Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)

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Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
«EIKASMOS» XVI (2005)
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
«Quando ho letto qualche Classico, la mia mente
tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre
il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una piglian posto nella
mia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace»
(G. Leopardi, Epistolario, a c. di P. Viani, Firenze 1883, I 28).
Manca, a tutt’oggi, uno studio complessivo e organico sulla presenza e la ricezione di Lucrezio nella cultura italiana dell’Ottocento. Questa oggettiva lacuna nella
bibliografia sul Fortleben lucreziano1 appare tanto più sorprendente perché inversamente proporzionale al rinnovato clima di interesse che nel secolo XIX ha circondato il poeta latino2. Ancora istruttivo a questo riguardo è il giudizio espresso da
Mario Saccenti in un contributo di qualche anno fa: «Lucrezio invero, con tutto ciò
che il suo poema significava […] tra razionalismo e sensismo, tra materialismo e
meccanicismo e determinismo biologico, conosceva, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, la sua più fortunata stagione dopo quella galileiano-gassendiana del Seicento: la alimentavano, ora separati ora commisti, un positivismo che incorporava con
qualche equivoco e qualche ingenuità concetti evoluzionistico-darwiniani, un socia1
Tra i contributi che ripercorrono a grandi linee la fortuna del testo lucreziano, focalizzandone
alcuni snodi chiave, si possono ricordare G.D. Hadzsits, Lucretius and His Influence, LondonCalcutta-Sidney 1935 (invecchiato ma ancora utile); W. Schmid, Lukrez und der Wandel seines
Bildes, «A&A» II (1946) 193-219; L. Alfonsi, L’avventura di Lucrezio nel mondo antico … e
oltre, «Entr. Hardt» XXIV (1978) 271-321; V.E. Alfieri, Lucrezio tra l’antico e il moderno,
«A&R» n.s. XXIX (1984) 113-128; P. Boyancé, La gloria di Lucrezio, in Lucrezio e l’epicureismo,
trad. it. Brescia 19852 (ed. or. Paris 1963), 323-333; M. von Albrecht, Lucrezio nella cultura
europea, «Paideia» LVIII (2003) 264-286; H. Jones, La tradizione epicurea. Atomismo e materialismo dall’Antichità all’Età Moderna, trad. it. Genova 1999 (ed. or. London-New York 1992),
su Epicuro, ma con numerosi rinvii anche al De rerum natura; di un certo interesse sono i
contributi apparsi nella miscellanea Présence de Lucrèce. «Actes du colloque tenu à Tours (3-5
décember 1998)», textes réun. et prés. par R. Poignault, Tours 1999, passim, e per l’età contemporanea, sebbene si rivolga ad un pubblico di non specialisti, anche W.R. Johnson, Lucretius and
the Modern World, London 2000.
2
A un discorso analogo si presta, per la verità, anche il Settecento: Alfonsi, o.c. 271
lamentava infatti che, a fronte dell’attenzione riservata alla ricezione di Lucrezio presso il neoatomismo
seicentesco, molto lavoro restasse ancora da fare per quella delicata età di passaggio tra Illuminismo
e Preromanticismo che costituisce «un capitolo di solito trascurato dai latinisti, quanto vivacemente sviluppato da italianisti e storici della cultura e del pensiero».
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lismo in espansione che pareva derivare dal mondo letterario atteggiamenti e accenti
scapigliati, un anticlericalismo rinfocolatosi e allargatosi con e dopo Porta Pia fino
a identificarsi con larga parte dell’Italia ufficiale»3. Come si vede, non risulta agevole ricondurre a unità i diversi fattori – politici, sociali, filosofici, letterari – che
nell’arco di un secolo concorsero a riabilitare, in Italia, il nome dell’insanus poeta
epicureo, creando le premesse per l’avvento di quella che ancora il Saccenti non
esita a definire la «vera e propria congiuntura lucreziana» ottocentesca. Un fatto è
certo. Chi intendesse tracciare un ampio affresco della fortuna italiana di Lucrezio
nell’Ottocento – sull’esempio di quanto ha fatto Sebastiano Timpanaro per Lucano4
– dovrebbe esaminare la questione almeno sotto tre differenti angolature: la filologia,
la filosofia, la letteratura5. È stato già osservato che lo sviluppo, in Italia, di una
critica testuale e di un’esegesi del testo lucreziano fondate su base scientifica è
intimamente collegato al più generale risveglio della filologia classica che si attua
nel nostro Paese nell’ultimo trentennio del secolo6: questo perché, a partire dal 1860,
comincia ad essere recepito e messo a frutto il fondamentale lavoro ecdotico ed
esegetico condotto sul De rerum natura in Germania e in Inghilterra tra gli anni
Venti e la fine dell’Ottocento, lavoro concretizzatosi in una serie di edizioni critiche
che sono rimaste, per ragioni diverse, esemplari, dal Lachmann (Berlin 1850) al
Brieger (Leipzig 1894), passando per il Bernays (Leipzig 1852) e il Munro (l’Editio
maior in tre volumi è del 1886). Tale eredità fu raccolta in Italia da Camillo Giussani:
tra il 1896 e il 1898, a Torino, veniva alla luce la sua edizione riccamente commentata del De rerum natura7. Un vero «classico» degli studi lucreziani, per usare le
parole del Timpanaro8, che si rivela a tutt’oggi strumento prezioso, se non sotto il
3
M. Saccenti, Leopardi e Lucrezio, in Leopardi e il mondo antico. «Atti del V Convegno
Internazionale di studi leopardiani (Recanati 22-25 settembre 1980)», Firenze 1982, 120 (= M.S.,
Occasioni tra l’antico e il moderno, Modena 1989, 32s.). Sulla stessa linea si situa anche il
seguente pensiero di Piero Treves: «anti-spiritualismo e anti-cristianesimo, […] le scoperte dei
papiri ercolanesi di Filodemo o della scuola epicurea, l’esempio straniero del Guyau, tutto parve
felicemente cospirare a re-immettere il poema di Lucrezio nell’universa cultura nostra» (L’idea
di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli 1962, XXXVIII).
4
Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocento, in Aspetti e figure della cultura
ottocentesca, Pisa 1980, 1-80.
5
Accenni sparsi alla rinascita lucreziana del secolo scorso si trovano in Treves, o.c. passim,
nonché Id., Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962 e Tradizione
classica e rinnovamento della storiografia, Milano-Napoli 1992.
6
In proposito mi limito a rinviare a E. Degani, Italia. La filologia greca nel secolo XX, in
Filologia e storia. «Scritti di Enzo Degani», Hildesheim 2004, 1046-1120, con bibliografia.
7
Nella Prefazione che apre il primo volume degli Studi lucreziani, lo studioso, dopo avere
ricordato le principali tappe della fortuna critica di Lucrezio nell’Ottocento, dichiara di volere
«informare i lettori italiani del movimento moderno degli studi lucreziani, assai poco noti in
generale» (VI).
8
S. Timpanaro, Il primo cinquantennio della «Rivista di Filologia e d’Istruzione Classica»,
«RFIC» s. 3 C (1972) 435 e n. 1, dove si ravvisa nello «splendido commento» lucreziano del
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profilo della constitutio textus, certamente per la dottrina e l’acume dispiegati
nell’esegesi delle questioni filosofiche. Quanto poi agli altri due aspetti della rinascita di Lucrezio nell’Ottocento – la letteratura e la filosofia – va detto che entrambi
dischiudono prospettive di studio tanto attraenti quanto problematiche. Il primo
chiama in causa la vexata quaestio delle possibili interferenze che la lettura del
poema lucreziano – diretta o mediata – potè suscitare nelle due massime personalità
poetiche del nostro primo Ottocento: Foscolo, che di Lucrezio fu anche traduttore,
in prosa e in versi (vd. infra pp. 428s.), e Leopardi, la cui effettiva frequentazione
con il testo lucreziano, viceversa, è ancora oggetto di discordanti valutazioni9; il
secondo versante, in verità assai meno indagato, riguarda l’accoglienza riservata al
De rerum natura in àmbito positivistico, quando la personalità e l’opera di Lucrezio
divennero oggetto di ammirazione e autentico culto fra quanti – filosofi, critici
militanti, letterati – si professavano seguaci della dottrina darwiniana10: fra i primi
certamente Gaetano Trezza, il «prete darwinista» secondo la definizione di Papini11,
e il poeta Mario Rapisardi, traduttore integrale di Lucrezio, sul quale avremo modo
di tornare più avanti. Di questa rinascita lucreziana ottocentesca intenderei illustrare
una facies decisamente meno nota, ma non per questo meno istruttiva: quella delle
traduzioni. A ben vedere, i volgarizzamenti del De rerum natura rappresentano, se
non il più significativo, certamente uno dei più pronunciati elementi di novità e di
Giussani «il più diretto precedente» dei lavori del Bignone sulla filosofia epicurea: l’Epicuro
laterziano del 1920 e l’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro del 1936.
9
Per un quadro d’insieme sulle traduzioni foscoliane di Lucrezio si veda U. Foscolo, Letture di Lucrezio. Dal De rerum natura al sonetto Alla sera, a c. di F. Longoni, Milano 1990. Per
il vivace dibattito innescato dalla recente pubblicazione del frammento poetico foscoliano certamente ispirato all’inno a Venere di Lucrezio, si vedano anche V. Di Benedetto, Lo scrittoio di
Ugo Foscolo, Torino 1990, 193-197 (editio princeps con commento); M. Gigante, Foscolo e
Lucrezio: un nuovo testo, «A&R» n.s. XXXV (1990) 112-114; F. Giancotti, Venere e Voluttà: un
abbozzo poetico di Ugo Foscolo e Lucrezio, in AA.VV., «Studi classici e cristiani offerti a F.
Corsaro», Catania 1994, 293-317. Sul tema Lucrezio e Leopardi segnaliamo da ultimo P. Mazzocchini,
Lucrezio in Leopardi: ulteriori note ed osservazioni, «Orpheus» n.s. XXIV (2003) 148-184, con
ampia bibliografia.
10
È il caso di accennare al fatto che il fervore mostrato dal Positivismo verso il poeta della
ratio epicurea non fu esente da grossolani fraintendimenti di natura metodologica, con il risultato
di «elevare un concetto scientifico moderno a criterio d’interpretazione storica e [...] rifletterlo
paradossalmente a ritroso su un passato pre-scientifico» (P. Casini, Zoogonia e “trasformismo”
nella fisica epicurea, «GCFI» s. 3 XVII [1963] 179). Il passo lucreziano che più si prestava a
ragionamenti di questa natura è senza dubbio V 855-877, dove il Bailey stesso rileva «an even
greater affinity to the Darwinian idea of the survival of the fittest» (Titi Lucreti Cari De rerum
natura libri sex. Ed. with proleg., crit. app., transl. and comm. by C. B., Oxford 1947, 1465).
Sulle connessioni, reali e presunte, fra la trattazione lucreziana dell’origine della specie e l’evoluzionismo darwiniano si sofferma ora G. Campbell nell’Introduction del suo recente commento
a una sezione del V libro lucreziano (Lucretius on Creation and Evolution. A Commentary on De
rerum natura 5, 772-1104, Oxford 2003, in part. 4ss.).
11
Autoritratti e ritratti, Milano 1962, 743-745.
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originalità della parabola di Lucrezio nell’Ottocento italiano: il regesto delle versioni lucreziane apparse nel XIX sec. si impone all’attenzione per consistenza numerica
e varietà tipologiche, tanto da costituire un unicum nella vicenda italiana del poema.
Non meno di ventidue traduzioni (fra integrali e parziali, in prosa e in versi) furono
condotte sul De rerum natura lungo tutto l’arco del secolo: un computo che decisamente va oltre le «four italian translations in verse and two in prose» cui è rimasta
ferma la bibliografia lucreziana del Gordon (la cui stima riguarda, per la verità, solo
l’ultimo quarto del secolo)12, ma che pure ha ricevuto sinora scarsa considerazione.
Il problema, per la verità, è di portata più generale. Va detto, infatti, che lo studio
delle traduzioni e degli interpreti, antichi e moderni, del De rerum natura ha riscosso
sinora un interesse assai tiepido fra gli studiosi di Lucrezio (non senza qualche
eccezione)13, all’opposto di quanto è accaduto per altri autori latini quali, ad esempio, Catullo, Virgilio, Orazio14. Chi voglia dunque farsi un’idea sull’iter complessivo delle traduzioni (italiane e non) di Lucrezio deve ancora ricorrere ad un contributo di Ferdinando Gabotto del 1918, il quale, malgrado l’apprezzabile originalità
dell’impianto, non ha avuto séguito nella letteratura lucreziana del Novecento15.
Sarà utile fare un passo indietro, per esaminare le traduzioni lucreziane sino al 1800.
12
Sono complessivamente undici (cinque in prosa, sei in poesia) le traduzioni italiane
integrali sino al 1956 segnalate da C.A. Gordon, A Bibliography of Lucretius. Introd. and notes
by E.J. Kenney, Winchester 19852, a fronte delle 17 in lingua francese, 19 inglesi, 5 tedesche, 3
russe, 5 spagnole (148).
13
A parte il volume di Saccenti sulla traduzione del Marchetti (per cui vd. infra n. 27) e
alcuni interventi puntuali su quella del Rapisardi (su cui vd. infra pp. 436-438), fra i non numerosi lavori di argomento lucreziano si possono menzionare A. Barbuto, Ungaretti traduce Lucrezio,
in «Atti del Convegno Internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino 3-6 ottobre 1979)», a c. di
C. Bo-M. Petrucciani-M. Bruscia-M.C. Angelini-E. Cardone-D. Rossi, Urbino 1981, 639-653;
J. Vons, Du Bellay, traducteur-interprète de Lucrèce, in Présence de Lucrèce cit. 313-326 (sulla
versione cinquecentesca di Du Bellay), nonché F. Condello, Lucrezio, Catullo, Orazio e Sanguineti:
esercizi di pseudotraslazione, in corso di stampa per «il Verri». Deludente, perché relativo ad una
traduzione di concorso ministeriale, è G. Biasuz, Una traduzione da Lucrezio di Giacomo Zanella,
in «Medioevo e Rinascimento veneto, con altri studi in onore di Lino Lazzarini», II. Dal Cinquecento al Novecento, Padova 1979, 393-408.
14
Tra i lavori più recenti, apparsi in veste ora di rassegne sistematiche ora di sondaggi e
spigolature, mi limito a ricordare, a titolo di esempio, per Catullo, F.M. Pontani, Un secolo di
traduzioni da Catullo, «RCCM» XIX (1977) 625-644; per Virgilio, oltre a N. Zorzetti, Traduzioni, in Enciclopedia Virgiliana V (1990) 244s., vd. A. Traina, La traduzione e il tempo. Tre
versioni del proemio dell’Eneide (1-7), in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, III,
Bologna 1989, 115-131; per Orazio, oltre a R. Rocca, Traduzioni, in Enciclopedia Oraziana I
(1996) 367-369, si veda A. Traina, Traduzioni di Orazio, in AA.VV., «Atti dei Convegni di
Venosa, Napoli, Roma (novembre 1993)», Venosa 1994, 329-337 e Id., Paolo Bufalini traduttore
di Orazio, in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, V, Bologna 1998, 211-218.
15
Il testo apparve come Prefazione a Tito Lucrezio Caro. Della natura delle cose, trad. di
C. Leardi, Tortona 1918, V-XXVI (delle traduzioni italiane si parla da p. XX). Prima del contributo del Gabotto, sui traduttori lucreziani si era rapidamente soffermato Amilcare Mazzarella nel
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In Italia, analogamente al resto dell’Europa, si comincia piuttosto tardi a tradurre Lucrezio16,
se consideriamo che sin dal 1417, secondo la communis opinio, il poema riappare nei circuiti
nella cultura europea, grazie alla celebre scoperta di un codice lucreziano ad opera di Poggio
Bracciolini. Né si può dire che, a questo vistoso ritardo sul fronte delle traduzioni, venga
posto rimedio tra Umanesimo e Rinascimento, epoche in cui pure il De rerum natura è
oggetto di un crescente interesse erudito e filologico: prova ne sono le 28 edizioni lucreziane
(commentate e non) apparse in poco più di un secolo a partire dalla princeps del 1473
(Brescia, a cura di Tommaso Ferrando17). Si può ben dire che Lucrezio viene letto, studiato
e annotato, ma nella misura in cui può esserlo un autore che non rientra nel canone scolastico
degli scriptores classici18. Vero è, d’altra parte, che tra i secoli XVI e XVIII appaiono alcune
riscritture cristianizzanti del poema, vale a dire poemi didattici redatti in perfetto stile lucreziano
e volti a confutare la falsa dottrina di Epicuro: dal De principiis rerum di Scipione Capece
(Capicius) edito a Napoli nel 1534 con dedica ad Alessandro Farnese, al De animorum
immortalitate di Aonio Paleario (Lugduni 1536), antenati italiani del più celebre e fortunato
Anti-Lucretius del Cardinale Melchior de Polignac, edito a Parigi nel 1747 (ma composto
quasi interamente prima del 1700)19. Tuttavia, altro sono i liberi rifacimenti20, altro le traduzioni vere e proprie: e di queste, fedeli o libere che siano, se ne trovano ben poche21.
suo studio su Lucrezio del 1846 (vd. infra p. 433), il quale, tuttavia, non aveva potuto citare che
tre soli esempi italiani: il Marchetti, il Pastore e, per l’Ottocento, il Renieri (sui quali vd. infra
rispettivamente pp. 425 e 433). Più ampia, benché ancora incompleta, è la panoramica sui traduttori prodotta da L. Cisorio in un breve articolo in cui si commenta un saggio di versione del
Ferracini (Per un saggio di versione del poema di Tito Lucrezio Caro, Cremona 1901, estr. da
«Il Torrazzo» XXIII [1901] 22ss.; per il Ferracini, vd. infra p. 440): fra i traduttori di Lucrezio
presi in esame – in ordine cronologico il Marchetti, il Vanzolini, il Tolomei, il Sartori, il Rapisardi
– è a quest’ultimo che il Cisorio riserva l’elogio più convinto, il quale consuona col giudizio già
formulato qualche anno prima dal Trezza (vd. infra p. 438).
16
Come è giustamente rilevato da Gordon, o.c. 147: «translations of the De rerum natura were
late in appearing and comparatively fewer then those of other classical authors of equal standing».
17
Cf. W.B. Fleischmann, Lucretius, in P.O. Kristeller-F.E. Cranz, Catalogus translationum
et commentariorum. Mediaeval and Renaissance Latin Translations and Commentaries, II,
Washington 1971, 349-365.
18
Sull’ambivalente destino del poema nel Cinquecento italiano si veda ora V. Prosperi, Di
soavi licor gli orli del vaso. La fortuna di Lucrezio dall’Umanesimo alla Controriforma, Torino
2004 (in part. il capitolo Venere, la Vergine e la voluttà, 97-179), la quale osserva come le
esplicite prese di distanza dall’«empio» poeta latino da parte di intellettuali, critici letterari,
poeti, filologi e stampatori che costellano l’intero secolo – e di cui la studiosa offre qualche
esempio – attestano la discreta diffusione e conoscenza di cui il De rerum natura godeva se non
altro presso un pubblico dotto e selezionato di addetti ai lavori.
19
Vd. Fleischmann, o.c. 355 (con bibliografia) e Gordon, o.c. (Appendix II. The Imitators
of Lucretius, 293-307). Dell’Anti-Lucretius Francesco Maria Ricci eseguì una traduzione italiana,
apparsa in due volumi a Verona nel 1751 e riprodotta in una ristampa della traduzione marchettiana
(Lausanne 1761).
20
Per quanto concerne i rifacimenti, basterà ricordare il filone di poesia scientifica di ispirazione lucreziana fiorito in Inghilterra tra Sette e Ottocento (su cui vd. T.J.B. Spencer, Lucretius
and the Scientific Poem in English, in Lucretius, ed. by D.R. Dudley, London 1965, 131-164).
21
A proposito della indisponibilità di una traduzione in volgare del De rerum natura nel
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Secondo la bibliografia lucreziana del Gordon, la prima traduzione italiana del poema
sarebbe quella di Gianfranco Muscettola o Musettola (1530 ca.), di cui si sono tuttavia perse
le tracce. Diversa testimonianza ci offre, sulla scorta del Quadrio22, la Storia della letteratura italiana del Tiraboschi (VII/3, Milano 1824, 1790), stando al quale sarebbe Tito Giovanni da Scandiano, morto nel 1582, il primo ad avere volgarizzato il De rerum natura.
Nella lettera dedicatoria a Pietro Giovanni Ancarani premessa alla Fenice, poemetto in
terzine edito a Venezia nel 1555, il letterato scandianese lasciò scritto di avere «tradotto,
ampliato e commentato» Lucrezio. Tuttavia, nemmeno di questo lavoro di esegesi e traduzione compiuto sul poema si hanno ulteriori notizie23. Si può poi ricordare il rodigino
Girolamo Frachetta, menzionato nella Bibliotheca del Fabricius come autore di una versio
prosaica del poema lucreziano (I 84): il lavoro del Frachetta, stampato a Venezia nel 1589,
consiste, per la verità, in una «Breve sposizione di tutta l’opera di Lucrezio, nella quale si
disamina la dottrina di Epicuro e si mostra in che sia conforme al vero e con gl’insegnamenti
di Aristotile, e in che differente»24.
È noto che i secoli dal XVII al XVIII assistono alla rapida ascesa della stella lucreziana:
il neoatomismo gassendiano, che tenta di conciliare il materialismo epicureo con il
provvidenzialismo cristiano (del 1647 è lo scritto apologetico del Gassendi De vita et moribus
Epicuri), e la scuola galileiana di Pisa per quanto attiene specificamente all’Italia tornano
a leggere il divulgatore latino di Epicuro, fonte principale, insieme a Diogene Laerzio, della
dottrina fisica del Giardino. Non stupisce, dunque, che le traduzioni di Lucrezio conoscano
un veloce incremento e si infittiscano in tutte, o quasi, le lingue nazionali. Tra il Seicento
e il Settecento, in Francia compaiono non meno di tredici traduzioni lucreziane, tra integrali
e parziali, altrettante in Inghilterra, almeno quattro in Germania. E l’Italia? Rispetto alle
altre nazioni europee, il nostro Paese continua a mostrarsi più refrattario ad accogliere il
messaggio ideologicamente imbarazzante di Lucrezio, pregiudizialmente sentito come un
alter Epicurus25: il numero esiguo delle traduzioni lo attesta in maniera eloquente. Nulla di
rilevante offre il Cinquecento, né tantomeno il Seicento, quando pure Inghilterra e Francia
vedono comparire la prima versione del poema lucreziano nelle rispettive lingue nazionali,
ad opera di John Evelyn (1656, limitatamente al I libro)26 e di Michel de Marolles (1659).
Cinquecento, Prosperi, o.c. 102 nota che «una rassegna dei frammenti o dei singoli versi lucreziani
che si trovano tradotti in italiano all’interno di opere cinquecentesche […] testimonia del diffuso
desiderio dei letterati italiani di cimentarsi con un’opera così alta».
22
Della storia e della ragione d’ogni poesia dell’abate F. Saverio Quadrio, IV, Milano
1749, 30 (sulle traduzioni).
23
«Della version di Lucrezio il solo sesto libro conservasi nella libreria de’ Conventuali di
Asolo a cui fece dono de’ suoi libri» (1790s.). Anche il Fabricius nella sua Bibliotheca cita i «Titi
Joannis Scandianensis Commentarii doctissimi» (I 85).
24
Che non si trattasse di una vera e propria traduzione attesta anche J.M. Paitoni, Biblioteca
degli autori antichi greci, e latini volgarizzati, II, Venezia 1774, 238: «della traduzione di
T. Giovanni Scandinense e della Parafrasi di Girolamo Frachetta io non parlo per non essere quella
mai uscita alle stampe e questa una Esposizione diffusa della dottrina, non delle parole di Lucrezio».
25
Vd. A. Grilli, Leopardi e Lucrezio, «A&R» n.s. XLVI (2001) 52.
26
Per la prima traduzione integrale di Lucrezio in lingua inglese bisogna attendere il 1682,
anno in cui esce ad Oxford quella del Reverendo Thomas Creech, destinata ad immediato successo editoriale, in patria e all’estero.
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Se passiamo al Settecento, il computo è presto fatto: domina incontrastata la ‘bella infedele’
dello scienziato toscano Alessandro Marchetti, nelle cui mani il poema di Lucrezio assurge
a simbolo dell’attacco sferrato dalla scuola galileiana contro il dogmatismo aristotelico
dell’Accademia. Non a caso, malgrado la Protesta premessa alla traduzione, in cui il Marchetti
dichiarava di non condividere «le ree e malvagie cose» professate da Lucrezio in materia
religiosa, la traduzione, già pronta dal 1668, vede la luce postuma solo nel 1717, a Londra,
per le cure di Paolo Rolli, e non sfugge alla messa all’Indice. Questo Lucrezio amplificato
e ricantato, autentico monumento del «classicismo barocco-arcadico, erede di poesia greca
e latina per i filtri di Petrarca, dei didascalici cinquecenteschi, di Caro, di Tasso, di Chiabrera,
anticipatore e iniziatore […] delle maniere aggraziate e fiorite dell’Arcadia storica»27, conoscerà una serie pressoché ininterrotta di edizioni e ristampe, sino a quella curata dal
Carducci nel 1864 per la casa editrice Barbera. Certo è che il coro di consensi e l’interesse
di critica riscosso dalla versione dello scienziato toscano hanno finito per oscurare un’altra
traduzione italiana di Lucrezio apparsa nel XVIII sec., quella dell’Abate Raffaele Pastore28,
che tardò un poco ad apparire, se è vero che il Tiraboschi ammette di non averla potuta
visionare29. Nemmeno questa traduzione del Pastore, decisamente più fedele e pedestre di
quella marchettiana30, poté sfuggire alla censura del santo Uffizio, malgrado lo sforzo,
trasparente già nel titolo, di neutralizzare le empietà del testo31. Discorso a parte merita poi
una traduzione lucreziana inedita, e a quanto mi risulta pressoché sconosciuta, conservata
in un manoscritto cartaceo della Biblioteca Statale di Cremona databile al sec. XVIII32, di
cui dà notizia un articolo di L. Cisorio (Di una versione inedita del «De rerum natura» di
27
A. Marchetti, Della natura delle cose di Lucrezio, a c. di M. Saccenti, Modena 1992,
XVIs. Per l’esauriente disamina dei modelli letterari presenti alla memoria del traduttore si veda,
dello stesso autore, Lucrezio in Toscana. Studio su Alessandro Marchetti, Firenze 1966, in part.
