americano (dopo l’abolizione della schiavitù) e hanno resistito eccezionalmente alla storia della Repubblica. Robert Bellah ebbe un giorno a dire che gli Usa possedevano una «religione civile», ma la loro chiesa è aperta a tutti. Al di là di tali aspetti relativi alla cultura politica, l’identità americana è anche radicata in tradizioni etniche distinte, in particolare in ciò che Samuel Huntington definisce la cultura dominante di tipo «anglo-protestante». Lipset riconosceva il fondamentale ruolo svolto dalle tradizioni settarie protestanti dei coloni britannici nel plasmare la cultura Usa. La famosa etica del lavoro protestante, la propensione del popolo americano a unirsi in libere associazioni e il moralismo della loro politica sono tutte conseguenze di tale retaggio anglo-protestante. Già all’inizio del XXI secolo, però, gli aspettichiave della cultura Usa – pur sempre radicati nelle tradizioni culturali europee – erano di fatto scissi dalle loro origini etniche e praticati da un nugolo di neo-americani. Gli americani lavorano più duramente degli europei, e tendono a credere – come il primo protestantesimo di Weber – che la dignità risiede nel lavoro volto alla redenzione morale piuttosto che nella solidarietà del welfare state. La cultura americana contemporanea, naturalmente, ha molti aspetti non altrettanto gradevoli. La cultura dei diritti acquisiti, del consumismo, dei riflettori di Hollywood puntati sul sesso e la violenza, e delle gang sottoproletarie che gli Usa hanno riesportato nell’America centrale è prerogativa che alcuni immigrati cominciano ad assorbire. Lipset sosteneva che l’eccezionalismo americano fosse una spada a doppio taglio: lo stesso individualismo antistatalista che fa degli americani un popolo intraprendente li ha anche portati a trasgredire la legge molto più degli europei. Dopo la seconda guerra mondiale, il Vecchio Continente vide un grande impegno a creare un’identità europea «postnazionale». Nonostante i progressi compiuti nel tentativo di forgiare un’Ue più forte, l’identità europea rimane un sentimento ispirato più dalla testa che dal cuore. Sebbene vi sia un’esile schiera di europei flessibili e cosmopoliti, pochi si definirebbero europei tout court, o si gonfiano d’orgoglio ascoltando l’inno comunitario. Con la sconfitta della Costituzione Ue inflitta a seguito dei referendum francese e olandese nel 2005, i cittadini comuni hanno voluto dire ancora una volta alle élite che non erano pronti a rinunciare alla sovranità e allo Stato nazionale. Il sentimento degli europei rispetto all’identità nazionale, però, è molto spesso ambivalente. L’esperienza formativa alla base della coscienza politica europea contemporanea è rappresentata dalle due guerre mondiali, di Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 cui gli europei incolpano il nazionalismo. Eppure, le vecchie identità nazionali europee resistono tuttora. I cittadini sentono ancora fortemente cosa significhi essere britannici o francesi o olandesi o italiani, anche se non è politicamente corretto affermare tali identità con eccessivo fervore. E le identità nazionali in Europa, rispetto all’America, restano prevalentemente di base etnica. Così, sebbene tutti i paesi europei lavorino per garantire la pari cittadinanza formale e politica, proprio come negli Usa, tradurre quest’ultima in una parità percepita come tale è cosa ben più ardua, e questo a causa della forza perdurante della fedeltà etnica. Gli olandesi, ad esempio, sono noti per il loro pluralismo e la loro tolleranza. Eppure, nell’intimità delle loro case, essi restano, sotto il profilo sociale, piuttosto conservatori. La società olandese è stata multiculturale senza essere assimilativa, il che ben si adatta a una società consociativa tradizionalmente organizzata secondo i «pilastri» protestante, cattolico e socialista, tutti separati tra di loro. In modo analogo, la gran parte degli altri paesi europei tende a concepire il multiculturalismo quale cornice per una convivenza di culture separate, piuttosto che come meccanismo di transizione volto a integrare i nuovi arrivati nella cultura dominante (ciò che Amartya Sen ha definito «pluralità di monoculturalismi»). Molti europei esprimono scetticismo riguardo alla volontà, da parte degli immigrati musulmani, di integrarsi; ma anche chi vuole farlo non sempre è accolto con entusiasmo, nemmeno se ha già acquisito le conoscenze linguistiche e culturali della società di accoglienza. È bene non ingigantire le differenze tra Usa ed Europa a questo riguardo. Gli europei sostengono, e in parte a ragione, di incontrare maggiori difficoltà a integrare i propri immigrati – la maggior parte dei quali oramai sono musulmani – rispetto agli Usa. Gli immigrati musulmani nel Vecchio Continente provengono generalmente da società piuttosto tradizionali, mentre la stragrande maggioranza dei nuovi arrivati negli Usa è ispanica e condivide il retaggio cristiano della cultura dominante. (Anche i numeri fanno la loro parte: negli Usa, paese che conta 300 milioni di abitanti circa, vivono dai 2 ai 3 milioni di musulmani. Se la percentuale della popolazione musulmana Usa fosse pari a quella francese, la cifra supererebbe i 20 milioni). Quali che siano esattamente le cause, il fallimento del progetto europeo per una migliore integrazione dei musulmani è una bomba a orologeria che ha già favorito il terrorismo. E che provocherà inevitabilmente un effetto boomerang ben più violento da parte dei gruppi populisti, con il rischio di mettere addirittura a repentaglio la stessa democrazia europea. La risoluzione di tale Santiago Sierra Chiedere ai musulmani di rinunciare ai diritti di gruppo è molto più difficile in Europa che negli Usa, perché numerosi paesi europei hanno tradizioni corporativiste che, continuando a rispettare i diritti delle comunità, non riescono a separare efficacemente Chiesa e Stato problema richiederà un duplice approccio: occorrerà che sia le minoranze di immigrati e la loro prole, sia i membri delle principali comunità nazionali modifichino il loro comportamento. Il primo passo consiste nel riconoscere che il vecchio modello multiculturale non è stato un gran successo in paesi quali Olanda e Gran Bretagna, e che al suo posto occorrono sforzi più energici per integrare le popolazioni non occidentali in una comune cultura liberale. Il vecchio modello multiculturale si fondava sul riconoscimento e i diritti dei gruppi. A causa di un malinteso senso di rispetto per le differenze culturali – talvolta incoraggiato dal senso di colpa postimperiale – è stata concessa eccessiva autorità alle comunità culturali nel definire le regole di comportamento da imporre ai loro membri. Il liberalismo, in definitiva, non può basarsi sui diritti di gruppo, perché non tutti i gruppi propugnano valori liberali. La civiltà dell’Illuminismo europeo, di cui la democrazia liberale contemporanea è erede, non può essere culturalmente neutrale, poiché le società liberali coltivano determinati valori riguardo alla pari dignità e all’eguale valore degli individui. Le culture che non accettano tali premesse non meritano pari tutela in una democrazia liberale. I membri delle comunità di immigrati e la loro prole meritano un pari trattamento come individui, non in quanto membri di comunità culturali. Non esiste alcuna ragione per cui, sotto la medesima legge, una ragazza musulmana debba essere trattata in modo diverso da una cristiana o ebrea, quale che sia la sensibilità della sua famiglia. I limiti delle società postmoderne Il multiculturalismo quale originariamente concepito in Canada, Usa ed Europa era in un certo senso un «gioco alla fine della storia». In altre parole, la diversità culturale era vista come una sorta di orpello al pluralismo liberale che avrebbe portato cibo etnico, abiti colorati e tracce di peculiari tradizioni storiche in società spesso considerate tediosamente conformiste e monocolore. La diversità culturale era un qualcosa da professarsi soprattutto nella sfera privata, dove non avrebbe provocato alcuna grave violazione dei diritti individuali né sfidato un ordine sociale essenzialmente liberale. Laddove si intrometteva nella sfera pubblica, come nel caso delle politiche linguistiche in Québec, la deviazione dal principio liberale veniva percepita dalla comunità dominante più come un qualcosa di irritante che come una seria minaccia alla democrazia liberale stessa. Di contro, alcune comunità musulmane oggi avanzano istanze per i diritti di gruppo che non si confanno tout court ai principi liberali dell’uguaglianza individuale. Tali istanze comprendono deroghe speciali al diritto familiare valido per tutti gli altri individui della società, il diritto a escludere i non musulmani da particolari eventi pubblici, o a mettere in discussione la libertà di parola in nome del rispetto verso la religione (come nella vicenda delle vignette danesi). In qualche caso più estremo, le comunità musulmane hanno addirittura manifestato l’ambizione di sfidare il carattere secolare dell’ordine politico tout court. È evidente come diritti di gruppo di questo tipo entrino in conflitto con i diritti degli altri individui della società, trascinando l’autonomia culturale ben al di là della sfera privata. Chiedere ai musulmani di rinunciare ai diritti di gruppo, però, è molto più difficile in Europa che negli Usa, perché numerosi paesi europei hanno tradizioni corporativiste che, continuando a rispettare i diritti delle comunità, non riescono a separare efficacemente Chiesa e Stato. L’esistenza, in molti paesi europei, di scuole cristiane ed ebraiche finanziate dallo Stato rende assai problematiche le battaglie di principio contro i sussidi statali a favore dell’educazione religiosa musulmana. In Germania, lo Stato riscuote le tasse per conto delle chiese cattoliche e protestanti, distribuendo il ricavato alle scuole religiose. (Si tratta di un retaggio del Kulturkampf di Bismarck contro la Chiesa cattolica). Persino la Francia, con la sua solida tradizione repubblicana, non è stata coerente sotto questo aspetto. Dopo la campagna anticlericale della Rivoluzione francese, Napoleone reintegrò il ruolo della religione relativamente all’istruzione e si avvalse di un approccio corporativista nel gestire i rapporti tra Stato e Chiesa. Il rapporto tra Stato e comunità ebraica francese, ad esempio, è regolato dal ministro dei Culti attraverso il Concistoro israelita, che è servito da modello a Nicolas Sarkozy nel suo recente tentativo di istituire un autorevole in- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 terlocutore musulmano che si faccia portavoce (controllandola) della comunità musulmana francese. Anche la legge del 1905, con la quale venne sancito il principio della laïcité, contemplava alcune eccezioni. In Alsazia, ad esempio, lo Stato finanzia tuttora scuole religiose. Queste isole di corporativismo, dove alcuni Stati europei continuano a riconoscere ufficialmente i diritti delle comunità, non hanno rappresentato un problema sino all’arrivo di folte comunità musulmane. La gran parte delle società europee erano ormai divenute completamente secolari, pertanto tali brandelli di religiosità apparivano del tutto innocui. Ma hanno fornito importanti precedenti alle comunità musulmane, e costituiscono un ostacolo al mantenimento di un muro di separazione tra Stato e religione. Se l’Europa intende stabilire il principio liberale del pluralismo basato sugli individui piuttosto che sui gruppi, dovrà affrontare il problema di tali istituzioni corporativiste ereditate dal passato. L’altra chiave per risolvere il problema dell’integrazione dei musulmani è legata alle aspettative e al comportamento delle comunità europee maggioritarie. L’identità nazionale è ancora percepita e praticata in modo tale da costituire talvolta una barriera per i nuovi arrivati che ignorano l’etnicità e il background religioso dei nativi. L’identità nazionale è sempre stata il frutto di una costruzione sociale: è imperniata sulla storia, i simboli, gli eroi che una comunità racconta di sé. Questo senso di attaccamento a un luogo e a una storia particolari non va cancellato, ma occorre renderlo quanto più accessibile ai nuovi cittadini. In alcuni paesi, segnatamente la Germania, la storia del XX secolo ha reso imbarazzante qualsiasi discussione attorno all’identità nazionale. Eppure, è un discorso che va riaperto, proprio alla luce della nuova 49 Santiago Sierra Il dilemma dell’immigrazione e dell’identità converge con la più ampia questione della mancanza di valori nell’era postmoderna. L’ascesa del relativismo ha reso più ardua l’affermazione di valori positivi e, quindi, del tipo di credenze condivise richieste agli emigranti quale condizione per ottenere la cittadinanza diversità che caratterizza il Vecchio Continente. Se, infatti, gli attuali cittadini non attribuiscono alla loro cittadinanza nazionale l’importanza che merita, come possono i paesi europei aspettarsi che lo facciano i nuovi arrivati? Ma è un discorso che si va riaprendo. Qualche anno fa, in Germania i cristiano-democratici hanno timidamente lanciato l’idea di una Leitkultur, nozione secondo cui la cittadinanza tedesca comporta determinati obblighi in termini di rispetto di standard di tolleranza e di uguaglianza. La parola Leitkultur – traducibile con «guida» o «cultura di riferimento» – fu coniata nel 1998 da Bassam Tibi, accademico tedesco di origini siriane, a significare appunto un concetto di cittadinanza universalistico e non etnico, che avrebbe aperto le porte dell’identità nazionale ai cittadini di etnia non tedesca. A dispetto di tali origini, l’idea venne subito denunciata dalla sinistra quale razzista e fautrice di un ritorno all’infelice passato della Germania. Così, i cristiano-democratici ne presero ben presto le distanze. Da qualche anno a questa parte, però, anche la Germania ha visto un dibattito pubblico molto più vivace attorno all’identità nazionale e l’immigrazione di massa. Lo scorso anno, durante i fortunati mondiali di calcio, la diffusa manifestazione di un moderato sentimento nazionale è parsa assolutamente normale, ed è stata persino bene accolta dai paesi vicini della Germania. Come integrare gli immigrati Pur partendo da una posizione completamente differente, l’America potrebbe avere 50 qualcosa da insegnare agli europei che, oggi, tentano di elaborare modelli postetnici di cittadinanza e appartenenza nazionali. La vita americana abbonda di cerimonie e rituali semireligiosi volti a celebrare le istituzioni politiche democratiche del paese: le cerimonie di alzabandiera, il giuramento di naturalizzazione, il giorno del Ringraziamento e il 4 luglio. Gli europei, invece, hanno ampiamente deritualizzato la loro vita politica. Tendono a essere cinici o indifferenti dinanzi alle esibizioni del patriottismo Usa. Ma cerimonie di questo tipo sono importanti ai fini dell’assimilazione dei nuovi immigrati. L’Europa conta diversi precedenti quanto alla creazione di identità nazionali che non si fondano – o lo fanno in misura minore – su etnicità o religione. Il caso più celebre è quello del repubblicanesimo francese, il quale, nella versione classica, si rifiutava di riconoscere le varie identità comunitarie, avvalendosi del potere dello Stato per omogeneizzare la società francese. A seguito della proliferazione del terrorismo e dei disordini urbani, la Francia ha ospitato un intenso dibattito attorno al perché del fallimento di tale modello di integrazione. Parte della risposta potrebbe risiedere nel fatto che i francesi stessi hanno rinunciato al vecchio concetto di cittadinanza a favore di una particolare versione del multiculturalismo. Nel 2004, con la messa al bando del velo, si è voluto riasserire un vecchio ideale repubblicano. Di recente, la Gran Bretagna si è ispirata alle tradizioni americana e francese nel tentativo di accrescere la visibilità della cittadinanza nazionale. Il governo laburista ha introdotto cerimonie di conferimento della cittadinanza Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 come pure test di lingua e cultura per gli aspiranti britannici. Oltre a veri e propri corsi di cittadinanza, destinati ai più piccoli, in tutte le scuole. La Gran Bretagna ha visto un notevole aumento dell’immigrazione negli ultimi anni, soprattutto in provenienza di nuovi Stati membri dell’Ue quali la Polonia e, a emulazione degli Usa, il governo considera il fenomeno come fattore chiave del suo relativo dinamismo economico. Gli immigrati sono benvenuti fintantoché lavorano, invece di attingere alle risorse del welfare e, grazie a un mercato del lavoro flessibile stile Usa, chi cerca un lavoretto non ha che l’imbarazzo della scelta. Nella gran parte degli altri paesi europei, però, il connubio di codici di lavoro inflessibili e sussidi generosi fa sì che gli immigrati arrivino in cerca non di un lavoro ma del welfare. Molti europei sostengono che il welfare Usa, proprio perché meno generoso, toglie ai poveri anche la dignità. È vero il contrario: la dignità viene garantita proprio dal lavoro e dal contributo che il singolo offre, con il proprio sacrificio, alla società intera. In diverse comunità musulmane europee, circa la metà della popolazione sussiste grazie al welfare, contribuendo direttamente a un senso di alienazione e disperazione. L’esperienza europea, quindi, non è uniforme. In quasi tutti i paesi, però, si sta aprendo un dibattito attorno all’identità e all’emigrazione, sebbene sia dovuto – almeno in parte – agli attacchi terroristici e all’ascesa della destra populista. Il dilemma dell’immigrazione e dell’identità converge, in ultima analisi, con la più ampia questione della mancanza di valori nell’era postmoderna. L’ascesa del relativismo ha reso più ardua l’affermazione, da parte dei cittadini della società postmoderna, di valori positivi e, quindi, del tipo di credenze condivise richieste agli emigranti quale condizione per ottenere la cittadinanza. Le élite postmoderne, soprattutto quelle europee, sentono di essersi evolute al di là delle forme di identità definite da religione e nazione, e di essere pervenute a uno stadio superiore. Ma nonostante le celebrazioni di sconfinata diversità e tolleranza, la società postmoderna trova difficoltà a convenire sull’essenza della felice convivenza cui aspira. L’immigrazione ci impone in modo particolarmente stringente una discussione attorno al «Chi siamo?» di Samuel Huntington. Se le società postmoderne intendono approdare a un più serio dibattito sull’identità, dovranno svelare le virtù positive che definiscono l’appartenenza a una società allargata. Altrimenti, rischiano di essere sopraffatte di chi è più sicuro della propria identità. © Prospect (Traduzione di Enrico Del Sero) Santiago Sierra Arte al limite e diritti della creatività di Sebastiano Maffettone mergenze» ci invita riflettere sul rapporto tra etica ed estetica. Cercherò di farlo in generale e nell’ottica dei diritti umani in particolare. I diritti umani costituiscono oggi il linguaggio normativo essenziale della politica internazionale. Rappresentano una premessa etico-politica ineliminabile della convivenza umana in tempi complessi. La loro universalità è controversa, se la si guarda nell’ottica del pluralismo culturale. Ma la loro utilità, se ci sta a cuore la pace del mondo, è difficilmente negabile. Proprio per questo motivo, credo che l’esperienza artistica non possa trascurarli «E *** Ho imparato negli anni che bisogna avere rispetto per l’arte. Ciò vuol dire che, quando l’opera è significativa, l’arte si commenta da sola. E c’è poca necessità di commentarla in maniera indipendente ed esterna. Anzi, così facendo si rischia di travisare. E si incorre nel ridicolo. Ricordo un piccolo episodio in proposito. Accadde circa trent’anni fa, a Napoli. Una Napoli come sempre molto sensibile al richiamo dell’arte contemporanea, in cui Lucio Amelio era riuscito a creare quel meraviglioso connubio che fu il lungo incontro artistico e umano di Beuys e Warhol. Una Napoli in cui noi eravamo tutti presi da una clima di effervescenza quasi euforica, che ci faceva sembrare normale pensare che l’arte fosse un modo, forse addirittura «il» modo, per creare una comunicazione altra. E, attraverso questa, rinnovare la dialettica dei rapporti tra persone e cose nella nostra società. In questo clima fin troppo benevolo, la rivisitazione partenopea dell’arte concettuale ci sembrava un modo quasi esplicito per mettere sottosopra le cose del mondo. E, insomma, per creare una fusione non banale tra etica ed estetica. Sotto queste premesse, una giovane rivista alternativa di arte – se non ricordo male si chiamava «Flash» – propose ad alcuni intellettuali di prestigio, tra cui Argan e Galasso, quattro domande solo apparentemente ingenue su arte, mercato e libertà intellettuale. Le domande (vado sempre a memoria) erano le seguenti: • che cosa è una galleria d’arte? • che cosa potrebbe essere una galleria d’arte? • che cosa non dovrebbe mai essere una galleria d’arte? • lei (l’intervistato), che mestiere fa? Il contenuto delle risposte degli invitati non lo ricordo. Ma ricordo la sensazione che davano. Erano nel complesso risposte impervie, poco credibili, che sfidavano talvolta l’umorismo involontario. Fin quando non fu pubblicata l’intervista al mio vecchio amico Leo Aloisio, un professore di logica matematica che si era occupato molto di arte contemporanea. Aloisio prese sul serio le domande. E rispose nello stesso icastico modo alle prime tre. La sua risposta era «una galleria d’arte». In sostanza, una galleria d’arte, secondo Aloisio, altro non era e non poteva essere che una galleria d’arte, e in questo c’era la sua forza e il suo limite. Alla quarta domanda, «che mestiere fa?», Aloisio rispose il «tautologo», chiudendo una volta per tutte il cerchio. Bene, da allora in poi, tutte le volte che mi sono occupato di estetica ed etica, arte e politica ecc. ho cercato di mantenere un equilibrio, precario quanto si vuole ma indispensabile, tra una pretesa radicale dell’arte e una sana prudenza del concetto. Così, quando su «Panorama», circa vent’anni fa, sostenni una visione in cui congiungevo la natura liberale della politica, una visione socialista dell’economia e una rivoluzionaria dell’arte, presentai quest’ultima con tanta cautela da renderla misteriosa. E lo stesso può dirsi per il documento che scrissi, su invito di Massimiliano Fuksas, sul tema «Less esthetics, more ethics!», in occasione di una biennale di architettura in cui lo stesso Fuksas era direttore. E per le copertine della rivista filosofica che ho fondato, «Filosofia e questioni pubbliche», studiate con Cornelia Lauf, con lo scopo di affiancare arte e politica, estetica ed etica. E per quei pochi interventi in cui mi sono permesso direttamente di commentare l’opera di un artista (meglio di un amico/a artista, come Betta Benassi). Eppure tanta prudenza non è dovuta a scetticismo. Ma, come detto, solo a rispetto per la tesi secondo cui l’opera d’arte non deve essere svelata da fuori ma deve piuttosto parlare da sola. Eppure, io credo con convinzione che l’arte sia una forma di conoscenza, come vuole tutta una tradizione di pensiero da Hegel e Croce a Nelson Goodman. E sono anche persuaso, contrariamente a Hegel e a Croce, che non si tratti di un’epistemologia minore, cui magari la filosofia è destinata a fornire un coronamento concettualmente indispensabile. Arte, per quel che credo, è conoscenza a pieno titolo. Con una potenzialità interna di destrutturare le certezze ontologiche e la pigrizia assiomatica, che altre forme di conoscenza non hanno. In fondo, da questo punto di vista siamo fortunati. Chiunque filosoficamente non ingenuo sia stato esposto a quella Chi è Sebastiano Maffettone ebastiano Maffettone è professore Ordinario di Filosofia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli. È Master of Science presso la L.S.E. e membro di numerosi comitati scientifici, tra cui la Fondazione Adriano Olivetti, la Fondazione Einaudi e la Fondazione Ernst&Young. Dirige due collane editoriali (c/o Liguori e il Saggiatore) e la rivista «Filosofia e questioni pubbliche» (LuissEdizioni). Tra le sue pubblicazioni: Fondamenti del liberalismo (Laterza, 1996); Il valore della vita (Mondatori, 1998), Etica pubblica (Il Saggiatore, 2001), La pensabilità del mondo (Il Saggiatore, 2006). S Betta Benassi, Mirage, 2005. Stampa lambda a colori, cm 27 x 40. Courtesy l’artista, Magazzino d’Arte Moderna, Roma Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 51 Santiago Sierra L’arte negata rivela molto sul tema che discutiamo oggi. L’idea stessa di reprimere la creatività e l’espressività dell’umano costituisce una premessa per la repressione dell’umano in quanto tale. Quelli della Germania nazista e della Russia stalinista sono fin troppo facili esempi in proposito temperie dell’arte visuale che – dal dadaismo a Duchamp – ha mosso queste cose, dovrebbe essere consapevole del valore cognitivo dell’arte. Se diamo per scontato qualcosa del genere, e cioè che l’arte visuale rappresenta una forma sui generis di conoscenza, bisogna vedere in che modo questa conoscenza influisce sul resto delle nostre convinzioni epistemiche ed etiche. C’è un modo pigro di risolvere questo rapporto. È il modo incentrato su decostruzione-opposizione. In questo paradigma, abbastanza popolare ma mai esplorato a sufficienza, l’esperienza estetica si contrappone in quanto tale a quella intellettuale classica, per esempio filosofica e scientifica, in quanto la prima lavora, se così si può dire, per immagini e salti logici mentre la seconda per argomenti e deduzioni. Credo francamente che una visione dl genere sia falsa e forviante. Nessuno nega – io credo – una capacità decostruttiva dell’opera d’arte. Il punto, però, consiste proprio nel vedere in che modo tale capacità interseca e corregge quella argomentativa e critica, che è propria di altre attività squisitamente cognitive dalla scienza alla filosofia. Prendiamo allora sul serio un impegno cosiffatto. Secondo questa tesi riconciliativa, l’arte epistemicamente matura non si limita a contrapporsi alla realtà esistente come un’alterità. Questa sua funzione esiste ed è importante, e dà senso all’intuizione per cui l’arte è essenzialmente antiomologazione. Ma l’arte epistemicamente matura non si limita a questo. Essa ha anche una funzione costruttiva. Oltre a opporsi al quotidiano e alla sua riproduzione banalizzante, l’arte propone e ripropone modi di vedere il mondo. Sembra evidente che, anche se si accetta una premessa ardua come questa e cioè che l’arte rappresenti una costruzione di realtà sui generis, non si sia ancora detto niente sul rap- 52 porto tra estetica nell’ottica dei diritti umani, problema cui pure questo intervento è diretto. Ma