1 holzer - Fondazione Adriano Olivetti

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1 holzer - Fondazione Adriano Olivetti
KUTLUG ATAMAN, FRANCIS FUKUYAMA, CARLOS GARAICOA, JENNY HOLZER,
WILLIAM KENTRIDGE, PAOLO JEDLOWSKI, SEBASTIANO MAFFETTONE,
AVISHAI MARGALIT, GUIDO MARTINOTTI, FABIO MAURI, SANTIAGO SIERRA,
PETER SLOTERDIJK, MICHELE TRIMARCHI
Periodico Bimestrale – Spedizione in a. p. - 45% - art. 2 comma 20/b legge 662/96 - filiale di Viterbo
Direttore
Giancarlo Bosetti
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Euro 8,00
Un mese di idee
Numero Speciale
Lo sguardo
dell’arte contemporanea
Emergenze del mondo
Eventi a Milano
di Giancarlo Bosetti
di Bartolomeo Pietromarchi
uasi un catalogo. Questo numero di «Reset»
assomiglia – nella sua funzione, non nel peso e
nel prezzo, solo nella funzione – a quei volumoni che accompagnano gli eventi d’arte. È una guida a
quel che un grappolo eccezionale di artisti contemporanei vuole esprimere con uno sguardo che non ha
paura del «lato oscuro».
Emergenze – l’intero ciclo di eventi, installazioni e
discussioni – è nata sotto il titolo che diceva proprio
così: Not Afraid of the Dark, «nessuna paura del buio».
Un annuncio che indica l’intenzione di vedere e far
vedere cose sepolte sotto la routine del vivere quotidiano, perché importunano, perché sfidano la nostra
pigrizia con improvviso fracasso, perché rompono il
torrente mediatico che trasforma i fatti più strazianti
in intrattenimento, audience, rumore di fondo.
Queste «cose» del lato oscuro sono le verità schiacciate dal potere, sono trucchi e manipolazioni che popolano anche l’universo denominato libertà d’informazione, sono vite sradicate e scagliate altrove con furia,
sono genocidi, sono spazi urbani deformi, sono
inquietudini metropolitane dove si urtano miserie e
ineguaglianze violente, sono i dati di fatto dell’alterazione climatica del pianeta che sfidano le nostre
buone intenzioni, sono le memorie di dittature totalitarie che si riaffacciano con il loro sentore di morte e
sono anche i nostri peccati di oblio, sono l’accendersi
di immensi serbatoi di odio sotto le insegne di nuove
tribù e di nuove rivendicazioni di identità e di purezza.
Di tutto questo l’arte fa l’inventario e forse qualche
cosa di più.
Noi su queste pagine ci occupiamo delle «emergenze»
con il linguaggio della filosofia, delle scienze sociali,
della politica, e come vedrete non ci rinunciamo
neanche qui, con l’aiuto dei saggi di Francis Fukuyama, Paolo Jedlowski, Avishai Margalit, Guido Martinotti, Peter Sloterdijk, Michele Trimarchi e altri studiosi.
Ma al centro dell’attenzione vogliamo mettere questa
volta lo sguardo dell’artista, perché semplicemente è
capace di una sintesi che scavalca tutti i confini disciplinari, con invenzioni e provocazioni: la forza della
scrittura e della parola (Carlos Garaicoa), che emerge sopra la tecnologia, che si scaglia su palazzi e facciate (Jenny Holzer) o sul corpo umano (Fabio
Mauri), sulla sua pelle variamente colorata e logorata
(Santiago Sierra), sulle facce che raccontano storie
(Kutlug Ataman), sulla «scatola nera» del nostro
mondo (William Kentridge), una specie di scrigno con
dentro le spiegazioni che stiamo cercando in una caccia al tesoro che non finisce mai.
n una società in cui lo stato di crisi è divenuto la regola e dove le emergenze umanitarie e sociali non
sono più «quelle degli altri», ma riguardano tutti,
l’arte e la cultura devono giocare un ruolo importante,
di sensibilizzazione e di riflessione, impegno e responsabilità. Recuperare significato e necessità dell’attività
artistica, che non sia solo spettacolarizzazione e consumo culturale, è oggi divenuta una priorità di molti
artisti che sono tornati a porsi domande sulla propria
identità e, attraverso l’opera, a confrontarsi con il mondo e la realtà. Superata l’epoca dell’ideologia politica e
sociale, l’artista si assume il rischio di proporre uno
sguardo altro, un dis-velamento per la coscienza collettiva spesso assopita e indifferente. Dall’arte visiva al
teatro, dal cinema alla letteratura, alla fotografia ma
anche all’architettura e al design di ricerca, la riscoperta di un ruolo sociale e di un impegno civile di fronte alle emergenze del mondo rappresentano una sensibilità comune sulla quale poter scambiare riflessioni
da prospettive diverse e intervenire con gli strumenti
della cultura.
Lo «spazio pubblico» torna a essere il luogo per una società che, per il fatto di essere sempre più complessa,
plurale, multiforme, ha la necessità di recuperare segni e significati per ricostruire un’identità condivisa. In
questa prospettiva l’arte e la cultura possono indicare
dei percorsi possibili, operando in una dimensione
simbolica radicata però nel contesto reale. Facendo leva sull’immaginario come strumento di coesione e
sensibilizzazione, si pongono le basi per un progetto
collettivo inedito di socialità e condivisione.
Questo numero di «Reset» si inserisce in un progetto
più ampio dal titolo Emergenze che utilizza vari canali
per affermare questa necessità. Dalla mostra Not
Afraid of the Dark al ciclo di incontri La cultura delle
emergenze, dalle pagine dell’inserto domenicale de «Il
Sole 24 Ore» ai progetti speciali degli artisti nella città,
a Milano dal 25 marzo al 27 maggio artisti, scrittori, intellettuali, operatori del terzo settore e di realtà economiche sensibili al sociale si incontrano, si confrontano
e discutono di alcune tematiche «emergenti»: da quelle
dell’agenda politica globale e mediatica a quelle più
invisibili, e forse più insidiose, che il senso comune
tende ad ignorare o a dimenticare (vedi programma a
pagina 98).
Gli artisti che partecipano al progetto Emergenze sono
stati invitati a realizzare delle pagine di questo numero. Le loro opere introducono sessioni tematiche che,
come è nello spirito del progetto, possano far dialogare
di argomenti comuni artisti e intellettuali, nella convinzione che sia necessario mettere a punto nuovi
strumenti e approcci inediti per un futuro possibile.
Q
I
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
3
Reset
Numero speciale
William Kentridge
Lo sguardo dell’arte contemporanea
di Giancarlo Bosetti
3
The Black Box
di William Kentridge
54
Emergenze del mondo. Eventi a Milano
di Bartolomeo Pietromarchi
3
Un teatro per l’orrore
di Maria-Christina Villaseñor
59
Jenny Holzer
Archivio
di Jenny Holzer
6
Aforismi visivi nelle città
di Marie-Laure Bernadac
13
Le segrete trincee della politica
di Thomas Blanton
14
Carlos Garaicoa
Studio tipografico per le parole
di Carlos Garaicoa
18
Entro i limiti della sola memoria
Avishai Margalit con Giancarlo Bosetti
63
Kutlug Ataman
Küba
di Kutlug Ataman
66
Un manuale per chi guarda
Dialogo tra Kutlug Ataman e Marco Belpoliti
70
L’orrore in diretta della guerra
di Antonio Somaini
73
Mappa mediatica dell’emergenza
di Francesco Casetti
74
Soci fondatori
Paolo Bernasconi, Luciano Berio (= )
Piero Bevilacqua, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio (= ),
Giancarlo Bosetti, Michelangelo Bovero,
Massimo Bucchi, Marina Calloni, Pierluigi Cerri,
Giuseppe Citino, Federico Coen, Renzo Costi,
Giorgio De Michelis, Carmine Donzelli,
Francesco Erbani, Giulio Ferroni, Vittorio Foa,
Elisabetta Galeotti, Mariella Gramaglia,
Sebastiano Maffettone, Mauro Mancia,
Pietro Marcenaro, Alberto Martinelli,
Guido Martinotti, Francesco Micheli,
Edwin Morley Fletcher, Salvatore Morvillo,
Leo Nahon, Valerio Onida, Andrea Salerno,
Michele Salvati, Olga Scevkenova,
Eugenio Somaini, Federico Stame,
Concetto Testai (= ), Salvatore Veca,
Riccardo Viale, Giovanna Zincone
Comitato di direzione
Giancarlo Bosetti, Alberto Martinelli,
Guido Martinotti, Michele Salvati,
Giovanna Zincone
Redazione
Caporedattore: Alessandro Lanni
Elisabetta Ambrosi, Mauro Buonocore, Marina Calloni,
Antonio Carioti, Nina zu Fürstenberg,
Corrado Ocone, Andrea Salerno,
Riccardo Staglianò, Nadia Urbinati (New York)
Correzione testi: Agenzia La Zia Julia
Segreteria di redazione: Letizia Durante
[email protected] - www.reset.it
Spettatori, sorveglianti o sorvegliati?
di Roberto Escobar
77
Consiglio di amministrazione
Presidente: Federico Stame
Amministratore Delegato: Domenico Grassi
Giancarlo Bosetti, Pietro Di Nola, Francesco Micheli,
Vittorio Terrenghi, Giovanna Zincone
Fabio Mauri
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Lo spazio dei senza patria
Okwui Enwezor con Flaminia Gennari Santori
27
Inverosimile
di Fabio Mauri
80
Copertina
Foto di Francesco Zizola
Le tre inquietudini (delle) capitali
di Guido Martinotti
29
Attraversando lo specchio dell’ideologia
Intervista a Fabio Mauri di Stefano Chiodi
87
Gusci per rifugiarsi dal mondo
di Peter Sloterdijk
33
A cosa serve la critica
di Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi
91
Per Carlos. La città che vive
di Adriano Pedrosa
25
11/9, tutti spettatori del disastro
di Mauro Carbone
26
Santiago Sierra
Studio economico della pelle degli abitanti
di Caracas
di Santiago Sierra
38
L’uomo trattato come carne
di Bartolomeo Pietromarchi
43
Saggio sull’identità
di Francis Fukuyama
45
Se è l’agenda a dettare il Tempo
di Paolo Jedlowski
46
Arte al limite e diritti della creatività
di Sebastiano Maffettone
51
4
La necessità dell’ombra
di William Kentridge
62
Direttore responsabile
Giancarlo Bosetti
Economia e creatività
Una necessaria complicità
di Michele Trimarchi
94
«La filantropia aziendale? Non basta più»
Gianluca Winkler con Elisabetta Ambrosi
94
Parola chiave: ambiente
Intervista a Nicolò Dubini
95
La cultura nella strategia d’impresa
Intervista a Fulvio Conti di Elisabetta Ambrosi
96
Questo numero è realizzato in
collaborazione con la
Fondazione Adriano Olivetti
In redazione Ilaria Uzielli
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
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Chiuso in redazione il 2 marzo 2007
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Jenny Holzer
La bugia del potere
E il potere delle parole nei lavori dell’artista americana
Archivio
di Jenny Holzer
Aforismi visivi nelle città
di Marie-Laure Bernadac
Le segrete trincee della politica
di Thomas Blanton
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
5
Jenny Holzer
Archivio
di Jenny Holzer
L’artista, l’opera
a oltre venticinque anni Jenny Holzer dissemina nelle città
di tutto il mondo i suoi Truisms: sintetiche frasi in cui
enuncia visioni contraddittorie del mondo, del rapporto
uomo-donna, del potere e della giustizia.
Dai manifesti alle magliette, dalle proiezioni allo xeno, ai led
luminosi, al web. Brevi aforismi, slogan, frasi poetiche enunciate
alla stregua di messaggi pubblicitari, spesso ricorrendo a caratteri luminosi analogamente a quanto accadeva nei lavori di
Kosuth, Merz e Nauman. Messaggi sociali, politici o suggestioni
che provengono dall’inconscio.
Nel caso della Holzer, il ricorso al testo e alla parola non ha però
un significato di ricerca linguistica, quanto di uso del linguaggio
per il suo carattere evocativo e significante. Più che visioni del
mondo in dialogo tra loro, queste brevi frasi si pongono in dialogo con l’ambiente, nel senso più generale del termine: dall’architettura cittadina ai ritmi della vita quotidiana, alla gente.
Holzer ha esposto i suoi lavori in musei come il Solomon R. Guggenheim di New York (1989), il Centre Pompidou di Parigi (1996),
il Museum of Modern Art (1997) e il Whitney Museum of American Art di New York (1999), l’Oslo Museum of Contemporary Art
(2000) e la Neue Nationalgalerie di Berlino (2001). Nel 1990, la
Biennale di Venezia le assegna il Leone d’Oro e riceve nel 2004,
in patria, il Public Art Network Award.
D
6
Nata a Gallipolis (Ohio) nel 1950, Jenny Holzer vive a New York.
È tra le più note artiste concettuali statunitensi.
Tra i lavori degli ultimi anni significativo quello su lettere, email
e testimonianze di politici, soldati e prigionieri coinvolti nelle
guerre del dopo 11 settembre (Iraq, Afghanistan, Baia di Guantanamo, ecc.). Pochi giorni prima delle elezioni presidenziali del
2004, alcuni di questi documenti sono stati proiettati sulla facciata della George Washington University’s Gelman Library, sede del
National Security Archive: associazione non governativa e non
profit che combatte da tempo a favore della pubblica divulgazione di tali documenti.
Le proiezioni di Jenny Holzer nello spazio pubblico giocano sul
sottile e ambiguo confine tra il pubblico e il privato, tra il segreto e l’evidente. Documenti governativi desecretati, lettere di condannati a morte, istruzioni per gli interrogatori, il continuo passaggio tra la sfera privata e intima e quella pubblica e ufficiale,
sottolinea la distanza tra la verità e il potere, tra il detto e il non
detto, tra ciò che bisognerebbe sapere e quello che viene occultato. La dimensione pubblica e urbana del suo lavoro riafferma
la necessità di uno spazio pubblico che torni ad essere luogo di
discussione e di informazione dove il fondamento dei principi
democratici possa essere riaffermato.
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Pagina 5
Lustmord
Inchiostro su pelle
Proiezione per la «Süddeutsche
Zeitung»», Ed. n. 46, 1993
In collaborazione con Tibor Kalman
© 2007 Jenny Holzer, membro della
Artists Rights Society (ARS), New York
/ SIAE, Roma
Foto: Alan Richardson
Pagina 7
For the City, 2005
Proiezione luminosa
The Elmer Holmes Bobst Library,
New York University, New York
Presentato da Creative Time, New
York
© 2007 Jenny Holzer, membro della
Artists Rights Society (ARS), New York
SIAE, Roma
Foto: Attilio Maranzano
Testo: U.S. Department of the Army,
Army Investigative Files, Executive
Summary, 28 giugno 2004, (American
Civil Liberties Union)
Pagina 8
For the City, 2005
Proiezione luminosa
Rockefeller Center, New York
Presentato da Creative Time,
New York
© 2007 Jenny Holzer, membro della
Artists Rights Society (ARS), New York
SIAE, Roma
Foto: Attilio Maranzano
Testo: «Necessary and Impossible» da
Middle Earth di Henri Cole. Copyright
© 2003 Henri Cole. Utilizzato
per/ristampato con il permesso
di Farrar, Straus e Giroux, LLC.
Pagina 9
U.S. Department of Defense, Sworn
Statement of Detainee, 18 dicembre
2003, (American Civil Liberties Union)
www.aclu.org/torturefoia/released/
032505/1181_1280.pdf
Pagina 10-11
For Naples, 2006
Proiezione luminosa
Basilica di San Francesco di Paola
© 2007 Jenny Holzer, membro della
Artists Rights Society (ARS), New York
SIAE, Roma
Foto: Attilio Maranzano
Testo: Ecclesiaste 9:17-18
Pagina 12
U.S. Department of Defense, Email
from Redacted to Redacted, 14 agosto
2003, «Wish List»
(American Civil Liberties Union)
www.aclu.org/torturefoia/released/041905
Sezione 3, p 59
L’autorizzazione all’uso delle immagini
è stata concessa a titolo gratuito
Jenny Holzer
Aforismi visivi nelle città
di Marie-Laure Bernadac
enny Holzer ha a disposizione più di un
arco eppure, dal 1977, ha utilizzato un’unica e sola freccia, caustica, precisa ed
efficace: la scrittura. Il linguaggio è il veicolo
del suo pensiero visivo: parole, frasi e testi sono il fondamento del suo vocabolario formale. In un mondo bombardato da immagini, il
suo uso unico e ripetitivo del linguaggio è un
modo per affermare che, nonostante il predominio della tecnologia sulle nostre vite, la
scrittura conserva ancora il suo potere sovversivo e la sua capacità di comunicare. Che
siano orizzontali o verticali, quadrati o rettangolari, stampati o elettronici, ogni superficie e ogni spazio, sia pubblico che privato,
fanno da ospite alle parole della Holzer: i manifesti per strada, le targhe metalliche, i biglietti, le magliette, i corti televisivi, i tabelloni per le affissioni, i segnali elettronici, le
panchine di pietra e, dal 1996, le proiezioni
luminose. Il flusso della scrittura emerge –
statico e solido qua, in movimento e immateriale là – in forme che sono allo stesso tempo
pittoriche e scultoree. Con i led e le proiezioni luminose, i colori vibrano nella retina e si
assemblano in composizioni pittoriche, mentre le forme strutturali del linguaggio hanno
una presenza materiale come la scultura.
Segnato dal minimalismo e dall’arte concettuale e influenzato dalla letteratura femminista nella sua denuncia degli abusi patriarcali, il linguaggio artistico di Jenny Holzer
spinge i limiti delle parole, dei corpi e dello
spazio. Dagli anni Ottanta, il concetto di
corpo si è spesso espresso nel suo lavoro
attraverso la metafora della pelle. Il suo
manifesto per il Festival d’Automne di Parigi, nel 2001, proclamava «Je lis ta peau» (Io
leggo la tua pelle). Questo titolo, dalla serie
Arno (1996), evoca i testi di Lustmord (199395) che apparvero dapprima scritti sulla
pelle umana e, poi, stampati in inchiostrosangue sul magazine della «Süddeutsche
Zeitung»; quel lavoro era concepito in risposta agli stupri e agli omicidi commessi
durante la guerra dei Balcani.
La recente esibizione della Holzer alla Galleria Yvon Lambert di New York presentava
una stampa con le parole «MY SKIN» su una
montagna vicino Bregenz, in Austria: le parole stesse erano formate dai raggi di luce
proiettata. I suoi primi testi, i Truismi (197779), erano stampati su manifesti e incollati
sui muri in giro per Manhattan. Anni dopo, la
Holzer si è avvicinata alla superficie urbana
come fosse una pelle, questa volta utilizzando
la luce per proiettare testi in larga scala sui
monumenti, sui fiumi, sulle facciate delle città di tutto il mondo.
Se l’arte di Jenny Holzer continua ad affascinarci, rinnovandosi sempre pur rimanendo
fedele alle proprie ambizioni originarie, è
grazie all’interazione tra le forze fondamentali e trainanti delle parole, dei corpi e dello
spazio. Che lei usi i suoi testi o quelli di altri,
J
il lavoro della Holzer esibisce sempre parole
rappresentate fisicamente, collocate in uno
spazio quasi infinito, iscritte in ogni tipo di
superficie immaginabile, dal fluido al solido.
L’impegno politico è sempre presente, come
evidenziato dalla scelta della poesia di Henri
Cole in opposizione a George W. Bush («To
the Forty-Third President»), che la Holzer ha
proiettato nella città di New York poco dopo
le elezioni del 2004, o dalla selezione, tra gli
altri, di poeti palestinesi, israeliani, iracheni
e polacchi i cui testi sono stati proiettati in
una varietà di luoghi simbolici e strategici di
Vienna.
La strategia della Holzer di collocare le sue
opere d’arte nell’arena pubblica – in maniera
simile all’approccio dei costruttivisti russi,
che sostennero la funzione utilitaristica dell’arte – è fondamentale per il suo lavoro. Il
suo lavoro parla tanto a nome della letteratura quanto a nome di una moltitudine di opinioni politiche, tutte divergenti. Lei non
prende le parti, ma denuncia invece la barbarie, la guerra, l’ingiustizia, l’abuso dei diritti
umani.
La questione dell’autore è sempre stata uno
dei punti centrali nell’approccio artistico della Holzer. In effetti, nell’arte concettuale, il
testo è servito spesso a far scomparire non
solo l’immagine o l’oggetto, ma anche l’autore – che questa fosse o meno l’intenzione dell’artista. I testi della Holzer sono una combinazione esplosiva di retorica contraddittoria.
Non sappiamo chi stia parlando o a chi. È un
uomo, una donna, un bambino? Questa gamma di persone che parlano da molteplici punti di vista, come se l’autore fosse stato abitato
da voci differenti, può essere considerata una
caratteristica della scrittura delle donne, come il frequente ricorso ad aforismi, a proverbi e a detti presi in prestito dalla cultura popolare, con la loro aura di saggezza.
Tra il 1977 e il 2001, la Holzer scrisse tredici
composizioni: qualche riferimento a uno specifico momento storico, altri al suo stesso approccio artistico; alcuni dei testi erano concepiti per una location specifica, altri traevano
Chi è
Marie-Laure Bernadac
arie-Laure Bernadac è sopraintendente generale dei beni storici e
artistici e chargée de mission per
l’arte contemporanea al Museo del Louvre.
Ha lavorato al Museo Picasso (1980-1992),
al Centre Georges Pompidou, nella sezione
di arti grafiche (1992-1997), al CAPC, museo
di arte contemporanea di Bordeaux (19972000). Ha pubblicato numerose opere sugli
scritti di Picasso, di Louise Bourgeois, di
Jenny Holzer.
M
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
spunto dalla vita privata dell’artista. Con poche eccezioni, tra cui l’Inflammatory Essays
and Laments, si tratta di scritti composti da
frasi brevi. Il mezzo della Holzer è l’aforisma,
non la lezione. La scelta dei titoli rivela l’estensione dei suoi scritti, dai proverbi (Truismi) alle elegie, dai salmi ai lamenti, dai colori (Blue) ai nomi di luogo (Erlauf, Arno).
La Holzer non si considera una scrittrice o
una poetessa e, qualche tempo fa, iniziò a utilizzare la scrittura di altri nelle sue opere.
Questa mossa era motivata dalla modestia e
da un desiderio di dare evidenza a testi che
lei riteneva cruciali per comprendere la complessità del mondo e delle emozioni umane.
La scelta di Elfried Jelinek, ad esempio, non è
casuale. Non è difficile vedere cosa lega le
due artiste: la violenza nascosta dei rapporti
familiari, le raffigurazioni dell’ordine sociale
borghese come una caricatura repulsiva, il
caso del mondo e la sua poesia frammentaria
e, infine, il femminismo militante.
Al di là della bellezza visiva delle proiezioni
della Holzer a Vienna, siamo felici che ci abbia fatto leggere poeti eccellenti, tra cui Wislawa Szymborska, che ha ricevuto il premio
Nobel per la letteratura. Presentando questi
scritti in pubblico, la Holzer afferma il potere
della poesia in modo spettacolare: «La poesia
impegna la vera conoscenza contro l’ignoranza, la barbarie e il razzismo. Attraverso la
poesia, mi sento capace di affrontare le menzogne e la slealtà. Sono in grado di abbassare
le maschere indossate da coloro che ripetono
slogan illusori», ha commentato il poeta iracheno Fadhil Al-Azzawi in un articolo del
2006, En vers déchaînés (In verso sciolto). Gli
autori scelti dalla Holzer sono combattenti
della resistenza, che lottano per i diritti umani e la libertà: molto versati nell’ironia e nella
derisione delle prevaricazioni, essi traggono
ispirazione da un’osservazione lucida e dettagliata della vita quotidiana.
Yehuda Amichai, uno dei più importanti poeti
israeliani, rivoluzionò il linguaggio poetico
attraverso l’uso di nuove espressioni idiomatiche, dello slang e del linguaggio della cultura pop. Nella sua poesia «He Embraces His
Murderer», il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish evoca non solo il conflitto fratricida tra ebrei e arabi, ma anche i sentimenti contradditori dell’esilio e dell’appartenenza. Wislawa Szymborska, i cui testi alternano
estasi e disperazione, parla de «la gioia di
scrivere./ Il potere di preservare./ Vendetta di
una mano mortale».
Tutti questi poeti parlano di guerra, di morte
e del desiderio di pace: «La scrittura è un cucciolo che morde la mano del Nulla. La scrittura ferisce senza provocare sangue». Queste
parole di Fadhil Al-Azzawi potrebbero definire tutta l’arte di Jenny Holzer.
(Traduzione di Martina Toti)
13
Jenny Holzer
Le segrete trincee della politica
di Thomas Blanton
l periodo tra il crollo dell’Unione Sovietica e quello del World Trade Center potrà
ben essere ricordato dalla storia come il
«decennio dell’apertura». In tutto il mondo, i
movimenti sociali hanno colto la scomparsa
del comunismo e il declino delle dittature come un’occasione per chiedere governi più
aperti, democratici, capaci di rispondere. E i
governi hanno risposto.
L’ex presidente russo Boris Eltsin aprì, in parte, gli archivi sovietici. L’ex presidente statunitense Bill Clinton declassificò più segreti di
Stato di tutti i suoi predecessori messi insieme. In tre continenti le Commissioni Verità
denunciarono sparizioni e genocidi. I pubblici ministeri diedero la caccia ai terroristi di
Stato, i tribunali misero in galera i generali e
internet sovvertì la censura ed erose il monopolio dei mezzi di comunicazione di Stato.
Cosa più impressionante di tutte, durante
quel decennio, 26 paesi – dal Giappone alla
Bulgaria, dall’Irlanda al Sudafrica, dalla
Thailandia alla Gran Bretagna – emanarono
normative formali che garantivano ai loro cittadini il diritto di accedere alle informazioni
governative. Nel 2001, nella prima settimana
dopo che la legge di accesso giapponese era
divenuta effettiva, i cittadini presentarono
più di 4.000 richieste. Più di mezzo milione di
thailandesi utilizzarono l’Official Information
Act nei primi tre anni dalla sua entrata in vigore. Il Freedom of Information Act (Foia) statunitense, dal canto suo, si classifica come la
legge di accesso più invocata al mondo. Nel
2000, il governo federale degli Stati Uniti ricevette più di due milioni di richieste da cittadini, aziende e stranieri (la legge è aperta a
«qualsiasi persona»), e spese circa un dollaro
per abitante (253 milioni di dollari) per applicare la normativa. Anche le istituzioni multilaterali stanno cercando di rispondere alle
sfide della libertà di informazione, presentate
I
dai loro Stati membri (come nell’Unione Europea, dove Svezia, Danimarca e Finlandia
criticano la cultura della segretezza preferita
da Germania e Francia) e dalla società civile
(la Banca Mondiale sta ora organizzando a
malincuore una politica di trasparenza).
Nel periodo immediatamente successivo
all’11 settembre, quando il controllo delle informazioni è emerso come un’arma cruciale
nella guerra contro il terrorismo, apparvero
segnali preoccupanti che i governi avrebbero
potuto porre fine al «decennio dell’apertura».
Ma, a livello mondiale, nuove misure di sicurezza e leggi sulla censura sono state rarissime. Il Canada considerò la possibilità di concedere il potere di deroga alla longeva legge
di accesso al proprio ministro della Giustizia
per motivi di emergenza o per ragioni legate
al terrorismo ma, poi, fece marcia indietro.
L’India approvò l’Ordinanza di Prevenzione
del Terrorismo, che prevedeva periodi di carcere per i giornalisti che non avessero collaborato con le forze dell’ordine, ma non si sono mai verificate ancora situazioni di questo
genere. La Gran Bretagna ha ritardato l’entrata in vigore della sua nuova legge sull’accesso alle informazioni fino al 2005 dichiarando che il ritardo non aveva nulla a che fare con l’11 settembre.
Paradossalmente, la segretezza ha fatto il suo
ritorno più drammatico nel paese che dichiara di essere il più democratico. Anche prima
degli attacchi di Al Qaeda, l’amministrazione
Bush aveva rivendicato il privilegio esecutivo
per molte richieste di informazioni di rilievo,
respingendo le interrogazioni del Congresso
riguardo ai nomi di consulenti privati in materia di politica energetica e bloccando la
pubblicazione dei documenti dell’era Reagan
con il Presidential Records Act. Ma l’11 settembre ha trasformato questa tendenza in
un’abitudine, a volte ragionevole (come nel
caso dei dettagli delle operazioni speciali in
Afghanistan) ma più spesso arbitraria. Negli
ultimi mesi, i funzionari della Casa Bianca
hanno concesso agli ex presidenti poteri di
veto sulla pubblicazione degli atti delle loro
amministrazioni, hanno ordinato alle agenzie di rispondere nella maniera più restrittiva e legalistica possibile alle richieste del
Foia, e hanno denunciato fughe di notizie anche quando sindaci e forze dell’ordine locali
lamentavano l’incapacità del governo federale di condividere le informazioni.
L’ossessione per la segretezza dell’amministrazione Bush si dimostrerà probabilmente
fallimentare, perché, come i mercati, i governi non lavorano bene nel segreto. Coloro che
si sono opposti in modo più efficace al desiderio presidenziale di tribunali militari segreti
non sono stati i difensori delle libertà civili,
ma i pubblici ministeri e gli avvocati militari
che hanno insistito su processi più aperti e su
un maggiore rispetto dei diritti fondamentali, su base legale e costituzionale oltre che
per ragioni di efficacia. I pubblici ministeri
sanno quello che il presidente Bush non sa,
ovvero che la trasparenza combatte il terrorismo dando forza ai cittadini, eliminando le
politiche peggiori e responsabilizzando i funzionari (non ultimi i despoti stranieri che si
sono temporaneamente alleati agli Stati Uniti
nella guerra al terrorismo). Più estesamente,
al di fuori degli Stati Uniti, le motivazioni dietro il movimento per la libertà di informazione restano generalmente immutate dalla
guerra al terrorismo. I sostenitori dell’apertura stanno sfidando con successo il potere
radicato e burocratico dello Stato sostenendo
che il diritto dell’opinione pubblica di sapere
non è solo un imperativo morale, è anche
uno strumento indispensabile per contrastare la corruzione, lo spreco e una governance
misera.
Chi è
Thomas Blanton
homas S. Blanton è direttore del National Security Archive della George Washington University dal 1992. È direttore di collana delle pubblicazioni su web, cd-rom, stampa e documentari
dell’Archivio, che arrivano a totalizzare più di 500.000 pagine. E autore tra l’altro di White House E-Mail: The Top Secret Computer Messages the Reagan-Bush White House Tried to Destroy (New Press, 1995),
ed è co-autore di The Chronology (Warner Books, 1987) sul caso IranContra, di Litigation Under the Federal Open Government Laws
(ACLU, 1993). I suoi articoli sono apparsi sull’International «HeraldTribune», sul «New York Times», sul «Washington Post», sul «Los Angeles Times», su «Wall Street Journal», sul «Boston Globe», sul «Wilson Quarterly», sul «Radcliffe Quarterly», su «The Cold War International History Project Bulletin», e su molte altre riviste. È uno dei
membri fondatori di freedominfo.org.
T
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Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Jenny Holzer
La maggior parte delle leggi sulla libertà di informazione oggi nel mondo
sono comparse a causa della competizione per il potere politico
tra parlamenti e governi, tra partiti di maggioranza e partiti di opposizione
e tra regimi presenti e regimi passati. Più che gli ideali ha potuto la politica
La maggior parte delle leggi sulla libertà di
informazione oggi nel mondo sono comparse
a causa della competizione per il potere politico tra parlamenti e governi, tra partiti di
maggioranza e di opposizione e tra i regimi
presenti e quelli passati. In effetti, la prima
legge sulla libertà di informazione – l’atto per
la libertà di stampa svedese del 1766 – venne
guidata dalla politica di partito, poiché la
nuova maggioranza parlamentare cercava di
consultare documenti che il governo precedente aveva tenuto segreti.
Il passato scandaloso della trasparenza
Allo stesso modo, il Foia statunitense, che è
emerso come modello per i riformisti in tutto
il mondo, non è stato il prodotto dell’illuminismo democratico, ma piuttosto della partigianeria democratica. La legge nasceva da dieci
anni di audizioni congressuali (1955-65) in
cui la maggioranza democratica cercava di
accedere alle decisioni prese dal gruppo esecutivo repubblicano sotto l’ex presidente
Dwight D. Eisenhower. Il Foia statunitense,
nella sua forma odierna – con ampia copertura, esenzioni limitate e un importante riesame da parte della Corte nel caso in cui il governo decida di trattenere le informazioni – è,
in realtà, una versione emendata della legge
del 1966, che venne modificata nel 1974 da
un Congresso democratico a causa di un veto
posto dall’allora presidente repubblicano Gerald Ford.
Il Foia statunitense non avrebbe avuto una
portata così vasta se non fosse stato per Watergate. In effetti, a livello mondiale, gli scandali sono rimasti un catalizzatore per i movimenti per la libertà di informazione. Il Canada approvò la sua normativa sulla libertà di
informazione nel 1982, in seguito agli scandali sulla sorveglianza della polizia e sulla regolazione di governo dell’industria. Le proteste pubbliche per le condizioni dell’industria
del confezionamento della carne e per l’amministrazione di una banca del sangue spinsero l’Irlanda a varare una legge simile nel
1997. In Giappone, la legge d’accesso nazionale del 1999 seguì due decenni di scandali,
dal caso di corruzione della Lockheed negli
anni Settanta all’insabbiamento burocratico
della contaminazione da HIV di sangue e
emoderivati negli anni Novanta. Il movimento per la trasparenza delle informazioni giapponese iniziò venti anni fa quando ordinanze
locali portarono alla luce falsificazioni sistematiche dei resoconti governativi e mostrarono la diffusione della corruzione all’interno dei settori delle opere pubbliche e dell’edilizia giapponesi – un sistema di corruzione
politica, baluardo di quarant’anni di dominio
monopartitico.
Se lo scoppio di scandali è stato un catalizzatore per la riforma in paesi con una lunga tradizione democratica, altrove il crollo dei re-
gimi totalitari ha contribuito a guidare il movimento per la libertà di informazioni. In Europa, dove, negli anni Novanta, la riforma
amministrativa si era arenata nella maggior
parte dei paesi ex comunisti (a causa dei frequenti cambiamenti di governo e di un dibattito corrosivo riguardo all’interdizione degli
ex funzionari del Partito comunista dai pubblici uffici), l’Ungheria prese l’iniziativa e varò una legge per la libertà di informazione
nel 1992. La legge ungherese fu, in parte, la
vendetta del nuovo regime contro i suoi predecessori comunisti, vendetta che apriva i loro archivi e li rendeva responsabili dei misfatti precedenti. Rassicurati dal successo del
modello ungherese, sottoposti alle pressioni
delle organizzazioni non governative della
«società aperta» come quelle fondate dal filantropo milionario George Soros, e ansiosi
di entrare nell’Unione Europea e nella Nato,
altri paesi ex comunisti si impegnarono nel
dibattito sulla libertà di informazione nell’ultima parte degli anni Novanta. La nuova normativa sulla libertà di informazione venne attuata in Estonia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Bulgaria tra il 1998 e
il 2000 – e persino in Bosnia ed Erzegovina
nel 2001, per ordine dell’Organizzazione per
la Cooperazione e la Sicurezza in Europa.
L’Official Information Act thailandese del
1997 fu l’apice di un processo di riforma politica che era iniziato nel 1992 con dimostrazioni di massa contro il regime militare e che
era diventato ancora più urgente con la crisi
economica del 1997. Una richiesta presentata
da una madre scontenta cambiò l’intero sistema scolastico primario e secondario del paese. Nel Sudafrica del dopo apartheid, la costituzione del 1994, sotto la quale Nelson Mandela arrivò al potere, comprendeva una disposizione specifica che garantiva ai cittadini
l’accesso alle informazioni di Stato e la legge
di implementazione del Sudafrica, varata nel
2000, è probabilmente la più forte al mondo.
Fissare un nuovo standard
Oggi, come conseguenza della globalizzazione, il concetto stesso di libertà di informazione si sta estendendo dall’istanza puramente
morale di un’incriminazione della segretezza
fino a includere un significato di valore più
neutrale – come un’altra forma di regolamentazione di mercato, di amministrazione
del governo più efficiente, e come un elemento che contribuisce alla crescita economica e allo sviluppo delle industrie dell’informazione. L’adozione da parte dell’Ungheria
di una legge per la libertà di informazione,
per esempio, ha indicato un rifiuto del suo
passato comunista. Ma forse, cosa anche più
importante, la normativa ha combinato nuovi
diritti di accesso ad atti governativi con forti
disposizioni per la protezione dei dati per le
imprese, nel tentativo di attrarre l’investi-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
mento delle aziende tedesche conformandosi
agli standard europei – e, in particolare, a
quelli della Germania – che salvaguardano i
segreti commerciali e le informazioni personali.
Le misure di trasparenza finanziaria non
contribuiscono necessariamente alla causa
della riforma politica, ma abili patrocinatori
hanno attinto al linguaggio della trasparenza
per sollecitare la liberalizzazione politica a livello locale. In effetti, in Cina i riformatori,
come anche gli attivisti anticorruzione del
Partito comunista, stanno utilizzando questo
argomento per contribuire ad aprire il processo di decision-making nei governi locali e
provinciali. La loro tesi, che acquisisce maggior peso ora che la Cina è entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, è che i
governi regolanti e le aziende (specialmente
quelle globali) possono essere rese più efficaci promuovendo la piena esposizione delle
loro attività, piuttosto che facendo affidamento su burocrazie molteplici in paesi molteplici
che offrono molteplici opportunità di corruzione.
È più probabile che riescano questi sforzi di
promuovere la trasparenza a livello locale
che qualsiasi tentativo di implementare un
ordinamento nazionale per la libertà di informazione – specialmente uno che si applichi
al law enforcement, alla sicurezza nazionale o
alle decisioni del Partito comunista.
L’appartenenza a un’organizzazione sovranazionale come l’Omc non sempre incoraggia la trasparenza – come quando la Nato rifiuta di rendere noti i documenti senza un
consenso tra tutti i suoi membri o richiede alla Polonia di adottare una nuova legge sul segreto di Stato. Ma più spesso, le organizzazioni sovranazionali creano una domanda per
un maggiore accesso alle informazioni, sia
all’interno che tra i paesi. Queste istituzioni
di governance globale o regionale determinano flussi di informazione molteplici tra governi nazionali, organizzazioni multinazionali, media, gruppi di privati cittadini, che
utilizzano le informazioni per influenzarsi reciprocamente, spesso con un significativo
impatto domestico. Ad esempio, la stampa
slovacca riferì delle critiche dell’Unione Europea alle statistiche economiche fuorvianti
sotto il governo dell’ex primo ministro Vladimir Meciar. Questa pubblicità negativa portò
a una riorganizzazione dell’ufficio statistico
di Stato e contribuì sia al declino politico di
Meciar che all’adozione formale da parte della Slovacchia di una legge per la libertà di informazione.
La «società aperta» dell’informazione
Facendo un buon uso degli appelli alla morale e all’efficienza, il movimento internazionale per la libertà di informazione è sul punto di
cambiare la definizione di governance demo-
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Jenny Holzer
Il movimento per la trasparenza delle informazioni non sa neppure di essere
un movimento: i suoi membri reinventano la ruota continuamente. Il regime ideale
di apertura è rappresentato da governi che rendono pubbliche così tante informazioni
che la richiesta formale per notizie specifiche diventerebbe quasi inutile
cratica; sta creando una nuovo modello, una
nuova attesa e un nuovo requisito minimo
perché qualsiasi governo sia considerato una
democrazia. Eppure, allo stesso tempo, il movimento per la trasparenza delle informazioni non sa neppure di essere un movimento: i
suoi membri reinventano la ruota continuamente e cercano modelli rilevanti. Inoltre, gli
interessi radicati dello Stato continuano a
lanciare vigorosi contrattacchi, negli Stati
Uniti e altrove, citando la sicurezza nazionale
e la necessità di privacy nel processo deliberativo come contrappesi alle tesi a favore della libertà di informazione. Il regime ideale di
apertura sarebbe rappresentato da governi
che rendono pubbliche così tante informazioni che la richiesta formale per notizie specifiche (e il conseguente processo amministrativo e legale) diventerebbe quasi inutile. Finora, i sostenitori dell’apertura hanno raggiunto un accordo sui cinque fondamenti che caratterizzano le normative sulla libertà di informazione efficaci.
Innanzitutto, questi dovrebbero iniziare con
la presunzione di apertura. In altre parole, lo
Stato non possiede le informazioni, che appartengono ai cittadini. Tradizionalmente,
ovviamente, «L’état, c’est moi», come dichiarò
il re di Francia Luigi XIV. Rovesciare questa
istanza legale e la sua eredità negli atti di segretezza ufficiali (che ignorano il «diritto di
sapere» del pubblico) resta la priorità più alta
per i movimenti per la libertà di informazione.
In secondo luogo, qualsiasi eccezione alla
presunzione di apertura dovrebbe essere limitata quanto possibile e scritta nella norma-
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tiva, non soggetta a trasformazioni burocratiche e al cambio di amministrazione. I riformatori in Giappone indicano che esenzioni
per la privacy eccessivamente ampie sono un
ostacolo enorme, poiché permettono ai burocrati di trattenere qualsiasi elemento di identificazione personale, indipendentemente dal
fatto che rendendolo noto si invada la privacy
della persona. Di conseguenza, i documenti
che vengono rilasciati hanno l’aspetto di una
groviera, con i nomi di ogni funzionario cancellati, compreso persino quello del primo
ministro.
In terzo luogo, qualsiasi eccezione alla pubblicazione delle informazioni dovrebbe basarsi su un identificabile danno a specifici interessi dello Stato, sebbene molti ordinamenti indichino solo categorie generali come «la
sicurezza nazionale» o «le relazioni estere». Il
che rientra, perlopiù, nel senso comune: è facile cogliere un danno dalla pubblicazione di
dati che riguardano, per esempio, la progettazione di testate chimiche, l’identità delle
spie che potrebbero essere uccise se esposte,
le posizioni bottom-line in negoziati imminenti, e simili. La maggior parte dei segreti di
governo, tuttavia, è di gran lunga più soggettiva e, semplicemente, variabile nel tempo.
L’ex segretario di Stato statunitense Lawrence Eagleburger ha dichiarato che la maggior
parte dei segreti di cui è stato testimone nella
sua carriera di governo avrebbe potuto facilmente esse resa nota nei dieci anni successivi
alla loro creazione.
In quarto luogo, anche laddove esiste un danno identificabile, questo deve avere un peso
maggiore rispetto agli interessi pubblici ser-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
viti dal rilascio delle informazioni. Non si serve nessun interesse pubblico rendendo noto
il progetto di un’arma nucleare, ma le politiche che regolano l’uso delle armi nucleari sono al cuore della governance e del dibattito
pubblico. Gli Stati Uniti hanno reso pubblici
persino i dettagli sul reclutamento e sul pagamento delle spie quando quelle informazioni
erano necessarie in un procedimento legale
(un’altra forma di interesse pubblico) come
nel processo all’ex uomo forte panamense
Manuel Noriega.
In quinto luogo, un tribunale, un commissario per l’informazione, un ombudsman o
un’altra autorità, che sia indipendente dalla
burocrazia originale che detiene le informazioni, dovrebbero risolvere qualsiasi disputa
sull’accesso. In Nuova Zelanda, l’ombudsman può permettere la diffusione delle informazioni da parte delle agenzie. In Giappone, un gruppo di tre giudici decide gli appelli.
E negli Stati Uniti, un giudice federale ha recentemente ordinato, sotto il Foia, la pubblicazione dei documenti sulla politica energetica che il vicepresidente Dick Cheney aveva
rifiutato di concedere al Congresso.
Nel cercare di implementare questi principi
fondamentali, il movimento per la libertà di
informazione può focalizzarsi troppo sulle
leggi e sul linguaggio legale. I media liberi e
la società civile attiva possono essere più importanti della normativa: nelle Filippine, per
esempio, senza una legge d’accesso alle informazioni formale, i media e le Ong hanno
aperto gli archivi governativi e hanno persino rovesciato l’ex presidente Joseph Estrada.
L’abitudine al dissenso e all’opposizione può
anche danneggiare il movimento, perché gli
attivisti devono imparare a lavorare insieme
oltre che contro i governi per raggiungere
un’apertura reale. Le burocrazie confonderanno sempre i cittadini a meno che i riformatori trovino dei modi per cambiare gli incentivi burocratici (premiando e promuovendo i funzionari che rispondono) e per sviluppare una valutazione dei limiti di risorse degli amministratori e delle pressioni politiche.
Forse l’ultima sfida per il movimento per la libertà di informazione sarà la necessità per i
governi come per i cittadini di adattarsi a un
nuovo clima culturale e psicologico. Nel giapponese colloquiale, ad esempio, il termine
okami (dio) viene utilizzato comunemente
per riferirsi ai funzionari di governo. «Non ci
si può lamentare degli dei», dichiarò un attivista giapponese a un giornale sintetizzando
la difficoltà percepita dalle persone ordinarie
di confrontarsi con il governo. Oppure, nelle
parole dell’attivista bulgara Gergana Jouleva,
«la democrazia non è un compito facile per le
autorità né per i cittadini».
Thomas Blanton, The World’s Right to Know, «Foreign Policy», n. 131 (Washngton, D.C.: Carnegie Endowment dor
International Peace, July-August 2002)
(Traduzione di Martina Toti)
Carlos Garaicoa
Confini e conflitti
La violenza del mondo nelle parole. Strategie di difesa sul pianeta Terra
Studio tipografico per le parole
di Carlos Garaicoa
Per Carlos. La città che vive
di Adriano Pedrosa
11/9, tutti spettatori del disastro
di Mauro Carbone
Lo spazio dei senza patria
Intervista a Okwui Enwezor di Flaminia Gennari Santori
Le tre inquietudini (delle) capitali
di Guido Martinotti
Gusci per rifugiarsi dal mondo
di Peter Sloterdijk
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Carlos Garaicoa
Studio tipografico per le parole
di Carlos Garaicoa
L’artista, l’opera
arlos Garaicoa (L’Avana, 1967) pone come oggetto di indagine
della sua ricerca la città, alternando fotografia, installazione,
video e disegno. Attraverso la messa in scena di memorie
urbanistiche ed architettoniche, l’artista racconta la sua Cuba e ne
fa un ritratto realistico, appassionato, quasi antropologico, ma anche
poetico, carico di ricordi, di spazi e luoghi dimenticati. «Il mio lavoro è un dialogo continuo con lo spazio pubblico di ambienti differenti, non solo con l’Avana».
Trasformandosi quasi in archeologo urbano, Garaicoa muove alla
ricerca di tracce, segni e vestigia del (recente) passato, testimonianze di rapporti, relazioni e legami che via via si sono allentati o interrotti. Fedelmente ancorato all’antico concetto di civitas,
ne documenta il rapido declino, sperimentandone allo stesso
tempo una sorta di riscatto, un tentativo di rivincita.
Tra le più spettacolari installazioni realizzate negli ultimi anni, il
lavoro intitolato Autoflagelación, supervivencia, insubordinación
(composta di decine di maquettes di materiali diversi accostate a
costituire una città immaginaria) o Now let’s play to disappear,
dove l’artista propone una grande metropoli interamente realizzata in cera: gli edifici bruciano e si consumano lentamente allo
stesso tempo infondendo vita, luce e calore.
C
18
Garaicoa ha recentemente esposto al Moma di New York (2005).
Ha inoltre partecipato alla Biennale di Tirana (2005); alla Biennale di San Paolo del Brasile (2003), a Documenta, a Kassel (2002).
Nel 2006 le sue opere sono state esposte presso importanti istituzioni museali in Germania, Spagna, Canada e Stati Uniti.
La riflessione sullo spazio urbano e architettonico, sul suo valore
politico e sociale, è in questi disegni riferita ad una dimensione tipografica, dove lo studio della forma della parola è metafora del ruolo
dell’architetto e dell’urbanista che, su scala diversa, danno forma
allo spazio abitabile e abitato. La stretta relazione tra forma e contenuto è resa qui ancor più evidente dal significato delle parole che
nascondono la loro brutalità e violenza dietro un’estetica che
riecheggia gli stilemi dell’avanguardia russa d’inizio Novecento.
Dalla natia Cuba un riferimento ad una estetica ideologica ma che
sottilmente cela un inno alla libertà di espressione.