170ss.
28
La filosofia della natura di Tito Lucrezio Caro e confutazione del suo deismo e materialismo, col poema di Aonio Paleario dell’immortalità degli animi dell’abate R. Pastore, Londra
[ma Venezia] 1776. Ogni libro della traduzione è chiuso da Riflessioni e confutazioni particolari
dei principali aspetti della dottrina materialistica di Epicuro. Sulla censura moralistica del Pastore
nei confronti del poema lucreziano e le riserve espresse sulla traduzione del Marchetti, vd.
Saccenti, Lucrezio in Toscana cit. 131.
29
La seconda edizione apparve a Modena tra il 1787 e il 1793. Cito dalla ristampa milanese
del 1822, I 283.
30
Tuttavia, nel suo studio su Lucrezio del 1846, il Mazzarella notava che «la traduzione del
Pastore, che è forse la più bella delle sue fatiche, merita lode per quella sobria fedeltà che appunto
manca al suo predecessore; e qua e là essa si eleva a tutta la grandezza del proprio modello; però,
con tutto questo, per essere il più spesso troppo pedissequa, con poco garbo, e talvolta anzi dura
ed equivoca, non lascia di farci desiderare qualche cosa di meglio» (97).
31
L’aspetto curioso è che, a distanza di un secolo, i gusti del cattolicissimo Pastore si
incontreranno sorprendentemente con quelli di Mario Rapisardi; l’abate e il poeta cultore di
Darwin, infatti, tradussero, oltre al testo di Lucrezio, anche un altro poeta latino, molto lontano
dal primo sotto il profilo ideologico: Catullo. Del liber catulliano il Pastore volgarizzò una scelta
di carmi «d’espurgata lezione» (Vinegia 1776), verso i quali mostrò la stessa pruderie moralistica
già riservata al poeta epicureo.
32
Vd. Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia. Opera fondata dal Prof. G. Mazzatinti,
LXX, Firenze 1939, 110 (nr. 132).
426
MAGNONI
Lucrezio esistente nella Biblioteca governativa di Cremona, Estratto da «La Provincia» di
Cremona [CCV, 1899]). Come si desume dalla dedica posta sul frontespizio, la traduzione
fu venduta da un certo Montaldi al prof. C. Fumagalli, insegnante nel Reale Liceo di Cremona,
e da questi donata, nell’aprile del 1872, all’allora Bibliotecario della Biblioteca Nazionale
di Cremona, Prof. Stefano Bissolati. Di provenienza ignota, il manoscritto reca internamente
il nome del traduttore, tale Giovanni Allainig, probabile pseudonimo33. Il testo della traduzione, in versi numerati di cinque in cinque e vergati in scrittura corsiva «ordinata e nitidissima»34, è seguito, nel verso dell’ultima carta, da un foglio contenente l’elenco dei «Versi
omessi e trasposti nella traduzione di T. Lucrezio Caro in italiano» e, nell’ultima carta dopo
l’indice, da un Avvertimento, dove si specifica che la versione è stata condotta sull’edizione
cominiana di Lucrezio stampata a Padova nel 172135. Tornando al problema della datazione
e della genesi della traduzione, il Cisorio, nell’articolo citato, pur senza formulare ipotesi
precise, è propenso a intendere la nostra versione come il prodotto della ribellione di uno
«spirito libero» contro il clima di censura e il coro di critiche con cui era stata accolta la
traduzione del Marchetti36. Tant’è che, a quanto riferisce ancora il Cisorio, l’intendimento
del traduttore sarebbe filosofico prima che artistico e poetico: prova ne sarebbero, per un
verso, la presenza di un ricco indice delle cose più insigni (dove sono elencati con cura i
temi principali della dottrina epicurea trattati nel poema), per un altro, la mediocre fattura
stilistica della traduzione («l’arte vi è scarsa e in genere vi manca l’eleganza, l’armonia e
la maestà propria di Lucrezio», e «lo stile […] è in genere languido e freddo, poco delicato
e soave»), la quale risulterebbe compensata, tuttavia, da «un’esposizione di pensiero sempre
chiara e piana, tanto che in questa versione sembran quasi scomparsi gli intralciati misteri
della filosofia degli atomi» (14s.).
Sembra dunque lecito affermare che l’Ottocento mette fine al silenzio forzato
cui Lucrezio era stato ridotto tra il Seicento e la fine del Settecento. A quasi due
secoli di distanza dal ‘caso’ Alessandro Marchetti, nel XIX sec. il poema epicureo
torna a circolare in lingua italiana, grazie ad una capillare attività di traduzione che
dai primi decenni del secolo si prolunga sino alle soglie del Novecento. La celebre
33
A questo proposito il Cisorio precisa quanto segue: «dopo alcune ricerche abbiamo potuto
constatare che appunto nel 1872 in Sospiro (provincia di Cremona), moriva un dotto parroco, un
tal Tosi, dai cui eredi forse poté essere comperato dal Montaldi il manoscritto in questione insieme
con altri libri che allora, dicesi, furono venduti. La coincidenza della morte di questo parroco con
l’acquisto del codice fatto dal Fumagalli ci sembra degna che sia almeno rilevata» (6s.).
34
Mazzatinti, o.c. 110.
35
Titi Lucretii Cari de rerum natura libri VI. Ad optimorum exemplarium veritatem exacti.
Quae praeterea in hac Patavina Editione accesserint, Epistolae subsequentis postremae paginae
declarant, Patavii 1721. Excudebat Josephus Cominus.
36
«Non è improbabile che qualche spirito libero […] abbia ritentato con nobile ardire la
prova, quasi per tener desta, se non nel pubblico, almeno in se stesso o nel circolo de’ suoi amici,
la fiamma di quel libero pensiero acquistato a prezzo di tante lotte e di tanti sforzi. E forse questo
spirito libero poteva nascondersi sotto la veste talare di qualche dotto prete, il quale, per isfuggire
all’inevitabile censura de’ suoi correligionari, volle tener celato il suo nome sotto uno pseudonimo» (9s.).
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
427
dichiarazione del Terracini secondo cui «la traduzione è il genere letterario che più
limpidamente riflette la storia del gusto e delle culture» trova nella vicenda lucreziana
un’applicazione ed una conferma esemplari37.
Che la vitalità di un testo si misuri e si lasci apprezzare compiutamente anche
per il tramite dei suoi interpreti nelle diverse lingue nazionali è fatto ormai largamente riconosciuto da chi si occupa della fortuna e della sopravvivenza di un
‘classico’, di qualunque epoca o lingua: di qui l’idea di tracciare un profilo, o se
vogliamo una mappa, della ricezione di Lucrezio nell’Ottocento italiano sub specie
translationum. Ho provveduto a stilare un regesto delle traduzioni lucreziane di cui
si è riusciti ad avere notizia, per lo più per via autoptica, talvolta solo di seconda
mano. Va detto subito che il presente elenco intende raccogliere in una sede unitaria un materiale che, pur essendo almeno in parte noto, risultava sino ad ora
disseminato in una pluralità di strumenti, non sempre facili da reperire e consultare38. Per ognuna di queste traduzioni, aventi fisionomie e caratteri difformi, si è
provveduto a segnalare, laddove possibile: alcuni essenziali dati bio-bibliografici
sul traduttore (o, in alternativa, il semplice rinvio agli strumenti idonei); la consistenza dei brani lucreziani tradotti; la presenza di eventuali dediche e prefazioni; la
sede in cui il volgarizzamento vide la luce (opuscolo, volume – monografico o
miscellaneo – o rivista); la biblioteca che ne conserva almeno un esemplare; infine
– ma soltanto per pochissimi – la circostanza, o meglio l’occasione che ne condizionò l’ideazione e/o la pubblicazione. Infatti, è sufficiente anche solo scorrere
alcuni di questi testi per ravvisarvi la fisionomia tipica dei testi d’occasione:
un’‘occasionalità’ tanto più evidente per il fatto che, in più di un caso, si tratta di
saggi di traduzione offerti in quella veste di opuscoli per nozze che aveva riscosso
37
B. Terracini, Il problema della traduzione, in Conflitti di lingue e di culture, Venezia
1957, 98. Già il Gabotto, o.c. XXs. individuava un nesso causale tra il consistente numero di
traduzioni del poema apparse nella seconda metà dell’Ottocento e il fortunato trentennio di cui
Lucrezio poté beneficiare in piena stagione darwiniana.
38
Oltre alle pagine del Gordon dedicate alle Italian translations (o.c. 193-211), ai fini del
censimento mi sono avvalsa principalmente delle sezioni lucreziane comprese in W. EngelmannE. Preuss, Bibliotheca scriptorum classicorum, II. Scriptores Latini, Leipzig 1882, 400-407;
P. Canal, Bibliotheca scriptorum classicorum Graecorum et Latinorum, Bassani 1884, 126-131;
R. Klussmann, Bibliotheca scriptorum classicorum et Graecorum et Latinorum, II. Scriptores
Latini, Leipzig 1912, 555-566; di alcuni repertori sulle traduzioni dal greco e dal latino, quali
F. Argelati, Biblioteca dei volgarizzatori, II, Milano 1767, 349s.; Paitoni, o.c. 237s.; C. Lucchesini,
Della illustrazione delle lingue antiche, e moderne e principalmente dell’Italiana procurata nel
secolo XVIII dagli Italiani. Ragionamento storico, e critico di C. L., II, Lucca 1819, 158;
F. Federici, Degli scrittori latini e delle italiane versioni delle loro opere. Notizie raccolte dall’Ab. F.F., Padova 1840, 17s.; della voce Lucretius del CLIO. Catalogo dei libri italiani dell’Ottocento (1801-1900), Milano 1991, 2695s. Per i profili biografici dei traduttori, mi limito qui
a citare l’imprescindibile Archivio Biografico Italiano (ABI), così ripartito: I, a c. di T. Nappo,
München 1987-1990; Archivio Biografico Italiano, II. Nuova serie, 1994; Archivio Biografico
Italiano sino al 1996, III, 1999; Archivio Biografico Italiano fino al 2001, IV, 2000-.
428
MAGNONI
larghissimo seguito negli ambienti del classicismo sette-ottocentesco, in particolare
in area emiliano-romagnola39.
Ugo Foscolo
Da una ventina d’anni a questa parte, il quadro dei rapporti intrattenuti dal Foscolo con
il De rerum natura si è fatto sensibilmente più sicuro e dettagliato. Il rinvenimento, negli
anni Ottanta, di un esemplare della traduzione del Marchetti appartenuto al poeta, contenente alcuni saggi autografi e inediti di traduzione da Lucrezio, ha permesso di «ricostruire
finalmente per intero quel “progetto” lucreziano»40 accarezzato dal Foscolo: il quale, proprio tra il 1802 ed il 1803, compose i tre celebri discorsi in prosa di argomento lucreziano
(Della poesia lucreziana, De’ tempi di Lucrezio, Della religione lucreziana), prolegomeni
ideali a un lavoro sistematico di traduzione e commento al poema che, di fatto, non fu mai
intrapreso. È stato osservato come, nell’evoluzione poetica e filosofica del Foscolo, il De
rerum natura fu il viatico privilegiato verso una conoscenza meno superficiale dei temi
cardine della dottrina epicurea (l’atarassia, la dottrina del piacere catastematico, l’interpretazione meccanicistica dell’universo che esclude qualsiasi teodicea). Ma per il Foscolo il De
rerum natura rappresentò qualcosa di più del semplice medium poetico con cui addolcire
l’amara dottrina del Giardino. Se così non fosse, difficilmente ci spiegheremmo la lunga
lista di luoghi foscoliani per i quali la critica ha da tempo identificato o fondatamente
supposto ora possibili ascendenze lucreziane, ora generiche consonanze tematiche e lessicali
tra i due testi, ora vere e proprie allusioni e riprese puntuali del De rerum natura, disseminate lungo un arco temporale che dall’Ortis del 1802 giunge sino alle Grazie (1813), con
una concentrazione maggiore nella lirica e nei Sepolcri41. Ma ciò che più importa sottolineare in questa sede è l’esistenza di quei saggi di traduzione che il poeta appose, insieme a note
39
Nella produzione letteraria minore dell’Ottocento «le composizioni poetiche per nozze,
“offerte, consacrate, dedicate” – come si scriveva – agli sposi o ai genitori nel giorno “sempre
fausto, felice” del loro matrimonio» risultano «le più cariche di storia sociale e di storia del
costume, essendo esse proiezione d’usi e rituali soggetti a mutamenti» (Giovanna Bosi Maramotti,
Verseggiatori ed eruditi romagnoli tra Sette e Ottocento in opuscoli per nozze, «Studi Romagnoli»
XLIII [1992] 338; della stessa vd. anche Le muse d’Imeneo. Metamorfosi letteraria dei libretti
per nozze dal ’500 al ’900, Ravenna 1995). La studiosa ricorda come tra l’iniziale dominio della
forma poetica, preferita per tutto il Settecento, e l’affermazione definitiva del testo in prosa,
avvenuta in pieno Ottocento, si collochi una fase di trapasso, in cui ai componimenti originali
furono significativamente preferiti i saggi di traduzione di testi classici. Per quanto attiene alla
scelta degli autori tradotti, la palma va senza dubbio ai componimenti catulliani di argomento
nuziale: dei soli carmi 61 e 64 J.P. Holoka (Gaius Valerius Catullus. A Systematic Bibliography,
New York-London 1985) ha censito non meno di 22 traduzioni italiane, apparse lungo tutto l’arco
del secolo.
40
Così il Longoni in Foscolo, o.c. 11, al quale si rimanda per una più accurata informazione
su tutta la questione Foscolo-Lucrezio.
41
Per le più vistose tessere lucreziane ravvisate sino ad ora nell’opera del Foscolo si veda
la ricognizione fatta da Longoni in Foscolo, o.c. 11ss. Particolarmente significativo è il caso del
sonetto Alla sera: il già ricordato volume marchettiano contenente le traduzioni di Lucrezio ne
ha infatti restituito una redazione con notevoli varianti, le quali attestano «profondi influssi
lucreziani sulla stesura definitiva» (ibid. 18).
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
429
varie ed emende ortografiche, come marginalia alla versione lucreziana del Marchetti. Il
Foscolo, dunque, non si accontentò di conoscere il De rerum natura per il solo tramite del
suo intermediario seicentesco, ma compulsò direttamente l’originale latino: e non già in una
qualunque antologia ad usum scholarum, ma nella pregevole edizione commentata del Reverendo
inglese Thomas Creech. La stessa di cui il poeta si avvalse al momento di tradurre alcuni
excerpta del poema latino. Quello che possiamo leggere nella versione foscoliana è però un
Lucrezio quantitativamente ridotto: quasi «ritagliato e arrangiato» a misura del traduttore42.
Unico fra i passi tradotti ad avere ricevuto una doppia redazione è l’episodio della giovenca
(II 352-366), reso celebre dalle imitazioni virgiliane e ovidiane43: di questo brano il poeta
approntò due distinte versioni, una in endecasillabi – conosciuta sin dall’Ottocento – ed una
in prosa, decisamente più fedele alla lettera dell’originale, come l’autore stesso ebbe ad
ammettere44. A questa seconda tipologia rispondono poi le traduzioni di alcune sezioni del
III libro (1-248; 418-422; 770-790), in parte corredate da appunti a piè di pagina.
Michele Leoni (?): Della natura delle cose. Poema di T. Lucrezio Caro. Nuovamente
volgarizzato, prima edizione, Lugano, Tipografia Ruggia e Comp., 1827.
Questa traduzione lucreziana è al centro di un piccolo mistero. Benché la bibliografia
del Gordon (o.c. 207), che fa riferimento ad un esemplare conservato presso la Biblioteca
Ambrosiana di Milano, attribuisca la nostra versione a Michele Leoni, in realtà essa dovette
circolare in forma anonima: tali risultano, infatti, le sei copie di cui ho potuto prendere
visione in diverse biblioteche italiane45. Se non che, uno dei tre esemplari conservati presso
l’Istituto milanese (precisamente quello con segnatura S N V I. 102), pur identico agli altri,
reca, nel recto del foglio di guardia (margine sinistro in alto), la nota manoscritta «versione
di Michele Leoni»; di qui l’errata dicitura con cui il volume è inventariato nel catalogo (Tito
Lucrezio Caro, Della natura delle cose. Versione di Michele Leoni), la quale spiega, evidentemente, il dato registrato nel Gordon. Pur non essendo possibile accertare né la provenienza né l’attendibilità di questa nota marginale, essa appare di per sé interessante e persino
attraente, considerata la notorietà e il ruolo non disprezzabile che Michele Leoni riveste nel
42
Nel senso in cui l’espressione è impiegata da A. Traina, Alfieri traduttore di Seneca, in
Seneca nella coscienza dell’Europa, a c. di I. Dionigi, Milano 1999, 240 (ora in Poeti tradotti
e traduttori poeti, a c. di I. Dionigi, Bologna 2004, 13) in relazione agli interventi di selezione
e di omissione, preliminari alla traduzione, che l’Alfieri opera sul testo senecano.
43
Che il traduttore nutrisse un certo interesse per l’argomento di questo passo è confermato
dal fatto che, come precisa Longoni in Foscolo, o.c. 51 n. 1, «il Foscolo ritornerà stigmatizzando,
nel discorso Della religione lucreziana, la brutalità umana anche verso “quegli animali tranquilli
e solitari” del tutto innocui alla sua incolumità, e riflettendo sulle crudeltà dei sacrifici nella
Considerazione terza della Chioma, intorno a Diana Trivia (Ed. Naz., VI, Scritti politici e letterari dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Firenze 1972, pp. 395 sg.)».
44
Il poeta stesso aveva dato notizia di questi esercizi di traduzione in una lettera al Rosini
datata 9 gennaio 1803: «vi dirò di me, ch’io morior curis, che vivo in casa più giorni alla
settimana, che ho la barba lunghissima, che veglio notte e giorno, che traduco in prosa litteralmente
Lucrezio» (Ed. Naz., Epist., I, a c. di P. Carli, Firenze 1949, 170).
45
Tutte e sei le copie – di cui una conservata alla Marciana di Venezia, due a Bologna
(Biblioteca dell’Archiginnasio e Biblioteca di Casa Carducci), le restanti tre alla Biblioteca
Ambrosiana – condividono la medesima intestazione riportata sopra.
430
MAGNONI
panorama dei traduttori ottocenteschi di scuola classicistica46. Nell’ipotesi che l’attribuzione
corrisponda a verità, la versione integrale di Lucrezio non sarebbe che una delle tante prove
affrontate dal Leoni nel corso di una lunga e prolifica carriera di traduttore dalle lingue
antiche e moderne. Per le prime si dovrà ricordare anzitutto il volgarizzamento dell’Eneide,
apparso a Pisa nel 1821 e subito stroncato sulla rivista romana «Il Giornale Arcadico di
Scienze, Lettere, ed Arti» (XIII [1822] 291-294), «organo ufficioso se non ufficiale» della
Scuola classica romagnola47 e sede principe del dibattito sul problema del tradurre che
infuriava in quegli anni48. Certo è che le critiche mosse dai Romagnoli al Leoni, caldamente
46
Borgo San Donnino (Parma) 1766-Parma 1858 (cf. ABI I 563,192). Dal 1840 Professore
di Letteratura italiana alla Facoltà parmense, fu vivace poligrafo (tragedie e poesie varie) e svolse
un’intensa attività pubblicistica presso diverse riviste dell’epoca, tra cui gli «Annali di scienze e
lettere», da lui fondati insieme al Foscolo e al Rasori. Il Timpanaro (Aspetti della fortuna di
Lucano cit. 59ss.) lo ricorda come «un letterato eclettico […] dotato, nel bene e nel male, di
notevoli qualità mimetiche e assimilatrici», che «aveva svolto e continuava a svolgere un’utile
opera di divulgazione e di mediazione culturale soprattutto come traduttore di innumerevoli autori
classici (Virgilio, Sallustio, Lucano) e stranieri europei». A parte questa benemerita attività di
traduzioni divulgative, per il resto il Leoni non diede contributi originali al panorama della cultura
classicistica del tempo e al coevo dibattito sulla questione della lingua (vd. M. Turchi, Michele
Leoni, testimone e interprete di un rinnovamento culturale, «Archivio storico per le Provincie
Parmensi» s. 4 XVII [1965] 313: «la personalità di M. Leoni […] non può dirsi di quelle che
riescono ad imprimere un carattere fortemente distintivo ed originale alla propria opera»). Degno
di interesse è tuttavia un articolo di contenuto linguistico stampato nel 1821 sulla neonata «Antologia» col titolo Appendice Critica all’opera del Sig. C. Giulio Perticari: questo scritto del
Leoni, apparso come recensione all’opuscolo del Perticari Dell’amor patrio di Dante (1820),
rappresenta un atto d’accusa diretto contro l’autore e l’illustre suocero Vincenzo Monti, «sia per
le premesse teoriche che per i metodi pratici seguiti nella Proposta, ed è, allo stesso tempo, una
difesa decisa della funzione e dell’attività dell’Accademia della Crusca» (Stefania De Stefanis
Ciccone, La questione della lingua nei periodici letterari del primo ’800, Firenze 1971, 141).
47
P. Ferratini, La traduzione dai classici latini in Romagna: lineamenti tipologici e quantitativi,
in Scuola classica romagnola. «Atti del Convegno di studi (Faenza, 30 novembre, 1-2 dicembre
1984)», Modena 1988, 174, cui si rimanda per l’accurata disamina dei caratteri, teorici e pratici,
del vertere romagnolo.
48
«Cinque principalmente […] sono i poeti greci e latini, de’ quali la nostra lingua ha così
classiche traduzioni, che faticosissima cosa sia non già il superarle, ma l’andar loro pur da vicino:
Omero, Callimaco, Lucrezio, Virgilio e Stazio, volgarizzati da altrettanti celebri uomini, il Monti,
lo Strocchi, il Marchetti, il Caro e il Card. Bentivoglio. Sicchè noi vivamente preghiamo tutti
coloro che si sentono di riuscire nell’arte difficile del tradurre, a consacrare gli studi loro ad altri
grandi esemplari, e tenersi oggimai d’ogni inutile concorrenza con que’ solenni» (291). A margine si ricorderà che in quel torno di tempo l’Eneide del Caro fu oggetto di un’aspra polemica
tra gli affiliati della Scuola classica, accesi fautori del volgarizzamento cinquecentesco, e alcuni
‘dissidenti’ traduttori di area emiliano-lombarda, tra cui lo stesso Leoni, il parmigiano Clemente
Bondi e il Foscolo (cf. E. Bonora, Consensi e dissensi intorno all’«Eneide» del Caro, in Stile e
tradizione. Studi sulla letteratura italiana dal Tre al Cinquecento, Milano 1960, 91-102): sulla
scia dell’Algarotti (le cui Lettere intorno alla traduzione dell’«Eneide» del Caro risalivano al
1744), costoro rimproverarono al Caro le eccessive infedeltà e la patina linguistica prebarocca,
rivendicando il diritto di cimentarsi nella traduzione del poema virgiliano (così il Bondi nella sua
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
431
invitato ad astenersi dai testi classici già brillantemente volgarizzati (tra cui figura anche
Lucrezio!), non sortirono l’effetto desiderato. Dopo Virgilio, infatti, negli anni Trenta è la
volta del poema di Lucano, apparso nel 1836: per una singolare concomitanza, in quello
stesso anno vedeva la luce, a Pesaro, l’ultima attesa dispensa dell’altro e ben più celebre
volgarizzamento della Farsaglia, dovuto al conte pesarese Francesco Cassi49. Ma proprio
questa indiscriminata e promiscua familiarità con i classici, antichi e moderni (tradusse
anche tutto il teatro di Shakespeare, Verona 1819-1822), fu all’origine dei giudizi non
sempre benevoli riservatigli dai contemporanei50. Per tornare alla traduzione lucreziana, le
ipotesi che si possono formulare si riducono, come è ovvio, a due. La prima: il volgarizzamento
si deve ad un classicista di identità ignota, e allora la menzione del Leoni presente sull’esemplare milanese si giustifica con la diffusa tendenza a ricondurre il prodotto adespoto
sotto l’auctoritas di un personaggio che in quegli anni godeva di una certa notorietà. La
seconda: Michele Leoni fu, in effetti, l’autore della traduzione di Lucrezio edita a Lugano
nel 1827 presso quella stessa casa editrice Ruggia con cui – si badi – il nostro pubblicherà,
due anni più tardi, un volume di Prose. Se questa ipotesi coglie nel segno (come sembrerebbe indicare anche la recensione che l’«Antologia» di Vieusseux dedicò alla nostra traduzione nel 182851), non c’è dubbio che la scelta dell’anonimato costituisca una prova elo-
Prefazione: «la traduzione di Virgilio è un arringo da poter corrersi ancora, e […] il tentarla
anche dopo di Annibal Caro non era poi, come pensano alcuni, una temerarietà da Titani»,
L’«Eneide» tradotta in versi italiani da Cl. B., I, Parma 1790, XXI [il corsivo è mio]).
49
Sulla genesi e la ricezione del volgarizzamento cassiano nel milieu classicistico della
prima metà dell’Ottocento si vedano, oltre al canonico S. Timpanaro, Francesco Cassi traduttore
di Lucano, in Timpanaro, Aspetti e figure cit. 81-103, i più recenti lavori di Chiara Nonni, La
Farsaglia di Francesco Cassi: un filtro dantesco, «Studi e Problemi di Critica Testuale» LXVIII
(2004) 49-79 e Aemulatio e intertestualità nella Farsaglia del Cassi, in Poeti tradotti cit. 29-62.
