Untitled - Rizzoli Libri
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Robert Jay Lifton I medici nazisti storia degli scienziati che divennero i torturatori di hitler Collana a cura di Paolo Mieli la storia • le storie Proprietà letteraria riservata © 1986 by Robert Jay Lifton Published by arrangement with Basic Books Inc. New York, USA © 1988 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano © 2002 RCS Libri S.p.A., Milano © 2016 BUR Rizzoli / RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-08730-8 Titolo originale dell’opera: The Nazi Doctors Traduzione di Libero Sosio Prima edizione Rizzoli 1988 Prima edizione BUR 2002 Prima edizione BUR Storia maggio 2016 Realizzazione editoriale Netphilo, Milano Seguici su: Twitter: @BUR_Rizzoli www.bur.eu Facebook: /RizzoliLibri Alle vittime dei nazisti. A coloro che sopravvissero. E a quanti continuano a lottare contro le forze dell’eccidio di massa e del genocidio. Parla anche tu, parla infine fatti sentire... Guàrdati attorno, vedi come tutto balza su vivo dove c’ è la morte! Vivo! Paul Celan Giuro su Apollo medico e su Asclepio e su Igea e su Panacea e su gli dèi tutti e le dee, chiamandoli a testimoni, di tener fede secondo le mie forze e il mio giudizio a questo giuramento e a questo patto scritto... Mi varrò del regime per aiutare i malati secondo le mie forze e il mio giudizio, ma mi asterrò dal recar danno e ingiustizia... Preserverò pura e santa la mia vita e la mia arte... In quante case entrerò, andrò per aiutare i malati, astenendomi dal recar volontariamente ingiustizia e danno... Se dunque terrò fede a questo giuramento e non vi verrò meno, mi sia dato godere il meglio della vita e dell’arte, tenuto da tutti e per sempre in onore. Se invece sarò trasgressore e spergiuro, mi incolga il contrario di ciò. Il Giuramento di Ippocrate1 Premessa Poco tempo dopo aver completato il mio studio precedente sui sopravvissuti della bomba atomica, ricevetti la visita di un rabbino amico mio il quale, nel corso della nostra conversazione, mi disse: «Hiroshima è la tua via, come ebreo, verso l’Olocausto». Questo commento mi fece sentire a disagio, e pensai che fosse un po’ troppo pontificale, persino per un rabbino. Eppure, a cominciare da allora (eravamo verso la fine degli anni Sessanta), ebbi la forte sensazione che, abbastanza presto, avrei tentato di studiare in qualche modo il genocidio nazista. Tutte le ricerche che avevo compiuto su «situazioni estreme» – situazioni di grave violenza su corpi e anime – sembravano indirizzarmi, sul piano professionale come su quello personale, verso un tale studio. Amici e allievi mi pungolavano con affetto e, senza che io avessi in mente alcun piano chiaro, l’idea venne assumendo in me una certa inevitabilità. In varie conferenze sull’Olocausto ebbi modo di tratteggiare la psicologia dei sopravvissuti, ma gradualmente finii col convincermi che ciò di cui c’era ora soprattutto bisogno era uno studio sui carnefici. Non deve quindi sorprendere il mio interesse quando un redattore (che aveva lavorato con me al mio libro su Hiroshima) mi chiese di dare un’occhiata ad alcuni documenti che gli erano stati mandati su Josef Mengele e sulle pratiche mediche di Auschwitz. Dalla lettura di quei documenti, e da un’immersione in scritti affini, cominciai a rendermi conto della straordinaria importanza dei medici in generale per il progetto nazista di sterminio. Anche se il lavoro era destinato a estendersi molto oltre quei materiali, esso era per me già avviato. 