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Clemente Galligani
L’EUROPA E IL MONDO
NELLA TORMENTA
Guerra, nazifascismo,
collaborazionismo, resistenza
ARMANDO
EDITORE
Sommario
PARTE I: I CONDANNATI A MORTE DELLA RESISTENZA
ITALIANA ED EUROPEA
7
Capitolo 1
Le differenti formazioni partigiane italiane ed europee
9
Capitolo 2
Le caratteristiche nazionali delle lettere dei condannati a morte della
20
Resistenza italiana ed europea
PARTE II: LA REPUBBLICA SOCIALE E I TEDESCHI
59
Capitolo 1
Nascita della RSI
61
Capitolo 2
La stampa di Salò fra Mussolini giornalista e i tedeschi,
veri padroni
153
Capitolo 3
La rapina dei tedeschi in Italia, terra d’occupazione
189
Capitolo 4
La fine della RSI
216
PARTE III: IL DISPIEGARSI DELLA RESISTENZA EUROPEA
E IL SOSTEGNO DELLE POTENZE OCCIDENTALI
225
Capitolo 1
Il regime di Vichy e la crisi dell’imperialismo francese
227
Capitolo 2
Gli intellettuali e la Resistenza
267
PARTE I
I CONDANNATI A MORTE DELLA RESISTENZA
ITALIANA ED EUROPEA
Capitolo 1
Le differenti formazioni partigiane italiane ed europee
1. La guerra come causa di disfacimento sociale
Le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea, contenute in un volume pubblicato dal Comune di Pisa nel 1984,
nel quarantennale cioè della Resistenza, sono scritte da antifascisti e
antinazisti dei seguenti Paesi europei: Austria, Belgio, Bulgaria, Cecoslovacchia, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Jugoslavia,
Norvegia, Olanda, Polonia, Ungheria, URSS. La fine di ciascuno di loro
è tragica, è un esempio del punto più alto a cui può giungere la malvagità
umana, la malvagità dell’uomo, che le circostanze hanno fatto regredire
allo stato di lupus, a quello stadio cioè, che Hobbes considerava precedente la fondazione della civile società, a quello stadio che egli chiamava “stato di natura”. Sono lettere scritte fra gli anni 1941 e 1944, durante
cioè la Seconda Guerra Mondiale, ed è spiegabile come il comune senso
civile e sociale in questo periodo in Europa si sia affievolito e venuto
meno. In Italia il fascismo e in Germania il nazismo seminano violenza
e terrore, mentre sullo sfondo divampa una guerra, mai vista per potenza
di mezzi e di armi. La libertà è spesso negata, l’espressione libera del
proprio sentire e del proprio pensiero è conculcata. È naturale che al
primo apparire del fascista, si sollevi l’antifascista, al primo apparire
del nazista si sollevi l’antinazista. C’è stato un tempo in cui l’Europa
brillava per la sua cultura, le sue belle maniere, la sua socialità, cose che
costituivano le note più appariscenti anche se in quel mondo non mancava il lato oscuro, fatto di malvagità, disonestà e violenza. Basti pensare
alla belle époque in Francia o all’età giolittiana in Italia. Di quel mondo
così pacifico e decoroso il fascismo e il nazismo sono la negazione: basti
pensare alle spedizioni punitive dei fascisti, ai pogrom nazisti, ai falò dei
9
libri, giudicati pericolosi, nella Germania hitleriana, fino a giungere alle
camere a gas. È naturale che in un clima di volgarità e di sopraffazione
gli spiriti più fini, più educati e più colti, spesso uomini di Chiesa, ma
anche laici profondamente religiosi oppure semplicemente molto colti
(non mancano scrittori, studenti universitari e professionisti), esprimano anche sottovoce sentimenti di disapprovazione e di disgusto. Questi
uomini, contenuti nel volume sopra ricordato, tanto si sono ribellati da
essere condannati a morte. Spesso, però, sono caduti nelle mani del loro
nemico, perché denunciati da un delatore o da una spia. E questo fatto la
dice lunga del mondo sociale in cui vivevano gli uomini degli anni ’40
del secolo precedente al nostro. La vita di essi infatti non si svolge su un
piano di libertà e democrazia: vi è un dittatore al potere, vi è un unico
partito che comanda e impone, il pluralismo politico, non solo quello
emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma semplicemente quello
ancora informe e strozzato del periodo che precede la Prima Guerra
Mondiale, non esiste o è addirittura negato come fatto deteriore. Non per
nulla Mussolini definiva le elezioni “Ludi cartacei” o Hitler in Germania
incendiava il Reichstag. Spesso nelle città, già buie, al calar della sera,
suonavano le sirene che avvertivano dal pericolo; gli aerei sorvolavano
le abitazioni e le strade, lanciavano bombe, occorreva allora rifugiarsi,
fare di tutto per salvare la propria vita. Gli antifascisti dovevano vivere
nascosti, i comunisti, i socialisti o gli appartenenti ai partiti democratici dovevano muoversi, parlare, operare nel silenzio e nascondendosi.