50
Per tutti valgano le parole di G. Mazzoni, L’Ottocento, Milano 1960 7, 94 (cf. anche
R. Lasagni, Leoni, in Dizionario biografico dei parmigiani, III, Parma 1999, 191s.): «Michele
Leoni […] traduceva in versi sciolti i Nuovi canti di Ossian dall’inglese di Giovanni Smith […]
e preparava parecchie altre, per non dire troppe, versioni d’ogni sorta».
51
Proprio la collaborazione intrattenuta dal Leoni con la rivista fiorentina, concretizzatasi
in una serie di articoli apparsi tra il 1821 e il 1827 con la sigla L. (vd. P. Prunas, L’«Antologia»
di Gian Pietro Vieusseux, Roma-Milano 1906, 71 n. 2 e passim), sembra avvalorare ulteriormente
la nostra ipotesi: in caso contrario, riesce difficile credere che una traduzione di autore ignoto
potesse essere oggetto della lunga recensione apparsa sul numero XXXI della rivista fiorentina
(luglio-agosto-settembre, 59-72). A ciò si aggiunga che la sigla M., posta in calce all’articolo,
nasconde con ogni probabilità il nome di Giuseppe Montani, che proprio grazie all’intercessione
dell’«amico Leoni» aveva potuto entrare nella rivista (cf. Prunas, o.c. 78s.; l’elenco e la spiegazione delle sigle adottate dai collaboratori della rivista si trovano alle pp. 435-437). Dopo avere
difeso il poema di Lucrezio dalle tradizionali accuse di ateismo dirette contro la dottrina di
Epicuro e avere menzionato il volgarizzamento del Marchetti, definito mirabile benché non esente da qualche difetto, il recensore passa alla nuova versione di Lucrezio, affermando di apprezzare il «coraggio» che una tale impresa richiede. Sulla traduzione, di cui viene offerto uno
specimen (V 1025ss., sull’origine del linguaggio), il recensore esprime un giudizio nel complesso
favorevole (benché non manchi qualche rilievo in merito a singole scelte linguistiche), che tiene
conto soprattutto del grado di fedeltà all’originale.
432
MAGNONI
quente – e non è l’unica – del clima di sospetto che ancora pesava sul poema di Lucrezio52.
Se dunque, come sembra, nel 1827 il nome del poeta epicureo non poteva ancora essere
pronunciato senza incorrere nel biasimo e nella censura di un certo milieu intellettuale
cattolico (quello che il Treves chiama «neoguelfismo»), non stupisce che il Leoni abbia
preferito non esporsi e far circolare la propria versione lucreziana in forma anonima, benché
la paternità ne fosse ben nota agli addetti ai lavori. Questo quadro sembra trovare una
conferma ulteriore nell’Avvertimento che apre il volume della traduzione; in questa sede il
traduttore, ricalcando un antico cliché della critica lucreziana, accenna alle «massime erronee» contenute nel poema, sull’esempio della Protesta di Alessandro Marchetti (vd. supra
p. 425): «il poema Della natura delle Cose è in ogni sua parte così ben conosciuto, che il
pigliare a combatterne le massime erronee e fare protestazioni, a fine di ovviare agli effetti
di un volgarizzamento di esso, sarìa da estimare opera superflua». Nel séguito figura un’interessante synkrisis con il Lucrezio toscano, che il nuovo traduttore si vanta di avere surclassato
in stringatezza e aderenza all’originale («finalmente intorno il modo di questa versione
diremo, che se una maggiore brevità può per ventura disporre a qualche indulgenza, ci
confidiamo di ottenerla in vista degli oltre duemila versi risparmiati in confronto dell’altra
del Marchetti»): un’affermazione orgogliosa che, alla luce di quanto si è detto, può suonare
come una polemica a distanza indirizzata contro chi, qualche anno prima, aveva sancito
l’imperfettibilità della versione marchettiana. Da ultimo, è degno di menzione il fatto che
il volgarizzatore indichi espressamente i commenti e le edizioni lucreziane seguite: tre, in
questo caso, quella del Fayus (Bassani 17882 [Parisiis 16801]), del Lambinus (Lutetiae 15703
[Parisiis 15631]) e dell’Havercampus (Lugduni Batavorum 1725).
52
A questo proposito disponiamo di numerose testimonianze, coeve all’anno di pubblicazione della versione lucreziana, ma anche posteriori di diversi decenni. Ci limitiamo a qualche
esempio. Nel 1819 Lucchesini, o.c. 158, dopo avere menzionato in termini elogiativi la traduzione lucreziana del Marchetti, si affretta a precisare quanto segue: «commendando però l’opera del
Marchetti io intendo dire, che belli sono i suoi versi, e che fedelmente ha espressi i sensi dell’Autore, ma biasimo solennemente i sentimenti d’irreligione e d’Epicureismo, che la Chiesa ha in lui
condannati, e da’ quali doveva la sua penna tenersi più lontana come n’era lontano il suo cuore».
Qualche anno più tardi, nel 1839, G.I. Montanari, autore di un fortunato manuale di retorica ad
uso scolastico, poteva accusare il De rerum natura di essere «tutto fango epicureo» (Istituzioni
di rettorica e belle lettere tratte dalle lezioni di Ugo Blair dal padre F. Soave ampliate e arricchite da G.I. M., Foligno 1836). La seconda edizione fiorentina del 1839 ospita un capitolo
aggiuntivo Dei traduttori in cui la versione del Marchetti è oggetto del seguente giudizio: «[A.M.]
che ebbe ed ha gran voce di eccellente, se il soggetto epicureo del poema, che è tutto fango
epicureo, non mi facesse rimanere dal parlare più oltre e dal disdirne la lettura ai giovani finchè
chi ne ha autorità non conceda loro la lettura del traduttore, e l’età matura non conceda proficuamente quella del Poeta latino» (cito dalla ristampa del 1843, 164). Ma fu certamente tra gli
esponenti del neoguelfismo che Lucrezio trovò, come è ovvio, i suoi più aspri detrattori: a parte
le riserve espresse da Niccolò Tommaseo (per cui vd. I. Dionigi, Un traduttore di Lucrezio tra
Foscolo e Rapisardi, in Poeti tradotti cit. 66 e n. 10), si ricorderà che Eugenio Ferrai, nell’introduzione alla sua benemerita traduzione dal tedesco della Istoria della letteratura greca di K.O.
Müller, apparsa per i tipi di Le Monnier tra il 1858 e il 1859, proponeva di bandire Lucrezio dalle
aule scolastiche «per la ragione morale» (vd. Treves, Lo studio dell’antichità classica cit. 953992; il passo che riguarda Lucrezio è riportato a p. 975).
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
433
Gaetano Renieri53: La natura delle cose di T. Lucrezio Caro. Recata in verso italiano dal
Cav. G. R., Venezia 183154.
Il volume si apre con una Prefazione, in cui il traduttore si compiace del fatto che le
numerose traduzioni lucreziane apparse di recente nelle diverse lingue europee abbiano contribuito, per un verso, a rendere più fruibile il testo, assai impegnativo, del poema latino (si
ricorderà il giudizio di Quintiliano sul difficilis Lucretius [X 1,87])55, per l’altro a riscattare
Lucrezio dalle pregiudiziali accuse di «immoralità» e di «irreligione» di cui era tradizionalmente fatta oggetto la dottrina di Epicuro56. Segue uno scritto a firma dell’avvocato Aldebrando
Paolini (Firenze 18 agosto 1831), il quale annovera tra i molti pregi della traduzione del Renieri
(«chiara, nobile, schietta e veramente poetica») anche «la purezza dei vocaboli, e dei modi di
costruzione, senza vizio di Arcaismo, che la pedanteria vorrebbe metter in moda» (XVII).
Amilcare Mazzarella57: Di Tito Lucrezio Caro e del suo poema De rerum natura. Studio di
A. M., colla versione di molti frammenti, scelti fra i migliori del testo, Mantova, Negretti, 184658.
A conclusione dello studio (pp. 107-178) si trovano i seguenti saggi di traduzione: dal
I libro, Invocazione a Venere (vv. 1-40), Il sacrificio d’Ifigenia (vv. 85-101), L’impeto dei
venti (vv. 272-291); dal II, La sapienza (vv. 1-65), La vacca orbata del suo vitello (vv. 355366), L’allegoria di Cibele (vv. 589-642); dal III, L’alma soggiace ai mali del corpo (vv.
460-482); La voce della coscienza (vv. 991-135); dal IV, Tutto è movimento (vv. 588-421
e 317-333), L’eco (vv. 574-598), I sogni (vv. 959-994); dal V, I primordi dell’umanità (vv.
925-1456); dal VI, La peste di Atene (vv. 1120-1184).
Luigi Carrer59
Il volume Poesie scelte di L. Carrer, Firenze 1854, contiene i seguenti brani lucreziani
tradotti60: la versione integrale del primo libro (pp. 539-570), l’Incipit (vv. 1-46, pp. 570s.)
53
Già Bibliotecario della Corte imperiale durante il regime francese, cultore di interessi sia
letterari che scientifici, dopo la Restaurazione fu autore di diverse traduzioni di testi latini, fra
cui Lucrezio, e biblici, quali l’Apocalisse, i Salmi, il Cantico dei Cantici, il Libro di Giobbe (vd.
L. Cheluzzi-G.M. Galgagnetti, Serie cronologica degli uomini di merito più distinto della città
di Colle di Val d’Elsa, Colle 1841, 34).
54
La copia conservata presso l’Archiginnasio di Bologna di cui mi sono valsa è una ristampa datata Firenze (per i tipi V. Batelli e figli) 1833.
55
Il Renieri sottrae a questo giudizio positivo proprio la traduzione del De rerum natura di
Alessandro Marchetti, che «non sembra averlo né giustificato, né chiaramente interpretato» (Vs.).
56
«Né in qualunque modo al nostro medesimo autore potrà giustamente venire imputato il
più indiretto e piccolo tratto, che si opponga alla Religione ed al costume […]; nel poema di
Lucrezio non s’incontra né irreligione, né immoralità, né attentato ai costumi, non ostante il poco
conto che fa dei superi Dei, il suo più presunto che esplicito materialismo» (XI).
57
Professore di Liceo a Milano, come si ricava da ABI I 637,399.
58
Esemplare visionato presso la Biblioteca Marciana di Venezia.
59
Venezia 1801-1850. Per un profilo bio-bibliografico del Carrer, poeta e critico letterario
vicino al Foscolo, di cui curò una pregevole edizione completa delle opere corredata da una Vita
(Venezia 1842), rinvio a F. Del Beccaro, Carrer, in DBI XX (1977) 730-734.
60
Esemplare visionato alla Biblioteca di Casa Carducci. Nella strenna Non ti scordar di me,
Milano 1846 erano già apparsi i seguenti saggi di traduzione: Il Voto (I 330-418); l’Omeomeria
434
MAGNONI
e una selezione di passi del II libro (Amor materno della giovenca [vv. 352-366; pp. 571s.];
Processione di Cibele [vv. 598-628; pp. 572s.]), dal III (Congedi mortuari [vv. 894-899; pp.
573s.], La morte inevitabile a tutti [vv. 1024-1041; p. 574], Perplessità della vita [vv. 10451067; p. 575]), dal V (Antichi usi di guerra [vv. 1297-1325; pp. 576s.]), dal VI (Le nubi e
la pioggia [vv. 495-512; p. 577], La pestilenza d’Atene [vv. 1138-1285; pp. 577-582]).
Lodovico Pellegrino Merenda Colombani61: Invocazione a Venere di Tito Lucrezio Caro.
Versione inedita del Conte P. M. C. di Forlì, Forlì, Casali, 185862.
La traduzione, pubblicata postuma per iniziativa del fratello Giuliano Colombani, figura in un opuscolo per le nozze Mengoni-Bianconcini.
Giuliano Vanzolini63: T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose libri sei. Traduzione di
G. V., seconda edizione corretta e riveduta, Pesaro, Federici, 1879.
La fatica trentennale della traduzione lucreziana, iniziata già negli anni Cinquanta,
edita in dispense tra il 1863 e il 1877 e apparsa postuma in versione integrale nel 1879, due
soli mesi dopo la prematura morte, suscitò l’ammirazione e il plauso di un giovane ma già
autorevole Carducci, promosso da poco all’Ateneo bolognese (con lui il Vanzolini intrattenne un proficuo scambio epistolare), oltre che del concittadino pesarese Terenzio Mamiani.
Muovendo da alcune dichiarazioni di poetica del Vanzolini – il quale per un verso si appella
ai principi di fedeltà e chiarezza rispetto all’originale, per un altro accosta non casualmente
la poesia di Lucrezio a quella del ‘padre’ Dante – si è tentato altrove di illustrare i due volti,
tra loro complementari, del nostro traduttore: il traduttore letterario e il traduttore filologo64.
Se infatti le frequentissime reminiscenze dantesche e, più in generale, l’adesione al modello
linguistico tre-cinquecentesco delineato da Vincenzo Monti ripropongono grosso modo i
dettami della Scuola classica romagnola, fiorita nella prima metà dell’Ottocento tra EmiliaRomagna e Marche e coagulata intorno al magistero del traduttore dell’Iliade, vero è, tuttavia, che il rigore linguistico e la vocazione esegetica che il Vanzolini mostra verso il testo
latino hanno radici più antiche, che escono dai confini della Romagna. Nel corso del Settecento, infatti, la scuola filologica veronese – nelle figure di Anton Maria Salvini e di
Scipione Maffei e allievi – aveva teorizzato e praticato la traduzione letterale e ‘strumentale’
dei classici, contrastando la moda imperante delle ‘belle infedeli’ con le armi dell’«inerenza»
e della «religiosa esattezza» da tenersi verso l’originale. Questi, dunque, i precedenti e i
modelli più probabili cui il Vanzolini poteva guardare per la traduzione lucreziana: va detto,
di Anassagora (I 830-903), mentre la Pestilenza d’Atene (VI 1136ss.) era già comparsa nella
Strenna Italiana, Milano 1847.
61
Forlì 1813-Bologna 1852. Nel fondo Piancastelli della Biblioteca Saffi di Forlì si conservano alcuni suoi scritti d’occasione quali Idillio di Salomone Gessner. Imitazione del conte
Lodovico Pellegrino Merenda. Nozze Sauli-Visconti Aimi, Forlì 1844 e Per la promozione alla
porpora di monsignore Ignazio Masotti. Ode, Faenza 1884.
62
La copia di cui mi sono giovata è conservata alla Biblioteca Marciana.
63
Casteldimezzo (Pesaro) 1824-Pesaro 1879. Sulla personalità e l’opera del Vanzolini, vd.
A. Boschini, Cenni biografici di Giuliano Vanzolini, in Armi vecchie, Pesaro 1907, 393-399,
I. Ciavarini Doni, G. Vanzolini. Ricordo, Ancona 1879, nonché Dionigi, Un traduttore cit. passim.
64
Vd. Giuliano Vanzolini tra Lucrezio e Dante, «Studi e Problemi di Critica Testuale» LXV
(2002) 13-46 e Leggere Lucrezio con Dante. Il De rerum natura tradotto da Giuliano Vanzolini,
in Poeti tradotti cit. 79-127.
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
435
tuttavia, che l’impiego serrato e a tratti sorprendentemente circostanziato che il Vanzolini
fa della lingua della Commedia evidenzia elementi di indubbia originalità. Non è un caso
che, sin dal 1852, il traduttore avesse additato nell’aurorale Dante e nell’enniano Lucrezio
due archetipi letterari e linguistici, degni della qualifica di «primi poeti ordinati» delle
rispettive letterature: evidentemente, il traduttore potè sperimentare quell’affinità linguistica e stilistica tra Dante e Lucrezio – artefici entrambi di prodigiose creazioni lessicali (nova
verba) – che, dopo essere stata notata dal Foscolo nel suo commento alla Commedia, si
avviava a diventare fortunato topos di tanta critica lucreziana, fino al Novecento.
Giovan Battista Cipriani65: Da Tito Lucrezio Caro. Saggio di traduzione di G.B. C., Venezia 186366.
Antonio Tolomei67
Il Tolomei pubblicò a più riprese saggi di traduzione da Lucrezio (a cominciare dall’opuscolo per le nozze Giusti-Cittadella [Padova 1863]), i quali furono raccolti nel volume
postumo Scritti vari, Padova, Draghi, 1894 (I 1-50; II 352-366 [L’istinto dell’amor materno]; III 972-1024 [Le favole antiche]; V 925-1268 [L’umanità primitiva]; VI 1138-1286 [La
peste d’Atene])68. Queste versioni piacquero, tra gli altri, al Trezza, che ne pubblicò alcuni
brani all’interno della monografia Lucrezio (Firenze 1870) con questa presentazione: «in
vece della mia prosa, io porgo al Lettore questi versi mirabilmente belli di A. Tolomei. Così
l’egregio padovano ci possa dar presto compita un’Opera che onorerebbe la nostra letteratura non tanto ricca di traduzioni eccellenti»69. I passi lucreziani riportati nella traduzione
del Tolomei sono: I 1-25, 29-40, 80-101; II 352-366; V 970-981, 1028-1058, 1063-1086,
1198-1240; VI 1145-1177.
Jacopo Sartori70: Tito Lucrezio Caro. La natura delle cose. Libri sei. Tradotti in versi
italiani da J. S. veronese. Edizione Postuma, aggiuntovi il testo latino secondo le stampe
migliori e più recenti, Verona, Tip. Cesira Noris, 187671.
65
Avvocato di origine friulana, attivo a Venezia. Fu autore di sonetti, odi, canzoni, apparse
in giornali, strenne e raccolte varie del Veneto e dell’Istria (vd. ABI I 299,286).
66
Un copia dell’opuscolo, contenente la versione del solo inno a Venere, si conserva alla
Biblioteca Marciana.
67
Padova 1839-1888 (cf. ABI II 623,57). Letterato e giurista, fu patriota e partecipò attivamente alla vita politica del Paese, sia a livello locale – ricoprendo le cariche di consigliere
comunale, assessore alla cultura e infine sindaco nella città di Padova – sia nazionale, in qualità
di Deputato parlamentare.
68
Traduzioni parziali si trovano in Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Libro I, dal v.
102 al v. 150. Versione poetica di A. T., Padova, Tip. F. Sacchetto, 1887 (nozze Giusti-Godoy);
T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Libro V, dal v. 1240 al v. 1267. Traduzione di A. T.,
Padova, Tip. F. Sacchetto 1891 (nozze Luzzatti-Pontremoli).
69
Giudizio riecheggiato da A. De Gubernatis, Tolomei, in Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, 1259 («stampò […] alcuni bellissimi saggi di versione dal
poema di Lucrezio che ne fanno desiderare il compimento anche dopo l’ondosa e tumida del
Rapisardi tanto lodata dal Trezza») e dal Cisorio (vd. supra n. 15).
70
Soave [Verona] 1808-Sona [Verona] 1874.
71
Mi sono valsa di due esemplari conservati presso la Biblioteca Statale Isontina di Gorizia
e la Marciana di Venezia.
436
MAGNONI
Alla traduzione, dedicata dal curatore Osvaldo Perini al conte Leopoldo Pulle, è premessa una lunga sezione introduttiva, che si apre con una Nota bio-bibliografica del Sartori
(XI-XXVI): qui si ricordano, in particolare, la precoce vocazione del traduttore per la poesia
latina (nata nel periodo di formazione presso il seminario di Verona ma presto accantonata
per la carriera forense) e la lunga fatica della traduzione lucreziana, iniziata in epoca giovanile, interrotta e successivamente ripresa, ma rimasta incompiuta72. Come ci fa sapere il
curatore, la versione di Lucrezio, data alle stampe postuma, è il frutto della collazione di
quattro diverse redazioni; inoltre, dal momento che il testo latino stampato a fronte riproduce quello della recente edizione del Munro (1866), il curatore asserisce di avere segnalato
in nota i casi in cui la traduzione del Sartori presuppone lezioni diverse, ricavate da edizioni
lucreziane precedenti. È significativo che per mostrare al lettore l’eccellenza della traduzione del Sartori – improntata alla massima fedeltà verso l’originale – il curatore scelga la via
del confronto con «alcuni brani delle altre versioni che sono in Italia più in voga e si
dividono o contendono il suffragio del pubblico»: i traduttori coinvolti sono il Marchetti,
come è ovvio, e il Tolomei, mentre i brani lucreziani scelti come campione sono l’inno a
Venere, il sacrificio di Ifigenia e la peste d’Atene. La Nota biografica è seguita da un’ampia
Prefazione (XXVII-LXXXVII) concepita, sull’esempio dei medioevali accessus ad auctores,
come introduzione generale al poema lucreziano, considerato nei suoi rapporti con la tradizione poetica latina anteriore e successiva, la temperie politica, letteraria e filosofica della
Roma del I sec. a.C., e con i fondamenti etici e fisici della dottrina epicurea. Dopo una breve
sezione dedicata alla lingua di Lucrezio, giudicata mirabile sotto molti aspetti tranne che per
il vizio d’arcaismo, segue un excursus sulla trasmissione, la fortuna e le principali edizioni
del testo lucreziano.
Mario Rapisardi73: Libri sei di T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R., Milano, Brigola, 1880;
Libri sei di T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R. Seconda edizione riveduta dal traduttore e
accresciuta di una prefazione di G. Trezza, Torino-Roma-Firenze, Loescher, 1882; Libri sei
di T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R., in Opere ordinate e corrette da esso, Catania 1896
(riproduce sostanzialmente il testo della traduzione dell’8074).
Il poeta catanese Mario Rapisardi, guadagnatosi una certa notorietà in virtù di una
clamorosa polemica col Carducci, fu con Gaetano Trezza il principale corifeo della rilettura
positivistica del poema lucreziano invalsa in Italia nell’ultimo trentennio del XIX sec.75 Fu
72
«La fece e la rifece più volte con cura e passione dedicandovi tutta la pazienza e tutta la
tenacità d’una mente laboriosa e feconda come la sua» (XIII).
73
Catania 1844-1915.
74
Alcune varianti d’autore della traduzione lucreziana, annotate dal Rapisardi sulla propria
copia delle Opere, sono state edite da A. Tomaselli, Commentario rapisardiano, con numerose
lettere di illustri scrittori a Mario Rapisardi, Catania 1932, 215ss.
75
Il culto tributato dal Positivismo al poeta epicureo, apprezzato per l’entusiasmo da neofita
con cui tesse l’elogio della ratio e combatte l’ignoranza delle cause, trova compiuta espressione
nella poetica Epistola a Lucrezio del Rapisardi, affine, per il tono innologico, agli appassionati
elogi lucreziani di Epicuro («è tua l’anima ribelle, è tua la possa / che in granitici carmi il vero
incide»). Il componimento ripercorre le tappe salienti della fortuna del De rerum natura: nella
galleria di imagines che occupa buona parte dell’epistola («l’egregio Toscan», alias Alessandro
Marchetti, «Poggio», «Aldo solerte», «Marullo audace», «Avanzio», «Crechio bizzarro», «Lambino»,
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
437
anzi proprio dal Lucrezio del Trezza (Firenze 1870 [18873]) che il Rapisardi trasse l’impulso
decisivo a cimentarsi nella versione integrale del De rerum natura, cui lavorò per circa un
ventennio76. Negli endecasillabi della traduzione lucreziana i critici hanno riconosciuto in
maniera pressoché unanime l’esito migliore della vena poetica del catanese: merito di quella
autentica simpatia e consonanza spirituale con il poeta epicureo, nel quale il Rapisardi
«sentì un altro se stesso»77. Per l’autore dei poemi filosofico-scientifici Palingenesi, Giobbe,
Lucifero, l’incontro con Lucrezio fu l’approdo naturale di una entusiastica adesione al verbo
darwiniano78. Non a caso, in una lettera del 26 aprile 1877 all’amico Filippo Zamboni
(professore di Lettere Italiane all’Accademia Commerciale di Vienna, corrispondente anche
del Carducci)79, il Rapisardi accoppiava i due profeti della ragione nell’elenco degli auctores
congeniali al suo orientamento ideologico e letterario: «ora vado per un mese in campagna,
senza altri libri che le opere di Darwin e il De rerum natura». Alla traduzione lucreziana il
Rapisardi si accostò senza ambizioni filologiche, lasciate a studiosi più competenti. Essa
doveva piuttosto assolvere un duplice scopo: per un verso, non adulterare l’austerità vigorosa e titanica del poema lucreziano, demerito di tutte le versioni precedenti80; per l’altro,
dar finalmente prova del genio poetico del traduttore, rimasto, sino ad allora, per lo più
incompreso («se un lavoro di erudizione lo possono fare parecchi in Italia, una traduzione,
modestia a parte, non la possono fare che pochi»). D’altra parte, la decisione di tradurre
Lucrezio più in veste di letterato militante che non in quella di filologo non impedì al
Rapisardi di sincerarsi del fatto che la versione fosse condotta sulle più recenti e attendibili
edizioni critiche: di qui la richiesta allo Zamboni di procurargli l’«opera magistrale del
«Lachmanno, acuta/mente divinatrice», il «buon Munro», il «divo Galilei», il «Darvinio carro»)
è facile riconoscere i traduttori, i filologi, gli esegeti, gli editori e financo gli scienziati che hanno
contribuito, a diverso titolo, a mantenere viva la fama di Lucrezio nei secoli. La fede scientista
ed evoluzionistica del Rapisardi traspare in maniera inequivocabile sul piano del lessico: si
ritrovano tutti i temi e i vocaboli chiave del gergo darwiniano, tra cui il «Vero» («tu che diritto
/ miravi al Ver con infallibil dardo»), la «Forza» che governa gli elementi del cosmo, il «pensier
gagliardo» che combatte la superstizione religiosa, la «mavorzia prole» epicurea che ha aperto
la strada alla conoscenza razionale della natura. Lo spirito marziale che pervade tutta l’Epistola
non era sfuggito al Trezza, che così concludeva la sua Prefazione all’edizione del 1882: «l’Epistola del Rapisardi a Lucrezio è impressa del suo spirito ardente e titanico; poesia tutto sdegno
contro i tartufi superstiti del mondo moderno, somigliante a lava che si rovescia da un vulcano
in fiamme. La ribellione ai gioghi dell’intelletto vi è piena e aperta; l’ironia redentrice si libra
sulle rovine olimpiche degli Dei, ed il vero scientifico vi si afferma come l’eterna salute dell’uomo [i corsivi sono miei]».