questo vuol dire solo che la premessa epistemica per cui l’arte costruisce un mondo sui generis è necessaria ma non sufficiente ad affrontare un problema etico-estetico. Sorge allora la questione: con che altro dobbiamo completare la nostra proposta per tentare di rispondere all’interrogativo di fondo sul rapporto tra etica ed estetica? Cercherò di rispondere a questa domanda in un modo che può apparire ambizioso (anche troppo…), ma che in realtà vuole essere molto semplice, direi il più semplice possibile. Se l’arte è sempre simbolo di una realtà che evoca, allora essa richiama in particolare una questione morale, che ha a che fare con i diritti umani, allorché fa appello alla creatività dell’umano in maniera esplicita o implicita. Questa espressione ha bisogno di chiarimenti. Perché è probabile che l’arte faccia riferimento sempre alla creatività umana. Fatto è però che ci sono occasioni e contesti in cui questa sovrapposizione risulta più evidente e significativa. E sono questi momenti speciali cui bisogna guardare per rispondere adeguatamente alla domanda iniziale che questa giornata ci pone. Questi momenti speciali hanno a che fare in particolar modo con la negazione. Con l’imposizione di divieti, intendo, che tendono a rendere impossibile quel compito di creazione di mondi e di affermazione della creatività umana di cui si diceva. Aristotele sosteneva che per parlare della giustizia conviene spesso partire dall’evidenza dell’ingiustizia. E Platone diceva che l’arte rischia di essere un nemico fondamentale dell’ottima repubblica. Se congiungiamo queste due tesi celebri, otteniamo qualcosa di simile a quanto io intendo dire. Certe volte, il potere presuppone che l’arte possa essere un nemico e cerca di impedirle di svolgere quel compito di esprimere creativamente il diverso, che costituisce l’essenza stessa dell’opera d’arte. Ma proprio in questi casi, sarei per dire dialetticamente, l’arte negata rivela se stessa in maniera più forte, e finisce per costituire una minaccia autentica per il potere. È in casi del genere che l’impossibilità estetica si converte in vicenda etica. Il non potere rendere conto della creatività umana diviene così il segno di una profonda violazione morale. Robert Hughes, in quella straordinaria vicenda di storia antropologica che è il suo libro The Fatal Shore, narra dei detenuti inglesi inviati a occupare quella che sarebbe divenuta poi l’Australia. L’impatto di guardie e detenuti, militari e civili britannici con le popo- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 lazioni aborigene del luogo rappresenta il cuore della prima parte del libro di Hughes. La difficoltà del rapporto con l’altro si traduce in questo caso nella difficoltà di riconoscere che l’altro ci sia. Meglio, nella sistematica negazione dell’umanità dell’altro. Questa negazione – è stato più volte notato – accompagna di regola i genocidi nella storia. I serbi non riconoscono i musulmani come umani nella ex Jugoslavia e suppongo viceversa, più o meno come i tedeschi nazisti negavano l’umanità degli ebrei. Allo stesso modo i britannici di fine XVIII secolo di Hughes negano l’umanità degli aborigeni australiani. Ma, per farlo, hanno anche bisogno di negare che gli aborigeni possiedano un linguaggio e siano in grado di produrre opere d’arte. Siccome queste due cose sono evidenti a tutti, poiché gli aborigeni parlano e sono artisti, siamo al cospetto di una negazione clamorosa. Una negazione che consente di trattare gli aborigeni come bestie. Di privarli, in altre parole, dei diritti umani. Ma la privazione dei diritti umani implica che l’arte, la possibilità stessa di produzione artistica, sia negata nella maniera più clamorosa e falsa. In sostanza, togliere capacità artistica equivale a negare l’umanità dell’altro. Come conseguenza di ciò, quanto più un potere è illiberale e totalizzante, tanto più può avere un interesse naturale a bloccare, impedire, irreggimentare l’arte. Quelli della Germania nazista e della Russia stalinista sono esempi fin troppo facili in proposito. E, lo si noti, la dittatura non nega l’arte in quanto tale ma solo un’arte libera e alternativa, come tale non controllabile. L’arte «degenerata», temuta dai dittatori, è proprio l’arte capace di esprimere la creatività dell’umano, di cui si diceva. Ed è anche l’arte epistemicamente matura. Ed è l’arte tout court alla fine della fiera. Ma, come si vede, c’è una forte relazione tra questa negazione artistica e la privazione dei diritti umani fondamentali, quali quelli alla vita e alla libertà. L’arte negata rivela quindi molto sul tema che discutiamo oggi. L’idea stessa di reprimere la creatività e l’espressività dell’umano costituisce una premessa per la repressione dell’umano in quanto tale. Molti artisti contemporanei hanno tematizzato, talvolta in maniera più diretta talaltra meno, qualcosa del genere. C’è poco dubbio che tra quelli che lo hanno fatto in maniera esplicita e riuscita ci siano William Kentridge e Santiago Serra, che espongono loro opere in occasione di «Emergenze». I disegni di Kentridge e il manifesto marxiano di Serra rivelano un impegno indiscutibile in tale direzione. Ma, per le ragioni di cui ho detto all’inizio di questo intervento, preferisco l’esperienza estetica delle loro opere a un commento. E lascio agli autori, se ne avranno voglia, l’onore e l’onere di collegare le loro intenzioni con il nostro tema. William Kentridge La scatola nera del mondo Registrare per riprodurre e non dimenticare The Black Box di William Kentridge Un teatro per l’orrore di Maria-Christina Villaseñor La necessità dell’ombra di William Kentridge Entro i limiti della sola memoria Intervista di Avishai Margalit con Giancarlo Bosetti Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 53 William Kentridge The Black Box di William Kentridge L’artista, l’opera onosciuto a livello internazionale a partire dagli anni Novanta, William Kentridge è nato a Johannesburg (Sud Africa) nel 1955 dove ancora oggi vive e lavora. Fortemente ancorato in termini etici al suo paese di origine – dove, ricordiamo, fino al 1994 erano ancora in vigore le leggi di separazione razziale (apartheid) – l’artista, con il suo lavoro, esplora la memoria personale e collettiva con opere che riflettono sul dolore ed il conflitto nella società contemporanea globalizzata. Per Kentridge il medium prediletto rimane il disegno e la creazione di film d’animazione realizzati, appunto, a partire da disegni a carboncino filmati a vari stadi della loro esecuzione. Alla fine degli anni Ottanta, infatti, inizia la realizzazione di una serie di cortometraggi intitolata «Disegni per proiezioni». Vi si narrano le vicende di un imprenditore edilizio sudafricano, Soho Eckstein, e del suo fragile alter ego Felix Teitlebaum, sullo sfondo del dramma dell’apartheid. Ispirato al drammaturgo francese ottocentesco Alfred Jarry, Kentridge sviluppa, alla metà degli anni Novanta, una serie di opere filmiche e di installazioni basate sul personaggio di Ubu Re, figura di despota ridicolo e simbolo del potere arbitrario che genera la follia. Kentridge ha creato, inoltre, insieme alla Handspring Pupper Theatre, varie produzioni teatrali, di cui è regista e scenografo, tra cui: Woyzeck on the Highveld (1992), Faustus in Africa (1995), Ubu and the Truth Commision (1996). La sua produzione teatrale è caratterizzata dal complesso modo di correlare e connettere vari livelli di rappresentazione e di narrazione: immagini proiettate vengono utilizzate come fondali, attori e marionette ritagliate in pezzi di legno ruvido stanno insieme sulla scena. Altri progetti teatrali particolarmente noti, realizzati negli ultimi anni, sono le Confessioni di Zeno, ispirato al romanzo di Italo Svevo, messo in scena nel 2002 con la combinazione di una proiezione video, di attori reali e di ombre riflesse, e il Ritorno di Ulisse, ispira- C 54 to all’opera di Claudio Monteverdi, proposto in più occasioni a partire dal 1999, con marionette, animazioni e performance dal vivo. Più recentemente ha curato, per il San Carlo di Napoli, l’opera lirica Flauto Magico di Mozart (2006). L’artista ha partecipato alle più importanti rassegne d’arte contemporanea, come Documenta a Kassel nelle edizioni del 1997 e del 2002 e la Biennale di Venezia del 1993, del 1999 e del 2005. Ha, inoltre, tenuto numerose mostre personali nei più importanti musei del mondo come il Drawing Centre ed il MoMA di New York, il Palais des Beaux Arts di Bruxelles, il MACBA di Barcellona, l’Hirshhorn Museum and Sculptur Garden di Washington e il Museum of Contemporary Art di Chicago. È vincitore nel 2003 del prestigioso premio Kaiserring. La sua prima retrospettiva in un museo italiano si è tenuta nel 2004 al Castello di Rivoli, per poi proseguire in un percorso itinerante che ha toccato i musei di Düsseldorf, Sydney, Montréal e Johannesburg. La scatola nera è simbolo di una memoria custodita, ultima traccia prima del disastro, ed è simbolo della memoria intesa come valore. Con questo lavoro Kentridge ripercorre la storia del massacro del popolo Herrero nell’Africa coloniale sud-occidentale da parte dei Tedeschi alla fine dell’ottocento per riflettere sulla cancellazione della memoria, sulla rimozione del trauma. Ma la scatola nera è per l’artista anche la scena teatrale o quella della macchina fotografica, quindi della rappresentazione, dove i piani si confondono tra realtà e finzione, manipolazione e libero arbitrio. La memoria diviene quindi il grande gioco della ricomposizione dove al trauma si contrappone la reinvenzione, alla cancellazione il revisionismo, in una dinamica che assomiglia molto alla dialettica tra arte e vita. Da pagina 53 a 58, studi per La Scatola Nera, 2005. Tecnica mista, dimensioni variabili, courtesy Deutsche Guggenheim, Berlin. Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 William Kentridge Un teatro per l’orrore di Maria-Christina Villaseñor «Il mondo coloniale è un mondo diviso a comparti». Franz Fanon, I dannati della terra eneralmente noto come scatola nera, il registratore composto da due elementi – il flight data recorder e il cockpit voice recorder – è uno strumento meccanico progettato per sopravvivere a ciò a cui gli umani non possono, fornendo trascrizioni verbali e tecniche dei disastri aerei, registrazioni che possono dimostrarsi utili per prevenire tragedie future. Sviluppata nel 1954 dal ricercatore aeronautico David Warren, il cui padre era morto negli anni Trenta in uno dei più grandi disastri aerei dell’Australia, la ARL Flight Memory Unit, come era chiamata un tempo la scatola nera, era considerata inizialmente di dubbio valore ed era vista con sospetto dai piloti, diffidenti per via della sua capacità di spiare le loro attività in cabina. Ma l’apparecchiatura venne incorporata negli aeroplani in seguito a una serie di disastri aerei avvenuti negli anni Sessanta e adesso è un elemento fondamentale nei voli commerciali. Oggi, questo strano messaggero del disastro, la cui utilità si fonda su ciò che non dovrebbe accadere – in sostanza, esso è creato per il fallimento –, è diventato una caratteristica regolare, sinistramente prevista, delle narrazioni contemporanee del dopo-disastro. L’impulso di catturare o contenere la tragedia, nel tentativo di evitarne la ripetizione, G appare al nocciolo di queste storie. La funzione documentaristica, che è al cuore della fotografia, rivela i due compiti della scatola nera: essa mostra sia gli aspetti spettacolari che quelli riservati della tragedia. Il potere di indicizzazione della fotografia – come catturato nella chambre noire – converge con le trascrizioni tragiche della scatola nera, del cockpit voice recorder. È questa capacità schiacciante, traumatica, che Kentridge cerca di racchiudere nel suo lavoro. In tutta l’opera di Kentridge si trovano scatole e altri contenitori incapaci di assolvere il loro compito principale: mantenere coperto ciò che contengono. In Felix in Exile, una valigia svolge un ruolo centrale nel dramma. Immagini di cadaveri e corpi feriti volano fuori dal bagaglio coprendo la stanza di Felix Teitlebaum, un sudafricano bianco, e incrociandosi per invadere altre scene. Mentre Felix lotta per gestire quelle immagini, Nandi, una donna sudafricana nera, osserva in maniera analitica il paesaggio utilizzando gli strumenti dell’indagine. Le immagini dalla valigia di Felix e l’obiettivo di Nandi si sovrappongono rivelando scene cruente, piene di liquidi trasudanti, sangue e acqua. Nonostante il tentativo di contenere la violenza del Sudafrica, i corpi feriti e il trauma sono ora terra della terra. Ma è anche questa infiltrazione, che rappresenta la tragedia collettiva della nazione, che riesce a unire i due personaggi. Considerando la fonte fotografica del suo immaginario per Felix in Exile, l’artista ha detto: «Una fotografia veniva dal massacro di Sharpeville. All’epoca, avevo sei anni e mio padre era uno degli avvocati delle famiglie che erano state uccise. Ricordo di essere entrato una volta nel suo studio e di aver visto sulla sua scrivania una scatola della Kodak, larga, piatta, gialla, la aprii – sembrava una scatola di cioccolatini. All’interno c’erano immagini di una donna la cui schiena era esplosa, di una persona di cui era visibile solo metà testa. L’impatto di quelle immagini, viste per la prima volta – quando avevo sei anni –, lo shock furono immensi». Le nozioni di contenimento – di ciò che forma il significato e ospita effettivamente il ricordo, di ciò che noi scegliamo o siamo capaci di conservare a seguito di un trauma o di una perdita – sono richiamate alla mente anche nella recente serie di proiezioni di Kentridge sugli oggetti. In Sleeping on Glass (1999), viene mostrato un video proiettato sullo specchio di un’antica cassettiera in uno spazio distante dalla parete, con la sua presenza spettrale che risplende anche quando la proiezione ha svolto il suo ciclo. La presenza, allo stesso tempo imponente eppure confortante, dell’opera suggerisce il ruolo che gli oggetti quotidiani svolgono nell’infanzia, quando qualsiasi oggetto può trasformarsi in un orco e una coperta può calmare e riscaldare quasi come un genitore. Allo stesso modo, nella video-scultura Medicine Chest (2001), un video proiettato all’indietro sullo specchio di un armadietto dei medicinali, un altro contenitore quotidiano, opera come una metonimia. Il video ritrae alternativamente l’interno della Chi è Maria-Christina Villaseñor aria-Christina Villaseñor è associate curator di Film and Media e cura mostre di film e media art per il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, oltre che per i musei Gugghenheim di Berlino e Bilbao. Tra i progetti che ha curato di recente per il Guggenheim ci sono le mostre William Kentridge: Black Box/Chambre Noire, In the Air: Projections of Mexico e Bill Viola: Temporality and Transcendence. È stata anche guest-curator dei programmi media di numerose organizzazioni come Creative Time ed Exit Art, e ha organizzato e portato in tour programmi filmici a livello internationale in luoghi come l’Havana International Film Festival, il Museo de Bellas Artes di Buenos Aires e il Febio Fest di Praga. Scrive di film, video e fotografia per riviste e recentemente ha curato un catalogo di William Kentridge ed è stata co-autrice/curatrice dei cataloghi Conversations between Shadows and Light: Italian Cinematography, e Tom Sachs: Nutsy’s. Tra i comitati e le giurie in cui ha lavorato ci sono la giuria del Premio Hugo Boss, il media fellowship panel della Fondazione Rockefeller, il documentary panel del National Endowment for Humanities, e la giuria dell’Accademy of Motion Picture Art and Science’s Student Awards. M Studio per il Flauto magico, 2005 tecnica mista (particolare) Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 59 William Kentridge Nel Black Box, Kentridge esplora le difficoltà nella rappresentazione del trauma storico, nella ricostruzione di eventi e persone attraverso le lenti di un tempo, un luogo e una politica particolari, sia per mezzo dell’apparato cinematografico che della pseudoscienza sulla razza Studio per La Scatola Nera, 2005. Tecnica mista, courtesy Deutsche Guggenheim, Berlin scatola (e gli oggetti sui suoi scaffali) e il suo insieme esteriore, affrontando le ansie personali attraverso autoritratti dell’artista che vediamo come «immagini riflesse» nello specchio. Protagoniste di una danze sineddotica – una parte per il tutto, o il tutto per una parte –, esse chiedono se si possa mai catturare pienamente, completamente una qualsiasi cosa. Il trauma recede mai davvero? Può essere contenuto? La storia che incombe di più nell’opera di Kentridge è il rapporto complesso, profondamente intrecciato tra l’Europa e l’Africa, il rinoceronte nella stanza, per così dire, una presenza che non può mai essere ignorata. La serie Drawings for projections di Kentridge e opere come Ubu Tells the Truth trattano specificatamente delle storie del Sudafrica, ma Kentridge ha affrontato anche in maniera più ampia l’impegno problematico dell’Occidente nel continente e con il concetto di Africa. L’opera teatrale del 1995 Faustus in Africa! era, in parte, intesa come una replica all’asserzione hegeliana secondo cui, fatta eccezione per l’Egitto, l’Africa era un continente fuori dal corso della storia, privo dello spirito del mondo. Nella rappresentazione, Kentridge ha trasposto il Faustus di Goethe (1808/1832), in un contesto coloniale africano. Combinando frammenti del classico di Goethe a nuovi testi del poeta sudafricano Lesego Rampolokeng, Kentridge ha inteso «individuare un luogo dove la rappresentazione smette di essere un’alterità scoraggiante – il peso dell’Europa che poggia sulla 60 punta meridionale dell’Africa – e diventa un’opera nostra». Kentridge ha esaminato la difficoltà di trattare dell’apartheid. Riferendosi a esso come alla «roccia», l’artista ha affermato: «Non si può affrontare la roccia frontalmente. La roccia vince sempre». L’interesse dell’artista per la tirannia della storia e l’onnipresenza della roccia, con la sua solidità che implica un’impasse, è certamente in discussione in un elemento del contenuto di Black Box: il massacro della tribù herero nella Africa coloniale sudoccidentale. Considerato da alcuni storici il primo genocidio del XX secolo, il massacro tedesco degli herero nell’Africa sudoccidentale ebbe come risultato quasi l’annientamento della tribù. Nel 1885 l’Africa sudoccidentale (ora Namibia) divenne un protettorato tedesco. La Rhineland Missionary Society, tra le prime a iniziare le attività di colonizzazione nella regione, tentò inizialmente di convertire i popoli nativi al cristianesimo, e proseguì con la creazione di fattorie e, infine, impadronendosi della terra. L’obiettivo esplicito del Ministero delle Colonie tedesco era mantenere la pace nella regione, ma esso sosteneva anche – e, alla fine, incoraggiava – l’ulteriore insediamento da parte dei bianchi. L’obiettivo venne raggiunto, in parte, con espropriazioni dirette della terra herero, trattati fraudolenti e pratiche usurarie che portarono gli herero a cadere in un circolo di debiti sempre crescente che, in genere, ebbe come conseguenza la perdita del loro bestiame e delle loro proprietà. Man mano Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 che i coloni usurpavano ed espropriavano la loro terra, la frustrazione degli herero cresceva. Samuel Mahareru, il capo degli herero che era stato considerato dai tedeschi un collaboratore condiscendente, subì le pressioni della sua comunità a rispondere alle ingiustizie crescenti. Nel 1904, ordinò ai suoi sottoposti di attaccare direttamente i dominatori tedeschi dando esplicite istruzioni di evitare di uccidere donne, bambini, missionari, coloni inglesi, boeri e membri di altre tribù. La rivolta degli herero colse i coloni completamente di sorpresa. Si stima che vennero uccisi circa 150 tedeschi, in larga parte agricoltori; gli herero riuscirono a scacciarli dalla loro terra e a catturare il loro bestiame. Sbalorditi da questi sviluppi, i tedeschi prepararono un deciso contrattacco. Il Kaiser nominò a guidare la lotta il generale Lothar von Trotha, noto per la sua durezza nel reprimere le rivolte nell’Africa orientale e in Cina. Trotha articolò le sue opinioni sul conflitto herero nella lettera che segue: «Per me c’è solo una domanda: come mettere fine alla guerra? Le idee del governatore e degli altri uomini d’Africa sono diametralmente opposte rispetto alle mie. Per lungo tempo hanno voluto negoziare e hanno insistito che gli herero erano una materia prima necessaria per il futuro della terra. Sono totalmente contrario a questa opinione. Credo che la loro nazione in quanto tale vada distrutta o che, ove questo non fosse possibile da un punto di vista militare, allora gli herero vadano cacciati dalla loro terra. Lo si può fare occupando i pozzi d’acqua da Grootfontein a Bobabis e con una vigorosa attività di pattugliamento che fermi coloro che cercano di spostarsi verso occidente e li annienti gradualmente… Questa rivolta è e rimane l’inizio di una guerra razziale». Per sfuggire al massacro che seguì, molti degli herero fuggirono nel deserto Omaheke tentando di raggiungere la salvezza. Questo percorso di fuga venne anticipato e incoraggiato dai tedeschi. Le condizioni climatiche estremamente dure dell’Omaheke causarono migliaia di morti, che si andarono ad aggiungere al numero già significativo di coloro che erano stati uccisi direttamente dalle truppe. Nonostante le contestazioni dei tedeschi, sia in colonia che in patria, alle misure genocide di Trotha, quest’ultimo non William Kentridge Nell’esplorazione metaforica del teatro di Kentridge, la camera oscura e il registratore di volo, la flessibilità e la fissità sono chiamate in causa allo stesso modo. Resistendo alla chiusura, l’opera problematizza semplificazioni della storia utilizzando termini rigidi del passato e del presente venne rimosso dal comando fino al 1905, familiare che «sarebbe dovuto restare nasco- zioni semplicistiche della storia utilizzando dopo che il 75% della popolazione herero sto ma è venuto alla luce» nella definizione termini rigidi del passato e del presente, della era stata decimata. di Freud di perturbante, l’opera di Kentridge vittima e di colui che vittimizza, dello spettaNel 1914 il Sudafrica prese il controllo del- lotta per contenere queste storie di lutto e colo e dello spettatore. l’Africa sudoccidentale e governò con la trauma. Degli ideali dell’era illuminista che, per priforza fino a che la Namibia non ottenne l’in- I concetti di elaborazione del lutto, con una mi, hanno condotto al concetto di Black Box dipendenza nel 1990. Questo dato storico si particolare attenzione all’«elaborazione», o di Kentridge uno in particolare, infine, richielega all’identità sudafricana di Kentridge processo, sono state utilizzate recentemente de di essere riesaminato: il suggerimento di spingendolo a mettere in dubbio le nozioni per analizzare le nazioni che lottano per ve- Cartesio secondo cui gli animali non sono di di complicità, espiazione e dolore. Black Box nire a patti con traumi sia recenti che rimos- ordine più elevato di macchine sofisticate, esplora le difficoltà inerenti alla rappresen- si. Il lavoro dello studioso James E. Young sui che la carne, le ossa e le giunture del loro tazione del trauma storico, alla ricostruzione memoriali del dopo Olocausto si concentra corpo possono essere sostituiti da acciaio, pidi eventi e persone attraverso le lenti di un su una generazione di artisti del dopoguerra stoni o ingranaggi. Questa scivolosa allegoria tempo, un luogo e una politica particolari, che considerano un monumento «una grande potrebbe facilmente essere estesa ai corpi di sia per mezzo dell’apparato cinematografico roccia che dice alla gente cosa pensare». La certi umani, a chiunque capiti di essere atche delle costruzioni pseudoscientifiche roccia, inamovibile e permanente, nella for- tualmente soggiogato dalla classe di uomini della «razza». Ancora una volta, non c’è mulazione di Young come in quella di Ken- dominante, «cogitante». Dagli automi-marioimmobilità al di fuori dell’opera di Kentrid- tridge, crea uno spazio fisso, limitato, per il nette ai rinoceronti agli herero, non ci vuole ge. Black Box ci coinvolge nel nostro crede- ricordo ma è necessaria invece, una medietà, niente più che una semplice trasposizione. re e non credere, nella nostra meraviglia e un porre-in-essere, che non parla in termini Nelle nostre «rappresentazioni» – che siano nella nostra fredda intelligenza, nel buio e rigidi di passato e presente. L’opera di Ken- maquettes/teatri in miniatura, proiezioni di nella luce. Il ciclo si ferma solo per iniziare tridge offre questo nuovo spazio al significa- un Altro esotico o sogni di «perfezione» in cui di nuovo; è in perpetuo movimento. to, come ha auspicato il teorico Homi Bhab- automi senza volontà individuale seguono lo Kentridge ritorna al tema del contenimento ha, al di là delle dicotomie, estendendo il pro- scritto di un grande autore – ogni apparato, della tragedia in un dipinto per Black Box, cesso dialettico alla creazione di un «terzo ogni strumento, alla fine, trova la propria una resa bianca su carta nera di una sorta di spazio» che sfida e capovolge costantemente funzione, il proprio uso ideologico. Il teatro uomo-megafono, che urla la parola «Traue- le nozioni di fissità in un esame auto-riflessi- dei sogni diventa teatro di guerra e sta all’arrarbeit». Trauerarbeit, o «elaborazione del vo del processo e della possibilità. tista e allo spettatore scisso decostruire e colutto», è un concetto sviluppato da Sigmund I temi dell’agenzia e della volontaria sospen- struire continuamente nella loro mente: terFreud in Lutto e melanconia (1917) quando sione dell’incredulità sono al cuore di Black minare e iniziare, mantenere la storia, la mediscuteva della necessità di riconoscere uno Box. Nell’esplorazione metaforica del teatro moria e le domande in movimento. spazio per il lutto. Freud articolò quest’idea di Kentridge, la camera oscura e il registratoDa William Kentridge, Black Box/Chambre Noire, in un periodo in cui la morte, il morire e le re di volo, la flessibilità e la fissità sono chia- 2005, catalogo mostra Deutsche Guggenheim, pratiche e i costumi del lutto erano general- mate in causa allo stesso modo. Resistendo Berlino. mente rimossi dall’ostentazione e dalla dis- alla chiusura, l’opera problematizza costru(Traduzione di Martina Toti) cussione pubbliche. Come ha scritto Tammy Clewell, Studio per La Scatola Nera, 2005. Tecnica mista, courtesy Deutsche Guggenheim, Berlin «Freud ha resistito a questa repressione culturale della perdita definendo il lutto un’elaborazione necessaria, teorizzando la psiche come spazio interno per