Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
Transcript
Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)
«EIKASMOS» XVI (2005) Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) «Quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una piglian posto nella mia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace» (G. Leopardi, Epistolario, a c. di P. Viani, Firenze 1883, I 28). Manca, a tutt’oggi, uno studio complessivo e organico sulla presenza e la ricezione di Lucrezio nella cultura italiana dell’Ottocento. Questa oggettiva lacuna nella bibliografia sul Fortleben lucreziano1 appare tanto più sorprendente perché inversamente proporzionale al rinnovato clima di interesse che nel secolo XIX ha circondato il poeta latino2. Ancora istruttivo a questo riguardo è il giudizio espresso da Mario Saccenti in un contributo di qualche anno fa: «Lucrezio invero, con tutto ciò che il suo poema significava […] tra razionalismo e sensismo, tra materialismo e meccanicismo e determinismo biologico, conosceva, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, la sua più fortunata stagione dopo quella galileiano-gassendiana del Seicento: la alimentavano, ora separati ora commisti, un positivismo che incorporava con qualche equivoco e qualche ingenuità concetti evoluzionistico-darwiniani, un socia1 Tra i contributi che ripercorrono a grandi linee la fortuna del testo lucreziano, focalizzandone alcuni snodi chiave, si possono ricordare G.D. Hadzsits, Lucretius and His Influence, LondonCalcutta-Sidney 1935 (invecchiato ma ancora utile); W. Schmid, Lukrez und der Wandel seines Bildes, «A&A» II (1946) 193-219; L. Alfonsi, L’avventura di Lucrezio nel mondo antico … e oltre, «Entr. Hardt» XXIV (1978) 271-321; V.E. Alfieri, Lucrezio tra l’antico e il moderno, «A&R» n.s. XXIX (1984) 113-128; P. Boyancé, La gloria di Lucrezio, in Lucrezio e l’epicureismo, trad. it. Brescia 19852 (ed. or. Paris 1963), 323-333; M. von Albrecht, Lucrezio nella cultura europea, «Paideia» LVIII (2003) 264-286; H. Jones, La tradizione epicurea. Atomismo e materialismo dall’Antichità all’Età Moderna, trad. it. Genova 1999 (ed. or. London-New York 1992), su Epicuro, ma con numerosi rinvii anche al De rerum natura; di un certo interesse sono i contributi apparsi nella miscellanea Présence de Lucrèce. «Actes du colloque tenu à Tours (3-5 décember 1998)», textes réun. et prés. par R. Poignault, Tours 1999, passim, e per l’età contemporanea, sebbene si rivolga ad un pubblico di non specialisti, anche W.R. Johnson, Lucretius and the Modern World, London 2000. 2 A un discorso analogo si presta, per la verità, anche il Settecento: Alfonsi, o.c. 271 lamentava infatti che, a fronte dell’attenzione riservata alla ricezione di Lucrezio presso il neoatomismo seicentesco, molto lavoro restasse ancora da fare per quella delicata età di passaggio tra Illuminismo e Preromanticismo che costituisce «un capitolo di solito trascurato dai latinisti, quanto vivacemente sviluppato da italianisti e storici della cultura e del pensiero». 420 MAGNONI lismo in espansione che pareva derivare dal mondo letterario atteggiamenti e accenti scapigliati, un anticlericalismo rinfocolatosi e allargatosi con e dopo Porta Pia fino a identificarsi con larga parte dell’Italia ufficiale»3. Come si vede, non risulta agevole ricondurre a unità i diversi fattori – politici, sociali, filosofici, letterari – che nell’arco di un secolo concorsero a riabilitare, in Italia, il nome dell’insanus poeta epicureo, creando le premesse per l’avvento di quella che ancora il Saccenti non esita a definire la «vera e propria congiuntura lucreziana» ottocentesca. Un fatto è certo. Chi intendesse tracciare un ampio affresco della fortuna italiana di Lucrezio nell’Ottocento – sull’esempio di quanto ha fatto Sebastiano Timpanaro per Lucano4 – dovrebbe esaminare la questione almeno sotto tre differenti angolature: la