76
Dell’amicizia che legò il Rapisardi al Trezza testimonia il fitto scambio epistolare, di cui
fornisce qualche esempio Tomaselli, o.c. 143ss.
77
P. Tremoli, Mario Rapisardi traduttore di Lucrezio, «Annali Triestini» XIX (1949) 10.
78
Vd. anche I. Dionigi, L’inferno è qui. Un esempio di lettura lucreziana (De rerum natura
3, 978-1023), in AA.VV., Latina didaxis, XII, a c. di S. Rocca, Genova 1998, 19-34.
79
Traggo questa e le successive informazioni sulla corrispondenza Rapisardi-Zamboni da
Tremoli, o.c. 11ss.
80
In una lettera al Fanfani del 15 settembre 1878, riportata da Tomaselli, o.c. 70, il Rapisardi
dichiarava di volere presentare «il titano così com’è, senza fargli la barba e mettergli la cipria,
come sogliono fare tutti i traduttori».
438
MAGNONI
Munro» (Cambridge 1864 [Editio minor]), con la quale temperare le «audacie filologiche»
del Lachmann, come il traduttore avrà a ripetere nell’Avvertenza filologica premessa all’edizione del 1896. Le speranze che il Rapisardi aveva riposto nella fatica lucreziana vennero
tuttavia frustrate. Dopo la delusione per le critiche poco benevole ricevute dal suo Lucifero
(da imputarsi, come dirà all’amico Zamboni, alla pochezza delle miserae mentes di memoria
lucreziana), anche la versione del De rerum natura fu accolta da un coro di stroncature81,
suggellate dalla massima autorità letteraria vivente, il Carducci82. L’unica voce levatasi a
difesa del Rapisardi era stata quella del Trezza, suo sodale nella causa positivistica: nella
Prefazione alla versione lucreziana citata, il Veronese non esitò a tributargli entusiastiche
lodi e gli riconobbe il merito di essere riuscito, «meglio di ogni altro», nel difficile compito
di «riprodurre lo stile di Lucrezio»83.
Uriele Cavagnari84: Lucrezio. I sei libri intorno alla natura delle cose. Recati in versi
italiani da U. C. Libro primo, Roma, tip. Savio e C., 188285.
La traduzione fa parte di un opuscolo miscellaneo, che comprende anche alcuni saggi
di versione dal poema di E.D. Parny La guerre des dieux.
Francesco De Antonio86: Della natura delle cose di Tito Lucrezio Caro. Traduzione di
F. D. A., Milano, Fratelli Dumolard Editori, 188387.
Il volume, pubblicato postumo, è dedicato dalla vedova Angiolina Rossi alla città di
Alessandria e ai suoi cittadini. Alla traduzione è premessa un’introduzione, datata 1882, a firma
del Prof. Giuseppe Brambilla: dopo alcuni ringraziamenti di rito rivolti al De Antonio per
essersi cimentato nella traduzione dalle lingue classiche, impresa ardua e pur tuttavia utile
81
Si veda ad esempio quella di Ruggero Bonghi, Una nuova traduzione di Lucrezio [Rapisardi
1880], «La Rassegna settimanale» XCVI (1879) 304-307 (= R. B., Horae subsecivae, I, Roma
1883, 81-94).
82
In proposito si vedano le testimonianze raccolte in M. Rapisardi-G. Carducci, Polemica.
Introduzione di F. De Roberto, Catania 1881.
83
«Se chi traduce Lucrezio dee possedere un’anima affine alla sua, l’autore del Lucifero la
possiede. Egli è un grande ribelle a tutti i gioghi del dogma che ricomparve, con altre forme, ad
arrestare la ragione disviandola in una fede ebbra d’assurdi […]. Perciò il Rapisardi riuscì, meglio
di ogni altro, nel riprodurre lo stile di Lucrezio. Certo gli ostacoli non erano lievi, né direi che
egli li abbia superati senza lasciarvi, qualche volta, i segni delle resistenze patite. Ma nessuno
prima di lui li superò con tanta efficace vittoria [i corsivi sono miei]» (6). Gli fa parziale eco il
Mazzoni, o.c. 1408, il quale riconosce al traduttore «la straordinaria attitudine a rendere in versi
eloquenti non i concetti precisi né le immagini determinate, bensì un’esaltazione, che ha del
religioso, verso la sublimità della vita e per ciò contro quanto la mortifichi o l’abbassi».
84
Del Cavagnari (Este [Padova] 1845-?), giornalista attivo tra Venezia, Padova, Roma e
Firenze, si conosce anche una tragedia intitolata Assalonne, Roma 18832 (Napoli 18771).
85
Esemplare visionato presso la Biblioteca di Casa Carducci.
86
Alessandria 1821-1881. Ottenuta nel 1842 la laurea in medicina presso l’Ateneo di Torino, dal 1860 al 1880 fu stimato Professore di Storia Naturale al Reale Liceo di Alessandria, città
nella quale ricoprì anche le cariche di consigliere comunale e di assessore alla cultura (vd.
D. Bonardi, Cenni biografici del dott. Prof. Cav. Francesco De Antonio, «Rivista di Storia, Arte,
Archeologia della Provincia di Alessandria» XIII [1914] 304-310).
87
Copia visionata presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna.
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
439
all’incivilimento della nazione, il curatore loda le virtù poetiche e la «potenza inventiva» di
Lucrezio, pari a Virgilio nello «splendor dello stile» e nella «purità della lingua», ma a lui
superiore «nel vigore e nell’altezza dei concetti». Subito dopo avere rilevato come lo stile di
Lucrezio sia stato per lo più tradito dalle traduzioni precedenti, con la sola eccezione (sic!) della
versione di «Alessandro Marchetti che, non ostante le sue non piccole mende, da tutti gl’intelligenti si giudica la migliore», il Brambilla riconosce alla versione del De Antonio, condotta su
di una ristampa dell’edizione del Creech, «esattezza d’interpretazione e facilità di versificazione».
Antonio Nardozzi88: Amor omnibus idem (da Lucrezio, Libro II). Traduzione di A. N.,
«Lettere e Arti» I/9 (1889) 10.
Si tratta della traduzione di alcuni versi del celebre episodio della giovenca, passo fra
i più tradotti nell’Ottocento (lo stesso Foscolo vi si era cimentato a più riprese; vd. supra
p. 429). Il nome del Nardozzi è legato soprattutto ad un’apprezzata versione in endecasillabi
delle Georgiche di Virgilio 89, redatta tra il 1876 e il 1886, di cui il Carducci elogiò «la
flessuosità melodica e sfumata onde più fantastica e affettuosa spira la imagine»90.
Luigi Pinelli91: Dal De rerum natura di Lucrezio (lib. III, v. 931 e seg.), «La Biblioteca delle
Scuole Italiane» III/17 (1891) 267; Dal De rerum natura di Lucrezio (V, v. 1192 e seg.).
Traduzione di L. P., «La Biblioteca delle Scuole Italiane» IV/6 (1891) 91.
Giovan Battista Menegazzi92: L’inno a Venere di Lucrezio ed altre versioni metriche di
G.B. M., Alatri, Tip. O. De Andreis, 189293.
88
Imola 1839-1892.
Virgilio Marone, Le Georgiche. Tradotte da A. Nardozzi, seconda edizione migliorata e
accresciuta con la versione di Peleo e Teti di Catullo, Imola 1894 (18851). Per un ritratto complessivo
del traduttore, non esente da intenti celebrativi, vd. F. Lanzoni, Della vita e degli scritti del cav.
Antonio Nardozzi, commentario del Prof. Can. Co F. L., Imola 18932: di qui apprendiamo che se
«Cicerone, Cesare, Sallustio, Cornelio [furono] i suoi prosatori latini», il Nardozzi «sentiva Lucrezio
e gli doleva che mentre si porgeva solenne maestro d’eleganza, si facesse guida al materialismo» (80).
90
Il giudizio, apparso sulle pagine della «Domenica del Fracassa», è riportato integralmente
da Lanzoni, o.c. 87s. Una copia della traduzione virgiliana si trova non a caso presso la Biblioteca
di Casa Carducci, dove si conservano anche alcune lettere e biglietti di ringraziamento autografi
del Nardozzi.
91
S. Antonino (Treviso) 1839-1913 (vd. R. Binotto, Personaggi illustri della marca trevigiana.
Dizionario bio-bibliografico dalle origini al 1996, Treviso 1996, 451s.). Abbandonati gli studi
di legge a Pavia, si laureò in Lettere alla Normale di Pisa, per poi intraprendere la carriera di
Professore di Letteratura Italiana e di Preside presso il Liceo di Udine. Fu autore di varie raccolte
di versi, molto apprezzate dal Carducci, cui fu legato da sincera amicizia (come attesta il fitto
epistolario conservato presso la biblioteca della casa); ricordiamo: Affetti e pensieri, Udine 1869;
Vita intima, Milano 1876; Poesie minime con alcune traduzioni, Bologna 1880; Epigrammi e
satire, Treviso 1896.
92
Poeta, traduttore e critico letterario: cf. G.V. Catullo. L’epistola ad Ortalo ed altri carmi.
Tradotti da G.B. Menegazzi, Roma 1895; La vecchia e l’anfora. Nuove versioni metriche di
G.B. Menegazzi, Monteleone 1897; Contemplando la terra. Versi, Padova 1890; I latinismi nella
Divina Commedia, Roma 1913.
93
Copia conservata presso la Biblioteca di Casa Carducci.
89
440
MAGNONI
Si tratta di una crestologia di poesia greca e latina (classica e umanistica) in traduzione
italiana (Saffo, Anthologia Palatina, Catullo, Virgilio, Orazio, Persio, Anthologia Latina,
Pontano, Poliziano, Ariosto); i passi lucreziani tradotti sono l’inno a Venere94 (I 1-40),
l’episodio della giovenca (II 352-366), la processione delle stagioni (V 735-747).
Il libretto è dedicato al prof. Giuseppe Tambara con la seguente intestazione: «le ragioni artistiche che mi guidarono in queste traduzioni furono da me esposte in vari articoli
pubblicati, e in riassunto, in una breve prefazione alla versione delle Bucoliche di Virgilio95.
Certo, rimane sempre vera, in parte, la sentenza di Dante “Nulla cosa per legame musaico
armonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e
armonia”»96.
Andrea Ferracini97: T. Caro Lucrezio. De rerum natura. Traduzione di A. F., Vicenza,
Franzoi, 189498.
Questa traduzione del proemio lucreziano in endecasillabi sciolti figura in un opuscolo
per le nozze Pigatti-Cibele. Alcuni altri saggi di versione dal II libro99 sono stampati e
commentati dal Cisorio in due articoli apparsi sulla rivista «Il Torrazzo» del 1901, il secondo dei quali presenta un confronto, decisamente favorevole al Ferracini, con le traduzioni
del Marchetti, del Sartori e del Rapisardi 100.
94
Già apparso in «Lettere e Arti» I/33 (1889) 12.
G.B. Menegazzi, Le Bucoliche di Virgilio. Traduzione metrica, Padova, Angelo Draghi
Editore-Libraio, 1891. Nella Prefazione si legge: «Ho tentato di rendere in italiano sicuramente,
[…] senza irreligiose zeppe o parafrasi, dal testo criticamente curato, col senso dell’originale
anche il suono del verso e gli enjambements che sono così caratteristici nello stile di Virgilio; di
riprodurne il disegno del verso e della frase; di conservare, quando e quanto l’indole di nostra
lingua il conceda, il pensoso e poetico vocabolario virgiliano. Insomma, ho tentato ogni mezzo
perché il verso la lingua lo stile ritenessero, più ch’è possibile, i caratteri dell’originale. Esser
riuscito da per tutto non credo, in molti tratti lo spero».
96
Sulla celebre sentenza dantesca (Conv. I 7,14s.), alla quale si sono appellati i numerosi
sostenitori dell’intraducibilità della poesia dall’Umanesimo sino al Novecento (da Croce a Jakobson),
si veda G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino 1991, 27ss.
97
Novoledo di Villaverla (Vicenza) 1857-Vicenza 1908. Abbandonata la carriera di farmacista per dedicarsi agli studi letterari, a partire dal 1887 insegnò dapprima al Liceo di Marsala
e successivamente presso la Scuola Industriale Rossi di Vicenza, coniugando cultura umanistica
e interessi scientifici (Alla scienza. Versi, Padova 1880; Una lezione di geometria piana. Versi,
Vicenza 1893; Nozze Bassani-Trivellato. Allo sposo. Poesia epitalamica, Vicenza 1893); vd.
S. Rumor, Gli scrittori vicentini dei secoli decimottavo e decimonono, I, Venezia 1905, 593.
98
L’esemplare di cui ho preso visione si trova presso la Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze.
99
II 1-61; 146-158; 483-502.
100
Vd. supra n. 15. Alla traduzione del vicentino sono riconosciute «varietà di ritmo, chiarezza di pensiero […] lingua di buona tradizione italiana, fedeltà religiosa anche nei passaggi più
ardui, forma non istentata né ricercata, spezzatura del verso artistica e armoniosa» (10). A quanto
ci risulta, il Ferracini non pubblicò nessun’altra traduzione lucreziana, benché il Cisorio affermi
di avere visionato «il manoscritto dell’intero primo libro e il principio del secondo» (7).
95
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
441
Carlo Lanza101: La pestilenza nel poema di Lucrezio e nel poema di Virgilio, «AAP» XXV/
17 (1895) 1-12102.
Garibaldino e antiborbonico, socio di diverse associazioni culturali tra cui l’Accademia
Pontaniana, il Lanza tenne l’insegnamento di Letteratura Greca e Latina, dapprima al Liceo
Umberto di Napoli, successivamente presso il Liceo Genovesi, dove insegnò sino all’anno
della morte. Svolse un’intensa attività di esegesi sui testi classici, fu autore di dissertazioni
monografiche (Cicerone e Sallustio) e curatore di diversi strumenti ad uso scolastico (manuali e antologie). Prolifico volgarizzatore sia dal greco – Colluto Tebano, Trifiodoro,
Esiodo, Apollonio Rodio, Museo – che dal latino (Catullo, Virgilio, Orazio, Petronio e
naturalmente Lucrezio), teorizzò e praticò la versione libera in base alla convinzione che
«quanto meno vedete voi il traduttore, meno la versione è imperfetta, e in quel luogo, in cui
non lo vedete più, l’opera è veramente perfetta»103.
Raffaele Elisei104: Nozze Brizi-Elisei. Invocazione a Venere. Traduzione dal poema La natura
di Lucrezio, Firenze, Tipografia di S. Landi, 1896105.
La traduzione, che il volgarizzatore avverte essere stata eseguita di getto sul testo
critico del Bernays, venne offerta dai fratelli Elisei come dono per le nozze della sorella
Clotilde con Alfonso Brizi.
Emanuele Armaforte106: Da Lucrezio. Inno a Venere. Traduzione di E. A., Palermo 1902
(con dedica alla Nobile donna Contessa Maria Airoldi di Lecco)107.
È l’ultima delle traduzioni ottocentesche di Lucrezio di cui abbiamo notizia, e anzi
sconfina nel secolo seguente: il testo della traduzione fu ripubblicato nel 1928 sulla rivista
«Atene e Roma» (n.s. IX 73s.)108.
101
Foggia 1834-Napoli 1908.
Si tratta della traduzione del finale lucreziano della peste (VI 1089-1384) e della pestilenza del Norico del III libro delle Georgiche (vv. 475-565). Per un profilo del Lanza latinista
e traduttore, vd. Patrizia Ippolito, Carlo Lanza, in La cultura classica a Napoli nell’Ottocento,
Napoli 1987, 669-676.
103
Trifiodoro. Lo sterminio di Troia, «AAP» XIV (1881) 265.
104
Assisi 1870-Firenze 1957 (cf. ABI I 378,422s.). Tra le altre opere, si ricordino anche Di
un passo controverso nella canzone all’Italia di G. Leopardi, Perugia 1901; Della città natale di
Sesto Properzio, Roma-Assisi 1916; Euripide. Le Baccanti. Con ampio commento esegetico grammaticale sintattico ed etimologico delle parole del prof. R. Elisei, Firenze 1930; Orazio lirico
maggiore. Scelta di 44 odi e 6 epodi con prefazione e commento del prof. R. Elisei, Firenze 1935.
105
Un esemplare dell’opuscolo è posseduto dalla Biblioteca di Casa Carducci.
106
Altofonte (Palermo) 1870-New York 1926.
107
Ne ho visto copia presso la Biblioteca di Casa Carducci.
108
Da una succinta nota biografica che accompagna la traduzione apprendiamo che l’Armaforte
fu autore, oltre che di una Grammatica e di una Sintassi latine (Palermo 1926), anche di apprezzati componimenti poetici in lingua latina, che nel 1911 gli valsero il secondo posto, dopo
Giovanni Pascoli, al concorso bandito per la celebrazione del Natale di Roma (vd. Carmina
praemiis et laudibus in certamine poetico ornata quod S.P.Q.R. edidit ad Diem Natalem Urbis
anno ab regno Italico instituto L. sollemniter celebrandum, Romae MCMXI).
102
442
MAGNONI
Carlo Leardi109: T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Traduzione di C. L., con una
Prefazione di F. Gabotto, Tortona 1918 110.
Per ultime segnaliamo alcune traduzioni a tutt’oggi irreperibili o che presentano ancora
ampi margini di incertezza, per lo più relativi all’identità del traduttore, che sinora non è
stato possibile colmare con l’ausilio dei repertori biografici disponibili:
Cl. Quaranta111
A quanto mi risulta, la sola testimonianza sul volgarizzamento in prosa del Quaranta
è quella offerta da V.E. Alfieri, Lucrezio, Firenze 1929, 218 nell’àmbito di un giudizio assai
severo nei riguardi dei traduttori lucreziani: «nessuna traduzione italiana merita di essere
citata, non quella classica e rimbombante del Marchetti, non quella del Rapisardi, non quella
del Vanzolini, neppure il tentativo in prosa di Cl. Quaranta (libro VI), perché tutte danno
un’immagine gravemente alterata del poeta: non mantengono il tono dell’originale, cosa
pressoché impossibile, né della poesia sono buoni commenti».
Luciano Chiesa: Titi Lucretii Cari De rerum natura libri sex. Libro primo recato in versi
italiani da L. C., Alessandria, Jacquemod, 1874112.
Michele Psaila: T. Lucrezio Caro. La natura, libri sei. Traduzione di M. P., Napoli, Detken
e Rocholl, 1895113.
A conclusione di questa rassegna bio-bibliografica, procederemo con un sintetico esame comparativo circa la ratio vertendi dei nostri traduttori, utilizzando
come cartina di tornasole l’esordio del De rerum natura, l’inno a Venere, passo fra
i più fortunati e discussi del poema114. Per parte nostra, non pretendiamo di fornire
contributi originali ad un brano così vexatus, né intediamo soffermarci sui singoli
problemi. Piuttosto, tenendo fede alla prospettiva di studio che ci interessa, ci
limiteremo a rilevare che, fra le traduzioni lucreziane ottocentesche, il proemio
vanta non a caso un numero di tentativi superiore a qualsiasi altro episodio all’in109
Viguzzolo (Tortona) 1835-1882 (vd. ABI I 557,395s.). Per un profilo del Leardi, deputato in Parlamento fra i banchi della Sinistra (fu Segretario delle Finanze durante il primo gabinetto Cairoli), vd. L. Leardi Antongini, Cenni biografici di Carlo Leardi, Firenze 1883.
110
Ma la data di pubblicazione non deve trarre in inganno, giacché la traduzione, «terminata
da molti anni» (così Gabotto, o.c. XXIII), ha come termine ante quem il 1882, anno di morte del
traduttore. La copia da me visionata si conserva presso la Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze.
111
Un Clinio Quaranta è menzionato nel CLIO come autore di traduzioni da Virgilio, Marziale e Anacreonte, copie delle quali si trovano presso la Biblioteca di Casa Carducci (inviate in
dono dal Quaranta stesso, che figura non a caso tra i corrispondenti del Professore bolognese).
112
Di questa traduzione non sono riuscita a trovare copia fino ad ora.
113
Se ne conserva una copia presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
114
Una disamina particolareggiata dei primi otto versi del proemio lucreziano nella versione del Vanzolini e del Rapisardi ha condotto Dionigi, Un traduttore cit. 70-72.
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
443
terno del poema, ed è pertanto il candidato migliore per l’indagine che ci proponiamo. Va da sé che, per la patina linguistica arcaica e lo stile alto in cui è composto,
evidenti sin dal grandioso attacco Aeneadum genetrix (probabile ricordo dell’enniano
te †saneneta precor, Venus, te genetrix patris nostri, Ann. 58 Sk.115), il testo dovette
rappresentare un difficile banco di prova per i volgarizzatori.
Considerando l’ampiezza (43 esametri) e la complessità concettuale del passo,
anziché addentrarsi in un esame dettagliato delle singole versioni (ben diciannove,
i cui testi vengono comunque riprodotti per intero nell’Appendice)116, abbiamo
interpellato la sensibilità linguistica e la vocazione esegetica dei traduttori su alcune questioni significative. In primo luogo (A), si è verificato come vengono resi in
italiano certi tratti linguistici e stilistici lucreziani di matrice epico-tragica, e
segnatamente enniana, quali gli aggettivi composti e gli arcaismi (in particolare
morfologici), che conferiscono solennità al dettato e trovano nel genus grande del
proemio la propria sede naturale117. Contestualmente, si è inteso portare un piccolo
contributo alla storia dell’esegesi italiana del De rerum natura, sondando la reazione dei traduttori rispetto a singoli vocaboli o locuzioni di interpretazione dubbia o
problematica, che meglio di altri rivelano l’acume interpretativo di chi traduce.
Nell’àmbito del nostro campione testuale, la scelta è ricaduta naturaliter su due
casi: concelebras (v. 4) e ferae pecudes (v. 14)118. In secondo luogo (B), l’intertestualità,
115
L’incomprensibile saneneta è stato oggetto di numerose proposte di emendamento, tra
cui nunc sancta del Colonna, sale nata del Vahlen e Aeneia dello Skutsch, il quale vi sente un
possibile riferimento alla `Afrodivth Aijneiav" cui era dedicato un tempio ad Ambracia (vd. The
Annals of Q. Ennius, ed. with introd. and comm. by O. S., Oxford 1985, ad l.).
116
Alle diciotto traduzioni ottocentesche si è ritenuto opportuno associare, in quanto inedita, anche la traduzione tramandata sotto il nome dell’Allainig, ascritta al XVIII sec. (vd. supra
pp. 458s.).
117
Sui diplâ onómata come marca peculiare della Dichtersprache rinvio ai contributi compresi nel volume La lingua poetica latina, a c. di A. Lunelli, Bologna 19883, in particolare
H.H. Janssen, Le caratteristiche della lingua poetica romana 121ss. e M. Leumann, La lingua
poetica latina 169ss.
118
Ad un discorso analogo si presta anche il v. 41 (nam neque nos agere hoc patriai
tempore iniquo), di interpretazione controversa: più di uno studioso, infatti, ha tentato di inferire
notizie circa la cronologia del poema a partire dalla vaga determinazione temporale patriai
tempore iniquo, che a qualcuno è parsa alludere, se non ad una specifica guerra in corso, quantomeno
ad una situazione di generale instabilità politica e sociale della res publica (cf. anche talibus in
rebus del v. 43; contra, F. Giancotti, Ipotesi cronologica. Il patriottismo di Lucrezio e il precetto
LAQE BIWSAS, in Il preludio di Lucrezio e altri scritti lucreziani ed epicurei, Messina-Firenze
1978, 139-155, al quale si rimanda per una rassegna delle varie ipotesi). In questa sede però
importa soprattutto notare che la maggior parte dei traduttori concorda nell’intendere il dimostrativo hoc come ablativo riferito a tempore (Allainig «tra i romor bellici, in cui trovasi / ora la
patria»; Leoni «in questo tempo, sì a la patria iniquo»; Renieri «in questa […] avversa etade»;
Mazzarella «in questa […] iniqua etade»; Carrer «in tal […] / età dira»; Cipriani «in tali tempi
[…] avversi»; Tolomei «in questi giorni […] iniqui»; Sartori «in questi / […] perversi tempi»;
Psaila «in questi tempi / tristi»; Armaforte «sì iniqui alla patria anni volgendo»; Leardi «in questi
444
MAGNONI
cui è interamente dedicato il paragrafo conclusivo, oltre ad alcune osservazioni
sparse nel corso dell’analisi. Il nostro intento è mostrare come nell’officina di
lavoro dei traduttori entrino in gioco due differenti forme di memoria intertestuale:
se le frequenti analogie e coincidenze testuali attestano una costante imitatio/aemulatio
verso i precedessori (anzitutto il Marchetti), più significative risultano alcune reminiscenze, probabili allusioni e persino autentiche citazioni letterarie, che rinviano
ad auctores individuabili o, più genericamente, alla langue codificata e dunque
anonima. Dove possibile, ho provveduto a segnalare tali riscontri (anche soltanto
per via ipotetica), non già per mera crenofilia, ma per ragioni di senso: talvolta,
infatti, soltanto l’agnizione dei possibili modelli (italiani o latini che siano) presenti
alla memoria del traduttore consente di chiarire opzioni stilistiche singolari e persino scarti vistosi rispetto all’originale. A questo si somma poi un secondo motivo
di interesse. Chiunque abbia un minimo di familiarità con le traduzioni prodotte
nella temperie del classicisimo ottocentesco non esiterà a riconoscere in queste
versioni ‘musive’ un segno dei tempi e quasi una marca di scuola. L’ossequio per
i campioni della stagione letteraria del Tre-Cinquecento (da Dante, numen onnipresente
nella coscienza linguistica dell’Ottocento, fino a Tasso) e, soprattutto, l’esempio
magistrale dell’Iliade di Vincenzo Monti – il quale aveva sentenziato, come è noto,
che «quando si traduce, non è più la lingua del tradotto, a cui si debbono i primi
riguardi, ma quella del traduttore»119 – fanno sì che, non di rado, la stretta aderenza
all’originale sia preoccupazione meno urgente che riecheggiare ‘i testi di lingua’
della letteratura nazionale, riesumandone movenze e formule collaudate120. Se dunfortunosi / tempi») anziché come complemento oggetto di agere (nel senso di ‘condurre avanti
questa impresa poetica’, come lasciano intendere Rapisardi «attender […] io non potrei / […]
all’opra», De Antonio «compir io non potrei / l’opra incoata»): a favore di questa seconda
opzione, preferita dalla quasi totalità degli editori e commentatori lucreziani recenti, depongono
sia il confronto con IV 969 [in somnis videmur] nos agere hoc autem et naturam quaerere rerum,
sia la caratura solenne di cui è dotata l’espressione agere hoc, formula di origine rituale poi
passata nel linguaggio ordinario (vd. Bailey, o.c. ad l. e Lucrèce. De rerum natura. Comm.
exégét. et crit. par A. Ernout et L. Robin, I-III, Paris 19622, ad l.).