A pagina 17, Nell’erba dell’estate, 1997, Video installazione.
Nelle pagine seguenti, dalla serie Studio tipografico per le parole, 2006 matita su carta, cm 21x29,7.
Per gentile concessione dell’artista e Galleria Continua (San Gimignano Beijing).
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Carlos Garaicoa
Per Carlos. La città che vive
di Adriano Pedrosa
a città è lì. Sta aspettando che tu la incontri, la esplori, che tu la viva e, soprattutto, che tu la ricordi. Ci devi tornare e, dopo molti anni, devi assolutamente
fartici una scopata, averci una storia d’amore
o un incubo, farci una bella scazzottata. Piangi, ridi, cammina, corri e accelera a tutta velocità attraverso le sue strade, parchi, acque,
giorni e notti. Ti ci devi innamorare o ammalare. Tutte le volte che ci torni, la città cambia; esperienze nuove si inscrivono su vecchie memorie. Nuove scritte si sovrappongono alle vecchie. Con il tempo diviene più
complessa e sfuggente, cresce. La ami, ti
manca terribilmente, te ne
dimentichi. Non vuoi assolutamente tornarci. Ti fa
sentire felice. Ti rattrista.
Con il passare delle stagioni, degli anni, con il cambiare degli stati d’animo,
questa intricata rete di
esperienze influenza e contamina, si riflette e proietta
sull’architettura e sullo sviluppo urbanistico della città, sulle sue temperature e
sulla sua aria, si rispecchia
nei suoi edifici, nei suoi cieli e nelle sue stelle, nei suoi
angoli, nei suoi testi, nei
suoi linguaggi, nelle sue
persone.
La città è unica per ognuno
di noi, come il più intimo di
tutti gli oggetti. Appartiene
Quattro cubani,
a te, e a te solamente. Sarà
fedele per sempre e non si
prenderà mai beffa di te.
Nessuno te la porterà via. È fortemente influenzata dalle persone con le quali entri in
contatto (in particolar modo attraverso i canali dell’amore e dell’odio, attraverso il passato e il presente), talvolta lì, oppure altrove.
La città è infinita, non ha fine, ce ne sono a migliaia,
ovunque. Tutte che pulsano, si espandono, crescono
e cambiano, allo stesso tempo o in tempi successivi, per
divenire un’unica grande
città. È visibile e invisibile.
La città è lì, concretamente,
nel corpo e nello spirito, che
ti risucchia e ti circonda.
Non ha spazi vuoti, ogni angolo è occupato o preso dal
suo corpo opulento e onnipresente (quelli che, in un
primo momento, potrebbero essere scambiati per dei
vuoti, in effetti non sono altro che presenze densamente stipate). La città ti
tocca e tu la respiri. È una
L
presenza che ti sovrasta. La vedi tutti i giorni,
in ogni momento e ovunque, non la puoi abbandonare e lei non ti lascerà andare via. La
città è nei tuoi pensieri, sogni e incubi; è nelle
immagini, nei film, nei suoni, nei libri che vedi, ascolti, leggi e scrivi. Pervade la tua immaginazione, il tuo immaginario, il tuo repertorio di immagini.
La città è e non è, allo stesso tempo, la tua casa. Proiettandoti, riflettendoti o identificandoti con essa, puoi ritrovartici, trovarvi le tue
radici, la tua immagine e tua madre. Ti abbraccia e conforta. Qui trovi il senso di appartenenza, la lingua madre, la cultura comune,
1997, video installazione.
una comunità protettiva. Sono questi spazi
interiori, ascrivibili a un micro-livello, che
configurano un paesaggio urbano intimo. In
casa ogni elemento architettonico può conservare almeno un ricordo: una teiera, un in-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
terruttore, un cuscino, una maniglia, uno
specchio, un pezzo di tappezzeria o un cavo
lente o irrimediabilmente perso, una mattonella o un vetro rotti, la vernice che inizia a
staccarsi e a cadere, il tubo che perde, una
macchia, un segno, una fessura, la luce e l’oscurità, l’attico come la cantina. La città-casa
è unica e solo tua, una città nella città, dove
la pianificazione stradale si fa domestica, e i
diagrammi pubblici sono convertiti in privati.
Le paure e le fobie giacciono al buio, al di sotto o al di là di strati di mura, scale, tende,
mattonelle, tessuti, specchi, pittura, carta da
parati o tappezzeria, pronte a emergere e a
mostrare le loro facce strane e familiari, le loro forze.
Straripante di personaggi
letterari, la città è un testo,
un poema, un palinsesto in
continua mutazione, frammentazione e proliferazione, un luogo di cancellazione e di riproduzione. La leggi, la rileggi, e la interpreti
male di continuo: una strada, un segnale, un semaforo, un albero, una finestra,
una camera da letto, un’amante. Scrivi e riscrivi la
città quotidianamente, con
diligenza, senza sosta. Fai
fatica a trovare un linguaggio appropriato, un formato,
un aspetto, uno stile, un tono, un accento che possa
trasformare il suo rigido
diagramma, la sua griglia
serrata, in un essere vivente, organico e fluido. La città è comprensibile solo in maniera parziale e
frammentata. Guardala dall’alto, da un piccolo schermo ovale trasparente e incrinato.
Puoi avere la presunzione di riuscire ad abbracciarla e controllarla, ma anche a volo
d’uccello, la realtà è solo
quella che riesci a vedere in
una tessera di puzzle nuvoloso, reso minuscolo dalla
distanza e dalla velocità. La
città, vera, totale, universale, non giace nella moderna
luce urbana, nella sua aria,
geometria, circolazione o
trasparenza. Risiede piuttosto nei suoi recessi, nelle
sue segrete chiuse e inaccessibili, nelle cantine scure e negli attici luminosi,
nei suoi sotterranei dimenticati, nei suoi intestini, nei
suoi interstizi e fessure. La
cartografia di questi luoghi,
la descrizione tecnica – potrai concludere – sono del
tutto inutili.
25
Carlos Garaicoa
11/9, tutti spettatori del disastro
di Mauro Carbone
orse si può parlare dell’11 settembre come del primo evento storico
mondiale in senso rigoroso: l’urto,
l’esplosione, il lento crollo – tutto ciò che
irrealmente non era più Hollywood, ma
spietata realtà, si è compiuto letteralmente
davanti agli occhi del pubblico di tutto il
mondo», ritiene il filosofo tedesco Jürgen
Habermas. «Come se per qualche motivo ci
fossimo ritrovati per caso tutti lì, ad assistere allo stesso incidente stradale», chiosa lo
scrittore americano David Foster Wallace
con dolente understatement. Ad assistere allo
stesso naufragio, insomma. Non dunque un
«naufragio con spettatore», in cui il secondo
riesca a mantenere dal primo, come raccomanda la metafora di Lucrezio, una «distanza di sicurezza»: quella che, a sua volta,
Immanuel Kant giudica necessaria perché
uno spettacolo spaventevole susciti sentimenti sublimi.
No, non un «naufragio con spettatore» è
avvenuto l’11 settembre 2001, dicevo. Piuttosto un naufragio al quale – abbiamo sentito –
tutti siamo stati spettatori, dall’essere stati
spettatori dello stesso naufragio sentendoci
accomunati, a quei naufraghi e fra noi, a
nostra volta resi perciò naufraghi: mondo la
cui carne fa di carne chi a quel mondo partecipa, insegna Merleau-Ponty. E sentirsi
accomunati significa scoprirsi comunità,
sorprendendosi a riconoscerne parte persino chi può inneggiare al suo massacro: vertiginosa implosione di ogni rassicurante
distinzione fra Abele e Caino che ha fatto da
eco – assordante – all’implosione delle Torri
Gemelle.
Dell’essere stati spettatori dell’evento dell’11
settembre – dell’esserlo stati insieme, come
generalmente, e significativamente, è accaduto – David Foster Wallace ha dato una
descrizione d’inesauribile intensità:
«F
Tutti fissavano, paralizzati dall’orrore, uno
dei pochi spezzoni di filmato che poi la Cbs
non ha più ritrasmesso, cioè una ripresa
da lontano, in grandangolo, della Torre
Nord e della griglia d’acciaio sventrata dei
piani più alti in fiamme, e di certi puntini
che si staccavano dall’edificio e scendevano lungo lo schermo in mezzo al fumo, che
poi quella tipica zoomata a scatti rivelava
essere persone in carne e ossa, con indosso cappotti, cravatte e gonne, e scarpe che
si sfilavano dai piedi mentre loro cadevano, con certa gente che pendeva da cornicioni o travi per poi lasciarsi andare, ribaltandosi o contorcendosi mentre cadeva, e
una coppia che sembrava quasi (era
impossibile da verificare) abbracciarsi
mentre veniva giù per tutti quei piani,
riducendosi nuovamente a un paio di puntini quando la telecamera all’improvviso
tornava in campo lungo – non ho idea di
quanto durasse il filmato. [...] allora tutti i
presenti si sono poggiati allo schienale
delle poltrone guardandosi con espressioni che sembravano al tempo stesso infanti-
26
li e orribilmente vecchie. Un paio di loro
devono aver emesso qualche suono. Non
saprei cos’altro si possa dire. Sembra grottesco raccontare di essere rimasti traumatizzati da un filmato quando le persone nel
filmato stavano morendo. C’era qualcosa,
in quelle scarpe che cadevano giù, che
rendeva il tutto anche peggiore.
Che cos’era questo «qualcosa»? Forse, assurdamente, il particolare che «all’intera popolazione mondiale [...] trasformata in una platea di testimoni oculari impietriti» meglio
mostrava come quelle persone non solo
stessero morendo, non solo morendo uccise,
ma anche morendo umiliate, negate – come
sempre fa l’umiliazione – nella loro più normale individualità, singolare ossimoro su
cui occorrerebbe riflettere. Perché, a pensarci bene, nel nostro abbigliamento di occidentali forse nulla è tanto normalmente individuale quanto le scarpe, in cui resterà per
sempre impressa la forma senza uguali che
ciascuno di noi ha dato loro. Per questo «in
quelle scarpe che cadevano giù» c’era qualcosa di simile a quanto c’era nelle montagne
di scarpe dei campi di sterminio nazisti,
restate le sole testimoni del peggio.
Forse, allora, quel «qualcosa» indicato da
Foster Wallace era un’estrema ammissione
di «vulnerabilità», per usare una parolachiave del commento che all’evento dell’11
settembre 2001 ha offerto, tre mesi più tardi,
Judith Butler.
In questo senso quel «qualcosa» sembra lo
stesso cui Butler si riferisce: «qualcosa che ci
mostra i nostri legami con gli altri, sottolineando come quei legami corrispondano
esattamente a quello che siamo e che ci
costituisce come persone».
A mia volta credo di averlo incontrato, quel
«qualcosa», una decina di giorni dopo l’11
settembre 2001 alla Pennsylvania Station di
New York, dov’ero, come si dice, in transito.
Improvvisamente mi trovai di fronte un
muro affollato di cartelli, ciascuno diverso e
tutti attraversati dalla stessa scritta: Missing.
Da ognuno mi guardava un volto scomparso
nel crollo delle due Torri e mi parlava la storia, banale e irripetibile, dei suoi affetti.
Scritti al computer oppure a pennarello, talvolta decorati da qualche disegno infantile,
stretti intorno alla foto di una persona fermata in un’istantanea ignara o in una posa
di rito, erano i cartelli preparati dai familiari per implorarne notizie. Disposti sul muro
ma irriducibili a tessere di un mosaico, che
stanno costrette nei limiti loro assegnati per
non disturbare la composizione (e la compostezza) dell’insieme, quei cartelli lottavano
disperatamente contro qualsiasi ordine per
avere, ciascuno per sé, ogni attenzione.
Anche se, in realtà, «dicono “scomparso”,
non nel senso che “lo stanno cercando” ma
nel senso di sentire la loro mancanza», è
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
stato osservato con profondità da Charles
Bernstein in Reporter Liberty Street: quella
mancanza che chiedevano a chi li vedeva di
condividere. Che convocavano chi li vedeva
a condividere. Che costringevano chi li
vedeva a condividere. Perché erano immagini che contenevano un dolore incontenibile.
Immagini di un dolore irrappresentabile,
insomma, aggrappate a dettagli privati nella
cui insignificante quotidianità – nella cui più
normale individualità, appunto – chiunque
finiva con sorpresa per riconoscersi, spontaneamente ma con disagio. Come in quelle
scarpe che cadevano giù, l’emozione per le
quali ritorna, in un romanzo di Lynne Sharon Schwartz il cui titolo originale (The Writing on the Wall) evoca peraltro proprio quei
cartelli, in termini singolarmente simili alle
parole di Foster Wallace: «E poi le scarpe. Le
scarpe sono la cosa peggiore». Emozione
contrastata. Emozione dalla cui violenza era
impossibile difendersi. I suoi echi si possono
ancora incontrare fermandosi davanti all’elenco delle vittime esposto nella stazione
della metropolitana di Union Square.
È forse quest’emozione che può dirsi oggi
sublime? Certo lo spettatore non riesce più a
distinguersi dal naufrago. Non riesce davvero a difendersi dal naufragio. «Il dolore che
avvolge queste colonne è inimmaginabile e
continuiamo a fissarlo come travolti da un
mare in tempesta», ha scritto chi ha visto
quei cartelli in un’altra stazione della metropolitana, modificando proprio nel senso
appena indicato l’analoga immagine kantiana del sublime. Perché, come le scarpe che
cadevano giù, così quei cartelli ricordavano
che «il corpo implica mortalità, vulnerabilità, partecipazione: la pelle e la carne ci
espongono allo sguardo altrui, ma anche ai
contatti e alla violenza».
Brano tratto dal libro Essere morti insieme.
L’evento dell’11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri). Un’anticipazione per gentile concessione dell’editore. Per motivi di spazio sono
state eliminate le note presenti nell’originale.
Chi è
Mauro Carbone
auro Carbone insegna Estetica
presso l’Università degli Studi di Milano. È autore di Ai confini dell’esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e
da Proust (1995), Il sensibile e l’eccedente
(1996), Di alcuni motivi in Marcel Proust
(1998), La carne e la voce. Un dialogo tra
estetica ed etica (2003). Membro del comitato
direttivo della rivista «Chiasmi International», è stato anche membro dell’International Symposium on Phenomenology.
M
Carlos Garaicoa
Lo spazio dei senza patria
Intervista a Okwui Enwezor di Flaminia Gennari Santori
el suo lavoro ha affrontato le questioni più
problematiche della relazione contemporanea tra
l’individuo e la governance
globale. Un esempio in questo
senso è l’edizione della Biennale di Siviglia, The Unhomely:
Phantom Scenes in Global Society. Quali sono le principali
prospettive che ha scelto per
affrontare questi temi, attraverso un’ampia varietà di proposte artistiche?
Una delle cose che mi interessa
fare è affrontare una questione
molto semplice: come si pensa
storicamente nel presente. Lo
sradicamento (Unhomely) è una
caratteristica della condizione
della modernità. Questo è un
mondo di persone in transito, incapaci di attraversare confini. Il
più ampio contesto di tutto ciò è
rappresentato dalla prolungata
guerra al terrore, che ha definito
uno specifico e contemporaneo
stato di eccezione in cui l’individuo affronta continue minacce
alla sua sovranità: sono queste le
problematiche che definiscono
questo momento in cui lo sradicamento incontra l’individuo.
Volevo articolare questa nozione
in termini semplificati e, se vuole, prosaici, e sottrarla alla nozione freudiana di inquietante o
alle prospettive psicoanalitiche.
N
Gli artisti rispondono in modi
differenti a questa attuale condizione dello sradicamento. Per
esempio Mona Hatoum, che non
è presente nella mostra, è un’artista che ha fatto del tema dello
sradicamento uno dei principali
strumenti del suo lavoro, con
estremo rigore analitico, attraverso l’indagine sui lager e il lavoro sulla Palestina come forma
rappresentativa del lager. Le
opere, i gesti e le proposte degli
artisti su questi temi stanno cominciando veramente a costituire una formale risposta a queste
domande, e la mostra è concepita come un luogo in cui affrontare queste problematiche, sorte
negli ultimi cinquant’anni e intensificatesi dall’inizio della
guerra al terrore. La scultura occupa una posizione centrale all’interno della concezione della
mostra, in particolare nel modo
in cui certi tipi di sculture articolano una comprensione spaziale
completamente diversa della
griglia: non più come lo spazio
razionale cartesiano come era
prima concepito dal costruttivismo ed è stato poi esteso dal minimalismo, ma come uno spazio
difficile di abitazione. Queste
sculture articolano l’idea di spazio come luogo cintato, e affrontano le questioni dei limiti spaziali posti agli individui e alle so-
cietà. Perciò la scultura fornisce
un punto di partenza per come si
possono pensare le forme di incarcerazione: non specificamente come imprigionamenti fisici,
ma come la forma logica dell’esclusione, come le logiche discipline di potere che dominano
l’individuo e minacciano, ancora
una volta, la sua sovranità. Andreas Slominski, per esempio,
con le sue trappole, ha trattato i
temi della delimitazione spaziale e del luogo chiuso.
Una delle molte idee che lei
avanza nella mostra è il concetto di socievolezza (Neighbourliness), una nozione che
per lei non è né prossimità né
intimità ma qualcosa di più
complesso, che va oltre entrambe. Se lo sradicamento è
il mondo in cui viviamo, la ricerca della socievolezza è una
forma possibile di resistenza a
esso?
Il concetto di socievolezza, ancora una volta, è strettamente collegato al modo in cui noi pensiamo storicamente nel presente.
Dall’11 settembre molta gente
che non ha letto il libro di Samuel Huntington Lo scontro di
civiltà ha preso quel lavoro come
un esempio storico della risposta
all’11 settembre, e una prova che
l’islam e l’Occidente sono asso-
lutamente irriconciliabili a causa della loro profonda tensione
culturale, filosofica e teologica.
Secondo tale prospettiva non ci
sarebbe alcuna possibilità di riconciliare le logiche attraverso
le quali questi due mondi hanno
concepito le loro società. La prospettiva di Huntington dello
«scontro di civiltà» è certamente
una semplificazione esagerata di
una serie estremamente complessa di relazioni culturali, religiose e sociali che attraversano
Occidente e non-Occidente, e
tuttavia è diventata sinistramente popolare negli ultimi anni.
Con il concetto di socievolezza
volevo proporre qualcosa di molto meno antagonistico ma che
nondimeno è impegnato nell’esplorazione delle tensioni che ho
citato. Quello che intendo con
socievolezza è un concetto che
non è né antagonistico né opposizionale, ma che è in grado di riconoscere una differenza, nel
pieno riconoscimento della molteplicità delle differenze interne
a ogni società. Una delle mie domande iniziali era: come ci siamo spostati da posizioni di riconoscimento a posizioni di non-riconoscimento che hanno prodotto in vario modo l’architettura
della sorveglianza in cui viviamo
oggi? Questa visibilità e la continua esposizione del soggetto che
Chi sono
Okwui Enwezor e Flaminia Gennari Santori
kwui Enwezor è il direttore artistico della seconda Biennale
Internazionale di Arte Contemporanea di Siviglia.
Enwezor è anche il preside degli Affari Accademici e il Vice
presidente senior dell’Art Institute di San Francisco. Ha ricoperto incarichi di visiting professor di Storia dell’Arte presso le università di
Pittsburg, Columbia, New York, Illinois, Urbana-Champaign e di
Umea in Svezia. È stato direttore artistico di Documenta 11 a Kassel,
in Germania (1998-2002) e della seconda Biennale di Johannesburg
(196-1997).
O
laminia Gennari Santori, storica dell’arte, è research fellow al
Metropolitan Museum of Art dove si occupa di storia del collezionismo, dei musei e della recezione dell’arte nel ventesimo
secolo. Dal 2002 al 2006 ha coordinato le ricerche della Fondazione
Adriano Olivetti. Tra le sue pubblicazioni, The Melancholy of Masterpieces (Milano, Five Continents, 2004) e, con Bartolomeo Pietromarchi, Osservatorio Nomade: Immaginare Corviale (Milano, Bruno
Mondadori, 2006).
F
Olivo Barbieri, Site specific Los Angeles 05, 2005. Cm 122x152,4.
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Carlos Garaicoa
«Lo sradicamento è la condizione per eccellenza della modernità e perciò
ha attributi storici: una delle cose che mi interessa
è mostrare come queste tematiche siano state sempre parte del modo in cui gli artisti
hanno riflettuto sul loro rapporto con il proprio ambiente sociale»
tutti noi sopportiamo non implica il riconoscimento, ma esattamente l’opposto: un misconoscimento del soggetto e della sua
costituzione. La conseguenza è
che questa estrema visibilità
produce una forma di indifferenza: l’apparato diventa cieco nei
confronti del soggetto. Ma all’interno di questo contesto, come
sono affrontate e vissute le questioni e le condizioni della socievolezza? Questo è il punto in cui
la nozione di prossimità e di intimità viene in essere. Detto ciò, ci
sono due modi di pensare la
prossimità: la si può pensare come uno stato di breve distanza in
cui l’altro è sull’altro lato ma non
troppo lontano, e che crea una
sorta di relazione reciproca, anche se potrebbe essere segnata
dall’ambivalenza.
Oppure si può pensare alla prossimità come a una forma di disturbante vicinanza, ed è questa
particolare forma di prossimità a
interessarmi: l’altro è così vicino
da venir percepito come una minaccia e un pericolo alla coerenza di uno spazio architettonico e
culturale omogeneo. Un chiaro
esempio di ciò è il paradosso della ristrettezza dello stretto di Gibilterra e il grande gap tra Spagna e Nord Africa. Sebbene sia
una distanza geografica brevissima, in termini di spazio psicolo-
gico è enorme, e lo trasforma in
uno spazio difficile e minaccioso.
In questo, come in molti altri casi, la breve distanza è trasformata in una vicinanza disturbante e
non posso pensare a niente di
meglio che al lavoro degli artisti,
riguardo al modo di affrontare
questa realtà in tutta la sua complessità. Absalon, Ursula Biemann, Yto Barrada, James Casebere, Harun Farocki, Peter
Friedl, Toba Khedori, Marcia Kure, tutti lavorano o hanno lavorato sulla mappatura, sull’interpretazione e sull’espressione di
queste condizioni di socievolezza e di disturbante vicinanza che
ho qui descritto.
La posizione geografica di
questa mostra ha avuto un
ruolo nel concepimento della
mostra stessa? E più in generale qual è la relazione tra i
più ampi temi globali che lei
affronta nei suoi progetti e le
specifiche ubicazioni delle
esposizioni?
Ovviamente questa mostra è
molto sensibile alle condizioni
che costituiscono aspetti specifici della realtà quotidiana spagnola. Se vuole, l’ubicazione della mostra diventa un case study
tra i molti altri offerti dagli artisti
nell’esposizione. In questo modo
lo stesso luogo diventa una spe-
Ursula Biemann, Estrecho Complex, 2003. Installazione multimedia, dimensioni variabili
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cie di dimensione-ombra all’interno della mostra, tuttavia non
citata esplicitamente. E in questo
caso, certamente, il rapporto tra
Spagna e Nord Africa diventa un
altro contesto-ombra, così come
la relazione tra Africa occidentale e isole Canarie. Ma anche se la
mostra è stata creata specificamente per la Biennale di Siviglia,
è stata concepita veramente per
affrontare idee globali.
Molti artisti presenti prendono
la città come il loro terreno di
indagine o produzione. La «città» come paradigma dominante dell’esperienza contemporanea è senz’ombra di dubbio
uno degli interessi della sua
esposizione. Pensa che sia arrivato il momento di andare oltre questo paradigma e di «usare» o di guardare la città in altri termini?
L’arte contemporanea è piena di
ogni sorta di progetti sulla città,
sull’utopia e così via. Volevo che
ci fosse una differenza, un confine molto leggero tra quello che
penso e queste manifestazioni:
non volevo fare un progetto sull’impegnarsi con la città o sull’intensa interazione tra opere
d’arte e città. Quello che volevo
fare era prendere tutti gli strumenti attraverso i quali gli artisti
fanno arte nella città e reinserirli nello spazio della mostra come
fosse un luogo specifico per la
produzione di certe idee sulla
spazialità e su asintotiche questioni di spazio. Sono interessato
al modo in cui pensiamo lo spazio e al modo in cui abitiamo e
viviamo lo spazio, non solo e
semplicemente la città. Perché
sappiamo che la città non è solo
il luogo della manifestazione urbana senza limiti, ma ha inclusa
in sé la più grande varietà di modi di vivere, e la più grande varietà di modi di reagire al sistema. Volevo lavorare con metafore, non con supersemplificazioni
di ciò che significa una città. Volevo cercare quegli attributi e
reinserirli nello spazio della mostra, che così diventa un utile
motore di ricerca attraverso il
quale possiamo stabilire un rapporto con la città, e andare anche
oltre di essa. Volevo tendere il
mio pensiero oltre le questioni
molto specifiche che vengono
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
generate all’interno del campo
dell’arte contemporanea negli
ultimi anni, e andare oltre l’architettonico per concentrarmi
sulle condizioni di vita e le condizioni di produzione.
Molti artisti della biennale si
impegnano sul concetto di
sorveglianza, al punto che una
possibile traiettoria all’interno
della mostra potrebbe essere
la nozione di sorveglianza così
come è stata esplorata dall’arte contemporanea negli ultimi
decenni. La sorveglianza è un
mezzo di affrontare il modo in
cui oggi pensiamo storicamente?
Lo sradicamento è la condizione
per eccellenza della modernità e
perciò ha attributi storici: una
delle cose che volevo fare era vedere come gli artisti hanno trattato questo tema negli ultimi
venticinque anni, per mostrare
come queste tematiche siano
state sempre parte del modo in
cui gli artisti hanno riflettuto sul
loro rapporto con il proprio ambiente sociale. Così la mostra
possiede una dimensione storica, anche se io mi sto occupando
più specificamente di artisti contemporanei. La sorveglianza non
era un tema che avevo in mente
in particolare, quando preparavo
la mostra. Tuttavia è certamente
un tema o una prospettiva ricorrente: come le immagini di Olivo
Barbieri, di città dell’altro mondo divenute quasi delle rovine di
civiltà, luoghi che riconosciamo
e che pure sembrano assolutamente sconosciuti, in cui la miniaturizzazione dello spazio conduce alla miniaturizzazione delle persone. L’opera di Harum Farocki, I thought I was seeing convicts, è un’analisi esemplare di
sorveglianza e dell’intero regime
del panoptycon, come tecnica
che lo Stato impiega non solo per
controllare ma anche per governare il carattere dei sorvegliati e
perciò possedere completamente il loro corpo. Queste per me
sono questioni cruciali, che la filosofia ha proposto tanto tempo
fa: gli artisti si pongono oggi queste domande molto difficili ma
anche molto importanti, e questa
mostra è stata concepita come
un luogo per sollevare e affrontare queste questioni.
Carlos Garaicoa
Le tre inquietudini (delle) capitali
di Guido Martinotti
facile oggi trovare in libreria pubblicazioni dai titoli roboanti come La morte
delle distanze (ed. Cairnscross), Il
mondo è piatto, per non parlare dello strapazzato Non luoghi (Marc Augé, ma l’originale è
in Melvin Webber). In generale si tratta di
concetti con scarso fondamento teorico, ma
la loro proliferazione richiama ovviamente
l’attenzione su un comune problema reale: la
transizione da sistemi economici e sociali dominati da quella che gli economisti del territorio chiamavano «la tirannia dello spazio» a
sistemi economici e sociali in cui questa tirannia è moderata, se non eliminata dallo
sviluppo indipendente, ma convergente, di
due «traiettorie tecnologiche» (e uso la terminologia tecnica di Alain Gras, a ragion veduta): i macrosistemi tecnologici della mobilità
e quelli dell’informazione. I mutamenti sociali collegati a queste tecnologie sono molto
profondi e, non sorprendentemente, creano
altrettanto profonde inquietudini, vissute soprattutto nei centri del sistema, le capitali del
mondo in cui gli effetti di questi processi sono
osservabili d vicini ed esperimentati, per così
dire, nell’esperienza quotidiana.
Ciò non vuol dire che ai margini del sistema
non si vivano conseguenze anche più catastrofiche dei cambiamenti che avvengono oggi su scala planetaria, ma solo che nei grandi
centri urbani la coscienza di questi cambiamenti è più acuta e la riflessione più diffusa.
Non dimentichiamo che le stime sull’andamento demografico a cavallo dei secoli XX e
XXI indicano che proprio in questo periodo si
sta verificando un fenomeno di portata planetaria: per la prima volta da quando ha fatto la
sua comparsa, come prodotto fisico della or-
È
ganizzazione umana da cinquanta a centoventi secoli orsono, la popolazione urbana
del pianeta è diventata maggioranza sulla
terra. E salvo imprevisti eventi di gigantesche
dimensioni, guerre, epidemie, catastrofi naturali, sempre possibili anche se non molto
probabili o prevedibili, questa proporzione è
destinata a crescere e a crescere soprattutto
nelle regioni meno sviluppate del mondo. Il
fatto macroscopico è che nel corso del XX secolo la popolazione umana sul pianeta è raddoppiata due volte.
Questi macrofenomeni hanno dato origine a
una amplissima letteratura sul luogo o «locale» (in inglese, da Giddens) che non ha molto
chiarito i problemi essendo perlopiù coniugata in termini politico-ideologici, come nel
famoso motto «think global-act local» degli
attivisti dei movimenti mondialisti. Non è qui
il luogo per addentrarci in una disanima delle
fallacie di questo tipo di espressioni, che ovviamente hanno una loro verità: in fondo al
«locale» c’è sempre almeno una persona, ma
la retorica localistica sfuoca il problema facendo coincidere «locale» con «piccola comunità», un errore ideologico che distorce fortemente in molti campi, la comprensione del
rapporto delle società insediate in un certo
«luogo» e il resto del sistema sociale.
Metropoli, spazio incerto
Il punto che mi interessa sottolineare è che le
inquietudini «capitali» del nostro tempo si sono facilmente trasformate in inquietudini
«delle» capitali che sono la sede della elaborazione e della narrativa del nostro tempo,
acquistando via via, come una crescente va-
langa mediatica una coloritura sempre più
emergenziale che si riflette anche nel titolo di
opere non necessariamente rivolte solo al
grande pubblico, ma si riflette soprattutto
nella narrazione artistica. Visti dall’osservatorio del mondo urbano i macroprocessi che
contribuiscono alle inquietudini sono prevalentemente tre:
La recessione dei confini
Lo sviluppo delle Popolazioni Non Residenti
La doppia ermeneutica
La recessione dei confini è un processo
molto generale che riguarda sia i fenomeni fisici che l’ampliamento delle conoscenze e della coscienza dei limiti. La città tradizionale aveva ben precisi confini e una
ben definita popolazione, sia pure in
entrambi i casi con qualche variabilità
attorno a queste definizioni, ma il concetto era chiaro e condiviso. La coincidenza
di una popolazione con un territorio ben
delimitato è al tempo stesso il portato fondativo dell’urbanizzazione antica, largamente basata sull’idea di città-stato cioè
della sovrapposizione tra polis e astu, tra
la città sociale e la città costruita, e il rafforzamento che di questa coincidenza si è
avuto con la razionalizzazione del territorio a fini amministrativi sostenuto dalla diffusione dello stato moderno.
A partire dai primi decenni del XX secolo
questa identificazione o sovrapposizione comincia a venire meno: i confini della città
reale, che si configura come un’area metropolitana cioè una entità territoriale funzionale costituita da una unità centrale, «core» e da
Chi è
Guido Martinotti
uido Martinotti è professore ordinario di Sociologia urbana all’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di
sociologia urbana, analisi comparata delle
aree metropolitane, tempi e qualità della
vita nelle città, sociologia del turismo, sociologia visuale, banche dati per le scienze
sociali, analisi comparata dei sistemi di
istruzione superiore, insegnamento delle
scienze sociali. La memoria e il tempo. Per le
Scuole superiori (tre voll. con Beonio Brocchieri e Colarizi, Einaudi, 2006); E learning
(con Dal Fiore, McGraw-Hill Companies,
2006); L’abitare nell’area metropolitana
milanese (con Zajczyk, Franco Angeli,
1999); Metropoli. La nuova morfologia
sociale della città (Il Mulino, 1993).
G
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
29
Carlos Garaicoa
È facile oggi trovare pubblicazioni dai titoli roboanti come La morte delle distanze:
la loro proliferazione richiama l’attenzione sulla transizione
verso sistemi in cui la tirannia dello spazio è moderata dallo sviluppo
di due traiettorie: i macrosistemi tecnologici della mobilità e quelli dell’informazione
una area circostante «periphery» («rings», «fasce», «hinterland», «periurbain»). L’unità funzionale è essenzialmente un bacino di pendolarità, che è stato a volta a volta chiamato,
DUS (Daily Urban System) o FUR (Functional
Urban Region). L’aspetto importante di questo sviluppo che ha interessato prima gli Stati
Uniti e poi anche l’Europa, è lo svincolamento della unità urbana «funzionale» da una
precisa delimitazione territoriale. L’area centrale (core) è normalmente definita da un
confine amministrativo ben definito, ma l’area metropolitana non è facilmente definibile
perché è un concetto appunto «funzionale»
non territoriale, per di più variabile nel tempo. I confini del sistema recedono, si allontanano e, anche perdono di precisione, sono
meno definibili, anche se non del tutto inesistenti. La città si perde in uno spazio incerto
che ha eccitato la fantasia della popolarizzazione iperbolica: «città continente» o addirittura «città mondo» e persino «città infinita» in
un crescendo tronitruante inversamente proporzionale alla chiarezza delle idee. È difficile trattare di questi argomenti, che si occupano di fenomeni che spesso cambiano sotto i
nostri occhi, usando un vocabolario accade-
mico aulico, ammesso che esista ancora.
Nella vulgata corrente prevale ancora la visione ottocentesca della contrapposizione tra
città e campagna, ma questa contrapposizione è fittizia ed è il prodotto di concezioni obsolete, anche se tuttora ampiamente diffuse
nell’opinione pubblica. Il geografo svedese
Staffan Helmfrid nota che «gli abitanti delle
città desidererebbero trovare nel paesaggio il
prodotto di una società rurale che vive in armonia con se stessa e con la natura, immutabile e per sempre congelata in una mitica Età
dell’Oro». E rimproverano agli agricoltori di
contaminare questa natura con le loro pratiche agricole sempre più meccanizzate, dipendenti dall’impiego di prodotti chimici e
distruttive del tessuto rurale tradizionale. Ma
è proprio la crescita impetuosa delle città
che, in duecento anni, con un ritmo progressivamente accelerato, ha invertito i termini
del rapporto tra popolazione rurale e popolazione urbana, portandolo dalla cifra di 90 e
10% di 58 dei 60 secoli che marcano l’insediamento agricolo europeo al 10% dell’attuale popolazione rurale in questo continente, a
richiedere una sempre maggior produttività
agricola. La quale a sua volta, porta alla de-
vastazione dell’insediamento rurale tradizionale.
Il fenomeno apparente della fuga verso le
campagne altro non è che un aspetto della
crescita metropolitana che è continuata indisturbata anche negli ultimi anni. Se si fa una
semplice analisi della distribuzione dei comuni esterni ai confini delle aree metropolitane del 1991, che hanno visto crescere la
propria popolazione si vedrà che sono in
grandissima parte comuni adiacenti alle precedenti aree metropolitane, oppure comuni
in aree con una specifica vocazione turistica.
L’Italia metropolitana cresce e la tradizionale
campagna si spopola.
Contribuiscono a questo fenomeno di recessione dei confini vari processi legati ai differenziali di rendita urbana, alle trasformazioni dell’uso delle abitazioni e agli stili di vita,
oltre che alla diffusione delle tecnologie dell’informazione che permettono e anzi impongono di passare una crescente parte del proprio tempo in casa. Questo fa sì che a parità
di altri fattori, reddito, composizione famigliare, stile di vita, occupazione, ci sia una
pressione verso la ricerca di abitazioni più
spaziose, e che, sempre a parità di altri fatto-
Medio Oriente
Palestina, l’arte oltre il muro
di Lucia Tozzi
el 1997 un grosso cavallo di legno venne posizionato nel punto più
trafficato della frontiera Usa-Mexico, tra Tijuana e San Diego. Le
sue linee pulite e il riferimento al ciclo omerico ne facevano un oggetto del tutto estraneo al paesaggio circostante, un collage impazzito di
automobili, cartelli intimidatori, insegne tex-mex, colori sgargianti offuscati dalla polvere, lamiera, sudore, smog, musica norteña. Concepito
nell’ambito di InSite, un network di istituzioni messicane e statunitensi
finalizzato alla produzione artistica sul territorio frontaliero, Toy an Horse
di Marcos Ramírez «Erre» è un’opera che reagisce al processo di solidificazione e militarizzazione del confine avviato da Clinton tre anni prima
con l’«Operation Gatekeeper».
Pur non essendo né l’unico né, forse, il più interessante tra gli interventi
artistici prodotti a Tijuana negli ultimi anni, il cavallo di «Erre» è diventato quasi subito il simbolo di una svolta percettiva: al mito trasgressivo della promiscuità, dei traffici loschi, si è affiancata l’epopea dei migranti. La
politica statunitense di chiusura ha catalizzato l’attenzione degli intellettuali sulle centinaia di clandestini che ogni anno muoiono attraversando
il deserto, sull’urbanizzazione incontrollata sul fronte messicano e sullo
sfruttamento nelle maquiladoras.
La vitalità di quel luogo corrotto, tequila sexo marijuana, che ha fatto da
sfondo a pellicole come Touch of Evil di Orson Welles o Traffic di Steven
Soderbergh, appare ora offuscata dai tetri film di Iñarritu, dalle storie raccontate da Richard Rodriguez in Ossa nel deserto (Adelphi 2006) o dalle
immagini e dalle cifre contenute in Aqui es Tijuana (Blackdog Publishing
2006). I saggi di Mike Davis, i progetti urbani di Teddy Cruz, gli oggetti
transborder creati dal collettivo di artisti tijuanensi Torolab e persino un
videogame (www.turistafrontizero.net, di Ricardo Dominguez e Coco Fusco) provvedono a smontare pezzo per pezzo l’immagine affascinante di
un limite poroso, di un territorio ibrido dove assaporare la libertà di piaceri illegali, riportando ossessivamente il discorso sulla materialità della
barriera.
N
30
L’apparato di reti, palizzate metalliche, torrette di avvistamento, fili elettrificati e polizia di frontiera non è solamente la manifestazione della violenza unilaterale di un singolo Stato nei confronti del vicino, ma anche la
cruda smentita dell’idea di globalizzazione come superamento dei confini,
propagandata senza sosta dalla retorica neoliberista.
Il decentramento e la deterritorializzazione delle nuove forme di potere
politico ed economico prodotte dal declino degli Stati-nazione sono
infatti processi fondati sul rafforzamento e sulla moltiplicazione dei confini, anziché sulla loro decadenza, e soprattutto sulla radicale asimmetria della libertà di movimento: come membrane semipermeabili, le
frontiere sono aperte per i flussi di merci e persone dei paesi «forti»,
mentre ostacolano la circolazione di prodotti (per esempio quelli agricoli) e naturalmente dei migranti provenienti dalle aree deboli. Le barriere «difensive», inoltre, si estendono spesso al di là del territorio che
sono deputate a proteggere – è il caso dell’Europa, che accordandosi con
la Libia e i paesi ex sovietici si è dotata di una seconda cintura di sorveglianza –, mentre l’offensiva neocoloniale, non potendosi più avvalere
dell’esercizio della sovranità diretta sul territorio, opera tramite la creazione di un sistema sempre più ampio di enclave commerciali, finanziarie e turistiche iperfortificate. Dove non arriva il diritto internazionale,
in altre parole, sono le corporations a portare avanti il processo di recinzione-appropriazione.
Quello che si sta imponendo in scala globale è un modello di segregazione analogo a quello sudafricano, dove una minoranza ricca elabora strumenti brutali e raffinati insieme per relegare la maggioranza povera nello spazio più ristretto e privo di risorse, mirando contemporaneamente a
ridurre le occasioni di contatto anche temporaneo con l’altra parte.
A differenza dell’élite sudafricana d’antan, però, le democrazie occidentali hanno ufficialmente rinunciato a servirsi di uno strumento semplice
ed efficace come la superiorità razziale, e si trovano quindi nella continua necessità di cercare giustificazioni sempre più macchinose al regi-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Carlos Garaicoa
I mutamenti sociali collegati a queste tecnologie creano profonde inquietudini,
vissute soprattutto nelle capitali del mondo. Ciò non vuol dire che ai margini
del sistema non si vivano conseguenze anche più catastrofiche dei cambiamenti
di oggi. Ma che solo nei grandi centri la coscienza di questi cambiamenti è più acuta
ri, queste abitazioni si trovino nelle aree
esterne delle grandi metropoli. Il risultato è
che le città crescono in territorio molto più
rapidamente che in popolazione.
«Cottage tecnologici» sì, ma...
C’era una volta…«In antichità – scrive Giddens – non era possibile separare il luogo dallo spazio-tempo». Neppure gli dei potevano
farlo: prendete il punto di svolta nell’Odissea,
quando Atena, traendo vantaggio dal pigro risveglio di Zeus, lo convince ad annullare la
dannazione imposta al suo protetto Odisseo
da Poseidone, vale a dire il perenne viaggiare. Zeus decide di mandare Hermes, il messaggero, all’isola in cui Odisseo, essendosi innamorato della Ninfa Calipso, è rimasto per
sette anni, interrompendo il lungo viaggio
verso casa. Nell’era di internet, l’ordine arriverebbe istantaneamente, ma nell’età dell’unità del luogo e del tempo della narrativa teatrale, persino l’immaginazione doveva seguire determinate regole. Hermes poteva viaggiare a velocità di sogno, ma si doveva comunque spostare fisicamente. «Volò il potente Argheifonte…piombò dal cielo sul mare; e
si slanciò sull’onde, come il gabbiano che negli abissi paurosi del mare instancabile, i pesci cacciando, fitte l’ali bagna nell’acqua salata; simile a questo, sui flutti infiniti Ermete
correva» (Od, V, 50). Successivamente Hermes si lamenta della fatica del viaggio. «E chi
volentieri traverserebbe tant’acqua marina,
infinita? Non è neppure vicina qualche città
di mortali che fanno offerte ai numi, elette
ecatombe» (Od, V, 101). In breve, si tratta di
un lungo viaggio senza pause pranzo. Nessun
McDonald, nessun Burger King, né Pizzarite,
Pavesini o International Houses of Pancake e
neppure il profumo dei sacrifici. La storia è
davvero interessante perché spiega chiaramente che anche nel mondo fantasmagorico
dell’Odissea, viaggiare doveva essere reale,
confermando l’intuizione sociologica della
natura «sradicata» delle società contemporanee, in cui la mobilità è non soltanto una dinamica sociale importante, ma anche una caratteristica culturale dominante. Si va dall’implicito dileggio del viaggio nel bellissimo
verso di Orazio che tutti i liceali italiani hanno studiato a memoria, alla affermazione di
Blaise Pascal («Il problema degli uomini è
che sono capaci di stare tranquilli nella loro
stanza») entrambe frutto di culture in cui il
viaggiare era raro, faticoso, costoso e pericoloso all’inversione completa del punto di vista incorporata nel famoso logo della Cunard
Lines.
Nelle sue varie forme e connotazioni, la mobilità è un fenomeno sociale dominante ma,
mentre il movimento delle popolazioni attraverso la superficie del pianeta è una delle caratteristiche più antiche della specie umana,
non c’è dubbio che sia la città, in particolare
la città contemporanea, a fornire l’ambiente
fisico e culturale in cui il sistema di mobilità
si è sviluppato al suo massimo. Quando parliamo di un «sistema di mobilità» ci riferiamo
sia ai sistemi tecnologici, quali le infrastrutture a sostegno della mobilità, sia al fatto che
tali sistemi non sono soltanto limitati all’infrastruttura fisica – l’hardware, per così dire –
ma includono anche componenti economiche, culturali e sociali – il software. Questo
punto è stato sottolineato in modo esemplare
da Alain Gras con il suo concetto di «macrosystème». Sfortunatamente questo concetto non
è entrato nella pratica corrente. Gli aspetti
sociali e culturali, e perfino quelli economici,
sono spesso trattati come variabili residue, ri-
Medio Oriente
me di apartheid che stanno di fatto istituendo. A porre fine a questo dispendio di energie è giunto come la manna dal cielo il problema della sicurezza. Da quando è diventato possibile agitare in qualunque contesto la
minaccia del terrorismo, la politica dell’esclusione ha subito un impulso
straordinario, e i suoi oppositori sono stati pressoché ridotti al silenzio: in
fin dei conti quale argomento è più chiaro, condivisibile e inattaccabile
della legittima difesa?
E dal momento che in ogni straniero, in ogni emarginato, in ogni «altro»
può nascondersi un terrorista, cancelli e barriere sono diventati indispensabili non solo alla dimensione dei confini geopolitici, ma anche a livello
regionale, metropolitano, urbano. Negozi, uffici pubblici e privati, condomini, gated communities, università, attrezzature sportive, parchi, musei,
villaggi turistici, stazioni, parcheggi, reclamano recinzioni e sorveglianza
che permettano di passare dall’uno all’altro in automobile senza rischiare
il minimo incontro con gli Altri. Il risultato è stato un processo di privatizzazione del territorio, di erosione dello spazio pubblico a spese di chi non
ha diritti e denaro per comprarselo.
Pochi riescono a sfuggire alla campagna paranoica imposta dalla politica
e dai media di paesi che spesso, peraltro, registrano tassi di sicurezza mai
raggiunti in nessuna epoca precedente. Le analisi più lucide provengono
invece dagli artisti e urbanisti di area israelo-palestinese: sono le loro
opere e i loro scritti a scartare nella maniera più decisa dalla ridondanza
del circuito comunicativo, mostrando in modo inequivocabile la relazione di causa-effetto tra la manipolazione della paura in Israele e l’emergenza reale in cui mal sopravvive la popolazione palestinese.
Secondo Eyal Weizman, che ha raccontato meglio di chiunque altro la
pianificazione degli insediamenti sionisti allo scopo di frammentare il
territorio palestinese, «dato che nei primi anni dell’occupazione la costruzione degli insediamenti dipendeva dall’annessione di territorio palestinese di proprietà privata, e che la proprietà privata poteva essere requisita solo se lo Stato dichiarava che era necessario per ragioni di sicurezza,
ogni singola trasformazione dell’ambiente costruito veniva motivata come strategica, e tutti gli insediamenti venivano dichiarati una necessità
militare». La prima regola consisteva nel costruire in posizione dominante, secondo la tipologia «torre e steccato», poi si collegavano le colonie con
strade veloci e isolate dal contesto, che fungessero anche da barriere, e
infine con il muro di Sharon si è cercato di inglobare la massima quantità
– e la migliore qualità – di terra, separando il 65% dei palestinesi da risorse primarie come acqua e campi. Tutte misure ufficialmente temporanee, eccezioni destinate per forza di cose alla cristallizzazione.
Intorno a questo «spaziocidio» – la definizione è del sociologo Sari Hanafi
– sono stati organizzati un grande numero di mostre e incontri, che hanno
prodotto un’accelerazione di pensiero difficile da cogliere all’esterno. In
un’atmosfera decisamente più tesa rispetto all’America, che nessuna moda tex-mex o turbo-folk contribuisce ad attenuare, un forum come «Artist
Without Walls» declina tutte le possibili versioni di violazione del muro:
finestre virtuali, trompe-l’œuil, azioni di sconfinamento, mentre Jack Persekian, direttore della Fondazione Al-Ma’Mal di Gerusalemme Est, ha dovuto progettare il CAMP (Contemporary Art Museum of Palestina), un
museo itinerante, per potere mostrare le opere della collezione a quel
95% di palestinesi rinchiusi in enclave di diversa estensione, privati di
qualsiasi libertà di movimento.
L’arte concepita in questi territori ha maggiori probabilità di sfuggire ai
cliché di un impegno stantio, di natura tematica («migrazioni», «identità»,
«conflitti» e gli stessi «confini», da un po’ di tempo a questa parte), dettato
dalle mode curatoriali internazionali né più e né meno del ciclico allungarsi delle gonne e del ritorno dei colori pastello nell’haute couture. Messi dunque da parte l’eccesso metaforico e il saccheggio di frammenti filosofici da testi preferibilmente deleuziani, le opere degli artisti mediorientali rivelano la dimensione globale del muro. Israele è di fatto un laboratorio, la sua «urbanistica di guerra» e le sue politiche spaziali costituiscono un paradigma riproducibile in qualsiasi parte del mondo.