Emblematica è l’attività, anche se dell’anteguerra, di un leader comunista come Antonio Gramsci, che deve muoversi con attenzione, evitare
quei pericoli più o meno occulti che un rivoluzionario comunista trova
sempre durante il dominio di una dittatura capitalistico-borghese. Si è
parlato di fascismo e di nazismo: qui, però, bisogna precisare che siamo
alla fine della parabola dell’esperienza fascista e nazista. Siamo precisamente nel momento in cui ci si chiede, nel bel mezzo della guerra,
se essi non hanno, alla fine, provocato un disastro immane e inutile,
incendiando e devastando l’Europa, uccidendo e trucidando vite umane
anche di innocenti. Il fascismo italiano non è più quello mussoliniano
arrivato al potere nel 1922, ma quello repubblicano di Salò sorretto dalla Germania di Hitler, il cui esercito e le cui armate, rafforzate anche
dai soldati italiani, stanno assaporando le prime clamorose disfatte. Il
sogno dell’ariano che domina il mondo, fatto di schiavi, sta svanendo al
contatto delle prime difficoltà. Il fascista repubblicano poi, non è più il
fascista della prima ora, o antemarcia, ma è spesso la spia, lo sciacallo
10
che si getta sulle vittime, sugli avversari politici, indicandoli ai carnefici.
La guerra mette bene in evidenza che il fascismo, come il nazismo, è
stato una illusione, non per nulla la guerra è uno dei fattori più notevoli
che spingono in Italia la Chiesa cattolica a liberarsi dall’abbraccio del
regime mussoliniano.
Questi uomini sono condannati a morte, e la condanna viene eseguita
nei modi più diversi: camere a gas, impiccagione, fucilazione, decapitazione, alcuni vengono trucidati, ecc. Alcuni subiscono la condanna dopo
un processo, altri senza processo vengono uccisi, magari per rappresaglia, per ritorsione, cioè volendo vendicare un compagno o un camerata.
La pena capitale è la “soluzione finale” di questi uomini sfortunati. Vi
è, però, anche la tortura, che viene data preventivamente per avere informazioni. Esistono diversi modi per torturare: candele accese ai piedi,
lo strappo delle unghie, mozziconi spenti sul petto nudo del condannato; molti condannati si vantano che, nonostante la sofferenza, non hanno parlato. Questi uomini sono stati catturati, spesso traditi da delatori
per i motivi più diversi. Per esempio Dìmitra Tsatsou, greca, perché «si
prodiga nel procurare armi e vettovagliamento per la I divisione ELAS
operante in Tessaglia, nell’assistenza alle famiglie delle vittime, nel proselitismo e nel reclutamento di nuove forze, nell’opera di sabotaggio a
installazioni e depositi nemici»1, mentre in Italia don Aldo Mei, fucilato
il 4 agosto 1944, da plotone tedesco, fuori parte Elisa di Lucca, elenca
nell’ultima lettera ai genitori le seguenti cause: «1° di aver protetto e nascosto un giovane di cui voleva salva l’anima; 2° per aver amministrato
i sacramenti ai partigiani, e cioè aver fatto il prete. Il 3º motivo – conclude – non è nobile come i precedenti – aver nascosto la radio»2. Dìmitra Tsatsou è una pettinatrice, Aldo Mei è un sacerdote, vicario foraneo
del vicariato di Monsagrati (Lucca), l’una una donna, ciò dimostra che
la Resistenza, definita un secondo risorgimento, è differente dal primo
Risorgimento per la più ampia partecipazione sociale, che non interessa
solo elementi della borghesia o della media borghesia, ma pesca anche
negli strati più bassi della società italiana ed europea. Alma Johanna
Koenig, austriaca, è una «scrittrice di romanzi, racconti e liriche»3, Er1
Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana ed europea, a cura del
Comune di Pisa, Pisa, 1984, p. 112.