119
Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade, in Opere, a c. di
M. Valgimigli e C. Muscetta, Milano-Napoli, 1953, 1028s.
120
Su questo tratto peculiare del Monti traduttore, si vedano I. De Luca, L’«Iliade» del
Monti, in Tre poeti traduttori. Monti, Nievo, Ungaretti, Firenze 1988, 11-53 e A. Bruni, Cesarotti
nell’«Iliade» di Vincenzo Monti, in Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre Cesarotti, a
c. di G. Barbarisi-G. Carnazzi, Milano 2002, 661-724. Vero è che il recupero della letteratura
nazionale nella traduzione dei testi latini e greci vanta origini più antiche dell’Iliade montiana:
si pensi, per fare solo due nomi eccellenti, alla cinquentesca Eneide di Annibal Caro o al seicentesco
‘Lucrezio toscano’ di Alessandro Marchetti. Tuttavia, nel classicismo ottocentesco, tale prassi
sembra essere portata a sistema e acquisire significati inediti, soprattutto alla luce della «restaurazione del culto di Dante» – per riprendere le parole del Dionisotti (Varia fortuna di Dante, in
Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1977 2, 266) – che impronta l’intero secolo:
in merito si vedano, tra gli altri, Scuola classica romagnola cit. passim; V. Citti, Traduzione e
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
445
que un’autorità riconosciuta come Vincenzo Monti, il «tesoriere musaico» della
tradizione italiana illustre (secondo la felice definizione del Russo121), non aveva
esitato a rivestire l’originale con le «finissime lane» degli auctores italiani122, non
dovrà sorprendere che anche i nostri ben più modesti traduttori abbiano ceduto al
richiamo della tradizione. Delle forme e degli esiti concreti del riuso intertestuale
ci occuperemo tra breve. Tuttavia, anticipando i risultati della nostra indagine, è
bene precisare sin d’ora che soltanto in una minoranza di casi la reminiscenza dotta
incastonata nel testo presuppone un’effettiva corrispondenza, concettuale e/o formale, tra il locus classico e l’auctor italiano fruito dal traduttore, come invece
accade in altri volgarizzamenti ottocenteschi, quali la Farsaglia del Cassi (per la
coppia Lucano-Dante) o il meno noto De rerum natura di Giuliano Vanzolini (per
la coppia Lucrezio-Dante)123. Nelle traduzioni lucreziane esaminate, le tessere d’autore
di rado svolgono una funzione esegetica; più di frequente, esse rispondono ad una
esigenza di ornatus, ossia innalzano e impreziosiscono il dettato124, alla stregua di
arcaismi e latinismi (linguistici e semantici), collaudati o di nuova formazione. Per
concludere, malgrado l’esiguità del campione testuale considerato, si ha l’impressione che i nostri traduttori, con la sola eccezione del Rapisardi, in linea generale
attingano dal serbatoio della tradizione non già per scrupoli di ordine etico o ideologico – che pure non sarebbero suonati fuori luogo trattandosi dell’epicureo
Lucrezio125 – ma per ragioni squisitamente estetico-letterarie: ora per esibire la
propria cultura letteraria, ora per bilanciare il nitore formale del testo classico con
le glorie letterarie nazionali, secondo quella norma del ‘compenso’ che aveva giocato un ruolo decisivo nella riflessione ottocentesca sul tradurre126.
rapporti intertestuali, in La traduzione dei testi classici. Teoria, Prassi, Storia. «Atti del Convegno di Palermo (6-9 aprile 1988)», a c. di S. Nicosia, Napoli 1991, 91-102; M. Mari, Momenti
della traduzione fra Settecento e Ottocento, Milano 1994, passim.
121
Vincenzo Monti e la letteratura moderna, in Ritratti e disegni storici, III. Dall’Alfieri al
Leopardi, Firenze 19632, 164.
122
L’espressione è ancora del Monti, che la usa nelle Considerazioni cit. 1032.
123
Per le riprese della Commedia nella traduzione del Cassi (che gioca in modo virtuosistico
sui luoghi in cui la Commedia dipende dalla Farsaglia lucanea) e del Vanzolini (che addita
alcune suggestive analogie linguistiche tra i due poeti, a dispetto della mancata conoscenza di
Lucrezio da parte dell’Alighieri), si vedano rispettivamente Nonni, La Farsaglia del Cassi cit.
passim e Magnoni, Leggere Lucrezio con Dante cit. 97-119.
124
Sull’omologia funzionale che lega il meccanismo dell’arte allusiva ai tropi in generale,
vd. G.B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario. Catullo Virgilio Ovidio Lucano, Torino
19852, 13s.
125
Secondo un costume ben attestato fino a tutto il Settecento e oltre: sentenze moraleggianti
di ispirazione cristiana miranti ad adeguare i testi pagani alla sensibilità moderna abbondano, ad
esempio, nelle traduzioni omeriche del Cesarotti (in particolare nella seconda versione poetica,
intitolata La morte di Ettore), per cui si veda M. Mari, Le tre Iliadi di Melchiorre Cesarotti, in
Momenti della traduzione cit. 161-235.
126
L’esigenza di ‘compensare’ la perdita di elementi significativi del testo originale, già
446
MAGNONI
A.
v. 3 navigerum (scil. mare)
A partire dal Renieri, risulta maggioritaria la traduzione-ricalco: navigerum127, neologismo
lucreziano occasionalmente ripreso nella letteratura posteriore (Marziale, Ausonio), è traslitterato
in «navigero», latinismo acquisito alla lingua letteraria a partire dalla traduzione dell’Odissea
del Pindemonte (XV 545). D’altra parte, sulla scia del Marchetti, che aveva oscurato l’aggettivo composto nel semplice «profondo», topico del mare, nell’Ottocento rifuggono dal
latinismo il Leoni, il Mazzarella, il Cipriani, il Tolomei, lo Psaila, l’Elisei, l’Armaforte e il
Leardi: mentre i primi due optano per «navigabil», la soluzione «navigato», adottata da tutti
gli altri, ripropone un modulo risalente all’Eneide del Caro (III 251 «rinavigando il navigato
mare», dove il traduttore cinquecentesco aveva reso mediante la figura etimologica il sema
virgiliano della ripetizione: rursus … remenso / … ire mari [III 143s.]). C’è poi anche chi,
come il Merenda, annacqua il composto nella perifrasi esornativa («il mar che ha carco / di
navi il dorso»), che potrebbe avere il proprio modello diretto in Tasso, Gerusalemme Conquistata XVI 55 «mentre il mar carco, e le minute arene / son di schiere, e di navi, e d’auree
spoglie».
v. 3 frugiferentis (scil. terras)
Il composto a terminazione participiale frugiferentis128, hapax quasi assoluto con una
probabile matrice enniana (cf. Ann. 510 Sk. terrai frugiferai) 129, è conservato unicamente dal
tardo Menegazzi, che osa il probabile neologismo «frugiferente»130; appena più cauto era
presente nella trattatistica del Settecento (per cui vd. Claudia Fanti, Teorie della traduzione nel
Settecento italiano. Note e discussioni, Bologna 1980, in part. 21ss.), fu particolarmente sentita,
nella prima metà del secolo XIX, dagli esponenti della Scuola classica romagnola: questo spiega
in gran parte una tipologia di traduzione che si propone di sostituire «alle grazie latine le grazie
italiane» (sono parole di Paolo Costa), e che, come ricorda il Ferratini, per «bilanciare l’originale,
perfetto nelle sue intatte misure classiche», ricorre «a una lingua altrettanto pura e decantata, resa
disponibile da una tradizione non meno nobile» (o.c. 191).
127
Sui composti in -fer e -ger, tra i più rappresentati in Lucrezio, vd. J.C. Arens, -Fer and
-Ger. Their Extraordinary Preponderance among Compounds in Roman Poetry, «Mnemosyne»
s. 4 III (1950) 241-262. Per l’elenco complessivo dei composti lucreziani si veda T. Lindner,
Lateinische Komposita. Morphologische, historische und lexikalische Studien, Innsbruck 2002,
276-278.
128
Per questa tipologia di aggettivi, di cui il poema offre diversi esempi (cf. tra gli altri, I
945 suaviloquens, II 878 e V 789 pennipotens, II 942 omnituens), vd. il classico Françoise Bader,
La formation des composés nominaux du latin, Paris 1962, 254-260 (Noms d’agent en -nt-: di
frugiferens si parla a p. 259).
129
Il lessema lucreziano tornerà, e col medesimo referente, nel solo Iuvenc. II 549 (terrarum
frugiferentum).
130
Per questa tendenza a tradurre il novum verbum dell’autore antico con un vocabolo che
suoni parimenti nuovo nella lingua d’arrivo è d’obbligo il rinvio al Leopardi, che nello Zibaldone
(luglio o agosto 1817) dedica interessanti osservazioni alla resa italiana di quei composti creati
«a bella posta» dagli scrittori greci: «un’osservazione importantissima intorno alle traduzioni, e
che non so se altri abbia fatta, e di cui non ho in mente alcuno che abbia profittato, è questa. Molte
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
447
stato il Renieri, il quale aveva ripiegato su «fruttifero», latinismo composto pluriattestato
dal Duecento in avanti. Nelle altre traduzioni il composto è in prevalenza soppiantato dal
semplice e più opaco «ferace», latinismo standardizzato nella lingua letteraria in relazione
alla terra e dotato di un color lucreziano (cf. II 1098 terras … feraces); in alternativa,
troviamo i più prosaici «fruttuoso» (Carrer, Cipriani, Psaila), «pingue» (Mazzarella, Elisei)
e «ubertose» del Tolomei (e poi del Sartori, del Rapisardi e dell’Armaforte). Fanno eccezione il Merenda e il Leardi: il primo opta anche qui (come già nel caso di navigerum, vd.
supra p. 446) per una circonlocuzione, «la terra / che di spiche s’adorna» (a margine si
noterà che nella traduzione i termini mare/terra con relativi epiteti compaiono in sequenza
invertita rispetto al latino); il Leardi sceglie la iunctura arcaizzante di matrice quattrocentesca «la di biade / terra altrice», già riattivata nell’Ottocento dal Pindemonte131.
v. 18 frondiferasque (scil. domos)
Il composto (altre 2 occorrenze in Lucrezio: I 256 [silvae], II 359 [nemus]) si trovava
già nel teatro di Nevio (Trag. 22 R.3 frondiferos locos) e ritornerà nel solo Seneca tragico
(Oed. 274 [nemora]). Benché dotato di una coloritura epicheggiante (cf. Pindemonte, Odissea
XX 338 «bosco frondifero»), il calco «frondiferi» non riscuote molta fortuna tra i volgarizzatori:
lo troviamo infatti nel solo Rapisardi («case frondifere»). Le altre soluzioni lessicali si
dispongono entro un arco sinonimico in cui trovano posto forme participiali di impiego per
lo più prosastico («frondeggianti alberghi» traduce il Leoni, seguito alla lettera dallo Psaila),
vocaboli dalla patina letteraria quali l’arcaizzante «fronduto» (Renieri) e l’allotropo «fronzuto»
(Vanzolini, Cavagnari e Ferracini) e infine il più neutro «frondoso», adottato già nel Settecento dall’Allainig e poi molto sfruttato nell’Ottocento (Mazzarella, Carrer, Merenda, Cipriani,
Tolomei, Sartori, Menegazzi, Elisei e Leardi, presso gli ultimi due nella iunctura «frondosi
alberghi» di cui offre esempi il Tasso delle Rime [1066,6 e 1069,9, in entrambi i casi al
singolare]). C’è poi chi (De Antonio e Armaforte), sull’esempio del Marchetti («boschi
ombrosi»), oscura la ricercata perifrasi lucreziana in una più generica determinazione
paesaggistica («foreste ombrose»), non priva, tuttavia, di risonanze poetiche132.
v. 29 fera moenera militiai
La iunctura in questione (lett. «feroci doveri della guerra»), che ricompare quasi identica al v. 32 con variatio lessicale del determinante (belli fera moenera), esibisce una
volte noi troviamo nell’autore che traduciamo p.e. greco, un composto una parola che ci pare
ardita, e nel renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e fatto questo siamo contenti.
Ma spessissimo quel tal composto o parola comechè sia, non solamente era ardita, ma l’autore
la formava allora a bella posta, e però nei lettori greci faceva quell’impressione e risaltava nello
scritto come fanno le parole nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle tante parole
dell’Alfieri p.e. spiemontizzare ec. ec. Onde tu che traduci, posto ancora che abbi trovato una
parola corrispondentissima proprissima equivalentissima, tuttavia non hai fatto niente se questa
parola non è nuova e non fa in noi quell’impressione che facea ne’ greci» (Zibaldone, edizione
commentata e revisione del testo critico a c. di R. Damiani, Milano 1997, I 17).
131
Cf. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili 31,2; Pindemonte, Odissea XIX 499-501 «d’uomini
e donne / su l’altrice di molti immensa terra / spavento io fui».
132
Oltre al Pindemonte, Odissea XIII 240, dove la iunctura torna identica, si vedano anche
Boiardo, Orlando Innamorato II 21,14 e Tasso, Gerusalemme Liberata XII 29.
448
MAGNONI
studiata patina arcaica (tanto nella grafia dittongata moenera quanto nella forma del genitivo
militiai) che conferisce solennità al dettato. Prima di Lucrezio il nesso munera militiai, che
conoscerà un discreto impiego nella storiografia (Cesare, Livio e Tacito) e nell’epica tarda,
compare nel frammento di una Menippea di Varrone intitolata Kosmotoruvnh. Peri; fqora'"
kovsmou133. Ma veniamo ai traduttori. Mentre il Marchetti aveva concentrato la resa del
dettato lucreziano, agglutinando le due espressioni lucreziane sinonimiche (vv. 29 e 32, vd.
supra) nella locuzione topica «il fiero Marte» (capillarmente attestata dal Boccaccio al
Monti), «i fieri ludi» del Leoni (riecheggiato dal Vanzolini e dal Tolomei con «il fiero ludo
dei brandi») presuppongono con ogni probabilità il celebre incipit delle Stanze polizianee134.
A considerazioni analoghe si presta la metonimia «campi cruenti» del Cavagnari («de’
campi / cruenti il nume, Marte armipossente», che rende assai liberamente quoniam belli
fera moenera Mavors / armipotens regit), la quale mostra una rispondenza più che sospetta
con un passo montiano (riecheggiato, a quanto pare, anche dal Manzoni)135. Gli altri traduttori si attengono per lo più al lessico marziale standardizzato nel registro epico-tragico,
riattivando talora locuzioni di consolidato uso letterario: «il militar furore» (Renieri), «i feri
della guerra travagli» (Mazzarella), «l’aspre guerresche fazïoni» (Carrer), «l’ire di guerra»
(Merenda), «l’armi» (Cipriani), «l’empie fiamme di guerra» (Vanzolini), «il furore empio
di guerra» (Sartori), «gli acri studj dell’armi» (Rapisardi), «i ludi dell’armi» (De Antonio),
«de le pugne le rabbie» (Menegazzi), «le crude opre di guerra» (Ferracini), «i giuochi aspri
di guerra» (Psaila), «l’aspre militari fatiche» (Elisei), «strepito de l’armi» (Armaforte),
«l’opre di guerra» (Leardi)136.
v. 33 armipotens (scil. Mavors)
L’epiteto di Marte armipotens, già impiegato da Accio come attributo di Minerva
(Trag. 127 R.3), è poetismo caro, tra gli altri, a Virgilio, che lo applica sia ad eroi (Aen. VI
839, Achille) che a dèi (IX 717, Marte). Nell’intento di preservare la caratura solenne
dell’espressione lucreziana, la maggioranza dei traduttori (Leoni, Mazzarella, Carrer, Vanzolini,
Rapisardi, Cavagnari, Ferracini, Psaila, Armaforte, Leardi) opta per «armipotente» (anche
nella variante «armipossente»), latinismo di origine trecentesca (Boccaccio, Teseida VII 32)
tornato in auge nella poesia classicheggiante dell’Ottocento per opera del Monti e del Pindemonte
(rispettivamente Iliade IV 151 e Odissea XXII 251), alle prese con l’arduo compito di
133
Si tratta del fr. 223 fera militiai munera belli ut praestarem (vd. Marcus Terentius Varro.
Saturae Menippeae, hersg., übers. und komm. von W.A. Krenkel, St. Katharinen 2002, 394-398), dove
sia fera che militiai risultano correzioni del Palmerius rispettivamente in luogo delle lezioni sera e
militia in, tràdite nei codici di Nonio (538,20s. M. = 863 L.); militia si legge viceversa nell’edizione
di Buecheler (Petronii Saturae rec. F.B. Adiectae sunt Varronis et Senecae Saturae similesque
reliquiae ex ed. sext. anni MDCCCCXXII a Guilelmo Heraeo cur. rep. et suppl., Berolini 1958).
134
Stanze I 1 «Le gloriose pompe e’ fieri ludi / della città che ’l freno allenta e stringe / a
magnanimi Toschi». Ma va detto che la stessa iunctura compare anche in due opere del de’
Medici (De summo bono 1,93 e Selve 2,11) pressapoco coeve a quella del Poliziano.
135
Mascheroniana 3,139s. «su i cruenti suoi campi più non freme / di Marte il tuono»;
Adelchi (At. 3, Coro 65).
136
Per fermarsi ad un unico esempio, «strepito dell’(d’/de l’) armi» ricorre diffusamente, sia
in prosa che in poesia, dal Boccaccio (Filocolo I 17) al D’Annunzio (Elegie romane, Felicem
Niobem! 20).
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
449
tradurre in italiano gli epiteti formulari omerici137. Retaggio della dizione arcaica è pure
l’altro latinismo, «belligero»138, adottato dal solo De Antonio («il belligero Iddio Marte
Gradivo»): qui il teonimo entra in un cumulo di epiteti altisonanti tra cui spicca il latinismo
«Gradivo», attributo topico di Marte sin dal Cinquecento139, già precedentemente adottato
dal Leoni e dal Tolomei («Gradivo armipotente»). All’artificiosa pesantezza del composto
altri traduttori preferiscono ora (Renieri, Menegazzi) la circonlocuzione di memoria alfieriana
«possente in armi» (cf. Polinice at. 1, sc. 4, v. 264), ora il latinismo «bellicoso» (Elisei e,
in unione con «armipotente», Cipriani), che, sempre in riferimento al dio della guerra, vanta
diversi esempi nella lingua poetica (dal trecentesco Serdini [15,40] al Pindemonte [Odissea
VIII 353]). Armipotens è invece del tutto soppresso nel Sartori, che converte teonimo e
relativo epiteto nella locuzione «dell’armi il Dio», la cui trafila corre dal Tassoni (La secchia rapita II 56) al Monti (Iliade V 587), passando per il Marino (Adone I 2, etc.) e l’Alfieri
(Satire 10,16).
Loci di interpretazione dubbia:
1) La voce concelebras (v. 4), qui riferita all’azione vivificatrice che Venere-voluptas
esercita sulla triade topica cielo/mare/terra, è stata variamente intepretata. A partire dal Pius
(1511)140, editori e commentatori hanno inteso il vocabolo ora nel senso etimologico di
«popoli», «affolli di creature» (così il Lambino [1564]), con cui il verbo è certamente
impiegato in II 344s. (variae volucres, laetantia quae loca aquarum / concelebrant)141, ora
in quello più ampio, comprensivo anche del primo, di «vivifichi», «riempi della tua presenza
137
La questione di come rendere adeguatamente la formulità omerica, dibattuta sin dal
Settecento (dai francesi Perrault e La Motte agli italiani Salvini, Maffei, Cesarotti), coinvolse
anche i principali traduttori ottocenteschi di Omero, dal Monti, al Foscolo e al Pascoli, i quali
adottarono soluzioni non univoche: per il Monti, incline a sostituire il composto con aggettivi
semplici, esornativi e di risonanza letteraria, vd. M. Mari, Introduzione all’Iliade montiana, in
Momenti della traduzione cit. 347-392: 362ss.; per il Foscolo si veda A. Bruni, Foscolo traduttore del primo canto dell’Iliade, «Filologia e critica» IV (1979) 280-321: 308s.; per il Pascoli,
le cui traduzioni perseguono «la rivitalizzazione semantica» dell’epiteto, recuperandone «l’immagine originaria, oblitterata nel grigiore della lingua comune», vd. A. Traina, Il latino del
Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico, Firenze 19712, 170-172 e Retractationes Pascolianae,
«Rivista Pascoliana» XV (2003) 181 (con bibliografia). Di tutti e tre i traduttori si occupa, con
risultati invero deludenti, D. Zoppi, I traduttori di Omero e la formularità, «AFLM» XVI (1983)
447-482.
138
«Belligero Marte» si trovava nel Boccaccio (Comedìa delle ninfe fiorentine XXXVIII
15) e nella quattrocentesca Hypnerotomachia Poliphili del Colonna (6,8; 11,3; 28,3).
139
Così nell’Ariosto (Cinque canti 1,98) e nella Traduzione delle deche di Tito Livio di
Jacopo Nardi (1554,7; vd. GDLI VI 1011), ma più di frequente «Gradivo» è impiegato in sostituzione del teonimo (cf. e.g. Marino, Adone XII 84; Redi, Bacco in Toscana 649; Parini, Il giorno
[II red.], Meriggio 359; Pindemonte, Odissea VIII 466; Monti, Musogonia 577 e Iliade II 840).
140
«Auges tuo dulci initu: ut ita multiplicata celebria sint et populosa. Vel concelebras,
frequentas: penetras enim in viscera maris et in terras: afflatuque tuo feminali mare terramque
non minus auges quam laetificas», ad l.
141
Così anche il ThLL IV 18, che registra entrambi i passi lucreziani sotto la prima accezione di concelebro «frequentare, inhabitare, complere».
450
MAGNONI
fecondatrice», il quale pare suggerito alla lontana da un passo di Nonio142. Per la prima
soluzione, accreditata dal Creech (1695)143, propende, fra i moderni, l’Ernout («toi par qui
sous les signes errants du ciel, la mer porteuse de vaisseaux, les terres fertiles en moissons
se peuplent de créatures»), mentre la seconda, più fortunata a partire dal Munro («the
goddness fills at once with her presence […] this sense is therefore more poetical than, and
also implies, that of peopling») è stata recepita, tra gli altri, dal Giussani («riempi di te; ti
diffondi; sei la vita di»), dal Bailey («who [Venus] fillest with thy presence»), dal Pizzani
(«riempi della tua presenza»), dal Fellin («désti la vita»), dal Rouse (che traduce «fille with
yourself»), dal Giancotti (il quale suggerisce di tradurre «dovunque avvivi della tua presenza»)144.
Fra i traduttori italiani, merita di essere menzionato il Marchetti, che in questo caso non
si limita a seguire il commento del Creech, ma trascrive quasi alla lettera e ingloba nella
traduzione la citata nota esegetica del reverendo inglese («d’animai d’ogni specie orni [il
mar e tutta la terra]», con cui consuona anche la posteriore versione dell’Allainig, «riempi
di viventi»). Fra i volgarizzatori ottocenteschi, solo un’esigua minoranza si accontenta di
un’unica forma verbale: di norma, infatti, la voce concelebras è amplificata in dittologie
sinonimiche e persino tricola verbali (Armaforte, vd. infra). L’esegesi di concelebrare nel
senso di «popolare» trova riscontro nel Mazzarella («allieti di popolo»), nel Merenda («popoli»), e poi soprattutto dal Rapisardi in avanti, ossia nel De Antonio («popoli ed orni
d’animali e piante») e nello Psaila («popoli il mar […] di pesci, / di fruttüose biade orni la
terra»), dove l’impiego di «orni» rinvia con sicurezza al precedente marchettiano (vd. supra);
viceversa, più sbilanciate verso la seconda opzione esegetica risultano le traduzioni «fecondi, e colmi» (Renieri), «fecondi» (Carrer, seguito dal Cipriani e dall’Elisei), «empi di tua
virtù» (Vanzolini145), «fai di vita festanti» (Tolomei), cui farà eco parziale «empi di vita»
(Cavagnari), e ancora «del tuo sguardo fecondi» (Sartori), «di vita allieti» (Ferracini), «fecondi» (Leardi). D’altra parte, se «famosa (la terra) rendi» del Leoni deriva da un palese
142
Il quale chiosava concelebrare con commovere ([274,32 M. = 421 L.]). Per questa seconda opzione propende anche il Lewis-Short, che registra il nostro passo sotto il significato «to fill,
animate, enliven, cause to abound», suggerendo la seguente traduzione «who hast filled with life».
