N. 4 L`enciclica di Paolo VI sulla castità coniugale

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N. 4 L`enciclica di Paolo VI sulla castità coniugale
Lettera n.4
N. 4
L’enciclica di Paolo VI sulla castità coniugale
Miei cari Amici,
in molti aspettate con una certa impazienza il commento
sull’enciclica che vi avevo promesso nell’ultima lettera (N. 3).
Prima di affrontare l’argomento vi ricordo che questi sono appunti di vita spirituale destinati, sulla base dei sette punti definiti
fin dall’inizio (lettera N. 1), ad aiutare chi cerca Dio. Le lettere,
pertanto, non possono risolvere o spiegare fino in fondo né le
questioni di teologia morale e dogmatica sollevate dall’Humanae
Vitae, né le reazioni da essa provocate. Potrò affrontare tutto ciò
solo nell’ambito dei ciclostilati intitolati Le Don de Dieu, attualmente in corso di redazione.
Questa lettera rischia così di deludere quanti si aspettano una
risposta precisa e articolata a tutti i problemi di fede posti dalla
pubblicazione dell’enciclica. Rischia, inoltre, di deludere chi non
aderisce dal profondo del suo cuore a una certa follia15
nell’amore di Cristo, follia di cui i sette punti precisano alcuni aspetti. Oggi cercheremo di chiarire, il più brevemente possibile, il
problema della regolazione delle nascite, ma lo faremo affrontando il problema dalle vette.
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Nel senso paolino.
L’enciclica di Paolo VI sulla castità coniugale
Nella lettera N. 3 ho già in parte precisato a quali vette mi riferisco; in particolare ho sottolineato come siano perfettamente
accessibili ai più grandi peccatori: sono fatte in modo speciale
proprio per loro (“Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori”)... perché si tratta di vette di vita teologale e non di perfezione umana. Tuttavia, per essere raggiunte esigono una profondità e una purezza compatibili con la più grande miseria umana,
ma assolutamente incompatibili con la benché minima tiepidezza
e con il più piccolo tentativo di barare (soprattutto in campo dottrinale).
Non stupitevi, allora, se affronto questi problemi con una meditazione sulla verginità, la vetta, appunto, della castità cristiana;
quella stessa castità che il matrimonio cristiano deve cercare di
realizzare, anche se in una maniera meno perfetta.
Queste ultime due parole hanno da sole una portata veramente esplosiva sul piano dottrinale. Voglio dire che molti le respingerebbero con estrema violenza in nome delle nuove prospettive
sul matrimonio aperte dal Concilio Vaticano II. Mi mancano lo
spazio e il tempo per impegnarmi in una discussione di questo
genere nell’ambito delle lettere.16 Mi limito ad affermare, alla luce
del Vangelo, che non ci sono due tipi di castità, quella del matrimonio e quella del celibato, ma una sola, dono di Dio. Il celibato
volontario si dispone a riceverla per la via più rapida, di conseguenza più perfetta, mentre il matrimonio si dispone a ricevere lo
Questa discussione è legittima, inoltre è un dovere pastorale placare il turbamento
di numerosi cristiani che ancora non comprendono tutta l’altezza, la larghezza e la
profondità dell’amore di Cristo. Chiedo solo di essere esonerato, qui, da tale sforzo.
Ad ogni modo questa fatica pastorale può essere solida solo nella misura in cui chi
insegna è egli stesso penetrato dal sale del Vangelo in tutta la sua virulenza. Allora
può diluirlo secondo le capacità dei suoi uditori, donare latte prima della carne. Se, al
contrario, chi insegna non sa nemmeno quello che è la carne e quello che è il sale, o
si rifiuta di rispettare la loro vera natura, allora non può più dare neanche il latte.
16
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stesso dono per una via più lenta, più complicata, meno radicale
e, di conseguenza, meno perfetta.
Questo dono è la verginità. Dicendo così, mi discosto dal vocabolario tradizionale, ma è per farvi capire meglio il senso profondo della dottrina tradizionale. La definizione canonica di verginità, infatti, ha l’inconveniente di essere privativa e meramente
materiale. È del tutto legittimo attribuire una tale importanza
all’integrità puramente fisica del corpo femminile, ma a condizione che essa appaia come il segno e la garanzia di altra cosa,
che è importante allora definire in positivo. In caso contrario diventerebbe impossibile attribuire alla verginità maschile lo stesso
senso profondo della verginità femminile. Inoltre, la nozione canonica rischia di non poter essere applicata ai corpi gloriosi,
mentre la verginità deve essere definita come una qualità positiva
che appartiene molto di più ai corpi gloriosi che al loro seme corruttibile.
Arrischierò, quindi, una definizione escatologica della verginità, una definizione in rapporto al Regno dei Cieli: dirò che essa è
lo stato di un corpo interamente consumato dalla gloria. Questa
definizione si basa sulla parola di Cristo: ogni creatura dovrà essere salata con il fuoco. In queste parole, che prendo seriamente,
riconosco il vero senso di ciò che in terra cristiana si chiama consacrazione. La consacrazione non è altro che la consunzione di
tutto il nostro essere (anima e corpo) ad opera del fuoco del Roveto ardente, fuoco della carità che Gesù è venuto a portare sulla
terra. Chi non ha il presentimento della follia dell’amore di Cristo, accoglie queste espressioni come metafore: non capisce che
il fuoco della carità è molto più reale e bruciante del fuoco che
conosciamo. È proprio del fuoco ridurre in cenere tutto ciò che
tocca; sarà proprio della carità ridurre in cenere i nostri corpi… e
come diceva San Francesco d’Assisi, “nostra sorella cenere è casta.” Non c’è altra castità seria, cristiana e reale che questa: la castità di un corpo ridotto in cenere dalla gloria.