9 I medici nazisti Benché non avessi alcuna incertezza sull’opportunità di procedere, alcune delle persone con cui ne parlai espressero qualche apprensione. «Spero che lei abbia uno stomaco abbastanza forte!» fu un commento che udii spesso. Alcuni cercarono addirittura di convincermi ad abbandonare l’impresa. La loro tesi era che il male del nazismo doveva essere semplicemente riconosciuto e isolato; anziché farne un oggetto di studio, lo si doveva solo condannare. Si temeva, in particolare, che uno studio psicologico rischiasse di sostituire alla condanna una qualche forma di «comprensione» del fenomeno. Quelle apprensioni mi indussero a riflettere e mi costrinsero a esaminare alcuni difficili problemi personali e filosofici. Io non avevo alcun dubbio sulla realtà del male nazista. Ma ora potei chiarirmi che l’obiettivo del mio progetto psicologico era quello di apprendere qualcosa di più su quel male, e non di sostituire la condanna con la comprensione. Evitare il compito di scandagliare le fonti di quel male mi sembrava, in definitiva, un rifiuto di fare appello alla nostra capacità di impegnarci e di combatterlo. In una tale rinuncia è implicito non solo il timore del contagio, ma anche l’assunto che il male nazista, o qualsivoglia altro male, non abbia alcun rapporto con noi, con capacità umane più generali. Benché lo sterminio di massa e la brutalità di cui si macchiarono i nazisti possano tentarci di fare un tale assunto, esso è nondimeno sbagliato e addirittura pericoloso. Quanto allo stomaco forte, io non ero certamente senza timori circa il mondo in cui stavo per avventurarmi; ma decisioni di questo genere, secondo la mia esperienza, sono radicate in un’intuizione profonda di se stessi, di ciò che è appropriato e giusto fare. Quella inclinazione interiore a procedere non mi liberò però dalla dolorosa consapevolezza che, qualsiasi cosa avessi fatto, sarebbe rimasta ben lontana dal rendere una piena giustizia morale e intellettuale alla portata dell’argomento. Nella prosecuzione del lavoro mi si chiarì che i nazisti non furono certamente gli unici a coinvolgere i medici nel male. È sufficiente, per rendersene conto, considerare il ruolo svolto dagli psichiatri sovietici nella diagnosi dei dissenzienti come malati di mente, e nel farli internare in ospedali psichiatrici; quello dei medici in Cile (documentato da Amnesty International) nel ruolo di torturatori; quello dei medici giapponesi che praticarono esperimenti medici e la vivisezione su prigionieri di guerra durante il secondo conflitto mondiale; quello dei medici sudafricani bianchi che falsificarono rapporti medici su neri 10 Premessa torturati o uccisi in prigione; di medici e psicologi degli Stati Uniti usati nel recente passato dalla cia per esperimenti medici e psicologici immorali implicanti farmaci e la manipolazione della mente; e il giovane medico «idealista» membro del culto del Tempio del Popolo in Guyana che preparò il veleno (un misto di cianuro e di Kool-Aid) per l’assassinio-suicidio combinato, nel 1978, di quasi un migliaio di persone. I medici, a quanto pare, possono partecipare anche troppo facilmente agli sforzi di gruppi fanatici, demagogici o clandestini per controllare questioni di pensiero e di sentimento, e di vita e di morte. Io mi ero interessato, a titolo professionale o personale, di tutti questi esempi, i quali presentano qualche rapporto con i tipi distruttivi di esercizio dell’attività medica di cui ci occuperemo. Trovai però che i medici nazisti si differenziarono in modi significativi da questi altri gruppi, non tanto nella loro sperimentazione sull’uomo quanto nel ruolo centrale da loro svolto in progetti di genocidio: progetti fondati su visioni biologiche che giustificavano il genocidio come mezzo di risanamento nazionale e razziale. (Forse i medici turchi, nella loro partecipazione al genocidio a danno degli armeni, furono quelli che si avvicinarono di più all’esempio nazista, come vedremo in seguito.) Per questa, e per molte altre ragioni, i medici nazisti richiedono uno studio a sé, e anche se nell’ultima sezione mi occuperò più diffusamente dei tipi di genocidio, questo libro è dedicato principalmente allo studio della loro psicologia. Non intendo però sostenere di aver compiuto uno studio storico generale di tutti i medici nazisti, o della professione medica in generale durante il