l’elaborazione del lutto e portando la discussione della perdita nel dominio pubblico». Comunque, in Lutto e melanconia, Freud concepì un periodo di lutto, in un tempo circoscritto. Tuttavia, nel rivisitare il tema del lutto in scritti successivi alla prima guerra mondiale e in L’Io e l’Es (1923), egli rivide radicalmente il suo pensiero precedente postulando allora che l’elaborazione del lutto è un lavoro costante, senza fine. Questo rovesciamento – Trauerarbeit come scatola che rifiuta di restare chiusa – è simile alla metodologia del rovesciamento di Kentridge e alle sue strategie del (non)contenimento. Come il Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 61 William Kentridge La necessità dell’ombra di William Kentridge a capacità dell’ombra di trasformarsi è una delle qualità fondamentali per comprenderla. Quando si vede un’ombra, le si ascrivono le caratteristiche di una sorta di oggetto solido. Si immagina che abbia una dimensionalità, quando, in effetti, l’essenza delle ombre è la mancanza di dimensione. Questo porta al progetto che realizzerò a Berlino. La trasformazione delle ombre, il cinema degli esordi, la vaudeville dell’epoca, che era praticata in tutta Europa e anche negli Stati Uniti sono alcune delle forme che esaminerò in Black Box. Considererò, tuttavia, queste prime forme con il senno di poi, tornando a guardarle come se fossero un progetto illuminista. Chiederò: quale conoscenza abbiamo oggi, e quali lezioni abbiamo imparato – ora che non è più il 1791 quando Mozart scrisse la sua opera? Berlino, per me, è particolarmente interessante. Pensiamo alla Conferenza di Berlino del 1884-85, in cui, tra le altre cose, l’Europa spezzettò l’Africa, dividendola tra le varie potenze europee. Sono particolarmente interessato ai tedeschi nell’Africa meridionale, quella che all’epoca era conosciuta come l’Africa sudoccidentale, la Namibia. I missionari e i commercianti tedeschi arrivarono a colonizzarla nell’ultima parte del XIX secolo e chiesero il L sostegno di Bismarck. Dapprima riluttante, la Germania inviò le proprie truppe in loro sostegno e, alla fine, l’Africa sudoccidentale venne dichiarata una colonia tedesca. L’idea del colonialismo e la giustificazione che l’Europa diede alle proprie azioni hanno molto a che vedere con il Flauto magico e con Platone – con il portare la luce in quello che era definito il «Continente nero», con la forza o senza. E, ovviamente, quello che si apprende dalla storia dell’Africa sudoccidentale, in effetti dalla storia di tutto il colonialismo, è la straordinaria violenza e la distruzione degli ideali originali che necessariamente seguirono ai tentativi di metterli in atto attraverso l’uso della forza. Nei primi anni del XX secolo, nell’Africa sudoccidentale, ci fu un enorme massacro, principalmente della tribù degli Herero. Sebbene ora sia un episodio quasi dimenticato, messo in ombra da altri massacri e genocidi tedeschi compiuti più tardi nello stesso secolo, in molti modi i meccanismi dei massacri europei successivi erano già riscontrabili nell’Africa sudoccidentale a inizio secolo. I teschi delle vittime venivano lavati, puliti e spediti in Germani per essere misurati, per dimostrare la superiorità dei teschi «ariani». Lo studio dell’antropologia fisica venne istituito in Germania ben prima che i nazisti giungessero al Disegno per Il Flauto Magico, 2005. Carboncino e pastello su carta 120 x 160 cm potere. C’è anche una serie di questioni relative alla storia dell’Africa meridionale e alla fine dell’illuminismo – o alla fine, ai costi, dell’Illuminismo – che diventeranno materiale grezzo per Black Box. In parte questo dipende dalla natura dell’allontanamento dalla certezza della luce solare che incontriamo una volta usciti dalla caverna nel regno che può essere illuminato attraverso le ombre. Ci si chiede cosa possa essere chiarito attraverso l’oscurità delle ombre. Uno degli ossimori che sto utilizzando qui è quello dell’ombra che illumina. Se si ha un’immagine e un’ombra attraverso di essa si inverte quella che è la luce e quello che è il buio, e l’ombra stessa funziona come una sorta di faretto. Inoltre, in Black Box gioco con tre gruppi di associazioni. La prima è la scatola nera del teatro. L’installazione consiste in un modello di teatro che ospita proiezioni e personaggi. I personaggi sono piccoli automi – oggetti meccanizzati (e non necessariamente antropomorfi) che recitano, insieme alle proiezioni, all’interno di uno spazio teatrale. Così il primo riferimento è alla «scatola nera» del regno della rappresentazione. La seconda associazione della scatola nera è la chambre noire – la camera centrale di una fotocamera tra la lente e l’oculare – attraverso cui entra la luce e dove viene creato un tipo di significato. Qui entrano le infinite possibilità del mondo esterno ma viene scelta una singola immagine, fissata sul piano. Il terzo riferimento è alla registrazione dei dati di volo che viene utilizzata per tracciare gli ultimi momenti prima di un disastro aereo. E il disastro a cui mi riferirò – sebbene non andrò necessariamente a descriverlo né a enumerarne in maniera didascalica le fasi – è il massacro tedesco del popolo Herero nell’Africa sudoccidentale. Quello che abbiamo fatto finora è stato cercare e trovare la forma – la sagoma – del teatro, la natura del teatro e il tipo di oggetti che vi opereranno. Anche Black Box esce dal Flauto magico, come ho descritto. Ma il Flauto magico suggerisce il momento utopistico dell’Illuminismo, mentre Black Box rappresenta l’altro estremo dello spettro. Da William Kentridge, Black Box/Chambre Noire, 2005, catalogo mostra Deutsche Guggenheim, Berlino. (Traduzione di Martina Toti) Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 William Kentridge Entro i limiti della sola memoria Intervista con Avishai Margalit di Giancarlo Bosetti roppa memoria o troppo poca? Hrant Dink, un bravo giornalista è stato ucciso perché scriveva per ricordare il genocidio armeno, il Nobel Orhan Pamuk è stato costretto a lasciare la Turchia; era minacciato per la stessa ragione. I rapporti tra l’Italia e la Croazia ancora entrano in subbuglio per una dichiarazione del Presidente italiano sulle foibe e le vittime dei partigiani di Tito di sessant’anni fa. Nel discutere dell’etica della memoria non ci sono solo le colpe del dimenticare e i meriti del ricordare, ci sono anche colpe e meriti opposti: distruggere gli archivi qualche volta appare giusto (come nel caso della Stasi, la polizia segreta dell’ex Ddr), più spesso sicuramente no. In Sudafrica sono stati e sono necessari riti della memoria e della riconciliazione, riti che aiutino anche a perdonare. A declinare i risvolti etici e morali del ricordo e dell’oblio è il filosofo israeliano Avishai Margalit autore del libro, L’etica della memoria, pubblicato dal Mulino. T Lei distingue l’etica e la moralità, il vicino e il lontano. Quali sono le premesse da cui prende alla base della sua etica della memoria? L’etica, intesa nel suo senso socratico, indica come dovremmo vivere le nostre vite, la morale come dovremmo viverle insieme agli altri, senza alcuna distinzione tra il vicino e il lontano. La Sittlichkeit (eticità) di Hegel, in un certo senso, è la legge convenzionale, o meglio, l’etica convenzionale di una comunità. Io elaboro una distinzione diversa. La mia idea fon- damentale circa l’etica e la moralità non riguarda la questione di come dovremmo vivere le nostre vite, ma di quale rapporto intendiamo avere con gli altri. Esistono due tipi di relazioni: da un lato ci sono quelle che io definisco spesse – con la famiglia, gli amici, gli amanti -, dall’altro ci sono quelle che definisco sottili, con esseri umani estranei, persone con cui non siamo in contatto diretto. Sulla base di queste relazioni si sviluppano nozioni diverse: ad esempio, l’idea di tradimento e quella di infedeltà sono etiche e non morali, perché implicano rapporti spessi; al contrario, i concetti di imbroglio e menzogna appartengono alla dimensione morale e si riferiscono a rapporti sottili. E questa distinzione vale anche nel campo della memoria. Questa prospettiva accentua l’importanza della comunità. Non è una tesi comunitarista, «communitarian», come dite in inglese, in contrapposizione a liberale e universalista? Non penso. Con i «communitarians» c’è una certa affinità, ma non una vera e propria coincidenza di idee. Tutto quello che dico è che esistono due tipi di relazioni umane e l’obbligo di ricordare non è morale ma etico. Cerco di fare della memoria e delle comunità di memoria delle unità basilari. I concetti di nazione e comunità dipendono dalla memoria. Penso che tutte le discussioni su cosa sia una nazione e cosa sia un’etnia, se una nazione si fondi sull’etnicità o meno, dovrebbero essere conseguenti alla nostra idea di condividere l’appartenenza alla stessa comunità di memoria con alcune persone piuttosto che con altre. Un’identità di gruppo dipende dalla comunità di memoria. Oggi le connessioni etiche e morali sembrano essere diventate più volatili. L’arte e la letteratura stesse cercano di comprendere questa tendenza a dimenticare che sembra caratterizzare la mentalità contemporanea e tentano di contrastarla. Si tratta di un’impressione sbagliata? Forse tutte le epoche pensano di dimenticare troppo facilmente? Molto dipende dalla sensibilità moderna, che è orientata al futuro piuttosto che al passato, e crea, quindi, comunità con destini futuri, secondo quella che fu l’originaria idea americana. Il passato, perciò, è più una minaccia che una promessa, perché significa privilegi, guerre civili, sconfitte, persino incubi. Credo, però, che si tratti di un atteggiamento sbagliato perché nulla può davvero essere significativo e denso senza un riconoscimento del passato. Perciò, una politica attiva dell’oblio è una politica sbagliata, dimenticare è una cattiva idea. Perdonare è una cosa diversa: significa non agire sulla base del passato. È questo quello che intende quando nel suo libro parla dei documenti della Stasi in Germania, delle situazione di transizione? Sì, è così, in una giustizia di transizione non si può agire sui documenti della Stasi, su quello che era accaduto nel passato come se fossero reati, crimini e tradimenti presenti. Intendo dire che esiste un legame forte tra amnistia e amnesia, ma io sono per l’amnistia e non per l’amnesia, per il perdono e non per l’oblio. A volte, però, è la memoria stessa che non permette di Chi è Avishai Margalit vishai Margalit è professore di Filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme. Fra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: La società decente (Guerini e Associati, 1998), Volti d’Israele (Carocci, 2002), Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici (con Ian Buruma, Einaudi, 2004), L’etica della memoria (Il Mulino, 2007). A Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 63 William Kentridge «Gli incubi di Primo Levi sono stati importantissimi. Nonostante le sue indicibili sofferenze, penso sia stato cruciale che Levi abbia comunicato a tutti noi le sue angosce e i suoi pensieri. Credo che non bisogna dimenticare, ma che, allo stesso tempo, non bisogna agire sulla base della memoria e del ricordo» perdonare, lei afferma che la memoria non porta necessariamente alla Riconciliazione. Qual è allora il punto di equilibrio tra ricordare il passato e avanzare verso un futuro più pacifico? In genere, quando si dice a qualcuno «dimenticatene» è un’esortazione a ricordare. Dire a noi stessi di dimenticare non è una garanzia, perché dimenticare non è qualcosa che si fa a comando. La questione è quale tipo di politica si desidera. È una cosa nobile voler superare vecchi ricordi cattivi, ma credo che chiedere a una comunità di memoria di dimenticare indebolisca i rapporti su cui la comunità è stata costruita. Per questo motivo, penso che la prima cosa da fare sia lottare con la memoria, e non cercare attivamente di dimenticare. Se i ricordi sono un fardello troppo pesante per la propria vita, se si è perseguitati da cattivi ricordi come da cattivi incubi, è un pro- blema che riguarda la terapia non la moralità. Lei cita il caso di Primo Levi e della sua tormentata memoria dell’Olocausto. Come possono gli incubi della memoria aiutare il perdono? Credo che gli incubi di Primo Levi siano stati importantissimi. Nonostante le sue indicibili sofferenze, penso sia stato cruciale che Levi abbia comunicato a tutti noi le sue angosce e i suoi pensieri. Se fosse esistita una pillola dell’oblio e qualcuno gliel’avesse data, sarebbe stata una perdita terribile per tutta l’umanità, per noi tutti, dato che gli incubi di Primo Levi, per quanto dolorosi, erano estremamente significativi. Di nuovo, credo che non bisogna dimenticare, ma che, allo stesso tempo, non bisogna agire sulla base della memoria e del ricordo. Perché sostiene che, in questo momento, non è possibile avere una memoria collettiva dell’umanità e che possono esserci solo diverse comunità di memoria e non una memoria globale? Il mondo non è un’unica comunità. Intendo dire che ci sono alcuni eventi che ritengo vadano ricordati dall’intera umanità, si tratta di casi esemplari, di insuccessi umani generali, come Hiroshima, Auschwitz, Buchenwald, i gulag. Ma ogni comunità ha la propria memoria; la memoria dell’Europa e quella dell’Indonesia sono diverse e non si possono diluire in modo che gli europei e gli indonesiani abbiano gli stessi ricordi. E per quanto riguarda comunità differenti che hanno memorie diverse per uno stesso passato? Credo che sia un dato di fatto della nostra vita: gli individui hanno ricordi diversi del loro passato. La questione acquisisce rilevanza politica quando si ha un passato conteso tra due comunità, che sono intime nemiche, come nel caso degli israeliani e dei palestinesi, degli ebrei e degli arabi o dei polacchi e dei tedeschi. Penso che, avvertito il conflitto politico, le due comunità che si contendono la memoria debbano affrontare il passato insieme, in modo da evitare irredentismi futuri. Qualcuno propone il modello del Sud Africa; lei nel suo libro cita la Commissione per la Verità e la Riconciliazione. È difficile trovare un equilibrio tra giustizia, perdono e oblio. Esiste una guida? Ho sempre avuto una fantasia: riunire storici provenienti da comunità diverse che rivendicano un passato conteso in un unico istituto di modo che possano lavorare su una storia condivisa e arrivare a una versione o a più versioni trasversali che non seguano le linee dell’appartenenza etnica. Come risultato si avrebbe un breve manuale da far studiare nelle scuole. Credo che il modo migliore per affrontare un passato conteso sia attraverso il lavoro degli storici. Il resoconto storico fa parte della lotta, per 64 Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 questo è molto difficile per le due fazioni fare i conti con il passato. Credo, però, che sia ora che gli storici entrino in campo. Intende dire che gli storici dovrebbero avere un ruolo politico? Possono avere un ruolo come storici, non come politici. Compio una precisa distinzione tra politica della memoria ed etica della memoria. La politica della memoria è data da tutti gli stratagemmi e gli strumenti che i governi o i vari poteri utilizzano per gestire la memoria, per creare delle fazioni della memoria. Oggi si scrive molto della politica della memoria, con un proliferare di saggi e testi. A me, invece, interessava meno la politica e più l’etica della memoria. La questione di come affrontare il passato, di quale sia il metodo migliore per farlo, riguarda più la politica della memoria e, per questa ragione, il mio consiglio è, in molti casi, lasciare che se ne occupino gli storici. Abbiamo parlato di Primo Levi e dell’importanza del suo contributo alla nostra memoria collettiva. Abbiamo anche detto che nell’età contemporanea si è più orientati al futuro che al passato. Tuttavia, nell’arte contemporanea c’è un forte interesse a ricordare. Qual è il contributo che l’arte contemporanea può offrire alla memoria? Penso che l’arte possa avere un’enorme forza, perché gran parte del ricordo collettivo è nell’immaginario. Monumenti storici e opere artistiche e, in generale, tutta l’arte visiva, non solo la scrittura, sono così vividi e forti da modellare la memoria collettiva. In genere, sono anche oggetti controversi, che non piacciono a tutti. Personalmente non attribuisco compiti all’arte, che ha già moltissimo da fare, ma credo che l’etica della memoria debba prestarle particolare attenzione perché gli artisti fanno parte di coloro che dovrebbero veicolare la memoria collettiva, sono come sciamani della comunità di memoria. (Con la collaborazione di Martina Toti) Kutlug Ataman Panopticon a Istanbul L’occhio e la politica, invasione mediatica e controllo delle coscienze Küba di Kutlug Ataman Un manuale per chi guarda Dialogo tra Kutlug Ataman e Marco Belpoliti L’orrore in diretta della guerra di Antonio Somaini Mappa mediatica dell’emergenza di Francesco Casetti Spettatori, sorveglianti o sorvegliati? di Roberto Escobar Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 65 Kutlug Ataman Küba di Kutlug Ataman L’artista, l’opera ato ad Istanbul nel 1961, Kutlug Ataman, studia cinema a Parigi e Los Angeles. Con il suo primo lungometraggio Serpent’s Tale (1994) partecipa a diversi festival internazionali. Di nuovo a Istanbul, dove vive e lavora, è diventato uno degli animatori del movimento di liberazione gay in Turchia. Le sue videoinstallazioni descrivono individui spesso ai margini della cosiddetta normalità. Sospeso tra fiction e documento, il suo lavoro utilizza la narrazione per esplorare la fragile natura dell’identità personale e parlare di temi quali malattia, maltrattamenti, abusi, così come di amori, scelte e sacrifici. «Tutti i miei soggetti sono come una naturale estensione di me stesso. Non filmo persone solo perché sono interessanti, ma perché hanno i miei stessi problemi, le mie stesse ossessioni». Parlare diventa l’evento primario. Nei lavori di Ataman i personaggi si raccontano senza pudore in lunghi monologhi davanti alla telecamera. Il tema dell’identità di genere diventa occasione per un’indagine su quella politica e sociale: l’identità non è qualcosa che possediamo, possiamo al massimo indossarla durante il giorno e depositarla ai piedi del letto la sera. Proprio come in Women who wear wigs (1999), dove quattro donne, accomunate dal fatto di indossare una parrucca, raccontano la loro vita e la loro femminilità celata, ora da una mascolinità mal digerita, ora da un chador, ora da un tumore. In questo inumano lavoro di ripresa – oltre 60 ore di video – si possono cogliere sempre e solo spezzoni: per quanto ci si soffermi davanti a Never on My Soul (2005), in cui vediamo una giovane transessuale che si depila, fuma, ricorda, non saremo mai in grado di coglierne la personalità. Siamo condannati a essere esclusi. Come in Martin is Asleep (1999), dove un uomo addormentato proiettato in video su un letto in miniatura ci fa sentire così tanto grandi e impotenti, che ancora una volta N 66 dobbiamo riconoscere la nostra incapacità di avvicinarci a ciò che è straniero. Kutlug Ataman ha tenuto numerose personali in giro per tutto i principali musei del mondo. Tra le sue partecipazioni internazionali ricordiamo Manifesta 2 (1998), La Biennale di Venezia (1999), La Biennale di Berlino (1999), Documenta 11 (2002), la Biennale di Istanbul (2003). Nel 2004 è stato nominato al Turner Prize, nello stesso anno ha vinto il Carnegie Prize con la monumentale video installazione Küba, presentata poi a Londra nel 2005 per Artangel. In aprile parteciperà alla mostra SNAFU Medien, Mythen, Mind Control, Hamburger Kunstalle, Amburgo. Küba è il nome di un quartiere di Istanbul non riportato su nessuna mappa ufficiale. È una sorta di «presenza assente» dove vive una comunità eterogenea di turchi, curdi, fondamentalisti religiosi, dissidenti politici ed emarginati in genere, uniti dal destino comune del loro status di isolamento ed esclusione. I quaranta monitor che costituiscono l’installazione di Ataman raccolgono altrettanti racconti e testimonianze di vita degli abitanti del quartiere. Percorrendo l’installazione il visitatore ha la possibilità di ricostruire attraverso i frammenti dei racconti orali, una propria e personale immagine di questo luogo che è simbolo della diaspora e dell’atopia. La frammentarietà dell’opera sottolinea la de-costruzione e scomposizione dell’immagine del luogo che si ricompone solo nell’immaginario di ognuno. Da pagina 65 a 69. Küba (Installazione per la 54th Carnegie International al Carnegie Museum of Art. Pittsburgh), 2004. © Copyright Carnegie Museum of Art, 2004. Photo credit: Tom Altany Photography, 2004. Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 BAHRI Io fui il primo. Non c’era nessuno qui. Non c’era nessun Tozkoparan. Non c’era nessun Merter. C'era un agente immobiliare, aveva una casa. Era l’unica casa a Merter. In genere vendeva terra. A Merter... Qui, Menderes lo ha portato. lo ha dato a qualcuno. Ha scaricato un po’ di polvere, qualche pietra, E rimase così. Non c’era nient’altro qui. Allevavo capre qui. EMINE Due figli e una figlia. Li ho cresciuti. Abbiamo visto tanta povertà. Spesso svenivano. Io non aveva nulla. Prendevano il denaro da me per andare a comprare alcol e sigarette. Quanto ho sofferto. Oh Dio quanto ho sofferto. Dovevo fare l'elemosina nei supermercati. Sono morti di eroina. Sono morti uno dopo l’altro. A soli due mesi e mezzo di distanza. Durante le vacanze. Le vacanza sarebbero iniziate al mattino. UGUR Io lavoro a Soganli. Esco alle tre del mattino, cammino da qui a Soganli. La paura più grande della mia vita sono i cani. Vicino alla fabbrica di birra Efes Pilsen, ci sono almeno cinquanta cani là. Sono felice quando cammino giù per quella strada. Vai lì, un cane si avvicina,scappi, Ho paura. Ho paura ma lo faccio. Ho paura di azzuffarmi. Provo una grande paura di azzuffarmi con le persone. Perché lui farà male a me e io farò male a lui. KADRIYE La mia famiglia si è ammalata. Io stesso mi sono ammalato. Tutti i miei soldi se ne sono andati per via della malattia. Il mio braccio destro, il mio braccio sinistro, Il mio braccio destro era paralizzato. Ho sofferto per due o tre anni. Grazie a Dio sono migliorato. Sono stato in un ricovero. Sono stato nell'unità alcolisti. Sono stato lì per dieci anni. Una volta, cercai di uccidere Mia figlia e mio cognato. In altre parole, ho sofferto molto. Ho lavorato da quando avevo sette anni. Da quando avevo sette anni. Ora ne ho settantuno. Quanti anni sono? Ho lavorato per sessantasei anni. MIZGIN Quando mi sposerò non avrò bambini. Temo di non riuscire a badare a loro. Quando le persone li picchiano, loro soffrono. Ieri ho urlato a mia madre, «Perché mi hai tenuto, vorrei che non lo avessi fatto. Sarebbe stato meglio se fossi morta. Sarebbe stato meglio per te.» Lei prega che io muoia. Mi picchia quando sono a letto in modo da non fare rumore. Mi mette a letto. Mi fa dormire sul pavimento di cemento. Allora mi ammalo. Ma non posso dirlo a mio padre. Viene qualcuno, lei si agghinda Come una sposa. Traduzioni di Martina Toti Kutlug Ataman Un manuale per chi guarda Dialogo tra Kutlug Ataman e Marco Belpoliti taman: Posso affermare abbastanza tranquillamente che la maggior parte del mio lavoro è consistita nella realizzazione di una realtà documentaria; ha riguardato il montaggio, e soprattutto la costruzione della persona, di un soggetto reale, dal punto di vista documentario, che costruisce se stesso davanti alla telecamera con tutte le implicazioni che ciò comporta: il mondo che percepiamo è davvero quello che pensiamo che sia? Perché la maggior parte delle informazioni che ci arrivano vengono dai media e, nella storia dell’immagine filmica, abbiamo questo dualismo tra presentazione e rappresentazione, documentario e fiction? Quali sono i modi migliori di rendere la realtà? La fiction è qualcosa creata da Hollywood: dovremmo essere consapevoli dei suoi meccanismi (come Brecht o come nel teatro Strehler di Milano)? Queste sono domande che sono state poste nella storia del teatro, del cinema, del documentario e, sostanzialmente, anche dei media. Ora, secondo la mia esperienza, non penso che le cose siano così nette, non penso che esista la A realtà e poi la finzione. Credo che l’una contenga l’altra, e il modo in cui guardiamo a esse non è nettamente distinto, bianco e nero: la maggior parte è un’area grigia, e penso che sia di questo che le mie opere parlino: in sostanza è media art. Perciò l’ingegneria è più importante del ponte, perché una volta rivelata l’ingegneria, la costruzione, allora il suo uso diventa più consapevole. Non si tratta semplicemente di un interesse per la costruzione in quanto tale, del piacere di osservarla. No, in realtà il criterio con cui le cose sono costruite rivela tutto: la motivazione, il perché sono state fatte in quel modo, a quale scopo servono, che tipo di elementi sono impiegati per costruirle. Perciò quando si giunge a quella prospettiva improvvisamente si accede a una comprensione più ampia. C’è una scrittrice molto brava, indiana, Arundhati Roy che, in uno dei suoi libri, parla della costruzione delle notizie nei media – in realtà, parla soprattutto della politica attuale – e dice che oggi invece del direttore di un notiziario c’è quasi bisogno di un direttore di teatro per mandare le notizie in televisione, perché tutto riguarda la mise-en-scène e la costruzione. Non solo la recita, ma tutto è montato in modo che la posizione di quello che si presume sia finzione e di quello che si presume sia realtà documentaria siano giustapposte. Ma in effetti, quello che si ha alla fine non è nessuna delle due cose, quello che si vede è una sintesi, è una sensazione strana, e non sempre si può decidere, perché quando guardi un travestito non puoi mai essere sicuro se sia una donna o no. Alla fine, commentando il modo in cui la realtà è costruita, sono venute fuori le opere, finché non sono arrivato a Küba dove per la prima volta, invece di vedere un individuo che costruisce se stesso, ho visto una comunità di persone lavorare su una singola identità: l’essere kübani, il fatto di provenire dal quartiere di Küba a Istanbul. Tutti loro lavoravano alla costruzione di uno stato mentale, una recita. Non fanno parte del piano urbano perciò ufficialmente non esistono, ma anche culturalmente: la maggior parte di loro è curda, fino a poco fa, non potevano esprimere la loro lingua o la loro identità culturale, e quindi, per molti aspetti, non esistevano. Il video presenta quaranta soggetti che parlano della loro esistenza quotidiana, di niente in particolare, niente di commovente: si tratta di una struttura a isola di quaranta