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In queste condizioni non c’è da stupirsi se i peccatori (e le
peccatrici) ritrovano in Cielo, non dico la loro verginità, ma una
verginità sconosciuta sulla terra. Tutto sommato, in questo mondo non conosciamo che il germe della verginità, così come conosciamo il germe della gloria che si chiama grazia. Allo stesso modo, non siamo realmente consacrati dalle diverse consacrazioni
della terra, poiché esse non sono altro che il germe e il segno della consacrazione eterna e totale dell’anima e del corpo. Quando
risusciteremo con Cristo nella gloria, allora soltanto saremo interamente sacralizzati o sacrificati, cioè divinizzati. Siamo destinati
alla tavola divina, non solo come commensali, ma ancor più come cibo: il fuoco divino ci dovrà un giorno divorare, nel senso
fisico e rigoroso del termine e quest’evento sarà nello stesso
tempo il nostro olocausto, la nostra assunzione, la nostra beatitudine... e la nostra verginità.
Il battesimo è il germe e il segno di quest’evento che
l’Eucaristia lavora a poco a poco e giorno dopo giorno fino al
momento in cui, consumata completamente l’anima su questa
terra (questo sarebbe il desiderio di Dio), anche il corpo possa
esserlo a sua volta, dopo che la morte, l’ultimo nemico, sarà stata
vinta. Nel momento in cui un’anima comprende queste cose e si
sente chiamata ad acconsentirvi e a collaborare con tutte le sue
forze, si dice che si consacra interiormente, il che è quasi un abuso linguistico: l’anima, infatti, non si consacra da se stessa, ma
acconsente ad essere consacrata, cioè sacrificata.17
L’amore umano (l’amore nuziale) è un’immagine visibile (e
molto debole) di ciò che Dio vuol fare con noi... direi anche di
ciò che Dio vuol fare di noi. Dobbiamo essere sposati dal fuoco
e questo sposalizio è ben più divorante, temibile e magnifico del
matrimonio umano. Ora, Dio ci ha dato il matrimonio per aiu-
17
Sacrificare: sacrum facere, cioè compiere cose sacre.
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tarci a capire di che cosa si tratta (è il senso del Cantico dei Cantici) e ne ha fatto un sacramento, cioè una consacrazione efficace,
nel senso che ho detto prima: allo stesso tempo segno e germe
delle Nozze dell’Agnello.
A quanti non sono ancora abbastanza consumati dalla Luce di
Cristo, è offerta la consacrazione del matrimonio quale aiuto per
intuire le profondità dell’amore di Dio attraverso le profondità
dell’amore umano. Se gli sposi accettano di accogliere l’amore
umano come un segno dell’amore di Cristo per la Chiesa (e cioè
per loro18), allora questo segno diventerà efficace e li orienterà
progressivamente verso un altro matrimonio, il solo che meriti
veramente questo nome, poiché in Cielo non ce ne sarà un altro.
Infatti, esso solo realizza perfettamente il mistero d’intimità, di
unione e di estasi di cui il matrimonio umano, nel migliore dei
casi, può offrire soltanto un abbozzo lontano, fugace e tanto più
deludente quanto più, per mezzo suo, il cuore umano avrà imparato a desiderare l’amore infinito (deludente se ci si aggrappa ad
esso, ma non tale se, al contrario, lo attraversiamo sempre più
rapidamente per sboccare nel mistero invisibile che il mistero visibile ci ha insegnato a desiderare).
Questo segno dell’amore umano non è destinato solo agli
sposi, ma è iscritto nel cuore di ogni uomo che viene al mondo.
Anche coloro che offrono a Dio la loro verginità, o almeno il loro celibato, sono invitati ad appoggiarsi sull’intelligenza
dell’amore insita in loro, per offrirsi all’olocausto dell’amore divino. Semplicemente, ricevono occhi per vedere e orecchi per intendere il senso di questo mistero, che è grande, e oltrepassano
rapidamente il segno visibile per stabilirsi nella realtà invisibile.
Non hanno bisogno che il segno si incarni in maniera tangibile e
concreta in un volto umano. Il volto di Cristo (e soprattutto il
18
Se ogni cristiano è un altro Cristo, ogni cristiano è anche la Chiesa, sposa di Cristo.
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Suo volto trinitario) li aspira più velocemente verso la consumazione rapida del mistero pasquale. Tra costoro e quelli che si appoggiano al sacramento del matrimonio c’è solamente una differenza di rapidità e, di conseguenza, di perfezione (un percorso
rapido è sempre migliore e più sicuro di un percorso che comporta delle tappe o degli scali orbitali).
Il principale pericolo che la via del matrimonio presenta, consiste nel fatto che, a forza di indugiare sul segno, non se ne comprenda più il senso: il segno, infatti, deve condurci a qualcos’altro. Il pericolo di non comprenderne più il significato è ancor più temibile in quanto la maggioranza degli sposi cristiani, fin
dall’inizio, non ha la minima idea di cosa significhi. Gli sposi vedono nel matrimonio solo una realtà naturale e nella sua consacrazione una benedizione inoffensiva. Nessuno osa dir loro (del
resto a volte si ignora) che questa consacrazione è un tizzone ardente posato sul loro amore per trasfigurarlo in gloria, ma dopo
averlo ridotto in cenere. In altre parole, sono ben lontani dal
comprendere che il matrimonio è una via verso la verginità! 19 Se
lo capissero, suppongo che direbbero con San Pietro: “Se è così,
meglio non sposarsi.” Questa conclusione viene suggerita da Cristo, da San Paolo e da tutta la Chiesa per risparmiarci, nel limite
del possibile, la tribolazione della carne. Poiché ad ogni modo la
carne deve essere bruciata, sarebbe meglio che lo fosse al più
presto, ma questo non tutti possono capirlo, per cui non si
commette peccato a sposarsi (a meno che, come il giovane ricco,
non siamo stati chiamati alla vita religiosa o sacerdotale).
Noterete che non ho ancora scritto una parola sul concepimento dei figli. Sebbene anche la procreazione abbia un significa-
Quale ho appena descritto, ma ben più positivamente e terribilmente casta della
continenza del celibato.
19
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to soprannaturale,20 le leggi morali che la riguardano, motivo di
tanta agitazione per i cristiani, concernono molto di più la realtà
naturale del matrimonio che il suo valore di sacramento. Al contrario, l’unione degli sposi su cui i teologi moderni insistono traendo argomenti contro la morale coniugale tradizionale, acquista
tutto il suo valore solamente nella prospettiva del Regno dei Cieli
di cui ho parlato. Ci tengo a sottolinearlo perché snaturano gravemente lo splendore che rivendicano, coloro che, esaltando
l’unione degli sposi, non ne comprendono la portata mistica o
non ne accettano il sacrificio attraverso cui l’amore umano deve
insegnarci ad amare il sapore crocifiggente della verginità. Nel
loro pensiero l’amore umano non è più il canale (il sacramento)
dell’amore divino, ma una difesa contro l’olocausto cui Dio ci
invita attraverso l’amore umano.