filologia, la filosofia, la letteratura5. È stato già osservato che lo sviluppo, in Italia, di una critica testuale e di un’esegesi del testo lucreziano fondate su base scientifica è intimamente collegato al più generale risveglio della filologia classica che si attua nel nostro Paese nell’ultimo trentennio del secolo6: questo perché, a partire dal 1860, comincia ad essere recepito e messo a frutto il fondamentale lavoro ecdotico ed esegetico condotto sul De rerum natura in Germania e in Inghilterra tra gli anni Venti e la fine dell’Ottocento, lavoro concretizzatosi in una serie di edizioni critiche che sono rimaste, per ragioni diverse, esemplari, dal Lachmann (Berlin 1850) al Brieger (Leipzig 1894), passando per il Bernays (Leipzig 1852) e il Munro (l’Editio maior in tre volumi è del 1886). Tale eredità fu raccolta in Italia da Camillo Giussani: tra il 1896 e il 1898, a Torino, veniva alla luce la sua edizione riccamente commentata del De rerum natura7. Un vero «classico» degli studi lucreziani, per usare le parole del Timpanaro8, che si rivela a tutt’oggi strumento prezioso, se non sotto il 3 M. Saccenti, Leopardi e Lucrezio, in Leopardi e il mondo antico. «Atti del V Convegno Internazionale di studi leopardiani (Recanati 22-25 settembre 1980)», Firenze 1982, 120 (= M.S., Occasioni tra l’antico e il moderno, Modena 1989, 32s.). Sulla stessa linea si situa anche il seguente pensiero di Piero Treves: «anti-spiritualismo e anti-cristianesimo, […] le scoperte dei papiri ercolanesi di Filodemo o della scuola epicurea, l’esempio straniero del Guyau, tutto parve felicemente cospirare a re-immettere il poema di Lucrezio nell’universa cultura nostra» (L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli 1962, XXXVIII). 4 Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocento, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa 1980, 1-80. 5 Accenni sparsi alla rinascita lucreziana del secolo scorso si trovano in Treves, o.c. passim, nonché Id., Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962 e Tradizione classica e rinnovamento della storiografia, Milano-Napoli 1992. 6 In proposito mi limito a rinviare a E. Degani, Italia. La filologia greca nel secolo XX, in Filologia e storia. «Scritti di Enzo Degani», Hildesheim 2004, 1046-1120, con bibliografia. 7 Nella Prefazione che apre il primo volume degli Studi lucreziani, lo studioso, dopo avere ricordato le principali tappe della fortuna critica di Lucrezio nell’Ottocento, dichiara di volere «informare i lettori italiani del movimento moderno degli studi lucreziani, assai poco noti in generale» (VI). 8 S. Timpanaro, Il primo cinquantennio della «Rivista di Filologia e d’Istruzione Classica», «RFIC» s. 3 C (1972) 435 e n. 1, dove si ravvisa nello «splendido commento» lucreziano del Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 421 profilo della constitutio textus, certamente per la dottrina e l’acume dispiegati nell’esegesi delle questioni filosofiche. Quanto poi agli altri due aspetti della rinascita di Lucrezio nell’Ottocento – la letteratura e la filosofia – va detto che entrambi dischiudono prospettive di studio tanto attraenti quanto problematiche. Il primo chiama in causa la vexata quaestio delle possibili interferenze che la lettura del poema lucreziano – diretta o mediata – potè suscitare nelle due massime personalità poetiche del nostro primo Ottocento: Foscolo, che di Lucrezio fu anche traduttore, in prosa e in versi (vd. infra pp. 428s.), e Leopardi, la cui effettiva frequentazione con il testo lucreziano, viceversa, è ancora oggetto di discordanti valutazioni9; il secondo versante, in verità assai meno indagato, riguarda l’accoglienza riservata al De rerum natura in àmbito positivistico, quando la personalità e l’opera di Lucrezio divennero oggetto di ammirazione e autentico culto fra quanti – filosofi, critici militanti, letterati – si professavano