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Carlos Garaicoa
Le inquietudini «capitali» del nostro tempo si sono facilmente trasformate in
inquietudini «delle» capitali, che sono la sede della elaborazione
e della narrativa del nostro tempo, acquistando via via una coloritura sempre più
emergenziale che si riflette soprattutto nella narrazione artistica
unite sotto un’unica voce (vagamente definita) di «domanda» di mobilità, dimenticando di
suggerire l’aspetto complementare della mobilità, vale a dire l’accessibilità, un bisogno
dominante e altamente valutato delle organizzazioni sociali contemporanee. Ma a ciò si
arrivati perché vi è stato anche un radicale
mutamento culturale, aiutato da ben individuabili movimenti artistici e filosofici tra i
quali i Futuristi occupano un posto significativo lasciando l’impronta della loro proclività
al dinamismo sull’immagine di Milano, la città che più di ogni altra si identifica con il Futurismo.
La cultura della mobilità è interconnessa alla
diffusione delle tecnologie ICT, Information
and Communication Technologies. Contrariamente alle aspettative ampiamente annunziate, la diffusione degli strumenti d’informazione accessibili «da casa» non ha condotto le
città a un playback tecnologico della rivoluzione industriale, trasformandole in una costellazione diffusa di «cottage tecnologici per
telelavoratori». Le nostre case si sono, in effetti, trasformate in una piattaforma per una
miriade di macchine ICT, ma contemporaneamente, paradosso non ancora completamente spiegato, le città continuano a svilupparsi e i sistemi di trasporto sono sottoposti a
pressioni inesorabili, malgrado (o piuttosto in
concomitanza con) la diffusione delle reti di
informazione. L’analisi di ciò che accade nelle grandi aree metropolitane urbane e nel
mondo può aiutare a chiarire tale paradosso.
Una città…«scoppiettante di energia»
Lo sviluppo delle PNR Popolazioni Non Residenti, provoca un indebolimento dei legami
tra popolazioni e spazio e contribuisce alla
situazione emergenziale nelle nuove forme
urbane. Nella città tradizionale, su cui tutto lo
stato attuale delle conoscenze della vita urbana è ancora in gran parte modellato, la popolazione che vive nella città ha coinciso quasi
interamente con la popolazione che lavora
nella città. I limiti della città hanno incluso
entrambe le popolazioni su un unico territorio; per secoli, e fino agli ultimi tempi, questo
spazio è stato circondato da mura ed è stato
ordinatamente separato dal resto del territorio. La rivoluzione industriale non ha molto
cambiato questa situazione; la produzione
delle merci nel settore secondario richiede
principalmente lo spostamento delle materie
prime, delle merci manufatte e del capitale,
mentre gli operai e gli imprenditori rimangono in gran parte concentrati nelle aree urbane. Soltanto il ventesimo secolo ha determinato un cambiamento radicale. Osservando
la forma della città nella prima metà di questo secolo, notiamo come il pendolarismo abbia influenzato la scena urbana in termini di
infrastruttura, di creazione di nuove e distintive zone residenziali e di cambiamenti radi-
32
cali nei vecchi centri. Il risultato è ciò che definisco metropoli di prima generazione, caratterizzata da una città-nucleo e da vaste zone
circostanti, principalmente basate su regioni
urbane funzionali o su bacini di pendolarità
giornaliera. Non c’è nessun dubbio che quel
che è stato denominata «un’area metropolitana standard», dopo un numero considerevole
di studi, culminati nei tardi anni 60, sia, di fatto, una nuova razza di animale urbano. Come
Norman Gras ha detto una volta, «la grande
città, la città eccezionale…si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica», ma la
metropoli economica è appunto un nuovo
spazio fisico non facilmente determinabile,
senza particolari segni ai confini: nella città si
entra, mentre nella metropoli si arriva. E
spesso non riusciamo bene a cogliere la caratteristica della nuova forma urbana. Nel
migliore dei casi, quando se ne parla, la si immagina come un’area del tutto autonoma
dalla città, commettendo un grave errore, criticato con forza da Deyan Sudjic. «Immaginate – scrive Sudjic – il campo di forza attorno a
un cavo dell’alta tensione, scoppiettante di
energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000
volts in uno qualsiasi dei punti della sua lunghezza, e avrete una idea della natura della
città contemporanea.
Il richiamo di Sudjic all’energia elettrica offre
un felice accostamento per un raccordo con
il tema delle nuove tecnologie. Infatti, di pari
passo con la diffusione della motorizzazione
privata, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione ha dato una spinta decisiva alla
formazione della nuova città. Da un lato cambiando l’organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e distribuisce nello spazio, secondo un modello ormai largamente noto
che va sotto il nome di economia post-fordista. Dall’altro per i cambiamenti indotti dalle
«macchine per l’abitare». In parte si è trattato
di un processo simile a ciò che è avvenuto in
fabbrica, con l’avvento di macchine «time
and labour saving», cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne. Ora però questo tempo viene
impiegato da beni «time consuming», tutte
quelle macchine che servono a consumare il
tempo liberato e di cui noi ci riempiamo progressivamente la casa. Primo tra tutte il più
grande mangiatore di tempo che è la televisione.
«Spiralling in and out»
Le abitazioni diventano più comode, ma richiedono più spazio e a parità di reddito lo
spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta cresce
attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, si intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione. Va da sé che
questo scoppiettio è costoso proprio in termi-
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ni di consumo energetico. Come accadde con
tutti i luoghi comuni (molte scuse per l’inevitabile gioco di parole) di successo, la ripetizione ossessiva dell’idea di non-luogo, lanciata da Melvin Webber e popolarizzata da
Marc Augé, rivela la sua inerente debolezza
analitica proprio dalla sua diffusione. Capiamo istintivamente cosa siano i «non-luoghi»
quali i parcheggi, gli aeroporti, i terrains vagues, i supermercati, centri commerciali e
malls. Ma lo capiamo così bene, non perché
siano dei non-luoghi, termine evocativo,
quanto superficiale e senza senso a una seconda lettura, ma piuttosto perché sono proprio i luoghi della città in cui oggi viviamo. I
cosiddetti «non-luoghi» sono niente altro che
i luoghi tipici della città contemporanea che
ci paiono astratti, impersonali, anonimi e forse anomici, perché ideologicamente confrontati con i luoghi della nostalgia, che, come
scrivono Amin e Thrift, sono colpiti dalla
mercificazione (commodification), dalla materializzazione (thingsification), dalla velocizzazione (speed up) e dalle comunicazioni
di massa (mass media).
E, ancora una volta, la nuova struttura sociale non è irrilevante per la morfologia fisica, se si guarda l’area di Milano si può vedere che l’area metropolitana non è solo una
più grande Milano. È una nuova struttura
funzionale in forte interazione funzionale
con la tradizionale città comunale. Ma il
vecchio centro ha ancora la massima concentrazione di offerta culturale.
La doppia ermeneutica deriva da una caratteristica specifica di quella che Giddens chiama «modernità radicale» e che definisce come «Ordinamento e riordinamento riflessivo
dei rapporti sociali. Nessuna epoca, dice Giddens, ha mai avuto i mezzi e l’inclinazione
diffusa per ragionare su se stessa come la nostra. Tuttavia diversamente dalla posizione
positivistica, Savoir, pour prevoir, pour pouvoir, che ha retto l’impostazione universale
sulla plasmabiltà della società da Comte al
Gosplan e oltre, oggi sappiamo che la sequenza è erronea, perché la conoscenza opera un continuo «spiralling in and out» dalla
realtà sociale provocando una doppia interazione (la doppia ermeneutica). Un caso ben
noto sono i sondaggi, che sono in grado il più
delle volte di misurare con molta precisione
lo stato dell’opinione al momento Tx , ma che
spesso mancano il «prevoir» perché nel momento stesso in cui i risultati vengono conosciuti, gli attori interagiscono con la realtà: il
sapere entra ed esce dalla realtà mutandola.
Ma ovviamente il fenomeno è molto più vasto
del sondaggio e spiega la crescente smisurata
importanza assunta dai mass media.
In conclusione, lo spazio non è stato ucciso,
ma si sono aggiunti altri spazi la cui esplorazione è appena cominciata con la diffusa inquietudine di chi si avventura in un territorio
ignoto.
Carlos Garaicoa
Gusci per rifugiarsi dal mondo
di Peter Sloterdijk
esidero richiamarmi al concetto di
emergency design1. Non potendo
essere altrimenti, vorrei adottare un
tono prevalentemente filosofico, esulando
però dalla metodologia della mia disciplina e
parlando, con il metodo dell’interpretazione
di immagini, di oggetti visuali – rilevanti
tanto dal punto di vista artistico che filosofico – che mi appresto a presentarvi. La differenza fondamentale rispetto alla storia dell’arte vera e propria consisterà, come scoprirete rapidamente, nel fatto che mi riferirò
soltanto a singole immagini, mentre uno storico dell’arte notoriamente viene al dunque
solo nel momento in cui vede due immagini
che può confrontare fra loro.
L’opera dell’artista giapponese Tatsumi Orimoto, dal titolo In the Box (vedi immagine),
del 2001 lascia trapelare una evidente tendenza heideggeriana. Prima di occuparmi
più approfonditamente di questa suggestiva
immagine, desidero spendere alcune parole
sull’imperativo sistemico: «Opera una differenziazione» – draw a distinction. Senza
dubbio questa esortazione è indice di una
forma mentis molto interessante, se con il
suo apporto riusciamo a risolvere, attraverso
la trasposizione in un’altra prospettiva, la
questione dell’inizio, sulla quale tanto
inchiostro è stato versato nella filosofia tradizionale. Assumiamo quindi come punto di
partenza non più un primo concetto, ma una
prima differenziazione – in altri termini,
sostituiamo la ricerca dell’origine e della
sostanza di ogni cosa con l’interesse per le
classificazioni attraverso cui suddividere la
molteplicità delle cose in insiemi diversi.
Operare una prima differenziazione tuttavia
non sempre ci è facile, poiché solitamente
non siamo preparati ad attenerci a priori a
un imperativo di questo tipo. La mia prima
reazione a una tale proposta sarebbe probabilmente quella di aggrapparmi all’appiglio
D
fornitomi dall’imperativo in quanto tale: la
mia prima differenziazione sarebbe quindi,
quasi di riflesso, quella fra persone che sfortunatamente devono compiere una classificazione del genere e persone che sono nella
favorevole condizione di non farlo. Un passo
oltre e approdiamo alla differenziazione fra
chi suddivide tutto in due classi e chi invece
se ne astiene.
Partendo da tali basi è piuttosto facile arrivare a parlare dell’immagine raffigurata. Poiché infatti a questo proposito non dobbiamo
che eliminare l’opzione relativa alle persone
che non suddividono tutto in due classi, i
«non-classificatori» non ci occorrono più. Di
conseguenza restano solamente quanti differenziano tutto nel modo indicato. La
massa dei «classificatori» andrebbe poi ulteriormente suddivisa, ed è con la differenziazione che arriviamo direttamente all’immagine in questione. Suddividiamo, dunque,
fra individui adeguati al proprio mondo e
individui per i quali le cose stanno altrimenti. A mio parere con questa differenziazione
abbiamo in mano una chiave che ci svela in
modo diretto la sostanza del lavoro di Orimoto. Poiché, checché si voglia dire della
scena in questione, essa rappresenta
comunque in modo manifesto una persona
intenta a riflettere sulla propria adeguatezza
rispetto all’ambiente circostante attuale.
Fonti biografiche ci informano tra l’altro che
Orimoto in questa scena si trova fra le proprie mura domestiche – tuttavia questa sede
non può soddisfare l’artista nel suo anelito
verso una localizzazione convincente. Essere nel proprio appartamento non gli è sufficiente, egli vuole «localizzarsi» in un modo
più radicale. A questo scopo opera una
distinzione fra quanti sono «a casa», là dove
sono a casa, e quanti anche a casa propria
non sono «a casa». Si potrebbe anche dire
che lavora con la differenza fra adeguati e
inadeguati, fra adattati e disadattati, fit e
misfit. L’artista annovera manifestamente se
stesso nella seconda categoria, perché chi si
impacchetta in un cartone all’interno della
propria abitazione fa un chiaro outing di disadattamento. All’interno dei misfit opererei
poi un’ulteriore diversificazione, ovvero
quella fra gli individui che nella vita possono comunque riuscire a cavarsela e quelli
per i quali non c’è niente da fare. L’artista
del quale ci stiamo occupando sceglie, mi
sembra, la prima categoria, crede di poter
ancora riuscire in qualcosa nella vita, almeno fintantoché non gli vengono meno le
forze e i mezzi per venire a capo del proprio
status di disadattato. In una certa misura
Orimoto crea con il suo scatolone un emblema del disagio esistenziale dell’artista e dell’intellettuale, laddove queste categorie di
persone di regola altro non sono che dei disadattati che in un modo o nell’altro sono
riusciti ad avere la meglio sulla propria inadeguatezza a tutto il mondo circostante.
Per descrivere l’attività dell’artista all’interno della scena in questione propongo l’espressione di «Selbstaufräumung» («ri-collocarsi»). L’immagine esprime inequivocabilmente il tentativo di un uomo di collocarsi in
modo più adeguato – come se la sua posizione nello spazio delle proprie quattro mura
fosse ancora troppo indefinita. In qualità di
disadattato a casa propria, egli intraprende
uno sforzo per ri-collocarsi se stesso e adat-
Chi è
Peter Sloterdijk
eter Sloterdijk, professore di estetica e
filosofia all’Università di Karlsruhe, è
autore di testi originali come Critica
della ragion cinica (1983) e la trilogia Sfere,
parzialmente tradotta in italiano (L’ultima
sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, 2005). Tra i suoi libri pubblicati in Italia ci sono: Non siamo ancora stati
salvati. Saggi dopo Heidegger (Bompiani,
2004), Il mondo dentro il capitale (Meltemi,
2006). L’ultimo libro uscito in Germania è
Zorn und Zeit (Suhrkamp Verlag, 2005).
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Carlos Garaicoa
In una certa misura Orimoto crea con il suo scatolone un emblema del disagio
esistenziale dell’artista. L’immagine esprime il tentativo di un uomo
di collocarsi in modo più adeguato: in qualità di disadattato a casa propria,
egli intraprende uno sforzo per ri-collocare se stesso e adattarsi a uno spazio più preciso
tarsi a uno spazio più preciso – nello specifico, uno spazio più ristretto. In generale si
può forse dire che i misfit in grado di ottenere qualcosa nella vita riscoprono ex novo
l’ambiente che li circonda, sostituendo un
ambiente inadeguato con uno adeguato. Per
quanto concerne Orimoto, egli intraprende
un bizzarro esperimento di autoimballaggio.
Rimpicciolisce lo spazio che gli spetta, quasi
a voler dire «Io non ho pretese di spazio così
grandi come quelle solitamente accampate
dalle “persone adeguate”. La mia stessa casa
per me è troppo grande, e più che mai il
mondo è sovradimensionato rispetto ai miei
bisogni». Di conseguenza l’artista risolve il
proprio disagio nel mondo trovando un
espediente per ridurre la superficie d’attrito
con il tutto. Egli sceglie la de-escalation spaziale: dal mondo alla casa, dalla casa alla
scatola.
Un ordine riuscito
Desidero sottoporvi una seconda immagine:
La giapponese addormentata (vedi immagine), che a un primo sguardo sembra molto
lontana dal sarcasmo di Orimoto. Nondimeno mostra una persona che, come illustrerò,
ha un problema analogo – quello della propria collocazione – da risolvere, sebbene con
mezzi di gran lunga più armonici. Tra l’altro,
potrebbe trattarsi in questo caso di una delle
più antiche fotografie scattate sul territorio
giapponese. Fa parte di una serie di matrici
rese accessibili di recente in un bel volume
34
illustrato con vedute del Giappone degli
anni Sessanta e Settanta del XIX secolo2. È
ritratta una persona in apparenza decisamente in grado di venire a capo della propria vita. Questa giapponese addormentata
potrebbe essere stata una delle prime
modelle giapponesi – ovviamente non dobbiamo partire dal presupposto che si tratti di
una spontanea scena casalinga; c’è invece
un allestimento che obbedisce a un programma ideologico messo in scena in
maniera meticolosa. Questa giovane rappresenta manifestamente la prova della tesi per
cui fra uomo e mondo può sussistere un
adattamento armonico, se l’uomo si muove
all’interno dei confini della vita casalinga
tradizionalmente tramandata. L’immagine
parla all’osservatore con un tono affermativo che esprime al contempo un atteggiamento nostalgico: colui il quale, al suo posto
nel mondo, riesce a sentirsi inserito in modo
così naturale come la giovane nella sua
camera da letto è senza dubbio una creatura
felice. Non mancano gli attributi della metodica vita domestica. La bella addormentata
giace sul classico poggiatesta, tipico accessorio da notte giapponese. Al suo fianco c’è
anche un hibachi, una piccola stufa portatile, un elemento indispensabile della cultura
abitativa orientale. Indossa un kimono da
notte, un seno è scoperto – un segno di disinvoltura notturna. Questa addormentata è
chiaramente un’ambasciatrice: il suo compito è quello di mostrare che l’umano esserenel-mondo di stile giapponese racchiude
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
l’intensità della partecipazione a un ordine
riuscito, ammesso che esso sia in grado di
trarre profitto dalla immemorabile integrità
delle notti paesane o cittadine. L’individuo,
al sicuro all’interno dei propri spazi, qui non
ha problemi con la sua formattazione. Al
contrario, la propria collocazione viene presentata come un adempimento culturale
naturale. Essa torna utile agli individui nella
misura in cui questi possiedono la consapevolezza che le loro notti restano raffinate e
sicure come ai bei vecchi tempi.
La rimozione del mondo
Desidero dimostrare nel prosieguo che l’integrità notturna non è affatto una questione
sempre così semplice. Nell’immagine a
pagina 35 viene presentato effettivamente
un caso critico dell’umana ricerca dell’integrità notturna. La scena è inequivocabile: in
essa incontriamo il fenomeno del misfit, del
disadattato, nella sua forma più radicale,
poiché viene mostrato un senzatetto che in
pieno giorno, in strada, nel bel mezzo di
un’isola spartitraffico si ritira nella clausura
del sonno sotto uno scatolone. Non è facile
dire in che paese si svolga la scena, potrebbe trattarsi del Pakistan come dell’India del
Nord – andrebbe forse chiarito da filologi in
grado di decifrare le scritte sui camion visibili sullo sfondo. L’uomo rappresentato in
primo piano, mentre dorme sotto il suo scatolone è qualcuno che ha risolto con metodi
minimalisti il problema della propria collocazione. Dormire significa in generale obbedire all’imperativo organico di una provvisoria ritirata dal mondo. Nella scena data ciò
non può accadere come nell’immagine precedente, che inseriva il sonno in un contesto
armonico. L’addormentato in questione
ricorre qui a una tecnica di isolamento primitiva, coprendo con il cartone i sistemi nervosi più esposti, gli organi nell’area del capo,
mentre è costretto a lasciare il resto del
corpo alla luce e al frastuono del mondo
esteriore. Il cartone è qui un’allusione a
un’area protetta minima in cui il dormiente,
con maggiore o minore successo, si ritira.
Egli utilizza lo scatolone come un elmo cartonato che abbozza una specie di protezione
uditiva. Ovviamente non è vero l’adagio
tanto spesso ripetuto secondo cui l’orecchio
sarebbe un organo che non si può «spegnere» a propria discrezione. Al contrario, il
sonno, qui come altrove, è la dimostrazione
quotidiana del fatto che gli individui sono in
grado di non sentire intenzionalmente, in
modo mirato. Fintanto che godono del privilegio di esser deboli d’udito, i dormienti
tutelano la propria occasione di creare,
anche nel bel mezzo di un baccano infernale, nel centro di una metropoli asiatica, una
sorta di camera del silenzio. Quest’immagine è interessante soprattutto perché mette in
Carlos Garaicoa
Il modus vivendi dell’era moderna permette alla maggioranza di adempiere con
successo alla propria collocazione. Quella moderna è un’era degli idilli,
che tuttavia si urtano talvolta in modo così violento che, per evitare la guerra, si è
costretti a inserirli in tentativi di ri-collocazione di un livello superiore
evidenza la quantità minima di spazio
necessaria al disadattato per la sua ritirata
dall’ambiente inadeguato. Qui comprendiamo che lo spazio esistenziale in una certa
misura ha sempre la qualità di uno spazio di
immunità – se per immunità intendiamo la
somma degli adempimenti individuali di un
sistema biologico attraverso la cui produzione esso soddisfa le condizioni per la propria
integrità. Di tali condizioni di integrità fa
parte chiaramente una buona dose di capacità di ignorare il mondo circostante. Il dormiente compie qui evidentemente una prestazione record in termini di emergency
design. Egli rimuove il mondo, facendo uso
di tecniche di disconoscimento attivo. In
questa maniera egli scioglie l’enigma della
natura umana in condizioni di stress: essere
proprio nel mezzo e, al contempo, altrove.
Quest’immagine è antropologicamente
informativa perché in essa si può leggere di
come gli individui affrontino il pericolo del
degradamento
dovuto
all’oppressione
costante dell’essere-nel-mondo in condizioni estreme.
Un nomadismo urbano
Ho selezionato un’altra immagine che
dovrebbe fornire un esempio di come nel
mondo asiatico si rifletta anche in forme tecniche e pragmatiche sulla questione della
«precarietà abitativa». In questo caso illustro
un’abitazione concepita da architetti giapponesi per donne non residenti a Tokyo, un
progetto del 1989 (vedi immagine a pagina
36). Tale proposta interpreta le esigenze di
spazio di persone che falliscono in maniera
cronica nella consueta localizzazione di sé
nel contesto borghese. Si tratta, nel lavoro in
questione, di un eloquente intervento architettonico in cui la difficoltà di trovare una
casa viene riconosciuta come una situazione
umana fondante. In esso si aspira a un compromesso fra lo stile di vita nomade e quello
urbano, come se la tenda e la casa dovessero accordarsi su una soluzione intermedia. A
questo proposito mi concedo di fare un
rimando: nella filosofia del XX secolo il
fenomeno della precarietà abitativa («Unbehaust») è stato innalzato a segno distintivo
della conditio humana – e gli equivalenti
architettonici di questo concetto, naturalmente, non si fanno attendere.
L’immagine L’uomo nello scatolone tratta
questo nesso in modo esplicito. Dagli anni
Venti Buckminster Fuller, uno dei grandi fra
i pionieri della nuova architettura, lavorava
a una serie di innovativi modelli abitativi
che riunì sotto il nome di «Dymaxion». Nelle
macchine abitative di Fuller viene ricalcolato il fabbisogno di spazio delle persone
mobilitate. In questo contesto, mobilitazione
significa partecipazione al trend della
decontestualizzazione del vincolo sociale –
applicato alla situazione americana, significa dissolvimento della città a favore di
agglomerati suburbani. Di conseguenza gli
individui vengono inseriti in moduli abitativi prefabbricati calcolati secondo criteri di
efficienza ed ergonomia. Qualunque gesto
tipico, qualunque possibile passo dell’inquilino viene, in questo genere di unità abitativa, perfettamente previsto e supportato dall’allestimento interno. L’appartamento
mobile diviene così una monade architettonica, in cui tutte le funzioni essenziali si
svolgono all’interno, mentre il vincolo della
macchina abitativa e quello dei suoi abitanti
con l’esterno rimangono più o meno facoltativi. Con l’unità abitativa Dymaxion viene
fatta una proposta a quelle persone disposte
a rinunciare a un proprio ancoraggio all’interno di contesti urbani. Buckminster Fuller
esplorava già allora l’intuizione secondo cui
abitazioni e mezzi di trasporto dovessero in
sostanza essere la stessa cosa. Proprio come
alle automobili era stato promesso un futuro
grandioso, così egli contava di poter inondare il mondo di container abitabili – deve aver
momentaneamente pensato che si potesse
sfruttare per il suo modello Dymaxion un
mercato di oltre 100 milioni di esemplari. De
facto Buckminster Fuller è riuscito a trasporre il paradigma del veicolo nell’unità
abitativa – beninteso che si tratti di un veicolo che deve essere fissato in specifici, appositi parcheggi. Le abitazioni Dymaxion
dovrebbero essere sostenute da piloni – il
loro vincolo col suolo così si scioglierebbe in
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modo progressivo e soltanto attraverso gli
allacci infrastrutturali si manterrebbe un
residuale riferimento ambientale.
Lusso e cinismo
Desidero infine esporre un grado superiore
di evoluzione del problema della collocazione del disadattato: è un modello presentato
nel 1981 dal team di architetti SITE (Alison
Sky, Michelle Stona, Joshua Weinstein,
James Wines) col nome di High-Rise of
Homes. Si tratta naturalmente di una costruzione altamente ironica e già il solo utilizzo
dell’espressione home, nel contesto dato,
non lascia presagire niente di buono. Questo
lavoro si può definire al meglio come un
metaidillio. L’ipotesi di lavoro del disegno
consiste nella prospettiva secondo cui il
modus vivendi dell’era moderna permette a
una maggioranza di individui di adempiere
con successo alla propria localizzazione.
Contrariamente ai correnti cliché di stampo
cultural-critico, quella moderna è un’era
degli idilli – il che significa anche, però, che
in essa la produzione di idilli attraversa una
fase critica. I singoli idilli si urtano talvolta
reciprocamente in modo così violento che,
per evitare la guerra degli idilli, si è costretti a inserirli in tentativi di localizzazione di
un livello superiore. È proprio questo ciò
che viene presentato in modo davvero esemplare dal team SITE. Qui si assiste a numerosi, isolati tentativi di auto-localizzazione,
grazie ai quali un gran numero di disadatta-
35
Carlos Garaicoa
L’emergency design parte dal presupposto che il mondo, pensato come campo di
eventi, rappresenta sempre uno spazio di disturbo e di offesa.
Stanti così le cose, sono necessarie architetture spontanee che ricreino l’adeguatezza
perduta. L’emergency design è la realizzazione concettuale di questo stato di fatto
ti si crea uno spazio più adeguato nel
mondo. Così, inevitabilmente, ne deriva che
lo spazio per gli idilli diventa piuttosto esiguo. Per smorzare la concorrenza fra gli idilli viene inventato un nuovo tipo di torre, che
non ha altra ragion d’essere se non quella di
tentativo di collocazione di secondo livello.
Prima i disadattati si assestano e tentano di
passare al settore dei non-disadattati (il che
si direbbe, in linguaggio comune, la ricerca
di relazioni sociali); poi i loro tentativi di collocazione vengono a loro volta collocati e
introdotti nella torre degli idilli. Mi sembra
che ci troviamo in questo caso di fronte a un
commento estremamente intelligente sulla
situazione abitativa all’interno dei paesi ricchi. Il metaidillio chiarisce che le numerose
homes si scherniscono a vicenda. Esse costituiscono un fitto conglomerato le cui cellule
consistono di costrutti individuali di felicità.
La loro sommatoria costituisce una tragica
vacuità – il perfetto simbolo della conditio
humana nell’epoca del lusso. In questo
modello si può anche rilevare, per inciso,
che soltanto dei perfetti cinici possono essere dei buoni architetti.
Cosa si può imparare dalla serie di riflessioni sul comportamento spaziale dell’uomo
36
moderno suscitata dalle immagini selezionate? Mi sembra che la conseguenza più
importante dell’osservazione di tali immagini riguardi la definizione del concetto contemporaneo di mondo. Com’è noto, la filosofia classica ha interpretato il mondo come
quintessenza della sostanza – l’espressione
«mondo» significava tradizionalmente il
cosmo delle essenze gerarchicamente ordinato in cui tutto si trova, o dovrebbe trovarsi, al proprio posto. La filosofia moderna, al
contrario, (nella sua variante wittgensteiniana) ha sviluppato la dottrina per cui il
mondo sarebbe «tutto ciò che accade» – col
che si intende un mosaico livellato di fattispecie più o meno di pari grado. D’altro
canto Heidegger ha suggerito un concetto di
mondo che in questo vede lo sfondo degli
umani progetti di senso. Mi sembra che dal
concetto di mondo di Heidegger all’emergency design il passo sia breve. Il progettista
di emergency design parte dal presupposto
che il mondo costituisca di per sé un campo
di collisioni. Le collisioni sono sorprese che,
secondo la natura delle cose, non risultano
sorprendenti. Una collisione è un punto d’intersezione tra serie che evolvono prima
separatamente per poi generare, in determinati punti di intersezione,
delle catastrofi. Laddove
le serie di avvenimenti si
intersecano, si verificano
prevedibilmente effetti
imprevedibili.
L’emergency design è un
concetto con il quale la
teoria dei sistemi immunitari generali compie un
passo in avanti. Con esso
viene elaborata una cornice in cui sistemi biologici, sistemi giuridici, sistemi assicurativi e artistici
possono essere descritti
attraverso espressioni affini. Questo design parte
dal presupposto che il
mondo, pensato come
campo di eventi, rappresenta sempre inevitabilmente anche uno spazio
di disturbo e di offesa. Il
mondo è il luogo in cui gli
individui fanno esperienza del proprio soccombere alla disintegrazione, al
proprio degrado, allo
smarrimento. Stanti così
le cose, sono necessarie
architetture spontanee il
cui senso integrale consista nel ricreare l’adeguatezza perduta. L’emergency design è la realizzazione concettuale di que-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
sto stato di fatto. Ciò che chiamiamo cultura
è inseparabile dalla produzione di un sistema
di regole relative a pratiche rigenerative.
Queste nascono in risposta all’esperienza
secondo cui l’idillio non ha mai l’ultima
parola. La salute è una buona cosa, ma la
cura è migliore. L’intelligenza del sistema
immunitario si esprime in aspettative di
lesioni incarnate o istituzionalizzate, in
aspettative di disintegrazione, di collisione –
parlando più in generale, in aspettative di
sorpresa. Questa intelligenza tende a una
sorta di Metafitness – concetto con cui si
intende l’adattamento attraverso cui ci adeguiamo a situazioni per le quali non possiamo essere adeguati. L’uomo dell’emergency
design è il misfit che tenta di preparasi a ciò
per cui non esiste preparazione alcuna.
Detto esplicitamente: mi batto affinché un
concetto apparentemente già ben introdotto
quale quello di immunità venga nuovamente, radicalmente problematizzato. Da questa
arringa deve emergere in modo chiaro che
entrambi i concetti correntemente noti di
immunità, quello giuridico e quello medico,
sono insufficienti nel momento in cui si va a
esaminare le questioni qui affrontate relative ad adattamento e disadattamento. Si profila all’orizzonte un concetto di immunità
che presenta una relazione fino a ora poco
sviscerata con il concetto di cultura. In futuro daremo seguito alla supposizione che la
«cultura» nella sensibilità corrente non
abbia rappresentato altro che un semplicistico accenno alle strategie di immunità di un
gruppo di sopravvissuti. Questa concezione
naïf del temine «cultura» dovrebbe essere
tradotta in futuro in modelli elaborati di una
immunologia generale. Giunta a questo
punto, la filosofia contemporanea ha fatto la
sua parte, ora si può lasciare il campo alle
altre discipline.
(Traduzione di Sabra Befani)
Note:
1 L’Institut für Designforschung della Hochschule für
Gestaltung und Kunst di Zurigo ha curato nel 2006
il primo Simposio internazionale di Emergency
Design (espressione coniata da Yana Milev, curatrice dell’evento), cui hanno preso parte esponenti di
tutte le discipline attinenti, dalla filosofia alla scienza, dall’arte all’urbanistica, dal design alla politica e
all’economia: «L’Emergency Design, che cambia il
nostro modo di guardare ai sistemi e alle strutture
sociali, è un metodo di produzione spaziale e culturale basata sul modello della crisi. Nella tesi dell’Emergency Design si definisce “crisi” l’andamento
ciclico-dinamico di situazioni, ordini e spazi. [...]
L’Emergency Design è la creazione di scenari basati
sulla crisi, la creazione di laboratori di nuovo ordinamento urbano e di deculturizzazione» [ndt]. Cfr:
http://www.hgkz.ch/pages/de/verwaltung/Mediendienst/EmergencyDesignSymposium.php
2 Giappone. I barbari svelarono la terra del Sol
Levante. Fotografie e ricordi dell’età aurea della
semplicità e dell’onestà, a cura di Klaus Eisele, Bonte’sche Bibliothek für Kunst- und Kulturgeschichte,
vol. 2, Stuttgart, 2003.
Santiago Sierra
Il colore dei corpi
Multiculturalismo? L’arte misura le differenze tra gli uomini
Studio economico della pelle degli abitanti di Caracas
di Santiago Sierra
L’uomo trattato come carne
di Bartolomeo Pietromarchi
Saggio sull’identità
di Francis Fukuyama
Se è l’agenda a dettare il Tempo
di Paolo Jedlowski
Arte al limite e diritti della creatività
di Sebastiano Maffettone
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37
Santiago Sierra
Studio economico della pelle degli abitanti di Caracas
di Santiago Sierra
L’artista, l’opera
ato a Madrid (1961) ma da anni residente a Città del Messico,
Santiago Sierra si è progressivamente distinto negli ultimi anni grazie ad un lavoro politico e sociale che riflette su temi legati ai diritti e allo sfruttamento degli emarginati, realizzando performance, installazioni e video dal forte coinvolgimento emotivo.
Realizzate il più delle volte mettendo in moto le dinamiche del salario,
le sue performance si risolvono spesso in un atto clandestino o vandalico rappresentato sotto gli occhi di tutti come un evento. In Linea di
250 cm tatuata su 6 persone remunerate (1999), Sierra recluta sei giovani disoccupati cubani per far loro tatuare in modo permanente una
linea sulla schiena; durante la Biennale di Venezia del 2001, 133 ambulanti abusivi sono stati pagati centoventi mila lire ciascuno per farsi tingere i capelli di biondo. In 68 persone pagate per bloccare un ingresso al museo (2000), in occasione dell’inaugurazione del festival
internazionale dell’arte presso il Museum of Contemporary Art di Pusan in Korea, 68 disoccupati sono stati pagati per fare un sit-in di 3 ore
davanti all’ingresso del museo, riportando cartelli che annunciavano
la paga ricevuta per l’azione. Nello stesso anno, in un lavoro presso
P.S.1. di New York, una persona è stata pagata per rimanere due settimane di seguito reclusa dietro un muro di mattoni, con un unico spiraglio da cui riceveva cibo, mentre il resto del museo rimaneva vuoto.
Tra le ultime prove dell’artista ricordiamo il Padiglione Spagnolo alla
50a Biennale di Venezia (2003), a cui si poteva accedere solo se in possesso di un passaporto iberico; 300 tonnellate alla Kunsthaus di Bregenz (2004), una possente installazione in cemento del peso di trecento tonnellate che ha portato agli estremi le capacità strutturali del mu-
N
38
seo, al punto che potevano entrare solo quaranta visitatori alla volta.
Invitato ancora una volta alla 51a Biennale di Venezia (2005), Sierra
ha concepito un’installazione in cui una voce scandisce i nomi dei
paesi che non hanno partecipato alle varie edizioni ed elenca dettagli
tecnici e finanziari del «sistema Biennale»: ne emerge una lettura critica, in cui l’istituzione è vista esclusivamente sotto un profilo politico-economico.
Nel progetto realizzato a Caracas, Sierra ha elaborato una fotometria
della pelle della schiena di diverse persone, dividendoli in tre gruppi
sociali (poveri, classe media, ricchi) a seconda del reddito dichiarato
(zero, mille, un milione di dollari).
Elaborando il valore economico medio del tono di grigio per ogni
gruppo ne ha dedotto alla fine il valore economico del colore bianco
assoluto e del colore nero assoluto. L’opera di Sierra percorre i confini e gli incerti limiti tra il valore etico e la sua formalizzazione estetica
ponendo lo spettatore di fronte al dilemma dell’artisticità dell’opera e
della moralità dei suoi contenuti. La spersonalizzazione dell’essere
umano e la sua sublimazione estetica sono ricondotti violentemente
al loro valore economico e di merce, riflettendo sulle conseguenze dei
flussi finanziari, del lavoro umano privato della sua dignità, e sui
meccanismi e le deviazioni che regolano l’economia contemporanea,
compresa quella dell’arte.
A pagina 37, Gli Anarchici/The Anarchists, 2006. Volume!, Roma - foto B/N su forex
126X186,5 cm. Courtesy prometeogallery di Ida Pisani
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
GRUPO
POBRES
(0 USD)
GRUPO
MEDIA
(1,000 USD)
GRUPO
RICOS
(1 000,000 USD)
¨ stata fotografata la pelle delle schiene di 10 persone che hanno dichiarato di avere zero dollari, ottenendo il ton
di grigio per questo valore.
In seguito Ł stata fotografata la pelle di schiena di 10 perosne che hanno dichiarato di avere mille dollari ottenendo
ferente.
Alla fine Ł stata fotografata la pelle delle schiene di 10 persone che hanno dichiarato di avere un milione di dollari
medio differente di quelli precedenti.››
Santiago Sierra
L’uomo trattato come carne
di Bartolomeo Pietromarchi
Il fatto da cui deve partire ogni discorso
sull’etica è che l’uomo non ha né ha da
essere o da realizzare alcuna essenza,
alcuna vocazione storica o spirituale,
alcun destino biologico. Solo per questo
qualcosa come un’etica può esistere: poiché è chiaro che se l’uomo fosse o avesse
da essere quella o questa sostanza, questo o quel destino, non vi sarebbe alcuna
esperienza etica possibile – vi sarebbero
solo compiti da realizzare.
Giorgio Agamben, La comunità che
viene, Einaudi, Torino 2001, p. 39.
loro sguardo. In Los Castiogados (2006) la
fotografia documenta un’azione: l’artista ha
chiesto a diciotto cittadini tedeschi nati
prima del 1939 di stare seduti in un posto per
quattro ore al giorno e di girarsi viso al muro
per mezz’ora. Noia, frustrazione, disagio.
L’inversione dello specchio, attraverso il
quale Sierra esercita il genere del ritratto,
ribalta la posizione dello spettatore che
richiederebbe che una testa vista di spalle
dichiari la propria identità, mentre ciò che
resta è solo il desiderio inappagato di chi
osserva, singolo nella violenza del suo bisogno, ri-preso a sua volta nell’atto linguistico
che recide il dialogo io/tu, rivelandone la
forzatura epistemologica.
Questi esercizi di Santiago Sierra mettono in
scena un’inazione, come «violenza etica» –
se consideriamo l’etica come filosofia dell’azione in senso arendtiano – che deriva da un
discorso sul volto e la negazione dell’identità dell’atro, che viene ridotto a pura presenza. I lavori di Santiago Sierra non intendono
il realismo in un senso politico, ma piuttosto
forzano i limiti della possibilità politica. I
suoi progetti si riferiscono spesso al corpo
umano (alle sue proporzioni, alla sua energia simbolizzata nel lavoro fine a se stesso),
in una tensione tra l’universale e l’assoluto
che tende a eliminare ogni carattere contestuale, in lavori che pure sono sempre site
specific. Progetti come 465 personas remuneradas (Museo Rufino Tamayo, Città del Messico 1999) o Personas remuneradas con 30
soles (Galería Pancho Fierro, Lima 2001) in
cui un determinato numero di persone viene
pagato semplicemente per stare in uno spazio espositivo, rappresentano ciò che resta
dell’uomo, arrischiando il significato della
parola «uomo» nel senso contemporaneo.
Ciò che viene dichiarato con ostentazione è
solo il fatto che l’uomo sia trattato come
corpo produttivo, un corpo pensato come
merce, simile a quello della prostituta, la cui
carne non ha più a che fare con il piacere e
il desiderio, ma è solo fattore di scambio.
Questo divenire merce dei corpi realizza l’egemonia economica dello scambio, in cui la
prooduttività ha perso ogni
suo fine.
un assunto del pensiero moderno che
il riconoscimento del sé avvenga
attraverso la possibilità che gli altri
hanno di «rispecchiare» la nostra condizione. Appurare che l’altro è simile a me è un
tacito ricorso alla funzione dello specchio,
ma, come nota Judith Butler, spesso funziona piuttosto come una finestra (J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano
2006, pp. 59-63). Questa visione sfuggente
che si apre verso uno spazio esterno, altrove, mette in scena un
riconoscimento che si evince piuttosto come desiderio di riconoscimento: la domanda «chi sei?» non
trova una risposta definitiva che
possa soddisfare l’altro, ma rimane in bilico, in attesa di essere
soddisfatta. Ciò che resta è il desiderio di conoscere il soggetto dietro la maschera. Coprirsi il volto è
un gesto di vergogna, ma può
essere anche un sintomo del rifiuto di un’identità imposta o negata.
Nelle azioni di Santiago Sierra i
corpi delle persone pagate per
(farsi) compiere un’azione sono
girati spesso di spalle. Questo atto
di violenza, rispetto alla comunicazione dei volti, rispetto al loro
essere sorgente del linguaggio,
rivela un esercizio di violenza
etica, perché comporta che l’altro
si disponga a cercare dietro la
maschera, a voltare il volto dell’altro, esperire ancora una volta la
violenza della comunicazione,
nella forzatura di richiedere che
l’altro «dia conto di sé» e si assuma
le sue responsabilità. Ma quali
responsabilità hanno le nuche dei
ritratti collettivi di Santiago Sierra? Le recenti serie fotografiche
114 Ciudadanos de Stommeln
(2006) e 89 Huichols (2006) sono
dei ritratti collettivi di due comunità diverse, fotografate attraverso
la catalogazione delle teste dei
soggetti visti di spalle. I volti non
solo sono obliterati, ma guardano Santiago Sierra, Una persona, 2005. Galleria Civica di Trento, Trento, Italia - Foto
a loro volta un muro che limita il b/n 180x120 cm. Courtesy prometeogallery di Ida Pisani.
È
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Il silenzio osceno
Il corpo, come struttura comunicativa, sembra essere diventato il campo in cui ha luogo
quel lavoro senza fine che è il
linguaggio stesso. Nell’economia postindustriale il lavoro
viene assimilato, da un punto
di vista psicologico e sociologico, alla produzione linguistica.
Secondo Paolo Virno il lavoro
del linguaggio non dà luogo a
un oggetto estrinseco e duraturo (il prodotto), ma si tratta di
un’attività senza opera (Paolo
Virno, «Lavoro e linguaggio»,
in Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, a
cura di U. Fadini e A. Zanini,
Feltrinelli, Milano 2001, pp.
182 sgg.). Il superamento della
dimensione classica del totalitarismo, e l’integrazione del
linguaggio direttamente nell’economia delle dinamiche produttive, hanno portato a delle
letture del corpo come struttura soprattutto linguistica, flusso di dati e informazioni, segni
e sintomi, operando uno slittamento continuo dei confini
dalle dimensioni estreme, mediatizzate e anestetizzate nel
caso del corpo osceno, reso
spettacolo. Rimuovere la relazione tra corpo e lavoro, ovvero tra linguaggio e azione, vuol
43
Santiago Sierra
Di fronte all’impossibilità dell’arte di cambiare i disequilibri del mondo globalizzato,
Santiago Sierra mette in scena la politica nel suo funzionamento reale,
così come i corpi in silenzio di tutte le persone che prendono parte alle sue azioni
funzionano solo come corpi per il lavoro senza finalità
dire rendere il corpo osceno, laddove per
osceno si intende tutto ciò che è fuori dalla
scena.
Nel progetto compiuto a Caracas lo scorso
anno Estudio economico de la piel de los
Caraqueaceos, Sierra ha elaborato una fotometria della pelle della schiena di diverse
persone, dividendoli in tre gruppi sociali
(poveri, classe media, ricchi). Stabilendo un
valore economico di riferimento per la tonalità del grigio, l’artista ha potuto così dedurre il valore economico corrispettivo del
bianco assoluto e del nero assoluto, traducendo un dato biologico in un fattore estetico, ma anche economico. La visione ravvicinata del colore della pelle denuncia un’appartenenza culturale, che diventa base della
costituzione della classe sociale, ma anche
fonte di un ordine simbolico che rappresenta la negritudine come colorata, mentre il
bianco dell’uomo occidentale non è considerato ancora un colore. Ancora, accanto al
rapporto tra dato biologico e fattore economico, si inscrive anche la presenza dell’elemento estetico, relativo alla percezione dei
colori, spesso presente in maniera esplicita
nel lavoro di Sierra, sia con riferimenti diretti o indiretti alla storia dell’arte nel suo percorso concettuale e minimal, sia come
costruzione formale dell’opera in sé. Il rigore formale diventa, quindi, un elemento che
tiene in bilico il versante etico/morale
accanto quello puramente e semplicemente
estetico, producendo lo spaesamento dello
spettatore di fronte alla «estetizzazione del
gesto violento» e costringendolo al giudizio
etico.
Di fronte all’impossibilità dell’arte di cam-
biare i disequilibri del mondo globalizzato e
non accettando l’ipocrisia dell’artista che
denuncia le condizioni dei subalterni, Santiago Sierra mette in scena la politica nel suo
funzionamento reale, così come i corpi in
silenzio di tutte le persone che prendono
parte alle sue azioni funzionano solo come
corpi per il lavoro senza finalità. Lo spettatore si trova in questo senso di fronte a uno
spettacolo pornografico: spettacolo perché la
costruzione della scena e la presenza dei
corpi obbligano alla visione, pornografico
perché il modo in cui questa visone ha luogo
ha a che fare con un corpo pagato per essere consumato.
I corpi al lavoro nelle azioni di Sierra vengono messi in condizione di non poter usufruire dei mezzi di produzione del linguaggio (il
loro stesso corpo) e, come un attore porno,
vivono un’illusione di libertà, di autonomia.
L’attore porno, come la persona pagata per
un progetto di Sierra, rifugge da una prospettiva di vita fondata sul lavoro «operaio»
tradizionale: il primo subisce la fantasmagoria del cinema, il secondo l’euforia di essere
pagato per aver fatto un lavoro inutile o
semplicemente essere «stato» di fronte a un
pubblico, in uno spazio che non è un luogo
(di lavoro) vero e proprio, ma un museo o
una galleria. Questi corpi sono rimasti
(vuoti) «a perdere» rispetto alla fine del lavoro tradizionale.
«Se le “grafie del porno” contaminano
le altre forme di comunicazione sociale – dalla pubblicità all’informazione –
grazie alla loro potenza immaginifica
capace di far leva sulle strutture profonde del desiderio degli individui, la messa
Santiago Sierra, L’acquisto di un premio, 2007. Prometeogallery di Ida Pisani, Milano - Leone d’oro vinto da
Regina José Galindo come miglior artista under 35 alla 51a biennale di Venezia. Courtesy prometeogallery di
Ida Pisani.
44
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
in scena della pornografia – una volta
tipica produzione autoreferenziale “fordista”, del bordello – si fa stereotipo della
diffusione generalizzata del bordello
come schema postfordista dei rapporti di
lavoro».
Roberto Callegari, Il mestiere di godere,
in «Millepiani», n. 29, giugno 2005.
Il volto traduce la questione dell’inazione di
un corpo che risulta interamente ammutolito. Ma il corpo, nel caso di Sierra, corrisponde a delle persone che appartengono principalmente a delle classi subalterne. Già
Gayatri C. Spivak aveva collegato il problema delle classi subalterne a quello del linguaggio (Gayatri C. Spivak, «Can the Subaltern Speak?», in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di C. Nelson e L. Grossberg, University of Illinois Press, Urbana
1988). Come possono parlare i subalterni? Il
problema è quello del linguaggio e dell’accento, relativo alla possibilità del colonizzato di scagionarsi dalla lingua del colonizzatore. Allora come l’immagine del corpo
viene data attraverso una visone pornografica, così la voce esclusa da questo immaginario si fa sentire solo se diventa oscena. E non
è un caso che il «corpo per il lavoro» pagato
da Sierra, una volta ridotto a nuda vita,
quando scelga di parlare lo faccia attraverso
la bestemmia. Santiago Sierra non interviene mai sui modi in cui le persone pagate
scelgono di adempiere alle sue richieste:
ognuno lo può fare come meglio crede. Nell’azione avvenuta presso la galleria Volume!
la notte di Natale del 2006 alcuni anarchici
sono stati invitati a sedere nello spazio della
galleria con i cappelli dell’inquisizione in
testa, spalle al pubblico. Accanto a loro una
radio trasmetteva la messa di Natale celebrata dal papa Benedetto XVI in Vaticano.
Come argomenterebbe la Spivak, Sierra non
vuole parlare per loro, ma nemmeno li
mette in condizione di parlare per sé, visto
che sono con la faccia al muro.