Lo scopo di questa lettera non è d’insegnarvi la morale coniugale, ma di proporvi la sola prospettiva che permette non solo di
praticarla, ma anche di accettarla. Si tratta di una prospettiva decisamente mistica, posta sotto il segno della Croce (sono tuttavia
un po’ stupito nel vedere che tanti cristiani e sacerdoti si ribellano con violenza contro l’austerità di questa morale, mentre sembrano accettare a cuor leggero che il loro Salvatore sia crocifisso).
Quando si è mandata giù una cosa simile, comprendendo cosa
vuol dire, non mi pare poi difficile accettare il resto.21 Temo,
quindi, che molti non abbiano fatto la fatica di calcolare la spesa
richiesta per essere discepoli di Cristo, al di là di ogni discorso
sulla morale coniugale.
Le sole persone ad avere l’unico atteggiamento onesto di fronte alla Croce di Cristo e alle esigenze del Vangelo, le sole alle quaDi cui non ho tempo di parlare qui.
Austerità in definitiva, pesante, bisognerà avere il coraggio di dirlo, quanto quella
del celibato. Anche più pesante, sosterranno alcuni, ma non è questo il luogo ove
discuterne…
20
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li desidero con tutto il mio cuore dare un aiuto, sono quelle che,
riconoscendo lealmente le esigenze schiaccianti dell’amore divino, si sentono incapaci di farvi fronte. A tutti coloro che provano
questo sentimento (qualunque sia l’occasione che lo provoca),
Cristo offre il rifugio della Sua Misericordia... ma solo a loro.
Tutte le obiezioni che si possono sollevare contro la morale coniugale, le uniche per lo meno che contengano una parte di verità, tornano a dire che siamo troppo deboli e troppo peccatori per
corrispondere perfettamente alle esigenze dell’amore di Cristo.
Dicendo questo, e dicendolo in questo modo, senza contestare la
legge, ci si esprime esattamente come San Paolo: “La Legge è
buona e spirituale, ma io sono carnale e venduto al peccato.” Per
molti, quindi, la prima conversione da operare sarebbe accettare,
una volta per tutte, che questa frase definisse l’unico problema
veramente grave da affrontare in questo mondo. Le esigenze della regolazione delle nascite sono un’occasione privilegiata offerta
ai cristiani per aiutarli a prendere meglio coscienza della loro
condizione di peccatori. Esaminiamo la cosa più da vicino.
È stato ampiamente detto, e Paolo VI stesso lo riconosce, che
lo sviluppo delle scienze mediche permette di temperare e di mitigare la morale cristiana in modo da rendere più facile la pratica
di una “paternità responsabile.” Fino al ventesimo secolo escluso, gli sposi istruiti in queste cose potevano scegliere solo tra
l’astinenza totale dalle relazioni coniugali e l’accettazione praticamente incontrollabile di tutti i figli “mandati dalla Provvidenza.” In una tale situazione, bisogna chiedersi quale sia stata da
sempre la dottrina profonda della Chiesa, per distinguerla bene
dalle deviazioni più o meno gravi introdotte di fatto nella pastorale corrente. Queste deviazioni sembrano essere state principalmente di due tipi:
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1) un’omissione più o meno sistematica a proposito di certi
aspetti della dottrina. Quest’omissione è stata largamente favorita
dall’esiguo numero di adulti desiderosi di ricevere un insegnamento cristiano. Anche tra questi adulti, molti non sospettavano
che in questo preciso campo ci fosse una morale non meno precisa. Oppure, venivano educati ad una diffidenza sistematica,
giansenista, manichea e piena di vergogna per le cose della carne
– diffidenza atterrita e puritana che, al pari dell’indifferenza, favoriva un’incoscienza profonda a proposito dei limiti del lecito e
dell’illecito nella vita coniugale.
Questa omissione era particolarmente netta nell’agire di alcuni
confessori che, giansenisti o no, evitavano per lo più di fornire ai
penitenti tutte le opportune precisazioni. Nel far questo si fondavano su un principio fondamentale della teologia pastorale:
quando un penitente compie in buona fede degli atti reprensibili,
senza sapere che sono tali, e se c’è ragione di temere che una volta illuminato, non riesca a cambiare condotta, bisogna lasciarlo
nella sua buona fede e non assumersi la responsabilità di trasformare un peccato materiale (che non è tale agli occhi del penitente e di conseguenza neanche di Dio, poiché si deve sempre
obbedire alla propria coscienza) in peccato formale, cioè cosciente e accettato come tale.
Il risultato di tutte queste omissioni fu una tale generalizzazione dell’ignoranza dei cristiani in materia coniugale che, poco dopo la prima guerra mondiale,22 il Sant’Uffizio pubblicò per tutti i
confessori un’esortazione nella quale si ingiungeva di fare
un’eccezione al principio che ho appena ricordato, in favore (se
così posso dire) della morale coniugale. In questo modo i sacer-
22
Indotto forse da motivi demografici che evidentemente oggi non sono più attuali.
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doti erano tenuti a interrogare sistematicamente su
quest’argomento tutti i penitenti, insegnando loro la verità, anche
se prevedevano che non si sarebbero sottomessi o si sarebbero
dichiarati incapaci di praticare una tale morale (il che sollevava,
beninteso, il problema del rifiuto dell’assoluzione di cui parlerò
più avanti).
Quando quest’ammonimento fu pubblicato, la maggioranza
dei sacerdoti era abbastanza docile alle decisioni romane da applicarle in maniera fedele: il risultato fu evidentemente un vero
dramma da cui non siamo ancora usciti (nonostante le attenuazioni dovute alla scoperta del metodo Ogino e più tardi del metodo della temperatura). I cristiani speravano di uscirne dopo il
Vaticano II, grazie alla pillola e alla diffusione praticamente accettata dalla Chiesa (così almeno si supponeva) di tutti i metodi
contraccettivi.