2 Ivi, p. 134.
3 Ivi, p. 9.
11
nest Omer belga è un operaio4, Nikola Botušev, bulgaro è un tipografo5,
Ahmed Tatarov Ahmedov, anch’egli bulgaro, è un barbiere, il danese
Kim Malthe-Bruum è un marinaio, il tedesco Harro Schulze-Bysen è un
tenente di aviazione impiegato al Ministero dell’Aereonautica, mentre il
suo connazionale Ulrich Von Hassel è un diplomatico, il greco Roussos
Koundou Ros è un avvocato oltre che deputato liberale al parlamento
ellenico, l’italiano Tommaso Masi è un contadino. Vi sono anche lettere non proprio correttamente scritte come quella di un anonimo italiano6. Quindi non solo tutte le classi sociali sono rappresentate in questo
quadro della Resistenza europea, ma anche tutti i livelli culturali: si va
dalla lettera che possiamo definire acutamente “politica” dello studente
universitario parmense Giacomo Ulivi, alla cartolina postale redatta da
alcuni bambini di Lidice, con l’aiuto di una prigioniera polacca, che nel
campo di concentramento di Gulisenan mancano di tutto, delle cose più
necessarie, dal cibo al vestiario. «Non abbiamo che un abito – scrivono
Eva Kafkova e Ema Vénda – perciò vi preghiamo se potete mandarci
qualcosa, qualche vecchia scarpa. Se foste così gentile da mandarci un
pezzetto di pane… accetteremo tutto con gioia»7. Sono bambini al di
sotto dei sedici anni dispersi dopo l’eccidio e la distruzione del loro
Paese. All’inizio erano complessivamente 98; nel campo di concentramento di Chełmno ne arrivano, infine, 82. «È lì che con tutta probabilità
furono uccisi, su decisione, per quanto risulta dal conteggio reperito,
di Adolph Eichmann»8, il criminale nazista che, terminata la guerra si
era rifugiato in Siria (1948) e poi in Argentina (dal 1950 al 1960) e che,
infine, fu processato a Tel Aviv, quindi condannato a morte e impiccato.
Non mancano le scritte sui muri delle celle, come quella delle carceri
di Fresnes a Parigi; una di essa, per esempio è come un vano grido di
dolore: «William Koenig Ohio-Usa consegnato in mano tedesca da un
traditore 18.7.43»9 [2° Raggio-Cella di rigore 65; scritta in inglese]. Vi
sono, infine delle scritte particolari come quelle composte con la punta
di uno spillo sulla copertina di una Bibbia ritrovata nei pressi del luogo
della fucilazione. È di Guglielmo Jervis, ingegnere presso la SA Olivetti
di Ivrea: «Non piangetemi – scrive – non chiamatemi povero. Muoio per
4
Ivi, p. 23.
Ivi, p. 33.
6 Ivi, p. 121.
7 Ivi, p. 50.
8 Ivi, p. 47.
9 Ivi, p. 65.
5
12
aver servito un’idea». Molti dei condannati a morte sono partigiani. Già
abbiamo visto l’ELAS, una formazione resistenziale greca, in Austria
troviamo il gruppo Pushmann, un gruppo clandestino con diramazioni
in tutto il Paese10, oppure ÖFB cioè l’Österreichische Freiheitsbewegung, che comprende persone di differente estrazione sociale collegate
con Von Stanffenberg, il colonnello tedesco che il 20 luglio 1944 compì
l’attentato contro Hitler, e con altri organizzatori del progettato colpo di
Stato.