Da questa posizione subordinata rispetto al
pubblico che si trova alle loro spalle, la
situazione che viene messa in scena è di
enorme tensione e capita che qualcuno inizi
a bestemmiare contro il papa e la Chiesa, a
fumare marijuana e, dunque, a costringere
il pubblico che è dietro a subire la condizione di disagio in cui si trovano. La bestemmia
diventa allora l’unico linguaggio di libera
azione del subalterno, per parlare senza
intercessione. La bestemmia entra a far
parte del lavoro di Sierra per quella sua connotazione traumatica di reale che comporta,
in cui la messa in scena pornografica, quanto l’oscenità del mutismo dei corpi costretti a
un lavoro senza finalità (essere pagati per
ascoltare una messa) funzionano come un’ostruzione dello spazio condiviso, un’aporia
del senso.
Santiago Sierra
Saggio sull’identità
di Francis Fukuyama
e moderne politiche identitarie hanno
origine da una lacuna nella teoria politica alla base della democrazia liberale. Ovvero, il silenzio del liberalismo quanto
alla collocazione e al significato dei gruppi.
La linea di pensiero della teoria politica moderna che parte da Machiavelli e, passando
per Hobbes, Locke e Rousseau arriva sino ai
Padri fondatori Usa, vede la questione della
libertà politica come elemento di contrapposizione tra Stato e individui piuttosto che Stato e gruppi. Hobbes e Locke, ad esempio, sostengono che gli esseri umani godono di diritti naturali in quanto individui allo stato naturale. Diritti che possono essere garantiti
soltanto a mezzo di un contratto sociale il
quale impedisca che la ricerca, da parte del
singolo individuo, dell’interesse personale
non danneggi il prossimo.
Il liberalismo moderno nacque soprattutto
come reazione alle guerre di religione che infiammarono l’Europa all’indomani della Riforma. Sanciva il principio della tolleranza
religiosa, cioè l’idea che gli obiettivi della religione non possano essere perseguiti all’interno della sfera pubblica secondo meccanismi che limitano la libertà religiosa di altre
chiese o sette. (Come vedremo più avanti, in
numerose democrazie europee moderne l’effettiva separazione tra Stato e Chiesa non è
mai stata raggiunta). Tuttavia, mentre il liberalismo moderno ha fissato in termini chiari
il principio secondo cui il potere dello Stato
non va utilizzato per imporre credenze religiose sugli individui, non ha chiarito se la libertà individuale possa o meno entrare in
conflitto con i diritti della popolazione al fine
di affermare una particolare tradizione reli-
L
giosa. La libertà, intesa non come libertà degli individui ma di gruppi culturali, etnici o
religiosi e volta a proteggere la loro identità
di gruppo, non fu considerata quale tema
centrale dai Padri fondatori, forse perché i
neo-coloni erano piuttosto omogenei tra i loro. Scriveva John Jay (nel secondo volume
dei Federalist Paper): «[È] un popolo che discende da comuni antenati, che parlavano la
stessa lingua, professavano la stessa religione, condividevano gli stessi principi».
In Occidente, le politiche identitarie cominciarono a imporsi seriamente dopo la Riforma. Martin Lutero sosteneva che la salvezza
poteva essere raggiunta soltanto attraverso
uno stato di fede interiore, e stigmatizzava
l’importanza accordata dai cattolici alle «opere», ossia il conformismo esteriore rispetto a
una serie di norme sociali. La Riforma, quindi, identificava l’autentica religiosità con uno
stato soggettivo individuale, dissociando l’identità interiore dalla prassi esteriore.
Il filosofo canadese Charles Taylor ha descritto efficacemente il successivo sviluppo storico delle politiche identitarie. Rousseau additava, nel Secondo Discorso e nelle Promenades, l’esistenza di un profondo clivage tra il
nostro «io» esteriore, frutto degli usi e delle
convenzioni sociali, e la nostra autentica natura interiore. La felicità risiede nella riscoperta dell’autenticità interiore. Tale teoria fu
poi ulteriormente sviluppata da Johann Gottfried von Herder, il quale sosteneva che l’autenticità interiore fosse rinvenibile non soltanto nei singoli individui ma tra la popolazione, nella riscoperta di quella che oggi definiamo cultura popolare. Per dirla con Taylor,
«è questo il potente ideale che ci è stato tra-
mandato. Esso accorda importanza morale a
una sorta di contatto con l’“io”, con la propria
natura interiore, che è considerata in pericolo di perdersi [...] con le spinte al conformismo sociale».
Il clivage tra il proprio «io» interiore ed esteriore non è frutto soltanto del mondo delle
idee, ma della realtà sociale nelle moderne
democrazie di mercato. Dopo le rivoluzioni
americana e francese, l’ideale della «carrière
ouverte aux talents» è stato progressivamente
messo in pratica, man mano che venivano rimosse le tradizionali barriere alla mobilità
sociale. Così, lo status sociale dell’individuo
cominciava a essere qualcosa da conquistare
piuttosto che accettare. Ossia, il frutto del
proprio talento, lavoro e sacrificio invece che
del fortuito status di nascita. Il percorso personale dell’individuo, quindi, consisteva nella ricerca e nella realizzazione di un disegno
interiore, piuttosto che nell’adeguamento alle aspettative dei propri genitori, parenti,
compaesani o del proprio sacerdote.
Sostiene Taylor che l’identità moderna sia intrinsecamente politica, dato che esige riconoscimento. L’idea secondo cui la politica moderna si basa sul principio del riconoscimento universale proviene da Hegel. È sempre
più evidente, però, che il riconoscimento universale fondato su di un’umanità individuale
condivisa non è sufficiente, soprattutto con
riferimento a gruppi che, in passato, sono stati oggetto di discriminazioni. Le moderne politiche identitarie, dunque, sono imperniate
sulle istanze di riconoscimento delle identità
di gruppo. Ossia, l’affermazione pubblica della pari dignità di gruppi in passato marginalizzati; dagli abitanti del Québec agli afroa-
Chi è
Francis Fukuyama
rancis Fukuyama (Chicago 1952) insegna economia politica internazionale
alla Paul H. Nitze School of Advanced
International Studies della Johns Hopkins
University di Washington. Dal 2002 è membro del Council of Bioethics, organo della
presidenza degli Stati Uniti. Tra le sue opere
ricordiamo: La fine della storia e l’ultimo
uomo (Rizzoli, 1992), La fiducia (Rizzoli,
1996), La grande distruzione. La natura
umana e la ricostruzione di un nuovo ordine
sociale (Baldini&Castoldi, 1999), L’uomo
oltre l’uomo (Mondadori, 2002), Esportare
la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo (Lindau, 2004), America
al bivio. La democrazia, il potere e l’eredità
dei neoconservatori (Lindau, 2006).
F
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Santiago Sierra
Le radici dell’islamismo radicale, secondo Olivier Roy, non sono culturali.
Il fenomeno non è la conseguenza di un qualcosa di intrinseco all’islam
o alla cultura che questa religione ha prodotto. Piuttosto, l’islamismo radicale è
venuto alla ribalta perché l’islam si è «deterritorializzato»
mericani, alle donne, sino alle popolazioni
indigene e agli omosessuali.
Non è un caso che Charles Taylor sia canadese: le politiche identitarie e il multiculturalismo contemporaneo sono nati, per molti
aspetti, proprio in Canada con le istanze per il
riconoscimento dei diritti della comunità
francofona. La legge 101 del 1977 viola il
principio liberale della parità di diritti individuali: i francofoni godono di diritti linguistici
non condivisi dagli anglofoni. Il Québec venne riconosciuto quale «società distinta» nel
1995 e «nazione» nel 2006.
Il multiculturalismo – inteso non soltanto come tolleranza della diversità culturale ma come istanza di riconoscimento legale dei diritti di gruppi razziali, religiosi o culturali – si è
ormai affermato in quasi tutte le moderne democrazie liberali. Nel corso dell’ultima generazione, la politica Usa è stata profondamente segnata dalle controversie attorno alle politiche di «affirmative action» a favore degli
afroamericani, del bilinguismo e del matrimonio gay perorate da gruppi in passato marginalizzati, i quali esigono il riconoscimento
dei loro diritti non soltanto come individui
ma come membri di un gruppo. E la tradizione lockeana dei diritti individuali, profondamente radicata negli Usa, ha reso le battaglie
volte ad asserire i diritti dei gruppi straordi-
nariamente controverse, molto più che nell’Europa moderna.
L’ideologia islamista radicale all’origine degli
attacchi terroristici del decennio scorso va
considerata soprattutto quale manifestazione
delle moderne politiche identitarie, piuttosto
che della cultura musulmana tradizionale. In
tal senso, essa non è dissimile da alcuni vecchi movimenti politici che ben conosciamo. Il
fatto che sia moderna non la rende meno pericolosa, ma aiuta a fare luce sulla questione
e sulle eventuali soluzioni.
L’idea che l’islamismo radicale contemporaneo rappresenti una forma di politica identitaria è stata avanzata con particolare fervore
e convinzione dall’intellettuale francese Olivier Roy nel suo libro Globalised Islam (Hurst
2004). Le radici dell’islamismo radicale, spiega Roy, non sono culturali. In altre parole, il
fenomeno non è la conseguenza di un qualcosa di intrinseco all’islam o alla cultura che
questa religione ha prodotto. Piuttosto, sostiene Roy, l’islamismo radicale è venuto alla
ribalta perché l’islam si è «deterritorializzato», riaprendo l’intera questione dell’identità
musulmana.
Questione che non si è nemmeno posta nelle
società musulmane tradizionali, né in quelle
cristiane. In una società musulmana tradizionale, l’individuo riceve la propria identità dai
suoi genitori e dal contesto sociale in cui si
trova. Tutto – dal clan ai parenti, all’imam locale sino alla struttura politica dello Stato –
ancora le singole identità a un particolare ramo del credo islamico. Non è questione di
scelta. Come il giudaismo, l’islam è una religione profondamente legalistica, nel senso
che il credo religioso consiste nell’osservanza di una serie di norme sociali determinate
esternamente. Norme ben localizzate, in conformità con tradizioni, usanze, santi e consuetudini di determinati luoghi. La religiosità
tradizionale non è universalistica, a dispetto
dell’universalismo dottrinale dell’islam.
Secondo Roy, l’identità comincia a essere
problematica proprio quando i musulmani
abbandonano le società tradizionali emigrando, ad esempio, in Europa occidentale.
In quel momento, infatti, la propria identità
di musulmano non è più rispecchiata dalla
società esterna; al contrario, aumentano le
spinte ad adeguarsi alle norme culturali
dominanti in Occidente. Il problema dell’autenticità si presenta ora in maniera assolutamente inedita rispetto alle società tradizionali, poiché si è formato un gap tra la propria identità interiore di musulmano e il proprio comportamento rispetto alla società
esterna. Ciò che spiega le continue domande
poste agli imam, nei siti web islamici, su
Mass media
Se è l’agenda a dettare il Tempo
di Paolo Jedlowski
l Novecento è stato ossessionato dalla memoria. Probabilmente perché ha avvertito di perderla. Tuttavia, come il secolo precedente, il Novecento è stato ambivalente a riguardo. Da un lato, è stata la modernità tutta che, da quando ha incominciato a dispiegarsi, ha provocato fenomeni che possono essere descritti come una perdita di memorie, o quanto meno del loro versante sociale, le tradizioni. Il mutamento continuo,
regolare, veloce e forse persino via via accelerato di tutti gli aspetti delle
nostre condizioni di vita ha reso man mano inservibile l’esperienza delle
generazioni passate.
Ma, dall’altro lato, la modernità è stata anche il tempo dei musei, degli archivi, dei monumenti e delle biblioteche. Epoca del mutamento incessante, è stata anche l’epoca in cui è stato più vivo il senso della storia, e in cui
si è prestata al passato la maggiore attenzione. I media più caratteristici
del Novecento, la radio e la televisione, si prestano a consumi effimeri,
suggeriscono un’esperienza volatile; ma altri, nati già nel secolo precedente e poi sempre più sviluppati, permettono invece di fissare il passato,
di custodirlo e riaccedervi in modi mai prima conosciuti. Fotografie, registratori, cinema, video e infiniti altri marchingegni fermano il tempo, ne
conservano le tracce, permettono di riprodurle in altri momenti e altri
luoghi. Si tratta di memorie esteriorizzate, la cui efficacia è proporzionale
al grado in cui effettivamente sono consultate, ma sono memorie estese,
capillari e a portata di tutti. A che punto è oggi questa storia? Quali atteggiamenti ci caratterizzano nei confronti della memoria? Se si bada ai racconti attraverso cui la contemporaneità è rappresentata dalle arti narrative – nei romanzi, al cinema, nelle soap opera – la situazione pare, di nuovo, ambivalente. A un interesse inesausto per il passato fa riscontro il timore (e a volte il desiderio) di perdere la capacità del ricordo.
I
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Quanto all’interesse, è testimoniato dal peso che vicende legate alla ricerca del tempo perduto continuano ad avere nelle trame dei racconti
che narriamo e ascoltiamo. Il passato autobiografico e quello collettivo vi
compaiono ancora e molto spesso come scrigni: serbatoi di identità, di segreti che attendono di essere svelati, di seminagioni originarie di senso.
Spesso questi racconti non mancano di mettere in scena qualcosa di davvero importante: la sensazione del fatto che vivendo dimentichiamo l’essenziale, e che la memoria può aiutare a recuperarlo. O, ancora più importante, che vivendo lasciamo tracce che le memorie altrui conservano,
in modo tale che la trama e il senso delle nostre stesse vite sono custoditi
da ciò che altri rammentano.
Il significato della memoria della Shoah, ad esempio, per chi non è ebreo,
è esattamente questo. Ma anche sul piano individuale, infiniti romanzi ripropongono protagonisti i quali, in un modo o nell’altro, si imbattono in
ricordi altrui che, se accettati, modificano la percezione di sé. Due esempi, scelti quasi a caso in una messe pressoché sterminata: La forza del
passato di Sandro Veronesi tra i romanzi, Niente da nascondere (Caché), di
Michael Haneke, tra i film.
Anche il gusto per storie di figli perduti e ritrovati, di parentele riscoperte,
di agnizioni improvvise non è che la versione popolare di ciò di cui queste
storie sono metafora: che della nostra stessa vita non siamo stati i soli protagonisti, né i più affidabili fra i testimoni. D’altro canto, una moltitudine
di racconti mette in scena la perdita della memoria. La continuità del soggetto, il suo senso del sé, ne sono incrinati o minacciati. Che una certa dose di oblio sia necessaria alla vita è ovvio. Ma l’eccesso di oblio fa paura.
Per qualche motivo, è soprattutto sulla sparizione della memoria a breve
termine che si concentra la narrativa. Il prototipo è quel racconto – vero:
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Santiago Sierra
Le moderne società liberali in Europa e Nord America tendono a essere deboli
in termini di identità; molte celebrano il proprio pluralismo e multiculturalismo,
asserendo sostanzialmente che la loro identità consiste proprio nel non avere alcuna
identità. Ciononostante, l’identità nazionale è ancora nel dna di tutte le democrazie
cosa sia haram (proibito) e cosa halal (permesso). In Arabia Saudita, però, se sia
haram stringere la mano a un insegnante di
sesso femminile, ad esempio, è questione
che nemmeno si pone, dato che tale categoria sociale è pressoché inesistente.
L’islamismo, una risposta
Islamismo radicale e jihadismo nascono in
risposta alla ricerca dell’identità che consegue da tutto ciò. Queste ideologie possono
dare una risposta al giovane musulmano
olandese o francese che si chiede «Chi
sono?»: sei membro di una umma globale
definita dall’adesione a una dottrina islamica universale cui sono stati sottratti usanze,
santi, tradizioni et similia locali. L’identità
musulmana, dunque, diviene questione di
credo interiore piuttosto che di conformismo
esteriore alla prassi sociale. Il che, secondo
Roy, provoca una «protestantizzazione» del
credo musulmano, per cui la salvezza risiede in uno stato soggettivo che mal si accorda
con il comportamento esteriore del singolo.
Ecco perché Mohammed Atta e diversi altri
cospiratori dell’11 settembre hanno potuto,
come si presume, bere alcool e andare in
uno strip club prima dell’attacco alle Torri
Gemelle.
Considerando l’islamismo radicale quale forma di politica identitaria, diviene chiaro anche come mai i musulmani europei di seconda e terza generazione abbiano deciso di aderirvi. Generalmente, gli immigrati di prima
generazione non hanno subito il distacco psicologico dalla cultura della loro terra d’origine, e hanno portato con sé, nelle loro nuove
case, le usanze tradizionali. I loro figli, invece, spesso disprezzano la religiosità dei genitori ma, al contempo, non riescono a integrarsi nella cultura della nuova società in cui
vivono. Presi tra due culture nelle quali non
riescono a identificarsi, essi provano forte attrazione per l’ideologia universalista del jihadismo contemporaneo.
Olivier Roy ingigantisce le ragioni per cui l’islamismo radicale andrebbe considerato come fenomeno precipuamente europeo; in
realtà, esistono numerose altre cause alla base dell’emersione delle ideologie radicali in
Medio Oriente. Arabia Saudita, Pakistan, Iran
e Afghanistan sono tutti paesi esportatori dell’ideologia islamista radicale, e l’Iraq potrebbe entrare nel novero in futuro. L’analisi di
Roy, tuttavia, è applicabile anche ai paesi musulmani, perché è l’importazione della modernità in quelle società a provocare crisi d’identità e radicalizzazione. La globalizzazione, pilotata dalla tecnologia e dall’apertura
economica, ha offuscato i confini tra mondo
sviluppato e società musulmane tradizionali.
Non a caso, i fautori dei recenti complotti ed
episodi terroristici sono o erano molto spesso
musulmani europei o radicalizzatisi nel Vecchio Continente, o ancora provenienti da sfere privilegiate delle società musulmane con
la possibilità, quindi, di stringere contatti con
l’Occidente. Mohammed Atta e gli altri cospiratori degli attacchi dell’11 settembre rientrano in questa categoria, come pure Mohammed Bouyeri (l’assassino del regista
olandese Theo van Gogh), gli attentatori
dell’11 marzo a Madrid, quelli del 7 luglio a
Londra e i musulmani britannici accusati di
avere ordito l’attentato contro alcuni velivoli
la scorsa estate. Va anche rimarcato che i leader di Al Qaeda Osama bin Laden e Ayman alZawahiri sono entrambi uomini istruiti, con
un’estesa conoscenza e libero accesso al
mondo moderno.
Se l’islamismo radicale contemporaneo viene
letto quale frutto delle politiche identitarie,
ergo come fenomeno moderno, due sono le
implicazioni che ne conseguono. Primo, ci
siamo già confrontati con questo problema
negli anni delle politiche estremiste del XX
secolo, con i giovani che diventavano anarchici, bolscevichi, fascisti o membri della
banda Baader-Meinhof. Come hanno mostra-
Mass media
è un caso clinico – presentato da Oliver Sacks nel suo L’uomo che scambiò la moglie per un cappello dove un personaggio saluta, chiede cortesemente il nome dell’interlocutore, e dopo pochi secondi ricomincia da
capo. Fra i racconti più intensi a questo proposito citerò Memento, di
Christopher Nolan; più lieve, 50 volte il primo bacio di Peter Segal. In
entrambi i casi i protagonisti, colpiti da amnesia anterograda, ricordano
quello che accade soltanto per pochi minuti, poi lo dimenticano. La loro
vita è fatta così di episodi staccati, in cui tutto ricomincia ogni volta di
nuovo.
L’interesse della fiction per personaggi dotati di problemi con la memoria è probabilmente sintomo di un aspetto della condizione collettiva
contemporanea: del carattere frammentario sia dell’esperienza dello
spettatore tipico dei prodotti delle industrie mediali, sia dell’esperienza
che si deposita nella nostra vita reale, più o meno polverizzata in un
flusso di episodi sconnessi. Un’esperienza che è forse più opportuno
chiamare inesperienza, rammentando le celebri note di Walter Benjamin sulla modernità come epoca in cui l’esperienza scompare.
Importante per comprendere tendenze e paure, la fiction non è però
strumento sociologico del tutto affidabile. Le condizioni più diffuse oggi,
concretamente, non sono né quelle di un’intensa attenzione per la
memoria, né quelle di una radicale sparizione della nostra capacità di
conservare il passato. La situazione attuale è piuttosto quella di esseri
umani oberati da un lato da un eccesso di stimoli, e dall’altro da un
eccesso di quelle che chiamerei, prendendo a prestito il termine dagli
psicologi, memorie di lavoro. L’eccesso di stimoli significa che ciò che
oggi siamo in grado di percepire è troppo per essere ricordato.
A volte, addirittura per essere propriamente notato; di norma, troppo
per essere conservato. Questo provoca a volte rigetto, altre volte confusione, indistinzione delle rilevanze, cortocircuiti indesiderati (o, in qualche caso, desiderabili: come formazione di nuove connessioni di senso;
ma praticare la confusione come forma d’arte o di conoscenza non è da
tutti). In ogni caso, una massiccia dose di oblio è correlata a una massa
di informazioni ingestibile.
Quanto all’eccesso di memorie di lavoro, significa che, di fatto, la complessità della vita quotidiana di oggi richiede una costante e capillare
capacità di ricordo: appuntamenti, scadenze, bollette, password, codici
di accesso a telefoni, bancomat, servizi informatici. Vivere nella complessità, aiutati da mezzi che ci consentono e suggeriscono il pregio
della velocità, vuol dire poter fare una miriade di cose: ma ogni attività
richiede che si ricordino relazioni, nomi, incombenze, vicende pregresse, progetti in corso, intenzioni.
E ancora: forme di pratiche, etichette, modi d’uso di oggetti che si rinnovano per di più di continuo. Dobbiamo ricordare infinite cose, semplicemente per continuare a vivere quotidianamente. Questa situazione
rende conto sia del desiderio, che a volte ci coglie, di una memoria rilassata, sia della paura, che altrettante volte avvertiamo, di smarrire i ricordi. In concreto, nelle nostre vite di ogni giorno, non siamo né molto
inclini al ricordo disteso né del tutto privi della capacità di conservare e
di rammentare il passato. Ma il nostro tempo quotidiano è quello dell’agenda: non il presente, ma il futuro a breve, che necessita di memorie
altrettanto brevi.
L’autore insegna sociologia all’università «L’Orientale» di Napoli. Tra i suoi
libri Un giorno dopo l’altro (Bologna 2005).
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Santiago Sierra
La gran parte dei paesi europei tende a concepire il multiculturalismo quale cornice
per una convivenza di culture separate, piuttosto che come meccanismo
di transizione volto a integrare i nuovi arrivati nella cultura dominante (ciò che
Amartya Sen ha definito «pluralità di monoculturalismi»)
to Fritz Stern, Ernest Gellner e altri, la modernizzazione e la transizione dalla Gemeinschaft (comunità) alla Gesellschaft (società)
sono processi profondamente alienanti di cui
hanno fatto esperienza negativa innumerevoli individui in diverse società. Ora è la volta
dei giovani musulmani. Se nella religione
musulmana vi sia qualcosa in particolare che
incoraggia tale radicalizzazione rimane una
questione aperta. Dopo l’11 settembre, si è
diffusa tutta una letteratura volta a dimostrare come la violenza e persino gli attacchi suicidi abbiano profonde radici storiche o coraniche. È bene ricordare, però, che in numerose circostanze storiche le società musulmane sono state più tolleranti dei loro omologhi cristiani. Il filosofo ebreo Maimonide
nacque nella Cordova musulmana, variegato
centro culturale e di apprendimento, e Baghdad ha ospitato per molte generazioni una
delle maggiori comunità ebraiche al mondo.
Considerare l’attuale islamismo radicale come un’inevitabile propaggine dell’islam sarebbe come giudicare il fascismo quale apogeo di secoli di cristianesimo in Europa.
Secondo, il problema del terrorismo jihadista
non si risolverà esportando modernizzazione
e democrazia in Medio Oriente. All’amministrazione Bush, secondo cui il terrorismo è
alimentato dall’assenza di democrazia, sfugge che un cospicuo numero di terroristi si è
radicalizzato in paesi europei democratici.
Modernizzazione e democrazia sono di per sé
elementi positivi ma, nel mondo musulmano,
l’eventualità che esacerbino il terrorismo invece di rintuzzarlo è, sul breve periodo, più
che probabile.
Le moderne società liberali in Europa e Nord
America tendono a essere deboli in termini di
identità; molte celebrano il proprio pluralismo e multiculturalismo, asserendo sostanzialmente che la loro identità consiste proprio nel non avere alcuna identità. Resta il
fatto, però, che l’identità nazionale è ancora
nel dna di tutte le democrazie liberali contemporanee. La sua natura, però, per certi
versi cambia spostandoci, ad esempio, dal
Nord America in Europa, ciò che aiuta a spiegare come mai l’integrazione dei musulmani
sia così difficile in paesi come Olanda, Francia e Germania.
Differenze tra Europa e Usa
Seymour Martin Lipset sosteneva che l’identità americana non potesse che essere di natura politica e potentemente influenzata dal
fatto che gli Usa sono nati da una rivoluzione
contro l’autorità dello Stato. Il credo americano si basava su cinque valori fondamentali:
uguaglianza (non in termini di risultato ma di
pari opportunità), libertà (o antistatalismo),
individualismo (inteso come facoltà, da parte
degli individui, di determinare la propria collocazione sociale), populismo e liberismo.
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Essendo tali qualità sia politiche che civiche,
erano in teoria accessibili a ogni americano
(dopo l’abolizione della schiavitù) e hanno
resistito eccezionalmente alla storia della Repubblica. Robert Bellah ebbe un giorno a dire
che gli Usa possedevano una «religione civile», ma la loro chiesa è aperta a tutti.
Al di là di tali aspetti relativi alla cultura politica, l’identità americana è anche radicata in
tradizioni etniche distinte, in particolare in
ciò che Samuel Huntington definisce la cultura dominante di tipo «anglo-protestante».
Lipset riconosceva il fondamentale ruolo
svolto dalle tradizioni settarie protestanti dei
coloni britannici nel plasmare la cultura Usa.
La famosa etica del lavoro protestante, la propensione del popolo americano a unirsi in libere associazioni e il moralismo della loro
politica sono tutte conseguenze di tale retaggio anglo-protestante.
Già all’inizio del XXI secolo, però, gli aspettichiave della cultura Usa – pur sempre radicati nelle tradizioni culturali europee – erano di
fatto scissi dalle loro origini etniche e praticati da un nugolo di neo-americani. Gli americani lavorano più duramente degli europei, e
tendono a credere – come il primo protestantesimo di Weber – che la dignità risiede nel
lavoro volto alla redenzione morale piuttosto
che nella solidarietà del welfare state.
La cultura americana contemporanea, naturalmente, ha molti aspetti non altrettanto
gradevoli. La cultura dei diritti acquisiti, del
consumismo, dei riflettori di Hollywood puntati sul sesso e la violenza, e delle gang sottoproletarie che gli Usa hanno riesportato nell’America centrale è prerogativa che alcuni
immigrati cominciano ad assorbire. Lipset
sosteneva che l’eccezionalismo americano
fosse una spada a doppio taglio: lo stesso individualismo antistatalista che fa degli americani un popolo intraprendente li ha anche
portati a trasgredire la legge molto più degli
europei.
Dopo la seconda guerra mondiale, il Vecchio
Continente vide un grande impegno a creare
un’identità europea «postnazionale». Nonostante i progressi compiuti nel tentativo di
forgiare un’Ue più forte, l’identità europea rimane un sentimento ispirato più dalla testa
che dal cuore. Sebbene vi sia un’esile schiera
di europei flessibili e cosmopoliti, pochi si definirebbero europei tout court, o si gonfiano
d’orgoglio ascoltando l’inno comunitario.
Con la sconfitta della Costituzione Ue inflitta
a seguito dei referendum francese e olandese
nel 2005, i cittadini comuni hanno voluto dire
ancora una volta alle élite che non erano
pronti a rinunciare alla sovranità e allo Stato
nazionale.
Il sentimento degli europei rispetto all’identità nazionale, però, è molto spesso ambivalente. L’esperienza formativa alla base della
coscienza politica europea contemporanea è
rappresentata dalle due guerre mondiali, di
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cui gli europei incolpano il nazionalismo. Eppure, le vecchie identità nazionali europee
resistono tuttora. I cittadini sentono ancora
fortemente cosa significhi essere britannici o
francesi o olandesi o italiani, anche se non è
politicamente corretto affermare tali identità
con eccessivo fervore. E le identità nazionali
in Europa, rispetto all’America, restano prevalentemente di base etnica. Così, sebbene
tutti i paesi europei lavorino per garantire la
pari cittadinanza formale e politica, proprio
come negli Usa, tradurre quest’ultima in una
parità percepita come tale è cosa ben più ardua, e questo a causa della forza perdurante
della fedeltà etnica.
Gli olandesi, ad esempio, sono noti per il loro
pluralismo e la loro tolleranza. Eppure, nell’intimità delle loro case, essi restano, sotto il
profilo sociale, piuttosto conservatori. La società olandese è stata multiculturale senza
essere assimilativa, il che ben si adatta a una
società consociativa tradizionalmente organizzata secondo i «pilastri» protestante, cattolico e socialista, tutti separati tra di loro. In
modo analogo, la gran parte degli altri paesi
europei tende a concepire il multiculturalismo quale cornice per una convivenza di culture separate, piuttosto che come meccanismo di transizione volto a integrare i nuovi
arrivati nella cultura dominante (ciò che
Amartya Sen ha definito «pluralità di monoculturalismi»). Molti europei esprimono scetticismo riguardo alla volontà, da parte degli
immigrati musulmani, di integrarsi; ma anche chi vuole farlo non sempre è accolto con
entusiasmo, nemmeno se ha già acquisito le
conoscenze linguistiche e culturali della società di accoglienza.
È bene non ingigantire le differenze tra Usa
ed Europa a questo riguardo. Gli europei
sostengono, e in parte a ragione, di incontrare maggiori difficoltà a integrare i propri
immigrati – la maggior parte dei quali oramai sono musulmani – rispetto agli Usa. Gli
immigrati musulmani nel Vecchio Continente provengono generalmente da società piuttosto tradizionali, mentre la stragrande maggioranza dei nuovi arrivati negli Usa è ispanica e condivide il retaggio cristiano della
cultura dominante. (Anche i numeri fanno la
loro parte: negli Usa, paese che conta 300
milioni di abitanti circa, vivono dai 2 ai 3
milioni di musulmani. Se la percentuale
della popolazione musulmana Usa fosse pari
a quella francese, la cifra supererebbe i 20
milioni).
Quali che siano esattamente le cause, il fallimento del progetto europeo per una
migliore integrazione dei musulmani è una
bomba a orologeria che ha già favorito il terrorismo. E che provocherà inevitabilmente
un effetto boomerang ben più violento da
parte dei gruppi populisti, con il rischio di
mettere addirittura a repentaglio la stessa
democrazia europea. La risoluzione di tale
Santiago Sierra
Chiedere ai musulmani di rinunciare ai diritti di gruppo è molto più difficile
in Europa che negli Usa, perché numerosi paesi europei
hanno tradizioni corporativiste che, continuando a rispettare i diritti delle comunità,
non riescono a separare efficacemente Chiesa e Stato
problema richiederà un duplice approccio:
occorrerà che sia le minoranze di immigrati
e la loro prole, sia i membri delle principali
comunità nazionali modifichino il loro comportamento.
Il primo passo consiste nel riconoscere che il
vecchio modello multiculturale non è stato
un gran successo in paesi quali Olanda e
Gran Bretagna, e che al suo posto occorrono
sforzi più energici per integrare le popolazioni non occidentali in una comune cultura
liberale. Il vecchio modello multiculturale si
fondava sul riconoscimento e i diritti dei
gruppi. A causa di un malinteso senso di
rispetto per le differenze culturali – talvolta
incoraggiato dal senso di colpa postimperiale – è stata concessa eccessiva autorità alle
comunità culturali nel definire le regole di
comportamento da imporre ai loro membri.
Il liberalismo, in definitiva, non può basarsi
sui diritti di gruppo, perché non tutti i gruppi propugnano valori liberali. La civiltà dell’Illuminismo europeo, di cui la democrazia
liberale contemporanea è erede, non può
essere culturalmente neutrale, poiché le
società liberali coltivano determinati valori
riguardo alla pari dignità e all’eguale valore
degli individui. Le culture che non accettano
tali premesse non meritano pari tutela in
una democrazia liberale. I membri delle
comunità di immigrati e la loro prole meritano un pari trattamento come individui,
non in quanto membri di comunità culturali. Non esiste alcuna ragione per cui, sotto la
medesima legge, una ragazza musulmana
debba essere trattata in modo diverso da una
cristiana o ebrea, quale che sia la sensibilità
della sua famiglia.
I limiti delle società postmoderne
Il multiculturalismo quale originariamente
concepito in Canada, Usa ed Europa era in un
certo senso un «gioco alla fine della storia». In
altre parole, la diversità culturale era vista
come una sorta di orpello al pluralismo liberale che avrebbe portato cibo etnico, abiti colorati e tracce di peculiari tradizioni storiche
in società spesso considerate tediosamente
conformiste e monocolore. La diversità culturale era un qualcosa da professarsi soprattutto nella sfera privata, dove non avrebbe
provocato alcuna grave violazione dei diritti
individuali né sfidato un ordine sociale essenzialmente liberale. Laddove si intrometteva nella sfera pubblica, come nel caso delle
politiche linguistiche in Québec, la deviazione dal principio liberale veniva percepita dalla comunità dominante più come un qualcosa
di irritante che come una seria minaccia alla
democrazia liberale stessa.
Di contro, alcune comunità musulmane oggi
avanzano istanze per i diritti di gruppo che
non si confanno tout court ai principi liberali
dell’uguaglianza individuale. Tali istanze
comprendono deroghe speciali al diritto familiare valido per tutti gli altri individui della
società, il diritto a escludere i non musulmani
da particolari eventi pubblici, o a mettere in
discussione la libertà di parola in nome del
rispetto verso la religione (come nella vicenda delle vignette danesi). In qualche caso più
estremo, le comunità musulmane hanno addirittura manifestato l’ambizione di sfidare il
carattere secolare dell’ordine politico tout court. È evidente come diritti di gruppo di questo tipo entrino in conflitto con i diritti degli
altri individui della società, trascinando l’autonomia culturale ben al di là della sfera privata.
Chiedere ai musulmani di rinunciare ai diritti di gruppo, però, è molto più difficile in Europa che negli Usa, perché numerosi paesi
europei hanno tradizioni corporativiste che,
continuando a rispettare i diritti delle comunità, non riescono a separare efficacemente
Chiesa e Stato. L’esistenza, in molti paesi europei, di scuole cristiane ed ebraiche finanziate dallo Stato rende assai problematiche le
battaglie di principio contro i sussidi statali a
favore dell’educazione religiosa musulmana.
In Germania, lo Stato riscuote le tasse per
conto delle chiese cattoliche e protestanti,
distribuendo il ricavato alle scuole religiose.
(Si tratta di un retaggio del Kulturkampf di
Bismarck contro la Chiesa cattolica). Persino
la Francia, con la sua solida tradizione repubblicana, non è stata coerente sotto questo
aspetto. Dopo la campagna anticlericale della
Rivoluzione francese, Napoleone reintegrò il
ruolo della religione relativamente all’istruzione e si avvalse di un approccio corporativista nel gestire i rapporti tra Stato e Chiesa. Il
rapporto tra Stato e comunità ebraica francese, ad esempio, è regolato dal ministro dei
Culti attraverso il Concistoro israelita, che è
servito da modello a Nicolas Sarkozy nel suo
recente tentativo di istituire un autorevole in-
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terlocutore musulmano che si faccia portavoce (controllandola) della comunità musulmana francese. Anche la legge del 1905, con la
quale venne sancito il principio della laïcité,
contemplava alcune eccezioni. In Alsazia, ad
esempio, lo Stato finanzia tuttora scuole religiose.
Queste isole di corporativismo, dove alcuni
Stati europei continuano a riconoscere ufficialmente i diritti delle comunità, non hanno
rappresentato un problema sino all’arrivo di
folte comunità musulmane. La gran parte
delle società europee erano ormai divenute
completamente secolari, pertanto tali brandelli di religiosità apparivano del tutto innocui. Ma hanno fornito importanti precedenti
alle comunità musulmane, e costituiscono un
ostacolo al mantenimento di un muro di separazione tra Stato e religione. Se l’Europa
intende stabilire il principio liberale del pluralismo basato sugli individui piuttosto che
sui gruppi, dovrà affrontare il problema di tali istituzioni corporativiste ereditate dal passato.
L’altra chiave per risolvere il problema dell’integrazione dei musulmani è legata alle
aspettative e al comportamento delle comunità europee maggioritarie. L’identità nazionale è ancora percepita e praticata in modo
tale da costituire talvolta una barriera per i
nuovi arrivati che ignorano l’etnicità e il
background religioso dei nativi. L’identità nazionale è sempre stata il frutto di una costruzione sociale: è imperniata sulla storia, i simboli, gli eroi che una comunità racconta di sé.
Questo senso di attaccamento a un luogo e a
una storia particolari non va cancellato, ma
occorre renderlo quanto più accessibile ai
nuovi cittadini. In alcuni paesi, segnatamente
la Germania, la storia del XX secolo ha reso
imbarazzante qualsiasi discussione attorno
all’identità nazionale. Eppure, è un discorso
che va riaperto, proprio alla luce della nuova
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Santiago Sierra
Il dilemma dell’immigrazione e dell’identità converge con la più ampia questione
della mancanza di valori nell’era postmoderna. L’ascesa del relativismo
ha reso più ardua l’affermazione di valori positivi e, quindi, del tipo di credenze
condivise richieste agli emigranti quale condizione per ottenere la cittadinanza
diversità che caratterizza il Vecchio Continente. Se, infatti, gli attuali cittadini non attribuiscono alla loro cittadinanza nazionale
l’importanza che merita, come possono i paesi europei aspettarsi che lo facciano i nuovi
arrivati?
Ma è un discorso che si va riaprendo. Qualche anno fa, in Germania i cristiano-democratici hanno timidamente lanciato l’idea di
una Leitkultur, nozione secondo cui la cittadinanza tedesca comporta determinati obblighi in termini di rispetto di standard di tolleranza e di uguaglianza. La parola Leitkultur –
traducibile con «guida» o «cultura di riferimento» – fu coniata nel 1998 da Bassam Tibi,
accademico tedesco di origini siriane, a significare appunto un concetto di cittadinanza
universalistico e non etnico, che avrebbe
aperto le porte dell’identità nazionale ai cittadini di etnia non tedesca. A dispetto di tali origini, l’idea venne subito denunciata dalla sinistra quale razzista e fautrice di un ritorno
all’infelice passato della Germania. Così, i
cristiano-democratici ne presero ben presto
le distanze. Da qualche anno a questa parte,
però, anche la Germania ha visto un dibattito
pubblico molto più vivace attorno all’identità
nazionale e l’immigrazione di massa. Lo
scorso anno, durante i fortunati mondiali di
calcio, la diffusa manifestazione di un moderato sentimento nazionale è parsa assolutamente normale, ed è stata persino bene accolta dai paesi vicini della Germania.
Come integrare gli immigrati
Pur partendo da una posizione completamente differente, l’America potrebbe avere
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qualcosa da insegnare agli europei che, oggi,
tentano di elaborare modelli postetnici di cittadinanza e appartenenza nazionali. La vita
americana abbonda di cerimonie e rituali semireligiosi volti a celebrare le istituzioni politiche democratiche del paese: le cerimonie di
alzabandiera, il giuramento di naturalizzazione, il giorno del Ringraziamento e il 4 luglio. Gli europei, invece, hanno ampiamente
deritualizzato la loro vita politica. Tendono a
essere cinici o indifferenti dinanzi alle esibizioni del patriottismo Usa. Ma cerimonie di
questo tipo sono importanti ai fini dell’assimilazione dei nuovi immigrati.
L’Europa conta diversi precedenti quanto alla
creazione di identità nazionali che non si fondano – o lo fanno in misura minore – su etnicità o religione. Il caso più celebre è quello
del repubblicanesimo francese, il quale, nella
versione classica, si rifiutava di riconoscere
le varie identità comunitarie, avvalendosi del
potere dello Stato per omogeneizzare la società francese. A seguito della proliferazione
del terrorismo e dei disordini urbani, la Francia ha ospitato un intenso dibattito attorno al
perché del fallimento di tale modello di integrazione. Parte della risposta potrebbe risiedere nel fatto che i francesi stessi hanno rinunciato al vecchio concetto di cittadinanza a
favore di una particolare versione del multiculturalismo. Nel 2004, con la messa al bando
del velo, si è voluto riasserire un vecchio
ideale repubblicano.
Di recente, la Gran Bretagna si è ispirata alle
tradizioni americana e francese nel tentativo
di accrescere la visibilità della cittadinanza
nazionale. Il governo laburista ha introdotto
cerimonie di conferimento della cittadinanza
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
come pure test di lingua e cultura per gli
aspiranti britannici. Oltre a veri e propri corsi
di cittadinanza, destinati ai più piccoli, in tutte le scuole. La Gran Bretagna ha visto un notevole aumento dell’immigrazione negli ultimi anni, soprattutto in provenienza di nuovi
Stati membri dell’Ue quali la Polonia e, a
emulazione degli Usa, il governo considera il
fenomeno come fattore chiave del suo relativo dinamismo economico.
Gli immigrati sono benvenuti fintantoché lavorano, invece di attingere alle risorse del
welfare e, grazie a un mercato del lavoro flessibile stile Usa, chi cerca un lavoretto non ha
che l’imbarazzo della scelta. Nella gran parte
degli altri paesi europei, però, il connubio di
codici di lavoro inflessibili e sussidi generosi
fa sì che gli immigrati arrivino in cerca non di
un lavoro ma del welfare. Molti europei sostengono che il welfare Usa, proprio perché
meno generoso, toglie ai poveri anche la dignità. È vero il contrario: la dignità viene garantita proprio dal lavoro e dal contributo che
il singolo offre, con il proprio sacrificio, alla
società intera. In diverse comunità musulmane europee, circa la metà della popolazione
sussiste grazie al welfare, contribuendo direttamente a un senso di alienazione e disperazione.
L’esperienza europea, quindi, non è uniforme. In quasi tutti i paesi, però, si sta aprendo
un dibattito attorno all’identità e all’emigrazione, sebbene sia dovuto – almeno in parte –
agli attacchi terroristici e all’ascesa della destra populista.
Il dilemma dell’immigrazione e dell’identità
converge, in ultima analisi, con la più ampia
questione della mancanza di valori nell’era
postmoderna. L’ascesa del relativismo ha reso più ardua l’affermazione, da parte dei cittadini della società postmoderna, di valori
positivi e, quindi, del tipo di credenze condivise richieste agli emigranti quale condizione per ottenere la cittadinanza. Le élite postmoderne, soprattutto quelle europee, sentono di essersi evolute al di là delle forme di
identità definite da religione e nazione, e di
essere pervenute a uno stadio superiore. Ma
nonostante le celebrazioni di sconfinata diversità e tolleranza, la società postmoderna
trova difficoltà a convenire sull’essenza della
felice convivenza cui aspira.
L’immigrazione ci impone in modo particolarmente stringente una discussione attorno
al «Chi siamo?» di Samuel Huntington. Se le
società postmoderne intendono approdare a
un più serio dibattito sull’identità, dovranno
svelare le virtù positive che definiscono l’appartenenza a una società allargata. Altrimenti, rischiano di essere sopraffatte di chi è più
sicuro della propria identità.
© Prospect
(Traduzione di Enrico Del Sero)
Santiago Sierra
Arte al limite e diritti della creatività
di Sebastiano Maffettone
mergenze» ci invita riflettere sul
rapporto tra etica ed estetica. Cercherò di farlo in generale e nell’ottica dei diritti umani in particolare. I diritti
umani costituiscono oggi il linguaggio normativo essenziale della politica internazionale. Rappresentano una premessa etico-politica ineliminabile della convivenza umana in
tempi complessi. La loro universalità è controversa, se la si guarda nell’ottica del pluralismo culturale. Ma la loro utilità, se ci sta a
cuore la pace del mondo, è difficilmente negabile. Proprio per questo motivo, credo che
l’esperienza artistica non possa trascurarli
«E
***
Ho imparato negli anni che bisogna avere rispetto per l’arte. Ciò vuol dire che, quando
l’opera è significativa, l’arte si commenta da
sola. E c’è poca necessità di commentarla in
maniera indipendente ed esterna. Anzi, così
facendo si rischia di travisare. E si incorre nel
ridicolo. Ricordo un piccolo episodio in proposito. Accadde circa trent’anni fa, a Napoli.
Una Napoli come sempre molto sensibile al
richiamo dell’arte contemporanea, in cui Lucio Amelio era riuscito a creare quel meraviglioso connubio che fu il lungo incontro artistico e umano di Beuys e Warhol. Una Napoli
in cui noi eravamo tutti presi da una clima di
effervescenza quasi euforica, che ci faceva
sembrare normale pensare che l’arte fosse
un modo, forse addirittura «il» modo, per
creare una comunicazione altra. E, attraverso questa, rinnovare la dialettica dei rapporti
tra persone e cose nella nostra società. In
questo clima fin troppo benevolo, la rivisitazione partenopea dell’arte concettuale ci
sembrava un modo quasi esplicito per mettere sottosopra le cose del mondo. E, insomma,
per creare una fusione non banale tra etica
ed estetica. Sotto queste premesse, una giovane rivista alternativa di arte – se non ricordo male si chiamava «Flash» – propose ad alcuni intellettuali di prestigio, tra cui Argan e
Galasso, quattro domande solo apparentemente ingenue su arte, mercato e libertà intellettuale. Le domande (vado sempre a memoria) erano le seguenti:
• che cosa è una galleria d’arte?
• che cosa potrebbe essere una galleria d’arte?
• che cosa non dovrebbe mai essere una galleria d’arte?
• lei (l’intervistato), che mestiere fa?
Il contenuto delle risposte degli invitati non
lo ricordo. Ma ricordo la sensazione che davano. Erano nel complesso risposte impervie,
poco credibili, che sfidavano talvolta l’umorismo involontario. Fin quando non fu pubblicata l’intervista al mio vecchio amico Leo
Aloisio, un professore di logica matematica
che si era occupato molto di arte contemporanea. Aloisio prese sul serio le domande. E
rispose nello stesso icastico modo alle prime
tre. La sua risposta era «una galleria d’arte».
In sostanza, una galleria d’arte, secondo Aloisio, altro non era e non poteva essere che una
galleria d’arte, e in questo c’era la sua forza e
il suo limite. Alla quarta domanda, «che mestiere fa?», Aloisio rispose il «tautologo», chiudendo una volta per tutte il cerchio.
Bene, da allora in poi, tutte le volte che mi sono occupato di estetica ed etica, arte e politica
ecc. ho cercato di mantenere un equilibrio,
precario quanto si vuole ma indispensabile,
tra una pretesa radicale dell’arte e una sana
prudenza del concetto. Così, quando su «Panorama», circa vent’anni fa, sostenni una visione in cui congiungevo la natura liberale
della politica, una visione socialista dell’economia e una rivoluzionaria dell’arte, presentai quest’ultima con tanta cautela da renderla
misteriosa. E lo stesso può dirsi per il documento che scrissi, su invito di Massimiliano
Fuksas, sul tema «Less esthetics, more
ethics!», in occasione di una biennale di architettura in cui lo stesso Fuksas era direttore. E per le copertine della rivista filosofica
che ho fondato, «Filosofia e questioni pubbliche», studiate con Cornelia Lauf, con lo scopo
di affiancare arte e politica, estetica ed etica.
E per quei pochi interventi in cui mi sono
permesso direttamente di commentare l’opera di un artista (meglio di un amico/a artista,
come Betta Benassi).
Eppure tanta prudenza non è dovuta a scetticismo. Ma, come detto, solo a rispetto per la
tesi secondo cui l’opera d’arte non deve essere svelata da fuori ma deve piuttosto parlare
da sola. Eppure, io credo con convinzione
che l’arte sia una forma di conoscenza, come
vuole tutta una tradizione di pensiero da Hegel e Croce a Nelson Goodman. E sono anche
persuaso, contrariamente a Hegel e a Croce,
che non si tratti di un’epistemologia minore,
cui magari la filosofia è destinata a fornire un
coronamento concettualmente indispensabile. Arte, per quel che credo, è conoscenza a
pieno titolo. Con una potenzialità interna di
destrutturare le certezze ontologiche e la pigrizia assiomatica, che altre forme di conoscenza non hanno. In fondo, da questo punto
di vista siamo fortunati. Chiunque filosoficamente non ingenuo sia stato esposto a quella
Chi è
Sebastiano Maffettone
ebastiano Maffettone è professore Ordinario di Filosofia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche
della Luiss Guido Carli. È Master of Science presso la
L.S.E. e membro di numerosi comitati scientifici, tra cui la
Fondazione Adriano Olivetti, la Fondazione Einaudi e la
Fondazione Ernst&Young.