Altro risultato: i cristiani sono ormai istruiti molto meglio in
questo campo (il che non significa che lo siano perfettamente).
Ciò m’induce a parlare di un’altra serie di deviazioni.
2) In una prospettiva in cui non si ha altra scelta che fra
l’astinenza totale e l’accettazione di tutti i figli, sembra molto difficile, se si vuole evitare il giansenismo ed esaltare invece lo
splendore del mistero della vita, non presentare come un dovere
positivo (il solo che soddisfi le esigenze del matrimonio cristiano)
l’accettazione sistematica di tutte le nascite. È così che numerose
famiglie cristiane, e soprattutto numerosi mariti, “facevano il loro
dovere,” quando erano istruiti sulla morale coniugale.
Inutile insistere sulle conseguenze gravi e talora catastrofiche
di un tale atteggiamento: sfinimento della madre, educazione
precaria dei figli nelle famiglie povere, ecc. Si aggiungono oggi
considerazioni demografiche opposte a quelle dei secoli prece-
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denti, ora che abbiamo sotto gli occhi il dramma dei paesi sottosviluppati. Così s’insiste, a ragione, sulla nozione di paternità responsabile. In realtà questa nozione non è mai stata assente dalla
dottrina profonda della Chiesa, ma era praticamente misconosciuta. Per questo bisogna insistere su quello che avrebbe dovuto
essere l’insegnamento corrente prima del sopraggiungere dei metodi moderni, cioè in condizioni in cui la difficoltà del problema
è enorme.23
La vera risposta a tutti questi problemi – quella di Cristo, quella del Vangelo – non consiste nell’attenuazione della morale coniugale, ma nel suo approfondimento che non affievolisce ma
rende più esigente la morale. È necessario, infatti, sradicare la
buona coscienza in coloro che credono di evitare il peccato mortale solo perché accettano sistematicamente e senza riflettere tutte le nascite. Il loro dovere è riflettere e decidere liberamente,
non obbedire ciecamente all’istinto sessuale credendo che “sia
permesso” non appena se ne accettano le conseguenze.
L’errore così commesso, in realtà, è sottile e difficile da scoprire. Infatti, in condizioni normali (la situazione dei paesi sottosviluppati non è normale) la Chiesa incoraggerà sempre la fecondità, perché Dio stesso la incoraggia. 24 I cristiani più generosi saranno inclini ad accettare numerose nascite e questa loro tendenza sarà in sostanza approvata dalla Chiesa, ma si tratta, lo ripeto,
di una tendenza generosa che ha veramente come scopo nume-
Così offriremo in anticipo una risposta, e la più profonda, a tutti coloro che considerano inefficace il metodo della temperatura, almeno nel loro caso.
24 In circostanze normali, la procreazione è un dovere positivo. Rifiutarla, anche astenendosi dai rapporti coniugali, è colpa grave se dovuta a egoismo e se priva di
validi motivi (il desiderio della verginità può essere uno di quelli). Alla ragione però è
affidato il compito di determinare il ritmo delle nascite e questo è ciò che chiamiamo
paternità responsabile.
23
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rosi figli: non è affatto un modo comodo per soddisfare, senza
problemi, l’istinto sessuale.25
Purtroppo la differenza tra questi due atteggiamenti è impercettibile all’esterno (d’altronde nella pratica l’uno e l’altro possono benissimo essere mescolati). È facile comprendere perché
l’incoraggiamento alla fecondità abbia in realtà favorito una deviazione estremamente grave sul significato profondo della morale coniugale: secondo questa deviazione, basterebbe accettare dei
figli per evitare ogni peccato d’impurità nel matrimonio.
In verità non c’è niente di più falso. Mettere al mondo un figlio è un atto di una tale portata, di un tale splendore e di una tale
gravità (esso comporta innumerevoli obblighi e bisogna essere
pronti a farli propri), che questa nascita deve sempre essere voluta o almeno accettata per se stessa e non subita come conseguenza indesiderata di un appagamento sessuale perseguito per se
stesso. Ciò non significa, beninteso, che la vita sessuale non possieda un valore intrinseco; anzi, questo valore, della cui portata
profonda ho appena parlato, è sufficiente a renderla lecita anche
nel caso di sterilità naturale accertata. Ma questo valore della vita
sessuale (che non definirei, senza cautela, un valore morale), non
Pensiamo, ad esempio, alla famiglia Martin. I coniugi Martin, attirati dalla vocazione religiosa, di conseguenza dalla verginità, da principio avevano creduto di essere
stati chiamati ad astenersi da ogni rapporto coniugale. Si può discutere la loro decisione e vedervi un frutto del giansenismo, tanto più che un confessore fece loro
comprendere che si trattava di un errore (ma non credo si trattasse di giansenismo,
era un presentimento oscuro, ma profondo, della nostra vocazione alla verginità di
cui ho parlato al principio di questa lettera). In ogni caso, tutto ciò basta per assicurarci che questo desiderio eroico di fecondità non era dettato essenzialmente
dall’appagamento della loro vita sessuale. Dobbiamo lodare questa fecondità apparentemente irragionevole. Zelia Martin è morta quattro anni dopo la nascita della sua
bambina, ultima di nove figli, concepita quando era gravemente ammalata col grave
rischio, poi verificatosi, di non poterla allevare, ma questa bambina era Teresa del
Bambino Gesù. Possiamo essere sicuri che Dio ha benedetto questa follia perché era
quella dell’amore di Cristo e non quella dell’incoscienza e dell’irresponsabilità.
25
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basta assolutamente a giustificare da solo l’accettazione di una
nascita. Si può desiderare positivamente la nascita di un figlio, si
può anche accettarla positivamente come un dono di Dio, accolto con riconoscenza e amato per se stesso; non si ha mai il diritto
di subirla puramente e semplicemente come una conseguenza
indesiderata e ancor meno come una conseguenza oggettivamente sgradita. In questo caso, fino al ventesimo secolo, non c’era
altra soluzione che uno sforzo perseverante per astenersi dalla
vita sessuale. E se non ci si riesce? La prima cosa da fare è prendere coscienza che siamo dei poveri peccatori; la seconda è di
mantenersi, malgrado tutto, nel fermo proposito (ritornerò su
questo argomento).