In Bulgaria troviamo il gruppo Remsista, in Francia l’attività clandestina degli studenti del liceo “Buffon”, oppure il Maquis, una vera e
propria formazione partigiana armata che si scontra con l’esercito tedesco. In Grecia troviamo anche l’EAM, organizzazione comunista. Varie
sono le formazioni resistenziali italiane: Giustizia e Libertà, la divisione
d’assalto Garibaldi come la Spartaco Levagnini, le formazioni Matteotti
e quindi i GAP, formazioni terroristiche che operano soprattutto nelle
città con colpi di mano o con attentati tesi a danneggiare a vari livelli
l’occupante. Operarono poi i CLM. In Olanda opera con attentati e atti
di sabotaggio il gruppo CS6, in URSS il Komsomol, quindi in tutti i
Paesi i partiti politici, soprattutto il PC e il PS. Vi sono, però, anche
organizzazioni cattoliche a tutti i livelli. Le formazioni, spesso, come
quelle italiane, hanno un proprio colore politico: i garibaldini italiani
sono comunisti, le formazioni Matteotti sono socialiste, i giellisti sono
di estrazione liberaldemocratica, non per nulla nelle formazioni resistenziali italiane, che, dopo l’8 settembre prendono la via dei monti, vi è
un “commissario” che in realtà è addetto al controllo e alla formazione
politica della “banda”.
1.1. Le lettere: espressione di gravi sofferenze fisiche e psichiche
Ritornando alle persone che sono oggetto del presente lavoro, notiamo che alcune di esse sono internate nei campi di concentramento
come Mauthausen e Sachsenhausen, dove abitare e viverci è cosa estremamente penosa. Vediamo cosa scrive un certo Chaїm, un ragazzo contadino polacco di 14 anni, preso semplicemente per ragioni razziali e
inviato con migliaia di altri giovani ebrei nel campo di Pustków (Galizia) e ivi soppresso in epoca sconosciuta. Scrive ai genitori con accento
10
Ivi, p. 12.
13
ironico: «Se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro, non
potrei scrivervi la mia sofferenza e tutto ciò che vedo intorno a me»11.
Viene, fin dal mattino, mandato al lavoro in una foresta, senza scarpe,
i suoi piedi sanguinano, lavora tutto il giorno senza mangiare e la notte
dorme sulla terra «ogni notte – continua – soldati ubriachi vengono a
picchiarci con bastoni di legno, e il mio corpo è nero di lividi come un
pezzo di legno bruciacchiato. Alle volte ci gettano qualche carota cruda,
una barbabietola, ed è una vergogna: ci si batte per averne un pezzetto
e persino qualche foglia»12. A causa della fuga, poi, di due ragazzi, lui e
altri internati nel campo vengono «messi in fila e ogni quinto nella fila
veniva fucilato». La lettera, scritta in yiddish è stata affidata, attraverso
il filo spinato del campo, a un giovane contadino della zona che la consegna ai genitori. È quindi senza ombra di dubbio veritiera e riflette una
situazione reale. Questo perché per quegli uomini non sempre è possibile dire la verità nuda e cruda. Criptica è infatti la breve lettera in yiddish
del polacco Jehuda Feld (Julek) inviata alla compagna rifugiatasi nella
zona sovietica egli scrive: “Il padre Raaw ti saluta”. La parola Raaw in
ebraico significa “fame”. Allora si può tradurre: la fame ti saluta, cioè
in altri termini “Io, che ho fame, ti saluto” per dire che dove si trova
(scantinati della sede della Gestapo, viale Szucha, Varsavia) viene fatto
morire di fame. «È già da molto – continua – che il cugino Lechem non
è venuto da noi». Lechem in ebraico significa “pane”. L’estensore della
lettera è uno scrittore e nasconde i suoi manoscritti: «Credo che un giorno, quando Haman non sarà più, li ritroveranno». Haman, un antico oppressore persiano degli ebrei, sta qui per Hitler. Evidentemente l’autore
della lettera teme che questa cada in mano del nemico compromettendo
la compagna cui l’ha affidata.
Una tematica s’impone, prima di ogni altra, nelle lettere dei condannati a morte: quella degli affetti familiari, l’espressione di un mondo
privato che ci appartiene dalla nascita. In esse ci si può rivolgere ad una
sola persona, o ai genitori, o a tutti i familiari, parenti ed amici. Alcune
lettere sono rivolte alla moglie e in genere anche in quelle rivolte ad
altri familiari emerge un mondo di affetti e di consuetudini che sono
dati familiari acquisiti dal tempo lontano. «Vieni soltanto di tanto in
tanto – scrive Giovanni Battista Vighenzi (Sandro Biloni) alla moglie
11
12
14
Ivi, p. 193.