Dirige due collane editoriali (c/o Liguori e il Saggiatore) e la rivista «Filosofia e questioni pubbliche» (LuissEdizioni). Tra le sue pubblicazioni: Fondamenti del liberalismo (Laterza, 1996); Il valore della vita (Mondatori,
1998), Etica pubblica (Il Saggiatore, 2001), La pensabilità del mondo (Il Saggiatore, 2006).
S
Betta Benassi, Mirage, 2005. Stampa lambda a colori, cm 27 x 40. Courtesy l’artista, Magazzino d’Arte Moderna, Roma
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Santiago Sierra
L’arte negata rivela molto sul tema che discutiamo oggi. L’idea stessa di reprimere
la creatività e l’espressività dell’umano costituisce una premessa
per la repressione dell’umano in quanto tale. Quelli della Germania nazista e della
Russia stalinista sono fin troppo facili esempi in proposito
temperie dell’arte visuale che – dal dadaismo
a Duchamp – ha mosso queste cose, dovrebbe essere consapevole del valore cognitivo
dell’arte.
Se diamo per scontato qualcosa del genere, e
cioè che l’arte visuale rappresenta una forma
sui generis di conoscenza, bisogna vedere in
che modo questa conoscenza influisce sul resto delle nostre convinzioni epistemiche ed
etiche. C’è un modo pigro di risolvere questo
rapporto. È il modo incentrato su decostruzione-opposizione. In questo paradigma, abbastanza popolare ma mai esplorato a sufficienza, l’esperienza estetica si contrappone
in quanto tale a quella intellettuale classica,
per esempio filosofica e scientifica, in quanto
la prima lavora, se così si può dire, per immagini e salti logici mentre la seconda per argomenti e deduzioni. Credo francamente che
una visione dl genere sia falsa e forviante.
Nessuno nega – io credo – una capacità decostruttiva dell’opera d’arte. Il punto, però, consiste proprio nel vedere in che modo tale capacità interseca e corregge quella argomentativa e critica, che è propria di altre attività
squisitamente cognitive dalla scienza alla filosofia.
Prendiamo allora sul serio un impegno cosiffatto. Secondo questa tesi riconciliativa, l’arte
epistemicamente matura non si limita a contrapporsi alla realtà esistente come un’alterità. Questa sua funzione esiste ed è importante, e dà senso all’intuizione per cui l’arte è essenzialmente antiomologazione. Ma l’arte
epistemicamente matura non si limita a questo. Essa ha anche una funzione costruttiva.
Oltre a opporsi al quotidiano e alla sua riproduzione banalizzante, l’arte propone e ripropone modi di vedere il mondo.
Sembra evidente che, anche se si accetta una
premessa ardua come questa e cioè che l’arte
rappresenti una costruzione di realtà sui generis, non si sia ancora detto niente sul rap-
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porto tra estetica nell’ottica dei
diritti umani, problema cui pure
questo intervento è diretto. Ma
questo vuol dire solo che la premessa epistemica per cui l’arte
costruisce un mondo sui generis
è necessaria ma non sufficiente
ad affrontare un problema etico-estetico. Sorge allora la questione: con che altro dobbiamo
completare la nostra proposta
per tentare di rispondere all’interrogativo di fondo sul rapporto tra etica ed estetica?
Cercherò di rispondere a questa
domanda in un modo che può
apparire ambizioso (anche troppo…), ma che in realtà vuole essere molto semplice, direi il più
semplice possibile. Se l’arte è
sempre simbolo di una realtà
che evoca, allora essa richiama
in particolare una questione morale, che ha a
che fare con i diritti umani, allorché fa appello alla creatività dell’umano in maniera esplicita o implicita. Questa espressione ha bisogno di chiarimenti. Perché è probabile che
l’arte faccia riferimento sempre alla creatività umana. Fatto è però che ci sono occasioni e
contesti in cui questa sovrapposizione risulta
più evidente e significativa. E sono questi
momenti speciali cui bisogna guardare per
rispondere adeguatamente alla domanda iniziale che questa giornata ci pone.
Questi momenti speciali hanno a che fare in
particolar modo con la negazione. Con l’imposizione di divieti, intendo, che tendono a
rendere impossibile quel compito di creazione di mondi e di affermazione della creatività
umana di cui si diceva. Aristotele sosteneva
che per parlare della giustizia conviene spesso partire dall’evidenza dell’ingiustizia. E
Platone diceva che l’arte rischia di essere un
nemico fondamentale dell’ottima repubblica.
Se congiungiamo queste due tesi celebri, otteniamo qualcosa di simile a quanto io intendo dire. Certe volte, il potere presuppone che
l’arte possa essere un nemico e cerca di impedirle di svolgere quel compito di esprimere
creativamente il diverso, che costituisce l’essenza stessa dell’opera d’arte. Ma proprio in
questi casi, sarei per dire dialetticamente,
l’arte negata rivela se stessa in maniera più
forte, e finisce per costituire una minaccia
autentica per il potere.
È in casi del genere che l’impossibilità estetica si converte in vicenda etica. Il non potere
rendere conto della creatività umana diviene
così il segno di una profonda violazione morale. Robert Hughes, in quella straordinaria
vicenda di storia antropologica che è il suo libro The Fatal Shore, narra dei detenuti inglesi inviati a occupare quella che sarebbe divenuta poi l’Australia. L’impatto di guardie e detenuti, militari e civili britannici con le popo-
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lazioni aborigene del luogo rappresenta il
cuore della prima parte del libro di Hughes.
La difficoltà del rapporto con l’altro si traduce
in questo caso nella difficoltà di riconoscere
che l’altro ci sia. Meglio, nella sistematica negazione dell’umanità dell’altro. Questa negazione – è stato più volte notato – accompagna
di regola i genocidi nella storia. I serbi non riconoscono i musulmani come umani nella ex
Jugoslavia e suppongo viceversa, più o meno
come i tedeschi nazisti negavano l’umanità
degli ebrei. Allo stesso modo i britannici di fine XVIII secolo di Hughes negano l’umanità
degli aborigeni australiani. Ma, per farlo,
hanno anche bisogno di negare che gli aborigeni possiedano un linguaggio e siano in grado di produrre opere d’arte. Siccome queste
due cose sono evidenti a tutti, poiché gli aborigeni parlano e sono artisti, siamo al cospetto di una negazione clamorosa. Una negazione che consente di trattare gli aborigeni come bestie. Di privarli, in altre parole, dei diritti umani. Ma la privazione dei diritti umani
implica che l’arte, la possibilità stessa di produzione artistica, sia negata nella maniera
più clamorosa e falsa.
In sostanza, togliere capacità artistica equivale a negare l’umanità dell’altro. Come conseguenza di ciò, quanto più un potere è illiberale e totalizzante, tanto più può avere un interesse naturale a bloccare, impedire, irreggimentare l’arte. Quelli della Germania nazista e della Russia stalinista sono esempi fin
troppo facili in proposito. E, lo si noti, la dittatura non nega l’arte in quanto tale ma solo
un’arte libera e alternativa, come tale non
controllabile. L’arte «degenerata», temuta dai
dittatori, è proprio l’arte capace di esprimere
la creatività dell’umano, di cui si diceva. Ed è
anche l’arte epistemicamente matura. Ed è
l’arte tout court alla fine della fiera.
Ma, come si vede, c’è una forte relazione tra
questa negazione artistica e la privazione dei
diritti umani fondamentali, quali quelli alla
vita e alla libertà.
L’arte negata rivela quindi molto sul tema
che discutiamo oggi. L’idea stessa di reprimere la creatività e l’espressività dell’umano costituisce una premessa per la repressione
dell’umano in quanto tale. Molti artisti contemporanei hanno tematizzato, talvolta in
maniera più diretta talaltra meno, qualcosa
del genere. C’è poco dubbio che tra quelli che
lo hanno fatto in maniera esplicita e riuscita
ci siano William Kentridge e Santiago Serra,
che espongono loro opere in occasione di
«Emergenze». I disegni di Kentridge e il manifesto marxiano di Serra rivelano un impegno indiscutibile in tale direzione. Ma, per le
ragioni di cui ho detto all’inizio di questo intervento, preferisco l’esperienza estetica delle loro opere a un commento. E lascio agli autori, se ne avranno voglia, l’onore e l’onere di
collegare le loro intenzioni con il nostro tema.
William Kentridge
La scatola nera del mondo
Registrare per riprodurre e non dimenticare
The Black Box
di William Kentridge
Un teatro per l’orrore
di Maria-Christina Villaseñor
La necessità dell’ombra
di William Kentridge
Entro i limiti della sola memoria
Intervista di Avishai Margalit con Giancarlo Bosetti
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William Kentridge
The Black Box
di William Kentridge
L’artista, l’opera
onosciuto a livello internazionale a partire dagli anni Novanta, William Kentridge è nato a Johannesburg (Sud Africa) nel
1955 dove ancora oggi vive e lavora.
Fortemente ancorato in termini etici al suo paese di origine – dove,
ricordiamo, fino al 1994 erano ancora in vigore le leggi di separazione razziale (apartheid) – l’artista, con il suo lavoro, esplora la memoria personale e collettiva con opere che riflettono sul dolore ed il
conflitto nella società contemporanea globalizzata. Per Kentridge il
medium prediletto rimane il disegno e la creazione di film d’animazione realizzati, appunto, a partire da disegni a carboncino filmati a
vari stadi della loro esecuzione.
Alla fine degli anni Ottanta, infatti, inizia la realizzazione di una
serie di cortometraggi intitolata «Disegni per proiezioni». Vi si narrano le vicende di un imprenditore edilizio sudafricano, Soho Eckstein, e del suo fragile alter ego Felix Teitlebaum, sullo sfondo del
dramma dell’apartheid.
Ispirato al drammaturgo francese ottocentesco Alfred Jarry, Kentridge sviluppa, alla metà degli anni Novanta, una serie di opere filmiche e di installazioni basate sul personaggio di Ubu Re, figura di
despota ridicolo e simbolo del potere arbitrario che genera la follia.
Kentridge ha creato, inoltre, insieme alla Handspring Pupper Theatre, varie produzioni teatrali, di cui è regista e scenografo, tra cui:
Woyzeck on the Highveld (1992), Faustus in Africa (1995), Ubu and
the Truth Commision (1996). La sua produzione teatrale è caratterizzata dal complesso modo di correlare e connettere vari livelli di rappresentazione e di narrazione: immagini proiettate vengono utilizzate come fondali, attori e marionette ritagliate in pezzi di legno
ruvido stanno insieme sulla scena.
Altri progetti teatrali particolarmente noti, realizzati negli ultimi
anni, sono le Confessioni di Zeno, ispirato al romanzo di Italo Svevo,
messo in scena nel 2002 con la combinazione di una proiezione
video, di attori reali e di ombre riflesse, e il Ritorno di Ulisse, ispira-
C
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to all’opera di Claudio Monteverdi, proposto in più occasioni a partire dal 1999, con marionette, animazioni e performance dal vivo.
Più recentemente ha curato, per il San Carlo di Napoli, l’opera lirica
Flauto Magico di Mozart (2006).
L’artista ha partecipato alle più importanti rassegne d’arte contemporanea, come Documenta a Kassel nelle edizioni del 1997 e del
2002 e la Biennale di Venezia del 1993, del 1999 e del 2005. Ha, inoltre, tenuto numerose mostre personali nei più importanti musei del
mondo come il Drawing Centre ed il MoMA di New York, il Palais
des Beaux Arts di Bruxelles, il MACBA di Barcellona, l’Hirshhorn
Museum and Sculptur Garden di Washington e il Museum of Contemporary Art di Chicago. È vincitore nel 2003 del prestigioso premio Kaiserring. La sua prima retrospettiva in un museo italiano si è
tenuta nel 2004 al Castello di Rivoli, per poi proseguire in un percorso itinerante che ha toccato i musei di Düsseldorf, Sydney, Montréal
e Johannesburg.
La scatola nera è simbolo di una memoria custodita, ultima traccia
prima del disastro, ed è simbolo della memoria intesa come valore.
Con questo lavoro Kentridge ripercorre la storia del massacro del
popolo Herrero nell’Africa coloniale sud-occidentale da parte dei
Tedeschi alla fine dell’ottocento per riflettere sulla cancellazione
della memoria, sulla rimozione del trauma. Ma la scatola nera è per
l’artista anche la scena teatrale o quella della macchina fotografica,
quindi della rappresentazione, dove i piani si confondono tra realtà
e finzione, manipolazione e libero arbitrio. La memoria diviene
quindi il grande gioco della ricomposizione dove al trauma si contrappone la reinvenzione, alla cancellazione il revisionismo, in una
dinamica che assomiglia molto alla dialettica tra arte e vita.
Da pagina 53 a 58, studi per La Scatola Nera, 2005. Tecnica mista, dimensioni
variabili, courtesy Deutsche Guggenheim, Berlin.
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William Kentridge
Un teatro per l’orrore
di Maria-Christina Villaseñor
«Il mondo coloniale è un mondo
diviso a comparti».
Franz Fanon, I dannati della terra
eneralmente noto come scatola nera,
il registratore composto da due elementi – il flight data recorder e il
cockpit voice recorder – è uno strumento
meccanico progettato per sopravvivere a ciò
a cui gli umani non possono, fornendo trascrizioni verbali e tecniche dei disastri aerei,
registrazioni che possono dimostrarsi utili
per prevenire tragedie future.
Sviluppata nel 1954 dal ricercatore aeronautico David Warren, il cui padre era
morto negli anni Trenta in uno dei più
grandi disastri aerei dell’Australia, la ARL
Flight Memory Unit, come era chiamata un
tempo la scatola nera, era considerata inizialmente di dubbio valore ed era vista con
sospetto dai piloti, diffidenti per via della
sua capacità di spiare le loro attività in
cabina. Ma l’apparecchiatura venne incorporata negli aeroplani in seguito a una
serie di disastri aerei avvenuti negli anni
Sessanta e adesso è un elemento fondamentale nei voli commerciali.
Oggi, questo strano messaggero del disastro,
la cui utilità si fonda su ciò che non dovrebbe accadere – in sostanza, esso è creato per
il fallimento –, è diventato una caratteristica
regolare, sinistramente prevista, delle narrazioni contemporanee del dopo-disastro.
L’impulso di catturare o contenere la tragedia, nel tentativo di evitarne la ripetizione,
G
appare al nocciolo di queste storie. La funzione documentaristica, che è al cuore della
fotografia, rivela i due compiti della scatola
nera: essa mostra sia gli aspetti spettacolari
che quelli riservati della tragedia. Il potere
di indicizzazione della fotografia – come catturato nella chambre noire – converge con le
trascrizioni tragiche della scatola nera, del
cockpit voice recorder. È questa capacità
schiacciante, traumatica, che Kentridge
cerca di racchiudere nel suo lavoro.
In tutta l’opera di Kentridge si trovano scatole e altri contenitori incapaci di assolvere il
loro compito principale: mantenere coperto
ciò che contengono. In Felix in Exile, una
valigia svolge un ruolo centrale nel dramma.
Immagini di cadaveri e corpi feriti volano
fuori dal bagaglio coprendo la stanza di Felix
Teitlebaum, un sudafricano bianco, e incrociandosi per invadere altre scene. Mentre
Felix lotta per gestire quelle immagini,
Nandi, una donna sudafricana nera, osserva
in maniera analitica il paesaggio utilizzando
gli strumenti dell’indagine. Le immagini
dalla valigia di Felix e l’obiettivo di Nandi si
sovrappongono rivelando scene cruente,
piene di liquidi trasudanti, sangue e acqua.
Nonostante il tentativo di contenere la violenza del Sudafrica, i corpi feriti e il trauma
sono ora terra della terra. Ma è anche questa
infiltrazione, che rappresenta la tragedia
collettiva della nazione, che riesce a unire i
due personaggi. Considerando la fonte fotografica del suo immaginario per Felix in
Exile, l’artista ha detto: «Una fotografia veniva dal massacro di Sharpeville. All’epoca,
avevo sei anni e mio padre era uno degli
avvocati delle famiglie che erano state uccise. Ricordo di essere entrato una volta nel
suo studio e di aver visto sulla sua scrivania
una scatola della Kodak, larga, piatta, gialla,
la aprii – sembrava una scatola di cioccolatini. All’interno c’erano immagini di una
donna la cui schiena era esplosa, di una persona di cui era visibile solo metà testa. L’impatto di quelle immagini, viste per la prima
volta – quando avevo sei anni –, lo shock
furono immensi».
Le nozioni di contenimento – di ciò che
forma il significato e ospita effettivamente il
ricordo, di ciò che noi scegliamo o siamo
capaci di conservare a seguito di un trauma
o di una perdita – sono richiamate alla
mente anche nella recente serie di proiezioni di Kentridge sugli oggetti. In Sleeping on
Glass (1999), viene mostrato un video
proiettato sullo specchio di un’antica cassettiera in uno spazio distante dalla parete, con
la sua presenza spettrale che risplende
anche quando la proiezione ha svolto il suo
ciclo. La presenza, allo stesso tempo imponente eppure confortante, dell’opera suggerisce il ruolo che gli oggetti quotidiani svolgono nell’infanzia, quando qualsiasi oggetto
può trasformarsi in un orco e una coperta
può calmare e riscaldare quasi come un
genitore. Allo stesso modo, nella video-scultura Medicine Chest (2001), un video proiettato all’indietro sullo specchio di un armadietto dei medicinali, un altro contenitore
quotidiano, opera come una metonimia. Il
video ritrae alternativamente l’interno della
Chi è
Maria-Christina Villaseñor
aria-Christina Villaseñor è associate curator di Film and Media
e cura mostre di film e media art per il Solomon R. Guggenheim Museum di New York, oltre che per i musei Gugghenheim di Berlino e Bilbao.
Tra i progetti che ha curato di recente per il Guggenheim ci sono le
mostre William Kentridge: Black Box/Chambre Noire, In the Air: Projections of Mexico e Bill Viola: Temporality and Transcendence. È stata
anche guest-curator dei programmi media di numerose organizzazioni
come Creative Time ed Exit Art, e ha organizzato e portato in tour programmi filmici a livello internationale in luoghi come l’Havana International Film Festival, il Museo de Bellas Artes di Buenos Aires e il Febio
Fest di Praga.
Scrive di film, video e fotografia per riviste e recentemente ha curato un
catalogo di William Kentridge ed è stata co-autrice/curatrice dei cataloghi Conversations between Shadows and Light: Italian Cinematography,
e Tom Sachs: Nutsy’s. Tra i comitati e le giurie in cui ha lavorato ci sono
la giuria del Premio Hugo Boss, il media fellowship panel della Fondazione Rockefeller, il documentary panel del National Endowment for
Humanities, e la giuria dell’Accademy of Motion Picture Art and Science’s Student Awards.
M
Studio per il Flauto magico, 2005 tecnica mista (particolare)
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William Kentridge
Nel Black Box, Kentridge esplora le difficoltà nella rappresentazione del trauma
storico, nella ricostruzione di eventi e persone attraverso
le lenti di un tempo, un luogo e una politica particolari, sia per mezzo
dell’apparato cinematografico che della pseudoscienza sulla razza
Studio per La Scatola Nera, 2005. Tecnica mista, courtesy Deutsche Guggenheim, Berlin
scatola (e gli oggetti sui suoi scaffali) e il suo
insieme esteriore, affrontando le ansie personali attraverso autoritratti dell’artista che
vediamo come «immagini riflesse» nello
specchio. Protagoniste di una danze sineddotica – una parte per il tutto, o il tutto per
una parte –, esse chiedono se si possa mai
catturare pienamente, completamente una
qualsiasi cosa. Il trauma recede mai davvero? Può essere contenuto? La storia che
incombe di più nell’opera di Kentridge è il
rapporto complesso, profondamente intrecciato tra l’Europa e l’Africa, il rinoceronte
nella stanza, per così dire, una presenza che
non può mai essere ignorata.
La serie Drawings for projections di Kentridge e opere come Ubu Tells the Truth trattano
specificatamente delle storie del Sudafrica,
ma Kentridge ha affrontato anche in maniera più ampia l’impegno problematico dell’Occidente nel continente e con il concetto
di Africa. L’opera teatrale del 1995 Faustus in
Africa! era, in parte, intesa come una replica
all’asserzione hegeliana secondo cui, fatta
eccezione per l’Egitto, l’Africa era un continente fuori dal corso della storia, privo dello
spirito del mondo. Nella rappresentazione,
Kentridge ha trasposto il Faustus di Goethe
(1808/1832), in un contesto coloniale africano. Combinando frammenti del classico di
Goethe a nuovi testi del poeta sudafricano
Lesego Rampolokeng, Kentridge ha inteso
«individuare un luogo dove la rappresentazione smette di essere un’alterità scoraggiante – il peso dell’Europa che poggia sulla
60
punta meridionale dell’Africa – e diventa
un’opera nostra». Kentridge ha esaminato la
difficoltà di trattare dell’apartheid. Riferendosi a esso come alla «roccia», l’artista ha
affermato: «Non si può affrontare la roccia
frontalmente. La roccia vince sempre». L’interesse dell’artista per la tirannia della storia
e l’onnipresenza della roccia, con la sua solidità che implica un’impasse, è certamente in
discussione in un elemento del contenuto di
Black Box: il massacro della tribù herero
nella Africa coloniale sudoccidentale.
Considerato da alcuni storici il primo genocidio del XX secolo, il massacro tedesco
degli herero nell’Africa sudoccidentale ebbe
come risultato quasi l’annientamento della
tribù. Nel 1885 l’Africa sudoccidentale (ora
Namibia) divenne un protettorato tedesco.
La Rhineland Missionary Society, tra le
prime a iniziare le attività di colonizzazione
nella regione, tentò inizialmente di convertire i popoli nativi al cristianesimo, e proseguì
con la creazione di fattorie e, infine, impadronendosi della terra. L’obiettivo esplicito
del Ministero delle Colonie tedesco era mantenere la pace nella regione, ma esso sosteneva anche – e, alla fine, incoraggiava – l’ulteriore insediamento da parte dei bianchi.
L’obiettivo venne raggiunto, in parte, con
espropriazioni dirette della terra herero,
trattati fraudolenti e pratiche usurarie che
portarono gli herero a cadere in un circolo
di debiti sempre crescente che, in genere,
ebbe come conseguenza la perdita del loro
bestiame e delle loro proprietà. Man mano
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
che i coloni usurpavano ed
espropriavano la loro terra,
la frustrazione degli herero
cresceva.
Samuel Mahareru, il capo
degli herero che era stato
considerato dai tedeschi un
collaboratore
condiscendente, subì le pressioni della
sua comunità a rispondere
alle ingiustizie crescenti.
Nel 1904, ordinò ai suoi sottoposti di attaccare direttamente i dominatori tedeschi
dando esplicite istruzioni di
evitare di uccidere donne,
bambini, missionari, coloni
inglesi, boeri e membri di
altre tribù. La rivolta degli
herero colse i coloni completamente di sorpresa. Si
stima che vennero uccisi
circa 150 tedeschi, in larga
parte agricoltori; gli herero
riuscirono a scacciarli dalla
loro terra e a catturare il
loro bestiame. Sbalorditi da
questi sviluppi, i tedeschi
prepararono un deciso contrattacco. Il Kaiser nominò a
guidare la lotta il generale Lothar von Trotha, noto per la sua durezza nel reprimere le
rivolte nell’Africa orientale e in Cina. Trotha
articolò le sue opinioni sul conflitto herero
nella lettera che segue: «Per me c’è solo una
domanda: come mettere fine alla guerra? Le
idee del governatore e degli altri uomini d’Africa sono diametralmente opposte rispetto
alle mie. Per lungo tempo hanno voluto
negoziare e hanno insistito che gli herero
erano una materia prima necessaria per il
futuro della terra. Sono totalmente contrario
a questa opinione. Credo che la loro nazione
in quanto tale vada distrutta o che, ove questo non fosse possibile da un punto di vista
militare, allora gli herero vadano cacciati
dalla loro terra. Lo si può fare occupando i
pozzi d’acqua da Grootfontein a Bobabis e
con una vigorosa attività di pattugliamento
che fermi coloro che cercano di spostarsi
verso occidente e li annienti gradualmente… Questa rivolta è e rimane l’inizio di una
guerra razziale». Per sfuggire al massacro
che seguì, molti degli herero fuggirono nel
deserto Omaheke tentando di raggiungere la
salvezza.
Questo percorso di fuga venne anticipato e
incoraggiato dai tedeschi. Le condizioni climatiche estremamente dure dell’Omaheke
causarono migliaia di morti, che si andarono
ad aggiungere al numero già significativo di
coloro che erano stati uccisi direttamente
dalle truppe. Nonostante le contestazioni dei
tedeschi, sia in colonia che in patria, alle
misure genocide di Trotha, quest’ultimo non
William Kentridge
Nell’esplorazione metaforica del teatro di Kentridge, la camera oscura e il registratore
di volo, la flessibilità e la fissità sono chiamate in causa allo stesso modo.
Resistendo alla chiusura, l’opera problematizza semplificazioni della storia
utilizzando termini rigidi del passato e del presente
venne rimosso dal comando fino al 1905, familiare che «sarebbe dovuto restare nasco- zioni semplicistiche della storia utilizzando
dopo che il 75% della popolazione herero sto ma è venuto alla luce» nella definizione termini rigidi del passato e del presente, della
era stata decimata.
di Freud di perturbante, l’opera di Kentridge vittima e di colui che vittimizza, dello spettaNel 1914 il Sudafrica prese il controllo del- lotta per contenere queste storie di lutto e colo e dello spettatore.
l’Africa sudoccidentale e governò con la trauma.
Degli ideali dell’era illuminista che, per priforza fino a che la Namibia non ottenne l’in- I concetti di elaborazione del lutto, con una mi, hanno condotto al concetto di Black Box
dipendenza nel 1990. Questo dato storico si particolare attenzione all’«elaborazione», o di Kentridge uno in particolare, infine, richielega all’identità sudafricana di Kentridge processo, sono state utilizzate recentemente de di essere riesaminato: il suggerimento di
spingendolo a mettere in dubbio le nozioni per analizzare le nazioni che lottano per ve- Cartesio secondo cui gli animali non sono di
di complicità, espiazione e dolore. Black Box nire a patti con traumi sia recenti che rimos- ordine più elevato di macchine sofisticate,
esplora le difficoltà inerenti alla rappresen- si. Il lavoro dello studioso James E. Young sui che la carne, le ossa e le giunture del loro
tazione del trauma storico, alla ricostruzione memoriali del dopo Olocausto si concentra corpo possono essere sostituiti da acciaio, pidi eventi e persone attraverso le lenti di un su una generazione di artisti del dopoguerra stoni o ingranaggi. Questa scivolosa allegoria
tempo, un luogo e una politica particolari, che considerano un monumento «una grande potrebbe facilmente essere estesa ai corpi di
sia per mezzo dell’apparato cinematografico roccia che dice alla gente cosa pensare». La certi umani, a chiunque capiti di essere atche delle costruzioni pseudoscientifiche roccia, inamovibile e permanente, nella for- tualmente soggiogato dalla classe di uomini
della «razza». Ancora una volta, non c’è mulazione di Young come in quella di Ken- dominante, «cogitante». Dagli automi-marioimmobilità al di fuori dell’opera di Kentrid- tridge, crea uno spazio fisso, limitato, per il nette ai rinoceronti agli herero, non ci vuole
ge. Black Box ci coinvolge nel nostro crede- ricordo ma è necessaria invece, una medietà, niente più che una semplice trasposizione.
re e non credere, nella nostra meraviglia e un porre-in-essere, che non parla in termini Nelle nostre «rappresentazioni» – che siano
nella nostra fredda intelligenza, nel buio e rigidi di passato e presente. L’opera di Ken- maquettes/teatri in miniatura, proiezioni di
nella luce. Il ciclo si ferma solo per iniziare tridge offre questo nuovo spazio al significa- un Altro esotico o sogni di «perfezione» in cui
di nuovo; è in perpetuo movimento.
to, come ha auspicato il teorico Homi Bhab- automi senza volontà individuale seguono lo
Kentridge ritorna al tema del contenimento ha, al di là delle dicotomie, estendendo il pro- scritto di un grande autore – ogni apparato,
della tragedia in un dipinto per Black Box, cesso dialettico alla creazione di un «terzo ogni strumento, alla fine, trova la propria
una resa bianca su carta nera di una sorta di spazio» che sfida e capovolge costantemente funzione, il proprio uso ideologico. Il teatro
uomo-megafono, che urla la parola «Traue- le nozioni di fissità in un esame auto-riflessi- dei sogni diventa teatro di guerra e sta all’arrarbeit». Trauerarbeit, o «elaborazione del vo del processo e della possibilità.
tista e allo spettatore scisso decostruire e colutto», è un concetto sviluppato da Sigmund I temi dell’agenzia e della volontaria sospen- struire continuamente nella loro mente: terFreud in Lutto e melanconia (1917) quando sione dell’incredulità sono al cuore di Black minare e iniziare, mantenere la storia, la mediscuteva della necessità di riconoscere uno Box. Nell’esplorazione metaforica del teatro moria e le domande in movimento.
spazio per il lutto. Freud articolò quest’idea di Kentridge, la camera oscura e il registratoDa William Kentridge, Black Box/Chambre Noire,
in un periodo in cui la morte, il morire e le re di volo, la flessibilità e la fissità sono chia- 2005, catalogo mostra Deutsche Guggenheim,
pratiche e i costumi del lutto erano general- mate in causa allo stesso modo. Resistendo Berlino.
mente rimossi dall’ostentazione e dalla dis- alla chiusura, l’opera problematizza costru(Traduzione di Martina Toti)
cussione pubbliche. Come ha
scritto
Tammy
Clewell,
Studio per La Scatola Nera, 2005. Tecnica mista, courtesy Deutsche Guggenheim, Berlin
«Freud ha resistito a questa
repressione culturale della
perdita definendo il lutto
un’elaborazione necessaria,
teorizzando la psiche come
spazio interno per l’elaborazione del lutto e portando la
discussione della perdita nel
dominio pubblico». Comunque, in Lutto e melanconia,
Freud concepì un periodo di
lutto, in un tempo circoscritto. Tuttavia, nel rivisitare il
tema del lutto in scritti successivi alla prima guerra
mondiale e in L’Io e l’Es
(1923), egli rivide radicalmente il suo pensiero precedente postulando allora che
l’elaborazione del lutto è un
lavoro costante, senza fine.
Questo rovesciamento –
Trauerarbeit come scatola
che rifiuta di restare chiusa –
è simile alla metodologia del
rovesciamento di Kentridge e
alle
sue
strategie
del
(non)contenimento. Come il
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
61
William Kentridge
La necessità dell’ombra
di William Kentridge
a capacità dell’ombra di trasformarsi
è una delle qualità fondamentali per
comprenderla. Quando si vede
un’ombra, le si ascrivono le caratteristiche
di una sorta di oggetto solido. Si immagina che abbia una dimensionalità, quando,
in effetti, l’essenza delle ombre è la mancanza di dimensione.
Questo porta al progetto che realizzerò a
Berlino. La trasformazione delle ombre, il
cinema degli esordi, la vaudeville dell’epoca, che era praticata in tutta Europa e
anche negli Stati Uniti sono alcune delle
forme che esaminerò in Black Box. Considererò, tuttavia, queste prime forme con il
senno di poi, tornando a guardarle come
se fossero un progetto illuminista. Chiederò: quale conoscenza abbiamo oggi, e quali
lezioni abbiamo imparato – ora che non è
più il 1791 quando Mozart scrisse la sua
opera?
Berlino, per me, è particolarmente interessante. Pensiamo alla Conferenza di Berlino del 1884-85, in cui, tra le altre cose,
l’Europa spezzettò l’Africa, dividendola tra
le varie potenze europee. Sono particolarmente interessato ai tedeschi nell’Africa
meridionale, quella che all’epoca era conosciuta come l’Africa sudoccidentale, la
Namibia. I missionari e i commercianti
tedeschi arrivarono a colonizzarla nell’ultima parte del XIX secolo e chiesero il
L
sostegno di Bismarck. Dapprima riluttante,
la Germania inviò le proprie truppe in loro
sostegno e, alla fine, l’Africa sudoccidentale venne dichiarata una colonia tedesca.
L’idea del colonialismo e la giustificazione
che l’Europa diede alle proprie azioni
hanno molto a che vedere con il Flauto
magico e con Platone – con il portare la
luce in quello che era definito il «Continente nero», con la forza o senza. E, ovviamente, quello che si apprende dalla storia dell’Africa sudoccidentale, in effetti dalla storia di tutto il colonialismo, è la straordinaria violenza e la distruzione degli ideali
originali che necessariamente seguirono ai
tentativi di metterli in atto attraverso l’uso
della forza.
Nei primi anni del XX secolo, nell’Africa
sudoccidentale, ci fu un enorme massacro,
principalmente della tribù degli Herero.
Sebbene ora sia un episodio quasi dimenticato, messo in ombra da altri massacri e
genocidi tedeschi compiuti più tardi nello
stesso secolo, in molti modi i meccanismi
dei massacri europei successivi erano già
riscontrabili nell’Africa sudoccidentale a
inizio secolo. I teschi delle vittime venivano lavati, puliti e spediti in Germani per
essere misurati, per dimostrare la superiorità dei teschi «ariani». Lo studio dell’antropologia fisica venne istituito in Germania ben prima che i nazisti giungessero al
Disegno per Il Flauto Magico, 2005. Carboncino e pastello su carta 120 x 160 cm
potere. C’è anche una serie di questioni
relative alla storia dell’Africa meridionale
e alla fine dell’illuminismo – o alla fine, ai
costi, dell’Illuminismo – che diventeranno
materiale grezzo per Black Box. In parte
questo dipende dalla natura dell’allontanamento dalla certezza della luce solare che
incontriamo una volta usciti dalla caverna
nel regno che può essere illuminato attraverso le ombre. Ci si chiede cosa possa
essere chiarito attraverso l’oscurità delle
ombre. Uno degli ossimori che sto utilizzando qui è quello dell’ombra che illumina. Se si ha un’immagine e un’ombra attraverso di essa si inverte quella che è la luce
e quello che è il buio, e l’ombra stessa funziona come una sorta di faretto.
Inoltre, in Black Box gioco con tre gruppi di
associazioni. La prima è la scatola nera del
teatro. L’installazione consiste in un modello
di teatro che ospita proiezioni e personaggi.
I personaggi sono piccoli automi – oggetti
meccanizzati (e non necessariamente antropomorfi) che recitano, insieme alle proiezioni, all’interno di uno spazio teatrale. Così il
primo riferimento è alla «scatola nera» del
regno della rappresentazione.
La seconda associazione della scatola nera è
la chambre noire – la camera centrale di una
fotocamera tra la lente e l’oculare – attraverso cui entra la luce e dove viene creato un tipo di significato. Qui entrano le infinite possibilità del mondo esterno ma
viene scelta una singola immagine, fissata sul piano.
Il terzo riferimento è alla registrazione dei dati di volo
che viene utilizzata per tracciare gli ultimi momenti prima di un disastro aereo. E il
disastro a cui mi riferirò –
sebbene non andrò necessariamente a descriverlo né a
enumerarne in maniera didascalica le fasi – è il massacro
tedesco del popolo Herero
nell’Africa sudoccidentale.
Quello che abbiamo fatto finora è stato cercare e trovare
la forma – la sagoma – del teatro, la natura del teatro e il tipo di oggetti che vi opereranno. Anche Black Box esce dal
Flauto magico, come ho descritto. Ma il Flauto magico
suggerisce il momento utopistico dell’Illuminismo, mentre Black Box rappresenta
l’altro estremo dello spettro.
Da William Kentridge, Black
Box/Chambre Noire, 2005, catalogo mostra Deutsche Guggenheim, Berlino.
(Traduzione di Martina Toti)
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William Kentridge
Entro i limiti della sola memoria
Intervista con Avishai Margalit di Giancarlo Bosetti
roppa memoria o troppo
poca? Hrant Dink, un
bravo giornalista è stato
ucciso perché scriveva per
ricordare il genocidio armeno, il
Nobel Orhan Pamuk è stato
costretto a lasciare la Turchia;
era minacciato per la stessa
ragione. I rapporti tra l’Italia e la
Croazia ancora entrano in subbuglio per una dichiarazione del
Presidente italiano sulle foibe e
le vittime dei partigiani di Tito
di sessant’anni fa. Nel discutere
dell’etica della memoria non ci
sono solo le colpe del dimenticare e i meriti del ricordare, ci
sono anche colpe e meriti opposti: distruggere gli archivi qualche volta appare giusto (come
nel caso della Stasi, la polizia
segreta dell’ex Ddr), più spesso
sicuramente no. In Sudafrica
sono stati e sono necessari riti
della memoria e della riconciliazione, riti che aiutino anche a
perdonare. A declinare i risvolti
etici e morali del ricordo e dell’oblio è il filosofo israeliano
Avishai Margalit autore del
libro, L’etica della memoria,
pubblicato dal Mulino.
T
Lei distingue l’etica e la moralità, il vicino e il lontano. Quali
sono le premesse da cui prende alla base della sua etica
della memoria?
L’etica, intesa nel suo senso
socratico, indica come dovremmo vivere le nostre vite, la
morale come dovremmo viverle
insieme agli altri, senza alcuna
distinzione tra il vicino e il lontano. La Sittlichkeit (eticità) di
Hegel, in un certo senso, è la
legge convenzionale, o meglio,
l’etica convenzionale di una
comunità. Io elaboro una distinzione diversa. La mia idea fon-
damentale circa l’etica e la
moralità non riguarda la questione di come dovremmo vivere le nostre vite, ma di quale
rapporto intendiamo avere con
gli altri. Esistono due tipi di
relazioni: da un lato ci sono
quelle che io definisco spesse –
con la famiglia, gli amici, gli
amanti -, dall’altro ci sono quelle che definisco sottili, con esseri umani estranei, persone con
cui non siamo in contatto diretto. Sulla base di queste relazioni
si sviluppano nozioni diverse:
ad esempio, l’idea di tradimento
e quella di infedeltà sono etiche
e non morali, perché implicano
rapporti spessi; al contrario, i
concetti di imbroglio e menzogna appartengono alla dimensione morale e si riferiscono a
rapporti sottili. E questa distinzione vale anche nel campo
della memoria.
Questa prospettiva accentua
l’importanza della comunità.
Non è una tesi comunitarista,
«communitarian», come dite
in inglese, in contrapposizione
a liberale e universalista?
Non penso. Con i «communitarians» c’è una certa affinità, ma
non una vera e propria coincidenza di idee. Tutto quello che
dico è che esistono due tipi di
relazioni umane e l’obbligo di
ricordare non è morale ma
etico. Cerco di fare della memoria e delle comunità di memoria
delle unità basilari. I concetti di
nazione e comunità dipendono
dalla memoria. Penso che tutte
le discussioni su cosa sia una
nazione e cosa sia un’etnia, se
una nazione si fondi sull’etnicità
o meno, dovrebbero essere conseguenti alla nostra idea di condividere l’appartenenza alla
stessa comunità di memoria con
alcune persone piuttosto che
con altre. Un’identità di gruppo
dipende dalla comunità di
memoria.
Oggi le connessioni etiche e
morali
sembrano
essere
diventate più volatili. L’arte e
la letteratura stesse cercano di
comprendere questa tendenza
a dimenticare che sembra
caratterizzare la mentalità
contemporanea e tentano di
contrastarla. Si tratta di
un’impressione
sbagliata?
Forse tutte le epoche pensano
di dimenticare troppo facilmente?
Molto dipende dalla sensibilità
moderna, che è orientata al
futuro piuttosto che al passato, e
crea, quindi, comunità con
destini futuri, secondo quella
che fu l’originaria idea americana. Il passato, perciò, è più una
minaccia che una promessa,
perché significa privilegi, guerre civili, sconfitte, persino incubi. Credo, però, che si tratti di
un atteggiamento sbagliato perché nulla può davvero essere
significativo e denso senza un
riconoscimento del passato.
Perciò, una politica attiva dell’oblio è una politica sbagliata,
dimenticare è una cattiva idea.
Perdonare è una cosa diversa:
significa non agire sulla base
del passato.
È questo quello che intende
quando nel suo libro parla dei
documenti della Stasi in Germania, delle situazione di
transizione?
Sì, è così, in una giustizia di
transizione non si può agire sui
documenti della Stasi, su quello
che era accaduto nel passato
come se fossero reati, crimini e
tradimenti presenti. Intendo
dire che esiste un legame forte
tra amnistia e amnesia, ma io
sono per l’amnistia e non per
l’amnesia, per il perdono e non
per l’oblio.
A volte, però, è la memoria
stessa che non permette di
Chi è
Avishai Margalit
vishai Margalit è professore di Filosofia all’Università ebraica
di Gerusalemme. Fra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: La società decente (Guerini e Associati, 1998), Volti d’Israele (Carocci, 2002), Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei
suoi nemici (con Ian Buruma, Einaudi, 2004), L’etica della memoria
(Il Mulino, 2007).
A
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63
William Kentridge
«Gli incubi di Primo Levi sono stati importantissimi. Nonostante le sue indicibili
sofferenze, penso sia stato cruciale che Levi abbia comunicato a tutti noi le sue
angosce e i suoi pensieri. Credo che non bisogna dimenticare, ma che, allo stesso
tempo, non bisogna agire sulla base della memoria e del ricordo»
perdonare, lei afferma che la
memoria non porta necessariamente alla Riconciliazione.
Qual è allora il punto di equilibrio tra ricordare il passato e
avanzare verso un futuro più
pacifico?
In genere, quando si dice a
qualcuno «dimenticatene» è
un’esortazione a ricordare. Dire
a noi stessi di dimenticare non è
una garanzia, perché dimenticare non è qualcosa che si fa a
comando. La questione è quale
tipo di politica si desidera. È una
cosa nobile voler superare vecchi ricordi cattivi, ma credo che
chiedere a una comunità di
memoria di dimenticare indebolisca i rapporti su cui la
comunità è stata costruita. Per
questo motivo, penso che la
prima cosa da fare sia lottare
con la memoria, e non cercare
attivamente di dimenticare. Se i
ricordi sono un fardello troppo
pesante per la propria vita, se si
è perseguitati da cattivi ricordi
come da cattivi incubi, è un pro-
blema che riguarda la terapia
non la moralità.
Lei cita il caso di Primo Levi e
della sua tormentata memoria
dell’Olocausto. Come possono
gli incubi della memoria aiutare il perdono?
Credo che gli incubi di Primo
Levi siano stati importantissimi.
Nonostante le sue indicibili sofferenze, penso sia stato cruciale
che Levi abbia comunicato a
tutti noi le sue angosce e i suoi
pensieri. Se fosse esistita una
pillola dell’oblio e qualcuno
gliel’avesse data, sarebbe stata
una perdita terribile per tutta
l’umanità, per noi tutti, dato che
gli incubi di Primo Levi, per
quanto dolorosi, erano estremamente significativi. Di nuovo,
credo che non bisogna dimenticare, ma che, allo stesso tempo,
non bisogna agire sulla base
della memoria e del ricordo.
Perché sostiene che, in questo
momento, non è possibile
avere una memoria collettiva
dell’umanità e che possono
esserci solo diverse comunità
di memoria e non una memoria globale?
Il mondo non è un’unica comunità. Intendo dire che ci sono
alcuni eventi che ritengo vadano ricordati dall’intera umanità,
si tratta di casi esemplari, di
insuccessi umani generali,
come Hiroshima, Auschwitz,
Buchenwald, i gulag. Ma ogni
comunità ha la propria memoria; la memoria dell’Europa e
quella dell’Indonesia sono
diverse e non si possono diluire
in modo che gli europei e gli
indonesiani abbiano gli stessi
ricordi.
E per quanto riguarda comunità differenti che hanno
memorie diverse per uno stesso passato?
Credo che sia un dato di fatto
della nostra vita: gli individui
hanno ricordi diversi del loro
passato. La questione acquisisce
rilevanza politica quando si ha
un passato conteso tra due comunità, che sono intime nemiche, come nel caso degli israeliani e dei palestinesi, degli ebrei e
degli arabi o dei polacchi e dei
tedeschi. Penso che, avvertito il
conflitto politico, le due comunità che si contendono la memoria
debbano affrontare il passato insieme, in modo da evitare irredentismi futuri.
Qualcuno propone il modello
del Sud Africa; lei nel suo libro
cita la Commissione per la Verità e la Riconciliazione. È difficile trovare un equilibrio tra
giustizia, perdono e oblio. Esiste una guida?
Ho sempre avuto una fantasia:
riunire storici provenienti da comunità diverse che rivendicano
un passato conteso in un unico
istituto di modo che possano lavorare su una storia condivisa e
arrivare a una versione o a più
versioni trasversali che non seguano le linee dell’appartenenza
etnica. Come risultato si avrebbe un breve manuale da far studiare nelle scuole. Credo che il
modo migliore per affrontare un
passato conteso sia attraverso il
lavoro degli storici. Il resoconto
storico fa parte della lotta, per
64
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
questo è molto difficile per le
due fazioni fare i conti con il passato. Credo, però, che sia ora che
gli storici entrino in campo.
Intende dire che gli storici dovrebbero avere un ruolo politico?
Possono avere un ruolo come
storici, non come politici. Compio una precisa distinzione tra
politica della memoria ed etica
della memoria. La politica della
memoria è data da tutti gli stratagemmi e gli strumenti che i governi o i vari poteri utilizzano
per gestire la memoria, per creare delle fazioni della memoria.
Oggi si scrive molto della politica della memoria, con un proliferare di saggi e testi. A me, invece, interessava meno la politica
e più l’etica della memoria. La
questione di come affrontare il
passato, di quale sia il metodo
migliore per farlo, riguarda più
la politica della memoria e, per
questa ragione, il mio consiglio
è, in molti casi, lasciare che se ne
occupino gli storici.
Abbiamo parlato di Primo Levi
e dell’importanza del suo contributo alla nostra memoria
collettiva. Abbiamo anche detto che nell’età contemporanea
si è più orientati al futuro che
al passato. Tuttavia, nell’arte
contemporanea c’è un forte interesse a ricordare. Qual è il
contributo che l’arte contemporanea può offrire alla memoria?
Penso che l’arte possa avere
un’enorme forza, perché gran
parte del ricordo collettivo è nell’immaginario. Monumenti storici e opere artistiche e, in generale, tutta l’arte visiva, non solo
la scrittura, sono così vividi e forti da modellare la memoria collettiva. In genere, sono anche
oggetti controversi, che non
piacciono a tutti. Personalmente
non attribuisco compiti all’arte,
che ha già moltissimo da fare,
ma credo che l’etica della memoria debba prestarle particolare attenzione perché gli artisti
fanno parte di coloro che dovrebbero veicolare la memoria
collettiva, sono come sciamani
della comunità di memoria.
(Con la collaborazione di Martina Toti)
Kutlug Ataman
Panopticon a Istanbul
L’occhio e la politica, invasione mediatica e controllo delle coscienze
Küba
di Kutlug Ataman
Un manuale per chi guarda
Dialogo tra Kutlug Ataman e Marco Belpoliti
L’orrore in diretta della guerra
di Antonio Somaini
Mappa mediatica dell’emergenza
di Francesco Casetti
Spettatori, sorveglianti o sorvegliati?
di Roberto Escobar
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
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Kutlug Ataman
Küba
di Kutlug Ataman
L’artista, l’opera
ato ad Istanbul nel 1961, Kutlug Ataman, studia cinema a
Parigi e Los Angeles. Con il suo primo lungometraggio Serpent’s Tale (1994) partecipa a diversi festival internazionali.