Insisto ancora: l’atto sessuale che potrebbe realisticamente
provocare la nascita di un figlio costituisce un peccato grave se la
nascita non è accettata positivamente per se stessa e, più grave
ancora, se non sembra oggettivamente accettabile. Questo peccato d’impurità non viene assolutamente abolito dall’accettazione
materiale delle conseguenze di quell’atto, e cioè dalla sua fecondità (è il caso di ricordare26 che il peccato mortale è un atteggiamento essenzialmente interiore, come tutto ciò che è morale o
immorale27).
Cfr. Lettera N. 3.
Vale a dire che, dopo aver commesso questo peccato, non si aggrava affatto la
propria situazione adottando in quel momento (o anche preventivamente) un metodo contraccettivo? Un autore tomista molto stimato ha decisamente sostenuto questa tesi (Claude Serviès, La chair et la grâce, éditions Spes). Tra l’altro egli sostiene che
nel caso in cui la nascita debba essere oggettivamente evitata in nome di una paternità responsabile, accettarne le conseguenze sarebbe aggiungere un peccato grave di
imprudenza ad un peccato di impurità. Detto in altro modo, la contraccezione in
questo caso sarebbe altrettanto legittima e forse obbligatoria, quanto dopo (o prima)
di una reale violenza (caso a proposito del quale la teologia morale non ha mai condannato in modo unanime la contraccezione). Non mi avventurerò nel ginepraio
della casistica. Può ben succedere che dopo aver commesso un atto impuro di questo genere, gli sposi si correggano ed accettino positivamente, per se stessa, come
26
27
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Ci facciamo, perciò, delle grandi illusioni sul carattere “lecito”
del metodo Ogino e dei metodi simili. In alcune condizioni e con
determinate intenzioni, l’utilizzo di questi metodi può essere lecito, ma può anche essere gravemente illecito se la volontà dei coniugi, come spesso accade, non è retta. In generale, comporta
colpa grave ogni rapporto sessuale che esclude volontariamente
dai propri intendimenti l’ordinazione fondamentale e oggettiva
alla fecondità. Chi si comporta così non può sostenere di essere
sedotto nel suo agire dal reale splendore della vita sessuale, perché l’ordinazione alla fecondità appartiene all’essenza di questo
splendore. Quanto detto vale anche per gli sposi naturalmente
sterili o per i rapporti posteriori alla menopausa. Infatti, accettare
una situazione di fatto voluta dalla Provvidenza e, nonostante
tutto, cantare l’ordinazione fondamentale dell’amore umano alla
fecondità avendo rapporti sessuali, è ben diverso dal rifiutare
quest’ordinazione fondamentale non solo con atti contraccettivi,
ma già nell’intenzione.
In ogni atto umano ordinato alla fecondità c’è un intervento
della Provvidenza e un abbandono fiducioso nelle Sue mani. Nelle epoche e presso i popoli in cui la natalità non era considerata
una catastrofe, si accoglieva la fecondità effettiva come una benedizione divina. È perfettamente normale e anche doveroso offrirsi con prudenza a una tale benedizione, riflettere sul carattere
più o meno auspicabile di una eventuale nascita e sottomettersi,
dono di Dio, la nascita prevista (a condizione, beninteso, che una tale accettazione
sia saggia e non esalti altra follia se non quella dell’amore di Dio). Dal momento che
si può verificare questa situazione, la Chiesa non può rinunciare ad incoraggiare gli
sposi e nemmeno io posso farlo. Voglio ribadire, però, che si tratta di un atto interiore e di un atto di amore, non di un accoglimento puramente materiale. Anche se
non dovessi seguire l’autore che ho citato in tutte le sue conclusioni, mi rifiuterei
certamente di scegliere tra “la peste e il colera” – tra un’accettazione che non sia un
atto di amore e l’utilizzo dei metodi contraccettivi.
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perciò, con intelligenza ai ritmi vitali, che oggi meglio conosciamo.
Ma questa docilità intelligente deve rimanere una docilità, una
sottomissione fiduciosa alla benedizione divina; solo, bisogna evitare che sia temeraria e sconsiderata. Anche nel caso in cui le
probabilità di una nascita fossero praticamente impensabili (per
sterilità naturale o per un impiego sicurissimo del metodo Ogino), rimarrebbe sempre un margine minimo d’incertezza, la possibilità di una sorta di miracolo simile a quello di Sara. Questo
miracolo, che non dobbiamo rifiutare, va accolto con fiducia,
come segno della nostra sottomissione fondamentale alla Provvidenza e proclamazione che non siamo noi i padroni del mistero
della vita, ma ci abbandoniamo nelle mani di Dio. Chi sostiene
che un tale atteggiamento è molto comodo “per chi non rischia
nulla” si sbaglia di grosso: questo atteggiamento, se adottato unicamente per il fatto che non si rischia nulla, in realtà non viene
messo in pratica. Chi agisce così pretende, in segreto, di essere
padrone di una fecondità di cui solo Dio è signore.
L’astinenza (periodica o totale) dai rapporti sessuali è virtuosa
e talora necessaria se rappresenta un perfezionamento della nostra sottomissione alla Provvidenza e non una rivolta più o meno
tacita nei Suoi confronti. La vita sessuale deve esprimere la nostra sottomissione intelligente e prudente a quest’ordinazione (di
una prudenza che può variare molto secondo i temperamenti e le
grazie ricevute).
Chi rifiuta sia con gli atti che nell’intenzione questa ordinazione, non può sostenere di essere sedotto dallo splendore oggettivo
della sessualità: è sedotto invece solo dal piacere che ne trae. Già
questo è un peccato grave, forse inevitabile, ma bisogna avere
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l’umiltà di riconoscerlo, col desiderio sincero e gemente di esserne liberati dalla grazia.28
In altre parole, bisogna cercare di comportarsi come se si fosse completamenti liberi e padroni senza difficoltà dell’istinto sessuale. In un caso simile, qualunque sia lo splendore della vita sessuale come espressione dell’amore (ed è proprio a causa di questo splendore che la sessualità viene compresa nella sua naturale
profondità), mi sembra evidente che non si vorrebbe mai subordinare la nascita dei figli all’espressione dell’amore umano; al
contrario, si subordinerebbe l’amore umano alla nascita di tutti
quei figli che si prevedono e di cui si accetta positivamente
l’eventualità.