Ibidem.
Liana – sulla mia tomba a portarvi uno di quei mazzetti di fiori campestri
che tu sapevi così bene combinare»13. «Metto la mia firma e sulla fede
i miei ultimi baci» scrive infine, terminando in modo un po’ convenzionale. La mamma è evocata con grande affetto, spesso viene chiamata
mammina: è quella che soffre di più perché ci ha fatto nascere. Gli altri
parenti vengono chiamati uno ad uno così: Aldo Sbriz (Leo) oltre alla
piccola figlia Giuliana saluta Lucianuti, mamma Gige, dà l’addio a Ines,
Pieri e Ioletta, Marcello e Mamma, alla sua mamma, alla moglie Pina e
a Baldo14, ad essi dice: “Datevi coraggio non dimenticatemi”. «Quella
famiglia – scrive R. Battaglia – da cui ci s’era divisi volontariamente,
alla quale si era dovuto spesso nascondere la propria decisione, ritorna
come immagine tangibile e concreta del “mondo esterno” al momento
della morte, è come lo specchio in cui si riflette il martire della libertà
per esprimere un definitivo messaggio su se stesso e sul mondo»15. Fra i
genitori, i familiari e i parenti si stabilisce, scrive Battaglia, «un dialogo
fra generazioni spesso diverse, tanto più toccante e commovente quanto
più mira a far cadere ogni separazione, ad abbattere non solo le sbarre
della prigione, ma a rendere edotti anche “gli altri” delle ragioni del
proprio sacrificio»16. Abbiamo visto sopra “Leo” invocare la famiglia
per un ricordo duraturo nel tempo, molti altri chiedono “perdono” per
il dolore che arrecano con le loro scelte di vita, spesso fatte per conto proprio, all’insaputa dei congiunti. I familiari vengono coinvolti nel
“dramma” del condannato a morte, quegli li ricorda uno ad uno: «Si
stabilisce così – scrive Battaglia – come una rete dai mille fili tenaci,
che nemmeno la morte può spezzare, che collega i morituri ai vivi»17. Il
familiare che sta al centro degli affetti è la mamma, essendo quella che
soffre di più, soprattutto davanti a lei ci si vuole scusare.
In una lettera dell’austriaco Oskar Klekmer, un membro del gruppo
Puschmann, di 20 anni, quasi ci si vuole scusare dell’esperienza passata
e ormai conclusa, come se questa fosse stata la scappatella di un bambino indocile e disobbediente: «Tu sai – scrive infatti – che nella vita sono
stato sempre molto indipendente ho molto goduto della natura, della
libertà, dei piaceri e dell’amore… Mi hai sempre chiesto cosa avrei fatto
quando sarei stato più vecchio… Mamma, oggi mi duole soltanto che
13
Ivi, p. 151.
Ivi, p. 121.
15 Ivi, p. 225.
16 Ibidem.
17 Ibidem.
14
15
non siamo stati più vicini spiritualmente. Ma non devi credere che io
non ti abbia voluto bene…»18. I figli, spesso molto piccoli, sono quelli
che porteranno il cognome del padre che non c’è più; vengono proiettati
nel futuro e ad essi ci si raccomanda perché seguano una determinata
condotta di vita.
«Mi auguro – scrive Huguette Prunier (Iuliette) – al suo bambino
prima della fucilazione – che tu divenga un uomo coraggioso, franco,
leale, generoso; che tu ami il tuo Paese ed il popolo come li ho amati
io…». Mentre la tedesca Gertrud Seele alla piccola figlia raccomanda di
“diventare buona e coraggiosa”19.