143
«Clarius vero, reples et exornas varia animantium foetura», ad l.
144
Per cui vd. rispettivamente Lucrèce. De la nature, texte ét. et trad. par A. Ernout, I-II,
Paris 1924 2 ; T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex. Ed. with notes and transl. by
H.A.J. Munro, I-III, Cambridge 1886 [Editio maior], ad l.; T. Lucreti Cari De rerum natura libri
sex. Rev. del testo, comm. e stud. introd. di C. Giussani, I-III, Torino 1896-1898, ad l.; Bailey,
o.c. ad l.; Lucreti de rerum natura locos praecipue notabiles coll. et illustr. H. Paratore, comm.
instr. H. Pizzani, Romae 1960, ad l.; Lucrezio. Della natura, a c. di A. Fellin, Torino 1963;
Lucretius. De rerum natura, with an engl. transl. by W.H.D. Rouse. Rev. with new text, introd.,
notes, and index by M.F. Smith, London 1975; F. Giancotti, Religio, natura, voluptas. Studi su
Lucrezio, Bologna 1989, 367.
145
La soluzione «empi di tua virtù» del Vanzolini sembra tenere presente, a sua volta, un
passo dell’Adone mariniano, e più precisamente un’invocazione a Venere (XVI 64) che è traduzione pressoché letterale dell’ipotesto lucreziano: «luce del terzo ciel, pietosa diva, / d’ogni esser,
d’ogni ben fonte fecondo, / vivo e vital principio onde deriva / quant’ha di bel, quant’ha di dolce
il mondo, / che dela tua virtù generativa / empi l’aria, la terra e ’l mar profondo, / anime e corpi,
misti ed elementi».
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
451
fraintendimento del vocabolo lucreziano (inteso nel senso di «laudibus efferre», ThLL III
746), più difficile è dire quale interpretazione accolgano il Menegazzi, con il suo fantasioso
«susciti a nozze», e l’Armaforte, che addirittura triplica il verbo lucreziano rifondendo
soluzioni già adottate dai predecessori («empiendo di te, popoli e abbelli»).
2) Spetta all’Ernout – è cosa nota – il merito di avere riconosciuto nella discussa
locuzione ferae pecudes (v. 14) una coppia polare asindetica la quale designa «gli animali
selvaggi e gli animali domestici» sensibili al fascino di Venere-voluptas146. L’interpretazione avanzata dallo studioso nel 1924, e in seguito accolta dalla maggioranza degli editori e
commentatori lucreziani, fra cui il Bailey, ha segnato una svolta decisiva rispetto all’esegesi
precedente147: fino a tutto l’Ottocento, infatti, gli studiosi si dividevano sostanzialmente tra
la posizione del Creech (1695), il quale, contro l’emendamento ferae <et> pecudes proposto
dal Bentley, aveva inteso ferae pecudes come ossimoro costituito da un aggettivo con valore
predicativo e da un sostantivo (nel senso di pecudes Venere efferatae; così anche Giussani,
Pascal, Merril), e la posizione del Wakefield (1796-1797), il quale aveva corretto il testo
tràdito in fere pecudes («gli animali in generale», seguito dubitosamente dal Munro, ad l.)148.
D’altra parte, ampio credito ha riscosso, sino al Novecento149, l’esegesi di ferae pecudes =
146
Per la puntuale disamina di tutta la questione, di cui ci limitiamo a ricordare le tappe
salienti, si rinvia a V. Citti, In principio erat Bentley, in La parola ornata. Ricerche sullo statuto
delle forme nella tradizione poetica classica, Bari 1986, 103-127. L’esegesi dell’Ernout è ora
accolta nel ThLL X/6 956.
147
Colgo l’occasione per segnalare un fatto sfuggito, a quanto pare, agli studiosi lucreziani
che si sono occupati del problema: prima dell’Ernout, la proposta di considerare ferae pecudes
come asindeto era stata avanzata, seppur con cautela e senza la minuta discussione che le riserverà lo studioso francese, da J.H. Warburton Lee nell’edizione commentata dei primi tre libri
lucreziani apparsa a Londra nel 1884 e ristampata nel 1888 (T. Lucreti Cari De rerum natura,
libri I-III. Ed. with introd. and notes by J.H. W.L.): nella breve nota di commento ad l., subito
prima di accreditare la correzione del Wakefield fere (che per altro è erroneamente segnalata
come «MSS reading»), lo studioso afferma: «the analogy of 163 (armenta atque aliae pecudes,
genus omne ferarum) suggests that ferae pecudes might be an instance of asyndeton – “beasts and
cattle”», concludendo però che «this is perhaps inadmissible with two words, though it is common
with three or more» (123). Ma va detto che già l’Eichstädt, nel primo tomo della sua edizione
lucreziana del 1801 (Titi Lucreti Cari de rerum natura libri sex ad optimorum exemplarium
fidem emendati cum Richardi Bentleii animadversionibus, Gilberti Wakefieldi praefationibus et
commentariis integris caeterorumque interpretum praestantissimorum observationibus selectis
edidit suas notas et indices copiosissimos adiecit H.C.A. E., I, Lipsiae 1801), aveva stampato
ferae, pecudes, tant’è che i due vocaboli sono registrati separatamente nell’Index finale.
148
Le incertezze e oscillazioni esegetiche relative al nostro nesso sono ben testimoniate dalla
nota ad l. nell’edizione dell’Havercamp, Lugduni Batavorum 1725; ma la chiosa è dovuta alla
mano del Preiger): «cur ferae, omissis mansuetis? an quia feras omnes simpliciter bestias dixit,
oppositione ad homines facta? [...] an, quia amore omnes efferantur mansuetae pariter ac ferae?».
149
P. Ferrarino, Laus Veneris, in AA.VV., Ovidiana, Paris 1958, 301-316 (ora in Scritti
scelti, Firenze 1986, 305-319); Lucreti de rerum natura locos praecipue notabiles coll. et illustr.
H. Paratore, o.c. ad l.; E. Flores, La composizione dell’inno a Venere di Lucrezio e gli Inni
omerici ad Afrodite, «Vichiana» n.s. VIII (1979) 237-251.
452
MAGNONI
«gli animali selvaggi» (come se fosse una perifrasi per ferae), che dà a pecudes il significato
generico di omnia animalia (cf. Nonio, 158,31s. M. = 233 L.)150.
Veniamo ai nostri traduttori. Trattandosi di versioni prive, in linea generale, di note
esplicative, nella maggioranza dei casi risulta problematico accertare quale interpretazione
essi abbiano seguito: fa eccezione l’Armaforte, il cui «il gregge disfrenato» presuppone con
ogni evidenza l’esegesi del Creech (vd. supra). Quanto agli altri, i più si limitano a trasporre
in modo pressoché letterale i due vocaboli, accedendo così a iuncturae ossimoriche (costituite ora da due sostantivi, ora da un nome più attributo) quali «il gregge de le belve» del
Leoni, «feraci armenti, e greggi» del Renieri, «le quadrupede fere» del Mazzarella (di cui
è semmai apprezzabile il tentativo di tradurre ‘Lucrezio con Lucrezio’, forse sulla base di
more ferarum / quadrupedumque … ritu [IV 1264s.]), «il gregge ferin» del Carrer (e del
Cipriani), «il gregge feroce» del Merenda, «il selvaggio armento» del Tolomei (al plurale
nel Ferracini)151. Altri si limita a tradurre uno solo dei due termini del binomio lucreziano,
più spesso pecudes (ma il Vanzolini, il Sartori e il Leardi traducono rispettivamente «ogni
fera», «selvagge fere» e «le vaganti belve», possibile ricordo, questo ultimo, della iunctura
lucreziana montivaga fera di I 404 152), omettendo del tutto l’altro: abbiamo così «le greggi»
del Rapisardi (al singolare nel De Antonio), «le mandre» del Cavagnari, «gli armenti» del
Menegazzi, «il lanuto bestiame» dello Psaila153, sino a «le agnelle» dell’Elisei.
B.
I traduttori lucreziani esaminati esibiscono una certa familiarità con il thesaurus della
letteratura italiana e con alcuni auctores in particolare: a ben vedere, nello scrittoio dei
nostri volgarizzatori l’antico si sposa col moderno, sicché, accanto agli immancabili Petrarca,
Ariosto e Tasso – pilastri del canone classicistico montiano – spiccano alcune voci poetiche
illustri del panorama ottocentesco, quali Leopardi e Carducci; di qui i traduttori mutuano
150
Ma vero è che quest’ultima proposta si fonda su due passi di Varrone (RR II 1,5 in locis
multis genera pecudum ferarum sunt aliquot) e Columella (IX 1 ferae pecudes ut capreoli dammaeque
nec minus orygum cervorumque genera et aprorum) in cui la locuzione ferae pecudes designa,
in un caso, animali domestici che vivono allo stato selvatico, nell’altro, animali selvatici allevati
in riserve. Precisazioni in Citti, o.c. 114s.
151
Sebbene nella lingua italiana i lessemi ‘armento’, ‘fera (fiera)’, ‘gregge’ possano designare per estensione anche «gli animali in genere» (GDLI, rispettivamente I 669s., V 950, VII
29s.), illustri esempi letterari – fra cui Petrarca, RVF 128,40 «fiere selvagge et mansuete gregge»,
Gambara, Rime 43,21s. «fiere isnelle e ben pasciuti armenti / scherzar si veggion per i campi
insieme», Tasso, Rime 723,27-29 «la lor doppia virtute / infonde ardire e forza / ne gli augei, ne
le fere, e ne gli armenti», Il Mondo creato VI 101s. «e ’nsieme / con le fere produca (la terra)
armenti e gregge» – inducono a ritenere che le traduzioni lucreziane riportate sopra accostino
impropriamente sotto il profilo semantico vocaboli che nella langue letteraria erano divergenti se
non antitetici.
152
E «le fiere» reca anche la versione settecentesca a firma dell’Allainig.
153
Locuzione che sembra alludere al lucreziano lanigerae pecudes (II 318, 662; V 866; VI
1237), ma attraverso il filtro linguistico dell’ariostesco «gregge lanuto» (Orlando furioso XXXI
58), ripreso anche dal Tasso (Il Mondo creato III 899).
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
453
soluzioni linguistiche collaudate e garantite che, mentre innalzano il tono della traduzione,
ne certificano l’appartenenza ad una precisa lignée letteraria. Va detto, tuttavia, che una
siffatta prassi traduttoria, sensibile alle suggestioni della tradizione poetica nazionale, non
esclude occasionali esempi di aderenza letterale o iper-letterale al testo latino, quale si
registra, ad esempio, nella resa degli aggettivi composti lucreziani e, più in generale, nella
presenza copiosa di latinismi. Gli echi letterari disseminati nel dettato, il cui grado di
intenzionalità non è sempre accertabile, appaiono distribuiti con una frequenza disuniforme
nelle singole traduzioni e interessano porzioni testuali di estensione variabile, dalla singola
locuzione al verso intero. Considerata la natura capillare del fenomeno e l’importanza che
esso assume ai fini dell’interpretazione di questi testi (vd. supra pp. 444s.), si è ritenuto di
integrare la documentazione già fornita con una campionatura supplementare, relativa a
luoghi del proemio sin qui trascurati.
La clausola di matrice enniana lumina solis (v. 5; cf. Ann. 265 Sk.), che designa la
«luce della vita» cui accedono le creature (genus omne animantum) al momento di nascere
(exortum), nella versione del tardo Elisei («a l’aprico / raggio di Febo il novo parto esulta»)
acquista una vernice mitologica sconosciuta all’originale, in virtù di una puntuale citazione
leopardiana (Inno ai Patriarchi 32-34 «e gl’inarati colli / solo e muto ascendea l’aprico
raggio / di febo»). Altrove la mediazione della lingua poetica italiana esplicita ciò che in
latino è taciuto o sottinteso, come nell’esempio seguente tratto dall’Armaforte154: al v. 6 i
venti (menzionati da Lucrezio senza ulteriore specificazione), che con la loro fuga annunciano l’avvento di Venere-primavera, diventano i «brumal soffi» di mariniana memoria
(Adone VII 128 «soffi gelidi brumali»). Altrove la reminiscenza letteraria è facilmente
innescata da topoi universali, diffusi tanto nella letteratura latina che in quella italiana: così,
il verso lucreziano che descrive l’epifania della bella stagione (v. 10 nam simul ac species
patefactast verna diei) deve aver suscitato nel Merenda il ricordo di un’altra primavera (e
di un altro Zefiro) al cui ritorno è consacrato un celebre e fortunato incipit petrarchesco
(«come più tosto primavera il dolce / tempo rimena», di contro a RVF 310,1s. «Zephiro
torna, e ’l bel tempo rimena, / e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia»155) 156. Proseguendo, nel
De Antonio, la iunctura allitterante «fecondo fiato», che impreziosisce fonicamente il latino
genitabilis aura (v. 11) oscurando però il valore causativo dell’aggettivo157, parrebbe ispi154
Il quale risulta particolarmente corrivo agli innesti e alle reminiscenze poetiche, come
dimostra anche la traduzione di rapidos amnis (v. 15) con «le correntìe di rapide fiumane», che
riprende quasi alla lettera un componimento del Giusti (Poesie, A Gino Capponi 2 «correnti di
rapide fiumane»).
155
L’attacco petrarchesco, oggetto di molteplici allusioni (vd. Ariosto, Rime 61,1; Tasso,
Rime 1547,86), riecheggia formalmente l’incipit catulliano iam ver egelidos refert tepores (46,1),
il quale si innestava, a sua volta, su ben precisi modelli letterari ellenistici, in particolare epigrammatici,
fra cui Leonida di Taranto (AP X 1 [= 85 G.-P.],1s. oJ plovo" wJrai'o", kai; ga;r lalageu'sa
celidwvn / h[dh mevmblwken cwj carivei" Zevfuro"), da cui dipende, ad esempio, Antipatro di
Sidone, AP X 2 (= 41 G.-P.); cf. The Greek Anthology. Hellenistic Epigrams, ed. by A.S.F. GowD.L. Page, Cambridge 1965, II 385s.
156
Analogamente, illustri precedenti letterari ha pure la clausola «il nuovo Aprile» del
Tolomei, a monte della quale stanno Tasso, Rime 121,4 e 1674,34; Marino, La Sampogna, Idillio
12,241; Carducci, Rime nuove 45 (Vignetta), 4 e 68 (Idillio maremmano), 1.
157
Il valore attivo e propriamente causativo di genitabilis, ‘che fa generare, che fa nascere
454
MAGNONI
rata alla descrizione mariniana della Primavera in Adone VII 157 «Altra (sorella) spirando
ognor fecondo fiato / ride con giovenil faccia serena» (nel contesto di una processione delle
stagioni). Ancora nel Merenda, la definizione degli uccelli come «dipinti dell’aria abitatori»
(v. 12 aeriae … volucres) non si spiega se non risalendo all’archetipo virgiliano pictae
volucres (Georg. III 243 e Aen. IV 522), forse filtrato da alcuni intermediari italiani (Poliziano,
Stanze I 90 «augelletti dipinti»; Tasso, Gerusalemme Liberata II 96 «pinti augelli» e soprattutto Marino, Adone XX 7 «dipinti del’aria alati figli»)158. In corrispondenza del v. 15, ben
dieci traduttori (Allainig, Leoni, Renieri, Mazzarella, Carrer, Vanzolini, Tolomei, Sartori,
Psaila, Leardi) duplicano, mediante locuzioni sinonimiche, la voce lepos contenuta nella
locuzione capta lepore159, dove il nome verbale capta – accordato proletticamente con il
quamque del verso successivo (vd. Munro, ad l.) – esprime la condizione dell’animale
soggiogato dal fascino di Venere. Tale duplicazione lessicale non costituisce un gratuito
artificio retorico ma riflette, piuttosto, una precisa situazione testuale: per lungo tempo, a
partire dalla Iuntina curata dal Candidus (ma non nella seconda Aldina del Navagerius
[1515]), le edizioni lucreziane hanno continuato a stampare, in corrispondenza del v. 15,
l’esametro illecebrisque tuis omnis natura animantum, fortunata interpolazione umanistica
volta, con ogni probabilità, a dare un soggetto esplicito al participio capta (Bailey, ad l.)160.
Scendendo nel dettaglio delle traduzioni, la coppia nominale «vezzi e lusinghe» adottata sia
dal Renieri che dal Carrer possiede una duplice motivazione: anzitutto agglutina le soluzioni
lessicali già operate dal Marchetti («teneri tuoi vezzi lascivi»; e «vezzi», per lepos, tornerà
nel Rapisardi, nel De Antonio, nel Ferracini e nello Psaila) e dal Leoni («tue lusinghe»); al
tempo stesso, la nostra iunctura vanta una cospicua serie di antecedenti letterari che potevano legittimarne l’impiego (cf. Tasso, Gerusalemme Conquistata XIII 27; Il Mondo creato
V 897; Marino, La Sampogna, Idillio 3,397).
L’iterazione dell’avverbio cupide al v. 20 (cf. v. 16 te sequitur cupide quo quamque
inducere pergis) sottolinea il trasporto con cui gli animali accolgono l’arrivo di Venere e si
dispongono a perpetuare la stirpe. La quasi totalità dei traduttori, eccezion fatta per il
Ferracini («con desio»/«con desio»), predilige la variatio nella resa dei due avverbi, per
la vita’ (derivante dall’originaria funzione strumentale degli aggettivi in -bilis, su cui cf. C. De
Meo, Note semantiche sulle formazioni latine in -bilis, Bologna 1972, ora in Varia selecta,
Bologna 1994, 87-108) è meglio conservato nella perifrasi del Mazzarella, «altor di vita», o nella
«brezza fecondatrice» del Merenda.
158
Su questa espressione topica vd. V. Citti, Gli augelli pinti, in La parola ornata cit.
139-141.
159
«Allettato / dalla tua grazia e dalle tue lusinghe» Allainig; «da tua beltà, da tue lusinghe
preso» Leoni; «dai vezzi, e le lusinghe tue / […] commossa» Renieri; «a la tua festa, / ai vezzi
tuoi rapita» Mazzarella; «a tuoi vezzi preso e alle lusinghe» Carrer; «alle tue grazie presa e a’
blandimenti» Vanzolini; «di tuoi molli incanti / e di tue gioje […] annodi» Tolomei; «dalle grazie
tue, / dai tuoi vezzi […] presa» Sartori; «da bellezza indotto / e dai tuoi vezzi» Psaila; «alle tue
grazie preso e alle lusinghe» Leardi.
160
Per la genesi di questa interpolazione tradizionalmente ascritta al Marullo (ma ancora il
Lambino ne difendeva la genuinità, sentenziando «mihi videtur versus Lucretio dignissimus»), si
leggano le precisazioni del Munro nella Introduction 8s. (dove è avanzata l’ipotesi che l’autore
fosse il Poliziano).
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
455
scongiurare il pericolo di pesanti e monotone ripetizioni161: tra le varie soluzioni prescelte,
spiccano la locuzione «con accesa brama» del Carrer, per la quale si può richiamare Tasso
(Rinaldo VIII 3) e l’arcaismo «disïosamente/desïosamente» (già adottato dal Cipriani e dal
Vanzolini e poi ripreso dal Menegazzi e dall’Elisei), avverbio di primogenitura dantesca
(Conv. Canz. 2,1s. «Amor che nella mente mi ragiona / della mia donna disïosamente»)
ripreso dal Boccaccio (Rime I 7,8) e dai narratori toscani (Bandello, Novelle 3,27; Firenzuola,
Ragionamenti, Dedica 2). Per restare in tema di omaggi a Dante, non si può non menzionare
il preziosismo «s’infuturi (ogni schiatta)» del Tolomei, composto verbale di primogenitura
dantesca162, occasionalmente recuperato tra Otto e Novecento163 e qui riattivato per tradurre,
sempre al v. 20, il lucreziano saecla propagent164 (dove la forma sincopata saecla ricorre
non già nell’accezione cronologica di ‘generazioni’ ma come sinonimo di genera, ‘razze’).
Talvolta il traduttore rimodula in maniera nient’affatto lieve l’ordito del testo lucreziano,
come accade nei versi del Cavagnari «e fora, orbato / del tuo soccorso, arida landa e muta /
e inamabile il mondo», a fronte di nec sine te quicquam dias in luminis oras / exoritur neque
fit laetum neque amabile quicquam (vv. 22s.): dettaglio interessante è che il nesso «muta
landa», che non ha precedenti, riapparirà a pochi anni di distanza nel Carducci (al quale il
traduttore inviò copia del proprio lavoro; vd. supra n. 85) e nel Pascoli165. Il giro «grazia
perenne a’ detti miei comparti», con cui il Leoni rende aeternum da dictis, diva, leporem
(v. 28), riproduce un modulo arcaico e letterario attestato, tra gli altri, nell’Ariosto (Orlando
161
Ma non mancano nemmeno casi di ripetizioni prive di riscontro nell’originale e introdotte a scopo di enfasi: un esempio è offerto dai versi del Carrer «e nulla / esce al dì senza te, senza
te nulla / v’ha d’amabile e lieto» (cf. vv. 22s. nec sine te quicquam dias in luminis oras / exoritur
neque fit laetum neque amabile quicquam), dove l’epifora di «nulla» è potenziata dalla geminatio
«senza te, senza te», non nuova nella lingua letteraria (cf. Ariosto, Orlando Furioso XLIII 171
«Solo senza te son; né cosa in terra / senza te posso aver più, che mi piaccia» e Cesarotti, Ossian
V Temora 1,362-364 «senza te la pugna / combatterassi, senza te nel bosco / le lievi damme
inseguiransi»).
162
Tra i numerosi lessemi verbali di innovazione dantesca, particolare rilevanza quantitativa
e stilistica possiedono quelli con prefisso in-, modulo formativo presente sin dalla lingua delle
origini che Dante estende a sostantivi, aggettivi, numerali, avverbi, pronomi personali e possessivi, tra cui «indiarsi» (‘assimilarsi a Dio’, di Par. IV 28), «imparadisare» (‘innalzare a gioie
paradisiache’ di Par. XXVIII 3), «insemprarsi» (‘durare per sempre’ di Par. X 148), «indovarsi»
(‘trovar luogo’ di Par. XXXIII 138), tutti non a caso dalla terza cantica, che risulta infatti la più
ricca di neologismi; sui nova verba danteschi e la loro fortuna nella tradizione letteraria successiva si veda il classico P.A. Di Pretoro, Innovazioni lessicali nella «Commedia», «Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei» CCCLXVII (1970) 263-297, il quale ha censito 84 probabili
vocaboli di nuovo conio, tra lessemi verbali (70), nominali (13) e aggettivali (1), e altresì
G. Ghinassi, Neologismi, in Enciclopedia Dantesca IV (1973) 38.
163
Par. XVII 98 «s’infutura la tua vita», di cui serberanno memoria, tra gli altri, D’Annunzio (Maia, Laus vitae 20,75 «sculta rupe che s’infutura» e Alcyone, L’Alpe sublime 42) e Montale
(Satura, Milano 1971, 49 «il tempo s’infutura nel totale»).
164
Non si può escludere che proprio l’espressività del neologismo dantesco abbia agevolato
il bizzarro conio «s’aggioconda» – hapax assoluto stando alla LIZ e al GDLI – qui adibito dal
Tolomei per tradurre fit laetum (v. 23).
165
Carducci, Rime nuove 38 (Brindisi d’aprile), 11s.; Pascoli, Poesie varie 31 (Astolfo), 157s.
456
MAGNONI
Furioso XVII 113 «e di sua grazia tanto gli comparte») e nel Tasso (Gerusalemme Conquistata I 6 «e tu l’alte sue grazie a me comparti»; Rime 1390,13 «tanto più di tua grazia a me
comparti»).
Veniamo ora all’icastico quadro delle due divinità contenuto nei versi finali. Nella
traduzione dello Psaila, l’«insanabil piaga» d’amore di cui Marte è vittima (v. 34 aeterno
devictus vulnere amoris, laddove la gran parte dei traduttori mantiene l’attributo lucreziano
«eterno») mostra un inequivocabile colore alfieriano (tre occorrenze nelle tragedie, di cui
due in clausola: Don Garzia at. 3, sc. 1, v. 142; Sofonisba at. 2, sc. 2, v. 257, Mirra, at. 1,
sc. 1, vv. 146s.). Ancora. Il verso che ritrae Marte in estatica contemplazione delle grazie
di Venere (v. 36 pascit amore avidos inhians in te, dea, visus) offre al Renieri l’occasione
di un raffinato intarsio intertestuale: l’espressione «li famelici sguardi in te di amore /
pasce» riecheggia da vicino i versi con cui Tasso, lettore e postillatore di Lucrezio, aveva
ritratto, nel canto XVI della Liberata, le figure di Armida e Rinaldo, novelli Venere e Marte:
18s. «Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle / le posa il capo, e ’l volto al volto attolle,
/ e i famelici sguardi avidamente / in lei pascendo si consuma e strugge. / S’inchina, e i dolci
baci ella sovente / liba or da gli occhi e da le labra or sugge». Il medesimo verso lucreziano
nella traduzione dell’Elisei suona «in te fissi gl’immoti occhi bramosi, / d’amor li pasce»:
qui, soppresso ogni riferimento alla bocca del dio (inhio, lett. ‘sto a bocca aperta’, ‘anelo
ansiosamente’), l’immagine verte tutta sul motivo della visione, grazie all’inserzione della
iunctura «immoti occhi», ampiamente collaudata nel registro poetico166. Petrarchismi codificati nella lingua poetica sono sia «soavi accenti» (RVF 283,6)167 con cui il Leoni, il Tolomei
(nella variante lessicale «soavissimi») e il Ferracini traducono suavis loquellas (v. 39), sia
«soavi parolette» (adattamento di RVF 183,2 «le soavi parolette accorte»168) del Vanzolini
e più tardi dello Psaila, soluzione, questa, forse agevolata da un’errata interpretazione dell’astratto verbale loquella (alternante con loquela) quale diminutivo169; è poi ancora il Canzoniere petrarchesco (26,10) che si intravvede dietro ai «dolci amorosi detti» del Menegazzi.