Se l’istinto sessuale non fosse così violento e praticamente incontrollabile, tutto ciò non costituirebbe una difficoltà. Così dicendo, formuliamo un’obiezione molto seria, su cui è il caso di
soffermarsi. Questa obiezione non deve essere confusa, come
sistematicamente accade, con l’esaltazione della vita sessuale in
nome del suo valore “espressivo.” Peccato non è amare la vita
sessuale, ma essere incapaci di amarla secondo la nostra ragione e
la nostra libertà. Dicendo che la vita sessuale è uno slancio irresistibile forse la esaltiamo, ma non esaltiamo di certo la libertà umana; al contrario, riconosciamo che la libertà è ben misera e
che, davanti agli splendori incontestabili della vita sensibile, diventiamo presto dei drogati e degli abitudinari.
In questa prospettiva diventa evidente il problema di quei
peccatori, particolarmente vulnerabili davanti a certe tentazioni,
coscienti che, malgrado tutta la loro buona volontà e i loro sforzi,
ricadranno immancabilmente in questo genere di colpe. La risposta a questa obiezione consiste in una distinzione che può sem-
28
Chi mi libererà da questo corpo di morte? Vedi pagg. 60-62.
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brare sottile, tra prevedere e accettare:29 l’alcolista che dispera di
uscire dal suo vizio, di cui comincia a misurare le conseguenze
degradanti, può benissimo volerne essere liberato con tutte le sue
forze, pur sapendo che per molto tempo ancora sarà vulnerabile
alla tentazione.
Non si tratta, allora, di una semplice velleità? Forse, ma può
anche essere un volere molto reale (in teologia si chiama desiderio efficace) che si traduce in sforzi non meno reali per evitare la
tentazione e resisterle quando si presenta. Tuttavia, questi tentativi possono scontrarsi per molto tempo con l’enorme forza
dell’abitudine o semplicemente col temperamento. Quando si
soccombe, c’è peccato, cioè abdicazione della libertà (poiché bisogna riconoscere che una fedeltà perfetta alla grazia otterrebbe,
in linea di principio, una conversione definitiva), ma non significa
però che si commetta peccato ancor prima che giunga la tentazione, vale a dire in quel lasso di tempo in cui il peccatore prevede che la tentazione si presenterà e teme seriamente di capitolare.
Importa solo che si tratti soltanto di un timore contro il quale
dobbiamo combattere con tutte le nostre forze con atti di speranza: ciò non toglie che questa speranza poggia su un vero miracolo e noi, uomini di poca fede, facciamo molta fatica a scacciare l’impressione apparentemente incontrastabile che non riusciremo a fare meglio. Ma essere un uomo di poca fede non è
necessariamente un peccato mortale se, nonostante tutto, cerchiamo di sperare come meglio possiamo e, come l’uomo del
Vangelo, diciamo: “Io credo, Signore, aiutami nella mia incredulità!”
Se non ci si vuole sottomettere a queste distinzioni, bisogna contentarsi di una
morale molto sommaria che riguarda esclusivamente gli atti esteriori, morale di cui
nessuno vuole più saperne, anche se in questo caso non è un male.
29
L’enciclica di Paolo VI sulla castità coniugale
Questo insegnamento si trova mirabilmente riassunto nella
parabola del “piccolo piede” proposta da Teresa di Gesù Bambino a una delle sue novizie (citata ne La Lotta di Giacobbe30). Insistere su questo punto ci farebbe uscire dal tema della presente
lettera. In questa sede dobbiamo chiederci se gli sposi cristiani,
messi di fronte all’enciclica e a tutta la morale coniugale, accettino di riconoscere che il fondo del loro problema non è diverso
da quello degli altri peccatori. Ho l’impressione, ahimè, che molti, sotto la spinta delle dottrine attuali e dell’esaltazione della vita
sessuale, non lo accettino. Essi, infatti, sono portati a pensare che
nel matrimonio la vita sessuale non possa più comportare un
peccato, a meno che non sia pervertita. Mi sembra che questo
atteggiamento dipenda da un fariseismo molto più grave dello
stesso peccato d’impurità. Rifiutano, infatti, di essere assimilati
agli “altri” peccatori, a quelli che sono schiavi del piacere in tutte
le sue forme e cadono in degradazioni condannate da tutti. Si
credono di un’altra razza e di una pasta diversa da quella di Maria
Maddalena e del Buon Ladrone. A rigore accetteranno di confessare qualche peccato, ma non saranno certo peccati vergognosi,
come se ci fossero peccati nobili e peccati vergognosi, o piuttosto, come se ci fossero peccati scusabili (che il Creatore sarebbe
tenuto, insomma, a perdonarci) e peccati inescusabili che sono
sempre quelli degli altri. La speranza consiste, invece, nel riconoscerci sinceramente inescusabili... pur confidando nella Misericordia di Dio.
I teologi che da anni, soprattutto dopo il Vaticano II, pretendono di modificare sostanzialmente la morale coniugale e “liberare” i coniugi cristiani da ogni “complesso di colpa,” hanno una
grave responsabilità in questo fariseismo. Non esito a proclamare
che è nei confronti di questo fariseismo che il sacerdote deve ne-
30
La lotta di Giacobbe, edizioni Parva (2011), pag. 34, nota 4.
Lettera n.4
gare l’assoluzione, se è praticamente certo di essere in sua presenza. È evidente che si tratta di una questione delicata perché
riguarda una colpa puramente spirituale, un rifiuto più o meno
orgoglioso di sottomettersi, ben più difficile da riconoscere di un
peccato esteriore. Tuttavia, il confessore deve preoccuparsi di
questo genere di peccati più di ogni altro, per quanto grandi siano le difficoltà e le ansietà che questo compito comporta.