Una delle poche lettere della raccolta, che è oggetto del presente lavoro, che è indirizzata agli “amici” è quella dello studente universitario
parmense Giacomo Ulivi, incaricato dei collegamenti fra il CLN di Parma e di Carrara, fucilato dai repubblichini sulla Piazza Grande di Modena. Abbiamo già affermato sopra che questa lettera è un documento
acutamente politico. In sostanza l’Ulivi raccomanda la più ampia partecipazione dei cittadini, che fino ad ora ne sono stati lontani, alla vita
pubblica. La politica è una “cosa sporca”, la politica “è lavoro di specialisti”: questi erano i luoghi comuni con cui si voleva tenere lontane le
masse dal potere. «Ciò – dice l’Ulivi – è il tremendo, il più terribile…
risultato di un’opera di diseducazione ventennale… che martellando
per vent’anni da ogni lato, è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei
pregiudizi»20. Invece, sostiene il giovane parmense, «al di là di ogni
retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro… che ogni sua sciagura, è sciagura nostra, come
ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro Paese è caduto…»21.
La guerra, la miseria, la morte infatti sono il tremendo risultato della
politica di una ristretta cerchia di uomini e del loro capo, che nella prima
metà del ’900 si sono impadroniti del potere in Italia e in Germania – e
ciò è successo a causa del nostro disinteresse per la politica, per il nostro
«desiderio di “quiete”, che anche se è una quiete laboriosa, è il segno
dell’errore». «Nei prossimi mesi si deciderà – scrive Ulivi – il destino
del nostro Paese, di noi stessi, chiedetevi – raccomanda agli amici –
quale Stato bisogna ricostruire […] Se credete nella libertà democratica,
18
Ivi, p. 13.
Ivi, p. 106.
20 Ivi, p. 143.
21 Ivi, p. 144.
19
16
in cui nei limiti della costituzione, voi stessi potreste indirizzare la cosa
pubblica, oppure aspettate una nuova concezione, più equilibrata della
vita e della proprietà»22, se la facoltà di eleggere sia di tutti, oppure dei
più preparati «oggi, per giungere ad un progressivo allargamento»23.
Vi sono le lettere di laici credenti e non credenti, e persino lettere degli uomini di Chiesa: «Sento il volere di Dio e con letizia voglio che esso
si compia» scrive Alma Johanna Koenig24, austriaca, soppressa presumibilmente nella camere a gas del campo di concentramento di Minsk.
«Dunque, cari genitori e tutti voi fratelli, parenti e conoscenti, che Iddio
vi dia la più ricca benedizione e ogni bene per l’avvenire» – scrive quasi alla fine della sua lettera lo studente austriaco in medicina Albrecht
Stanek (Bert), fucilato l’8 marzo 1944, a Brissov, con altri sette patrioti.
«Ah, mia povera mamma! Il dolore che ti procuro! Ma andrò in cielo
con Gesù» afferma il francese George Genevois, ventenne, fucilato con
16 suoi compagni il 1° febbraio 1944 a La Dova Villeurbanne (Rodano).
A volte le lettere dei condannati a morte raggiungono livelli eroici, come
quella del quarantaseienne parroco belga di Camblain au Pont (Liegi):
«Quando riceverete la presente – scrive – sarò caduto sotto il piombo tedesco per aver servito la Patria da Prete e da Patriota»25, rare, però, sono
le affermazioni solenni, perché questi uomini vogliono restare sulla terra, con le proprie qualità e difetti, con le proprie aspirazioni e le proprie
esigenze “concrete”; così il francese André Diez di 21 anni, fucilato il 22
agosto del 1942 con undici compagni, può ricordarsi che alla cancelleria
della P. J. ha «2000 franchi in busta sigillata: qui ne ha 635. Vorrei –
conclude – che questo denaro fosse rimesso a mia zia e a Louis»26 e alla
ragazza del Komsomol Irina Maložon, fucilata dai tedeschi, dopo aver
consolato la mamma per la sua mancanza, «tanto non sarei egualmente
vissuta con lei», preme avvertire «che la mamma nasconda il grano se
no i tedeschi se lo pigliano». È l’ultima vendetta concreta contro chi la
porta alla morte. Solo uomini e donne interi possono abbracciare la vita
in modo così totale, parlare semplicemente, in modo dimesso e trovare,
talvolta, gli accenti più alti, stabilendo continuità fra ciò che è umile e
quotidiano e ciò che tocca la vetta del tragico e del sublime. «Ho qual22
Ivi, p. 145.
Ibidem.