Le «dolcissime querele» («lamenti, espressioni lamentose e querule», GDLI XV 116-118),
che, nella versione del Sartori, rimpiazzano impropriamente le suavis loquellas di Venere,
costituiscono un omaggio alla poesia del Tasso (Rime 303,8) e del Parini (Il Giorno [II red.],
Meriggio 157). Infine, il giro di frase petens placidam Romanis, incluta, pacem (v. 40),
saldato dalla triplice iterazione della labiale, nel De Antonio costituisce il punto di partenza
166
La trafila corre dall’Ariosto (Cinque canti I 90) all’Ottocento (Carducci, Rime e ritmi 8
[Bicocca di S. Giacomo], 125), passando per il Caro (Eneide IV 501) e l’Alfieri (Agamennone at.
4, sc. 5, v. 236). Ma «immoto», riferito a Marte, si trovava già nella traduzione del De Antonio
(«pende immoto / dal labbro tuo divin»).
167
Vd. e.g. Pulci, Morgante XXVII 155; Sannazaro, Arcadia, Ecloga 11,47; Tasso, Rime
35,9, etc.
168
Una ripresa puntuale dell’intera iunctura petrarchesca si trovava nel Tasso lirico (Rime
300,1-3 «Quante soavi parolette accorte / a’ miei desiri intrica / la mia gentil guerriera»); per
riecheggiamenti parziali vd. anche Trissino, Rime 59,69; Pindemonte, Odissea I 82s. («con soavi
e molli / parolette»).
169
Per l’oscillazione grafica -l-/-ll-, che interessa gli astratti con suffisso -ēla (ad es. querela, suadela, nitela), da ricondursi all’influsso delle formazioni diminutive in -ella, vd.
B. Zucchelli, Studi sulle formazioni latine in -lo- non diminutive e sui loro rapporti con i diminutivi,
Parma 1969, 34 n. 14.
457
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
per un virtuosistico collage di brani d’autore («perché taccia il grido / tristo di guerra e le
Romulee genti / pace sotto le bianche ali raccolga»): la prima parte sembrerebbe contaminare il topos poetico del «grido di guerra» (Caro, Eneide VIII 62s.; Alfieri, Saul at. 3, sc.
4, v. 300; Monti, Iliade IV 410; Carducci, Juvenilia 89 [Magenta], 4) con il manzoniano «il
tristo grido / della vendetta» (Manzoni, Il Conte di Carmagnola at. 5, sc. 5, vv. 275s.);
quello che segue è ripresa letterale del leopardiano Sopra il monumento di Dante che si
preparava in Firenze (1s. «Perché le nostre genti / pace sotto le bianche ali raccolga»).
Se inequivocabile è poi la primogenitura petrarchesca dell’espressione «il chiaro germe
(de’ Memmi)»170 con cui il Carrer e il Sartori traducono Memmi clara propago (v. 42), non
meno evidente è la coloritura aulica di cui è dotata la locuzione «generosa prole»171
dell’Armaforte; ma nessuno dei due eguaglia la disinvoltura dell’Elisei, che non esita a
chiudere la traduzione lucreziana con un palmare tassello petrarchesco: «e i gravi casi ognor
fanno il mio Memmio / Pensoso più d’altrui che di se stesso» (cf. RVF 53,99-101 «vedrai /
un cavalier, ch’Italia tutta honora, / pensoso più d’altrui che di se stesso»)172.
ALESSANDRA MAGNONI
170
RVF 338,7, donde la mutuarono anche il Caro (Eneide XII 576s. «il chiaro germe / de
l’antico Dolòne») e il Monti (Iliade V 98s. «fugge davanti / al chiaro germe d’Evemone»).
171
Serdini, Rime 17,39; Ariosto, Orlando Furioso I 3; Marino, Adone IX 128; Monti, Iliade
II 832 e XV 643.
172
Ma già il Monti aveva commesso lo stesso furtum nel Bardo 2,26s. «la virtù che fa l’uom
negli ardui tempi / più pensoso d’altrui che di se stesso».
458
MAGNONI
Appendice
I testi
Marchetti
Alma figlia di Giove, inclita madre
del gran germe d’Enea, Venere bella,
degli uomini piacere e degli Dei:
tu che sotto i girevoli e lucenti
segni del cielo il mar profondo e tutta
d’animai d’ogni specie orni la terra,
che per sé fòra un vasto orror solingo;
te, Dea, fuggono i venti; al primo arrivo
tuo svaniscon le nubi; a te germoglia
erbe e fiori odorosi il suolo industre;
tu rassereni i giorni foschi, e rendi
col dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,
e splender fai di maggior lume il cielo.
Qualor, deposto il freddo ispido manto,
l’anno ringiovanisce, e la soave
aura feconda di Favonio spira,
tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli,
ferito il cuor da’ tuoi pungenti dardi,
cantan festosi il tuo ritorno, o Diva;
liete scorron saltando i grassi paschi
le fere, e gonfi di nuov’acque i fiumi
varcano a nuoto e i rapidi torrenti;
tal da’ teneri tuoi vezzi lascivi
dolcemente allettato ogni animale
desïoso ti segue ovunque il guidi.
Insomma tu per mari e monti e fiumi,
pe’ boschi ombrosi e per gli aperti campi,
di piacevole amore i petti accendi,
e così fai che si conservi ’l mondo.
Or se tu sol della natura il freno
reggi a tua voglia, e senza te non vede
del dì la luce desïata e bella,
né lieta e amabil fassi alcuna cosa;
te, dea, te bramo per compagna all’opra,
in cui di scriver tento in nuovi carmi
di natura i segreti e le cagioni
al gran Memmo Gemello a noi sì caro
in ogni tempo e d’ogne laude ornato.
Tu, dunque, o Diva, ogni mio detto aspergi
d’eterna grazia, e fa’ cessare intanto
e per mare e per terra il fiero Marte,
tu che sola puoi farlo. Egli sovente
d’amorosa ferita il cuor trafitto
umil si posa nel divin tuo grembo.
Or, mentr’ei pasce il desïoso sguardo
di tua beltà, ch’ogni beltade avanza,
e che l’anima sua da te sol pende,
deh porgi a lui, vezzosa Dea, deh porgi
a lui soavi preghi, e fa’ ch’ei renda
al popol suo la desïata pace.
Che se la patria nostra è da nemiche
armi agitata, io più seguir non posso
con animo quïeto il preso stile;
né può di Memmo il generoso figlio
negar sé stesso alla comun salute.
Allainig ? (sec. XVIII)
Alma Venere, Madre della Schiatta
d’Enea, piacer degli uomini, e dei Divi,
che sotto i segni mobili del Cielo
riempi di viventi il Mare e il Suolo;
mentre per te si concepisce d’essi
ogni specie, e sen vien nata a mirare
e godere i lucenti rai di Febo:
te, Dea, fuggono i venti, e si dileguano
al tuo apparir le nubi: a te produce
l’industrioso Suol fiori odorosi:
tu quieti fai del Mare ondoso i fiotti,
e rendi il Ciel più luminoso e chiaro.
Sempre che a noi sen riede la ridente
stagion di Primavera, e che di zeffiro
l’aura feconda invigorisce e domina;
tocchi da’ strali tuoi nel cuor gli uccelli
col canto, o Diva, annunziano il tuo arrivo.
Liete le Fiere scorrono, saltando,
le fertili pasture, e a nuoto passano
i rapidi torrenti. Sì allettato
dalla tua grazia e dalle tue lusinghe
è qualunque Animal, ch’ esso ti siegue
avidamente ovunque tu il conduci.
Per te in somma nei Mari, Monti, e Fiumi,
459
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
nelle frondose selve, e verdi campi,
di piacevole amor i petti ardendo,
fai che duri ogni Specie per più Secoli.
Poiché dunque tu sola il Tutto reggi,
né cos’alcuna senza te alla Luce
del dì sen vien, né grata riesce e amabile;
bramo che tu mi sia compagna a scrivere
della natura delle cose i versi,
ch’or m’accingo a compor pel nostro Memmo,
che tu, Dea, volesti in ogni genere
di virtù sempre adorno ed eccellente.
Dai per tanto a’ miei detti eterna grazia,
e fa che in questo mentre in Mare e in Terra
cessin della milizia le faccende;
tu che sola a’ Mortali puoi recare
tranquilla pace: imperciocché rettore
degli affari della guerra è il fiero Marte,
il qual per te d’amor nel cuor ferito
sovente nel tuo grembo si riposa:
onde allor ch’ei, con te colcato, pasce
lo sguardo in contemplar la tua bellezza,
e che lo spirto suo da quel sol pende
che dalla bocca tua supina esala;
allor, dipoi, ch’ei sta fra le tue braccia,
chiedigli con parole dolci e vezzi
che dia a’ Romani la bramata pace.
Poiché tra i romor bellici, in cui trovasi
ora la patria nostra, né io posso
seguir l’opra intrapresa, né può Memmo
non impiegarsi alla comun salute.
Leoni (?) 1827
O de gli Eneadi madre, o de’ mortali
diletto e de gli Dei Venere bella:
tu, che, del ciel sotto i rotanti giri,
di biade varie la ferace terra
famosa rendi e ’l navigabil mare:
ché per te d’animali ogni famiglia
si concepe, e del sole emerge al lume:
te, Diva, e ’l tuo venir fuggono i venti
e le nubi del ciel: soavi fiori
l’industre terra a te germoglia: il piano
a te ride del pelago, e, placato,
con diffuso splendore il ciel riluce.
Come di primavera il dì si abbella,
e di Favonio il genitabil fiato
disciolto spira, da tua forza, o Dea,
percossi il cor, te pria gli aërei augelli
e ’l tuo ritorno annunziano: ne’ lieti
paschi indi il gregge de le belve esulta,
e a nuoto varca i rapidi torrenti:
da tua beltà, da tue lusinghe preso
ogni animal così, te ovunque il guidi
cupidamente segue: in fin per mari
e monti e fiumi di rapace corso,
per le verdi campagne e i frondeggianti
alberghi de’ pennuti, in tutti infuso
un blando amor, sì fai, che in ogni stirpe
con desiderio si propaghi il mondo.
Or, poiché sola, o Dea, tu de le cose
la naturna governi, e nulla in luce,
che lieto e amabil sia, senza te spunta,
a me compagna te ne’ carmi invoco,
onde quella espor tento a Memmio nostro,
che ognor de’ pregi tutti ornar ti piacque.
Grazia perenne a’ detti miei comparti,
e su la terra e l’onde i fieri ludi
fa che tra tanto, o Dea, cessin de l’armi:
ché i mortali comporre in queta pace
lice a te sola. De la guerra i fieri
ludi Gradivo armipotente regge,
che d’eterna ferita il cor trafitto,
a te sovente si restaura in grembo,
e, riguardando, con obliquo collo,
gli avid’occhi d’amor pasce in te fiso,
e con lo spirto da’ tuoi labbri pende.
Or, mentre posa sul divin tuo corpo,
soavi accenti, o Dea, sovra lui piovi,
e la pace ai Romani, inclita, chiedi.
Ché in questo tempo, sì a la patria iniquo,
né oprar poss’io con disïoso core,
né in tal condizïon l’illustre figlio
mancar di Memmio a la comun salute.
Renieri 1831
Alma Venere, ô madre dei Romani,
e voluttà degli uomini, e dei Numi:
del ciel che sotto ai roteanti segni
col navigero mar fecondi, e colmi
le fruttifere terre; ogni animale
460
poiché per te si concepisce, e, nato,
alla luce del sol volge lo sguardo:
te, Diva, e il tuo venir le nubi, e i venti
fuggon; soavi a te sommette i fiori
dedalea la terra; a te sorride
placato il mare, e serenato il cielo
del diffuso splendor per te riluce.
E quando, con l’april, si avviva, e schiude
l’aura che spira il genital Favonio;
te, Diva, e il nume tuo primi gli augelli
nunziano, in cor da tua virtù percossi.
Nei pascoli feraci armenti, e greggi
saltellano, e a guadar sen vanno i fiumi.
Così dai vezzi, e le lusinghe tue
la natura animal tutta commossa,
te, dove indurla vuoi, segue bramosa.
In fin pei monti, per il mar, pei fiumi,
per gli alberghi fronduti degli augelli,
e i campi verdeggianti un dolce amore
spirando in sen d’ogni animal, le specie
a generare, e a propagar lo infiammi.
E poiché la natura delle cose
sola governi, e senza Te non puote
cosa nascere al dì, né cosa oprarsi
che sia lieta, ed amabile; Te socia
ai versi bramo aver, che, delle cose
intorno la natura, intesser tanto
a Memmio nostro, che tu Dea mai sempre
di ogni rara virtù volesti ornato.
Eterne al dir quel più dona le grazie,
o Diva, e intanto il militar furore,
sopito in terra, e in mare, fà che riposi.
Gli uomini dilettar con queta pace
puoi sola tu, perché, possente in armi,
Marte regge di guerra i fieri offici,
che se ben spesso, dall’eterna piaga
vinto di amor, nel grembo tuo ristora:
e disteso così, guatando in suso,
li famelici sguardi in te di amore
pasce anelando, e ai labbri tuoi sospesa
tutta del resupin l’anima resta.
E del santo tuo corpo allor che, ô Diva,
il giacente circondi, a lui soave
della tua lingua il favellar rivolgi,
dolce a Roma implorando illustre pace:
perché, né noi placati agir possiamo
MAGNONI
in questa al patrio suolo avversa etade;
né puote in caso tal mancar dei Memmi
la chiara stirpe alla comun salute.
Mazzarella 1846
Salve, o agli Eneadi Genitrice, salve
voluttà de’ celesti e degli umani,
Alma Venere, o tu, che dell’Empiro
sotto ai rotanti segni, il navigato
mare allieti di popolo, e le pingui
terre. Per te degli animanti il regno
tutto s’avviva e a’ rai del sole assorge.
Al tuo venir, te, dea, fuggono i venti,
te del cielo le nubi: a te l’industre
terra soavi schiude i fior, del mare
a te ridono i flutti, e serenata
con effuso splendor l’etra rifulge.
Di primavera non appena i giorni
svelino il bel sembiante, e aperto aleggi
di Favonio lo spiro, altor di vita,
e già primieri i volitanti augelli
accesi in cor della tua fiamma, o Dea,
te nunziano ed il tuo nume presente;
e saltellan per mezzo a’ lieti paschi
le quadrupede fere, e i ratti fiumi
travarcano, e così degli animali
l’universa famiglia, a la tua festa,
ai vezzi tuoi rapita, avidamente
ne vien seguace ove che tu la guidi.
A dir breve, entro al mar, fra’ monti, in mezzo
a le fiumane, a le magion frondose
de’ volanti, e de’ campi a la verzura,
dolce a tutti destando amore in petto,
fai che bramosi, come àn legge e forma
dall’istinto, propaghino le schiatte.
Or poi che delle cose la natura
reggi tu sola, e senza di te di sotto
ai padiglioni dell’empireo lume
cosa alcuna non sorge, e nulla mai
di lieto avvien, nulla che amabil sia,
io compagna te invoco a questi carmi,
che delle cose intorno alla natura
cantar m’ardisco al buon Memmiade nostro,
cui tu pur sempre d’ogni pregio, o Dea,
volesti adorno e sovra gli altri eccelso.
Onde viemmeglio i versi miei tu infiori
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
d’eterne grazie, o Diva; e fa che intanto
in tutti mari, in tutte piagge i feri
della guerra travagli abbian posa.
Ben tu i mortali di tranquilla pace
sola pui consolar, però che Marte
armipotente delle pugne i feri
travagli regge, e nel tuo sen ei spesso
d’insanabile amor ferito in core,
ti si abbandona, e a bocca aperta, il chino
onor della sua fronte avidamente
fisando in te, pasce d’amor lo sguardo,
e dalle labbia tue pende il suo spirito.
Su lui dunque sporgendoti, o Divina,
mentr’egli posa nel tuo grembo santo,
dolce la lingua ai detti sciogli, e pace,
secura pace impetra, Inclita, a Roma.
Ché in questa della patria iniqua etade
né di buon grado noi cantar possiamo,
né fallir può di Memmio il chiaro sangue
fra tanti casi alla comun salute.
Carrer 1854
Madre d’Enea, desio d’uomini e Numi,
Alma Venere, tu, che sotto a’ segni
roteanti del cielo il mar fecondi
navigero, e le glebe fruttuose;
per cui quantunque gente d’animali
concepe, e nata a’ rai del sol s’allegra;
tu venti e nubi, o Dea, sperdi dal cielo
all’apparir tuo primo; a te sommette
i giocondi suoi fior l’industre terra,
t’arridon le marine, e serenato
brilla di luce interminata il cielo.
Poiché non prima al dì mostra il vivace
suo viso primavera, e il genïale
alito di Favonio erra diffuso,
l’aerio volator che in cor ti sente,
te, o Diva, tosto e il tuo venir festeggia;
salta il gregge ferin ne’ lieti paschi,
e traversa la rapide correnti;
tale, a tuoi vezzi preso e alle lusinghe,
ovunque trarlo vuoi, cupidamente
te segue ogne animante, e in mari e in alpe,
entro rapidi fiumi, ne’ frondosi
ritiri de’ volanti, e nelle verdi
campagne universal spirando amore,
461
fai sì che d’una in altra si propaghi
stirpe la vita con accesa brama.
S’hai tu il governo di natura, e nulla
esce al dì senza te, senza te nulla
v’ha d’amabile e lieto, a me ti piaccia
venir compagna nel dettar de’ carmi,
onde fia delle cose la natura
aperta a Memmo nostro, a cui tu desti
in ogni tempo, o Dea, tener la cima
d’ogni eccellenza. Quindi avviva, o Dea,
del tuo riso immortal queste mie carte.
Sopite sien per te frattanto l’aspre
guerresche fazïoni in terra e in mare,
perché tu sola puoi di cara pace
giovar le genti, se l’armipotente
arbitro Marte delle pugne orrende,
preso per te d’insazïato amore,
sovente nel tuo grembo s’abbandona,
e, resupino la viril cervice,
avido figge in te gli occhi e si bea.
Tu, allor, o Diva, che del santo corpo
sì lo sorreggi, e gli sovrasti amante,
dolcissime parole di tua bocca
versa, chiedendo pe’ Romani tuoi
secura pace; ché né in tal poss’io
età dira alla patria aver tranquilli
spirti, né in tai distrette il chiaro germe
de’ Memmi tôrsi alla comun salute.
Merenda 1858
O de’ Quiriti Genitrice, o cara
voluttà de’ mortali e degli Dei,
Venere bella, che sottesso gli ampi
giri degli astri popoli la terra
che di spiche s’adorna, e il mar che ha carco
di navi il dorso (poiché il vario stuolo
degli animali si concepe ed apre
tua mercè le pupille ai rai del Sole).
O Dea tu vieni, e al tuo venir le nubi
fuggono e i venti, e le dedalee glebe
menan fiori odorosi, e ridon l’onde,
e di luce più viva il Ciel risplende.
Come più tosto primavera il dolce
tempo rimena, e la soave brezza
fecondatrice di Favonio spira,
i dipinti dell’aria abitatori
462
cantano o Diva i tuoi ritorni il core
dal tuo strale feriti: ai lieti paschi
scherza il gregge feroce, e varca a nuoto
le rapide riviere; e all’esca preso
voluttuosa delle tue lusinghe
cupidamente ogni animal ti segue
per dovunque lo guidi: in fin pe’ mari,
e pe’ monti, e pe’ fiumi, e per le aperte
verdeggianti campagne e le frondose
dimore degli augelli in ogni petto
desti un soave palpito d’amore
che le stirpi propaga …. Intanto acqueta
l’ire di guerra in ogni dove: il riso
della pace è tuo dono: è Marte il Nume
delle battaglie che talora si getta
nel tuo grembo odoroso il cor trafitto
d’immortale ferita. Allor levate
verso te le pupille e sul tuo seno
appoggiata la testa e colla bocca
semiaperta gli sguardi avidamente
pasce d’amore, e alle tue labbra avvinta
quasi l’alma gli resta. Or mentre o Diva
tu lo soffolci col divin tuo corpo
il miel soave delle tue parole
impetri al germe di Quirin la pace.
Cipriani 1863
Degli Eneadi madre, animatrice
Venere, amor degli uomini e de’ Numi,
che sotto a’ roteanti astri fecondi
il navigato mar, le fruttuose
glebe, mentre per te si crea e nutre
d’animali ogni specie a’ rai del sole:
te, Dea, fuggono i venti ed in dileguo
al tuo primo apparir vanno le nubi;
il suolo industre a te fiori olezzanti
germoglia, arridon le marine e brilla
per diffuso splendor tranquillo il cielo.
E come appena al dì lieta disvela
Primavera il suo viso e novamente
di Favonio il fecondo alito spira,
gli aerei augelli, che nel cor ti sentono
te, Diva, e il tuo venir nunziano primi;
salta ne’ pingui paschi e le correnti
rapide varca a nuoto il ferin gregge:
tale allettato da’ tuoi vezzi ovunque
MAGNONI
trarlo ti piaccia disïosamente
ogni animal te segue e in mari, in monti,
entro rapidi fiumi, negli asili
frondosi degli augelli, in verdeggianti
prati spirando universale amore
opri così che col desìo la vita
ogni specie ne’ secoli propaghi.
Se tu sola il governo hai di natura
e senza te nulla esce al giorno e nulla
senza te lieto e amabile diviene:
tu siimi aita nel dettar de’ carmi
onde i segreti di natura aperti
far tento a Memmo nostro, a cui tu, Diva,
in tutte cose valentìa consenti.
Quindi tu spira, o Diva, a’ detti miei
eterna grazia e fa che quete intanto
nella terra e nel mar posino l’armi.
Perché tu sola consolar le genti
puoi colla pace se al tuo dolce amplesso
l’armipotente, bellicoso Marte
d’amore inestinguibile compreso
s’abbandona sovente e resupino
fisando il guardo nel divin tuo viso
di tua bellezza estatico si bea.
Tu allora, inclita Diva, che del santo
corpo sì lo sorreggi ed amorosa
gli sovrasti abbracciandolo, soavi
parole effondi da’ labbri tuoi e pace
stabile implora alla romana gente;
ché in tali tempi alla mia patria avversi
né possiam noi tranquilli oprar, né torsi
puote de’ Memmi la cospicua schiatta
in tali eventi alla comun salute.
Vanzolini 1863 (ed. int. 1879)
Degli Eneadi madre, alma Ciprigna,
voluttà de’ mortali e de’ celesti,
la qual sotto i rotanti astri del cielo
il navigero mare e il suol ferace
empi di tua virtù; ché si concepe
per te ogni specie d’animanti e nata
del sole avvivator si gode al raggio:
te, dea, te i venti, te le nubi fuggono
quando ne fai ritorno; a te summette
soavi fiori la dedalea terra;
a te lo suol marino arride, e il cielo
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
luce placato di più spanto lume.
Ché appena Primavera in sua beltade
al dì si manifesta, e di Favonio
spira dischiusa la feconda auretta
te primamente, o dea, gli aerei augelli,
e tua venuta van significando,
dalla tua forza tocchi entro del cuore.
Indi ogni fera per gli allegri paschi
va saltellando e i rapidi torrenti
nuotando varca; con sì forte affetto
alle tue grazie presa e a’ blandimenti
ogni sorta animai segueti ovunque
ti talenta menarli. Infin tu, diva,
pe’ mari e’ monti e pe’ rapaci fiumi
e pe’ fronzuti alberghi degli augelli
e pel verde de’ campi a tutti un dolce
mettendo amor per entro alle midolle
adopri sì che desïosamente
si propaghi ciascuno in sua famiglia.
Or poi che sola tu reggi natura,
né cosa senza te nasce alle aperte
aure del dì, né lieta o amabil fassi;
te, diva, amo compagna a questi versi,
che delle cose intorno alla natura
al Memmiada nostro oso cantare:
cui tu volesti porre a tutti in cima
d’ogni tuo dono in ogni etade adorno.
Onde, o diva, via più spira a’ miei detti
eterna grazia: e intanto fa che l’empie
per ogni terra e mar fiamme di guerra
quetin sopite: ché di lieta pace
i mortali bear tu sola puoi,
dacché regge di guerra i feri ludi
l’armipotente Marte, il qual sovente
resupino si adagia entro al tuo grembo,
ferito d’eternal piaga d’amore;
e sì guardando in suso, il ritondetto
collo piegato, e in te le labbra aperte,
pasce d’amore i cupid’occhi, e pende
tutta l’anima sua dal tuo bel viso.
Or mentre presso le tue membra sante
questi riposa, e tu sovra gl’inchina,
inclita diva, il capo, e dalla bocca
versa soavi parolette accorte
per li Romani tuoi chiedendo pace.
Però che a’ tempi sì funesti a Roma
463
né possiam noi con riposato cuore
por mente a scriver versi, né di Memmio
la chiara stirpe alla comun salute
negarsi in tanta estremità di cose
Tolomei 1863
O del seme d’Enea madre, de’ Numi
voluttà e de’ mortali, alma Ciprigna,
che il navigato mar, che l’ubertose
terre nel raggio dei volubil’astri
fai di vita festanti, è in tua virtude
se nel lume del sol nasce e s’allieta
tanta famiglia d’animai. Te Diva
fuggono i venti, e il nubilo orizzonte
risplende al tuo venir; a Te profumi
manda l’industre terra; a Te d’un riso
l’infinita dei mari onda s’increspa,
serenato e diffuso arde l’Olimpo
fulgidamente. E come il nuovo Aprile
i giorni abbella, e la feconda espande
ala Favonio, aerei pellegrini
nunziano il tuo venir, Diva, i pennuti
del tuo Nume compunti. Indi pel verde
dei lieti paschi erra il selvaggio armento
o la ratta disfida onda dei fiumi.