So bene che numerosi cristiani possono in buona fede ignorare o non comprendere il senso profondo di questa morale coniugale, tanto più che non sono molto aiutati dall’insegnamento impartito loro al riguardo. Ma poiché questo insegnamento è portatore dell’orgoglio farisaico di cui parlo, è importante chiedersi in
quale misura siano stati contaminati non solo dall’errore, ma anche dalla stessa ribellione che cova in fondo a questo errore. È
un compito estenuante e talvolta disperante, al quale non si ha
però il diritto, io credo, di sottrarsi.31
Resterebbe da esaminare il caso di sposi sinceramente desiderosi di obbedire a Dio o, piuttosto, di amarLo in verità, ma il cui
coniuge (cristiano o non cristiano) rifiuta categoricamente di sottomettersi alla morale cristiana. È una situazione estremamente
dolorosa, per la quale mi scuso di non avere una soluzione pronta all’uso: essa deve essere inventata per ogni singolo caso, procedendo nell’oscurità, a tentoni e nella sofferenza.32 Sono sola-
Se su questo punto non si giunge ad una risposta chiara, rimane il ricorso
all’assoluzione sotto condizione: se sei ben disposto verso Dio (cosa che non riesco
a sapere con chiarezza), io ti assolvo, ecc.
32 C’è anche il caso molto frequente del coniuge cristiano e in buona fede che, ben
lontano dall’aver ricevuto tutta la luce desiderabile in materia di morale coniugale,
sembra perfino incapace di comprenderla. Poiché ciascuno deve agire secondo coscienza, è molto difficile in simili condizioni ascoltare la propria e nello stesso tempo
rispettare quella dell’altro. A questo punto mi scuso ancora di non poter entrare nei
dettagli di una casistica qui particolarmente necessaria, ma non è possibile farlo in
queste lettere.
31
L’enciclica di Paolo VI sulla castità coniugale
mente convinto della speciale profondità della Misericordia divina verso chi è immerso in un tale tormento. Credo che, in modo
particolare in questa circostanza, l’atteggiamento interiore conti
più delle conclusioni materiali, sempre soggette a correzione in
una situazione in cui sono in gioco tanti valori contraddittori, e in
cui l’atteggiamento del coniuge restio può variare molto secondo
i momenti – talora secondo l’atteggiamento di colui o colei che
vuole vivere cristianamente e che spesso deve essere letteralmente ispirato da una sorta di genialità proveniente dallo Spirito Santo per scoprire la nota giusta. Ciò comporta inevitabilmente una
costante lacerazione, che rappresenta per questi sposi la croce
quotidiana offerta da Gesù Cristo.
Ho detto all’inizio che non avrei affrontato tutti i problemi.
Uno di voi mi ha posto venti domande che da sole quasi esauriscono l’argomento e nello stesso tempo sarebbero di valido aiuto
per avviare una vera e propria quaestio disputata alla maniera di San
Tommaso. Esito a farlo nell’ambito di queste lettere. Non dobbiamo abbandonare le profondità evangeliche per smarrirci nel
ginepraio di tutti questi problemi, qualunque sia la vostra legittima curiosità a loro riguardo. Ciò che è grave non sono i problemi, che si possono paragonare a delle spine, ma il veleno che
queste spine potrebbero contenere, veleno che rende i problemi
insolubili e senza via di uscita.
Contro questo veleno voglio darvi l’antidoto che si trova nelle
profondità del Cuore di Cristo. Chi viene liberato diventa capace
di sentire e anche di accogliere con gioia le risposte circostanziate
che non posso dare in queste lettere. I dubbi e i turbamenti che
possono rimanere in lui non gli impediranno di progredire. Chi,
invece, si lascia paralizzare dal veleno dell’arroganza intellettuale
non può più udire né accogliere le vere risposte, anche se gli fossero offerte con la più grande precisione.
Lettera n.4
Naturalmente bisognerebbe parlare dell’autorità del Papa e
della Chiesa in queste materie; forse lo farei se sentissi che a questo proposito il vostro turbamento è troppo grande, ma è proprio in questo campo che il veleno è più subdolo e più sfuggente.
I giansenisti hanno escogitato fino alla fine ottime ragioni per
non accettare l’insegnamento di Roma e oggi le stesse menti che
ripudiano il formalismo giuridico, fanno affidamento su un argomento giuridico per ripudiare l’enciclica. Confesso di non avere nessuna voglia di rispondere loro. Se qualcuno è determinato a
non accettare altro insegnamento ecclesiastico che le definizioni
solenni del Magistero straordinario, perché dovrebbe ascoltarmi?
Ad ogni modo, le mie parole possiedono molto meno autorità
dell’enciclica (è il minimo che si possa dire): non potrei accettare
che fossero accolte con più fiducia di quelle del Papa. Quanto a
coloro che si fidano solo del proprio giudizio (anche se ha il sostegno della legione di teologi e di chierici che a loro volta hanno
fiducia solo nel proprio giudizio, con tanta più arroganza quanto
più sanno, o credono, di essere la maggioranza), vorrei in primo
luogo guarirli da questo veleno e spiegare loro cos’è la fede, prima di aggiungere altro.
Innanzitutto è importante sapere se il nostro atteggiamento
intimo è cattolico o protestante, perché, se può esserci ecumenismo (ed è molto auspicabile) tra protestanti e cattolici, non può
esserci ecumenismo tra l’atteggiamento protestante e
l’atteggiamento cattolico. Il primo consiste essenzialmente nel
rifiutare ogni autorità al di fuori dello Spirito Santo, del giudizio
proprio e sul piano esterno, della Bibbia; il secondo, invece, pone
l’autorità esterna della Chiesa sullo stesso piano della Rivelazione.
Quella stessa autorità ed essa sola, ci assicura che la Bibbia è ispirata. Bisogna scegliere tra questi due atteggiamenti. Coloro che,
fossero pure cardinali, discutono una enciclica al momento stesso
della sua presentazione col pretesto che non è infallibile, in realtà
sono lacerati tra l’atteggiamento protestante e l’atteggiamento
L’enciclica di Paolo VI sulla castità coniugale
cattolico. Essi cercano di mettere nella loro vita interiore il minimo di cattolicesimo e il massimo di protestantesimo. Non credo di essere ingiusto dicendo così perché capisco benissimo questa lacerazione: anch’io mi sento capacissimo di condividerla, di
esitare e di oscillare tra questi due atteggiamenti, ma ho
l’evidenza che sono incompatibili. Ho paura invece che costoro
non abbiamo una simile evidenza... e vorrei davvero offrirgliela.