24 Ivi, p. 9.
25 Ivi, p. 27.
26 Ivi, p. 74.
23
17
cosa che vive e arde in me – scrive alla mamma il danese Kim MaltheBruun fucilato il 6 aprile del 1945 – amore, ispirazione, chiamala come
vuoi, tuttavia qualcosa che non riesco a esprimere. Ora muoio, e non so
se ho acceso una piccola fiamma nell’anima di qualcuno, una fiamma
che mi sopravviverà, ma sono egualmente sereno, perché ho visto e so
che la natura è ricca, nessuno nota se un germe viene calpestato e muore,
perché dovrei dunque rattristarmi io?…». Qui dal quotidiano buon senso, ci si eleva con lo sguardo, giungendo al livello del pensiero filosofico,
mezzo di consolazione e conforto. È come dire: perché piangere la mia
morte, quando nella natura, così ricca, essa si verifica continuamente negli altri esseri viventi, uomini e animali! Nelle lettere ai familiari questo
motivo consolatorio torna spesso: qui si evoca la natura, altrove la guerra che fa continuamente vittime. Vi sono fra i condannati a morte anche
ecclesiastici. Il già citato Joseph Peeters affronta la morte guardandola
in faccia «senza paura e senza recriminazione, contando sulla infinita
misericordia di Dio che, spero, mi accoglierà nel suo bel cielo, dove
confido di ritrovare i miei cari genitori, fratelli, sorelle e amici che mi
hanno preceduto nell’eternità»27. È un sacerdote che parla ai suoi vicari
e parrocchiani, evocando un mondo ultraterreno, mentre Herman Lange,
cappellano nella comunità cattolica di Lubecca, decapitato il 10 novembre 1943 ad Amburgo insieme a due cappellani e un pastore evangelico,
invita i familiari e gli amici a rileggere i versetti 1. Cor. 15/43 e Romani
14/8 dalle lettere di San Paolo. Il primo recita: [il corpo] «è seminato
nella miseria, risorge nella gloria, è seminato nella debolezza, risorge
nella potenza» [Lettere isg], il secondo afferma: «…se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo moriamo per il Signore. Sia che
viviamo, sia che moriamo siamo del Signore» [lett. cit.]. «Cosa avrei da
temere? Al contrario rallegratevi…» conclude il sacerdote. «Anche in
questo momento sono passati ad insultarmi: dimette illis nesciunt quid
faciunt» (Perdona loro, non sanno quello che fanno) afferma don Aldo
Mei, prima di salutare per l’ultima volta familiari e amici.
Quelli visti fino ad ora sono i religiosi; le lettere dei partigiani laici
e comunisti sono d’altro tenore: «Ho l’onore di morire per il popolo e
scenderò nella terra con una canzone sulle labbra, convinto che il popolo
vendicherà me, degno e onesto figlio, a cui non dispiace offrire se stesso,
la giovinezza, il sangue e la vita per il suo bene, per un suo migliore e
27
18
Ivi, p. 27.
più felice avvenire»28 scrive Vojo Rajnatović, studente jugoslavo, membro del Partito Comunista. Qui lo sguardo non è rivolto verso “il bel
cielo”, ma solo sulla terra dove si lotta per il benessere del popolo. Il
tedesco Alfred Frank, membro del partito social democratico e poi comunista, giustiziato a Dresda il 12 gennaio 1945, non parla dell’aldilà e
del mondo terreno, ma punta la sua attenzione sulla compagna, Gertrud.
Dopo che questa è stata ad incontrarlo scrive: «Di tante cose avrei voluto
parlarti, ma la sorpresa mi ha sconvolto e mi ha fatto dimenticare molte
questioni che avrei voluto ancora esaminare con te. Ma credo che saprai
fare tutto bene da sola… Tieni alta la testa – aggiunge – come la teniamo
alta noi, fino a che la violenza non ci costringerà ad abbassarla»29. Nel
complesso sono lettere semplici, scorrevoli, scritte soprattutto da gente
comune, aventi tutt’altra preoccupazione che quella di fare cultura. Le
date e i nomi dei personaggi storici non sono molti: oltre a San Paolo, si
ricorda Socrate, i greci ricordano l’Olimpo e l’Imetto, i tedeschi Goethe
e Rilke. Comunque ogni gruppo di condannati a morte, appartenenti a
differenti nazioni, presentano caratteristiche proprie e inconfondibili.
28
29
Ivi, p. 155.
Ivi, p. 104.
19