Di nuovo a Istanbul, dove vive e lavora, è diventato uno degli animatori del movimento di liberazione gay in Turchia. Le sue videoinstallazioni descrivono individui spesso ai margini della cosiddetta
normalità. Sospeso tra fiction e documento, il suo lavoro utilizza la
narrazione per esplorare la fragile natura dell’identità personale e
parlare di temi quali malattia, maltrattamenti, abusi, così come di
amori, scelte e sacrifici. «Tutti i miei soggetti sono come una naturale estensione di me stesso. Non filmo persone solo perché sono interessanti, ma perché hanno i miei stessi problemi, le mie stesse
ossessioni». Parlare diventa l’evento primario. Nei lavori di Ataman
i personaggi si raccontano senza pudore in lunghi monologhi davanti alla telecamera. Il tema dell’identità di genere diventa occasione
per un’indagine su quella politica e sociale: l’identità non è qualcosa che possediamo, possiamo al massimo indossarla durante il giorno e depositarla ai piedi del letto la sera. Proprio come in Women
who wear wigs (1999), dove quattro donne, accomunate dal fatto di
indossare una parrucca, raccontano la loro vita e la loro femminilità celata, ora da una mascolinità mal digerita, ora da un chador, ora
da un tumore.
In questo inumano lavoro di ripresa – oltre 60 ore di video – si possono cogliere sempre e solo spezzoni: per quanto ci si soffermi
davanti a Never on My Soul (2005), in cui vediamo una giovane
transessuale che si depila, fuma, ricorda, non saremo mai in grado
di coglierne la personalità.
Siamo condannati a essere esclusi. Come in Martin is Asleep (1999),
dove un uomo addormentato proiettato in video su un letto in miniatura ci fa sentire così tanto grandi e impotenti, che ancora una volta
N
66
dobbiamo riconoscere la nostra incapacità di avvicinarci a ciò che è
straniero.
Kutlug Ataman ha tenuto numerose personali in giro per tutto i principali musei del mondo. Tra le sue partecipazioni internazionali
ricordiamo Manifesta 2 (1998), La Biennale di Venezia (1999), La
Biennale di Berlino (1999), Documenta 11 (2002), la Biennale di
Istanbul (2003). Nel 2004 è stato nominato al Turner Prize, nello
stesso anno ha vinto il Carnegie Prize con la monumentale video
installazione Küba, presentata poi a Londra nel 2005 per Artangel. In
aprile parteciperà alla mostra SNAFU Medien, Mythen, Mind Control, Hamburger Kunstalle, Amburgo.
Küba è il nome di un quartiere di Istanbul non riportato su nessuna
mappa ufficiale. È una sorta di «presenza assente» dove vive una
comunità eterogenea di turchi, curdi, fondamentalisti religiosi, dissidenti politici ed emarginati in genere, uniti dal destino comune del
loro status di isolamento ed esclusione. I quaranta monitor che
costituiscono l’installazione di Ataman raccolgono altrettanti racconti e testimonianze di vita degli abitanti del quartiere. Percorrendo l’installazione il visitatore ha la possibilità di ricostruire attraverso i frammenti dei racconti orali, una propria e personale immagine
di questo luogo che è simbolo della diaspora e dell’atopia. La frammentarietà dell’opera sottolinea la de-costruzione e scomposizione
dell’immagine del luogo che si ricompone solo nell’immaginario di
ognuno.
Da pagina 65 a 69. Küba (Installazione per la 54th Carnegie International al Carnegie Museum of Art. Pittsburgh), 2004. © Copyright Carnegie Museum of Art, 2004.
Photo credit: Tom Altany Photography, 2004.
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
BAHRI
Io fui il primo.
Non c’era nessuno qui.
Non c’era nessun Tozkoparan.
Non c’era nessun Merter.
C'era un agente immobiliare,
aveva una casa.
Era l’unica casa a Merter.
In genere vendeva terra.
A Merter...
Qui, Menderes lo ha portato.
lo ha dato a qualcuno.
Ha scaricato un po’ di polvere,
qualche pietra,
E rimase così.
Non c’era nient’altro qui.
Allevavo capre qui.
EMINE
Due figli e una figlia.
Li ho cresciuti.
Abbiamo visto tanta povertà.
Spesso svenivano.
Io non aveva nulla.
Prendevano il denaro da me
per andare a comprare
alcol e sigarette.
Quanto ho sofferto.
Oh Dio quanto ho sofferto.
Dovevo fare l'elemosina
nei supermercati.
Sono morti di eroina.
Sono morti uno dopo l’altro.
A soli due mesi e mezzo di distanza.
Durante le vacanze.
Le vacanza sarebbero iniziate
al mattino.
UGUR
Io lavoro a Soganli.
Esco alle tre del mattino, cammino da
qui a Soganli.
La paura più grande della mia vita
sono i cani.
Vicino alla fabbrica di birra
Efes Pilsen, ci sono almeno
cinquanta cani là.
Sono felice quando cammino
giù per quella strada.
Vai lì, un cane si avvicina,scappi,
Ho paura.
Ho paura ma lo faccio.
Ho paura di azzuffarmi.
Provo una grande paura di azzuffarmi con le persone.
Perché lui farà male a me
e io farò male a lui.
KADRIYE
La mia famiglia si è ammalata.
Io stesso mi sono ammalato.
Tutti i miei soldi se ne sono andati
per via della malattia.
Il mio braccio destro,
il mio braccio sinistro,
Il mio braccio destro era paralizzato.
Ho sofferto per due o tre anni.
Grazie a Dio sono migliorato.
Sono stato in un ricovero.
Sono stato nell'unità alcolisti.
Sono stato lì per dieci anni.
Una volta, cercai di uccidere
Mia figlia e mio cognato.
In altre parole, ho sofferto molto.
Ho lavorato da quando avevo sette anni.
Da quando avevo sette anni.
Ora ne ho settantuno.
Quanti anni sono?
Ho lavorato per sessantasei anni.
MIZGIN
Quando mi sposerò non avrò bambini.
Temo di non riuscire a badare a loro.
Quando le persone li picchiano, loro soffrono.
Ieri ho urlato a mia madre,
«Perché mi hai tenuto, vorrei che non lo avessi fatto.
Sarebbe stato meglio se fossi morta.
Sarebbe stato meglio per te.»
Lei prega che io muoia.
Mi picchia quando sono a letto
in modo da non fare rumore.
Mi mette a letto.
Mi fa dormire sul pavimento di cemento.
Allora mi ammalo.
Ma non posso dirlo a mio padre.
Viene qualcuno, lei si agghinda
Come una sposa.
Traduzioni di Martina Toti
Kutlug Ataman
Un manuale per chi guarda
Dialogo tra Kutlug Ataman e Marco Belpoliti
taman: Posso affermare
abbastanza tranquillamente che la maggior
parte del mio lavoro è consistita
nella realizzazione di una realtà
documentaria; ha riguardato il
montaggio, e soprattutto la costruzione della persona, di un
soggetto reale, dal punto di vista
documentario, che costruisce se
stesso davanti alla telecamera
con tutte le implicazioni che ciò
comporta: il mondo che percepiamo è davvero quello che pensiamo che sia? Perché la maggior parte delle informazioni che
ci arrivano vengono dai media e,
nella storia dell’immagine filmica, abbiamo questo dualismo tra
presentazione e rappresentazione, documentario e fiction? Quali sono i modi migliori di rendere
la realtà? La fiction è qualcosa
creata da Hollywood: dovremmo
essere consapevoli dei suoi meccanismi (come Brecht o come
nel teatro Strehler di Milano)?
Queste sono domande che sono
state poste nella storia del teatro,
del cinema, del documentario e,
sostanzialmente, anche dei media.
Ora, secondo la mia esperienza,
non penso che le cose siano così
nette, non penso che esista la
A
realtà e poi la finzione. Credo
che l’una contenga l’altra, e il
modo in cui guardiamo a esse
non è nettamente distinto, bianco e nero: la maggior parte è
un’area grigia, e penso che sia di
questo che le mie opere parlino:
in sostanza è media art.
Perciò l’ingegneria è più importante del ponte, perché una volta
rivelata l’ingegneria, la costruzione, allora il suo uso diventa
più consapevole. Non si tratta
semplicemente di un interesse
per la costruzione in quanto tale,
del piacere di osservarla. No, in
realtà il criterio con cui le cose
sono costruite rivela tutto: la motivazione, il perché sono state
fatte in quel modo, a quale scopo
servono, che tipo di elementi sono impiegati per costruirle. Perciò quando si giunge a quella
prospettiva improvvisamente si
accede a una comprensione più
ampia.
C’è una scrittrice molto brava,
indiana, Arundhati Roy che, in
uno dei suoi libri, parla della costruzione delle notizie nei media
– in realtà, parla soprattutto della
politica attuale – e dice che oggi
invece del direttore di un notiziario c’è quasi bisogno di un direttore di teatro per mandare le
notizie in televisione, perché tutto riguarda la mise-en-scène e la
costruzione.
Non solo la recita, ma tutto è
montato in modo che la posizione di quello che si presume sia
finzione e di quello che si presume sia realtà documentaria siano giustapposte. Ma in effetti,
quello che si ha alla fine non è
nessuna delle due cose, quello
che si vede è una sintesi, è una
sensazione strana, e non sempre
si può decidere, perché quando
guardi un travestito non puoi
mai essere sicuro se sia una donna o no. Alla fine, commentando
il modo in cui la realtà è costruita, sono venute fuori le opere,
finché non sono arrivato a Küba
dove per la prima volta, invece di
vedere un individuo che costruisce se stesso, ho visto una comunità di persone lavorare su una
singola identità: l’essere kübani,
il fatto di provenire dal quartiere
di Küba a Istanbul. Tutti loro lavoravano alla costruzione di uno
stato mentale, una recita. Non
fanno parte del piano urbano
perciò ufficialmente non esistono, ma anche culturalmente: la
maggior parte di loro è curda, fino a poco fa, non potevano esprimere la loro lingua o la loro
identità culturale, e quindi, per
molti aspetti, non esistevano. Il
video presenta quaranta soggetti
che parlano della loro esistenza
quotidiana, di niente in particolare, niente di commovente: si
tratta di una struttura a isola di
quaranta monitor, cosicché lo
spettatore ci cammina attraverso, in modo da essere, innanzitutto, sempre consapevole della
propria posizione di estraneo, in
modo che da visitare ciascun
monitor a propria scelta. Ogni
persona – poiché visiterà combinazioni differenti – uscirà con un
concetto diverso di cosa è Küba:
non si può mai avere davvero accesso a Küba, anche se si guardano tutti i quaranta monitor,
perché si capisce che in tal modo
si costruisce, come spettatori, il
proprio video, in pratica, la propria esperienza. Secondo me –
spero – questo fa capire che il
modo in cui ci percepiamo reciprocamente come mondi e comunità differenti è tutto una costruzione, è completamente relativo. E per via di questa percezione, la nostra posizione come
portatori di verità è altrettanto
instabile, relativa rispetto alla
posizione del soggetto.
Un altro aspetto interessante di
Chi è
Marco Belpoliti
arco Belpoliti è scrittore
e saggista, ha curato le
opere complete di Primo Levi (Einaudi, 1997) e diversi
libri postumi dello scrittore. Insegna presso l’Università di Bergamo.
Tra i suoi ultimi libri: Settanta
(Einaudi, 2000), Doppio zero (Einaudi, 2003); Crolli (Einaudi,
2005). Collabora alle pagine culturali de «La Stampa», «L’espresso», «Alias». E condirettore della
rivista «Riga». È autore e sceneggiatore del film La strada di Levi
diretto da Davide Ferrario. In
uscita il suo diario di viaggio attraverso l'Europa, La prova per
Einaudi.
M
Statue di Partigiani (dal set di La Strada di Levi)
70
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Kutlug Ataman
Ataman: «Il mio progetto Küba fa capire che il modo in cui ci percepiamo
reciprocamente come mondi e comunità differenti è una costruzione, è
completamente relativo. E per via di questa percezione, la nostra posizione come
portatori di verità è altrettanto instabile, relativa rispetto alla posizione del soggetto»
Küba è il percepirsi come un’isola, e quello che li fa integrare gli
uni con gli altri è il mondo esterno, la non accettazione di esso. È
così che diventano un’isola. Così
l’opera riflette sui concetti di libertà e individuo nella comunità
e, quindi, su cosa effettivamente
è la libertà, perché l’idea di Küba
ovviamente viene presentata
quasi come una chiave della libertà e dell’individualità e dell’essere al di fuori della società
in senso lato. Insomma, «qui siamo liberi», quasi come la teoria
socialista: siamo liberi, questo è
il mondo libero, queste sono la
nostra struttura economica, la
nostra cultura, ecc. Allo stesso
tempo, però, per appartenere a
Küba bisogna rinunciare a molte
cose di se stessi, perciò ci sono
storie molto tragiche di donne,
bambini o uomini che, pur di
continuare a far parte di Küba,
sono andati in carcere, hanno
avuto una vita distrutta. Il che ci
porta a un’osservazione più ampia sulla società in senso lato, sul
nostro concetto di libertà, di
ideale politico, di democrazia
(italiana, occidentale, ecc.). In
altre parole, si tratta di un microcosmo, di uno specchio: ecco cos’è in sostanza Küba.
Belpoliti: Vorrei partire da qualcosa che hai detto circa il tuo lavoro a Küba, e anche i precedenti, che riguarda quello che tu
chiami il «secondo livello», cioè il
fatto che le riprese dei tuoi video
rendono visibile la loro stessa
costruzione, la messa in scena
del video medesimo: il problema
non è solo di rappresentare la
realtà, ma di rappresentare la
rappresentazione stessa, mostrandola. Questo significa fornire una lettura di secondo livello
di ogni situazione. Questo è anche il lavoro che abbiamo fatto
nel film La strada di Levi, che
abbiamo realizzato con Davide
Ferrario. Ci siamo proposti di lavorare su vari livelli: il passato, il
presente, la memoria. Siamo
partiti da Levi per guardare l’Europa contemporanea, i paesi che
si trovavano un tempo nella sfera di influenza sovietica, nella
stessa Russia. Abbiamo dato per
scontato che la memoria è sempre una costruzione, un effetto di
secondo livello, qualcosa che
Il viaggio di Levi
l film di Davide Ferrario e Marco Belpoliti (autori e sceneggiatori), per
la regia di Ferrario, è un road movie sulle tracce di Primo Levi.
Gli autori e la piccola troupe hanno ripercorso l’Europa orientale
(Polonia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria, Slovacchia)
seguendo il tortuoso itinerario di Primo Levi, dopo la sua liberazione da
Auschwitz e il rientro, quasi un anno dopo, in Italia nel 1945.
Fermandosi nei luoghi e nelle città toccate da Levi, il film racconta cosa
c’è oggi in quella parte del nostro Continente, mostrando nel contempo i
problemi dei paesi dell’ex sistema sovietico dopo la caduta del Muro di
Berlino e la fine del comunismo sovietico. Incontrando persone, raccolgiendo testimonianze, viaggiando dentro il paesaggio, muniti delle parole di Levi, il film costruisce un viaggio tra il presente e il passato, lasciandosi nel contempo guidare dalla complessa figura dello scrittore italiano,
dalle sue parole lette fuori campo da Umberto Orsini. Film di montaggio
e di riflessione, La strada di Levi, per cui sono occorsi quasi quattro anni
di lavorazione, è anche un film d’azione, un film sul presente e sul futuro che da Auschwitz oggi arriva a Chernobyl postcatastrofe, transita attraverso le regioni della nazione più povera d’Europa, la Moldavia, verifica
la presenza dell'Oriente in quelle terre, incontra i neonazisti in Germania, parla con Wajda e con Rigoni Stern per arrivare a Torino, nel luogo
della prova finale dello scrittore morto suicida 20 anni fa. Le musiche di
Daniele Sepe e l’incalzante montaggio di Claudio Cormia accompagnano
un film accolto con entusiasmo ai festival di Toronto, Roma e Londra.
I
viene dopo l’esperienza e la ricostruisce. Siamo andati in questi
paesi che l’Europa occidentale
definisce paesi dell’Est, sebbene
si tratti di un’invenzione; e già
questo è un lavoro di rilettura
del passato. L’idea dell’Est è
un’invenzione degli illuministi
francesi, nel Settecento; quando
siamo andati in Polonia, a Cracovia, ad Auschwitz, ci siamo resi
conto che la Polonia è un paese
del Nord, non è un paese dell’Est, somiglia alla Danimarca e
alla Svezia. Nel corso dei tre mesi e mezzo che abbiamo trascorso in quelle terre per girare il
film, abbiamo capito che la stessa memoria di quei luoghi era
una memoria stratificata: guardavamo le cose attraverso – diciamo così – la nostra memoria
storica di paesi sotto il dominio
sovietico (Polonia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania,
Ungheria, Slovacchia), paesi al
di là della cortina di ferro istituita dopo la seconda guerra mondiale dagli Alleati. Si trattava
dunque di paesi altri, differenti,
e noi li vedevamo attraverso la
memoria storica del passato (libri, documentari, film di propaganda, televisione, film occidentali) e attraverso il libro di Levi,
La tregua. In particolare questo
libro di viaggio, il periglioso e
complicato ritorno a casa di Levi, avvenuto nell’interstizio tra la
fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, ci aiutava a scollare un po’
queste visioni ideologiche e cercare qualcosa al di sotto della
crosta dei discorsi e dei pregiudizi sull’Est. Ma poiché nessuna visione si dà pura, nessun occhio è
innocente, come si vede anche
dal film che ti ho mostrato in
parte, abbiamo proceduto attraverso l’accumulo di materiali, le
citazioni visive, anche di film
russi, polacchi, Wajda, Ejzenstejn.
Per tornare a quello che dicevo
all’inizio, nel nostro sguardo il
secondo livello è diventato un
primo livello. Abbiamo costruito
il film, che di per sé è un road
movie, mediante un forte montaggio. E io penso che ora, a film
fatto, sia giusto così, poiché non
riusciamo a vedere la realtà se
non attraverso continue messe
in scena che sono nella nostra
memoria.
Ataman: Ho due cose da dire a
questo proposito. Quando faccio
il mio lavoro, devo pensare che
sto creando un documento storico su persone che altrimenti non
verranno rappresentate, o non
verranno ricordate; oppure che
sto creando un’opera in cui le
persone, in realtà, stanno parlando dei loro ricordi davanti alla telecamera e, quindi, costrui-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
scono questa memoria e identità
davanti alla telecamera. Credo
che si possa discutere sul fatto se
questo si possa trattare come un
documento archeologico, ad
esempio, o come un qualsiasi tipo di documento, visto che è costruito come ogni altra cosa. Perciò, da un lato, penso di creare
qualcosa che rimarrà: se conserviamo questi archivi, questi elementi culturali popolari saranno
interessanti; tuttavia, se ci si
pensa, anche i reality show presenti nella programmazione televisiva in realtà sono recitati e
non sono reali. Perciò da un lato,
penso in termini di memoria, di
lasciare memoria, non solo di
persone che parlano dei loro ricordi ora, ma che li stanno vivendo e creando per il futuro;
dall’altro lato, però, credo anche
che la memoria sia qualcosa che
viene creato nel presente, che
non appartiene al passato; la memoria, l’archeologia o, la storia,
in questo senso, riguardano l’oggi e l’adesso, e più il futuro che il
passato. La storia – penso – viene
sempre riscritta, ed è sempre
molto soggettiva dal mio punto
di vista. Penso, in particolar modo, solo per fare un esempio e
senza parlare degli eventi storici
che al giorno d’oggi vengono
sempre riscritti, alla copertura
mediatica della guerra in Iraq:
da angolature differenti, c’è una
«lotta» su questa memoria, su come vada coperta. A un certo punto, la parte americana, occidentale, ha cercato di «bombardare»
Al Jazeera perché stava creando
una memoria completamente diversa. Sai, non si può mai visitare Auschwitz: sì, visitiamo
Auschwitz attraverso il tuo film,
e vediamo Levi che va ad Auschwitz, ma non è la stessa Auschwitz. Hai notato lungo i binari
della ferrovia, là dove è arrivato
il treno di Levi, i piccoli edifici ricoperti dai graffiti, una memoria
della pop art? Anche soltanto
quello non esisteva quando Levi
venne portato lì, perciò anche
Auschwitz cambia costantemente. La mia è semplicemente
un’osservazione sul fatto che
non si può mai ri-visitare.
Belpoliti: Sono molto d’accordo.
La cosa di cui ci siamo resi conto
subito nel girare il film è che i
71
Kutlug Ataman
Belpoliti: «Nel film La strada di Levi abbiamo tentato di cercare qualcosa al di sotto
della crosta dei pregiudizi sull’Est. Ma poiché nessun occhio è innocente,
abbiamo accumulato citazioni visive, anche di film russi e polacchi. Nel nostro
sguardo il secondo livello è diventato un primo livello»
luoghi non conservano la memoria di quello che è accaduto in
quei posti, e tutto è una ricostruzione. Il problema del museo di
Auschwitz è anche questo. Naturalmente la ricostruzione non
può mai essere la cosa stessa, è
sempre una sua rappresentazione. Credo vi sia un doppio problema della memoria: da un lato,
c’è la lotta per la conservazione
della memoria che continuamente viene manipolata da chi
la vuole omettere, i negazionisti,
ad esempio; e questo è connesso
con il problema di rendere attuale la memoria, di mantenerla viva. Non mi riferisco solo alla distruzione degli ebrei d’Europa,
alla Shoah, ma alla memoria di
ogni conflitto, guerra o massacro. Penso alla storia della lotta
di resistenza in Italia, dopo il
1943, contro il nazifascismo.
Dall’altro, c’è quello che tu dicevi, cioè la costruzione della memoria del futuro, quindi tutti i
nostri atti, compiuti nel presente, che costituiscono e stabiliscono necessariamente il futuro.
Meglio: c’è il problema di tenere
aperte nel futuro le molte strade
del passato. Provo a spiegarmi:
l’idea di Walter Benjamin che il
passato non è chiuso una volta
per sempre, ma che resta aperto,
non solo perché possiamo riscriverlo – e a volte accade anche
questo – ma perché contiene ancora dei futuri possibili. E questo
è lo scopo del lavoro artistico,
anzi ne è proprio l’essenza.
Quelli che costruiscono la memoria del presente sono i mass
media, prima di tutto la televisione; sono loro che costruiscono i
veri monumenti del presente, e
non è un caso che anche tu lavori con le immagini e con il video.
La televisione, lo sappiamo bene, costruisce un’immagine univoca ed estremamente manipolata del presente. Un po’ come
guardare una partita di calcio allo stadio o alla televisione. Nel
primo caso vedi tutta la partita,
tutto quello che accade sul campo, anche là dove non c’è la palla; nel secondo caso, vedi quello
che vede il regista delle riprese.
Mi sembra che la vera battaglia
in corso sia questa: intorno al dominio e alla manipolazione delle
immagini; una battaglia che è
più importante di quella combat-
72
tuta con le armi, da quella atomica ai missili e agli scudi stellari.
Queste armi ipertecnologiche, in
realtà, sono come delle grandi
barriere, ma le vere armi del
combattimento sono le immagini. In Iraq hanno abbattuto le
statue di Saddam Hussein, un
gesto iconoclastico, qualcosa
che viene dal passato: ogni volta
che c’era un cambio di potere venivano abbattute le immagini del
potere precedente, le sculture, le
scritture pubbliche, le insegne.
Ma fare questo non davanti a dei
testimoni, fotografi, giornalisti,
scrittori, bensì davanti a delle te-
La strada di Levi. Sicuramente la
nostra intenzione è anche quella
di lavorare sulla velocità con la
velocità, perché comunque è un
viaggio, e il viaggio vuole sempre competere con il tempo, è in
lotta con il tempo. Ma il nostro è
anche un viaggio attraverso le
rovine, le macerie dell’Europa, e
quindi, in questo senso, è ancora
una volta un viaggio nella memoria, cioè quello che resta delle
memorie passate. Il compito dell’artista è quello di fungere da
setaccio, di non far passare tutto;
diciamo così: mentre i mass media non discriminano, il lavoro
Primo Levi nel 1944
lecamere che trasmettono il tutto in diretta televisiva, cambia
completamente la natura del gesto. Diventa un segno di secondo
livello, una citazione, ma anche
qualcosa d’altro. Sono pienamente d’accordo con te sulla tua
idea di un’archeologia del futuro. Credo che la posizione dell’artista sia una posizione molto
difficile perché deve percorrere
un po’ a rovescio tutto il tragitto;
se è vero che l’artista lavora
proiettato verso il futuro, ha necessità però di agire sia sul presente e sul passato e lo fa nella
posizione dell’Angelus Novus di
Benjamin: con la testa girata verso il passato. Molto scomodo.
Volevo tornare ancora sul film
dell’artista è quello di fare delle
differenze tra le cose.
Ataman: Il mio ruolo di artista
riguarda più il mostrare com’è la
struttura; esso punta poi a far capire allo spettatore come percepiamo la realtà, sia essa passata
o futura. Per me passato e futuro
sono la stessa cosa, esistono insieme. Perciò vorrei che il mio
lavoro fosse come una sorta di
manuale per gli spettatori, che
offra un prontuario per leggere il
passato e il futuro, che sono due
direzioni, che bisogna percorrere in ogni caso. Sono d’accordo
con te, quando parli di analizzare e ricercare e tutto il resto, ma
credo che questo sia parte del la-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
voro che può essere fatto e che,
allo stesso tempo, creare qualcosa per il futuro è altrettanto buono e valido che ricercare qualcosa che è stato già creato. Ma ho
sempre un punto di domanda.
Mi chiedo se quello che si trova
come realtà, come documento,
come la memoria sia davvero la
Cosa, l’oro, perché le cose, i momenti, si vivono un’unica volta,
una volta vissuti e consumati appartengono al passato, quello
che resta sono le vibrazioni, le
onde, mai davvero l’esperienza
stessa. Non sto negando completamente il passato o il futuro, ovviamente, ma non penso che, come artista, si possa avere questo
ruolo sacerdotale di andare indietro nel passato, se capisco
correttamente quello che stai dicendo, per cercare e far emergere questo oro, questa conoscenza.
Per me quella sequenza ha più
valore delle notizie televisive,
del documentario o del pezzo
sulla Bielorussia perché allora
capisci che potrebbe esserci un
altro punto di vista ideologico
sulla Bielorussia. L’approccio
formale mi rende consapevole
della manipolazione che può esserci.
Belpoliti: Alla fine, al di là delle
nostre intenzioni, come dici tu,
la forma parla da sé. Dice più –
oppure meno – di quello che abbiamo voluto dire noi. Siamo tutti poststrutturalisti senza saperlo. Un po’ formalisti e un po’
sciamani. La magia nel lavoro
artistico non la si elimina mai,
c’è sempre. Ne è il vero segreto.
Per quanto abbia abbandonato
molte delle ideologie del passato, credo ancora a una certa sacralità dell’arte, da laico, ben inteso. Qualcosa che c’è al di là di
noi stessi, al di là delle fedi e delle religioni, delle ideologie e dei
credi politici. L’artista è uno sciamano avveduto, uno che sa, e
per questo fa, tuttavia non sa mai
bene quello che fa davvero. Il
mistero è il fulcro dell’arte, cinema o letteratura non importa.
Niente è programmabile, tutto ci
spiazza di continuo, anche in
quello che facciamo, soprattutto
lì.
(Traduzione di Martina Toti)
Kutlug Ataman
L’orrore in diretta della guerra
di Antonio Somaini
el 1924 il giovane anarchico e pacifista
tedesco Ernst Friedrich pubblica un
pamphlet intitolato Krieg dem Kriege!
(Guerra alla guerra!) con cui denuncia gli orrori, le sofferenze e le ingiustizie sociali che
avevano caratterizzato la prima guerra mondiale. Il libro esordisce con un appello in tre
lingue «all’umanità intera», in cui l’autore
espone il suo obiettivo: quello di presentare
ai lettori, con l’aiuto di immagini «catturate
dall’occhio inesorabile e incorruttibile dell’obiettivo fotografico [...] un resoconto veritiero
e oggettivo della realtà bellica». La sua fiducia nella forza persuasiva delle immagini e
nel valore testimoniale della fotografia è incrollabile: «non c’è nessuno al mondo che
possa dubitare della veridicità di queste fotografie e sostenere che non riproducono fedelmente la realtà» dice Friedrich. Per convincere l’umanità a rinunciare definitivamente alla guerra è sufficiente registrare oggettivamente e rendere visibile la devastazione del
corpo e delle cose che essa produce.
Friedrich persegue questo scopo disponendo
le immagini secondo un montaggio ben calcolato. Da un lato, infatti, Krieg dem Kriege! si
propone come un percorso lineare lungo il
quale incontriamo, in successione, immagini
fotografiche di giochi «diseducativi» che andrebbero sottratti ai bambini (soldatini, armi
finte, libri illustrati che propongono una visione eroica, fuorviante, della guerra), immagini di giovani arruolati che partono festanti per il fronte, trincee piene di cadaveri,
alti ufficiali che visitano i campi di battaglia
camminando su passerelle di legno per non
infangarsi gli stivali, il diverso trattamento riservato dopo la morte agli aristocratici e ai
proletari, gli effetti dell’uso dei gas e dei lanciafiamme, la devastazione della natura, delle città e dei paesi, la violenza sulle donne, e
infine, momento culminante, una lunga serie
di fotografie che ritraggono in modo spietato,
frontalmente o di profilo come in delle immagini segnaletiche, i volti orrendamente sfigurati dei feriti di guerra. Dall’altro, l’autore co-
N
struisce ogni coppia di pagine – destra e sinistra – come un accostamento scioccante volto
a rivelare, con l’aiuto di didascalie ironiche e
sarcastiche, lo stridente contrasto tra la realtà
disumana della guerra e l’ingenuo entusiasmo e la retorica di regime che l’avevano preceduta e accompagnata. Le immagini dei giovani che sfilano festanti per le vie delle città
(«Entusiasti… e di che cosa?») vengono affiancate a immagini di trincee ricolme di corpi accatastati («… dei campi d’onore?»). A sinistra, gli ufficiali nelle loro divise eleganti
che aspettano comodi l’esito della guerra di
trincea («Dietro le linee del fronte, l’erede al
trono tedesco, circondato dai suoi levrieri, famoso per la sua massima Dateci sotto!») e a
destra i cadaveri in putrefazione di soldati
anonimi («Sul fronte: l’erede al trono non è
presente»).
Siamo negli stessi anni in cui le potenzialità
del montaggio vengono esplorate da teorici e
cineasti come Kulesov, Pudovkin e Ejzenstejn
e in cui quest’ultimo vede nelle «attrazioni» –
ossia in quegli accostamenti di immagini capaci di produrre «scosse emotive» negli spettatori – lo strumento principale attraverso cui
il cinema può trasmettere il suo contenuto
ideologico e propagandistico. In un periodo in cui le immagini di guerra
circolavano in modo
ancora molto limitato e controllato,
Friedrich fa dunque
leva contemporaneamente sulle potenzialità del montaggio e sulla forza
testimoniale della
fotografia – la sua
capacità di proporsi
come ammonimento, come immaginechoc, ma anche come immagine-sinte-
si, in grado di riassumere perentoriamente
un evento storico e imprimerlo nella memoria collettiva – per esibire gli orrori della
guerra e smascherarne le ingiustizie.
Riletto a ottant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, l’appello pacifista lanciato da
Krieg dem Kriege! mantiene intatta la sua forza sconvolgente, e non è un caso che il libro
sia stato di recente tradotto in italiano con
un’introduzione di Gino Strada. Il suo uso
propagandistico dell’evidenza fotografica ci
appare come un gesto precursore, eppure la
sua fiducia nell’univocità e nel valore documentale delle immagini ci sembra in qualche
modo anacronistica. Non è solo la quantità
delle immagini che raffigurano gli orrori, le
sofferenze, le devastazioni della guerra a essere cambiata radicalmente rispetto agli anni
Venti – come sottolinea Susan Sontag nel suo
libro dedicato alla visione del dolore altrui,
«being a spectator of calamities taking place
in another country is a quintessential modern
experience», e la denuncia dell’onnipresenza
delle immagini-choc nei media, in base alla
massima «if it bleeds, it leads», è divenuta ormai un luogo comune. La vera differenza sta
nel fatto che oggi l’immagine di guerra, lungi
Chi è
Figura 1 - Ernst Friedrich, Krieg dem Kriege! (Guerra alla guerra!), 1924.
«Dalle giornate di agosto del 1914. Entusiasti... e di che cosa?»
Antonio Somaini
Figura 2 - «...dei “campi d’onore”»?
ntonio Somaini è docente di Storia delle teorie del cinema
all’Università di Genova e di Estetica al Politecnico di Milano. Tra le sue pubblicazioni: Rappresentazione prospettica e
punto di vista (CUEM 2005), le raccolte di saggi Atmosfere (numero monografico della «Rivista di Estetica», insieme a Tonino Griffero, 2007), Il dono. Offerta, ospitalità, insidia (Charta, 2001), Il luogo
dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini
(Vita e Pensiero, 2005), Esperienza e rappresentazione dello spazio
architettonico (CUEM 2006), e l’antologia Estetica (con Elio Franzini, Raffaello Cortina 2002). Nel 2001 ha curato la mostra d’arte contemporanea intitolata Il dono, e dal 2004 è curatore per la Domus
Academy di Milano della serie di workshop ed eventi espositivi
ArtExperience.
A
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Kutlug Ataman
Oggi l’immagine di guerra, lungi dal poter essere accettata unanimemente come
«resoconto veritiero e oggettivo della realtà bellica», è diventata essa
stessa un terreno conflittuale. Le forme mediatiche di visualizzazione della guerra
e della morte sono diventate ormai parte integrante delle strategie militari
dal poter essere accettata unanimemente come «resoconto veritiero e oggettivo della
realtà bellica», è diventata essa stessa un terreno conflittuale. Le forme mediatiche di visualizzazione della guerra e della morte sono
diventate ormai parte integrante delle strategie militari, convenzionali e non convenzionali, e senza voler cadere nella tentazione
inaccettabile di ridurre la guerra a evento
mediatico – assolutizzando la posizione dello
spettatore che osserva a distanza di sicurezza, e relegando in secondo piano coloro per i
quali la guerra purtroppo non è solo uno spettacolo visivo – non si può non prendere atto
del fatto che le guerre sono diventate ormai
anche un terreno di scontro iconico, in cui si
combatte a colpi di immagini, e in cui la risposta più efficace a un bombardamento è
spesso quella di renderne ben visibili gli effetti inesorabili sulla popolazione civile. Se
Friedrich pensava di poter sconfiggere la
guerra grazie all’evidenza e alla forza testimoniale delle immagini, oggi questa stessa
forza viene impiegata in modo strategico a fini militari, rendendo visibile ciò che altri nascondono, e facendo leva sulle interpretazioni opposte che pubblici diversi possono dare
delle stesse immagini.
I modi in cui le guerre vengono visualizzate
sono diversi e in costante trasformazione, e le
immagini di guerra possono ormai essere
considerate come un punto di riferimento
importante per riflettere sull’atteggiamento
complessivo che una società ha nei confronti
del visivo, sulla fiducia che nutre nel valore
documentale e testimoniale delle immagini,
e sul continuo spostamento dei confini tra
rappresentabile e irrappresentabile. Oggi come in passato non tutte le guerre sono visibili. Vi sono ancora guerre che vengono combattute «fuori campo», ma la visibilità di quelle «coperte» dai media si trasforma incessantemente. Tra il modo in cui sono state raccontate la prima e la seconda guerra in Iraq, per
esempio, vi sono delle differenze importanti.
La prima si aprì la notte del 17 gennaio 1991
con la diretta della Cnn da Bagdad, in cui si
alternavano le immagini sgranate del cielo
notturno della capitale irachena attraversato
dai traccianti luminosi della contraerea e il
volto in fermo-immagine di Peter Arnette che
raccontava le sue impressioni di testimone
oculare dell’attacco, senza però poterlo rendere pienamente visibile ai telespettatori.
Nelle settimane successive, quella che è stata
essenzialmente una guerra dall’alto venne
poi resa visibile attraverso le immagini inviate dalle videocamere installate sulle testate
dei missili «intelligenti», che inquadravano
l’obiettivo (strade, ponti, capannoni) come in
un mirino, avvicinandosi sempre di più per
poi dissolversi in un effetto neve che era indice dell’avvenuta esplosione. Immagini puramente tecnico-funzionali – «operative», come
Luoghi
le chiama il regista Harun Farocki, che a questo tipo di immagini ha dedicato nel 2003 una
serie di documentari intitolati Eye/Machine –
non pensate per uno sguardo umano, eppure
altamente spettacolari, in quanto restituivano la visione «in soggettiva» del proiettile che
colpisce il suo obiettivo.
Se però nel 1991 la regia mediatica dell’esercito era stata in grado di confezionare in modo integrale lo spettacolo della guerra per il
pubblico occidentale, con la seconda guerra
in Iraq lo scenario è profondamente mutato:
da un lato la collaborazione tra le forze anglo-americane e canali televisivi come Fox
Tv, Sky o Cnn proponeva immagini in diretta
registrate e trasmesse dai cronisti embedded
che assistevano in prima persona agli scontri
sul terreno, con una visione dal basso e dal
vivo, mentre dall’altro la nascita di network
satellitari come Al-Jazeera aveva introdotto
nel panorama mediatico un nuovo punto di
vista e immagini diverse, la cui interpretazione e il cui significato strategico era ed è costantemente oggetto di aspre contestazioni.
Grazie alla disponibilità di strumenti tecnologici di registrazione e trasmissione delle immagini sempre più leggeri e flessibili, e grazie alla nascita di altri network televisivi oltre
a quelli occidentali, la visibilità della guerra
negli ultimi decenni è dunque profondamente cambiata. I punti di vista si sono moltiplicati, le immagini proliferano nei media e nel-
Mappa mediatica dell’emergenza
di Francesco Casetti
ual è la nostra mappa mentale dell’emergenza? Cosa evoca la parola, e verso quale universo semantico ci conduce? Una volta la risposta sarebbe arrivata consultando un buon vocabolario. Adesso, in
epoca di media, la risposta non può venire che consultando l’atlante dell’immaginario che televisione, cinema, giornali, telefono, rete, ci rendono
disponibile continuamente.
Premiamo il tasto del nostro telecomando. Emergenza è naturalmente
E.R., la mitica serie televisiva che si svolge nel pronto soccorso del Chicago Hospital. Si tratta di una serie ormai qualche stagione orfana dei suoi
storici protagonisti, il dottor Ross e il dottor Green, oltre che l’infermiera
Hathaway: pensando con nostalgia a quel gruppo di personaggi caratterizzati da perenni pene d’amore, ci si chiede allora se l’emergenza di cui
parla il titolo (Emergency Room) non riguardasse assai più la sfera degli
affetti, prima ancora che quella dei corpi. Tra appendiciti, ferite da taglio,
tumori maligni, ciò che costantemente emergeva in E.R. era l’improvviso
battito di cuore per un partner imprevisto, o anche per la sua perdita (il
che specularmente è lo stesso). Le crisi cliniche nascondevano crisi sentimentali. Il vero pericolo era su quel fronte.
E.R. è una serie ormai storica, anche se continua ad andare in onda: oggi
il suo posto sembra esser preso da Doctor House. Siamo sempre nel campo delle emergenze ospedaliere: chi le affronta però è un medico anticonvenzionale che lavora con i metodi di un detective e ha una forte vena filosofica; c’è in lui la stessa furibonda (e folle) determinazione nel difendere la salute che si trova nel solitario e disperato tenente di polizia che
difende la legge, o nel pensatore preso da un raptus di onnipotenza che
vuole spiegarsi il mondo soprattutto nelle sue imperfezioni. Il che ci mostra un piccolo ma significativo spostamento rispetto al successo di ieri:
se in E.R. l’emergenza sembrava riguardare i corpi, ma investiva gli affetti, in Doctor House la malattia sembra un accidente, ma in realtà è un crimine. Dietro l’emergenza c’è sempre un colpevole: si tratti anche della
distrazione di un dio che non segue con sufficiente attenzione il mondo
che ha creato.
Q
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Dunque un’emergenza affettiva (in E.R.) e un’emergenza morale (in Doctor House). Lo stato di crisi appare legato ad una sorta di dilemma, che bisogna saper riconoscere dietro le apparenze. Il che cambia sensibilmente
le carte in tavola rispetto alle emergenze televisive classiche, quelle delle
serie d’antan. In Star Trek l’emergenza era l’incontro con forze sconosciute, incontrollabili. Un incontro dettato dal caso, lungo la rotta senza
meta di una astronave perduta nella galassia (come noi stessi da tempo
oramai siamo perduti nella realtà della metropoli, appena abbandoniamo le strade percorse ogni giorno; o come siamo perduti nei meandri di
una storia che ci interpella continuamente – un disastro qui, una crisi lì –
ma che di fatto non ci appartiene). E un incontro che metteva in luce una
insufficienza di conoscenza da parte dei nostri eroi, che non sapevano bene come affrontare ciò che si erano ritrovavano davanti (un po’ come nel
Western: se incontri un indiano, come fai a capire le sue intenzioni e il
suo linguaggio?). Insomma, in Star Trek l’emergenza era, classicamente,
un accadimento casuale che rivelava un buco cognitivo. Oggi appunto è
un’altra storia: la conoscenza non ci manca; semmai ci manca la capacità
di individuare quello che sta veramente succedendo, dietro le apparenze.
Ma allarghiamo la ricerca, e anziché su uno schermo televisivo cerchiamo di ricostruire la nostra mappa su uno schermo di computer. Batto
http://images.google.com e cerco «emergency». Il risultato sono circa
640.000 immagini disponibili. Il vero paradosso è che la prima della lista è
la vignetta di un uomo steso, fasciato e stirato su un lettino d’ospedale che
batte su un computer con le dita rimaste libere mentre il suo cellulare
suona sul suo comodino.
Si tratta del sito di un simpatico polemista che propone il problema di come continuare a lavorare se ti capita qualcosa. Il testo, ironico, esplicita la
questione: «Truth is, there’s no way that you can predict the time or place
that an emergency, crisis, or disaster will occur. The best bet is to be prepared to bail out of your office on a moment’s notice, and to have the ability to take your office and your work with you wherever you go».
Solo la seconda immagine, con il logo di un’ambulanza, ci riporta all’idea
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Kutlug Ataman
Grazie alla disponibilità di strumenti tecnologici di registrazione e trasmissione
delle immagini sempre più leggeri e flessibili, e grazie alla nascita di altri
network televisivi oltre a quelli occidentali, la visibilità della guerra negli ultimi
decenni è dunque profondamente cambiata
la rete, la platea degli spettatori si è ampliata
enormemente e le risposte spettatoriali si sono differenziate. Il mondo non può più essere
diviso nettamente in guardanti e guardati, e
di fronte alle immagini di guerra – così come
di fronte a ogni immagine – non ha senso parlare di «spettatore» in astratto, in quanto la loro visione e la loro interpretazione è terreno
di costante conflittualità e negoziazione tra le
diverse intenzioni di chi le produce e di chi le
fa circolare, tra chi spera di poter gestire
complessivamente la mediatizzazione della
guerra, chi le brandisce come incitamento alla vendetta, e chi le osserva con sguardo dolente. Come ci ricorda ancora Susan Sontag
in Regarding the Pain of Others, «no “we”
should be taken for granted when the subject
is looking at other people’s pain».
Guerra per immagini
In questo contesto di proliferazione epidemica delle immagini di guerra, che ne è del loro
valore testimoniale, della loro capacità di registrare l’esistente e di sollecitare una presa
di posizione? Considerate da un punto di vista iconologico, le immagini di guerra si presentano come un terreno particolarmente significativo per riflettere sul potere e sull’uso
strumentale delle immagini, così come sulla
loro capacità di imporsi come documento
storico. Questo problema è, da alcuni anni or-
mai, al centro di un ampio dibattito, in cui si
confrontano due opposti atteggiamenti, di fiducia e di scetticismo nei confronti del ruolo
testimoniale delle immagini. Le ragioni del
«partito scettico» possono essere riassunte
come segue.
a) Le immagini non possono essere considerate come documenti storici affidabili in
quanto intrinsecamente parziali, lacunose e
costruite. Ogni immagine è parziale e incapace di porsi come testimonianza di un evento
storico nella sua complessità in quanto riflette non uno stato di cose ma un punto di vista –
in senso sia letterale che metaforico – ed è lacunosa in quanto sempre circondata da un
fuori campo. Ogni immagine, poi, è costruita
– incluse le fotografie, in quanto frutto di una
scelta, di una selezione e di un’esclusione – e
ogni supposto realismo è sempre un «effetto
di realtà» convenzionale e storicamente variabile.
b) La ripetuta esposizione alla visione dell’orrore e la spettacolarizzazione del dramma e
del disastro, in cui la realtà si intreccia con la
finzione, anziché favorire un’assunzione di
responsabilità da parte dello spettatore, finisce in realtà per disorientarlo e renderlo apatico e indifferente, determinando una sorta di
paralisi cognitiva e morale. La piena visibilità
dell’orrore avrebbe quindi un effetto anestetico e derealizzante. Come scrive Antonio
Scurati nel suo Televisioni di guerra (Verona
Luoghi
di emergenza più tradizionale. Si tratta del sito di un distretto scolastico
che stabilisce le regole di comportamento in caso di pericolo. "A protection program is a vital element of the contribution of each school to the
safety and welfare of students and personnel … It should make provision
for first aid in case of injury and for the care of the children until they can
be returned to their family groups». Se i nostri figli debbono studiare, che
almeno siano sicuri di tornare tra noi.
La terza immagine ci riporta ad una definizione ancor più stretta di emergenza. Essa ci guida al sito www.epa.gov, un’agenzia governativa Usa che
predispone piani in caso di pericolo. Nella sua home page troviamo una
lista lunga e accurata di emergenze: Acid Rain, Air, Asbestos, Beaches,
Cleanup, Climate Change, Hazardous Waste, Human Health, Lead,
Mercury Mold, Oil Spills, Ozone, Pesticides, Radon, TRI Wastes, Water,
Wetlands, ecc; cui si aggiunge il rinvio a leggi come il Clean Air Act o il
Clean Water Act. Dunque l’emergenza riguarda diversi aspetti del nostro ambiente; anzi, se prendiamo la lista, quasi tutti gli aspetti del nostro
ambiente. Sapevamo che la Terra era ammalata, ma non così grave. Il sospetto che viene allora è che mentre l’emergenza, da un punto di vista lessicale, è qualcosa che emerge, quando emerge tutto, l’emergenza si scioglie nella normalità.
Le immagini successive ripetono spesso le situazioni che abbiamo fin qui
esaminato. Nel sito campuslife.cornell.edu/emergency vengono dettagliati i diversi livelli di allarme: «In a Level One emergency, you probably
will need to primarily refer to the Facilities Services Plan. In a Level Two
emergency, you might need to add the Essential Services Plan; Level
Three might necessitate also referring to the Campus Life Emergency
Plan and all the contact sheets and appendices throughout the manual.
Clearly, depending on the emergency, you will need to use information
found throughout these series of documents». La questione viene riportata alla presenza di un piano appropriato. Per tener sotto controllo la realtà, ci vuole soprattutto un manuale. Nella stessa logica di assicurazione
della pubblica opinione si muovono parecchie altre realtà. Il sito www.cit-
2003)– che prende come riferimento il pubblico occidentale e la prima guerra del Golfo
– «alla “visibilità totale” offerta dal medium
televisivo corrisponde, anche se in modo solo
apparentemente paradossale, la cecità e l’impotenza dello “spettatore totale” [...]. La conquista dell’ambiente simbolico da parte della
televisione, producendo la paralisi cognitiva
che inabilita la distinzione tra realtà e finzione, si traduce in un’irresponsabilità nei confronti dell’agire altrui e in una indisponibilità
all’agire in proprio».
c) L’indebolimento del valore storico-documentale delle immagini di guerra è ulteriormente favorito dalla crescente diffusione di
immagini digitali: immagini che, in quanto
visualizzazione di sequenze di dati espressi
in formato digitale (0 e 1), hanno perso l’ancoraggio referenziale proprio delle immagini
fotografiche tradizionali, analogiche, la cui
genesi, risultante dall’impressione di una
pellicola fotosensibile, le caratterizzava come
immagini-impronta, immagini-traccia, testimonianza incontrovertibile di ciò che in un
determinato istante di tempo «è stato» di fronte all’obiettivo. Nell’era dei media digitali le
immagini proliferano indiscriminatamente,
si smaterializzano, diventano più facilmente
manipolabili, circolano più velocemente, trasferendosi senza soluzione di continuità da
un medium a un altro, dando vita a un flusso
iconico in cui le immagini si sostituiscono
yoforlando.net predispone un piano contro gli uragani. Il sito www.london.ca/emergency illustra le esercitazioni anti-emergenza programmate, dagli attentati alla pandemia di influenza. Il motto che sembra emergere è quello degli scout: Estote parati.