Finché sentirò che questo punto non è stato spiegato, chiarito,
purificato, avrò sempre il timore che le nostre discussioni siano
una perdita di tempo...
Che Cristo ci illumini su tutto ciò, perché aderiamo veramente
dall’intimo e sotto la mozione dello Spirito Santo all’autorità esterna della Chiesa. Se non si compie questo movimento perfettamente libero, personale e segreto, non c’è nulla di fatto...
Nancy, Festa di Santa Teresa di Gesù Bambino,
Fr. M.D. Molinié, o.p.
POST-SCRIPTUM: NON C’È SOLO IL BIAFRA
Non vi parlo spesso di problemi sociali e non credo di abusare
eccessivamente degli slogan prodigati in proposito, infatti penso
che se ne parli a sufficienza. Recentemente però, sono venuto a
conoscenza di una realtà di cui non si parla molto o addirittura
non se parla affatto, e non posso tacere!
Lettera n.4
Il Burundi è un paese dell’Africa la cui situazione non è certo
peggiore di quella del Biafra, perché almeno non è in guerra. Tuttavia, si può dire senza esagerare che il problema della mortalità
infantile è altrettanto grave. Allora, dal punto di vista morale diventa “peggiore” perché per il Biafra ci sentiamo un po’ schiacciati dal senso della nostra impotenza dovuta al blocco imposto
dalla guerra e più o meno favorito dalle grandi potenze (che, per
una volta, trovano il modo di mettersi d’accordo). Per il Burundi
invece, in linea di massima possiamo tutto. È evidente che non
siamo in grado di farne un paese sviluppato con le nostre sole
forze, ma possiamo (com’è sempre stato compito della Chiesa)
attenuare molto considerevolmente la mole di sofferenze provocate da questa atroce mortalità infantile (perché non è causata in
primo luogo dalla malattia, ma dalla fame). Gli unici ostacoli alla
nostra azione sono innanzitutto l’ignoranza e anche
l’indifferenza. Non potrei dormire tranquillo se, per quanto mi è
possibile, non mi sforzassi di porre rimedio alla vostra ignoranza.
Un medico cristiano, e anche teresiano, che abita a Lisieux mi
ha messo al corrente di questa situazione e del suo impegno per
porvi rimedio. Lo conosco di persona e posso garantirvi che non
è un esaltato. Ecco la testimonianza di un missionario apparsa su
L’Echo d’Afrique, II, 68:
STORIA DELLA MORTE BIONDA
(vicinissima ai nostri amici del Burundi)
Implacabile, l’angelo della morte si accovaccia in silenzio accanto al fuoco che cova sotto la cenere: ha
il suo posto fisso tra i viventi e la sua veste ha il colore del lino perché tutte le testine crespe che accarezza diventano bionde e il suo bacio fa impallidire
le piccole gote d’ebano. L’angelo svolge il suo com-
L’enciclica di Paolo VI sulla castità coniugale
pito presso tutti i piccoli che non possono saziare la
loro fame se non con patate dolci e un pezzo di banana. Non appena la pigmentazione scura sparisce
per mancanza di proteine e di vitamine, l’angelo
prende con tristezza i bimbi tra le sue braccia e aspetta che le loro pancine si gonfino; piange quando
i ricci spariscono dai loro capelli e la dermatite vorace s’impadronisce, come la lebbra, dei loro corpicini:
allora conta le piaghe e i capelli che cadono, finché
la schiuma bianca sulle loro piccole bocche ansimanti prova che i giorni della sofferenza sono finiti.
Cari amici, non crediate che stia esagerando: quando
me l’hanno raccontato non volevo crederci. Ma,
quando siamo entrati nelle capanne per cercare cibo
e abbiamo trovato solo bambini scheletrici, quando
abbiamo visto con i nostri occhi un bambino morire
di fame mentre il padre, dietro la capanna, già stava
intrecciando la stuoia con la quale avrebbe sepolto il
piccolo cadavere, quando cinque minuti più tardi
abbiamo visto un uomo con un bambino morto fra
le sue braccia e una donna con il badile sulle spalle
che, come bestie feroci, camminavano sul sentiero
della foresta per andare ad affidare alla terra il frutto
del loro amore divenuto preda della fame, quando
infine ho visto il corteo di seicento piccoli relitti che
ogni giorno si trascinano verso suor Teresa per ricevere mezzo litro di latte, ho capito che Dio ci maledirà se non ci diamo tutti da fare per cancellare questo scandalo dal giardino lussureggiante dell’Africa.
Cristo ha moltiplicato i pani perché non voleva parlare di Dio a uomini con la pancia vuota. Guai
all’umanità, se arriviamo troppo tardi. Guai a noi se
Lettera n.4
manchiamo di generosità, se non capiamo che la vita del più povero di quei bambini neri vale più del
benessere di cui godiamo senza merito. Per amore
di quel bambino e di tutti i bambini innocenti del
mondo, chiedo giustizia e amore per i bambini del
paese della morte bionda.
Inviate le vostre offerte:
– in valuta, a l’Abbé SEMEBAIA, C.C.P. 24.285-73 Parigi;
– in vestiti, latte, medicine, progetti di sviluppo, ecc., a MEDICUS MUNDI CALVADOS, C. C. P. 1.447–20 E Rouen.
Responsabile: Dott. VIEL, 13 rue del Pré-d’Auge, LISIEUX –
Tel. 62.11.86 – in collegamento con il “Comitato cattolico contro
la fame e per lo sviluppo.”
Potete anche domandare al dottor Viel tutte le informazioni e
i volantini che vi permetteranno eventualmente di informare altre
persone.
Ancora una parola, prima di concludere. Senza dubbio siete a
conoscenza di numerose miserie per le quali è già stata sollecitata
la vostra compassione. Lo splendore delle Alpi non vi ha impedito di gustare quello dei Pirenei, né le dolcezze del mare quelle
della campagna. Credo che la nostra compassione non debba avere altri limiti se non quelli della nostra gioia e che la miseria
delle Indie non debba impedirci di essere sensibili a quella del
Burundi. Quanto a ciò che possiamo fare, un gesto non ne impedisce un altro, non più di quanto un regalo fatto ad un amico
ci impedisca di farne ad altri amici.