Terzo Reich. Mi sarebbe anzi molto piaciuto potermi servire di uno studio del genere nella preparazione di questo libro, giacché esso avrebbe molto alleggerito il lavoro di scavo in archivi e nei documenti di tribunali di varie parti del mondo che i miei assistenti e io abbiamo dovuto compiere. Quel che sono riuscito a evidenziare è il rapporto di gruppi specifici di medici nazisti, e di particolari individui, allo sterminio, oltre che alla più ampia rivendicazione di «risanamento» della razza propugnata dal regime. Questo rovesciamento dei concetti di risanamento e di uccisione divenne un principio organizzatore della mia ricerca, e io pervenni a sospettare che esso avesse attinenza anche ad altri progetti di genocidio. Molto è stato detto e scritto sui rapporti fra carnefici e vittime, rapporti che ebbero un’importanza considerevole ad Auschwitz e altrove. Ho trovato però che è essenziale differenziare nel modo 11 I medici nazisti più netto fra la situazione morale e psicologica dei membri dei due gruppi. Quale che sia stato il comportamento di singoli individui, i prigionieri erano nella situazione di detenuti minacciati, mentre i medici nazisti erano i persecutori che esercitavano la minaccia. Questa chiara distinzione va mantenuta alla base di qualsiasi valutazione del comportamento dei medici ad Auschwitz. Gli ebrei furono l’oggetto primario del genocidio nazista e furono perciò le vittime principali dei medici nazisti. In questo libro io mi occuperò però anche di internati non ebrei ad Auschwitz, come polacchi e prigionieri politici e prigionieri di guerra russi; e inoltre di pazienti psichiatrici in Germania e in aree occupate sacrificati ancor più direttamente da medici nazisti. Quando giunsi alla fine di questo lavoro, molte persone mi chiesero che cosa mi avesse dato. Di solito rispondevo: «Molto», cambiando però subito argomento. La verità è che è ancora un po’ troppo presto per dirlo. Non ci si può attendere di emergere da uno studio di questo genere spiritualmente illesi, tanto più quando il proprio sé è lo strumento usato per assorbire forme di esperienza di cui si sarebbe preferito non venire neppure a conoscenza. Ma l’altra faccia di quest’impresa fu per me la tonificante rete di rapporti umani che essa mi permise di istituire, i rapporti con esseri umani di tutto il mondo che mi largirono la loro collaborazione. Al centro di tale rete furono i sopravvissuti, i quali mi fornirono un sostegno prezioso. Ma di tale rete fecero parte anche colleghi, studiosi del genocidio nazista, tedeschi impegnati a confrontarsi con l’era nazista, giovani assistenti, alcuni dei quali conoscevo da anni, mentre altri li conobbi in occasione delle mie ricerche: un numero tanto grande di persone in tutte queste categorie che mi sento in dovere di elencarle alla fine del volume. Il fatto di condividere un’impresa come questa vivifica vecchie amicizie e ne crea di nuove, nei modi più immediati ed efficaci. Il grande respiro di questa rete, ricca di contenuti di solidarietà, che prese forma fu forse la compensazione migliore alla mia conoscenza molto limitata delle lingue in gioco (tedesco, ebraico, yiddish, polacco e francese). Da decenni sono a conoscenza dell’insistenza di Camus sulla tesi che noi non siamo né vittime né carnefici, e del suo consiglio di evitare le istituzioni e le azioni in cui queste due categorie si manifestano. Ma oggi ho una nuova comprensione di ciò che egli intendeva dire. Camus imparò in effetti la sua lezione originaria dalla parteci12 Premessa pazione alla lotta clandestina contro i nazisti. Non è certo necessario sottolineare quanto spesso il suo consiglio sia ignorato. Ma io insisterei al tempo stesso sulla tesi che noi siamo in grado, per quanto imperfettamente, di agire sulla base di questa conoscenza, capaci di imparare qualcosa dal male del passato esaminato con cura. Io ho intrapreso questo studio, e ora lo offro, in questo spirito di speranza.