Ma «parati» a che? A portare la pelle a casa? Quando anche la casa non è
certo più un rifugio? E quando anzi i rifugi non esistono più?
Ma voglio finire invece con l’estetica. Nel sito www.conceptimages.com
Noriko e Don provvedono a fornire a pagamento una serie larghissima di
loro foto-illustrazioni dedicate ai temi più svariati. Tanto per citare: Abstract, Americana, Animals, Automobile, Baby, rain, Cats, Classic Cars,
Communications, Computers, Concepts, Condoms, Desert, Doctor, Earth
and Globe, Eye, Fetus, US Flag, per finire con Volcano e World Map. In
questa lista non poteva mancare il file Emergency. Una ventina di immagini di camere d’ospedale, autoambulanze, elicotteri portaferiti. Pronte
per l’uso (le immagini) e a modico prezzo.
Insomma, siamo partiti dall’emergenza come gap cognitivo conseguente
ad un incontro imprevisto nelle serie tv più classiche: «la vera crisi è
quando non conosci il linguaggio di chi hai di fronte». Siamo passati all’emergenza come enigma in alcune serie televisive non aliene da una certa
riflessione ontologica: «l’emergenza non è dove pensi che sia, ma alligna
altrove: nel tuo stesso cuore, o nelle pieghe di una creazione imperfetta».
Siamo scivolati nell’emergenza come manuale di comportamento: «riconosci il grado di pericolo, e rispondi in modo adeguato». E siamo arrivati
all’emergenza come decorazione: «vuoi una bella foto? Scegli tra Cats, US
Flag e Emergency». Insomma, siamo arrivati all’ornamento, all’addobbo.
Non voglio far tornare i conti a tutti costi: ma in questo piccolo percorso
mi pare si manifesti molto dello spirito della nostra epoca; molto di un ieri immediato che credeva nella conoscenza e soffriva per i suoi buchi; e
molto di un oggi ormai imperante che pur si chiede cosa mai siamo, ma
risponde anche spesso con un kit di comportamento o con un ghirigoro,
forse per rispondere con un po’ di rassicurazione alle pressioni del mondo.
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Nell’epoca della proliferazione del visivo digitale nessuna immagine può rispecchiare
e riassumere un evento storico nella totalità. Al tempo stesso, la possibilità
di considerare le immagini come documenti da interpretare e su cui meditare non
è venuta meno. Il loro valore testimoniale non è definitivamente tramontato
gradualmente alla realtà, in un gioco di rimandi autoreferenziali che ci lascia in una
condizione di indecidibile indifferenza e ne
annulla il valore documentale e testimoniale1. Sebbene ampiamente diffuse, queste tesi
non appaiono del tutto condivisibili, e a esse
possiamo provare a opporre una serie di contro-tesi.
a) Sebbene singolare e lacunosa, concreta e
contingente, ogni immagine – incluse quelle
immagini particolarmente conflittuali che sono le immagini di guerra – non cessa di essere testimonianza e documento: di uno sguardo posizionato, eventualmente in contrasto
con altri modi di vedere, altri punti di vista,
altre intenzioni2. Nel loro insieme, le immagini di guerra contribuiscono a documentare
quello che Sorlin, in un suo studio intitolato
Sociologia del cinema, chiamava il visibile: ciò
che viene captato e trasmesso, che appare fotografabile e presentabile in un momento storico determinato, e grazie a cui si rivelano i
centri di attenzione ma anche le zone di oscurità, le abitudini percettive, le ossessioni ricorrenti di una determinata società.
b) La proliferazione delle immagini di guerra
non genera necessariamente apatia, indifferenza, distacco nei confronti di una realtà che
si è compromessa definitivamente con la finzione. L’affacciarsi sulla scena mediatica di
un pubblico di spettatori che non è necessariamente quello occidentale ha contribuito a
differenziare profondamente gli atteggiamenti spettatoriali e gli effetti politici delle
immagini, mostrando come queste, lungi dall’essere vissute con indifferenza, possono essere ancora veicolo e oggetto esse stesse di
violenza.
c) Il passaggio dall’analogico al digitale – con
tutte le conseguenze che esso ha determinato, in termini di maggiore facilità nella produzione, manipolazione e trasmissione delle
immagini – non ha avuto come effetto, a ben
vedere, un declino della fiducia nel valore
documentale delle immagini. Sebbene la loro genesi tecnica non le qualifichi più come
immagini-impronta, queste non cessano, nei
loro concreti usi sociali, di essere considerate
in molti casi come documentazione di fatti
realmente accaduti ed eventualmente come
prova. Certo, sono facilmente manipolabili,
ma anche facilmente trasmissibili, e questo
le rende meno soggette a strategie di controllo e di censura. Venuto meno il radicamento
foto-chimico delle immagini analogiche, si
cercano altrove dei tratti che possano fungere da garanzia della loro veridicità e autenticità: nell’immediatezza di una visione in presa diretta, o in quelle imperfezioni che possono rendere riconoscibili le condizioni contigenti in cui le immagini sono state registrate.
È così che immagini come quelle delle torture di Abu Ghraib, sebbene scattate con fotocamere digitali e immesse nel flusso della rete, sono state considerate come prove attendibili di fatti effettivamente accaduti. In altre
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parole, anche nell’era del digitale e del flusso
iconico inarrestabile, le immagini continuano a essere documenti e spesso a porsi come
immagini-sintesi che sembrano riassumere
emblematicamente, in pochi tratti, il significato complessivo di un evento storico. L’affidabilità delle immagini digitali non è necessariamente diminuita rispetto all’era dell’analogico, e del resto alcune delle più celebri
immagini-sintesi del periodo predigitale – dal
legionario colpito a morte fotografato da Robert Capa, alla bandiera innalzata dai soldati
russi sul Reichstag di Berlino o dai soldati
americani a Iwo Jima, attorno a cui è costruito tutto l’ultimo film di Clint Eastwood, Flags
of Our Fathers – rimangono avvolte nel dubbio.
In definitiva, così come in passato, anche nell’epoca della proliferazione del visivo digitale
nessuna immagine può rispecchiare e riassumere un evento storico nella totalità, né può
porsi come surrogato della memoria o della
riflessione. Al tempo stesso, la possibilità di
considerare le immagini come documenti da
interpretare e su cui meditare non è venuta
meno. Il loro valore testimoniale non è definitivamente tramontato: nel mondo dell’informazione e della comunicazione sociale esso viene riformulato costantemente in modo
imprevedibile – pensiamo all’uso che viene
fatto delle immagini scattate e trasmesse con
i cellulari – mentre in quello del cinema e
dell’arte è diventato spesso un valore da difendere di fronte alle tentazioni della simulazione artificiale integrale.
Negli ultimi decenni, anche in anni precedenti l’avvento del digitale, le arti visive e il
cinema non hanno smesso di confrontarsi
con il problema del valore testimoniale delle
immagini, riflettendo sulle conseguenze della sempre crescente visualizzazione mediatica dell’orrore e della morte. Nel campo della
pittura possiamo individuare due figure che
hanno incarnato due modi profondamente
diversi, quasi opposti, di porsi di fronte a questo nuovo scenario. Due artisti – Andy Warhol
e Gerhard Richter – e due cicli di dipinti – i
quadri della serie Death and Disaster di Warhol, realizzati a partire dal 1962, e il ciclo October 17, 1977 completato da Richter nel 1988
– in cui si cristallizzano due diverse posizioni
nei confronti della rappresentazione fotografica della morte e del valore storico e mnestico delle immagini: da un lato un atteggiamento blasé, che sottolinea il fascino della
rappresentazione mediatica della morte ma
al tempo stesso ne afferma la superficialità e
l’insignificanza; dall’altro, il permanere di un
atteggiamento di fiducia nella capacità dell’immagine di porsi ancora come documento
e come oggetto di meditazione.
Entrambi i cicli nascono da un paziente lavoro di selezione e di montaggio delle immagini
che i mass media ci propongono quotidianamente. Warhol raccoglie da ritagli di giornale
le immagini di incidenti automobilistici, sui-
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cidi spettacolari, tumulti urbani, tragedie
raccontate dalla cronaca (incidenti aerei, casi
di avvelenamento), sedie elettriche. Attraverso la serigrafia, i colori stridenti e la ripetizione seriale, esibisce la morte come evento
anonimo ma spettacolare, glamorous, come
momento di incandescenza mediatica che si
offre a uno sguardo al tempo stesso voyeuristico e apatico. La ripetizione è in Warhol uno
strumento di neutralizzazione e di de-realizzazione, e al tempo stesso rimanda all’esistenza mediatica, seriale e fluttuante, di queste stesse immagini, nei giornali, nelle riviste, alla televisione.
Richter raccoglie invece le immagini della
storia e della tragica fine nel carcere di sicurezza di Stammheim dei principali componenti della banda Baader-Meinhof: Holger
Meins, morto nel 1974 durante uno sciopero
della fame; Ulrike Meinhof, trovata impiccata
nella sua cella il 9 maggio 1976, poco prima
che lei e i suoi compagni fossero condannati
all’ergastolo; Andreas Baader e Gudrun Ensslin, trovati morti (suicidio?) nelle loro celle
il 18 ottobre 1977. Raccolte a decine nell’Atlas
– l’atlante in fieri di immagini a cui Richter lavora dall’inizio degli anni Sessanta, e che ormai è composto da più di 700 pannelli in cui
si susseguono fotografie di famiglia, di amici
e conoscenti, autoritratti, ritagli di giornale,
ritratti di grandi personalità del XX secolo,
ma anche immagini dell’Olocausto, immagini pornografiche e di guerra, foto di viaggio,
paesaggi, disegni astratti e progetti di installazioni delle proprie opere – le immagini dell’arresto, della morte e dei funerali dei componenti della Baader-Meinhof vengono selezionate, rifotografate, montate in sequenza e
dipinte con toni di grigio, usando una tecnica
– spesso descritta come Ent-malung, de-pittura – che le rende sfuocate e a malapena riconoscibili. Alla ripetizione letterale e seriale di
Warhol subentra qui uno stato di sospensione, di distanziamento, in cui l’evidenza fotografica viene progressivamente s-dipinta, come se le immagini fossero sospese tra memoria e oblio. Le stesse immagini fotografiche
che in Warhol venivano trattate come istanti
di incandescenza mediatica ripetuti fino a diventare insignificanti, diventano in Richter
oggetti di meditazione, documenti che conservano e tramandano tutto il loro ambiguo
valore testimoniale.
Note:
1 Questa posizione viene espressa molto chiaramente da
Baudrillard in Simulacres et Simulation, in cui l’autore
descrive quattro fasi successive dell’immagine: «1) elle
est le reflet d’une réalité profonde; 2) elle masque et dénature une réalité profonde; 3) elle masque l’absence de
réalité profonde; 4) elle est sans rapport à quelque réalité que ce soit: elle est son propre simulacre pur» (J. Baudrillard, Simulacres et Simulation, Galilée, Paris 1981, p.
17).
2 A difesa del valore storico-documentale delle immagini
si schierano sia Peter Burke nel suo Testimoni oculari. Il
significato storico delle immagini (Carocci, Roma 2002),
sia Georges Didi-Huberman, che in Immagini malgrado
tutto (Raffaello Cortina, Milano 2005) affronta la questione complessa dello statuto delle testimonianze visive
della Shoah.
Kutlug Ataman
Spettatori, sorveglianti o sorvegliati?
di Roberto Escobar
occhio è un organo del potere. Basterebbe a provarlo lo slogan trasparente cui qualcuno affidava le proprie
fortune elettorali nell’Italia del dopoguerra:
dio ti vede. Oggi sorridiamo di quella arcaica minaccia ottica. Temibile ci sembra piuttosto la vista puntuta di una moltitudine di
modernissimi dèi tecnologici. Chissà, forse
la rete informatico-satellitare di Echelon,
qualunque cosa davvero sia, nell’immaginario ancora vale come un dio scrutante e
assoluto. Echelon ci vede, appunto, e sotto il
suo sguardo ci sentiamo dettagli impotenti.
Insomma, si tratti di un occhio dentro un
triangolo o di un sistema di sorveglianza globale, sempre l’onnipotenza viene immaginata – e anzi proprio ci si mostra – come onnivedenza. Per quanto mutino le credenze e gli
«strumenti tecnici» che le nutrono, un punto
sembra fermo: il potere s’accompagna alla
pretesa (spesso ostentata) di scrutare la vita
degli esseri umani fin nei loro ambiti più
segreti. Non importa che si tratti di un potere solo religioso o solo politico, o politico e
religioso insieme, come di nuovo accade nel
mondo, anche in Occidente. In ogni caso, e
con certezza, l’occhio è un suo organo
necessario, almeno quanto lo sono la bocca
(di chi comanda) e l’orecchio (di chi obbedisce).
L’
Synopticon
In realtà, Bentham per primo nega che i
reclusi del Panopticon si possano osservare
tutti e in ogni momento. E poi, nota, costerebbe troppo. Più facile è convincerli che
sono, se non visti, comunque sempre visibili. A questo scopo, basterà che i guardiani
stiano nascosti dietro speciali persiane cieche che però consentano loro di guardare. E
poi sarà necessario che quelle persiane
incombano sulle celle, imponendosi agli
occhi dei reclusi. Sarà necessario, cioè, che
essi le vedano, e che ne traggano la certezza
d’esser sempre in balìa di un occhio. Insomma, e per paradosso, la macchina di Bentham non è tanto un panopticon, quanto un
synopticon. Ossia: funziona non perché i
pochi (i guardiani) vedano i molti (i reclusi),
ma perché i molti guardano i pochi, o meglio
guardano gli strumenti e i simulacri della
loro onnivedenza. Dietro le persiane potrebbe non esserci alcun guardiano. Basterebbe
che i reclusi lo credessero, convinti da quello
che il potere mostra loro.
Echelon è dunque superfluo? Certo no. La
macchina panottica consente un controllo
efficace sui «dissidenti», e un’efficace sanzione. Ma per la maggior parte degli uomini
e delle donne, e per la maggior parte del loro
tempo, a garantire l’obbedienza bastano i
loro stessi occhi, tutti insieme orientati alle
macchine prodigiose che del potere mettono
in scena l’onnivedenza, e dunque l’onnipotenza.
Poiché siamo in tema di sguardi, proviamo a
rovesciare il nostro. Invece di immaginarci i
reclusi del Panopticon, guardiamo verso l’altro lato della macchina d’obbedienza, verso i
guardiani. Anch’essi sono scrutati da guardiani più alti in grado di cui, anch’essi, vedono le persiane cieche. In tal modo, scrive
Bentham, faranno quel che devono, proprio
come i reclusi. Ma non è solo questo che li
convince. Insieme, chiusi nelle loro stanze
d’osservazione, conta per loro il desiderio di
sfuggire alla noia. E che cosa c’è di più
divertente, e di più a portata d’occhio, dello
spettacolo dei reclusi e della loro vita infelice nelle celle?
Se poi insieme con loro abiteranno mogli
e figli, anch’essi passeranno le loro giornate a quel modo. Tutto questo suggerisce
Bentham. E a noi si fa evidente un altro
spettacolo, stranamente familiare. Sono
spettatori, e anzi sono proprio telespettatori ante litteram, quei guardiani, e lo sono
le mogli e i figli.
Sono spettatori che «spontaneamente»
guardano là dove la macchina d’obbedienza vuole che guardino. E a questo guardare si riduce tutta la loro vita.
Insomma, nel mondo panottico/sinottico
qualcuno obbedisce perché guarda gli strumenti della sorveglianza, e qualcun altro
obbedisce (anche) perché guarda i sorvegliati. Vogliamo concluderne che i primi
sono i più vicini al potere, i più «liberi» e ric-
È il Panopticon che fissa e descrive nella
nostra cultura politica il ruolo centrale dell’occhio. E panottica è oggi la nostra angoscia di vivere in balìa d’un potere senza limiti tecnici, e in questo senso assoluto. L’essere del tutto esposti alle sue telecamere: questa ci sembra la condizione di un’illibertà
quasi invincibile. A noi capita davvero, così
ci sembra, quel che solo in teoria capita ai
reclusi della «casa di sorveglianza» progettata da Jeremy Bentham. Come loro, anche noi
siamo tutti e in ogni momento scrutati da un
piccolo numero di guardiani.
Chi è
Roberto Escobar
oberto Escobar insegna Filosofia politica all’Università di Milano e collabora con il «Sole-24 Ore». Tra le sue ultime pubblicazioni: Il silenzio dei persecutori
ovvero il Coraggio di Shahrazàd (Il Mulino,
2001) e La libertà negli occhi (Il Mulino,
2006).
R
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77
Kutlug Ataman
Nel mondo panottico/sinottico qualcuno obbedisce perché guarda gli strumenti
della sorveglianza, e qualcun altro obbedisce (anche) perché
guarda i sorvegliati. Vogliamo concluderne che i primi sono i più vicini al potere,
i più «liberi» e ricchi, e che i secondi sono i più poveri, gli esclusi?
chi, e che i secondi sono i più poveri, gli
esclusi? L’ipotesi è fondata. Ma si può anche
immaginare che siano, gli uni e gli altri,
sempre gli stessi spettatori totali, ora considerati nella loro illusione d’essere appunto
liberi, e ora considerati nella loro effettiva
illibertà.
C’è della genialità, nel Panopticon. La sua
architettura è tale che l’obbedienza e la sofferenza di una parte funzionano come «spettacolo» che sorregge l’obbedienza dell’altra.
E tutto procede verso lo scopo finale della
macchina: l’ordine e la massimizzazione
dell’utilità generale. Occhio nel triangolo o
Echelon che sia, la messa in scena dell’onnivedenza garantisce che il mondo abbia un
senso, e una coerenza. Certo, qualche infelice sta rinchiuso nella sua cella, senza possibilità di decidere di sé, e senza possibilità
materiale di disobbedire. Ma tutto questo
non è che un elemento di quella coerenza, e
come tale è legittimo, e anzi proprio necessario.
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Se poi qualcuno tra gli infelici sarà tentato di
rivoltarsi nel solo modo che gli sia ancora
possibile, cioè urlando la sua disperazione,
ai guardiani/spettatori basterà entrare nella
sua cella e imbavagliarlo, per non esser più
infastiditi. E a quel punto che cosa potrà
fare? Potrà gettarsi con la testa contro il
muro, ma in silenzio, senza disturbare i suoi
carcerieri. Dunque, presto capirà che è nel
suo «interesse» arrendersi e obbedire. Alla
fine si acquieterà, conclude Bentham, e in
lui morirà il desiderio stesso della libertà.
Tutto questo, in piena indifferenza, vedono
(e fanno) quelle tranquille famiglie di spettatori totali, ben strette attorno alle persiane
cieche, magari riunite a tavola. E non ne
provano spavento morale.
Dettagli
Qualcosa qui dovrebbe emergere ai nostri
occhi, come un uno scandalo e una «pietra
d’inciampo». È evidente, quel qualcosa, ma i
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lettori di Bentham, anche i più «occhiuti»,
per lo più non lo vedono.
Lo spettacolo che si offre ai guardiani è orribile: è questo orrore che dovrebbe emergere, e che invece resta nascosto. Quello che
gli spettatori totali vedono ogni giorno, e per
tutto il giorno, è la disperazione di poveri
esseri derubati d’ogni libertà, d’ogni umana
dignità. Sono schiavi, e ancor peggio che
schiavi. Sono violati fin nel segreto di se
stessi, evirati d’ogni speranza di libertà e
desiderio di rivolta. Se gli spettatori totali
non vedono questo scandalo, non è perché
siano esseri umani mostruosi, ma proprio
perché sono esseri umani normali: ossia,
partecipi della norma della macchina, della
coerenza della sua messa in scena. Come in
un film già tutto girato, o come in un libro
già tutto scritto, la storia – la loro personale
e quella totale della macchina – viaggia spedita verso una meta che nessuno mette in
discussione. Ovvio perciò che sia solo dettaglio quel che devia dal cammino condiviso.
E i dettagli per lo più non si notano.
Come i guardiani di Bentham, anche noi
ogni giorno siamo assaliti da immagini per
se stesse «evidenti» di corpi straziati e di
anime stuprate. Ma è tutto necessario, ci
diciamo, e dunque è tutto legittimo. Lo è
anche se ci capita di intenerircene, e di partecipare a una delle molte messe in scena
(per lo più televisive) d’una pietà anch’essa
«necessaria e legittima». Come all’indifferenza morale, anche a questa pietà ridotta a
spettacolo niente si fa davvero evidente:
niente che riesca a emergere, e a chiedere
che tutta la macchina d’obbedienza perda
appunto necessità e legittimità.
Si dice che la nostra cecità per i dettagli derivi da un eccesso di immagini, ossia dal fatto
che le «persiane cieche» che ci riempiono gli
occhi siano tanto dense di orrore da indurci
a dubitare della loro attendibilità, e forse ad
annoiarcene. E si dice anche che la nostra
indifferenza nasca dalla consapevolezza che
niente ci è dato di fare, come singoli, in un
mondo dominato dall’onnipotenza di imperi
del male e di imperi del bene, di terroristi in
nome di dio e di terroristi in nome dello
Stato.
Ma forse si tratta solo di una questione «ottica». Siamo troppo presi dal timore che la
nostra libertà sia negata da un grande
occhio scrutatore, e insieme siamo troppo
presi dal desiderio di godere della sua messa
in scena, e così non riusciamo a vedere che
quella nostra libertà muore ogni volta che
muore un dettaglio.
Proprio questo vuole il dio che ci vede,
chiunque o qualunque cosa esso sia. A noi
però resta la scelta e anzi proprio la decisione di contrapporre al suo occhio totale e
assoluto il nostro singolare e attento a quel
che è relativo. E qui si apre una questione
certo politica, ma anche e soprattutto etica.
Fabio Mauri
L’arte è ciò che resiste
La creatività come argine morale e politico. Biografia di un artista italiano
Inverosimile
di Fabio Mauri
Attraversando lo specchio dell’ideologia
Intervista a Fabio Mauri di Stefano Chiodi
A cosa serve la critica
di Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi
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Fabio Mauri
Inverosimile
di Fabio Mauri
L’artista, l’opera
abio Mauri, nato a Roma nel 1930, è da più generazioni un
punto di riferimento nella scena artistica italiana contemporanea. Con estremo rigore etico, morale e politico ha sempre
lavorato sugli stessi canovacci: i modelli comportamentali dell’ingiustizia, della sopraffazione e dell’autoritarismo, l’interpretazione
storica quale necessità di libertà, contro la rimozione della memoria
personale e collettiva. Con Mauri la storia rivive attraverso molteplici artifizi: luci, suoni, segni d’epoca, costumi, prospettive. I diversi
mezzi che l’artista adopera – e quindi le differenti tecniche di comunicazione – pittura, accadimenti, azioni, ambienti, installazioni,
scritti teorici interagiscono di continuo e lungo l’arco di oltre cinquanta anni. Fine dai primi esordi pittorici, alla base di tutta la sua
produzione vi è una riflessione sullo schermo – quello cinematografico e quello televisivo – e sulle implicazioni della proiezione nella
società e nella soggettività contemporanea.
Mauri vive la sua infanzia durante il fascismo, e matura il suo pensiero e la sua opera negli anni Cinquanta, quando, oltre al cinema,
arriva la televisione. In questo contesto va collocato l’inizio della sua
ricerca, quale contributo anticipatorio del dibattito attorno alla teoria della comunicazione. Nel corso del decennio successivo, mentre
la Pop Art si astiene da qualsiasi giudizio sull’oggetto delle proprie
rappresentazioni e non si interroga sulla comunicazione stessa, né
sui rapporti tra arte e comunicazione, è proprio invece quest’ultimo
il terreno su cui scende Mauri, esplorando i nessi e le contraddizioni tra comunicazione e ideologia, estroversione dello spettacolo e
introversione del «testo» (fino alle proiezioni di sequenze di un film
di Pasolini sul petto del regista).
A partire dai primi anni Settanta, poi, le sue opere non si riferiscono
F
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più direttamente al mondo virtuale dello schermo, bensì al racconto
che vi è narrato.
Ormai all’interno della «proiezione», lo spettatore è compartecipe,
attraverso l’azione di persone vere, e attraverso gli oggetti che popolano questo spazio della manipolazione, del manifestarsi e dell’incarnarsi dell’ideologia: dalla prima volta di Che cosa è il fascismo
(1971), a Ebrea (1971), Vomitare la Grecia (1972), Manipolazione di
Cultura (1973 – 76), Oscuramento (1975), etc.
Dalla pittura alla performance, rasentando il teatro, con questi lavori Mauri è tra i primi della sua generazione a cogliere l’opportunità
nata dagli sconfinamenti «extrapittorici» e concettuali dell’arte degli
anni Sessanta e Settanta, distinguendosi , però e radicalmente, attraverso l’invenzione di forme espressive assolutamente sue proprie,
così originali da poter essere portate avanti fino ad oggi senza mai
cadere in quei manierismi ripetitivi che sostituiscono oggi il limite
di ricerche solo nominalmente d’avanguardia.
Tra performance, teatro e installazioni l’opera di Mauri attraversa
liberamente i linguaggi della rappresentazione ponendo come
riflessione critica il valore e l’uso del linguaggio in quanto tale: la
manipolazione dell’immagine e del suo valore semantico, l’uso delle
parole, il valore politico e sociale, ideologico e di manipolazione.
L’arte allora diviene un esercizio di critica teso a svelare i meccanismi con il fine di proporre un atteggiamento di resistenza che diviene coscienza critica e tensione morale.
A pagina 79 Che cosa è il fascismo, 1971. (performance) Museo Pecci, Prato, 1993.
Foto: Claudio Abate
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L’installazione mostra la cultura che mi ha guidato una
vita.
È un ritratto in frammenti di culture di dimensioni estese, certo complesse, dell’Europa in cui vivo. Mi aiutano le
luci dei film preferiti, trame intelligenti, veri giudizi sul
mondo.
Il nazismo, il fascismo, una cultura formale, psicologica,
l’espressionismo indelebile, le dinamiche di avanguardia, la guerra, l’ideologia del turbamento, le rivoluzioni
mancate, un ordine di cose, anzi un disordine delle successioni reali che formano la presenza incoerente del
destino, un dato solo esterno, è la materia dell’opera.
Scenario o scena mobile, più che un’installazione. Vi è
esclusa l’immobilità simbolica di oggetti troppo severi.
Scorrono, su chi assiste, i segni del secolo. Possono
venire calpestati, visti in un accurato ingrandimento,
che a tratti, come succede, una mano coloratissima
tinge su di una scena sbiadita. È la realtà in cui vivo, io e
pochi altri? Non credo. Una città di gente è tecnicamente infelice, tesa verso uno schermo irreprensibilmente
disadatto a inserire una tregua tra gioia e dolore, in cui
l’essere smetta di essere praticato senza uscita, alla
cieca.
I sonori, vari e diversi tra di loro, indicano il materiale
auditivo irresistibile, che incute paura o seduzione, persino sciocca, ma efficacissima. La tenerezza si offre a
chiunque, ritmicamente, annullando l’avidità del frastuono.
Forse la mia scena è viziata. Un naturalismo urbano, percepito da vicino in frangenti eccezionali, come è nelle
scissioni cerebrali dell’Alzheimer, accostate in una persona che amavo, conduce a una visione non irreale, ma
unilaterale, severa e giudice del mondo. Mi ha congelato.
Un vetro in pezzi non deformi, specchiante realtà ugualmente in pezzi.
Ho chiesto aiuto a strepitosi talenti, non mi hanno detto
di no.
Come rimanessi in casa, nella mostra faccio comparire
figurette di strada, accanto a vere esibizioni di genio. Da
laboratorio esperto la mia mente è divenuta una scena
inerme. E aspira, se è lei, a farsi imprenditrice di nuova
realtà.
Ogni giorno mi imparento con ciò che vedo. Piazza Navona pullula di figure egizie, romane, fiabesche, statue
vive. Ho cercato di portarne con me, fanno parte dell’incomprensibilità minore del mondo. L’ironia c’è, ma sembra esclusa dai grandi temi dell’universo.
Nel conto tra terra e cielo evito l’errore di considerarne
uno solo. Entrambi formano l’essere, un intreccio inseparabile.
Secondo un’antica definizione di Umberto Eco, questa
mostra è un’opera «integrata» (a un linguaggio, a una
storia dell’arte moderna, alla pratica di un clima civile o
barbaro) ed è anche «apocalittica» (per il pensiero di Dio
e della fine, secondo Giovanni, che viene citato).
Non vi è contrasto, semmai circola una passività condivisa, per accostare, in segreto, le mosse gigantesche,
essenzialmente mal disegnate, quasi invisibili, della storia.
La mia età esclude di venirne a capo. Posso fissare nell’occhio il destino e gridare «Ti ho visto!».
La grande croce di El Lissitzkij mi assista.
Roma, 2/3/2007
Fabio Mauri
Fabio Mauri
Attraversando lo specchio dell’ideologia
Intervista a Fabio Mauri di Stefano Chiodi
na dimensione esplicitamente politica si è affermata nel tuo lavoro
solo a partire dagli anni Settanta; cosa ha preparato questo mutamento rispetto al tuo
percorso precedente?
Fino al 1964 avevo fatto parte del
gruppo di giovani artisti attorno
a Piazza del Popolo. Si pensava
che cambiando la lingua si migliorasse il mondo, si aprissero
le porte di un’arte nuova. L’espressionismo astratto era stato
alla base dei nostri primi tentativi, della nostra riflessione sul
rapporto con la realtà: conoscevamo da vicino gli artisti americani. Poi ci fu il 1964 e la Biennale con la rivelazione della pop
art. I pittori americani facevano
le stesse cose che avevamo cominciato a fare dal ’57-58, ma in
dimensioni che noi non avevamo
mai raggiunto, opere di oltre tre
metri, immagini gigantesche vicine al design industriale e pubblicitario. Capii subito che era il
seppellimento italiano, mentre
gli altri no, pensarono «Siamo
sulla giusta strada, andiamo a
New York!». Non fu così: chi andò
in America ci rimase un anno,
due, ma alla fine tutti dovettero
tornare. L’America non naturalizzò gli artisti italiani. Le ragioni
sono diverse e note.
U
E quale fu invece la tua reazione?
Mi fermai a riflettere, era evidente che la cultura artistica
aveva spostato il suo baricentro.
Da una parte c’era New York,
culturalmente vitale, e dall’altra
un’attesa altrettanto vitale per la
Russia che ancora non aveva
prodotto nulla; in mezzo si apriva una grande valle che comprendeva l’Italia, un paese in
qualche modo culturalmente
scartato per diverse ragioni, per
la lingua forse; ma comunque
scartata era anche l’Inghilterra,
benché tra Roma e Londra ci fossero stati artisti che avevano intuito la nuova realtà della società
dei consumi. Per qualche anno,
dal ’64 al ’68, non ho fatto mostre.
Sono stati anni di riflessione?
Una specie di depressione riflessiva, in cui notavo che gli americani erano più brutali, più diretti. Noi avevamo inconsciamente
l’occhio a una misura classica.
C’era su di noi l’ombra della
grande arte. Non riuscivamo ad
affrontare la realtà, non saremmo stati capaci di fare una scultura con la Coca-Cola. L’ho scritto altre volte: la bottiglia del
Chianti non poteva avere la stessa funzione emblematica, rimaneva dialettale. Era necessaria
una presa di posizione di fondo;
volevo capire. Da quando, e dove? Ho iniziato dalla prima giovinezza, dalla mia biografia. C’era
stato il fascismo, la guerra, lo
sterminio degli ebrei. Dovevo ricominciare da lì, analizzare i disastri subiti, il freddo, la fame, la
paura, i bombardamenti. Uno
scoppio – un terremoto – quando
si usciva all’aperto non vedevi
più il palazzo di fronte, sentivi
che una famiglia era morta. Ho
cominciato a riflettere su tutto
questo. Impresso nella memoria
trovai un raduno di Ludi juveni-
Chi è
Stefano Chiodi
tefano Chiodi è storico e critico d’arte. Si interessa all’arte e
all’estetica contemporanee cui ha dedicato articoli e volumi
come Espresso (Electa 2000), Prototipi (Sossella 2004) e il
recente Una sensibile differenza (Fazi 2006). Ha curato edizioni di
testi francesi e anglosassoni e mostre in musei pubblici (la più
recente: vedovamazzei, MADRE, Napoli 2006). Per l’editore Fazi
dirige la collana «Arte» e scrive su «il manifesto», «Alias», «Il Caffè
Illustrato», «Tema Celeste». Insegna storia dell’arte all’Accademia di
belle arti di Macerata.
S
les a Firenze, nei giardini di Boboli, dove ero stato con Pasolini,
Fabio Luca Cavazza, Francesco
Leonetti. Avevamo incontrato i
giovani della Hitlerjugend. Le ragazze con le treccine, i maschi
solo biondi, alti uguali. Noi eravamo un po’ diseguali, uno con
le fasce storte, l’altro col fez in
un modo ecc. Ripensando a quelle giornate riflettevo sull’aspetto
politico e storico del destino, a
come la storia incide sulla vicenda dei singoli. Sembra un incidente, ma è la sostanza di una
vita.
Come si trasformò allora il ricordo dei Ludi juveniles in un
lavoro artistico?
Volevo fare una mostra che riferisse di queste memorie, presentando un oggetto storico, senza
aggiungere niente. Da un vecchio negoziante avevo trovato il
microfono di Mussolini, l’originale, chiuso in una scatola come
una reliquia, sepolto nella bambagia. In quel microfono era passata la voce, lo sputo di Mussolini… dai piccoli buchi era filtrata
la dichiarazione di guerra. Milioni di persone erano divenute
soggetti di un destino. Ho fatto di
tutto per avere quell’attrezzo. Ho
detto bassezze, «Noi fascisti…».
Ero pronto ad aprire un mutuo
per acquistare il microfono, l’idea era eloquente. Il simbolo
parlava di una realtà storica italiana, europea.
E te lo ha dato alla fine?
No, il vecchio non c’è cascato…
Nel frattempo, era il 1971, Giorgio Pressburger mi chiamò
all’Accademia d’Arte Drammatica per un seminario e una performance. Avevo sempre in
mente quel che avrei potuto fare
con il microfono di Mussolini.
Da questa idea derivò Che cosa è
il fascismo. Decisi di rimettere
in piedi con gli allievi dell’Accademia il raduno di Boboli, cercando di ricostruirne esattamente l’atmosfera, togliendo il
cowboy o la pin-up dalla gestualità dei giovani, insegnando alle
ragazze a sedersi con le ginocchia chiuse e ai ragazzi a stare
diritti, a marciare e ubbidire
subito agli ordini… Il primo
insegnamento consisteva nell’essere di un’epoca per loro
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sconosciuta. Mi sono messo in
cerca di testi di Mistica Fascista,
li ho trovati e assemblati per
ricreare quegli scambi tautologici che ricordavo di aver ascoltato: «Perché credi nel Duce?»,
«Perché il Duce ha detto di credere in lui», «Ed è giusto?», «Sì,
lo ha detto il Duce!»…
In quegli anni qual era la tua
percezione del fascismo? Lo
consideravi una «parentesi»,
come aveva detto Croce, una
pagina nera della storia italiana, oppure, come Gobetti, l’autobiografia della nazione, un’ideologia che aveva avuto un
seguito reale nel paese?
Del fascismo non parlava più
nessuno, lo si giudicava un’esperienza politica chiusa, che la democrazia aveva già giudicato e
condannato. Non era vero: Che
cosa è il fascismo è andato in scena tre giorni dopo il golpe Borghese! Tutte le volte che io ho ripreso Che cosa è il fascismo ho
dovuto lottare fino all’ultimo
contro questa riluttanza a fare i
conti con la realtà. Gobetti aveva
molta ragione.
Che cosa è il fascismo è stato
pensato più in termini teatrali,
come messa in scena, o come
una performance che coinvolgeva in modo specifico interpreti e pubblico?
È teatrale nel senso che ho inventato una scena, una sintesi
spaziale di ciò che avevo vissuto,
ma la scena era anche un’installazione orientata come un tunnel. Non c’era una trama, ma un
percorso mentale. Le tribune nere, attorno al grande tappeto, disegnavano l’unico punto della
dottrina fascista di una certa
consistenza: il corporativismo.
C’erano le tribune dei familiari,
dei giornalisti, degli ingegneri,
dei grandi proprietari terrieri,
ironicamente. Il pubblico assumeva o meglio subiva la sua parte, sedendosi in tribuna. Erano
perfetti attori involontari, borghesi, popolari, ignari, stupiti,
divertiti, offesi, vecchi e giovani.
E c’era anche la tribuna «razziale»…
Sì, due tribune, piccole, con la
stella ebraica. Era un modo per
rendere la «normalità» iniziale
87
Fabio Mauri
»Io faccio una cosa situata tra il teatro e la performance, rimango dietro le cose, mi
basta pilotarle fino al dettaglio. È una forma quasi privata, espongo
ciò che il mio Io sa. L’arte che faccio è frutto di elaborazioni di coscienza, operazioni
pubbliche ma fortemente individuali. Diventano politiche nella lunga durata»
delle leggi razziali che furono
anche la fine dell’identificazione
della mia dolce vita giovanile
con la vita fascista.
E quale visione volevi far
emergere in quella e nelle altre
tue performance che hanno
come tema il fascismo?
Avevo trovato il fondo di un
carattere critico, il mio. E il
possibile inganno delle idee. La
performance doveva essere
una specie di termometro della
storia italiana, di un fascismo
diffuso, del suo essere classista,
del privilegiare i più forti, della
sua essenziale superficialità.
Una cosa ricordo bene: i capimanipolo, i capiclasse, i capisquadra, erano i più stupidi,
sempre; più sciocchi e più
autoritari perché avevano bisogno di qualcuno che detenesse
la verità che loro amministravano, e questo ovunque. Nel
gruppetto di intellettuali con
cui condividevo una piccola
notorietà bolognese – Pasolini,
Serra, Cavazza, Telmon… – iniziammo a sentire il ridicolo
delle parole d’ordine, della
mascherata settimanale…
La performance era anche un
modo per «politicizzare» la scena dell’arte?
Per me l’arte che si politicizza in
realtà è l’arte che approfondisce
la coscienza e la conoscenza del
mondo, che scopre il destino
formato da caratteri interiori e
personali, persino fisici, e da
elementi esterni ed eterogenei,
estranei. La guerra ad esempio,
non è un incidente, ma una percentuale non indifferente che il
destino occupa nella vita degli
individui, e in cui la politica ha
un peso straripante.
Come consideri la scelta di
Pasolini con «Salò», e cioè mettere in scena il testo di Sade in
un contesto fascista? È un’operazione che somiglia alla tua
da questo punto di vista?
Me lo sono chiesto più volte.
Alcuni mi hanno detto che ho
suggerito a molti molte cose,
avendole fatte una volta sola.
Può darsi. Ma di sicuro non ho
mai pensato di sommare Sade e
Salò. Il fascismo è concettualmente orribile, per me, senza
88
l’aggiunta di orrori. Rappresenta una retorica ideologica che
conduce alla morte.
Nell’agitata atmosfera politica
seguita al Sessantotto qual era
la tua posizione?
Io non facevo della politica, ma
della coscienza; è una cosa identica e insieme profondamente
diversa. Credo sia identica alla
fine, per me almeno è così.
Insomma rispetto all’«impegno» tipico di quegli anni il tuo
atteggiamento era diverso.
private. Diventano politiche nella lunga durata.
La «coscienza» di cui parli ha
insomma a che fare con un
principio etico più che con una
visione politica.
È un senso di coscienza storica e
politica del bene e del male, del
sociale e dell’individuale. E parlando di coscienza, fornisco evidentemente delle indicazioni sul
mio concetto di arte e di artista.
Cos’è l’arte? Sono sempre ossessionato dal capire la mia idea
dell’arte, cioè cosa faccio. È mol-
mo mio esperimento è la vecchiaia, che arriva per conto suo
ed è di un’altra epoca, è curioso.
Somiglia nella sua novità a qualcosa che ho già vissuto in un’età
disadatta.
Aver lavorato sul fascismo, sul
nazismo, sul negativo della storia europea, risponde alla ricerca di una spiegazione delle
ragioni del male?
Sì, l’ho già detto, le mie sono tematiche dell’esperienza; molte
volte, dopo aver visto Che cosa è
il fascismo, qualcuno mi chiede:
«Tutto bene, lei ha sperimentato
questo e quest’altro, è vero, ma
perché non fa l’analogo col comunismo?». Una domanda severa, politica. Perché ne sono incapace, rispondo. Forse è un handicap, un tabù, ma quella realtà
non l’ho conosciuta frontalmente. Forse sono stato, e sono, un
marxista «colto»: da bambino invece di Pinocchio mio padre mi
leggeva Marx, mi spiegava il Capitale. Lo teneva sulla scrivania
come una Bibbia, sebbene fosse
un categorico liberale. Ci congratulavamo con Marx o lo disapprovavamo. Sono marxista come un altro sarebbe crociano.
E in seguito sei stato comunista?
Mai, no.
Ebrea, 1971. Foto: Claudio Abate
Sentivo che la volontà di «fare
politica» poteva diventare una
presunzione quasi mondana.
Molte volte sono stato invitato a
«far parte» di gruppi, ma ho sempre detto di no: io non faccio arte
politica, dicevo, non sono militante di un partito, non mi calo in
una postazione, o se lo faccio, lo
faccio già attraverso la moralità
dell’arte. L’arte che faccio è frutto di elaborazioni di coscienza,
sono operazioni pubbliche ma
fortemente individuali, quasi
to vicina a una mia idea di vita, o
è la stessa cosa. Ho fatto un’arte
come rapporto di giudizio tra me
e il mondo. Ho scelto il mondo
come interlocutore per capire
dov’ero, e ho avuto un rapporto
conflittuale ma dialettico con l’esistenza. Questo procedere a occhi sbarrati in una sorta di luce
anziché di buio è il mio personale Not Afraid of the Dark. Niente
ancora mi immobilizza, sono
stato sempre a disposizione dell’ultimo esperimento. Ora, l’ulti-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Si potrebbe dire che il totalitarismo in sé sia il tuo oggetto di
studio.
Ho visto il terrore dell’ideologia,
come l’ideologia possa dare un’idea di un mondo interamente
falso e mascherare le potenzialità distruttive, perché l’ideologia,
ahimè, è un modo in cui l’uomo
pone attorno a sé una serie di
campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo. L’ideologia totalitaria pensa il mondo
per te, obbligatoriamente. L’uomo apprende tutto per cartolina,
cambia il suo vestito con la divisa, prende il moschetto invece
che l’ombrello. L’ideologia gli insegna come dare la mano, come
salutare. Io mi sono messo a
pensare cos’era l’ideologia e in
che cosa l’ideologia tendeva a fare a meno o a diversificarsi dall’esperienza, proprio sul versante della critica della coscienza: la
«coscienza critica» per me è il
Fabio Mauri
«Ho visto il terrore dell’ideologia. L’ideologia totalitaria pensa il mondo per te,
obbligatoriamente. L’uomo apprende tutto per cartolina, prende il moschetto
invece che l’ombrello. Io mi sono messo a pensare cos’era l’ideologia: la «coscienza
critica» per me è il salvacondotto di ogni attività, anche artistica»
salvacondotto di ogni attività,
anche artistica.
Il pensiero ideologico è davvero finito, siamo alla fine entrati
in quella che è stata definita la
«post-storia»?
Per me tutta la storia è «post-storia», e non ha fondamento come
idea moderna. Il modo di pensare ideologico non è finito: è ineliminabile. Dopo la caduta del
Muro di Berlino tutti hanno pensato che l’ideologia fosse morta.
Io non l’ho pensato un secondo.
Anzi. La storia contemporanea è
scomparsa per due istanti, ed è
riemersa subito, ideologica. La
maggioranza degli uomini cerca
l’ideologia. In un certo senso è
un sottoprodotto del pensiero.
Per non essere un pensiero aperto, deve fare un’operazione interna di chiusura critica. L’ideologia assembla l’uomo a un’identità centrale, non individuale. È
una tautologia critica. Sopprime
con atteggiamento fermo e feroce ogni idea contraria.
Dai sedici ai venticinque. Quindi
ne uscii, sentivo che dovevo
reincontrare di nuovo la vita comune.
Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?
La fede. Io ormai so che Dio c’è.
Questa parte della tua vita l’hai
mai dimenticata o voluta dimenticare?
No, l’ho avuta sempre in mente.
E la tua esperienza religiosa si
è intrecciata a quella artistica?
Per tornare al tuo percorso artistico, c’è una tua opera in
particolare, «Intellettuale», che
affronta direttamente la questione del rapporto tra l’opera
e il suo autore; avevi chiesto a
Pier Paolo Pasolini di fare da
«schermo» di proiezione per un
suo film.
Il Vangelo secondo Matteo.
Sì, e c’è una fotografia famosa
di Pasolini in camicia bianca
mentre l’immagine scorre sul
suo petto. Sappiamo che stava
ascoltando la colonna sonora a
Quindi da un certo punto di vista toglie l’ansia, cura.
Può togliere l’ansia, ma non cura, perché ritorna più grave nei
fatti.
Ma la religione, tutte le religioni, direbbe un illuminista, non
hanno proprio questo carattere?
Anche la religione può diventare
ideologica. Cristo condanna i farisei, il loro modo formale di
considerarsi religiosi. Li chiama
«vipere». La religione è un tragitto verso Dio, complesso e oggettivo come l’Essere, su cui nessuno discute, o pochi. Non è un
botteghino in cui compri il biglietto una volta per tutte, né un
conforto generico. È una passione su ciò che credi, che è Dio, e
una discussione con lui.
Sei o sei stato credente?
Sono stato molto religioso, di una
religiosità che mi ha condotto
prima in cliniche dove cercavano di «guarire» le mie ossessioni,
e poi dopo, per sette anni, a occuparmi, in un paese vicino a Civitavecchia, dei ragazzi che la
guerra aveva lasciato soli.
Quanti anni avevi?
solida sull’oggetto mondo. Pasolini credeva di contenere il Vangelo che aveva decifrato, ma
non capiva più a che punto era,
nella performance. Come se
perdesse lo sguardo sulla propria interiorità, era sgomento.
Io non sapevo bene cosa volevo
ottenere, ma era qualcosa che
riguardava una sorta di scambio
di coscienza. Lo sottoponevo a
una prova, forse. O sottoponevo
me alla stessa prova. Volevo
ritrovare la mappa della nostra
amicizia, intensa sui temi generali, compreso Dio. Quando si
andava a cena con Pasolini,
sembrava di cenare con Cristo.
Pasolini, la sua arte cinematografica, non era sempre un
testamento ideologico, ma una
mimesis profonda. Niente della
sua arte gli era estraneo, né Dio,
né il sesso, né se stesso. Pier
Paolo somigliava a Michaux che
diceva: «Non sono mai stato
tanto religioso come quando ho
peccato». È discutibile, ma ne ho
esperienza, può essere così.
La proiezione dà quindi significato?
Certo, il significato è una «proiezione» della mente. Quindi è simile alla proiezione di un film.
Per questo proietto film d’autore,
cioè di chi ha un’esperienza, interpreta un fatto, matura un giudizio.
Ideologia e natura, 1973. Galleria Duemila, Bologna. Foto: Elisabetta Catalano
Hai intitolato una tua conferenza-performance «Dio e la
scena».
Mi sono molto chiesto se a Dio
piaceva l’arte moderna e se per
caso gli era piaciuto qualcosa
che faccio io.
Hai trovato una risposta?
La risposta, col tempo, è che a
Dio piaceva Picasso. Certe cose
che ho fatto forse gli sono piaciute. Ma posso ingannarmi,
certo...
volume intenzionalmente alto.
Si potrebbe dire che tu stessi
visualizzando l’estraneità dell’autore al suo stesso lavoro, il
suo essere accecato e assordato rispetto al semplice spettatore.
Ho scritto sul senso della proiezione. È un esperimento di fisica. Noi siamo un condensato di
memoria, proiettiamo continuamente una memoria, per riconoscere il mondo; nell’artista la
memoria si scontra, ma si con-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Usare il corpo come «schermo»
potrebbe alludere al fatto che
le immagini non appaiono mai
semplicemente su una tela o su
un muro, ma finiscono sempre
per essere assorbite, digerite,
modificando chi le osserva.
Certo. Ma proiettare un’immagine su un corpo, o anche su cinquanta litri di latte o su un’altra
materia modifica la proiezione,
cioè produce un significato inedito. È una palese dimostrazione
della nascita del significato. Nasce da tutto ciò che noi conteniamo nella memoria, e dall’immobilità apparente della realtà. Nell’incontro la somma crea un ibrido. Sembra meccanico, ma non è
che il nuovo significato.