monitor, cosicché lo spettatore ci cammina attraverso, in modo da essere, innanzitutto, sempre consapevole della propria posizione di estraneo, in modo che da visitare ciascun monitor a propria scelta. Ogni persona – poiché visiterà combinazioni differenti – uscirà con un concetto diverso di cosa è Küba: non si può mai avere davvero accesso a Küba, anche se si guardano tutti i quaranta monitor, perché si capisce che in tal modo si costruisce, come spettatori, il proprio video, in pratica, la propria esperienza. Secondo me – spero – questo fa capire che il modo in cui ci percepiamo reciprocamente come mondi e comunità differenti è tutto una costruzione, è completamente relativo. E per via di questa percezione, la nostra posizione come portatori di verità è altrettanto instabile, relativa rispetto alla posizione del soggetto. Un altro aspetto interessante di Chi è Marco Belpoliti arco Belpoliti è scrittore e saggista, ha curato le opere complete di Primo Levi (Einaudi, 1997) e diversi libri postumi dello scrittore. Insegna presso l’Università di Bergamo. Tra i suoi ultimi libri: Settanta (Einaudi, 2000), Doppio zero (Einaudi, 2003); Crolli (Einaudi, 2005). Collabora alle pagine culturali de «La Stampa», «L’espresso», «Alias». E condirettore della rivista «Riga». È autore e sceneggiatore del film La strada di Levi diretto da Davide Ferrario. In uscita il suo diario di viaggio attraverso l'Europa, La prova per Einaudi. M Statue di Partigiani (dal set di La Strada di Levi) 70 Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Kutlug Ataman Ataman: «Il mio progetto Küba fa capire che il modo in cui ci percepiamo reciprocamente come mondi e comunità differenti è una costruzione, è completamente relativo. E per via di questa percezione, la nostra posizione come portatori di verità è altrettanto instabile, relativa rispetto alla posizione del soggetto» Küba è il percepirsi come un’isola, e quello che li fa integrare gli uni con gli altri è il mondo esterno, la non accettazione di esso. È così che diventano un’isola. Così l’opera riflette sui concetti di libertà e individuo nella comunità e, quindi, su cosa effettivamente è la libertà, perché l’idea di Küba ovviamente viene presentata quasi come una chiave della libertà e dell’individualità e dell’essere al di fuori della società in senso lato. Insomma, «qui siamo liberi», quasi come la teoria socialista: siamo liberi, questo è il mondo libero, queste sono la nostra struttura economica, la nostra cultura, ecc. Allo stesso tempo, però, per appartenere a Küba bisogna rinunciare a molte cose di se stessi, perciò ci sono storie molto tragiche di donne, bambini o uomini che, pur di continuare a far parte di Küba, sono andati in carcere, hanno avuto una vita distrutta. Il che ci porta a un’osservazione più ampia sulla società in senso lato, sul nostro concetto di libertà, di ideale politico, di democrazia (italiana, occidentale, ecc.). In altre parole, si tratta di un microcosmo, di uno specchio: ecco cos’è in sostanza Küba. Belpoliti: Vorrei partire da qualcosa che hai detto circa il tuo lavoro a Küba, e anche i precedenti, che riguarda quello che tu chiami il «secondo livello», cioè il fatto che le riprese dei tuoi video rendono visibile la loro stessa costruzione, la messa in scena del video medesimo: il problema non è solo di rappresentare la realtà, ma di rappresentare la rappresentazione stessa, mostrandola. Questo significa fornire una lettura di secondo livello di ogni situazione. Questo è anche il lavoro che abbiamo fatto nel film La strada di Levi, che abbiamo realizzato con Davide Ferrario. Ci siamo proposti di lavorare su vari livelli: il passato, il presente, la memoria. Siamo partiti da Levi per guardare l’Europa contemporanea, i paesi che si trovavano un tempo nella sfera di influenza sovietica, nella stessa Russia. Abbiamo dato per scontato che la memoria è sempre una costruzione, un effetto di secondo livello, qualcosa che Il viaggio di Levi l film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti (autori e sceneggiatori), per la regia di Ferrario, è un road movie sulle tracce di Primo Levi. Gli autori e la piccola troupe hanno ripercorso l’Europa orientale (Polonia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria, Slovacchia) seguendo il tortuoso itinerario di Primo Levi, dopo la sua liberazione da Auschwitz e il rientro, quasi un anno dopo, in Italia nel 1945. Fermandosi nei luoghi e nelle città toccate da Levi, il film racconta cosa c’è oggi in quella parte del nostro Continente, mostrando nel contempo i problemi dei paesi dell’ex sistema sovietico dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo sovietico. Incontrando persone, raccolgiendo testimonianze, viaggiando dentro il paesaggio, muniti delle parole di Levi, il film costruisce un viaggio tra il presente e il passato, lasciandosi nel contempo guidare dalla complessa figura dello scrittore italiano, dalle sue parole lette fuori campo da Umberto Orsini. Film di montaggio e di riflessione, La strada di Levi, per cui sono occorsi quasi quattro anni di lavorazione, è anche un film d’azione, un film sul presente e sul futuro che da Auschwitz oggi arriva a Chernobyl postcatastrofe, transita attraverso le regioni della nazione più povera d’Europa, la Moldavia, verifica la presenza dell'Oriente in quelle terre, incontra i neonazisti in Germania, parla con Wajda e con Rigoni Stern per arrivare a Torino, nel luogo della prova finale dello scrittore morto suicida 20 anni fa. Le musiche di Daniele Sepe e l’incalzante montaggio di Claudio Cormia accompagnano un film accolto con entusiasmo ai festival di Toronto, Roma e Londra. I viene dopo l’esperienza e la ricostruisce. Siamo andati in questi paesi che l’Europa occidentale definisce paesi dell’Est, sebbene si tratti di un’invenzione; e già questo è un lavoro di rilettura del passato. L’idea dell’Est è un’invenzione degli illuministi francesi, nel Settecento; quando siamo andati in Polonia, a Cracovia, ad Auschwitz, ci siamo resi conto che la Polonia è un paese del Nord, non è un paese dell’Est, somiglia alla Danimarca e alla Svezia. Nel corso dei tre mesi e mezzo che abbiamo trascorso in quelle terre per girare il film, abbiamo capito che la stessa memoria di quei luoghi era una memoria stratificata: guardavamo le cose attraverso – diciamo così – la nostra memoria storica di paesi sotto il dominio sovietico (Polonia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria, Slovacchia), paesi al di là della cortina di ferro istituita dopo la seconda guerra mondiale dagli Alleati. Si trattava dunque di paesi altri, differenti, e noi li vedevamo attraverso la memoria storica del passato (libri, documentari, film di propaganda, televisione, film occidentali) e attraverso il libro di Levi, La tregua. In particolare questo libro di viaggio, il periglioso e complicato ritorno a casa di Levi, avvenuto nell’interstizio tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, ci aiutava a scollare un po’ queste visioni ideologiche e cercare qualcosa al di sotto della crosta dei discorsi e dei pregiudizi sull’Est. Ma poiché nessuna visione si dà pura, nessun occhio è innocente, come si vede anche dal film che ti ho mostrato in parte, abbiamo proceduto attraverso l’accumulo di materiali, le citazioni visive, anche di film russi, polacchi, Wajda, Ejzenstejn. Per tornare a quello che dicevo all’inizio, nel nostro sguardo il secondo livello è diventato un primo livello. Abbiamo costruito il film, che di per sé è un road movie, mediante un forte montaggio. E io penso che ora, a film fatto, sia giusto così, poiché non riusciamo a vedere la realtà se non attraverso continue messe in scena che sono nella nostra memoria. Ataman: Ho due cose da dire a questo proposito. Quando faccio il mio lavoro, devo pensare che sto creando un documento storico su persone che altrimenti non verranno rappresentate, o non verranno ricordate; oppure che sto creando un’opera in cui le persone, in realtà, stanno parlando dei loro ricordi davanti alla telecamera e, quindi, costrui- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 scono questa memoria e identità davanti alla telecamera. Credo che si possa discutere sul fatto se questo si possa trattare come un documento archeologico, ad esempio, o come un qualsiasi tipo di documento, visto che è costruito come ogni altra cosa. Perciò, da un lato, penso di creare qualcosa che rimarrà: se conserviamo questi archivi, questi elementi culturali popolari saranno interessanti; tuttavia, se ci si pensa, anche i reality show presenti nella programmazione televisiva in realtà sono recitati e non sono reali. Perciò da un lato, penso in termini di memoria, di lasciare memoria, non solo di persone che parlano dei loro ricordi ora, ma che li stanno vivendo e creando per il futuro; dall’altro lato, però, credo anche che la memoria sia qualcosa che viene creato nel presente, che non appartiene al passato; la memoria, l’archeologia o, la storia, in questo senso, riguardano l’oggi e l’adesso, e più il futuro che il passato. La storia – penso – viene sempre riscritta, ed è sempre molto soggettiva dal mio punto di vista. Penso, in particolar modo, solo per fare un esempio e senza parlare degli eventi storici che al giorno d’oggi vengono sempre riscritti, alla copertura mediatica della guerra in Iraq: da angolature differenti, c’è una «lotta» su questa memoria, su come vada coperta. A un certo punto, la parte americana, occidentale, ha cercato di «bombardare» Al Jazeera perché stava creando una memoria completamente diversa. Sai, non si può mai visitare Auschwitz: sì, visitiamo Auschwitz attraverso il tuo film, e vediamo Levi che va ad Auschwitz, ma non è la stessa Auschwitz. Hai notato lungo i binari della ferrovia, là dove è arrivato il treno di Levi, i piccoli edifici ricoperti dai graffiti, una memoria della pop art? Anche soltanto quello non esisteva quando Levi venne portato lì, perciò anche Auschwitz cambia costantemente. La mia è semplicemente un’osservazione sul fatto che non si può mai ri-visitare. Belpoliti: Sono molto d’accordo. La cosa di cui ci siamo resi conto subito nel girare il film è che i 71 Kutlug Ataman Belpoliti: «Nel film La strada di Levi abbiamo tentato di cercare qualcosa al di sotto della crosta dei pregiudizi sull’Est. Ma poiché nessun occhio è innocente, abbiamo accumulato citazioni visive, anche di film russi e polacchi. Nel nostro sguardo il secondo livello è diventato un primo livello» luoghi non conservano la memoria di quello che è accaduto in quei posti, e tutto è una ricostruzione. Il problema del museo di Auschwitz è anche questo. Naturalmente la ricostruzione non può mai essere la cosa stessa, è sempre una sua rappresentazione. Credo vi sia un doppio problema della memoria: da un lato, c’è la lotta per la conservazione della memoria che continuamente viene manipolata da chi la vuole omettere, i negazionisti, ad esempio; e questo è connesso con il problema di rendere attuale la memoria, di mantenerla viva. Non mi riferisco solo alla distruzione degli ebrei d’Europa, alla Shoah, ma alla memoria di ogni conflitto, guerra o massacro. Penso alla storia della lotta di resistenza in Italia, dopo il 1943, contro il nazifascismo. Dall’altro, c’è quello che tu dicevi, cioè la costruzione della memoria del futuro, quindi tutti i nostri atti, compiuti nel presente, che costituiscono e stabiliscono necessariamente il futuro. Meglio: c’è il problema di tenere aperte nel futuro le molte strade del passato. Provo a spiegarmi: l’idea di Walter Benjamin che il passato non è chiuso una volta per sempre, ma che resta aperto, non solo perché possiamo riscriverlo – e a volte accade anche questo – ma perché contiene ancora dei futuri possibili. E questo è lo scopo del lavoro artistico, anzi ne è proprio l’essenza. Quelli che costruiscono la memoria del presente sono i mass media, prima di tutto la televisione; sono loro che costruiscono i veri monumenti del presente, e non è un caso che anche tu lavori con le immagini e con il video. La televisione, lo sappiamo bene, costruisce un’immagine univoca ed estremamente manipolata del presente. Un po’ come guardare una partita di calcio allo stadio o alla televisione. Nel primo caso vedi tutta la partita, tutto quello che accade sul campo, anche là dove non c’è la palla; nel secondo caso, vedi quello che vede il regista delle riprese. Mi sembra che la vera battaglia in corso sia questa: intorno al dominio e alla manipolazione delle immagini; una battaglia che è più importante di quella combat- 72 tuta con le armi, da quella atomica ai missili e agli scudi stellari. Queste armi ipertecnologiche, in realtà, sono come delle grandi barriere, ma le vere armi del combattimento sono le immagini. In Iraq hanno abbattuto le statue di Saddam Hussein, un gesto iconoclastico, qualcosa che viene dal passato: ogni volta che c’era un cambio di potere venivano abbattute le immagini del potere precedente, le sculture, le scritture pubbliche, le insegne. Ma fare questo non davanti a dei testimoni, fotografi, giornalisti, scrittori, bensì davanti a delle te- La strada di Levi. Sicuramente la nostra intenzione è anche quella di lavorare sulla velocità con la velocità, perché comunque è un viaggio, e il viaggio vuole sempre competere con il tempo, è in lotta con il tempo. Ma il nostro è anche un viaggio attraverso le rovine, le macerie dell’Europa, e quindi, in questo senso, è ancora una volta un viaggio nella memoria, cioè quello che resta delle memorie passate. Il compito dell’artista è quello di fungere da setaccio, di non far passare tutto; diciamo così: mentre i mass media non discriminano, il lavoro Primo Levi nel 1944 lecamere che trasmettono il tutto in diretta televisiva, cambia completamente la natura del gesto. Diventa un segno di secondo livello, una citazione, ma anche qualcosa d’altro. Sono pienamente d’accordo con te sulla tua idea di un’archeologia del futuro. Credo che la posizione dell’artista sia una posizione molto difficile perché deve percorrere un po’ a rovescio tutto il tragitto; se è vero che l’artista lavora proiettato verso il futuro, ha necessità però di agire sia sul presente e sul passato e lo fa nella posizione dell’Angelus Novus di Benjamin: con la testa girata verso il passato. Molto scomodo. Volevo tornare ancora sul film dell’artista è quello di fare delle differenze tra le cose. Ataman: Il mio ruolo di artista riguarda più il mostrare com’è la struttura; esso punta poi a far capire allo spettatore come percepiamo la realtà, sia essa passata o futura. Per me passato e futuro sono la stessa cosa, esistono insieme. Perciò vorrei che il mio lavoro fosse come una sorta di manuale per gli spettatori, che offra un prontuario per leggere il passato e il futuro, che sono due direzioni, che bisogna percorrere in ogni caso. Sono d’accordo con te, quando parli di analizzare e ricercare e tutto il resto, ma credo che questo sia parte del la- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 voro che può essere fatto e che, allo stesso tempo, creare qualcosa per il futuro è altrettanto buono e valido che ricercare qualcosa che è stato già creato. Ma ho sempre un punto di domanda. Mi chiedo se quello che si trova come realtà, come documento, come la memoria sia davvero la Cosa, l’oro, perché le cose, i momenti, si vivono un’unica volta, una volta vissuti e consumati appartengono al passato, quello che resta sono le vibrazioni, le onde, mai davvero l’esperienza stessa. Non sto negando completamente il passato o il futuro, ovviamente, ma non penso che, come artista, si possa avere questo ruolo sacerdotale di andare indietro nel passato, se capisco correttamente quello che stai dicendo, per cercare e far emergere questo oro, questa conoscenza. Per me quella sequenza ha più valore delle notizie televisive, del documentario o del pezzo sulla Bielorussia perché allora capisci che potrebbe esserci un altro punto di vista ideologico sulla Bielorussia. L’approccio formale mi rende consapevole della manipolazione che può esserci. Belpoliti: Alla fine, al di là delle nostre intenzioni, come dici tu, la forma parla da sé. Dice più – oppure meno – di quello che abbiamo voluto dire noi. Siamo tutti poststrutturalisti senza saperlo. Un po’ formalisti e un po’ sciamani. La magia nel lavoro artistico non la si elimina mai, c’è sempre. Ne è il vero segreto. Per quanto abbia abbandonato molte delle ideologie del passato, credo ancora a una certa sacralità dell’arte, da laico, ben inteso. Qualcosa che c’è al di là di noi stessi, al di là delle fedi e delle religioni, delle ideologie e dei credi politici. L’artista è uno sciamano avveduto, uno che sa, e per questo fa, tuttavia non sa mai bene quello che fa davvero. Il mistero è il fulcro dell’arte, cinema o letteratura non importa. Niente è programmabile, tutto ci spiazza di continuo, anche in quello che facciamo, soprattutto lì. (Traduzione di Martina Toti) Kutlug Ataman L’orrore in diretta della guerra di Antonio Somaini el 1924 il giovane anarchico e pacifista tedesco Ernst Friedrich pubblica un pamphlet intitolato Krieg dem Kriege! (Guerra alla guerra!) con cui denuncia gli orrori, le sofferenze e le ingiustizie sociali che avevano caratterizzato la prima guerra mondiale. Il libro esordisce con un appello in tre lingue «all’umanità intera», in cui l’autore espone il suo obiettivo: quello di presentare ai lettori, con l’aiuto di immagini «catturate dall’occhio inesorabile e incorruttibile dell’obiettivo fotografico [...] un resoconto veritiero e oggettivo della realtà bellica». La sua fiducia nella forza persuasiva delle immagini e nel valore testimoniale della fotografia è incrollabile: «non c’è nessuno al mondo che possa dubitare della veridicità di queste fotografie e sostenere che non riproducono fedelmente la realtà» dice Friedrich. Per convincere l’umanità a rinunciare definitivamente alla guerra è sufficiente registrare oggettivamente e rendere visibile la devastazione del corpo e delle cose che essa produce. Friedrich persegue questo scopo disponendo le immagini secondo un montaggio ben calcolato. Da un lato, infatti, Krieg dem Kriege! si propone come un percorso lineare lungo il quale incontriamo, in successione, immagini fotografiche di giochi «diseducativi» che andrebbero sottratti ai bambini (soldatini, armi finte, libri illustrati che propongono una visione eroica, fuorviante, della guerra), immagini di giovani arruolati che partono festanti per il fronte, trincee piene di cadaveri, alti ufficiali che visitano i campi di battaglia camminando su passerelle di legno per non infangarsi gli stivali, il diverso trattamento riservato dopo la morte agli aristocratici e ai proletari, gli effetti dell’uso dei gas e dei lanciafiamme, la devastazione della natura, delle città e dei paesi, la violenza sulle donne, e infine, momento culminante, una lunga serie di fotografie che ritraggono in modo spietato, frontalmente o di profilo come in delle immagini segnaletiche, i volti orrendamente sfigurati dei feriti di guerra. Dall’altro, l’autore co- N struisce ogni coppia di pagine – destra e sinistra – come un accostamento scioccante volto a rivelare, con l’aiuto di didascalie ironiche e sarcastiche, lo stridente contrasto tra la realtà disumana della guerra e l’ingenuo entusiasmo e la retorica di regime che l’avevano preceduta e accompagnata. Le immagini dei giovani che sfilano festanti per le vie delle città («Entusiasti… e di che cosa?») vengono affiancate a immagini di trincee ricolme di corpi accatastati («… dei campi d’onore?»). A sinistra, gli ufficiali nelle loro divise eleganti che aspettano comodi l’esito della guerra di trincea («Dietro le linee del fronte, l’erede al trono tedesco, circondato dai suoi levrieri, famoso per la sua massima Dateci sotto!») e a destra i cadaveri in putrefazione di soldati anonimi («Sul fronte: l’erede al trono non è presente»). Siamo negli stessi anni in cui le potenzialità del montaggio vengono esplorate da teorici e cineasti come Kulesov, Pudovkin e Ejzenstejn e in cui quest’ultimo vede nelle «attrazioni» – ossia in quegli accostamenti di immagini capaci di produrre «scosse emotive» negli spettatori – lo strumento principale attraverso cui il cinema può trasmettere il suo contenuto ideologico e propagandistico. In un periodo in cui le immagini di guerra circolavano in modo ancora molto limitato e controllato, Friedrich fa dunque leva contemporaneamente sulle potenzialità del montaggio e sulla forza testimoniale della fotografia – la sua capacità di proporsi come ammonimento, come immaginechoc, ma anche come immagine-sinte- si, in grado di riassumere perentoriamente un evento storico e imprimerlo nella memoria collettiva – per esibire gli orrori della guerra e smascherarne le ingiustizie. Riletto a ottant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, l’appello pacifista lanciato da Krieg dem Kriege! mantiene intatta la sua forza sconvolgente, e non è un caso che il libro sia stato di recente tradotto in italiano con un’introduzione di Gino Strada. Il suo uso propagandistico dell’evidenza fotografica ci appare come un gesto precursore, eppure la sua fiducia nell’univocità e nel valore documentale delle immagini ci sembra in qualche modo anacronistica. Non è solo la quantità delle immagini che raffigurano gli orrori, le sofferenze, le devastazioni della guerra a essere cambiata radicalmente rispetto agli anni Venti – come sottolinea Susan Sontag nel suo libro dedicato alla visione del dolore altrui, «being a spectator of calamities taking place in another country is a quintessential modern experience», e la denuncia dell’onnipresenza delle immagini-choc nei media, in base alla massima «if it bleeds, it leads», è divenuta ormai un luogo comune. La vera differenza sta nel fatto che oggi l’immagine di guerra, lungi Chi è Figura 1 - Ernst Friedrich, Krieg dem Kriege! (Guerra alla guerra!), 1924. «Dalle giornate di agosto del 1914. Entusiasti... e di che cosa?» Antonio Somaini Figura 2 - «...dei “campi d’onore”»? ntonio Somaini è docente di Storia delle teorie del cinema all’Università di Genova e di Estetica al Politecnico di Milano. Tra le sue pubblicazioni: Rappresentazione prospettica e punto di vista (CUEM 2005), le raccolte di saggi Atmosfere (numero monografico della «Rivista di Estetica», insieme a Tonino Griffero, 2007), Il dono. Offerta, ospitalità, insidia (Charta, 2001), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini (Vita e Pensiero, 2005), Esperienza e rappresentazione dello spazio architettonico (CUEM 2006), e l’antologia Estetica (con Elio Franzini, Raffaello Cortina 2002). Nel 2001 ha curato la mostra d’arte contemporanea intitolata Il dono, e dal 2004 è curatore per la Domus Academy di Milano della serie di workshop ed eventi espositivi ArtExperience. A Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 73 Kutlug Ataman Oggi l’immagine di guerra, lungi dal poter essere accettata unanimemente come «resoconto veritiero e oggettivo della realtà bellica», è diventata essa stessa un terreno conflittuale. Le forme mediatiche di visualizzazione della guerra e della morte sono diventate ormai parte integrante delle strategie militari dal poter essere accettata unanimemente come «resoconto veritiero e oggettivo della realtà bellica», è diventata essa stessa un terreno conflittuale. Le forme mediatiche di visualizzazione della guerra e della morte sono diventate ormai parte integrante delle strategie militari, convenzionali e non convenzionali, e senza voler cadere nella tentazione inaccettabile di ridurre la guerra a evento mediatico – assolutizzando la posizione dello spettatore che osserva a distanza di sicurezza, e relegando in secondo piano coloro per i quali la guerra purtroppo non è solo uno spettacolo visivo – non si può non prendere atto del fatto che le guerre sono diventate ormai anche un terreno di scontro iconico, in cui si combatte a colpi di immagini, e in cui la risposta più efficace a un bombardamento è spesso quella di renderne ben visibili gli effetti inesorabili sulla popolazione civile. Se Friedrich pensava di poter sconfiggere la guerra grazie all’evidenza e alla forza testimoniale delle immagini, oggi questa stessa forza viene impiegata in modo strategico a fini militari, rendendo visibile ciò che altri nascondono, e facendo leva sulle interpretazioni opposte che pubblici diversi possono dare delle stesse immagini. I modi in cui le guerre vengono visualizzate sono diversi e in costante trasformazione, e le immagini di guerra possono ormai essere considerate come un punto di riferimento importante per riflettere sull’atteggiamento complessivo che una società ha nei confronti del visivo, sulla fiducia che nutre nel valore documentale e testimoniale delle immagini, e sul continuo spostamento dei confini tra rappresentabile e irrappresentabile. Oggi come in passato non tutte le guerre sono visibili. Vi sono ancora guerre che vengono combattute «fuori campo», ma la visibilità di quelle «coperte» dai media si trasforma incessantemente. Tra il modo in cui sono state raccontate la prima e la seconda guerra in Iraq, per esempio, vi sono delle differenze importanti. La prima si aprì la notte del 17 gennaio 1991 con la diretta della Cnn da Bagdad, in cui si alternavano le immagini sgranate del cielo notturno della capitale irachena attraversato dai traccianti luminosi della contraerea e il volto in fermo-immagine di Peter Arnette che raccontava le sue impressioni di testimone oculare dell’attacco, senza però poterlo rendere pienamente visibile ai telespettatori. Nelle settimane successive, quella che è stata essenzialmente una guerra dall’alto venne poi resa visibile attraverso le immagini inviate dalle videocamere installate sulle testate dei missili «intelligenti», che inquadravano l’obiettivo (strade, ponti, capannoni) come in un mirino, avvicinandosi sempre di più per poi dissolversi in un effetto neve che era indice dell’avvenuta esplosione. Immagini puramente tecnico-funzionali – «operative», come Luoghi le chiama il regista Harun Farocki, che a questo tipo di immagini ha dedicato nel 2003 una serie di documentari intitolati Eye/Machine – non pensate per uno sguardo umano, eppure altamente spettacolari, in quanto restituivano la visione «in soggettiva» del proiettile che colpisce il suo obiettivo. Se però nel 1991 la regia mediatica dell’esercito era stata in grado di confezionare in modo integrale lo spettacolo della guerra per il pubblico occidentale, con la seconda guerra in Iraq lo scenario è profondamente mutato: da un lato la collaborazione tra le forze anglo-americane e canali televisivi come Fox Tv, Sky o Cnn proponeva immagini in diretta registrate e trasmesse dai cronisti embedded che assistevano in prima persona agli scontri