Si fattamente di tuoi molli incanti
e di tue gioje ogni vivente annodi,
che per qual via Tu mova, o a qual Tu miri
anelando Ti segue. E via pei mari,
e in vetta ai monti, o dentro acque torrenti
e dei volanti nei frondosi alberghi,
o in apriche verzure, entro ogni petto
la soave inspirando aura d’amore,
è tua virtù se con dolci desiri
si rinnovi ogni schiatta e s’infuturi.
Poichè il vario degli enti ordin correggi,
Diva, Tu sola, e senza Te prodotta
nulla cosa è nel Sol, né s’aggioconda,
né s’accende d’amor, socia a miei carmi
te invoco or ch’io dell’universe cose
canterò la natura; e a Memmio nostro
che d’ogni pregio, tua mercè, s’adorna
sovr’ ogni altro mortal, voli il mio canto.
Però d’eterna venustà cospargi,
diva, le note, e fa che intanto il fiero
ludo dei brandi in ogni mare e in ogni
464
piaggia si plachi, ché ben puoi Tu sola
di tranquilla bear pace i mortali.
Tu il puoi, ché impero ha sulla rea vicenda
delle pugne Gradivo armipotente:
e spesso vien che nel tuo grembo ei posi
dalla piaga immortal vinto d’amore,
e tal, dimesso il formidabil capo,
ti riguardi ammirando, e sospiroso
in Te, Dea, gli amorosi occhi disseti
avidamente, e dal tuo labro penda
tutta l’anima sua. Tu allor d’amplessi,
mentr’ei posa sul tuo petto divino,
lo ricingi amorosa e gli susurra
soavissimi accenti al cor, chiedendo
il seren della pace, Inclita, a Roma.
Ché in questi giorni della patria iniqui
non s’adagia il mio cor; né può l’eccelsa
prole dei Memmi, in così duri eventi
negar sè stessa alla comun salute.
Sartori 1876
Del gran germe d’Enea generatrice,
de’ mortai, degli Dei vita, e diletto,
Alma Venere bella, o tu del cielo
sotto i segni volubili lucenti,
tu che il mare navigero, e le terre
ubertose del tuo sguardo fecondi:
poiché tutta per te la gran famiglia
degli animai s’ingenera, e, giâ surta,
mira il lume del Sol, te, Dea, te i venti
fuggono; te del ciel le fosche nubi
al tuo primo apparir: a te soavi
porge ingegnosa e frutti, e fior la terra:
a te ride del mar l’onda, e di largo
lume rifulge il Ciel queto e sereno.
Ché tosto che della stagion fiorita
si mostrano i bei giorni, e di Favonio
spira già l’aura genital dischiusa,
te gli aerei pennuti, o Diva, in pria
nunciano, e il tuo venir, già tocchi il core
dall’arcana tua possa: inde selvagge
fere, i pingui scorrendo e lieti paschi,
scherzan festose, ed i torrenti, e i fiumi
sfidano a nuoto. Dalle grazie tue,
dai tuoi vezzi così già presa, e vinta,
te desïosa ogn’animal natura
MAGNONI
segue ovunque la guidi a tuo talento.
Alla fine pei mari, i fiumi, e i monti,
e degli augei per le frondose stanze,
e pei colli, e pei campi, in ogni petto
instillando un amor blando e soave
cupido fai che si propaghi il mondo.
Poiché dunque sei tu, che delle cose
sola governi la natura, e nulla
surge del lume nell’aeree piagge
senza te, né si fa lieta, né degna
cosa alcuna d’amor, te guida io bramo
aver ne’ carmi miei, ché al nostro Memmio
delle cose svelar vo’ la natura,
Memmio, cui, Dea, tu stessa ognor volesti
d’ogni pregio far ricco: onde al mio dire
vieppiù dona, o mia Diva, eterna grazia.
Fa ch’intanto il furore empio di guerra
per le terre, e pei mari omai s’acqueti.
Poiché sola bear puoi di tranquilla
pace i mortai: ché della guerra i casi
regge dell’armi il Dio, che, dall’eterna
amorosa ferita il cor conquiso,
spesso ti giace in grembo: e sì riposta
la ben fatta cervice in sù lo sguardo
fissando tutto in te, Diva, e nel tuo
viso assorto d’amor gli avidi lumi
pasce, e supin da’ labbri tuoi tal pende
ch’in quei sembra versar tutt’i suoi spiriti:
tu dunque allor che sul divin tuo corpo
ei si riposa, circonfusa, o Diva,
sciogli il labbro in dolcissime querele,
e pace, o santa, a’ tuoi Romani impetra;
ché volontier né della patria in questi
pormi all’opra poss’io perversi tempi
né mancare de’ Memmj il chiaro germe
in tai perigli alla comun salvezza.
Rapisardi 1880
O degli Eneadi madre, o degli umani,
dei numi voluttà, Venere altrice,
che il navigero mar, che l’ubertose
terre, del ciel sotto i volgenti segni,
popoli, ché per te genera, e nato
del sole a’ raggi ogni animal si allegra;
te, dea, fuggono i venti; al tuo venire
dileguansi le nubi; a te sommette
465
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
fiori soavi la dedalea terra;
a te ridon le vaste onde e placato
d’una luce diffusa il ciel risplende.
Te, come pria la bella primavera
i suoi giorni dischiude, e sciolta avvivasi
la dolce di favonio aura feconda,
cantan reduce dea gli aerei uccelli,
che primi il tuo poter sentono in core;
pe’ lieti paschi esultano le greggi,
guadan ratte fiumane; ed a tal segno
preso è da’ vezzi tuoi, che ovunque il guidi,
cupidamente ogni animal ti segue.
Tu infin per monti e mari e per rapaci
fiumi e campagne verdeggianti e case
frondifere d’alati, in ogni petto
alto incutendo un dilettoso amore,
fai che ciascuno per la propria specie
con gran desio la stirpe sua propaghi.
E giacché sola tu reggi il governo
dell’universo, e nulla a le divine
rive del giorno senza te si leva,
nulla è senza di te lieto e giocondo,
te spiratrice a questi versi imploro
or che le leggi di Natura intendo
svelar di Memmio al figlio, a noi sì caro
e che tu, dea, d’ogni bel pregio ornato
sempre e in tutte le cose egregio hai fatto.
Però, meglio che mai, diva, consenti
una grazia immortale a’ detti miei,
e fa’ che in terra e in mar taccian fra tanto
gli acri studj dell’armi alfin sopiti,
quando sola tu puoi giovar di cheta
pace i mortali, e Marte armipossente,
che l’aspre della guerra arti governa,
dall’eterna d’amor piaga conquiso,
spesse volte nel tuo grembo si lascia,
e abbandonando stupefatto indietro
la bella testa, con bocca anelante
d’amore avidi in te pasce gli sguardi,
resupino così, che tutto, o dea,
dalle tue labbra il suo spirito pende.
Deh, mentre tu col corpo intemerato
circonfondi sovrana il dio giacente,
sciogli del labbro il dir suave, e pace
placida pe’ Romani, inclita, chiedi:
ché attender non turbato io non potrei
fra’ turbamenti della patria all’opra,
né di Memmio mancar potría la chiara
stirpe in tal uopo alla comun salute.
Cavagnari 1882
Della stirpe romulea genitrice,
Venere santa, voluttà de’ numi
e de’ mortali, che dai cerchi eterni
fulgida spiani a’ naviganti il mare
e la terra ferace empi di vita,
ché da te si procrea, per te s’affaccia
alle soglie del giorno ogni animale,
te, dea, fuggono i venti; al giunger tuo
scompaiono le nubi; a te l’industre
gleba coltiva gli odorati fiori,
per te scherzano l’onde e riscintilla
ne’ diffusi splendori il ciel pacato.
Scuote non ben le vesti algide il verno,
non il mite e fecondo alita aprile
e incitati da’ tuoi dolcepungenti
stimoli, già gli aërei cantori
s’alzan l’arrivo tuo significando;
festose indi saltellano pei verdi
paschi le mandre e i rapidi torrenti
varcano; colto alle blandizie tue,
con infrenabil bramosia te segue
ove tu il tragga ogni vivente e via
per mari e fiumi e monti e campi e case
d’augei fronzute, ad eternar la vita
blando ne’ petti tu concili amore.
Or te, che sola delle cose tutte
la vicenda governi; e non ispunta,
se tu nol voglia, un raggio; e fora, orbato
del tuo soccorso, arida landa e muta
e inamabile il mondo, iddia, te invoco
auspice al carme onde a svelar m’accingo
di natura gli arcani a Memmio nostro,
ch’è d’ogni pregio, tua mercè, superbo.
Di non caduca venustà tu dunque
ingentilisci il verso e fa che in terra
taccia intanto e sul mare ogni guerresco
orror. La pace vien da te; de’ campi
cruenti il nume, Marte armipossente
placar tu puoi quando com’ei costuma,
dall’eterno ferir vinto d’amore,
estenuato al tuo grembo si dà
466
e la fronte alle stelle, con aperta
bocca in te, dea, gli sguardi avidi pasce
arrovesciato sì, che il suo respiro
onda è del tuo. Allor tu, circonfuso
sovra il corpo celeste, inclita, il dio,
co’ labbri elisi alla tua Roma pace
pace deh implora! Se in nefande guerre
duri la patria, mal potrà il mio genio
alacre alzarsi e mal porgermi ascolto
Memmio, votato alla comun salute.
De Antonio 1883
O madre degli Eneadi, alma de’ Numi,
e dell’uom voluttà, Venere bella,
che il navigero mare e le feraci
terre del ciel sotto i rotanti segni
popoli ed orni d’animali e piante,
per te concepe ogni animale e figlia,
e la luce del sol per te rimira:
te Dea fuggon i venti, il venir tuo
fuggon le nubi, a te fiori soavi
nutre e sommette la dedalea Terra,
a te sorride il mare, a te placato
la placida sua luce il ciel diffonde.
E quando riede la stagion novella
e col primaveril fecondo fiato
Zefiro torna ad allegrar la terra,
te, Dea, saluta primo e il tuo ritorno
l’augel dell’aria, che d’amor ferito
sente nel cor del Nume tuo la possa,
esulta il gregge negli ameni paschi
e i rapidi torrenti a nuoto varca,
e dove il chiami o guidi avidamente
preso da’ vezzi tuoi corre giulivo.
Tu pe’ mari e pe’ monti e pel rapace
corso de’ fiumi e per foreste ombrose
e per gli aprici verdeggianti campi,
d’amor giocondo riscaldando i petti,
desti nell’alme quel desio soave,
per cui la specie ogni animal propaga.
E poi che sola delle cose, o Diva,
tieni il governo e la natura reggi,
e niuna cosa senza te mai surse
a respirar le pure aure vitali,
né letizia esser puote ove tu manchi,
socia e propizia all’opra mia te bramo,
MAGNONI
ove le cose e la natura in dolci
carmi descrivo al generoso figlio
de’ Memmi, che tu, Dea, d’ogni bell’arte
sempre volesti ornato e d’ogni laude.
Grazia immortale a’ versi miei concedi
e per mari e per terre abbiano intanto
tregua i ludi dell’armi e di tranquilla
pace gli uomini bea tu che il puoi sola.
Da’ nodi avvinto di perenne amore
spesso nel grembo tuo riposa il capo
il belligero Iddio Marte Gradivo,
e lo sguardo bramoso in te fissando,
dell’amor tuo si pasce e pende immoto
dal labbro tuo divin; ora a lui mentre
prona d’un guardo il fai beato, o Diva,
volgi preghiera perché taccia il grido
tristo di guerra e le Romulee genti
pace sotto le bianche ali raccolga.
Ché tra i tumulti bellici e i perigli
della patria compir io non potrei
l’opra incoata, e alla comun salvezza
non potrebbe mancar l’opra d’un Memmio
germe preclaro della Memmia stirpe.
Menegazzi 1892
Madre a gli Eneadi, gioia, desio de’ mortali
[e de’ numi,
alma Venere iddia, che di sotto al mutevole
[cielo
il navigero mare, la terra frugiferente
susciti a nozze; o iddia, per te d’animanti
[ogni specie
s’apre a la vita e sorge, la luce a godere del
[sole.
Te venïente, o dea, te i gelidi venti e le nubi
fuggono; a te dischiude la dédala terra i so
[avi
fiori, sorride a te l’immensa distesa de’ mari,
splende, rasserenato, d’un lume diffuso
[l’olimpo.
Poi come il mondo s’apre nel raggio di
[primavera,
e disserrata spira di zefiro l’aura feconda,
primi gli aerei augelli, nel cuor da tua forza
[percossi,
il tuo ritorno, o dea, conclaman soave
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
[cantando.
Indi gli armenti esultan pe’ lieti pascoli verdi,
passan torrenti e fiumi: di tale dolcezza
[rapiti,
che desïosamente ti seguono, attratti,
[dovunque.
E via pe’ mari immensi, su’ monti e ne’
[fiumi rapaci,
e degli augei ne’ domi frondosi e pe’ campi
[virenti,
entro nel seno a tutti stillando l’ambrosia
[d’amore,
fai che cupidamente le schiatte s’innovin per
[gli anni.
E poi che sola, o dea, tu reggi le cose universe,
e senza te nessuno può a fulgidi liti del giorno
sorgere, e niuna cosa gioconda ed amabile
[farsi,
siimi compagna, o diva, ne l’aspra fatica de’
[carmi,
or che svelare io tento gli arcani de la natura.
E fa che de le pugne s’acquetino intanto le
[rabbie,
per la terra e pel mare, per tutto dovunque tu
[regni.
Tu sola, o dea, tu sola, ne puoi ridonare la
[pace,
poi che possente in armi va Marte reggendo
[le pugne.
Ei, da l’eterna piaga d’amore ferito, sovente
gittasi nel tuo grembo, e, chino la splendida
[testa,
pasce d’amore gli avidi sguardi, in te fiso, o
[divina,
e dal tuo labbro pende, a lui resupino, lo
[spirto.
Or al giacente, o dea, del santo tuo petto
[ricinto,
dolci amorosi detti dal labbro soave gli
[aprendo,
tu gli domanda, o santa, pe’ figli di Romolo
[pace.
Ferracini 1894
Alma Venere, o madre degli Eneadi,
voluttà dei mortali e degli dei,
467
che il navigero mare e le feraci
terre di sotto alle giranti stelle
di vita allieti poiché fai che tutte
nascan le stirpi dei viventi e il sole
generate rimirino; te, diva,
te rifuggon i venti e al tuo apparire
si dileguan le nuvole del cielo:
fiori soavi la dedalea terra
a te germoglia; a te dei vasti mari
l’onde mandan sorrisi e serenato
di vivido fulgore il ciel risplende
diffusamente. E non appena il giorno
primaverile si schiude e aperto avvivisi
il fecondo favonio, il cor percossi
dalla tua forza annunziano i volanti
il tuo venire, indi i selvaggi armenti
saltellano qua e là pei lieti paschi
e traversan le rapide correnti.
Così rapito da’ tuoi molli vezzi
ogni vivente con desio ti segue,
e in qual vuoi parte tu lo guidi. Infine,
per mari e monti e travolgenti fiumi
e pe’ fronzuti degli uccelli alberghi
e i verdi campi, in ogni cor versando
un dolce amor, tu fai che con desîo
la propria stirpe ogni animal propaghi.
Poiché dunque tu sola la natura
delle cose governi e niuna cosa
nasce del giorno alle region divine,
e niuna cosa si allïeta e degna
d’amor si rende, nel comporre i carmi
te socia io bramo, in cui della natura
svelar tento gli arcani al nostro amato
sangue di Memmio che tu, diva, adorno
d’ogni tuo don sempre innalzar volesti.
Perciò grazia immortal meglio tu, diva,
dona a’ miei carmi. E in ogni terra e mare
fa che intanto le crude opre di guerra
posin placate. Ché a te sola è dato
bear gli umani di tranquilla pace.
Perrocché Marte armipossente l’arti
fiere regge di guerra, egli che spesso,
domato da immortal piaga d’amore,
nel tuo sen s’abbandona e, reclinato
il ben tornito collo, ti riguarda,
ed anelando l’avide pupille
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pasce d’amor così che dal tuo labbro
tutto pende il suo spirto. Or tu che cingi
col santo corpo il resupin, gl’infondi
soavi accenti, e una pace tranquilla,
inclita diva, pei Romani implora.
Psaila 1895
O voluttà degli uomini e di numi,
genitrice di Enea, Venere bella,
che del ciel sotto i passeggieri segni
popoli il mar navigero di pesci,
di fruttüose biade orni la terra:
per tua cagione ogni animato corpo
concetto e nato guarda i rai del sole.
Te, Diva, i venti fuggono: le nubi
l’arrivo tuo, varïopinti fiori
ti schiera ai passi la solerte terra,
a te sorride l’ocëano e calmo
brilla di effuso lume il firmamento.
Tostoché s’apre il maestoso aspetto
di primavera e disserrata l’aura
del fecondante zeffiro si avviva,
primi gli augei da te percossi il core
cantan il dolce tuo ritorno, o Diva.
Indi saltella per i paschi ameni
il lanuto bestiame e passa a nuoto
rapidi fiumi: da bellezza indotto
e dai tuoi vezzi avidamente segue
Te qualunque animale, ove lo guidi.
Finalmente pei mar, per le montagne,
per i rapaci fiumi e i frondeggianti
di uccelli alberghi e i verdeggianti campi,
tenero amor spirando in tutti i petti,
opri in guisa che ognun generalmente
propaghi con fervor la propria stirpe.
Giacché tu sola a la natura imperi
né, senza te, ai divini orli del giorno
risorge alcuna cosa, né diventa
alcuna cosa amabile, né lieta
te procura esser socia a scriver versi
che su natura a stender m’ingegno
al nostro Memmio, il qual volesti, o Dea,
ornato di ogni pregio andar famoso
in ogni tempo: or maggiormente accorda,
diva, ai miei detti venustà perenne.
Fa sì che intanto i giuochi aspri di guerra
MAGNONI
per le terre e pei mar giaccian sopiti;
poiché tu sola con tranquilla pace
puoi sollevare i miseri mortali
avvegnaché de la battaglia i duri
regga doveri Marte armipotente,
che nel tuo grembo spesso si rimette,
vinto di amor da una insanabil piaga:
e così alzando gli occhi e la rotonda
cervice riposando, a bocca aperta,
pasce d’amor gli avidi sguardi e pende,
dea, dai tuoi labbri del supin lo spirto.
Sciogli soavi parolette e prega
costui giacente sul divin tuo petto
avviticchiata intorno a lui, che renda
ferma pace ai Romani, inclita Diva;
perocché darci all’opra in questi tempi
tristi alla patria non possiam coll’alma
imperturbata né potrà la chiara
stirpe di Memmio, in tal condizione,
abbandonar la pubblica salute.
Elisei 1896
O degli Eneadi madre, alma Ciprigna,
degli uomini delizia e degli Dei,
tu, che, nel raggio de’ superni giri,
il navigato mar, la pingue terra
fecondi; ché per te, Diva, concepe
ogni animata stirpe, ed a l’aprico
raggio di Febo il novo parto esulta:
a te dinanzi, o Dea, fuggono i venti
fuggon le nubi; a te manda odorata
copia di fior quest’ammirabil terra;
a te ride del mar l’immenso piano;
e il ciel tutto di viva luce acceso
splende placato. E come al dì l’aspetto
primaveril ritorna, e di Favonio
spira il fecondator soffio novello;
primi salutan te, Diva, che incedi
i vaganti augelletti, il cor percossi
da tua virtù; saltellano pei lieti
paschi le agnelle; a prova altre nei fiumi
nuotan per giuoco; e dal piacer condotte
move ciascuna ovunque tu le inviti.
Pel mar, pei monti e pei correnti fiumi,
pe’ verdi campi e pei frondosi alberghi
degli augelli, così, mentre soave
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
brama d’amore in ogni petto infondi,
segui tue leggi, e disïosamente
di stirpe in stirpe avanzano l’etadi.
E poi che, sola, di natura, o Diva,
l’ordin governi, e senza te non spunta
germoglio ovunque il dì spande i suoi raggi,
né letizia o bellezza si ritrova;
deh! Tu arridi compagna ai versi miei,
che a cantar de LA NATURA imprendo
DELLE COSE al mio Memmio, a lui che
[ornato
di tutti pregi, o Dea, sempre volesti
dagli altri insigne: e tanto più la grazia
quindi immortale ai versi miei concedi.
E ne concedi ancor, Diva, che l’aspre
militari fatiche in ogni loco
e di terra e di mar taccian sopite:
tu che, sola, donar puoi la tranquilla
pace ai mortali: però che di guerra
l’opre nefande il bellicoso impera
Marte, ch’ei pure, dall’eterna vinto
piaga d’amor, nel tuo grembo sovente
s’abbandona: ed il bel collo rovescio,
in te fissi gl’immoti occhi bramosi,
d’amor li pasce, e sta di lui supino
pur dal tuo volto l’anima sospesa.
Tu, Diva, allora le tue sante membra
sul giacente ricingi, e la diletta
voce movendo, placida ne impetra
pace ai Romani: ché l’iniqua etade
securi tutti noi viver non lascia,
e i gravi casi ognor fanno il mio Memmio
«Pensoso più d’altrui che di sé stesso».
Armaforte 1902
O del germe d’Enea progenitrice,
o voluttà degli uomini e dei numi,
Alma Venere iddia, che sotto agli astri
volgenti per il queto aere celeste,
il navigato mare, e l’ubertose
terre, empiendo di te, popoli e abbelli;
ché, per te generata, al sol s’allegra
l’infinita famiglia dei viventi;
te fuggono i brumal soffi, e le nubi,
al tuo santo apparir; a te cosparge
i germinati calici soavi
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la terra consapevole; a te ride
placida la distesa ampia dei mari,
e d’un lume diffuso il serenato
cielo risplende. Allor che vaga rompe
la primavera, e, schiuso, i campi avviva
molle alitando di favonio il fiato
fecondatore, te gli aerei uccelli
cantano primi, o diva, e il tuo ritorno,
saettati nel cor dalla possente
tua deità; quindi pei lieti paschi
scorrazza il gregge disfrenato, e guada
le correntìe di rapide fiumane.
Tale dovunque a te piace guidarlo,
affascinato dalle tue dolcezze,
con voglia ardente ogni animal ti segue.
Così per monti e mari e per rapaci
fiumi e campagne rinverdite e ombrosi
penetrali d’alati, in ogni petto
incutendo un desio dolce d’amore,
fai che cupidamente ogni diversa
stirpe si rinnovelli e si propaghi.
E poi che sola l’alto imperio reggi
di tutto l’universo, e cosa alcuna
non sorge alle vitali aure del giorno,
senza di te, né lieta di natia
grazia s’abbella, o amabile sorride,
te, dea, te invoco al canto mio compagna,
or che le leggi di Natura e gli alti
segreti disvelar tento al sì caro
figlio di Memmio, che tu, dea, volesti,
in ogni tempo, d’ogni pregio ornato.
Però meglio che mai, diva, concedi
a me tue grazie, e sia il mio canto eterno.
Fa’ che intanto pei mari e in ogni terra
lo strepito de l’armi alfin sopito
si plachi; quando tu sola, se vuoi,
giovi di tranquillissima quiete
i mortali; ché Marte armipossente
regge il governo dell’acerba guerra.
Egli, domato dall’eterna piaga
d’amor, spesso al tuo grembo s’abbandona,
e arrovesciata la superba testa,
te, stupefatto, ammira, ed anelando
pasce in te gli affamati occhi d’amore
avidamente; sì che, o dea, del nume
resupino la grande anima pende
470
dalla tua bocca. Allor mentre inchinato
il santo petto, circonfondi il caro
giacente, soavissime parole
a lui susurra, inclita dea, chiedendo
pe’ tuoi Romani la serena pace.
Ché, sì iniqui alla patria anni volgendo,
attender non potrei con riposato
animo al sacro carme, né potria
in tal uopo mancar la generosa
prole di Memmio alla comune salute.
Leardi 1918
(ma ante 1882, vd. supra n. 110)
O degli Eneadi madre, degli umani
e de’ celesti voluttà, alma Venere,
che sotto i segni mobili del cielo
il navigato mare e la di biade
terra altrice fecondi; ché concetto
è ogni animal per te nelle sue specie,
e la luce del sol nascendo mira:
te, al tuo apparire, o dea, fuggono i venti
e l’atre nubi, soavi fior germoglia
la terra industre, a te il marino flutto
sorride, e il cielo di diffusa luce
splende placato. Appena si apre il giorno
di primavera, e di Favonio schiusa
la genitale aura s’avvisa, primi
te salutano, o diva, e il tuo ritorno
gli aerei augei da tua forza in cor percossi;
pe’ lieti paschi le vaganti belve
saltano, e i gonfi varcano torrenti,
e alle tue grazie preso e alle lusinghe
MAGNONI
cupidamente ogni animal ti segue
dove li meni; e tu per mari e monti
per i fiumi rapaci, ne’ frondosi
alberghi degli augei, pe’ verdi campi
dolce inspirando in ogni petto amore
fai che sue stirpi Cupido propaghi.
Poiché le cose di natura sola
tu reggi, e senza te cosa non sorge
alle divine spiaggie della luce
né si fa lieta e amabile, te invoco,
compagna a’ versi miei, ne’ quali io studio
svelare la natura delle cose
a Memmio nostro, cui tu adorno festi
ed in ogni opra e in ogni tempo chiaro.
Dolcezza eterna al canto mio tu spira,
o diva, e fa che intanto in terra e in mare,
posin l’opre di guerra, ché tu sola
gli uomini allietar puoi di pace queta,
ché Marte armipotente le fiere opre
regge di guerra, e spesso ei s’abbandona
nel grembo tuo dalla ferita eterna
d’amore avvinto, e la lunga cervice
piegata addietro in alto riguardando
con bocca anela in te avido pasce
gli occhi di amore, e dal tuo viso pende
il suo respiro. Lui che sul tuo santo
corpo supino posa, o dea, circonda
sopra ridente, e con soavi detti
pace tranquilla pei Romani implora.
Ché della patria in questi fortunosi
tempi cantare con serena mente
non io posso, e de’ Memmii l’alta prole
non può mancare alla comun salute.