Il tuo lavoro più recente continua a interrogare il totalitarismo?
In realtà il mio interlocutore è
89
Fabio Mauri
«Il modo di pensare ideologico non è finito: è ineliminabile. La maggioranza degli
uomini cerca l’ideologia. In un certo senso è un sottoprodotto del pensiero.
L’ideologia assembla l’uomo a un’identità centrale, non individuale. È una tautologia
critica. Sopprime con atteggiamento fermo e feroce ogni idea contraria»
oggi la vita in generale, non più
solo la storia o la politica italiana. Anche se l’esperienza del
male da cui parto, ad esempio
nel lavoro di Milano, è ancora
quella di cui so la storia e l’incidenza: Hitler è un simbolo intatto. C’è una piccola citazione, una
battuta in Casablanca, due che
parlano e uno dice a un ufficiale
tedesco «Ogni volta che Lei nomina il Terzo Reich, sembra che
ne stia aspettando un Quarto».
L’ho estrapolata, come un avviso. La natura della storia è quella
del mondo. Dall’ovvio al profondo, dal bene al male, dal pacifico
al sanguinario. L’uomo non è un
incidente. È una coscienza protagonista. Anche se non ne è più
il centro, resta un epicentro dell’universo, almeno visto dalla
Terra.
Il Quarto Reich è quello che
deve venire, che ci minaccia
sempre.
Certo. Mi sto approssimando con
questa mostra a un’impressione
forte. Quando avrò centrato la
cosa, forse sarà sgradevole, e
formalmente giusta. Vorrei comunicare il senso di smarrimento che provo. Individuare lo
smarrimento è già una difesa, tu
devi capire cosa ti travolge, ma
smarrirsi vuol dire essere attenti e anche ammonire a stare attenti. La vecchiaia è scoprire finalmente cosa è l’esistenza, e
non azzardarsi a sapere senz’altro cosa sia. Una contraddizione
piena di chiarezza. Non so chi
voglio commuovere. Cerco di
disilludere. Questo caos non è
un caso. Come quando componevo Che cosa è il fascismo. Sembrava di camminare sul vuoto.
Sono curioso di vedere che c’è
sotto.
da un’estetica concreta o pragmatica, è un’invisibilità che si
stabilizza tra le cose, come un
oggetto. Non bisogna descrivere
un gesto artistico in modo troppo
semplificato pur di farsi capire.
Anche per l’arte, come dice Einstein per la relatività, la spiegazione è semplice ma non troppo
semplice. Nella mostra si vedono
molti segni di ciò che ho raccontato, attraverso proiezioni, «titoli
di coda», nomi e cognomi, professioni, gente che vive di film, o
vive il mondo come film. Dice se
gli piace o no. Bisogna stare attenti; il mondo prende posizione
per conto suo. È un mondo, o è il
mondo? Si ascoltano sonori di
film. Il sonoro occupa spazio come un solido. La scena alla Bicocca è pronta, non è una Comédie humaine semmai è un Cinéma humain. Si può dire?
TITOLI DI CODA
L’arte dal tuo punto di vista è
come cercare un passaggio, o
una via d’uscita, tra disillusione e smarrimento?
In arte per raggiungere chiarezza si possono fare solo esempi
sproporzionati. Se qualcuno
avesse chiesto a Giorgione cosa
intendeva fare mentre dipingeva
La Tempesta, «Un nudo di donna
in primo piano», avrebbe potuto
rispondere, «e, accanto, un arabo, no, un sacerdote… no, un
mago». In realtà Giorgione dipingeva una sola cosa, l’infinito,
come hanno scritto molti critici.
Il totale di un’opera d’arte, fuori
Grazie a Luigi Lo Cascio per la sua bravura e generosità. Le
sedute di preparazione, brevi e intense, mi hanno avvinto per
l'intelligenza e il talento.
Ringrazio l'architetto Aldo Ponis, il professor Giancarlo Gentilucci Accademia di Belle Arti de l'Aquila, Piera Leonetti per
l'informazione, Sebastiano Mauri, mio nipote e artista, per l'attenta e affettuosa consulenza.
E gli assistenti artisti Dora Aceto (piercing), Ivan Barlafante
(coordinatore materiali in legno e ferro), Marco Bernardi
(costruzioni), Marcella Campitelli (segretaria di edizione),
Claudio Cantelmi (modello progetto), Federico Cavallini (tensione tele), Sandro Mele (fotografie), Giuseppe Moscatello
(Progettazione modello, video, films elettronici, nastri sonori).
Fabio Mauri
Il libro
La violenza non è inevitabile
di Elisabetta Ambrosi
erché nonostante i ripetuti moniti del “Mai più guerre” lanciati
alla fine del secondo conflitto mondiale, il Novecento si è di fatto accomiatato dalla ribalta storica ancora una volta fedele a se
stesso: non solo con nuove forme di violenza armata, ma addirittura con
la perpetrazione di genocidi, come nel caso del Ruanda e della ex Jugoslavia?»: è con questo inquietante interrogativo che si apre l’intenso libro
Violenza senza legge. Genocidi e crimini di guerra nell’età globale, curato
da Marina Calloni, coordinatrice della ricerca “Genocidi e Crimini di
Guerra” presso il dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale di Milano
Bicocca.
Il volume è una sorta di ricerca «polifonica», dove intervengono vittime e
testimoni, ricercatori, giornalisti, fotografi, rappresentanti istituzionali,
artisti, e intende essere sia uno strumento di ricerca che di dibattito pubblico. In allegato c’è, inoltre, un suggestivo CdRom, in cui si trovano materiali di lavoro (testi giuridici e schede su Ruanda e Bosnia), testimonianze, una mostra audio-visuale su Mostar. Il suo scopo è quello di unire, come sottolinea la stessa curatrice, «la portata argomentativa delle analisi
con la forza emotiva delle testimonianze dirette».
E proprio dal sentimento di tristezza che continua a suscitare la constatazione che lo scenario di macerie e cadaveri dell’Europa del ’46 non ha impedito l’accadere di nuove guerre che il libro scaturisce: «Si sono infatti
susseguiti davanti ai nostri occhi belligeranze imperialiste, conflitti mondiali, genocidi, guerre fredde, scontri etnici, fino a giungere al recente
terrorismo internazionale di stampo fondamentalista e alle guerre pre-
«P
90
ventive», scrive la curatrice. Le attuali guerre globali, «amorfe, indefinite
e ubique», un mix esplosivo di richiesta di autodeterminazione dei popoli,
rivendicazioni identitarie e questioni religiose, sono dislocate su scenari
imprevedibili, e, poiché tutti ne diventano potenziali partecipanti, sono
fonte di inediti traumi.
I nuovi conflitti, inoltre, prevaricano confini e norme internazionali, nonostante l’istituzione di tribunali penali internazionali e il pressante dibattito sulla centralità dei diritti umani. Per questo, l’analisi di determinate
manifestazioni belliche porta con sé la convinzione, che costituisce il secondo «pilastro» del volume, che sia necessario sviluppare organi di tipo
sovranazionale. Interventi come quelli in Afghanistan e in Iraq hanno infatti messo in luce la debolezza dell’Onu e l’indaguatezza delle foreign policies nazionali, inadatte a gestire la sfida di un ordine internazionale mutato in seguito alla deflagrazione della forma-stato. Ecco perché, scrivono
gli autori, occorre una nuova sensibilità collettiva a livello globale, così
come una nuova strategia di soluzione dei conflitti e nuove norme per la
punizione dei crimini di guerra.
Il filo rosso del libro è costituito da due tesi tra loro intrecciate: quella che
afferma la possibilità di una società civile mondiale regolata da un’etica
globale. E l’idea che la guerra non vada in alcun modo pensata come una
costante antropologica, perché è un fenomeno che può essere combattuto.
Marina Calloni (a cura di), Violenza senza legge. Genocidi e crimini di
guerra nell’età globale, Utet, 2006, pp. 224, euro 23 (con Cd rom).
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Fabio Mauri
A cosa serve la critica
di Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi
ilano, ultima settimana di novembre
2006. Una misteriosa ballerina appare verso mezzanotte su una carrozza del metró. Lascia cadere il mantello e,
mascherata, danza per qualche minuto con le
movenze erotiche della lapdance. Nel giro di
qualche giorno, l’apparizione produce i suoi
effetti nel tam-tam del web. Ma basta una settimana e la notizia arriva sul «Corriere della
sera» – finché rapidamente l’apparizione si
degrada, il mistero si scioglie: si tratta di una
studentessa, abita a Padova, vorrebbe diventare attrice, il suo numero fa parte di un progetto, forse diventerà un film o una trasmissione televisiva… che peccato.
L’apparizione ha un carattere insieme provvisorio e assoluto, «proprio nella misura in
cui l’essere del bello si risolve», ha scritto recentemente Rocco Ronchi, «nella dimensione
dell’apparizione, il bello può e in un certo
senso deve sempre poter anche sparire».
Appunto: se l’apparenza non è che simulazione dell’apparizione, anche questa effimera
vicenda dice qualcosa sulla differenza essenziale che caratterizza i due fenomeni. Ci dice
però anche altro: quanto la medialità abbia
potere sulla differenza e sulla resistenza che
l’apparizione dovrebbe poter mantenere.
Non c’è infatti in questa idea dell’apparire un
che di assoluto, un residuo della concezione
tradizionale della trascendenza del bello?
L’essenza di questo fenomeno – l’apparire, lo
sparire, il degradarsi o il resistere – in realtà
non è in potere del fenomeno stesso, non riguarda la sua struttura, il suo in-sé. Le regole
del gioco non sono in suo possesso.
In un’intervista degli anni Ottanta, Gilles De-
M
leuze fa questa affermazione ormai consueta
in molte letture dell’arte contemporanea: in
un’epoca nella quale i valori formali della
bellezza sono trasferiti dall’arte alla merce,
l’arte cambia di segno, e all’opera spetta la
resistenza. Tuttavia ormai questa stessa affermazione è tanto condivisibile da risultare
sospetta: non rischia di diventare a sua volta
universale e trans-storica passando dalla parte opposta di ciò che proclama?
All’arte contemporanea accade piuttosto di
diventare interessante per un altro motivo:
sul suo terreno vediamo la differenza intima
ed essenziale tra il contenuto dell’enunciato
e la posizione dalla quale questo viene detto.
Ne deriverebbe un singolare paradosso: l’enunciato /l’arte è ciò che resiste/ non è esso
stesso necessariamente resistente. Bisogna
esaminare la posizione di enunciazione: chi
lo dice, quando, come e perché. Inoltre – altro aspetto paradossale – se fosse vero diventerebbe a sua volta parte e preda di ciò che dice di voler criticare: enunciato universale e
metafisico, rinnovata voce del potere.
E non è ciò che sta accadendo all’arte contemporanea? Non è nuova demagogia quella
delle ossa di Marina Abramovich, o degli
stracci indifferenti di Sophie Calle – ai due
estremi dell’orrore e del banale quotidiano?
Come il paradosso del mentitore l’affermazione in questione potrebbe inverarsi allora
solo falsificandosi, accettando di essere
transitoria.
La figura dell’artista
In questo senso occorrerebbe ripensare alla
figura dell’artista (in quanto) immaginario. Il
cliché dell’artista romantico e incompreso
era già un obiettivo polemico fin dai tempi
del «Manifesto futurista pesi prezzi e misure
del genio artistico» (1914), ma il punto è che
quanto là veniva auspicato («l’artista dovrebbe trovare il suo posto… accanto al fabbricante di pneumatici») oggi non è più un desiderio ma un dato di fatto. Al punto che, quando negli anni Settanta un critico acuto come
H. Rosenberg dichiara che l’artista è divenuto
«troppo grosso» per l’arte che produce, si consuma uno strano paradosso, per cui più l’artista si integra nella vita sociale, più si genera
intorno a lui una sorta di doppio rivestito di
eccezionalità, di particolarità irripetibile, non
integrabile. Il paradosso arriva al punto che
la persona sociale dell’artista e il suo doppio
si scollano effettivamente: nella figura, in tal
senso centrale, di Andy Warhol, questo fatto è
così evidente che egli proclamava apertamente di farsi sostituire in molte occasioni da
un sosia, dato che un sosia «è molto più simile
a ciò che la gente si aspetta da me di quanto
io possa mai essere», come ha scritto Tomkins.
Accanto all’artista reale, che si è incarnato
nelle strutture «vere» portanti, socio-economiche, della società, persiste, senza riuscire
a evaporare completamente, il fantasma dell’artista, il suo doppio letterario, immaginario, ma senz’altro legato all’esistenza del suo
gemello. Il fatto che si evidenzia qui, allora, è
di grande rilevanza: l’artista immaginario deve colmare una lacuna che altrimenti salterebbe brutalmente agli occhi, ossia che essere artisti, nelle condizioni sociali odierne, si-
Chi sono
Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi
ulvio Carmagnola insegna Educazione estetica presso la Facoltà di
Scienze della Formazione dell’Università di Milano Bicocca. Si occupa
di estetica contemporanea e di modelli cognitivi applicati alla progettazione e all’organizzazione. Per Meltemi ha pubblicato: La triste scienza. Il
simbolico, l’immaginario, la crisi del reale (2003), Plot, il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura (2004) e, insieme a Telmo Pievani, Pulp
Times (2003). Sono usciti inoltre: Sinopsis. Introduzione all’educazione estetica (con Marco Senaldi, Guerini e Associati, 2005) e Il consumo delle immagini (Mondadori, 2006).
F
arco Senaldi, critico d’arte e filosofo, insegna Cinema e arti visive
all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Ha tradotto e curato l’edizione italiana di testi di Gilles Deleuze e Slavoj Zizek. Per Meltemi ha scritto Enjoy! (2003) e Van Gogh a Hollywood (2004) e le postfazioni
dei volumi di Zizek Benvenuti nel deserto del reale (2002) e L’epidemia dell’immaginario (2004). Ha inoltre pubblicato: Sinopsis. Introduzione all’educazione estetica (con Fulvio Carmagnola, Guerini e Associati, 2005). È inoltre curatore di mostre come Cover Theory. L’arte contemporanea come reinterpretazione (2003). Suoi interventi sono apparsi su «Flash Art» e «Il manifesto». È autore di programmi culturali per la Tv.
M
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
91
Fabio Mauri
«In contrasto con la posizione di implicita accettazione che prenderebbe come
manifestazione dell’arte qualunque cosa entri nel suo dominio istituzionale,
vorremmo riaffermare con decisione la disparità, la necessità della critica e la
possibilità di discernere valori, per quanto instabili»
gnifica semplicemente svolgere un’attività
come un’altra nel grande mercato del capitalismo culturale.
Oggi, la fede nell’artista come figura autonoma costituisce un autentico «feticcio» psicosociale: è grazie a questa fede che possiamo
continuare a trattare l’arte come una merce,
e anzi accrescere l’approccio post-capitalista,
totalmente cinico, con cui ci si rivolge a essa –
il che mostra che non è il fatto in-sé, ma la
percezione di esso a costituire un evento
traumatico. La «fede trasposta» nella «buona
fede» dell’artista serve esattamente a coprire
questa devastante percezione. Il compito di
una critica non dovrebbe allora essere quello
– non di denunciare la banale «commercializzazione» o «istituzionalizzazione» dell’arte e
dei suoi rappresentanti, quello che chiamavamo il punto di desistenza, ma quello – di additare proprio questo «indecidibile» scollamento?
Hitler in ginocchio
Il momento di desistenza ha forse qualcosa in
comune con il banale momento del passaggio
alla notorietà, alla condizione di fama. Non a
caso lo stesso Deleuze, in modo peraltro contraddittorio, insiste in tutte le sue dichiarazioni sulla necessità di costruirsi una linea di fuga, una linea di invisibilità: il critico, colui
che non soccombe, deve inventare linee di
fuga, dispositivi nomadi. Ma quale è il momento, allora, in cui il potere urticante di un
artista si converte, in presenza di artefatti
della medesima specie, in posizione di regime? Quand’è che Cattelan, per esempio, passa dalla condizione di inventore – il fantoccio
di Hitler che prega in fondo alla sala del Castello di Rivoli – alla condizione di artista istituzionale – i tre fantocci appesi nella piazza
della periferia di Milano?
È questo forse che segnala la posizione di
enunciazione: la variazione invisibile, di cui
ci accorgiamo ogni volta ex post, tra un punto
di discordanza, portatore di senso nel suo carattere differenziale e incomprensibile – l’orinale di Duchamp che si rinnova ripetendosi
nel piccolo Hitler – e la stessa azione, lo stesso artefatto «dopo». I due enunciati sono identici (il pupazzo di Hitler, i tre pupazzi appesi)
eppure ci accorgiamo che la posizione è cambiata. Il corso del senso dev’essere sospeso
perché il senso abbia luogo, osserva JeanLuc Nancy. Ma nemmeno questo basta: a un
livello più sottile, pare che la stessa sospensione del senso, destinata a fare spazio a nuovo senso, cambi oggi la sua natura, diventando indecidibile, dato che l’enunciato (il prodotto, l’oggetto, l’opera) si presenta ormai regolarmente o per lo più come offesa al senso,
sospensione del senso, proclamazione dello
scandalo. E tuttavia per questa stessa strada
l’istituzione o il dispositivo detto «sistema arte», con la sua specifica posizione di enuncia-
92
zione, riemerge ogni volta riportando la vittoria sulla provvisoria resistenza.
Questo raffinato gioco del senso – la sua metastabile sospensione che genera innovazione, il suo rapido riassorbimento – vale anche
al di fuori dello spazio nobile dell’arte. Anzi
questo è uno dei caratteri principali del circuito dell’immaginario contemporaneo, la
cui caratteristica, come ha mostrato con chiarezza Slavoj Zizek consiste nell’instaurare
un’istanza impersonale che ci prescrive, al
modo di un super-io sociale, «come dobbiamo desiderare». Se allarghiamo lo sguardo
vedremo all’opera il medesimo dispositivo
I libri
Deleuze, G., 1990, trad. it. 2000, Pourparler, Macerata, Quodlibet
Perniola, M., 2002, Prova di forza o prova
di grandezza? Considerazioni sull’àgalma, in Agalma, 3, pp. 62 sgg.
Ronchi, R., 2006, Liberopensiero, Roma,
Fandango Libri
Rosenberg, H., 1972, trad. it. 1975, La sdefinizione dell’arte, Milano, Feltrinelli
Tomkins, C., 1976, trad. it. 1983, Vite d’avanguardia, Genova, Costa & Nolan
Zizek, S., 2004, Organs Without Body. On
Deleuze and Consequences
nella narrazione mediale, nella cultura pop.
Ulteriore elemento che gioca a sfavore del
mito della purezza e dell’esclusività della forma artistica.
Ci pare allora che la qualità dell’osservazione, della fruizione, consista precisamente nel
mettere a fuoco questo invisibile elemento di
differenza. Proprio a Deleuze può essere applicato questo dispositivo riflessivo che distingue l’enunciato e la posizione di enunciazione. In un paragrafo di Organs Without
Body intitolato «A yuppie reading of Deleuze»,
Slavoj Zizek argomenta che la teoria rizomatica, avendo perduto il suo punch critico e
contrappositivo, diventa una forma avanzata
di pensiero dominante, adatta alle «nuove
singolarità emergenti» nel capitalismo cognitivo e/o dell’immaginario. E qualche tempo
fa Mario Perniola aveva a sua volta notato che
«il manager creativo si pone come l’erede
dell’artista bohemien: esperienze maturate
in ambiti marginali, trasgressivi o rivoluzionari sono ritenute molto utili ai fini dello
sfruttamento capitalistico di settori non ancora o debolmente mercificati».
Sembra di poter concludere che qualunque
posizione di rottura nelle condizioni di rapida successione e di sovraesposizione mediatica prestissimo possa diventare parte di una
nuova razza di discorso «egemonico». Da
questo punto di vista l’arte contemporanea
sarebbe allora un singolare terreno sperimentale, un terreno per indagare questi fenomeni – e non l’ultimo rifugio della resisten-
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
za.La variazione continua della linea mobile
della posizione di enunciazione è precisamente una dalle operazioni dell’immaginario
contemporaneo. Si tratta di un’operazione di
inclusione che subentra alla moderna operazione di esclusione. L’immaginario non è né
l’accumulazione dell’archivio antropologico
delle immagini né il mito dell’altrove dove ci
si libera del banale e del mediocre. È piuttosto l’insieme dei dispositivi che diventano
prescrittivi e spostano di volta in volta i confini dello stato dell’arte, includendovi e selezionando sempre nuovi artefatti e assimilandone i valori. La variazione della posizione di
enunciazione fa dell’artefatto un oggetto di
volta in volta indecidibile e con questo falsifica anche la portata universale dell’affermazione della resistenza dell’arte.
Lapdance
La distruzione della forma era a suo tempo
una posizione critica che instaurava un valore, un differenziale ancora percepibile – è la
vicenda delle avanguardie. E tuttavia oggi si
può dire che la corrente più evidente dell’arte
contemporanea sia la mostrazione indifferente del reale, lo spostamento verso il reale al di
sotto della soglia formale di minima consistenza, la fine dello stesso strutturale effettocornice. Mostrare l’orrore – parificarsi all’orrore – ha tuttavia oggi una impercettibile sfumatura di omologazione che rende questo atto, e gli artefatti che lo istanziano, ancora diverso dal senso che aveva, poniamo, nell’estetica negativa di Adorno.
Eppure, in contrasto con la posizione di implicita acquiescenza che accetterebbe come
manifestazione dell’arte qualunque cosa entri nel suo dominio istituzionale, vorremmo
riaffermare la disparità, la necessità della critica, la possibilità di discernere valori, per
quanto instabili o metastabili. Riappropriarsi
della critica è trovare il modo di stabilire nuove differenze, dal momento che il meccanismo di omologazione non consiste più, come
in passato, nel tracciare una linea di confine
basata sulla qualità dell’enunciato (dell’oggetto) ma nell’inglobare continuamente l’estraneo – e dunque nell’accumularsi delle
provocazioni in un tessuto di infinite differenze indifferenziate dove ogni nuovo strappo
viene accolto e santificato nella luce mediale
della fama. Tornare alla critica allora sarebbe
fare della resistenza un’arte tattica e non una
posizione metafisica, restando sul terreno dei
media e degli artefatti estetici, nella consapevolezza che questa operazione è sempre
provvisoria. Per questo il valore continua a
esistere come valore di posizione variabile,
incarnato di volta in volta da qualcuno che da
qualche parte, inaspettatamente, produrrà
senz’altro nuove forme imprevedibili e instabili. Come la misteriosa ballerina di lapdance
sulla metropolitana milanese, a mezzanotte.
Economia e creatività
Arte, città, imprese
Zattere di salvataggio dal naufragio delle periferie
Una necessaria complicità
di Michele Trimarchi
«La filantropia aziendale? Non basta più»
Intervista a Gianluca Winkler di Elisabetta Ambrosi
Parola chiave: ambiente
Intervista a Nicolò Dubini
La cultura nella strategia d’impresa
Intervista a Fulvio Conti di Elisabetta Ambrosi
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
93
Economia e creatività
Una necessaria complicità
di Michele Trimarchi
ggi sempre di più affidiamo all’arte il
compito di estrarre le comunità urbane (e soprattutto suburbane) dalle ordinate macerie di periferie abbandonate, di
quartieri cresciuti casualmente, di edificidormitorio tristi e poco funzionali. Altro che
inutile; l’arte è diventata, nel dibattito sul futuro, la zattera che ci salverà dal naufragio
nella barbarie.
Il tema è complesso, e come si vede il rischio
di affrontarlo enfaticamente è alto. Soprattutto, nonostante le sempre più numerose esperienze internazionali, la sua declinazione in
salsa italica deve fare i conti con una concezione dell’arte e della cultura legata al passato
e renitente a mescolarsi con la realtà quotidiana. Se volessimo tracciare una mappa dei
percorsi urbani (le persone che si spostano da
casa al lavoro, ai luoghi di socializzazione, alle vie dei negozi, e così via) scopriremmo che
l’offerta culturale è sostanzialmente tagliata
fuori, non tanto perché sia ignorata o snobbata, quanto perché essa stessa si pone al di fuori dalla vita quotidiana; l’effetto è abbastanza
preoccupante: i luoghi e i percorsi della creatività si sviluppano al di fuori dai luoghi della
cultura, accentuando in questo modo una cesura tra antico e contemporaneo, se si vuole
tra conservazione e produzione.
Inutile dire chi vince e chi perde. Da qualche
anno le imprese private in Italia sostengono
finanziariamente il settore culturale (con po-
O
co più di 30 milioni di euro nell’ultimo anno),
ma la loro preferenza va ai grandi teatri d’opera o ai grandi musei, non certo alla sperimentazione espressiva o all’arte contemporanea; allo stesso modo, le fondazioni di origine
bancaria svolgono una massiccia opera a vantaggio della cultura (con 420 milioni nell’ultimo anno), ma il grosso della loro azione è focalizzato sul passato. Certo, restaurare, conservare, tutelare sono attività imprescindibili.
Ma alla fine dei conti l’enfasi sull’antico ha finito per creare un fenomeno di diffidenza e
disprezzo nei confronti dell’arte contemporanea; nell’immaginario delle comunità urbane
questa temperie incide non poco, alimentando il fenomeno della nostalgia per una società
forse mai davvero esistita, ma desiderata contro l’evidenza. Non sono poche le città che affidano la costruzione del senso di appartenenza della comunità locale a operazioni passatiste, foto sbiadite e posticce ricostruzioni.
Da questa atmosfera malinconica e rassegnata rimane fuori proprio il futuro. Il nostro futuro urbano, fatto di relazioni, di esperienze
quotidiane, di condivisione e di evoluzione.
Un esempio? Il Teatro degli Arcimboldi di Milano, scomodo contenitore attualmente privo
di contenuto nel quale la Fondazione Teatro
alla Scala si è sentita «in temporaneo esilio» e
dal quale è fuggita a gambe levate non appena ha potuto riaprire il teatro del Piermarini;
eppure avrebbe potuto raddoppiare il pubbli-
co (se solo avesse seguito il virtuoso esempio
dell’Opéra di Parigi, che da anni usa due sedi), magari sostenendone l’accesso con adeguate campagne di proselitismo e un efficace
servizio di trasporto gratuito (è vero, c’erano
gli autobus da Piazza Duomo, ma solo all’andata: al ritorno ce n’erano solo tre o quattro e
chi non correva subito fuori si trovava in mezzo al nulla). Un esempio contrario? Sarebbe
facile richiamarsi all’Auditorium romano, ma
sembrerebbe di voler alimentare un confronto infondato e poco edificante tra le due capitali d’Italia. Andiamo allora vicino ai confini,
e troviamo il Teatro Cristallo di Bolzano, vecchio cinema parrocchiale di periferia riaperto
l’anno scorso dopo un efficace adeguamento
tecnologico, e meta di un pubblico crescente
e curioso; guardandoci intorno troveremmo
buoni motivi per comprendere che la cultura
e l’arte possono davvero contribuire – in modo infungibile e sistematico – alla crescita del
Chi è
Michele Trimarchi
ichele Trimarchi è professore ordinario di Analisi economica del diritto presso l’Università di Catanzaro,
e insegna Economia della cultura presso l’Università di Bologna.
M
Intervista/1
«La filantropia aziendale? Non basta più»
Intervista a Gianluca Winkler di Elisabetta Ambrosi
li affari! L’umanità avrebbe dovuto essere il mio affare. Il benessere generale avrebbe dovuto essere il mio affare: carità, clemenza,
pazienza e benevolenza, tutto questo avrebbero dovuto essere i
miei affari»: così il vecchio finanziere Scrooge, al termine della sua avventura
natalizia, prende consapevolezza che la sua vita avara, fatta di accumulo e di
sfruttamento dei più deboli, non l’ha reso felice e rimpiange un’esistenza diversa, incentrata sulla pietas e la beneficenza. Quella del Canto di Natale di
Dickens è una delle tante suggestive citazioni letterarie che costellano il Values Book di Pirelli Real Estate, il gruppo Pirelli che si occupa di immobiliare.
Eppure, la citazione dello scrittore inglese è in parte superata dal contenuto
dello stesso volume proposto dall’azienda. Il perché ce lo spiega Gianluca
Winkler, direttore della comunicazione di Pirelli RE e Pirelli Ambiente. «Il Values Book è un esperimento unico in Italia», afferma. «Oltre a presentare i
programmi e le iniziative sociali promosse da Pirelli RE, che ruotano tutte intorno ai temi abitativi legati alla nostra attività specifica, quella immobiliare,
il libro riflette in maniera innovativa su temi come l’intreccio tra impresa e
impegno civile, il rapporto tra governance ed etica individuale, lo sviluppo sostenibile nelle città multiculturali, l’arte e cultura come fattori di promozione
del territorio e di progresso sociale. Non a caso il Values Book non contiene
neanche un numero: si tratta infatti di un’operazione di trasferimento di valori, finora del tutto inedita». Operazioni di questo tipo superano, secondo Winkler, i vari (e pur importanti) codici etici e bilanci di sostenibilità. Questi ultimi, ad esempio, sono diventati esercizi un po’ retorici di controllo, una specie
di «permesso di soggiorno», inevitabile per lavorare. «Ma il fatto che ci sia una
serie di indici che sono monitorati e alle quali le aziende si attengono», dice,
«non comunica di per sé il valore degli interventi nel sociale o nell’ambiente
di quelle stesse aziende.
Winkler fa un esempio concreto che esprime in maniera illuminante la nuova
filosofia di Pirelli RE, raccontandoci del coinvolgimento dell’azienda nella
«G
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fondazione culturale legata all’Hangar Bicocca: «La nostra è una specie di
“sublimazione” della responsabilità sociale», spiega. «A differenza delle imprese che lasciano il proprio marchio sulle iniziative sponsorizzate, infatti,
Pirelli RE diventa una delle società della fondazione Hangar Bicocca, ma,
nonostante ci metta l’immobile, il lavoro di ristrutturazione e le opere di Kiefer che sono già dentro, ha deciso di rinunciare ad associarvi il proprio nome.
Per noi questo è il massimo della responsabilità sociale nei confronti della città in cui ci troviamo ad operare».
Insomma, il tempo della «corporate philanthropy» – la filantropia aziendale,
che in Italia peraltro non ha neppure coinvolto tutte le imprese – appare già
superato. La nuova filosofia arriva dall’America, e vede l’azienda non solo come un attore economico, sia pure etico, ma come un attore sociale. Un attore
che, al pari degli altri, non può solo prendere, ma anche «give back to community», restituire alla comunità quello che in anni di lavoro ha preso, in termini di forza lavoro, risorse economiche, finanziarie e intellettuali.
Questa filosofia costituisce una piccola rivoluzione nel dibattito sulla corporate social responsability e sul rapporto tra etica e azienda. Infatti, essa mette in
parziale discussione l’idea che l’investimento in cultura generi comunque un
rientro economico. Quest’ultimo, secondo Winkler, va anzi decisamente
messo in secondo piano. «Il ritorno economico raramente c’è, e in un certo
senso è pure meglio che sia così, altrimenti si tratterebbe di una farsa. L’aspetto economico noi non lo consideriamo affatto», conclude. «Per noi la cosa
importante è la reputazione dell’azienda. Quello a cui noi stiamo attenti non è
tanto che l’azienda abbia un ritorno di visibilità e di immagine, cosa che è
molto legata all’aspetto economico, ma qualche cosa di molto più sottile, di
più difficile da fabbricare, che però, se viene gestito bene, dura nel tempo e
ha una ricaduta anche su tutte le attività economiche. Insomma, la reputazione è qualcosa che costruisci con fatica negli anni, ma su cui puoi puntare
nei momenti di crisi».
Marzo - Aprile 2007 - Numero 100
Economia e creatività
L’emergenza è rappresentata dalla bruttezza (o, se si vuole, dalla mancanza di una
credibile identità) e dall’isolamento dell’offerta culturale
in luoghi spesso bellissimi ma quasi mai dialoganti con il tessuto urbano.
La complessità non si vince contrastandola, ma assecondandola
benessere urbano, e al consolidamento di una
serie di valori che proprio il dibattito italiano
ritiene insufficienti: il senso di appartenenza,
il rapporto con il territorio, la socializzazione
e la tolleranza, il capitale sociale.
Pur senza cercare modelli virtuosi (ogni città
italiana è per sua stessa origine e storia del
tutto inconfrontabile), ci si può fermare proprio a Bolzano per accorgersi che, sia pure in
un impianto urbano reso rigido anche dalla
simbolica separazione delle due comunità
linguistiche, il percorso è complesso ma preciso: si costruiscono nuovi edifici, magari con
una certa attenzione alla loro bellezza esteriore (dal Teatro Comunale all’edificando
Museion); al tempo stesso, si sostengono le attività culturali «dal basso», incoraggiandone
l’emersione e il consolidamento anche in spazi non convenzionali (e già in questo modo si
crea un tessuto di attività sparso nel territorio); infine, si programmano direttamente attività che i singoli non potrebbero sostenere
(una delle più recenti è Kunstart, fiera dell’arte contemporanea che ha guadagnato una reputazione notevole in soli quattro anni). Così,
pur senza rinunciare al mercatino di Natale o
alle corali alpine, Bolzano e il suo territorio
stanno immaginando il proprio futuro in termini evolutivi, e ne stanno progettando le dinamiche. L’effetto è sorprendente: tutte le forme di offerta culturale, con l’unica eccezione
del cinema, mostrano nella provincia di Bolzano il grado di partecipazione più elevato del
paese, con distanze a volte notevoli tra il dato
bolzanino e la media nazionale.
Si vede con chiarezza che è la cultura a dettare l’agenda dello sviluppo urbano; e che non
si tratta più della memoria ma dell’immaginazione. In questo senso, proprio a pochi passi
dal Teatro degli Arcimboldi si sta sviluppando
un coagulo di progetti destinati a cambiare la
faccia dei comuni a nord di Milano e al confine con la costituenda provincia di MonzaBrianza. Sono comuni segnati da un legame
forte con il lavoro in fabbrica, e nei quali certamente non mancheranno segni evidenti di
questa identità; ma vedono già molti insediamenti industriali trasformarsi in musei, biblioteche e centri culturali, promettendo
un’estesa fruizione ai residenti, attraendo
possibilmente studenti e professionisti che
gravitano intorno alla Bicocca, rivolgendosi
comunque a un bacino sociale ampio e diversificato e con l’intenzione primaria di ridisegnare l’identità del luogo assecondando e anticipando l’evoluzione della società.
Certo, il lavoro da fare è massiccio. Sia pure in
un contesto ostile, la lezione che si può trarre
dalle esperienze di successo è quella della necessaria complicità: non è possibile immaginare una crescita del benessere urbano solo
per effetto di un’offerta culturale di valore; al
contrario, questa da sola spesso ha prodotto
fenomeni di rigetto da parte della comunità
locale, «spiazzata» da turisti di massa e dall’adattarsi commerciale del territorio alla produzione di reddito nel breve periodo; una cre-
Intervista/2
Parola chiave: ambiente
Intervista a Nicolò Dubini
er le aziende quello della protezione
ambientale è un tema decisivo. Nonostante l’opinione pubblica spinga sempre più perché le imprese siano più «responsabili», infatti, l’investimento in questo settore
comporta spesso costi elevati, anche se cresce
la consapevolezza che produrre e adottare tecniche e tecnologie eco-compatibili è una strategia che, alla lunga, paga.
Lo ha capito senz’altro Pirelli Ambiente, una
società del Gruppo Pirelli nata dall’integrazione delle attività di Pirelli & C. Ambiente e Cam
Tecnologie, il cui amministratore delegato,
Nicolò Dubini – pienamente convinto che esistano per le imprese soluzioni «verdi» e insieme convenienti – ci spiega che, in ogni caso, il
punto da cui partire è il livello di emergenza
ambientale del pianeta: «Come ha annunciato
a febbraio il Rapporto dell’Onu, la terra si sta
surriscaldando e gli effetti sul clima, da qui al
2100, potrebbero essere catastrofici e irreversibili», ricorda. In questo senso, «l’ambiente,
prima ancora di essere un settore altamente
strategico per l’industria, rappresenta una fondamentale tematica sociale su cui oggi si sta
concentrando l’attenzione mondiale. Investire
in soluzioni ambientali che aiutino ad arrestare questo processo è un’opportunità e un dovere per le aziende. Si tratta di una nuova tipologia di industria che sta nascendo e che avrà un
grandissimo sviluppo nel breve periodo».
Pirelli Ambiente è una società che è in grado di
offrire al mercato una vasta gamma di prodotti a basso impatto ambientale e ad altissimo
contenuto tecnologico. «Grazie alle sinergie
P
con Pirelli Labs, il centro di ricerca avanzata
del Gruppo, l’impegno della società è continuamente rivolto verso prodotti e processi
sempre più eco-compatibili e soluzioni innovative», spiega ancora Dubini, «ad esempio nel
campo delle fonti rinnovabili di energia o nei
confronti di tecnologie che riducano le emissioni di gas nocivi dei motori diesel».
Molte le soluzioni innovative in campo
ambientale che l’attività di Pirelli Ambiente ha
sviluppato in questi anni. Dal recupero energetico dei rifiuti urbani attraverso il Cdr di qualità (combustibile derivato da rifiuti) al Gecam,
il gasolio bianco a basso impatto ambientale,
fino ai filtri antiparticolato per la riduzione
delle emissioni nocive dei veicoli diesel. Queste soluzioni hanno un elevato potenziale sia in
Italia sia all’estero.
Ecco perché, continua Dubini «ci stiamo muovendo sia per promuoverle sia per valutare
ulteriori opportunità di business». Ad esempio,
il settore del fotovoltaico, che Pirelli sta analizzando seriamente.
L’investimento nella difesa ambientale produce allora un ritorno sicuro? «Certamente. Il
nostro, ad esempio, è sicuramente un bilancio
positivo, sia in termini economici sia di immagine. Pirelli Ambiente è ancora un’azienda giovane ma il riscontro ottenuto dal mercato è
molto buono. Ci preme che questa nostra esperienza rappresenti un esempio positivo anche
per altre aziende italiane che vogliano fare
della sostenibilità ambientale un business proficuo non solo per se stesse, ma anche per la
collettività».
(e.a.)
scita solida e sostenibile si può conseguire
soltanto a patto di coinvolgere nel processo
l’intero governo strategico del territorio, ossia
tanto i diversi livelli di governo quanto una
serie contigua di rami dell’amministrazione,
in modo che la dotazione infrastrutturale (i
teatri, i musei, gli spazi destinati alla cultura)
sia la base su cui si innesta una varia e intensa
attività di creazione e produzione culturale.
Non si dimentichi che la filosofia dell’azione
pubblica in campo culturale è tuttora quella
del sostegno all’eccellenza, con la quale si finisce per inaridire la fertilità naturale delle
attività creative.
Al contrario, le città dovrebbero capire che
solo investendo sul pluralismo scomposto
della produzione culturale si può ottenere un
benessere infungibile nel lungo periodo; così,
piuttosto che escogitare meccanismi bizantini di sostegno finanziario, potrebbe bastare la
concessione gratuita ed esente dal fisco di residenze e laboratori per decine di artisti creativi con un progetto per il quartiere in cui vanno a vivere e creare. Il sacrificio immediato
(perdita di reddito e di gettito) sarebbe più
che compensato dai benefici che se ne potrebbero trarre in tempi ragionevolmente contenuti.
La cultura è dunque lo snodo cruciale, è quel
paio d’occhiali che può ridare vita a città spesso messe sotto una bolla di cristallo per turisti
non biodegradabili. L’emergenza è rappresentata dalla bruttezza (o, se si vuole, dalla
mancanza di una credibile identità) e dall’isolamento dell’offerta culturale in luoghi spesso bellissimi ma quasi mai dialoganti con il
tessuto urbano. La scommessa è tornare a
parlare alla società contemporanea. Spesso
basta poco: nella Langhe c’è una piccola chiesa in mezzo alle vigne, uguale a tante chiese
del Barocco piemontese; interamente decorata da Sol Lewitt, contrasta la dolcezza sbiadita
delle colline con le sue fasce di colori accesi, e
mostra che la bellezza si può declinare in tanti modi, permettendo a ciascuno di riconoscersi al tempo stesso nei segni antichi di un
paesaggio disegnato dall’uomo e in quelli
contemporanei di forme e colori che raccontano la velocità amica della nostra vita quotidiana.
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Economia e creatività
La cultura nella strategia d’impresa
Intervista a Fulvio Conti di Elisabetta Ambrosi
l ciclo di eventi culturali – Emergenze – di
cui si occupa questo numero di «Reset» è
reso possibile dall’incontro tra chi la cultura la promuove e la fa di mestiere e le imprese che la finanziano, la condividono e la
inseriscono nella loro strategia. E insieme all’arte contemporanea in questi appuntamenti
milanesi c’è anche una grande attenzione alle emergenze sociali. Capire come avvenga
questo «inserimento» è vitale per tutti coloro
che organizzano e «fanno» cultura, arte, musica. «Reset» interpella sul tema l’amministratore delegato e direttore generale di Enel,
Fulvio Conti.
I
Avete investito su Emergenze, la serie di
eventi coordinati dalla Fondazione Olivetti
insieme a «Reset» e al «Sole24ore».
Sono scelte che si inquadrano nell’orientamento generale della nostra azienda alla responsabilità sociale, che comporta un impegno costante sul fronte della ricerca, dell’innovazione e della sostenibilità ambientale
(con un’attenzione particolare alle energie
rinnovabili e alla riduzione delle emissioni),
su quello della trasparenza e affidabilità, su
quello a favore della cultura e della scienza.
Ma questo impegno produce risultati anche
dal punto di vista finanziario: voglio ricordare
che attualmente nell’azionariato Enel sono
presenti 47 Investitori istituzionali socialmente responsabili, i cosiddetti fondi etici,
che rappresentano l’8,1% del capitale in borsa.
Mecenatismo?
No, non si tratta di questo. Noi vogliamo privilegiare un rapporto di collaborazione e cogestione con le istituzioni nella realizzazione
dei progetti; in alcuni casi, promuovendo noi
stessi le attività e ricercando la partnership, a
cui mettere a disposizione competenze organizzative, creatività e cultura aziendale.
Che cosa spinge le aziende ad associare il
proprio brand alla cultura?
Nel caso di Enel, l’investimento in attività
culturali ha origine dalla consapevolezza del
nostro ruolo nello sviluppo sociale ed economico del territorio e delle comunità che ospitano le nostre attività. La promozione e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano, e negli ultimi anni anche degli altri paesi
in cui siamo presenti, è diventata così una nostra scelta strategica.
Investire in cultura, oltre a essere un atto di
responsabilità sociale e di sostegno allo sviluppo, è anche un modo per arricchire il nostro insieme distintivo di valori condivisi dalla collettività e per accrescere l’accreditamento sociale e la legittimazione dell’azienda tra i suoi interlocutori principali: clienti,
istituzioni, comunità locali. Con l’evoluzione
del mercato dell’energia, l’attività culturale
diventa così un asset strategico che può fare
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la differenza nella competizione per conquistare i clienti, e costituire un canale privilegiato di dialogo con gli stake-holders, un modo per esprimere la visione e l’impegno dell’azienda a tutto campo.
Che cosa ha fatto finora Enel per la promozione della cultura, della difesa dell’ambiente, dell’impegno sociale?
Siamo stati tra le prime aziende in Italia e nel
mondo a raccogliere le istanze di responsabilità sociale dell’impresa espresse dall’opinione pubblica. Il ruolo fattivo di Enel traspare
anche dalla modalità di gestione delle attività
di promozione della cultura. Il nostro approccio non è solo quello della visibilità del marchio, quanto soprattutto quello della partnership. Identifichiamo istituzioni pubbliche
e private con cui realizzare attività originali,
alle quali Enel contribuisce mettendo a disposizione non solo risorse economiche ma
anche le proprie competenze organizzative.
Oggi Enel è un’azienda in continua evoluzione, che vive una fase decisiva: la crescita sul
mercato internazionale e la completa liberalizzazione del mercato nazionale. È chiaro
che queste nuove sfide comportano un adeguamento anche delle nostre strategie di comunicazione per rispondere al meglio alle
diverse, legittime, aspettative dei nostri stakeholders. Perché i consumatori possano scegliere la nostra azienda sulla base della fiducia e per conquistare credibilità anche all’estero, sicuramente saranno necessari maggiori investimenti e un ulteriore impegno nel
raggiungimento di elevati standard di qualità, trasparenza e affidabilità.
Quali sono i progetti in arrivo?
Nel 2007 abbiamo lanciato il nuovo «Progetto
ambiente» che prevede, nei prossimi cinque
anni, un piano di investimenti da quattro miliardi di euro per la ricerca, l’innovazione, la
cultura e la comunicazione ambientale, una
forte attenzione all’uso razionale delle risorse su tutti i fronti: dalla produzione alla distribuzione al consumo di energia. A questo progetto strategico si affiancano le iniziative culturali in senso lato: progetti sull’arte contemporanea, la musica, lo sport, la didattica, la
scienza in Italia e all’estero, che promuovono
una visione evoluta del concetto di energia e
della sua interazione con l’ambiente e le persone. A breve lanceremo a Roma tre grandi
eventi di arte pubblica contemporanea.
Come si valuta il ritorno (di immagine, ma
anche economico) delle vostre iniziative
culturali e sociali? È un bilancio positivo, e
in che termini?
Essere socialmente responsabili per un’impresa significa non solo operare nel business
con profitto, soddisfacendo pienamente le
esigenze dei nostri clienti, ma anche andare
al di là investendo «di più» nel capitale uma-
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no: è l’integrazione tra gli interessi economici dell’impresa e i diritti delle parti sociali interessate, attraverso l’impegno a difendere
l’ambiente, l’ecologia, i valori morali e anche
culturali. Si tratta proprio del concetto di «sostenibilità», l’azione volontaria di un’impresa
che sostiene allo stesso modo e con uguale
impegno gli interessi dei propri stakeholders.
Senza dimenticare che un’azienda socialmente accettata, trasparente e corretta offre
anche le migliori garanzie di redditività duratura nel tempo ai propri azionisti.
Di che cosa ha bisogno il paese per dare
più spinta a un suo grande potenziale – la
cultura – e a integrarlo meglio nell’economia?
Molto ancora si può fare invece a livello normativo per incentivare gli investimenti culturali e la partecipazione delle aziende nella
gestione del patrimonio culturale del paese.
Penso per esempio a un sistema di incentivi
fiscali che sia più chiaro e univoco nella sua
applicazione. Così come auspico che soprattutto da parte dei media ci sia un maggior riconoscimento del ruolo dei privati, che troppo spesso ancora oggi vengono considerati
solo come «erogatori» di fondi.
LA SOSTENIBILITA
SECONDO ENEL
Energiaper è il programma di Enel per la
cultura, la musica, la scienza, la scuola, lo
sport, in partnership con prestigiose istituzioni pubbliche e private. Oltre 300 gli eventi culturali dello scorso anno, più di 1 milione i partecipanti.
Enel Cuore è la Onlus costituita da Enel nel
2003 per coordinare e gestire i fondi destinati alla beneficenza e alla solidarietà dell’azienda, in favore di bambini, anziani, malati
e disabili. Dal 2004 ad oggi 15 milioni di
euro sono stati destinati a progetti sul territorio nazionale e nel mondo; 91 sono i progetti conclusi e in corso, 458 le richieste di
intervento da parte di enti no profit.
Responsabilità sociale dell’azienda (CSR).
Nel 2002 Enel ha adottato il Codice Etico.
Nel 2003 ha ricevuto dalla FERPI l’Oscar di
Bilancio per il miglior Bilancio di sostenibilità e dallo stesso anno la Csr è integrata
nella strategia aziendale attraverso il Piano
Industriale.
Dal 2004 l’azienda è presente negli indici
DJSI (Dow Jones Sustainability Index) e
nello stesso ha aderito al Global Compact, il
programma d’azione promosso dalle Nazioni
Unite per coinvolgere le imprese in una collaborazione nell’ambito della Csr. Sempre
nel 2004 Enel ha avviato un programma di
formazione per Dirigenti e Quadri sulla Csr
che coinvolge oltre 4.000 persone.
Nel 2005 Enel ha ricevuto il premio Sodalitas Social Award. Nel 2006 la società è entrata a far parte dei Top Ten della classifica
mondiale Accountability Global 50+ pubblicata dal mensile Fortune.
Attualmente nell’azionariato Enel sono presenti 47 Fondi Etici, pari all’8,1% del capitale trattato in Borsa.