sul terreno, con una visione dal basso e dal vivo, mentre dall’altro la nascita di network satellitari come Al-Jazeera aveva introdotto nel panorama mediatico un nuovo punto di vista e immagini diverse, la cui interpretazione e il cui significato strategico era ed è costantemente oggetto di aspre contestazioni. Grazie alla disponibilità di strumenti tecnologici di registrazione e trasmissione delle immagini sempre più leggeri e flessibili, e grazie alla nascita di altri network televisivi oltre a quelli occidentali, la visibilità della guerra negli ultimi decenni è dunque profondamente cambiata. I punti di vista si sono moltiplicati, le immagini proliferano nei media e nel- Mappa mediatica dell’emergenza di Francesco Casetti ual è la nostra mappa mentale dell’emergenza? Cosa evoca la parola, e verso quale universo semantico ci conduce? Una volta la risposta sarebbe arrivata consultando un buon vocabolario. Adesso, in epoca di media, la risposta non può venire che consultando l’atlante dell’immaginario che televisione, cinema, giornali, telefono, rete, ci rendono disponibile continuamente. Premiamo il tasto del nostro telecomando. Emergenza è naturalmente E.R., la mitica serie televisiva che si svolge nel pronto soccorso del Chicago Hospital. Si tratta di una serie ormai qualche stagione orfana dei suoi storici protagonisti, il dottor Ross e il dottor Green, oltre che l’infermiera Hathaway: pensando con nostalgia a quel gruppo di personaggi caratterizzati da perenni pene d’amore, ci si chiede allora se l’emergenza di cui parla il titolo (Emergency Room) non riguardasse assai più la sfera degli affetti, prima ancora che quella dei corpi. Tra appendiciti, ferite da taglio, tumori maligni, ciò che costantemente emergeva in E.R. era l’improvviso battito di cuore per un partner imprevisto, o anche per la sua perdita (il che specularmente è lo stesso). Le crisi cliniche nascondevano crisi sentimentali. Il vero pericolo era su quel fronte. E.R. è una serie ormai storica, anche se continua ad andare in onda: oggi il suo posto sembra esser preso da Doctor House. Siamo sempre nel campo delle emergenze ospedaliere: chi le affronta però è un medico anticonvenzionale che lavora con i metodi di un detective e ha una forte vena filosofica; c’è in lui la stessa furibonda (e folle) determinazione nel difendere la salute che si trova nel solitario e disperato tenente di polizia che difende la legge, o nel pensatore preso da un raptus di onnipotenza che vuole spiegarsi il mondo soprattutto nelle sue imperfezioni. Il che ci mostra un piccolo ma significativo spostamento rispetto al successo di ieri: se in E.R. l’emergenza sembrava riguardare i corpi, ma investiva gli affetti, in Doctor House la malattia sembra un accidente, ma in realtà è un crimine. Dietro l’emergenza c’è sempre un colpevole: si tratti anche della distrazione di un dio che non segue con sufficiente attenzione il mondo che ha creato. Q 74 Dunque un’emergenza affettiva (in E.R.) e un’emergenza morale (in Doctor House). Lo stato di crisi appare legato ad una sorta di dilemma, che bisogna saper riconoscere dietro le apparenze. Il che cambia sensibilmente le carte in tavola rispetto alle emergenze televisive classiche, quelle delle serie d’antan. In Star Trek l’emergenza era l’incontro con forze sconosciute, incontrollabili. Un incontro dettato dal caso, lungo la rotta senza meta di una astronave perduta nella galassia (come noi stessi da tempo oramai siamo perduti nella realtà della metropoli, appena abbandoniamo le strade percorse ogni giorno; o come siamo perduti nei meandri di una storia che ci interpella continuamente – un disastro qui, una crisi lì – ma che di fatto non ci appartiene). E un incontro che metteva in luce una insufficienza di conoscenza da parte dei nostri eroi, che non sapevano bene come affrontare ciò che si erano ritrovavano davanti (un po’ come nel Western: se incontri un indiano, come fai a capire le sue intenzioni e il suo linguaggio?). Insomma, in Star Trek l’emergenza era, classicamente, un accadimento casuale che rivelava un buco cognitivo. Oggi appunto è un’altra storia: la conoscenza non ci manca; semmai ci manca la capacità di individuare quello che sta veramente succedendo, dietro le apparenze. Ma allarghiamo la ricerca, e anziché su uno schermo televisivo cerchiamo di ricostruire la nostra mappa su uno schermo di computer. Batto http://images.google.com e cerco «emergency». Il risultato sono circa 640.000 immagini disponibili. Il vero paradosso è che la prima della lista è la vignetta di un uomo steso, fasciato e stirato su un lettino d’ospedale che batte su un computer con le dita rimaste libere mentre il suo cellulare suona sul suo comodino. Si tratta del sito di un simpatico polemista che propone il problema di come continuare a lavorare se ti capita qualcosa. Il testo, ironico, esplicita la questione: «Truth is, there’s no way that you can predict the time or place that an emergency, crisis, or disaster will occur. The best bet is to be prepared to bail out of your office on a moment’s notice, and to have the ability to take your office and your work with you wherever you go». Solo la seconda immagine, con il logo di un’ambulanza, ci riporta all’idea Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Kutlug Ataman Grazie alla disponibilità di strumenti tecnologici di registrazione e trasmissione delle immagini sempre più leggeri e flessibili, e grazie alla nascita di altri network televisivi oltre a quelli occidentali, la visibilità della guerra negli ultimi decenni è dunque profondamente cambiata la rete, la platea degli spettatori si è ampliata enormemente e le risposte spettatoriali si sono differenziate. Il mondo non può più essere diviso nettamente in guardanti e guardati, e di fronte alle immagini di guerra – così come di fronte a ogni immagine – non ha senso parlare di «spettatore» in astratto, in quanto la loro visione e la loro interpretazione è terreno di costante conflittualità e negoziazione tra le diverse intenzioni di chi le produce e di chi le fa circolare, tra chi spera di poter gestire complessivamente la mediatizzazione della guerra, chi le brandisce come incitamento alla vendetta, e chi le osserva con sguardo dolente. Come ci ricorda ancora Susan Sontag in Regarding the Pain of Others, «no “we” should be taken for granted when the subject is looking at other people’s pain». Guerra per immagini In questo contesto di proliferazione epidemica delle immagini di guerra, che ne è del loro valore testimoniale, della loro capacità di registrare l’esistente e di sollecitare una presa di posizione? Considerate da un punto di vista iconologico, le immagini di guerra si presentano come un terreno particolarmente significativo per riflettere sul potere e sull’uso strumentale delle immagini, così come sulla loro capacità di imporsi come documento storico. Questo problema è, da alcuni anni or- mai, al centro di un ampio dibattito, in cui si confrontano due opposti atteggiamenti, di fiducia e di scetticismo nei confronti del ruolo testimoniale delle immagini. Le ragioni del «partito scettico» possono essere riassunte come segue. a) Le immagini non possono essere considerate come documenti storici affidabili in quanto intrinsecamente parziali, lacunose e costruite. Ogni immagine è parziale e incapace di porsi come testimonianza di un evento storico nella sua complessità in quanto riflette non uno stato di cose ma un punto di vista – in senso sia letterale che metaforico – ed è lacunosa in quanto sempre circondata da un fuori campo. Ogni immagine, poi, è costruita – incluse le fotografie, in quanto frutto di una scelta, di una selezione e di un’esclusione – e ogni supposto realismo è sempre un «effetto di realtà» convenzionale e storicamente variabile. b) La ripetuta esposizione alla visione dell’orrore e la spettacolarizzazione del dramma e del disastro, in cui la realtà si intreccia con la finzione, anziché favorire un’assunzione di responsabilità da parte dello spettatore, finisce in realtà per disorientarlo e renderlo apatico e indifferente, determinando una sorta di paralisi cognitiva e morale. La piena visibilità dell’orrore avrebbe quindi un effetto anestetico e derealizzante. Come scrive Antonio Scurati nel suo Televisioni di guerra (Verona Luoghi di emergenza più tradizionale. Si tratta del sito di un distretto scolastico che stabilisce le regole di comportamento in caso di pericolo. "A protection program is a vital element of the contribution of each school to the safety and welfare of students and personnel … It should make provision for first aid in case of injury and for the care of the children until they can be returned to their family groups». Se i nostri figli debbono studiare, che almeno siano sicuri di tornare tra noi. La terza immagine ci riporta ad una definizione ancor più stretta di emergenza. Essa ci guida al sito www.epa.gov, un’agenzia governativa Usa che predispone piani in caso di pericolo. Nella sua home page troviamo una lista lunga e accurata di emergenze: Acid Rain, Air, Asbestos, Beaches, Cleanup, Climate Change, Hazardous Waste, Human Health, Lead, Mercury Mold, Oil Spills, Ozone, Pesticides, Radon, TRI Wastes, Water, Wetlands, ecc; cui si aggiunge il rinvio a leggi come il Clean Air Act o il Clean Water Act. Dunque l’emergenza riguarda diversi aspetti del nostro ambiente; anzi, se prendiamo la lista, quasi tutti gli aspetti del nostro ambiente. Sapevamo che la Terra era ammalata, ma non così grave. Il sospetto che viene allora è che mentre l’emergenza, da un punto di vista lessicale, è qualcosa che emerge, quando emerge tutto, l’emergenza si scioglie nella normalità. Le immagini successive ripetono spesso le situazioni che abbiamo fin qui esaminato. Nel sito campuslife.cornell.edu/emergency vengono dettagliati i diversi livelli di allarme: «In a Level One emergency, you probably will need to primarily refer to the Facilities Services Plan. In a Level Two emergency, you might need to add the Essential Services Plan; Level Three might necessitate also referring to the Campus Life Emergency Plan and all the contact sheets and appendices throughout the manual. Clearly, depending on the emergency, you will need to use information found throughout these series of documents». La questione viene riportata alla presenza di un piano appropriato. Per tener sotto controllo la realtà, ci vuole soprattutto un manuale. Nella stessa logica di assicurazione della pubblica opinione si muovono parecchie altre realtà. Il sito www.cit- 2003)– che prende come riferimento il pubblico occidentale e la prima guerra del Golfo – «alla “visibilità totale” offerta dal medium televisivo corrisponde, anche se in modo solo apparentemente paradossale, la cecità e l’impotenza dello “spettatore totale” [...]. La conquista dell’ambiente simbolico da parte della televisione, producendo la paralisi cognitiva che inabilita la distinzione tra realtà e finzione, si traduce in un’irresponsabilità nei confronti dell’agire altrui e in una indisponibilità all’agire in proprio». c) L’indebolimento del valore storico-documentale delle immagini di guerra è ulteriormente favorito dalla crescente diffusione di immagini digitali: immagini che, in quanto visualizzazione di sequenze di dati espressi in formato digitale (0 e 1), hanno perso l’ancoraggio referenziale proprio delle immagini fotografiche tradizionali, analogiche, la cui genesi, risultante dall’impressione di una pellicola fotosensibile, le caratterizzava come immagini-impronta, immagini-traccia, testimonianza incontrovertibile di ciò che in un determinato istante di tempo «è stato» di fronte all’obiettivo. Nell’era dei media digitali le immagini proliferano indiscriminatamente, si smaterializzano, diventano più facilmente manipolabili, circolano più velocemente, trasferendosi senza soluzione di continuità da un medium a un altro, dando vita a un flusso iconico in cui le immagini si sostituiscono yoforlando.net predispone un piano contro gli uragani. Il sito www.london.ca/emergency illustra le esercitazioni anti-emergenza programmate, dagli attentati alla pandemia di influenza. Il motto che sembra emergere è quello degli scout: Estote parati. Ma «parati» a che? A portare la pelle a casa? Quando anche la casa non è certo più un rifugio? E quando anzi i rifugi non esistono più? Ma voglio finire invece con l’estetica. Nel sito www.conceptimages.com Noriko e Don provvedono a fornire a pagamento una serie larghissima di loro foto-illustrazioni dedicate ai temi più svariati. Tanto per citare: Abstract, Americana, Animals, Automobile, Baby, rain, Cats, Classic Cars, Communications, Computers, Concepts, Condoms, Desert, Doctor, Earth and Globe, Eye, Fetus, US Flag, per finire con Volcano e World Map. In questa lista non poteva mancare il file Emergency. Una ventina di immagini di camere d’ospedale, autoambulanze, elicotteri portaferiti. Pronte per l’uso (le immagini) e a modico prezzo. Insomma, siamo partiti dall’emergenza come gap cognitivo conseguente ad un incontro imprevisto nelle serie tv più classiche: «la vera crisi è quando non conosci il linguaggio di chi hai di fronte». Siamo passati all’emergenza come enigma in alcune serie televisive non aliene da una certa riflessione ontologica: «l’emergenza non è dove pensi che sia, ma alligna altrove: nel tuo stesso cuore, o nelle pieghe di una creazione imperfetta». Siamo scivolati nell’emergenza come manuale di comportamento: «riconosci il grado di pericolo, e rispondi in modo adeguato». E siamo arrivati all’emergenza come decorazione: «vuoi una bella foto? Scegli tra Cats, US Flag e Emergency». Insomma, siamo arrivati all’ornamento, all’addobbo. Non voglio far tornare i conti a tutti costi: ma in questo piccolo percorso mi pare si manifesti molto dello spirito della nostra epoca; molto di un ieri immediato che credeva nella conoscenza e soffriva per i suoi buchi; e molto di un oggi ormai imperante che pur si chiede cosa mai siamo, ma risponde anche spesso con un kit di comportamento o con un ghirigoro, forse per rispondere con un po’ di rassicurazione alle pressioni del mondo. Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 75 Kutlug Ataman Nell’epoca della proliferazione del visivo digitale nessuna immagine può rispecchiare e riassumere un evento storico nella totalità. Al tempo stesso, la possibilità di considerare le immagini come documenti da interpretare e su cui meditare non è venuta meno. Il loro valore testimoniale non è definitivamente tramontato gradualmente alla realtà, in un gioco di rimandi autoreferenziali che ci lascia in una condizione di indecidibile indifferenza e ne annulla il valore documentale e testimoniale1. Sebbene ampiamente diffuse, queste tesi non appaiono del tutto condivisibili, e a esse possiamo provare a opporre una serie di contro-tesi. a) Sebbene singolare e lacunosa, concreta e contingente, ogni immagine – incluse quelle immagini particolarmente conflittuali che sono le immagini di guerra – non cessa di essere testimonianza e documento: di uno sguardo posizionato, eventualmente in contrasto con altri modi di vedere, altri punti di vista, altre intenzioni2. Nel loro insieme, le immagini di guerra contribuiscono a documentare quello che Sorlin, in un suo studio intitolato Sociologia del cinema, chiamava il visibile: ciò che viene captato e trasmesso, che appare fotografabile e presentabile in un momento storico determinato, e grazie a cui si rivelano i centri di attenzione ma anche le zone di oscurità, le abitudini percettive, le ossessioni ricorrenti di una determinata società. b) La proliferazione delle immagini di guerra non genera necessariamente apatia, indifferenza, distacco nei confronti di una realtà che si è compromessa definitivamente con la finzione. L’affacciarsi sulla scena mediatica di un pubblico di spettatori che non è necessariamente quello occidentale ha contribuito a differenziare profondamente gli atteggiamenti spettatoriali e gli effetti politici delle immagini, mostrando come queste, lungi dall’essere vissute con indifferenza, possono essere ancora veicolo e oggetto esse stesse di violenza. c) Il passaggio dall’analogico al digitale – con tutte le conseguenze che esso ha determinato, in termini di maggiore facilità nella produzione, manipolazione e trasmissione delle immagini – non ha avuto come effetto, a ben vedere, un declino della fiducia nel valore documentale delle immagini. Sebbene la loro genesi tecnica non le qualifichi più come immagini-impronta, queste non cessano, nei loro concreti usi sociali, di essere considerate in molti casi come documentazione di fatti realmente accaduti ed eventualmente come prova. Certo, sono facilmente manipolabili, ma anche facilmente trasmissibili, e questo le rende meno soggette a strategie di controllo e di censura. Venuto meno il radicamento foto-chimico delle immagini analogiche, si cercano altrove dei tratti che possano fungere da garanzia della loro veridicità e autenticità: nell’immediatezza di una visione in presa diretta, o in quelle imperfezioni che possono rendere riconoscibili le condizioni contigenti in cui le immagini sono state registrate. È così che immagini come quelle delle torture di Abu Ghraib, sebbene scattate con fotocamere digitali e immesse nel flusso della rete, sono state considerate come prove attendibili di fatti effettivamente accaduti. In altre 76 parole, anche nell’era del digitale e del flusso iconico inarrestabile, le immagini continuano a essere documenti e spesso a porsi come immagini-sintesi che sembrano riassumere emblematicamente, in pochi tratti, il significato complessivo di un evento storico. L’affidabilità delle immagini digitali non è necessariamente diminuita rispetto all’era dell’analogico, e del resto alcune delle più celebri immagini-sintesi del periodo predigitale – dal legionario colpito a morte fotografato da Robert Capa, alla bandiera innalzata dai soldati russi sul Reichstag di Berlino o dai soldati americani a Iwo Jima, attorno a cui è costruito tutto l’ultimo film di Clint Eastwood, Flags of Our Fathers – rimangono avvolte nel dubbio. In definitiva, così come in passato, anche nell’epoca della proliferazione del visivo digitale nessuna immagine può rispecchiare e riassumere un evento storico nella totalità, né può porsi come surrogato della memoria o della riflessione. Al tempo stesso, la possibilità di considerare le immagini come documenti da interpretare e su cui meditare non è venuta meno. Il loro valore testimoniale non è definitivamente tramontato: nel mondo dell’informazione e della comunicazione sociale esso viene riformulato costantemente in modo imprevedibile – pensiamo all’uso che viene fatto delle immagini scattate e trasmesse con i cellulari – mentre in quello del cinema e dell’arte è diventato spesso un valore da difendere di fronte alle tentazioni della simulazione artificiale integrale. Negli ultimi decenni, anche in anni precedenti l’avvento del digitale, le arti visive e il cinema non hanno smesso di confrontarsi con il problema del valore testimoniale delle immagini, riflettendo sulle conseguenze della sempre crescente visualizzazione mediatica dell’orrore e della morte. Nel campo della pittura possiamo individuare due figure che hanno incarnato due modi profondamente diversi, quasi opposti, di porsi di fronte a questo nuovo scenario. Due artisti – Andy Warhol e Gerhard Richter – e due cicli di dipinti – i quadri della serie Death and Disaster di Warhol, realizzati a partire dal 1962, e il ciclo October 17, 1977 completato da Richter nel 1988 – in cui si cristallizzano due diverse posizioni nei confronti della rappresentazione fotografica della morte e del valore storico e mnestico delle immagini: da un lato un atteggiamento blasé, che sottolinea il fascino della rappresentazione mediatica della morte ma al tempo stesso ne afferma la superficialità e l’insignificanza; dall’altro, il permanere di un atteggiamento di fiducia nella capacità dell’immagine di porsi ancora come documento e come oggetto di meditazione. Entrambi i cicli nascono da un paziente lavoro di selezione e di montaggio delle immagini che i mass media ci propongono quotidianamente. Warhol raccoglie da ritagli di giornale le immagini di incidenti automobilistici, sui- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 cidi spettacolari, tumulti urbani, tragedie raccontate dalla cronaca (incidenti aerei, casi di avvelenamento), sedie elettriche. Attraverso la serigrafia, i colori stridenti e la ripetizione seriale, esibisce la morte come evento anonimo ma spettacolare, glamorous, come momento di incandescenza mediatica che si offre a uno sguardo al tempo stesso voyeuristico e apatico. La ripetizione è in Warhol uno strumento di neutralizzazione e di de-realizzazione, e al tempo stesso rimanda all’esistenza mediatica, seriale e fluttuante, di queste stesse immagini, nei giornali, nelle riviste, alla televisione. Richter raccoglie invece le immagini della storia e della tragica fine nel carcere di sicurezza di Stammheim dei principali componenti della banda Baader-Meinhof: Holger Meins, morto nel 1974 durante uno sciopero della fame; Ulrike Meinhof, trovata impiccata nella sua cella il 9 maggio 1976, poco prima che lei e i suoi compagni fossero condannati all’ergastolo; Andreas Baader e Gudrun Ensslin, trovati morti (suicidio?) nelle loro celle il 18 ottobre 1977. Raccolte a decine nell’Atlas – l’atlante in fieri di immagini a cui Richter lavora dall’inizio degli anni Sessanta, e che ormai è composto da più di 700 pannelli in cui si susseguono fotografie di famiglia, di amici e conoscenti, autoritratti, ritagli di giornale, ritratti di grandi personalità del XX secolo, ma anche immagini dell’Olocausto, immagini pornografiche e di guerra, foto di viaggio, paesaggi, disegni astratti e progetti di installazioni delle proprie opere – le immagini dell’arresto, della morte e dei funerali dei componenti della Baader-Meinhof vengono selezionate, rifotografate, montate in sequenza e dipinte con toni di grigio, usando una tecnica – spesso descritta come Ent-malung, de-pittura – che le rende sfuocate e a malapena riconoscibili. Alla ripetizione letterale e seriale di Warhol subentra qui uno stato di sospensione, di distanziamento, in cui l’evidenza fotografica viene progressivamente s-dipinta, come se le immagini fossero sospese tra memoria e oblio. Le stesse immagini fotografiche che in Warhol venivano trattate come istanti di incandescenza mediatica ripetuti fino a diventare insignificanti, diventano in Richter oggetti di meditazione, documenti che conservano e tramandano tutto il loro ambiguo valore testimoniale. Note: 1 Questa posizione viene espressa molto chiaramente da Baudrillard in Simulacres et Simulation, in cui l’autore descrive quattro fasi successive dell’immagine: «1) elle est le reflet d’une réalité profonde; 2) elle masque et dénature une réalité profonde; 3) elle masque l’absence de réalité profonde; 4) elle est sans rapport à quelque réalité que ce soit: elle est son propre simulacre pur» (J. Baudrillard, Simulacres et Simulation, Galilée, Paris 1981, p. 17). 2 A difesa del valore storico-documentale delle immagini si schierano sia Peter Burke nel suo Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini (Carocci, Roma 2002), sia Georges Didi-Huberman, che in Immagini malgrado tutto (Raffaello Cortina, Milano 2005) affronta la questione complessa dello statuto delle testimonianze visive della Shoah. Kutlug Ataman Spettatori, sorveglianti o sorvegliati? di Roberto Escobar occhio è un organo del potere. Basterebbe a provarlo lo slogan trasparente cui qualcuno affidava le proprie fortune elettorali nell’Italia del dopoguerra: dio ti vede. Oggi sorridiamo di quella arcaica minaccia ottica. Temibile ci sembra piuttosto la vista puntuta di una moltitudine di modernissimi dèi tecnologici. Chissà, forse la rete informatico-satellitare di Echelon, qualunque cosa davvero sia, nell’immaginario ancora vale come un dio scrutante e assoluto. Echelon ci vede, appunto, e sotto il suo sguardo ci sentiamo dettagli impotenti. Insomma, si tratti di un occhio dentro un triangolo o di un sistema di sorveglianza globale, sempre l’onnipotenza viene immaginata – e anzi proprio ci si mostra – come onnivedenza. Per quanto mutino le credenze e gli «strumenti tecnici» che le nutrono, un punto sembra fermo: il potere s’accompagna alla pretesa (spesso ostentata) di scrutare la vita degli esseri umani fin nei loro ambiti più segreti. Non importa che si tratti di un potere solo religioso o solo politico, o politico e religioso insieme, come di nuovo accade nel mondo, anche in Occidente. In ogni caso, e con certezza, l’occhio è un suo organo necessario, almeno quanto lo sono la bocca (di chi comanda) e l’orecchio (di chi obbedisce). L’ Synopticon In realtà, Bentham per primo nega che i reclusi del Panopticon si possano osservare tutti e in ogni momento. E poi, nota, costerebbe troppo. Più facile è convincerli che sono, se non visti, comunque sempre visibili. A questo scopo, basterà che i guardiani stiano nascosti dietro speciali persiane cieche che però consentano loro di guardare. E poi sarà necessario che quelle persiane incombano sulle celle, imponendosi agli occhi dei reclusi. Sarà necessario, cioè, che essi le vedano, e che ne traggano la certezza d’esser sempre in balìa di un occhio. Insomma, e per paradosso, la macchina di Bentham non è tanto un panopticon, quanto un synopticon. Ossia: funziona non perché i pochi (i guardiani) vedano i molti (i reclusi), ma perché i molti guardano i pochi, o meglio guardano gli strumenti e i simulacri della loro onnivedenza. Dietro le persiane potrebbe non esserci alcun guardiano. Basterebbe che i reclusi lo credessero, convinti da quello che il potere mostra loro. Echelon è dunque superfluo? Certo no. La macchina panottica consente un controllo efficace sui «dissidenti», e un’efficace sanzione. Ma per la maggior parte degli uomini e delle donne, e per la maggior parte del loro tempo, a garantire l’obbedienza bastano i loro stessi occhi, tutti insieme orientati alle macchine prodigiose che del potere mettono in scena l’onnivedenza, e dunque l’onnipotenza. Poiché siamo in tema di sguardi, proviamo a rovesciare il nostro. Invece di immaginarci i reclusi del Panopticon, guardiamo verso l’altro lato della macchina d’obbedienza, verso i guardiani. Anch’essi sono scrutati da guardiani più alti in grado di cui, anch’essi, vedono le persiane cieche. In tal modo, scrive Bentham, faranno quel che devono, proprio come i reclusi. Ma non è solo questo che li convince. Insieme, chiusi nelle loro stanze d’osservazione, conta per loro il desiderio di sfuggire alla noia. E che cosa c’è di più divertente, e di più a portata d’occhio, dello spettacolo dei reclusi e della loro vita infelice nelle celle? Se poi insieme con loro abiteranno mogli e figli, anch’essi passeranno le loro giornate a quel modo. Tutto questo suggerisce Bentham. E a noi si fa evidente un altro spettacolo, stranamente familiare. Sono spettatori, e anzi sono proprio telespettatori ante litteram, quei guardiani, e lo sono le mogli e i figli. Sono spettatori che «spontaneamente» guardano là dove la macchina d’obbedienza vuole che guardino. E a questo guardare si riduce tutta la loro vita. Insomma, nel mondo panottico/sinottico qualcuno obbedisce perché guarda gli strumenti della sorveglianza, e qualcun altro obbedisce (anche) perché guarda i sorvegliati. Vogliamo concluderne che i primi sono i più vicini al potere, i più «liberi» e ric- È il Panopticon che fissa e descrive nella nostra cultura politica il ruolo centrale dell’occhio. E panottica è oggi la nostra angoscia di vivere in balìa d’un potere senza limiti tecnici, e in questo senso assoluto. L’essere del tutto esposti alle sue telecamere: questa ci sembra la condizione di un’illibertà quasi invincibile. A noi capita davvero, così ci sembra, quel che solo in teoria capita ai reclusi della «casa di sorveglianza» progettata da Jeremy Bentham. Come loro, anche noi siamo tutti e in ogni momento scrutati da un piccolo numero di guardiani. Chi è Roberto Escobar oberto Escobar insegna Filosofia politica all’Università di Milano e collabora con il «Sole-24 Ore». Tra le sue ultime pubblicazioni: Il silenzio dei persecutori ovvero il Coraggio di Shahrazàd (Il Mulino, 2001) e La libertà negli occhi (Il Mulino, 2006). R Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 77 Kutlug Ataman Nel mondo panottico/sinottico qualcuno obbedisce perché guarda gli strumenti della sorveglianza, e qualcun altro obbedisce (anche) perché guarda i sorvegliati. Vogliamo concluderne che i primi sono i più vicini al potere, i più «liberi» e ricchi, e che i secondi sono i più poveri, gli esclusi? chi, e che i secondi sono i più poveri, gli esclusi? L’ipotesi è fondata. Ma si può anche immaginare che siano, gli uni e gli altri, sempre gli stessi spettatori totali, ora considerati nella loro illusione d’essere appunto liberi, e ora considerati nella loro effettiva illibertà. C’è della genialità, nel Panopticon. La sua architettura è tale che l’obbedienza e la sofferenza di una parte funzionano come «spettacolo» che sorregge l’obbedienza dell’altra. E tutto procede verso lo scopo finale della macchina: l’ordine e la massimizzazione dell’utilità generale. Occhio nel triangolo o Echelon che sia, la messa in scena dell’onnivedenza garantisce che il mondo abbia un senso, e una coerenza. Certo, qualche infelice sta rinchiuso nella sua cella, senza possibilità di decidere di sé, e senza possibilità materiale di disobbedire. Ma tutto questo non è che un elemento di quella coerenza, e come tale è legittimo, e anzi proprio necessario. 