seguaci della dottrina darwiniana10: fra i primi certamente Gaetano Trezza, il «prete darwinista» secondo la definizione di Papini11, e il poeta Mario Rapisardi, traduttore integrale di Lucrezio, sul quale avremo modo di tornare più avanti. Di questa rinascita lucreziana ottocentesca intenderei illustrare una facies decisamente meno nota, ma non per questo meno istruttiva: quella delle traduzioni. A ben vedere, i volgarizzamenti del De rerum natura rappresentano, se non il più significativo, certamente uno dei più pronunciati elementi di novità e di Giussani «il più diretto precedente» dei lavori del Bignone sulla filosofia epicurea: l’Epicuro laterziano del 1920 e l’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro del 1936. 9 Per un quadro d’insieme sulle traduzioni foscoliane di Lucrezio si veda U. Foscolo, Letture di Lucrezio. Dal De rerum natura al sonetto Alla sera, a c. di F. Longoni, Milano 1990. Per il vivace dibattito innescato dalla recente pubblicazione del frammento poetico foscoliano certamente ispirato all’inno a Venere di Lucrezio, si vedano anche V. Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino 1990, 193-197 (editio princeps con commento); M. Gigante, Foscolo e Lucrezio: un nuovo testo, «A&R» n.s. XXXV (1990) 112-114; F. Giancotti, Venere e Voluttà: un abbozzo poetico di Ugo Foscolo e Lucrezio, in AA.VV., «Studi classici e cristiani offerti a F. Corsaro», Catania 1994, 293-317. Sul tema Lucrezio e Leopardi segnaliamo da ultimo P. Mazzocchini, Lucrezio in Leopardi: ulteriori note ed osservazioni, «Orpheus» n.s. XXIV (2003) 148-184, con ampia bibliografia. 10 È il caso di accennare al fatto che il fervore mostrato dal Positivismo verso il poeta della ratio epicurea non fu esente da grossolani fraintendimenti di natura metodologica, con il risultato di «elevare un concetto scientifico moderno a criterio d’interpretazione storica e [...] rifletterlo paradossalmente a ritroso su un passato pre-scientifico» (P. Casini, Zoogonia e “trasformismo” nella fisica epicurea, «GCFI» s. 3 XVII [1963] 179). Il passo lucreziano che più si prestava a ragionamenti di questa natura è senza dubbio V 855-877, dove il Bailey stesso rileva «an even greater affinity to the Darwinian idea of the survival of the fittest» (Titi Lucreti Cari De rerum natura libri sex. Ed. with proleg., crit. app., transl. and comm. by C. B., Oxford 1947, 1465). Sulle connessioni, reali e presunte, fra la trattazione lucreziana dell’origine della specie e l’evoluzionismo darwiniano si sofferma ora G. Campbell nell’Introduction del suo recente commento a una sezione del V libro lucreziano (Lucretius on Creation and Evolution. A Commentary on De rerum natura 5, 772-1104, Oxford 2003, in part. 4ss.). 11 Autoritratti e ritratti, Milano 1962, 743-745. 422 MAGNONI originalità della parabola di Lucrezio nell’Ottocento italiano: il regesto delle versioni lucreziane apparse nel XIX sec. si impone all’attenzione per consistenza numerica e varietà tipologiche, tanto da costituire un unicum nella vicenda italiana del poema. Non meno di ventidue traduzioni (fra integrali e parziali, in prosa e in versi) furono condotte sul De rerum natura lungo tutto l’arco del secolo: un computo che decisamente va oltre le «four italian translations in verse and two in prose» cui è rimasta ferma la bibliografia lucreziana del Gordon (la cui stima riguarda, per la verità, solo l’ultimo quarto del secolo)12, ma che pure ha ricevuto sinora scarsa considerazione. Il problema, per la verità, è di portata più generale. Va detto, infatti, che lo studio delle traduzioni e degli interpreti, antichi e moderni, del De rerum natura ha riscosso sinora un interesse assai tiepido fra gli studiosi di Lucrezio (non senza qualche eccezione)13, all’opposto di quanto è accaduto per altri autori latini quali, ad esempio, Catullo, Virgilio, Orazio14. Chi voglia dunque farsi un’idea sull’iter complessivo delle traduzioni (italiane e non) di Lucrezio deve ancora ricorrere ad un contributo di Ferdinando Gabotto del 1918, il quale, malgrado l’apprezzabile originalità dell’impianto, non ha avuto séguito nella letteratura lucreziana del Novecento15. Sarà utile fare un passo indietro, per esaminare le traduzioni lucreziane sino al 1800. 