78 Se poi qualcuno tra gli infelici sarà tentato di rivoltarsi nel solo modo che gli sia ancora possibile, cioè urlando la sua disperazione, ai guardiani/spettatori basterà entrare nella sua cella e imbavagliarlo, per non esser più infastiditi. E a quel punto che cosa potrà fare? Potrà gettarsi con la testa contro il muro, ma in silenzio, senza disturbare i suoi carcerieri. Dunque, presto capirà che è nel suo «interesse» arrendersi e obbedire. Alla fine si acquieterà, conclude Bentham, e in lui morirà il desiderio stesso della libertà. Tutto questo, in piena indifferenza, vedono (e fanno) quelle tranquille famiglie di spettatori totali, ben strette attorno alle persiane cieche, magari riunite a tavola. E non ne provano spavento morale. Dettagli Qualcosa qui dovrebbe emergere ai nostri occhi, come un uno scandalo e una «pietra d’inciampo». È evidente, quel qualcosa, ma i Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 lettori di Bentham, anche i più «occhiuti», per lo più non lo vedono. Lo spettacolo che si offre ai guardiani è orribile: è questo orrore che dovrebbe emergere, e che invece resta nascosto. Quello che gli spettatori totali vedono ogni giorno, e per tutto il giorno, è la disperazione di poveri esseri derubati d’ogni libertà, d’ogni umana dignità. Sono schiavi, e ancor peggio che schiavi. Sono violati fin nel segreto di se stessi, evirati d’ogni speranza di libertà e desiderio di rivolta. Se gli spettatori totali non vedono questo scandalo, non è perché siano esseri umani mostruosi, ma proprio perché sono esseri umani normali: ossia, partecipi della norma della macchina, della coerenza della sua messa in scena. Come in un film già tutto girato, o come in un libro già tutto scritto, la storia – la loro personale e quella totale della macchina – viaggia spedita verso una meta che nessuno mette in discussione. Ovvio perciò che sia solo dettaglio quel che devia dal cammino condiviso. E i dettagli per lo più non si notano. Come i guardiani di Bentham, anche noi ogni giorno siamo assaliti da immagini per se stesse «evidenti» di corpi straziati e di anime stuprate. Ma è tutto necessario, ci diciamo, e dunque è tutto legittimo. Lo è anche se ci capita di intenerircene, e di partecipare a una delle molte messe in scena (per lo più televisive) d’una pietà anch’essa «necessaria e legittima». Come all’indifferenza morale, anche a questa pietà ridotta a spettacolo niente si fa davvero evidente: niente che riesca a emergere, e a chiedere che tutta la macchina d’obbedienza perda appunto necessità e legittimità. Si dice che la nostra cecità per i dettagli derivi da un eccesso di immagini, ossia dal fatto che le «persiane cieche» che ci riempiono gli occhi siano tanto dense di orrore da indurci a dubitare della loro attendibilità, e forse ad annoiarcene. E si dice anche che la nostra indifferenza nasca dalla consapevolezza che niente ci è dato di fare, come singoli, in un mondo dominato dall’onnipotenza di imperi del male e di imperi del bene, di terroristi in nome di dio e di terroristi in nome dello Stato. Ma forse si tratta solo di una questione «ottica». Siamo troppo presi dal timore che la nostra libertà sia negata da un grande occhio scrutatore, e insieme siamo troppo presi dal desiderio di godere della sua messa in scena, e così non riusciamo a vedere che quella nostra libertà muore ogni volta che muore un dettaglio. Proprio questo vuole il dio che ci vede, chiunque o qualunque cosa esso sia. A noi però resta la scelta e anzi proprio la decisione di contrapporre al suo occhio totale e assoluto il nostro singolare e attento a quel che è relativo. E qui si apre una questione certo politica, ma anche e soprattutto etica. Fabio Mauri L’arte è ciò che resiste La creatività come argine morale e politico. Biografia di un artista italiano Inverosimile di Fabio Mauri Attraversando lo specchio dell’ideologia Intervista a Fabio Mauri di Stefano Chiodi A cosa serve la critica di Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 79 Fabio Mauri Inverosimile di Fabio Mauri L’artista, l’opera abio Mauri, nato a Roma nel 1930, è da più generazioni un punto di riferimento nella scena artistica italiana contemporanea. Con estremo rigore etico, morale e politico ha sempre lavorato sugli stessi canovacci: i modelli comportamentali dell’ingiustizia, della sopraffazione e dell’autoritarismo, l’interpretazione storica quale necessità di libertà, contro la rimozione della memoria personale e collettiva. Con Mauri la storia rivive attraverso molteplici artifizi: luci, suoni, segni d’epoca, costumi, prospettive. I diversi mezzi che l’artista adopera – e quindi le differenti tecniche di comunicazione – pittura, accadimenti, azioni, ambienti, installazioni, scritti teorici interagiscono di continuo e lungo l’arco di oltre cinquanta anni. Fine dai primi esordi pittorici, alla base di tutta la sua produzione vi è una riflessione sullo schermo – quello cinematografico e quello televisivo – e sulle implicazioni della proiezione nella società e nella soggettività contemporanea. Mauri vive la sua infanzia durante il fascismo, e matura il suo pensiero e la sua opera negli anni Cinquanta, quando, oltre al cinema, arriva la televisione. In questo contesto va collocato l’inizio della sua ricerca, quale contributo anticipatorio del dibattito attorno alla teoria della comunicazione. Nel corso del decennio successivo, mentre la Pop Art si astiene da qualsiasi giudizio sull’oggetto delle proprie rappresentazioni e non si interroga sulla comunicazione stessa, né sui rapporti tra arte e comunicazione, è proprio invece quest’ultimo il terreno su cui scende Mauri, esplorando i nessi e le contraddizioni tra comunicazione e ideologia, estroversione dello spettacolo e introversione del «testo» (fino alle proiezioni di sequenze di un film di Pasolini sul petto del regista). A partire dai primi anni Settanta, poi, le sue opere non si riferiscono F 80 più direttamente al mondo virtuale dello schermo, bensì al racconto che vi è narrato. Ormai all’interno della «proiezione», lo spettatore è compartecipe, attraverso l’azione di persone vere, e attraverso gli oggetti che popolano questo spazio della manipolazione, del manifestarsi e dell’incarnarsi dell’ideologia: dalla prima volta di Che cosa è il fascismo (1971), a Ebrea (1971), Vomitare la Grecia (1972), Manipolazione di Cultura (1973 – 76), Oscuramento (1975), etc. Dalla pittura alla performance, rasentando il teatro, con questi lavori Mauri è tra i primi della sua generazione a cogliere l’opportunità nata dagli sconfinamenti «extrapittorici» e concettuali dell’arte degli anni Sessanta e Settanta, distinguendosi , però e radicalmente, attraverso l’invenzione di forme espressive assolutamente sue proprie, così originali da poter essere portate avanti fino ad oggi senza mai cadere in quei manierismi ripetitivi che sostituiscono oggi il limite di ricerche solo nominalmente d’avanguardia. Tra performance, teatro e installazioni l’opera di Mauri attraversa liberamente i linguaggi della rappresentazione ponendo come riflessione critica il valore e l’uso del linguaggio in quanto tale: la manipolazione dell’immagine e del suo valore semantico, l’uso delle parole, il valore politico e sociale, ideologico e di manipolazione. L’arte allora diviene un esercizio di critica teso a svelare i meccanismi con il fine di proporre un atteggiamento di resistenza che diviene coscienza critica e tensione morale. A pagina 79 Che cosa è il fascismo, 1971. (performance) Museo Pecci, Prato, 1993. Foto: Claudio Abate Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 L’installazione mostra la cultura che mi ha guidato una vita. È un ritratto in frammenti di culture di dimensioni estese, certo complesse, dell’Europa in cui vivo. Mi aiutano le luci dei film preferiti, trame intelligenti, veri giudizi sul mondo. Il nazismo, il fascismo, una cultura formale, psicologica, l’espressionismo indelebile, le dinamiche di avanguardia, la guerra, l’ideologia del turbamento, le rivoluzioni mancate, un ordine di cose, anzi un disordine delle successioni reali che formano la presenza incoerente del destino, un dato solo esterno, è la materia dell’opera. Scenario o scena mobile, più che un’installazione. Vi è esclusa l’immobilità simbolica di oggetti troppo severi. Scorrono, su chi assiste, i segni del secolo. Possono venire calpestati, visti in un accurato ingrandimento, che a tratti, come succede, una mano coloratissima tinge su di una scena sbiadita. È la realtà in cui vivo, io e pochi altri? Non credo. Una città di gente è tecnicamente infelice, tesa verso uno schermo irreprensibilmente disadatto a inserire una tregua tra gioia e dolore, in cui l’essere smetta di essere praticato senza uscita, alla cieca. I sonori, vari e diversi tra di loro, indicano il materiale auditivo irresistibile, che incute paura o seduzione, persino sciocca, ma efficacissima. La tenerezza si offre a chiunque, ritmicamente, annullando l’avidità del frastuono. Forse la mia scena è viziata. Un naturalismo urbano, percepito da vicino in frangenti eccezionali, come è nelle scissioni cerebrali dell’Alzheimer, accostate in una persona che amavo, conduce a una visione non irreale, ma unilaterale, severa e giudice del mondo. Mi ha congelato. Un vetro in pezzi non deformi, specchiante realtà ugualmente in pezzi. Ho chiesto aiuto a strepitosi talenti, non mi hanno detto di no. Come rimanessi in casa, nella mostra faccio comparire figurette di strada, accanto a vere esibizioni di genio. Da laboratorio esperto la mia mente è divenuta una scena inerme. E aspira, se è lei, a farsi imprenditrice di nuova realtà. Ogni giorno mi imparento con ciò che vedo. Piazza Navona pullula di figure egizie, romane, fiabesche, statue vive. Ho cercato di portarne con me, fanno parte dell’incomprensibilità minore del mondo. L’ironia c’è, ma sembra esclusa dai grandi temi dell’universo. Nel conto tra terra e cielo evito l’errore di considerarne uno solo. Entrambi formano l’essere, un intreccio inseparabile. Secondo un’antica definizione di Umberto Eco, questa mostra è un’opera «integrata» (a un linguaggio, a una storia dell’arte moderna, alla pratica di un clima civile o barbaro) ed è anche «apocalittica» (per il pensiero di Dio e della fine, secondo Giovanni, che viene citato). Non vi è contrasto, semmai circola una passività condivisa, per accostare, in segreto, le mosse gigantesche, essenzialmente mal disegnate, quasi invisibili, della storia. La mia età esclude di venirne a capo. Posso fissare nell’occhio il destino e gridare «Ti ho visto!». La grande croce di El Lissitzkij mi assista. Roma, 2/3/2007 Fabio Mauri Fabio Mauri Attraversando lo specchio dell’ideologia Intervista a Fabio Mauri di Stefano Chiodi na dimensione esplicitamente politica si è affermata nel tuo lavoro solo a partire dagli anni Settanta; cosa ha preparato questo mutamento rispetto al tuo percorso precedente? Fino al 1964 avevo fatto parte del gruppo di giovani artisti attorno a Piazza del Popolo. Si pensava che cambiando la lingua si migliorasse il mondo, si aprissero le porte di un’arte nuova. L’espressionismo astratto era stato alla base dei nostri primi tentativi, della nostra riflessione sul rapporto con la realtà: conoscevamo da vicino gli artisti americani. Poi ci fu il 1964 e la Biennale con la rivelazione della pop art. I pittori americani facevano le stesse cose che avevamo cominciato a fare dal ’57-58, ma in dimensioni che noi non avevamo mai raggiunto, opere di oltre tre metri, immagini gigantesche vicine al design industriale e pubblicitario. Capii subito che era il seppellimento italiano, mentre gli altri no, pensarono «Siamo sulla giusta strada, andiamo a New York!». Non fu così: chi andò in America ci rimase un anno, due, ma alla fine tutti dovettero tornare. L’America non naturalizzò gli artisti italiani. Le ragioni sono diverse e note. U E quale fu invece la tua reazione? Mi fermai a riflettere, era evidente che la cultura artistica aveva spostato il suo baricentro. Da una parte c’era New York, culturalmente vitale, e dall’altra un’attesa altrettanto vitale per la Russia che ancora non aveva prodotto nulla; in mezzo si apriva una grande valle che comprendeva l’Italia, un paese in qualche modo culturalmente scartato per diverse ragioni, per la lingua forse; ma comunque scartata era anche l’Inghilterra, benché tra Roma e Londra ci fossero stati artisti che avevano intuito la nuova realtà della società dei consumi. Per qualche anno, dal ’64 al ’68, non ho fatto mostre. Sono stati anni di riflessione? Una specie di depressione riflessiva, in cui notavo che gli americani erano più brutali, più diretti. Noi avevamo inconsciamente l’occhio a una misura classica. C’era su di noi l’ombra della grande arte. Non riuscivamo ad affrontare la realtà, non saremmo stati capaci di fare una scultura con la Coca-Cola. L’ho scritto altre volte: la bottiglia del Chianti non poteva avere la stessa funzione emblematica, rimaneva dialettale. Era necessaria una presa di posizione di fondo; volevo capire. Da quando, e dove? Ho iniziato dalla prima giovinezza, dalla mia biografia. C’era stato il fascismo, la guerra, lo sterminio degli ebrei. Dovevo ricominciare da lì, analizzare i disastri subiti, il freddo, la fame, la paura, i bombardamenti. Uno scoppio – un terremoto – quando si usciva all’aperto non vedevi più il palazzo di fronte, sentivi che una famiglia era morta. Ho cominciato a riflettere su tutto questo. Impresso nella memoria trovai un raduno di Ludi juveni- Chi è Stefano Chiodi tefano Chiodi è storico e critico d’arte. Si interessa all’arte e all’estetica contemporanee cui ha dedicato articoli e volumi come Espresso (Electa 2000), Prototipi (Sossella 2004) e il recente Una sensibile differenza (Fazi 2006). Ha curato edizioni di testi francesi e anglosassoni e mostre in musei pubblici (la più recente: vedovamazzei, MADRE, Napoli 2006). Per l’editore Fazi dirige la collana «Arte» e scrive su «il manifesto», «Alias», «Il Caffè Illustrato», «Tema Celeste». Insegna storia dell’arte all’Accademia di belle arti di Macerata. S les a Firenze, nei giardini di Boboli, dove ero stato con Pasolini, Fabio Luca Cavazza, Francesco Leonetti. Avevamo incontrato i giovani della Hitlerjugend. Le ragazze con le treccine, i maschi solo biondi, alti uguali. Noi eravamo un po’ diseguali, uno con le fasce storte, l’altro col fez in un modo ecc. Ripensando a quelle giornate riflettevo sull’aspetto politico e storico del destino, a come la storia incide sulla vicenda dei singoli. Sembra un incidente, ma è la sostanza di una vita. Come si trasformò allora il ricordo dei Ludi juveniles in un lavoro artistico? Volevo fare una mostra che riferisse di queste memorie, presentando un oggetto storico, senza aggiungere niente. Da un vecchio negoziante avevo trovato il microfono di Mussolini, l’originale, chiuso in una scatola come una reliquia, sepolto nella bambagia. In quel microfono era passata la voce, lo sputo di Mussolini… dai piccoli buchi era filtrata la dichiarazione di guerra. Milioni di persone erano divenute soggetti di un destino. Ho fatto di tutto per avere quell’attrezzo. Ho detto bassezze, «Noi fascisti…». Ero pronto ad aprire un mutuo per acquistare il microfono, l’idea era eloquente. Il simbolo parlava di una realtà storica italiana, europea. E te lo ha dato alla fine? No, il vecchio non c’è cascato… Nel frattempo, era il 1971, Giorgio Pressburger mi chiamò all’Accademia d’Arte Drammatica per un seminario e una performance. Avevo sempre in mente quel che avrei potuto fare con il microfono di Mussolini. Da questa idea derivò Che cosa è il fascismo. Decisi di rimettere in piedi con gli allievi dell’Accademia il raduno di Boboli, cercando di ricostruirne esattamente l’atmosfera, togliendo il cowboy o la pin-up dalla gestualità dei giovani, insegnando alle ragazze a sedersi con le ginocchia chiuse e ai ragazzi a stare diritti, a marciare e ubbidire subito agli ordini… Il primo insegnamento consisteva nell’essere di un’epoca per loro Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 sconosciuta. Mi sono messo in cerca di testi di Mistica Fascista, li ho trovati e assemblati per ricreare quegli scambi tautologici che ricordavo di aver ascoltato: «Perché credi nel Duce?», «Perché il Duce ha detto di credere in lui», «Ed è giusto?», «Sì, lo ha detto il Duce!»… In quegli anni qual era la tua percezione del fascismo? Lo consideravi una «parentesi», come aveva detto Croce, una pagina nera della storia italiana, oppure, come Gobetti, l’autobiografia della nazione, un’ideologia che aveva avuto un seguito reale nel paese? Del fascismo non parlava più nessuno, lo si giudicava un’esperienza politica chiusa, che la democrazia aveva già giudicato e condannato. Non era vero: Che cosa è il fascismo è andato in scena tre giorni dopo il golpe Borghese! Tutte le volte che io ho ripreso Che cosa è il fascismo ho dovuto lottare fino all’ultimo contro questa riluttanza a fare i conti con la realtà. Gobetti aveva molta ragione. Che cosa è il fascismo è stato pensato più in termini teatrali, come messa in scena, o come una performance che coinvolgeva in modo specifico interpreti e pubblico? È teatrale nel senso che ho inventato una scena, una sintesi spaziale di ciò che avevo vissuto, ma la scena era anche un’installazione orientata come un tunnel. Non c’era una trama, ma un percorso mentale. Le tribune nere, attorno al grande tappeto, disegnavano l’unico punto della dottrina fascista di una certa consistenza: il corporativismo. C’erano le tribune dei familiari, dei giornalisti, degli ingegneri, dei grandi proprietari terrieri, ironicamente. Il pubblico assumeva o meglio subiva la sua parte, sedendosi in tribuna. Erano perfetti attori involontari, borghesi, popolari, ignari, stupiti, divertiti, offesi, vecchi e giovani. E c’era anche la tribuna «razziale»… Sì, due tribune, piccole, con la stella ebraica. Era un modo per rendere la «normalità» iniziale 87 Fabio Mauri »Io faccio una cosa situata tra il teatro e la performance, rimango dietro le cose, mi basta pilotarle fino al dettaglio. È una forma quasi privata, espongo ciò che il mio Io sa. L’arte che faccio è frutto di elaborazioni di coscienza, operazioni pubbliche ma fortemente individuali. Diventano politiche nella lunga durata» delle leggi razziali che furono anche la fine dell’identificazione della mia dolce vita giovanile con la vita fascista. E quale visione volevi far emergere in quella e nelle altre tue performance che hanno come tema il fascismo? Avevo trovato il fondo di un carattere critico, il mio. E il possibile inganno delle idee. La performance doveva essere una specie di termometro della storia italiana, di un fascismo diffuso, del suo essere classista, del privilegiare i più forti, della sua essenziale superficialità. Una cosa ricordo bene: i capimanipolo, i capiclasse, i capisquadra, erano i più stupidi, sempre; più sciocchi e più autoritari perché avevano bisogno di qualcuno che detenesse la verità che loro amministravano, e questo ovunque. Nel gruppetto di intellettuali con cui condividevo una piccola notorietà bolognese – Pasolini, Serra, Cavazza, Telmon… – iniziammo a sentire il ridicolo delle parole d’ordine, della mascherata settimanale… La performance era anche un modo per «politicizzare» la scena dell’arte? Per me l’arte che si politicizza in realtà è l’arte che approfondisce la coscienza e la conoscenza del mondo, che scopre il destino formato da caratteri interiori e personali, persino fisici, e da elementi esterni ed eterogenei, estranei. La guerra ad esempio, non è un incidente, ma una percentuale non indifferente che il destino occupa nella vita degli individui, e in cui la politica ha un peso straripante. Come consideri la scelta di Pasolini con «Salò», e cioè mettere in scena il testo di Sade in un contesto fascista? È un’operazione che somiglia alla tua da questo punto di vista? Me lo sono chiesto più volte. Alcuni mi hanno detto che ho suggerito a molti molte cose, avendole fatte una volta sola. Può darsi. Ma di sicuro non ho mai pensato di sommare Sade e Salò. Il fascismo è concettualmente orribile, per me, senza 88 l’aggiunta di orrori. Rappresenta una retorica ideologica che conduce alla morte. Nell’agitata atmosfera politica seguita al Sessantotto qual era la tua posizione? Io non facevo della politica, ma della coscienza; è una cosa identica e insieme profondamente diversa. Credo sia identica alla fine, per me almeno è così. Insomma rispetto all’«impegno» tipico di quegli anni il tuo atteggiamento era diverso. private. Diventano politiche nella lunga durata. La «coscienza» di cui parli ha insomma a che fare con un principio etico più che con una visione politica. È un senso di coscienza storica e politica del bene e del male, del sociale e dell’individuale. E parlando di coscienza, fornisco evidentemente delle indicazioni sul mio concetto di arte e di artista. Cos’è l’arte? Sono sempre ossessionato dal capire la mia idea dell’arte, cioè cosa faccio. È mol- mo mio esperimento è la vecchiaia, che arriva per conto suo ed è di un’altra epoca, è curioso. Somiglia nella sua novità a qualcosa che ho già vissuto in un’età disadatta. Aver lavorato sul fascismo, sul nazismo, sul negativo della storia europea, risponde alla ricerca di una spiegazione delle ragioni del male? Sì, l’ho già detto, le mie sono tematiche dell’esperienza; molte volte, dopo aver visto Che cosa è il fascismo, qualcuno mi chiede: «Tutto bene, lei ha sperimentato questo e quest’altro, è vero, ma perché non fa l’analogo col comunismo?». Una domanda severa, politica. Perché ne sono incapace, rispondo. Forse è un handicap, un tabù, ma quella realtà non l’ho conosciuta frontalmente. Forse sono stato, e sono, un marxista «colto»: da bambino invece di Pinocchio mio padre mi leggeva Marx, mi spiegava il Capitale. Lo teneva sulla scrivania come una Bibbia, sebbene fosse un categorico liberale. Ci congratulavamo con Marx o lo disapprovavamo. Sono marxista come un altro sarebbe crociano. E in seguito sei stato comunista? Mai, no. Ebrea, 1971. Foto: Claudio Abate Sentivo che la volontà di «fare politica» poteva diventare una presunzione quasi mondana. Molte volte sono stato invitato a «far parte» di gruppi, ma ho sempre detto di no: io non faccio arte politica, dicevo, non sono militante di un partito, non mi calo in una postazione, o se lo faccio, lo faccio già attraverso la moralità dell’arte. L’arte che faccio è frutto di elaborazioni di coscienza, sono operazioni pubbliche ma fortemente individuali, quasi to vicina a una mia idea di vita, o è la stessa cosa. Ho fatto un’arte come rapporto di giudizio tra me e il mondo. Ho scelto il mondo come interlocutore per capire dov’ero, e ho avuto un rapporto conflittuale ma dialettico con l’esistenza. Questo procedere a occhi sbarrati in una sorta di luce anziché di buio è il mio personale Not Afraid of the Dark. Niente ancora mi immobilizza, sono stato sempre a disposizione dell’ultimo esperimento. Ora, l’ulti- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Si potrebbe dire che il totalitarismo in sé sia il tuo oggetto di studio. Ho visto il terrore dell’ideologia, come l’ideologia possa dare un’idea di un mondo interamente falso e mascherare le potenzialità distruttive, perché l’ideologia, ahimè, è un modo in cui l’uomo pone attorno a sé una serie di campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo. L’ideologia totalitaria pensa il mondo per te, obbligatoriamente. L’uomo apprende tutto per cartolina, cambia il suo vestito con la divisa, prende il moschetto invece che l’ombrello. L’ideologia gli insegna come dare la mano, come salutare. Io mi sono messo a pensare cos’era l’ideologia e in che cosa l’ideologia tendeva a fare a meno o a diversificarsi dall’esperienza, proprio sul versante della critica della coscienza: la «coscienza critica» per me è il Fabio Mauri «Ho visto il terrore dell’ideologia. L’ideologia totalitaria pensa il mondo per te, obbligatoriamente. L’uomo apprende tutto per cartolina, prende il moschetto invece che l’ombrello. Io mi sono messo a pensare cos’era l’ideologia: la «coscienza critica» per me è il salvacondotto di ogni attività, anche artistica» salvacondotto di ogni attività, anche artistica. Il pensiero ideologico è davvero finito, siamo alla fine entrati in quella che è stata definita la «post-storia»? Per me tutta la storia è «post-storia», e non ha fondamento come idea moderna. Il modo di pensare ideologico non è finito: è ineliminabile. Dopo la caduta del Muro di Berlino tutti hanno pensato che l’ideologia fosse morta. Io non l’ho pensato un secondo. Anzi. La storia contemporanea è scomparsa per due istanti, ed è riemersa subito, ideologica. La maggioranza degli uomini cerca l’ideologia. In un certo senso è un sottoprodotto del pensiero. Per non essere un pensiero aperto, deve fare un’operazione interna di chiusura critica. L’ideologia assembla l’uomo a un’identità centrale, non individuale. È una tautologia critica. Sopprime con atteggiamento fermo e feroce ogni idea contraria. Dai sedici ai venticinque. Quindi ne uscii, sentivo che dovevo reincontrare di nuovo la vita comune. Cosa ti è rimasto di quell’esperienza? La fede. Io ormai so che Dio c’è. Questa parte della tua vita l’hai mai dimenticata o voluta dimenticare? No, l’ho avuta sempre in mente. E la tua esperienza religiosa si è intrecciata a quella artistica? Per tornare al tuo percorso artistico, c’è una tua opera in particolare, «Intellettuale», che affronta direttamente la questione del rapporto tra l’opera e il suo autore; avevi chiesto a Pier Paolo Pasolini di fare da «schermo» di proiezione per un suo film. Il Vangelo secondo Matteo. Sì, e c’è una fotografia famosa di Pasolini in camicia bianca mentre l’immagine scorre sul suo petto. Sappiamo che stava ascoltando la colonna sonora a Quindi da un certo punto di vista toglie l’ansia, cura. Può togliere l’ansia, ma non cura, perché ritorna più grave nei fatti. Ma la religione, tutte le religioni, direbbe un illuminista, non hanno proprio questo carattere? Anche la religione può diventare ideologica. Cristo condanna i farisei, il loro modo formale di considerarsi religiosi. Li chiama «vipere». La religione è un tragitto verso Dio, complesso e oggettivo come l’Essere, su cui nessuno discute, o pochi. Non è un botteghino in cui compri il biglietto una volta per tutte, né un conforto generico. È una passione su ciò che credi, che è Dio, e una discussione con lui. Sei o sei stato credente? Sono stato molto religioso, di una religiosità che mi ha condotto prima in cliniche dove cercavano di «guarire» le mie ossessioni, e poi dopo, per sette anni, a occuparmi, in un paese vicino a Civitavecchia, dei ragazzi che la guerra aveva lasciato soli. Quanti anni avevi? solida sull’oggetto mondo. Pasolini credeva di contenere il Vangelo che aveva decifrato, ma non capiva più a che punto era, nella performance. Come se perdesse lo sguardo sulla propria interiorità, era sgomento. Io non sapevo bene cosa volevo ottenere, ma era qualcosa che riguardava una sorta di scambio di coscienza. Lo sottoponevo a una prova, forse. O sottoponevo me alla stessa prova. Volevo ritrovare la mappa della nostra amicizia, intensa sui temi generali, compreso Dio. Quando si andava a cena con Pasolini, sembrava di cenare con Cristo. Pasolini, la sua arte cinematografica, non era sempre un testamento ideologico, ma una mimesis profonda. Niente della sua arte gli era estraneo, né Dio, né il sesso, né se stesso. Pier Paolo somigliava a Michaux che diceva: «Non sono mai stato tanto religioso come quando ho peccato». È discutibile, ma ne ho esperienza, può essere così. La proiezione dà quindi significato? Certo, il significato è una «proiezione» della mente. Quindi è simile alla proiezione di un film. Per questo proietto film d’autore, cioè di chi ha un’esperienza, interpreta un fatto, matura un giudizio. Ideologia e natura, 1973. Galleria Duemila, Bologna. Foto: Elisabetta Catalano Hai intitolato una tua conferenza-performance «Dio e la scena». Mi sono molto chiesto se a Dio piaceva l’arte moderna e se per caso gli era piaciuto qualcosa che faccio io. Hai trovato una risposta? La risposta, col tempo, è che a Dio piaceva Picasso. Certe cose che ho fatto forse gli sono piaciute. Ma posso ingannarmi, certo... volume intenzionalmente alto. Si potrebbe dire che tu stessi visualizzando l’estraneità dell’autore al suo stesso lavoro, il suo essere accecato e assordato rispetto al semplice spettatore. Ho scritto sul senso della proiezione. È un esperimento di fisica. Noi siamo un condensato di memoria, proiettiamo continuamente una memoria, per riconoscere il mondo; nell’artista la memoria si scontra, ma si con- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Usare il corpo come «schermo» potrebbe alludere al fatto che le immagini non appaiono mai semplicemente su una tela o su un muro, ma finiscono sempre per essere assorbite, digerite, modificando chi le osserva. Certo. Ma proiettare un’immagine su un corpo, o anche su cinquanta litri di latte o su un’altra materia modifica la proiezione, cioè produce un significato inedito. È una palese dimostrazione della nascita del significato. Nasce da tutto ciò che noi conteniamo nella memoria, e dall’immobilità apparente della realtà. Nell’incontro la somma crea un ibrido. Sembra meccanico, ma non è che il nuovo significato. Il tuo lavoro più recente continua a interrogare il totalitarismo? In realtà il mio interlocutore è 89 Fabio Mauri «Il modo di pensare ideologico non è finito: è ineliminabile. La maggioranza degli uomini cerca l’ideologia. In un certo senso è un sottoprodotto del pensiero. L’ideologia assembla l’uomo a un’identità centrale, non individuale. È una tautologia critica. Sopprime con atteggiamento fermo e feroce ogni idea contraria» oggi la vita in generale, non più solo la storia o la politica italiana. Anche se l’esperienza del male da cui parto, ad esempio nel lavoro di Milano, è ancora quella di cui so la storia e l’incidenza: Hitler è un simbolo intatto. C’è una piccola citazione, una battuta in Casablanca, due che parlano e uno dice a un ufficiale tedesco «Ogni volta che Lei nomina il Terzo Reich, sembra che ne stia aspettando un Quarto». L’ho estrapolata, come un avviso. La natura della storia è quella del mondo. Dall’ovvio al profondo, dal bene al male, dal pacifico al sanguinario. L’uomo non è un incidente. È una coscienza protagonista. Anche se non ne è più il centro, resta un epicentro dell’universo, almeno visto dalla Terra. Il Quarto Reich è quello che deve venire, che ci minaccia sempre. Certo. Mi sto approssimando con questa mostra a un’impressione forte. Quando avrò centrato la cosa, forse sarà sgradevole, e formalmente giusta. Vorrei comunicare il senso di smarrimento che provo. Individuare lo smarrimento è già una difesa, tu devi capire cosa ti travolge, ma smarrirsi vuol dire essere attenti e anche ammonire a stare attenti. La vecchiaia è scoprire finalmente cosa è l’esistenza, e non azzardarsi a sapere senz’altro cosa sia. Una contraddizione piena di chiarezza. Non so chi voglio commuovere. Cerco di disilludere. Questo caos non è un caso. Come quando componevo Che cosa è il fascismo. Sembrava di camminare sul vuoto. Sono curioso di vedere che c’è sotto. da un’estetica concreta o pragmatica, è un’invisibilità che si stabilizza tra le cose, come un oggetto. Non bisogna descrivere un gesto artistico in modo troppo semplificato pur di farsi capire. Anche per l’arte, come dice Einstein per la relatività, la spiegazione è semplice ma non troppo semplice. Nella mostra si vedono molti segni di ciò che ho raccontato, attraverso proiezioni, «titoli di coda», nomi e cognomi, professioni, gente che vive di film, o vive il mondo come film. Dice se gli piace o no. Bisogna stare attenti; il mondo prende posizione per conto suo. È un mondo, o è il mondo? Si ascoltano sonori di film. Il sonoro occupa spazio come un solido. La scena alla Bicocca è pronta, non è una Comédie humaine semmai è un Cinéma humain. Si può dire? TITOLI DI CODA L’arte dal tuo punto di vista è come cercare un passaggio, o una via d’uscita, tra disillusione e smarrimento? In arte per raggiungere chiarezza si possono fare solo esempi sproporzionati. Se qualcuno avesse chiesto a Giorgione cosa intendeva fare mentre dipingeva La Tempesta, «Un nudo di donna in primo piano», avrebbe potuto rispondere, «e, accanto, un arabo, no, un sacerdote… no, un mago». In realtà Giorgione dipingeva una sola cosa, l’infinito, come hanno scritto molti critici. Il totale di un’opera d’arte, fuori Grazie a Luigi Lo Cascio per la sua bravura e generosità. Le sedute di preparazione, brevi e intense, mi hanno avvinto per l'intelligenza e il talento. Ringrazio l'architetto Aldo Ponis, il professor Giancarlo Gentilucci Accademia di Belle Arti de l'Aquila, Piera Leonetti per l'informazione, Sebastiano Mauri, mio nipote e artista, per l'attenta e affettuosa consulenza. E gli assistenti artisti Dora Aceto (piercing), Ivan Barlafante (coordinatore materiali in legno e ferro), Marco Bernardi (costruzioni), Marcella Campitelli (segretaria di edizione), Claudio Cantelmi (modello progetto), Federico Cavallini (tensione tele), Sandro Mele (fotografie), Giuseppe Moscatello (Progettazione modello, video, films elettronici, nastri sonori). Fabio Mauri Il libro La violenza non è inevitabile di Elisabetta Ambrosi erché nonostante i ripetuti moniti del “Mai più guerre” lanciati alla fine del secondo conflitto mondiale, il Novecento si è di fatto accomiatato dalla ribalta storica ancora una volta fedele a se stesso: non solo con nuove forme di violenza armata, ma addirittura con la perpetrazione di genocidi, come nel caso del Ruanda e della ex Jugoslavia?»: è con questo inquietante interrogativo che si apre l’intenso libro Violenza senza legge. Genocidi e crimini di guerra nell’età globale, curato da Marina Calloni, coordinatrice della ricerca “Genocidi e Crimini di Guerra” presso il dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale di Milano Bicocca. Il volume è una sorta di ricerca «polifonica», dove intervengono vittime e testimoni, ricercatori, giornalisti, fotografi, rappresentanti istituzionali, artisti, e intende essere sia uno strumento di ricerca che di dibattito pubblico. In allegato c’è, inoltre, un suggestivo CdRom, in cui si trovano materiali di lavoro (testi giuridici e schede su Ruanda e Bosnia), testimonianze, una mostra audio-visuale su Mostar. Il suo scopo è quello di unire, come sottolinea la stessa curatrice, «la portata argomentativa delle analisi con la forza emotiva delle testimonianze dirette». E proprio dal sentimento di tristezza che continua a suscitare la constatazione che lo scenario di macerie e cadaveri dell’Europa del ’46 non ha impedito l’accadere di nuove guerre che il libro scaturisce: «Si sono infatti susseguiti davanti ai nostri occhi belligeranze imperialiste, conflitti mondiali, genocidi, guerre fredde, scontri etnici, fino a giungere al recente terrorismo internazionale di stampo fondamentalista e alle guerre pre- «P 90 ventive», scrive la curatrice. Le attuali guerre globali, «amorfe, indefinite e ubique», un mix esplosivo di richiesta di autodeterminazione dei popoli, rivendicazioni identitarie e questioni religiose, sono dislocate su scenari imprevedibili, e, poiché tutti ne diventano potenziali partecipanti, sono fonte di inediti traumi. I nuovi conflitti, inoltre, prevaricano confini e norme internazionali, nonostante l’istituzione di tribunali penali internazionali e il pressante dibattito sulla centralità dei diritti umani. Per questo, l’analisi di determinate manifestazioni belliche porta con sé la convinzione, che costituisce il secondo «pilastro» del volume, che sia necessario sviluppare organi di tipo sovranazionale. Interventi come quelli in Afghanistan e in Iraq hanno infatti messo in luce la debolezza dell’Onu e l’indaguatezza delle foreign policies nazionali, inadatte a gestire la sfida di un ordine internazionale mutato in seguito alla deflagrazione della forma-stato. Ecco perché, scrivono gli autori, occorre una nuova sensibilità collettiva a livello globale, così come una nuova strategia di soluzione dei conflitti e nuove norme per la punizione dei crimini di guerra. Il filo rosso del libro è costituito da due tesi tra loro intrecciate: quella che afferma la possibilità di una società civile mondiale regolata da un’etica globale. E l’idea che la guerra non vada in alcun modo pensata come una costante antropologica, perché è un fenomeno che può essere combattuto. Marina Calloni (a cura di), Violenza senza legge. Genocidi e crimini di guerra nell’età globale, Utet, 2006, pp. 224, euro 23 (con Cd rom). Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Fabio Mauri A cosa serve la critica di Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi ilano, ultima settimana di novembre 2006. Una misteriosa ballerina appare verso mezzanotte su una carrozza del metró. Lascia cadere il mantello e, mascherata, danza per qualche minuto con le movenze erotiche della lapdance. Nel giro di qualche giorno, l’apparizione produce i suoi effetti nel tam-tam del web. Ma basta una settimana e la notizia arriva sul «Corriere della sera» – finché rapidamente l’apparizione si degrada, il mistero si scioglie: si tratta di una studentessa, abita a Padova, vorrebbe diventare attrice, il suo numero fa parte di un progetto, forse diventerà un film o una trasmissione televisiva… che peccato. L’apparizione ha un carattere insieme provvisorio e assoluto, «proprio nella misura in cui l’essere del bello si risolve», ha scritto recentemente Rocco Ronchi, «nella dimensione dell’apparizione, il bello può e in un certo senso deve sempre poter anche sparire». Appunto: se l’apparenza non è che simulazione dell’apparizione, anche questa effimera vicenda dice qualcosa sulla differenza essenziale che caratterizza i due fenomeni. Ci dice però anche altro: quanto la medialità abbia potere sulla differenza e sulla resistenza che l’apparizione dovrebbe poter mantenere. Non c’è infatti in questa idea dell’apparire un che di assoluto, un residuo della concezione tradizionale della trascendenza del bello? L’essenza di questo fenomeno – l’apparire, lo sparire, il degradarsi o il resistere – in realtà non è in potere del fenomeno stesso, non riguarda la sua struttura, il suo in-sé. Le regole del gioco non sono in suo possesso. In un’intervista degli anni Ottanta, Gilles De- M leuze fa questa affermazione ormai consueta in molte letture dell’arte contemporanea: in un’epoca nella quale i valori formali della bellezza sono trasferiti dall’arte alla merce, l’arte cambia di segno, e all’opera spetta la resistenza. Tuttavia ormai questa stessa affermazione è tanto condivisibile da risultare sospetta: non rischia di diventare a sua volta universale e trans-storica passando dalla parte opposta di ciò che proclama? All’arte contemporanea accade piuttosto di diventare interessante per un altro motivo: sul suo terreno vediamo la differenza intima ed essenziale tra il contenuto dell’enunciato e la posizione dalla quale questo viene detto. Ne deriverebbe un singolare paradosso: l’enunciato /l’arte è ciò che resiste/ non è esso stesso necessariamente resistente. Bisogna esaminare la posizione di enunciazione: chi lo dice, quando, come e perché. Inoltre – altro aspetto paradossale – se fosse vero diventerebbe a sua volta parte e preda di ciò che dice di voler criticare: enunciato universale e metafisico, rinnovata voce del potere. E non è ciò che sta accadendo all’arte contemporanea? Non è nuova demagogia quella delle ossa di Marina Abramovich, o degli stracci indifferenti di Sophie Calle – ai due estremi dell’orrore e del banale quotidiano? Come il paradosso del mentitore l’affermazione in questione potrebbe inverarsi allora solo falsificandosi, accettando di essere transitoria. La figura dell’artista In questo senso occorrerebbe ripensare alla figura dell’artista (in quanto) immaginario. Il cliché dell’artista romantico e incompreso era già un obiettivo polemico fin dai tempi del «Manifesto futurista pesi prezzi e misure del genio artistico» (1914), ma il punto è che quanto là veniva auspicato («l’artista dovrebbe trovare il suo posto… accanto al fabbricante di pneumatici») oggi non è più un desiderio ma un dato di fatto. Al punto che, quando negli anni Settanta un critico acuto come H. Rosenberg dichiara che l’artista è divenuto «troppo grosso» per l’arte che produce, si consuma uno strano paradosso, per cui più l’artista si integra nella vita sociale, più si genera intorno a lui una sorta di doppio rivestito di eccezionalità, di particolarità irripetibile, non integrabile. Il paradosso arriva al punto che la persona sociale dell’artista e il suo doppio si scollano effettivamente: nella figura, in tal senso centrale, di Andy Warhol, questo fatto è così evidente che egli proclamava apertamente di farsi sostituire in molte occasioni da un sosia, dato che un sosia «è molto più simile a ciò che la gente si aspetta da me di quanto io possa mai essere», come ha scritto Tomkins. Accanto all’artista reale, che si è incarnato nelle strutture «vere» portanti, socio-economiche, della società, persiste, senza riuscire a evaporare completamente, il fantasma dell’artista, il suo doppio letterario, immaginario, ma senz’altro legato all’esistenza del suo gemello. Il fatto che si evidenzia qui, allora, è di grande rilevanza: l’artista immaginario deve colmare una lacuna che altrimenti salterebbe brutalmente agli occhi, ossia che essere artisti, nelle condizioni sociali odierne, si- Chi sono Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi ulvio Carmagnola insegna Educazione estetica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Milano Bicocca. Si occupa di estetica contemporanea e di modelli cognitivi applicati alla progettazione e all’organizzazione. Per Meltemi ha pubblicato: La triste scienza. Il simbolico, l’immaginario, la crisi del reale (2003), Plot, il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura (2004) e, insieme a Telmo Pievani, Pulp Times (2003). Sono usciti inoltre: Sinopsis. Introduzione all’educazione estetica (con Marco Senaldi, Guerini e Associati, 2005) e Il consumo delle immagini (Mondadori, 2006). F arco Senaldi, critico d’arte e filosofo, insegna Cinema e arti visive all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Ha tradotto e curato l’edizione italiana di testi di Gilles Deleuze e Slavoj Zizek. Per Meltemi ha scritto Enjoy! (2003) e Van Gogh a Hollywood (2004) e le postfazioni dei volumi di Zizek Benvenuti nel deserto del reale (2002) e L’epidemia dell’immaginario (2004). Ha inoltre pubblicato: Sinopsis. Introduzione all’educazione estetica (con Fulvio Carmagnola, Guerini e Associati, 2005). È inoltre curatore di mostre come Cover Theory. L’arte contemporanea come reinterpretazione (2003). Suoi interventi sono apparsi su «Flash Art» e «Il manifesto». È autore di programmi culturali per la Tv. M Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 91 Fabio Mauri «In contrasto con la posizione di implicita accettazione che prenderebbe come manifestazione dell’arte qualunque cosa entri nel suo dominio istituzionale, vorremmo riaffermare con decisione la disparità, la necessità della critica e la possibilità di discernere valori, per quanto instabili» gnifica semplicemente svolgere un’attività come un’altra nel grande mercato del capitalismo culturale. Oggi, la fede nell’artista come figura autonoma costituisce un autentico «feticcio» psicosociale: è grazie a questa fede che possiamo continuare a trattare l’arte come una merce, e anzi accrescere l’approccio post-capitalista, totalmente cinico, con cui ci si rivolge a essa – il che mostra che non è il fatto in-sé, ma la percezione di esso a costituire un evento traumatico. La «fede trasposta» nella «buona fede» dell’artista serve esattamente a coprire questa devastante percezione. Il compito di una critica non dovrebbe allora essere quello – non di denunciare la banale «commercializzazione» o «istituzionalizzazione» dell’arte e dei suoi rappresentanti, quello che chiamavamo il punto di desistenza, ma quello – di additare proprio questo «indecidibile» scollamento? Hitler in ginocchio Il momento di desistenza ha forse qualcosa in comune con il banale momento del passaggio alla notorietà, alla condizione di fama. Non a caso lo stesso Deleuze, in modo peraltro contraddittorio, insiste in tutte le sue dichiarazioni sulla necessità di costruirsi una linea di fuga, una linea di invisibilità: il critico, colui che non soccombe, deve inventare linee di fuga, dispositivi nomadi. Ma quale è il momento, allora, in cui il potere urticante di un artista si converte, in presenza di artefatti della medesima specie, in posizione di regime? Quand’è che Cattelan, per esempio, passa dalla condizione di inventore – il fantoccio di Hitler che prega in fondo alla sala del Castello di Rivoli – alla condizione di artista istituzionale – i tre fantocci appesi nella piazza della periferia di Milano? È questo forse che segnala la posizione di enunciazione: la variazione invisibile, di cui ci accorgiamo ogni volta ex post, tra un punto di discordanza, portatore di senso nel suo carattere differenziale e incomprensibile – l’orinale di Duchamp che si rinnova ripetendosi nel piccolo Hitler – e la stessa azione, lo stesso artefatto «dopo». I due enunciati sono identici (il pupazzo di Hitler, i tre pupazzi appesi) eppure ci accorgiamo che la posizione è cambiata. Il corso del senso dev’essere sospeso perché il senso abbia luogo, osserva JeanLuc Nancy. Ma nemmeno questo basta: a un livello più sottile, pare che la stessa sospensione del senso, destinata a fare spazio a nuovo senso, cambi oggi la sua natura, diventando indecidibile, dato che l’enunciato (il prodotto, l’oggetto, l’opera) si presenta ormai regolarmente o per lo più come offesa al senso, sospensione del senso, proclamazione dello scandalo. E tuttavia per questa stessa strada l’istituzione o il dispositivo detto «sistema arte», con la sua specifica posizione di enuncia- 92 zione, riemerge ogni volta riportando la vittoria sulla provvisoria resistenza. Questo raffinato gioco del senso – la sua metastabile sospensione che genera innovazione, il suo rapido riassorbimento – vale anche al di fuori dello spazio nobile dell’arte. Anzi questo è uno dei caratteri principali del circuito dell’immaginario contemporaneo, la cui caratteristica, come ha mostrato con chiarezza Slavoj Zizek consiste nell’instaurare un’istanza impersonale che ci prescrive, al modo di un super-io sociale, «come dobbiamo desiderare». Se allarghiamo lo sguardo vedremo all’opera il medesimo dispositivo I libri Deleuze, G., 1990, trad. it. 2000, Pourparler, Macerata, Quodlibet Perniola, M., 2002, Prova di forza o prova di grandezza? Considerazioni sull’àgalma, in Agalma, 3, pp. 62 sgg. Ronchi, R., 2006, Liberopensiero, Roma, Fandango Libri Rosenberg, H., 1972, trad. it. 1975, La sdefinizione dell’arte, Milano, Feltrinelli Tomkins, C., 1976, trad. it. 1983, Vite d’avanguardia, Genova, Costa & Nolan Zizek, S., 2004, Organs Without Body. On Deleuze and Consequences nella narrazione mediale, nella cultura pop. Ulteriore elemento che gioca a sfavore del mito della purezza e dell’esclusività della forma artistica. Ci pare allora che la qualità dell’osservazione, della fruizione, consista precisamente nel mettere a fuoco questo invisibile elemento di differenza. Proprio a Deleuze può essere applicato questo dispositivo riflessivo che distingue l’enunciato e la posizione di enunciazione. In un paragrafo di Organs Without Body intitolato «A yuppie reading of Deleuze», Slavoj Zizek argomenta che la teoria rizomatica, avendo perduto il suo punch critico e contrappositivo, diventa una forma avanzata di pensiero dominante, adatta alle «nuove singolarità emergenti» nel capitalismo cognitivo e/o dell’immaginario. E qualche tempo fa Mario Perniola aveva a sua volta notato che «il manager creativo si pone come l’erede dell’artista bohemien: esperienze maturate in ambiti marginali, trasgressivi o rivoluzionari sono ritenute molto utili ai fini dello sfruttamento capitalistico di settori non ancora o debolmente mercificati». Sembra di poter concludere che qualunque posizione di rottura nelle condizioni di rapida successione e di sovraesposizione mediatica prestissimo possa diventare parte di una nuova razza di discorso «egemonico». Da questo punto di vista l’arte contemporanea sarebbe allora un singolare terreno sperimentale, un terreno per indagare questi fenomeni – e non l’ultimo rifugio della resisten- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 za.La variazione continua della linea mobile della posizione di enunciazione è precisamente una dalle operazioni dell’immaginario contemporaneo. Si tratta di un’operazione di inclusione che subentra alla moderna operazione di esclusione. L’immaginario non è né l’accumulazione dell’archivio antropologico delle immagini né il mito dell’altrove dove ci si libera del banale e del mediocre. È piuttosto l’insieme dei dispositivi che diventano prescrittivi e spostano di volta in volta i confini dello stato dell’arte, includendovi e selezionando sempre nuovi artefatti e assimilandone i valori. La variazione della posizione di enunciazione fa dell’artefatto un oggetto di volta in volta indecidibile e con questo falsifica anche la portata universale dell’affermazione della resistenza dell’arte. Lapdance La distruzione della forma era a suo tempo una posizione critica che instaurava un valore, un differenziale ancora percepibile – è la vicenda delle avanguardie. E tuttavia oggi si può dire che la corrente più evidente dell’arte contemporanea sia la mostrazione indifferente del reale, lo spostamento verso il reale al di sotto della soglia formale di minima consistenza, la fine dello stesso strutturale effettocornice. Mostrare l’orrore – parificarsi all’orrore – ha tuttavia oggi una impercettibile sfumatura di omologazione che rende questo atto, e gli artefatti che lo istanziano, ancora diverso dal senso che aveva, poniamo, nell’estetica negativa di Adorno. Eppure, in contrasto con la posizione di implicita acquiescenza che accetterebbe come manifestazione dell’arte qualunque cosa entri nel suo dominio istituzionale, vorremmo riaffermare la disparità, la necessità della critica, la possibilità di discernere valori, per quanto instabili o metastabili. Riappropriarsi della critica è trovare il modo di stabilire nuove differenze, dal momento che il meccanismo di omologazione non consiste più, come in passato, nel tracciare una linea di confine basata sulla qualità dell’enunciato (dell’oggetto) ma nell’inglobare continuamente l’estraneo – e dunque nell’accumularsi delle provocazioni in un tessuto di infinite differenze indifferenziate dove ogni nuovo strappo viene accolto e santificato nella luce mediale della fama. Tornare alla critica allora sarebbe fare della resistenza un’arte tattica e non una posizione metafisica, restando sul terreno dei media e degli artefatti estetici, nella consapevolezza che questa operazione è sempre provvisoria. Per questo il valore continua a esistere come valore di posizione variabile, incarnato di volta in volta da qualcuno che da qualche parte, inaspettatamente, produrrà senz’altro nuove forme imprevedibili e instabili. Come la misteriosa ballerina di lapdance sulla metropolitana milanese, a mezzanotte. Economia e creatività Arte, città, imprese Zattere di salvataggio dal naufragio delle periferie Una necessaria complicità di Michele Trimarchi «La filantropia aziendale? Non basta più» Intervista a Gianluca Winkler di Elisabetta Ambrosi Parola chiave: ambiente Intervista a Nicolò Dubini La cultura nella strategia d’impresa Intervista a Fulvio Conti di Elisabetta Ambrosi Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 93 Economia e creatività Una necessaria complicità di Michele Trimarchi ggi sempre di più affidiamo all’arte il compito di estrarre le comunità urbane (e soprattutto suburbane) dalle ordinate macerie di periferie abbandonate, di quartieri cresciuti casualmente, di edificidormitorio tristi e poco funzionali. Altro che inutile; l’arte è diventata, nel dibattito sul futuro, la zattera che ci salverà dal naufragio nella barbarie. Il tema è complesso, e come si vede il rischio di affrontarlo enfaticamente è alto. Soprattutto, nonostante le sempre più numerose esperienze internazionali, la sua declinazione in salsa italica deve fare i conti con una concezione dell’arte e della cultura legata al passato e renitente a mescolarsi con la realtà quotidiana. Se volessimo tracciare una mappa dei percorsi urbani (le persone che si spostano da casa al lavoro, ai luoghi di socializzazione, alle vie dei negozi, e così via) scopriremmo che l’offerta culturale è sostanzialmente tagliata fuori, non tanto perché sia ignorata o snobbata, quanto perché essa stessa si pone al di fuori dalla vita quotidiana; l’effetto è abbastanza preoccupante: i luoghi e i percorsi della creatività si sviluppano al di fuori dai luoghi della cultura, accentuando in questo modo una cesura tra antico e contemporaneo, se si vuole tra conservazione e produzione. Inutile dire chi vince e chi perde. Da qualche anno le imprese private in Italia sostengono finanziariamente il settore culturale (con po- O co più di 30 milioni di euro nell’ultimo anno), ma la loro preferenza va ai grandi teatri d’opera o ai grandi musei, non certo alla sperimentazione espressiva o all’arte contemporanea; allo stesso modo, le fondazioni di origine bancaria svolgono una massiccia opera a vantaggio della cultura (con 420 milioni nell’ultimo anno), ma il grosso della loro azione è focalizzato sul passato. Certo, restaurare, conservare, tutelare sono attività imprescindibili. Ma alla fine dei conti l’enfasi sull’antico ha finito per creare un fenomeno di diffidenza e disprezzo nei confronti dell’arte contemporanea; nell’immaginario delle comunità urbane questa temperie incide non poco, alimentando il fenomeno della nostalgia per una società forse mai davvero esistita, ma desiderata contro l’evidenza. Non sono poche le città che affidano la costruzione del senso di appartenenza della comunità locale a operazioni passatiste, foto sbiadite e posticce ricostruzioni. Da questa atmosfera malinconica e rassegnata rimane fuori proprio il futuro. Il nostro futuro urbano, fatto di relazioni, di esperienze quotidiane, di condivisione e di evoluzione. Un esempio? Il Teatro degli Arcimboldi di Milano, scomodo contenitore attualmente privo di contenuto nel quale la Fondazione Teatro alla Scala si è sentita «in temporaneo esilio» e dal quale è fuggita a gambe levate non appena ha potuto riaprire il teatro del Piermarini; eppure avrebbe potuto raddoppiare il pubbli- co (se solo avesse seguito il virtuoso esempio dell’Opéra di Parigi, che da anni usa due sedi), magari sostenendone l’accesso con adeguate campagne di proselitismo e un efficace servizio di trasporto gratuito (è vero, c’erano gli autobus da Piazza Duomo, ma solo all’andata: al ritorno ce n’erano solo tre o quattro e chi non correva subito fuori si trovava in mezzo al nulla). Un esempio contrario? Sarebbe facile richiamarsi all’Auditorium romano, ma sembrerebbe di voler alimentare un confronto infondato e poco edificante tra le due capitali d’Italia. Andiamo allora vicino ai confini, e troviamo il Teatro Cristallo di Bolzano, vecchio cinema parrocchiale di periferia riaperto l’anno scorso dopo un efficace adeguamento tecnologico, e meta di un pubblico crescente e curioso; guardandoci intorno troveremmo buoni motivi per comprendere che la cultura e l’arte possono davvero contribuire – in modo infungibile e sistematico – alla crescita del Chi è Michele Trimarchi ichele Trimarchi è professore ordinario di Analisi economica del diritto presso l’Università di Catanzaro, e insegna Economia della cultura presso l’Università di Bologna. M Intervista/1 «La filantropia aziendale? Non basta più» Intervista a Gianluca Winkler di Elisabetta Ambrosi li affari! L’umanità avrebbe dovuto essere il mio affare. Il benessere generale avrebbe dovuto essere il mio affare: carità, clemenza, pazienza e benevolenza, tutto questo avrebbero dovuto essere i miei affari»: così il vecchio finanziere Scrooge, al termine della sua avventura natalizia, prende consapevolezza che la sua vita avara, fatta di accumulo e di sfruttamento dei più deboli, non l’ha reso felice e rimpiange un’esistenza diversa, incentrata sulla pietas e la beneficenza. Quella del Canto di Natale di Dickens è una delle tante suggestive citazioni letterarie che costellano il Values Book di Pirelli Real Estate, il gruppo Pirelli che si occupa di immobiliare. Eppure, la citazione dello scrittore inglese è in parte superata dal contenuto dello stesso volume proposto dall’azienda. Il perché ce lo spiega Gianluca Winkler, direttore della comunicazione di Pirelli RE e Pirelli Ambiente. «Il Values Book è un esperimento unico in Italia», afferma. «Oltre a presentare i programmi e le iniziative sociali promosse da Pirelli RE, che ruotano tutte intorno ai temi abitativi legati alla nostra attività specifica, quella immobiliare, il libro riflette in maniera innovativa su temi come l’intreccio tra impresa e impegno civile, il rapporto tra governance ed etica individuale, lo sviluppo sostenibile nelle città multiculturali, l’arte e cultura come fattori di promozione del territorio e di progresso sociale. Non a caso il Values Book non contiene neanche un numero: si tratta infatti di un’operazione di trasferimento di valori, finora del tutto inedita». Operazioni di questo tipo superano, secondo Winkler, i vari (e pur importanti) codici etici e bilanci di sostenibilità. Questi ultimi, ad esempio, sono diventati esercizi un po’ retorici di controllo, una specie di «permesso di soggiorno», inevitabile per lavorare. «Ma il fatto che ci sia una serie di indici che sono monitorati e alle quali le aziende si attengono», dice, «non comunica di per sé il valore degli interventi nel sociale o nell’ambiente di quelle stesse aziende. Winkler fa un esempio concreto che esprime in maniera illuminante la nuova filosofia di Pirelli RE, raccontandoci del coinvolgimento dell’azienda nella «G 94 fondazione culturale legata all’Hangar Bicocca: «La nostra è una specie di “sublimazione” della responsabilità sociale», spiega. «A differenza delle imprese che lasciano il proprio marchio sulle iniziative sponsorizzate, infatti, Pirelli RE diventa una delle società della fondazione Hangar Bicocca, ma, nonostante ci metta l’immobile, il lavoro di ristrutturazione e le opere di Kiefer che sono già dentro, ha deciso di rinunciare ad associarvi il proprio nome. Per noi questo è il massimo della responsabilità sociale nei confronti della città in cui ci troviamo ad operare». Insomma, il tempo della «corporate philanthropy» – la filantropia aziendale, che in Italia peraltro non ha neppure coinvolto tutte le imprese – appare già superato. La nuova filosofia arriva dall’America, e vede l’azienda non solo come un attore economico, sia pure etico, ma come un attore sociale. Un attore che, al pari degli altri, non può solo prendere, ma anche «give back to community», restituire alla comunità quello che in anni di lavoro ha preso, in termini di forza lavoro, risorse economiche, finanziarie e intellettuali. Questa filosofia costituisce una piccola rivoluzione nel dibattito sulla corporate social responsability e sul rapporto tra etica e azienda. Infatti, essa mette in parziale discussione l’idea che l’investimento in cultura generi comunque un rientro economico. Quest’ultimo, secondo Winkler, va anzi decisamente messo in secondo piano. «Il ritorno economico raramente c’è, e in un certo senso è pure meglio che sia così, altrimenti si tratterebbe di una farsa. L’aspetto economico noi non lo consideriamo affatto», conclude. «Per noi la cosa importante è la reputazione dell’azienda. Quello a cui noi stiamo attenti non è tanto che l’azienda abbia un ritorno di visibilità e di immagine, cosa che è molto legata all’aspetto economico, ma qualche cosa di molto più sottile, di più difficile da fabbricare, che però, se viene gestito bene, dura nel tempo e ha una ricaduta anche su tutte le attività economiche. Insomma, la reputazione è qualcosa che costruisci con fatica negli anni, ma su cui puoi puntare nei momenti di crisi». Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 Economia e creatività L’emergenza è rappresentata dalla bruttezza (o, se si vuole, dalla mancanza di una credibile identità) e dall’isolamento dell’offerta culturale in luoghi spesso bellissimi ma quasi mai dialoganti con il tessuto urbano. La complessità non si vince contrastandola, ma assecondandola benessere urbano, e al consolidamento di una serie di valori che proprio il dibattito italiano ritiene insufficienti: il senso di appartenenza, il rapporto con il territorio, la socializzazione e la tolleranza, il capitale sociale. Pur senza cercare modelli virtuosi (ogni città italiana è per sua stessa origine e storia del tutto inconfrontabile), ci si può fermare proprio a Bolzano per accorgersi che, sia pure in un impianto urbano reso rigido anche dalla simbolica separazione delle due comunità linguistiche, il percorso è complesso ma preciso: si costruiscono nuovi edifici, magari con una certa attenzione alla loro bellezza esteriore (dal Teatro Comunale all’edificando Museion); al tempo stesso, si sostengono le attività culturali «dal basso», incoraggiandone l’emersione e il consolidamento anche in spazi non convenzionali (e già in questo modo si crea un tessuto di attività sparso nel territorio); infine, si programmano direttamente attività che i singoli non potrebbero sostenere (una delle più recenti è Kunstart, fiera dell’arte contemporanea che ha guadagnato una reputazione notevole in soli quattro anni). Così, pur senza rinunciare al mercatino di Natale o alle corali alpine, Bolzano e il suo territorio stanno immaginando il proprio futuro in termini evolutivi, e ne stanno progettando le dinamiche. L’effetto è sorprendente: tutte le forme di offerta culturale, con l’unica eccezione del cinema, mostrano nella provincia di Bolzano il grado di partecipazione più elevato del paese, con distanze a volte notevoli tra il dato bolzanino e la media nazionale. Si vede con chiarezza che è la cultura a dettare l’agenda dello sviluppo urbano; e che non si tratta più della memoria ma dell’immaginazione. In questo senso, proprio a pochi passi dal Teatro degli Arcimboldi si sta sviluppando un coagulo di progetti destinati a cambiare la faccia dei comuni a nord di Milano e al confine con la costituenda provincia di MonzaBrianza. Sono comuni segnati da un legame forte con il lavoro in fabbrica, e nei quali certamente non mancheranno segni evidenti di questa identità; ma vedono già molti insediamenti industriali trasformarsi in musei, biblioteche e centri culturali, promettendo un’estesa fruizione ai residenti, attraendo possibilmente studenti e professionisti che gravitano intorno alla Bicocca, rivolgendosi comunque a un bacino sociale ampio e diversificato e con l’intenzione primaria di ridisegnare l’identità del luogo assecondando e anticipando l’evoluzione della società. Certo, il lavoro da fare è massiccio. Sia pure in un contesto ostile, la lezione che si può trarre dalle esperienze di successo è quella della necessaria complicità: non è possibile immaginare una crescita del benessere urbano solo per effetto di un’offerta culturale di valore; al contrario, questa da sola spesso ha prodotto fenomeni di rigetto da parte della comunità locale, «spiazzata» da turisti di massa e dall’adattarsi commerciale del territorio alla produzione di reddito nel breve periodo; una cre- Intervista/2 Parola chiave: ambiente Intervista a Nicolò Dubini er le aziende quello della protezione ambientale è un tema decisivo. Nonostante l’opinione pubblica spinga sempre più perché le imprese siano più «responsabili», infatti, l’investimento in questo settore comporta spesso costi elevati, anche se cresce la consapevolezza che produrre e adottare tecniche e tecnologie eco-compatibili è una strategia che, alla lunga, paga. Lo ha capito senz’altro Pirelli Ambiente, una società del Gruppo Pirelli nata dall’integrazione delle attività di Pirelli & C. Ambiente e Cam Tecnologie, il cui amministratore delegato, Nicolò Dubini – pienamente convinto che esistano per le imprese soluzioni «verdi» e insieme convenienti – ci spiega che, in ogni caso, il punto da cui partire è il livello di emergenza ambientale del pianeta: «Come ha annunciato a febbraio il Rapporto dell’Onu, la terra si sta surriscaldando e gli effetti sul clima, da qui al 2100, potrebbero essere catastrofici e irreversibili», ricorda. In questo senso, «l’ambiente, prima ancora di essere un settore altamente strategico per l’industria, rappresenta una fondamentale tematica sociale su cui oggi si sta concentrando l’attenzione mondiale. Investire in soluzioni ambientali che aiutino ad arrestare questo processo è un’opportunità e un dovere per le aziende. Si tratta di una nuova tipologia di industria che sta nascendo e che avrà un grandissimo sviluppo nel breve periodo». Pirelli Ambiente è una società che è in grado di offrire al mercato una vasta gamma di prodotti a basso impatto ambientale e ad altissimo contenuto tecnologico. «Grazie alle sinergie P con Pirelli Labs, il centro di ricerca avanzata del Gruppo, l’impegno della società è continuamente rivolto verso prodotti e processi sempre più eco-compatibili e soluzioni innovative», spiega ancora Dubini, «ad esempio nel campo delle fonti rinnovabili di energia o nei confronti di tecnologie che riducano le emissioni di gas nocivi dei motori diesel». Molte le soluzioni innovative in campo ambientale che l’attività di Pirelli Ambiente ha sviluppato in questi anni. Dal recupero energetico dei rifiuti urbani attraverso il Cdr di qualità (combustibile derivato da rifiuti) al Gecam, il gasolio bianco a basso impatto ambientale, fino ai filtri antiparticolato per la riduzione delle emissioni nocive dei veicoli diesel. Queste soluzioni hanno un elevato potenziale sia in Italia sia all’estero. Ecco perché, continua Dubini «ci stiamo muovendo sia per promuoverle sia per valutare ulteriori opportunità di business». Ad esempio, il settore del fotovoltaico, che Pirelli sta analizzando seriamente. L’investimento nella difesa ambientale produce allora un ritorno sicuro? «Certamente. Il nostro, ad esempio, è sicuramente un bilancio positivo, sia in termini economici sia di immagine. Pirelli Ambiente è ancora un’azienda giovane ma il riscontro ottenuto dal mercato è molto buono. Ci preme che questa nostra esperienza rappresenti un esempio positivo anche per altre aziende italiane che vogliano fare della sostenibilità ambientale un business proficuo non solo per se stesse, ma anche per la collettività». (e.a.) scita solida e sostenibile si può conseguire soltanto a patto di coinvolgere nel processo l’intero governo strategico del territorio, ossia tanto i diversi livelli di governo quanto una serie contigua di rami dell’amministrazione, in modo che la dotazione infrastrutturale (i teatri, i musei, gli spazi destinati alla cultura) sia la base su cui si innesta una varia e intensa attività di creazione e produzione culturale. Non si dimentichi che la filosofia dell’azione pubblica in campo culturale è tuttora quella del sostegno all’eccellenza, con la quale si finisce per inaridire la fertilità naturale delle attività creative. Al contrario, le città dovrebbero capire che solo investendo sul pluralismo scomposto della produzione culturale si può ottenere un benessere infungibile nel lungo periodo; così, piuttosto che escogitare meccanismi bizantini di sostegno finanziario, potrebbe bastare la concessione gratuita ed esente dal fisco di residenze e laboratori per decine di artisti creativi con un progetto per il quartiere in cui vanno a vivere e creare. Il sacrificio immediato (perdita di reddito e di gettito) sarebbe più che compensato dai benefici che se ne potrebbero trarre in tempi ragionevolmente contenuti. La cultura è dunque lo snodo cruciale, è quel paio d’occhiali che può ridare vita a città spesso messe sotto una bolla di cristallo per turisti non biodegradabili. L’emergenza è rappresentata dalla bruttezza (o, se si vuole, dalla mancanza di una credibile identità) e dall’isolamento dell’offerta culturale in luoghi spesso bellissimi ma quasi mai dialoganti con il tessuto urbano. La scommessa è tornare a parlare alla società contemporanea. Spesso basta poco: nella Langhe c’è una piccola chiesa in mezzo alle vigne, uguale a tante chiese del Barocco piemontese; interamente decorata da Sol Lewitt, contrasta la dolcezza sbiadita delle colline con le sue fasce di colori accesi, e mostra che la bellezza si può declinare in tanti modi, permettendo a ciascuno di riconoscersi al tempo stesso nei segni antichi di un paesaggio disegnato dall’uomo e in quelli contemporanei di forme e colori che raccontano la velocità amica della nostra vita quotidiana. Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 95 Economia e creatività La cultura nella strategia d’impresa Intervista a Fulvio Conti di Elisabetta Ambrosi l ciclo di eventi culturali – Emergenze – di cui si occupa questo numero di «Reset» è reso possibile dall’incontro tra chi la cultura la promuove e la fa di mestiere e le imprese che la finanziano, la condividono e la inseriscono nella loro strategia. E insieme all’arte contemporanea in questi appuntamenti milanesi c’è anche una grande attenzione alle emergenze sociali. Capire come avvenga questo «inserimento» è vitale per tutti coloro che organizzano e «fanno» cultura, arte, musica. «Reset» interpella sul tema l’amministratore delegato e direttore generale di Enel, Fulvio Conti. I Avete investito su Emergenze, la serie di eventi coordinati dalla Fondazione Olivetti insieme a «Reset» e al «Sole24ore». Sono scelte che si inquadrano nell’orientamento generale della nostra azienda alla responsabilità sociale, che comporta un impegno costante sul fronte della ricerca, dell’innovazione e della sostenibilità ambientale (con un’attenzione particolare alle energie rinnovabili e alla riduzione delle emissioni), su quello della trasparenza e affidabilità, su quello a favore della cultura e della scienza. Ma questo impegno produce risultati anche dal punto di vista finanziario: voglio ricordare che attualmente nell’azionariato Enel sono presenti 47 Investitori istituzionali socialmente responsabili, i cosiddetti fondi etici, che rappresentano l’8,1% del capitale in borsa. Mecenatismo? No, non si tratta di questo. Noi vogliamo privilegiare un rapporto di collaborazione e cogestione con le istituzioni nella realizzazione dei progetti; in alcuni casi, promuovendo noi stessi le attività e ricercando la partnership, a cui mettere a disposizione competenze organizzative, creatività e cultura aziendale. Che cosa spinge le aziende ad associare il proprio brand alla cultura? Nel caso di Enel, l’investimento in attività culturali ha origine dalla consapevolezza del nostro ruolo nello sviluppo sociale ed economico del territorio e delle comunità che ospitano le nostre attività. La promozione e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano, e negli ultimi anni anche degli altri paesi in cui siamo presenti, è diventata così una nostra scelta strategica. Investire in cultura, oltre a essere un atto di responsabilità sociale e di sostegno allo sviluppo, è anche un modo per arricchire il nostro insieme distintivo di valori condivisi dalla collettività e per accrescere l’accreditamento sociale e la legittimazione dell’azienda tra i suoi interlocutori principali: clienti, istituzioni, comunità locali. Con l’evoluzione del mercato dell’energia, l’attività culturale diventa così un asset strategico che può fare 96 la differenza nella competizione per conquistare i clienti, e costituire un canale privilegiato di dialogo con gli stake-holders, un modo per esprimere la visione e l’impegno dell’azienda a tutto campo. Che cosa ha fatto finora Enel per la promozione della cultura, della difesa dell’ambiente, dell’impegno sociale? Siamo stati tra le prime aziende in Italia e nel mondo a raccogliere le istanze di responsabilità sociale dell’impresa espresse dall’opinione pubblica. Il ruolo fattivo di Enel traspare anche dalla modalità di gestione delle attività di promozione della cultura. Il nostro approccio non è solo quello della visibilità del marchio, quanto soprattutto quello della partnership. Identifichiamo istituzioni pubbliche e private con cui realizzare attività originali, alle quali Enel contribuisce mettendo a disposizione non solo risorse economiche ma anche le proprie competenze organizzative. Oggi Enel è un’azienda in continua evoluzione, che vive una fase decisiva: la crescita sul mercato internazionale e la completa liberalizzazione del mercato nazionale. È chiaro che queste nuove sfide comportano un adeguamento anche delle nostre strategie di comunicazione per rispondere al meglio alle diverse, legittime, aspettative dei nostri stakeholders. Perché i consumatori possano scegliere la nostra azienda sulla base della fiducia e per conquistare credibilità anche all’estero, sicuramente saranno necessari maggiori investimenti e un ulteriore impegno nel raggiungimento di elevati standard di qualità, trasparenza e affidabilità. Quali sono i progetti in arrivo? Nel 2007 abbiamo lanciato il nuovo «Progetto ambiente» che prevede, nei prossimi cinque anni, un piano di investimenti da quattro miliardi di euro per la ricerca, l’innovazione, la cultura e la comunicazione ambientale, una forte attenzione all’uso razionale delle risorse su tutti i fronti: dalla produzione alla distribuzione al consumo di energia. A questo progetto strategico si affiancano le iniziative culturali in senso lato: progetti sull’arte contemporanea, la musica, lo sport, la didattica, la scienza in Italia e all’estero, che promuovono una visione evoluta del concetto di energia e della sua interazione con l’ambiente e le persone. A breve lanceremo a Roma tre grandi eventi di arte pubblica contemporanea. Come si valuta il ritorno (di immagine, ma anche economico) delle vostre iniziative culturali e sociali? È un bilancio positivo, e in che termini? Essere socialmente responsabili per un’impresa significa non solo operare nel business con profitto, soddisfacendo pienamente le esigenze dei nostri clienti, ma anche andare al di là investendo «di più» nel capitale uma- Marzo - Aprile 2007 - Numero 100 no: è l’integrazione tra gli interessi economici dell’impresa e i diritti delle parti sociali interessate, attraverso l’impegno a difendere l’ambiente, l’ecologia, i valori morali e anche culturali. Si tratta proprio del concetto di «sostenibilità», l’azione volontaria di un’impresa che sostiene allo stesso modo e con uguale impegno gli interessi dei propri stakeholders. Senza dimenticare che un’azienda socialmente accettata, trasparente e corretta offre anche le migliori garanzie di redditività duratura nel tempo ai propri azionisti. Di che cosa ha bisogno il paese per dare più spinta a un suo grande potenziale – la cultura – e a integrarlo meglio nell’economia? Molto ancora si può fare invece a livello normativo per incentivare gli investimenti culturali e la partecipazione delle aziende nella gestione del patrimonio culturale del paese. Penso per esempio a un sistema di incentivi fiscali che sia più chiaro e univoco nella sua applicazione. Così come auspico che soprattutto da parte dei media ci sia un maggior riconoscimento del ruolo dei privati, che troppo spesso ancora oggi vengono considerati solo come «erogatori» di fondi. LA SOSTENIBILITA SECONDO ENEL Energiaper è il programma di Enel per la cultura, la musica, la scienza, la scuola, lo sport, in partnership con prestigiose istituzioni pubbliche e private. Oltre 300 gli eventi culturali dello scorso anno, più di 1 milione i partecipanti. Enel Cuore è la Onlus costituita da Enel nel 2003 per coordinare e gestire i fondi destinati alla beneficenza e alla solidarietà dell’azienda, in favore di bambini, anziani, malati e disabili. Dal 2004 ad oggi 15 milioni di euro sono stati destinati a progetti sul territorio nazionale e nel mondo; 91 sono i progetti conclusi e in corso, 458 le richieste di intervento da parte di enti no profit. Responsabilità sociale dell’azienda (CSR). Nel 2002 Enel ha adottato il Codice Etico. Nel 2003 ha ricevuto dalla FERPI l’Oscar di Bilancio per il miglior Bilancio di sostenibilità e dallo stesso anno la Csr è integrata nella strategia aziendale attraverso il Piano Industriale. Dal 2004 l’azienda è presente negli indici DJSI (Dow Jones Sustainability Index) e nello stesso ha aderito al Global Compact, il programma d’azione promosso dalle Nazioni Unite per coinvolgere le imprese in una collaborazione nell’ambito della Csr. Sempre nel 2004 Enel ha avviato un programma di formazione per Dirigenti e Quadri sulla Csr che coinvolge oltre 4.000 persone. Nel 2005 Enel ha ricevuto il premio Sodalitas Social Award. Nel 2006 la società è entrata a far parte dei Top Ten della classifica mondiale Accountability Global 50+ pubblicata dal mensile Fortune. Attualmente nell’azionariato Enel sono presenti 47 Fondi Etici, pari all’8,1% del capitale trattato in Borsa.