12 Sono complessivamente undici (cinque in prosa, sei in poesia) le traduzioni italiane integrali sino al 1956 segnalate da C.A. Gordon, A Bibliography of Lucretius. Introd. and notes by E.J. Kenney, Winchester 19852, a fronte delle 17 in lingua francese, 19 inglesi, 5 tedesche, 3 russe, 5 spagnole (148). 13 A parte il volume di Saccenti sulla traduzione del Marchetti (per cui vd. infra n. 27) e alcuni interventi puntuali su quella del Rapisardi (su cui vd. infra pp. 436-438), fra i non numerosi lavori di argomento lucreziano si possono menzionare A. Barbuto, Ungaretti traduce Lucrezio, in «Atti del Convegno Internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino 3-6 ottobre 1979)», a c. di C. Bo-M. Petrucciani-M. Bruscia-M.C. Angelini-E. Cardone-D. Rossi, Urbino 1981, 639-653; J. Vons, Du Bellay, traducteur-interprète de Lucrèce, in Présence de Lucrèce cit. 313-326 (sulla versione cinquecentesca di Du Bellay), nonché F. Condello, Lucrezio, Catullo, Orazio e Sanguineti: esercizi di pseudotraslazione, in corso di stampa per «il Verri». Deludente, perché relativo ad una traduzione di concorso ministeriale, è G. Biasuz, Una traduzione da Lucrezio di Giacomo Zanella, in «Medioevo e Rinascimento veneto, con altri studi in onore di Lino Lazzarini», II. Dal Cinquecento al Novecento, Padova 1979, 393-408. 14 Tra i lavori più recenti, apparsi in veste ora di rassegne sistematiche ora di sondaggi e spigolature, mi limito a ricordare, a titolo di esempio, per Catullo, F.M. Pontani, Un secolo di traduzioni da Catullo, «RCCM» XIX (1977) 625-644; per Virgilio, oltre a N. Zorzetti, Traduzioni, in Enciclopedia Virgiliana V (1990) 244s., vd. A. Traina, La traduzione e il tempo. Tre versioni del proemio dell’Eneide (1-7), in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, III, Bologna 1989, 115-131; per Orazio, oltre a R. Rocca, Traduzioni, in Enciclopedia Oraziana I (1996) 367-369, si veda A. Traina, Traduzioni di Orazio, in AA.VV., «Atti dei Convegni di Venosa, Napoli, Roma (novembre 1993)», Venosa 1994, 329-337 e Id., Paolo Bufalini traduttore di Orazio, in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, V, Bologna 1998, 211-218. 15 Il testo apparve come Prefazione a Tito Lucrezio Caro. Della natura delle cose, trad. di C. Leardi, Tortona 1918, V-XXVI (delle traduzioni italiane si parla da p. XX). Prima del contributo del Gabotto, sui traduttori lucreziani si era rapidamente soffermato Amilcare Mazzarella nel Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 423 In Italia, analogamente al resto dell’Europa, si comincia piuttosto tardi a tradurre Lucrezio16, se consideriamo che sin dal 1417, secondo la communis opinio, il poema riappare nei circuiti nella cultura europea, grazie alla celebre scoperta di un codice lucreziano ad opera di Poggio Bracciolini. Né si può dire che, a questo vistoso ritardo sul fronte delle traduzioni, venga posto rimedio tra Umanesimo e Rinascimento, epoche in cui pure il De rerum natura è oggetto di un crescente interesse erudito e filologico: prova ne sono le 28 edizioni lucreziane (commentate e non) apparse in poco più di un secolo a partire dalla princeps del 1473 (Brescia, a cura di Tommaso Ferrando17). Si può ben dire che Lucrezio viene letto, studiato e annotato, ma nella misura in cui può esserlo un autore che non rientra nel canone scolastico degli scriptores classici18. Vero è, d’altra parte, che tra i secoli XVI e XVIII appaiono alcune riscritture cristianizzanti del poema, vale a dire poemi didattici redatti in perfetto stile lucreziano e volti a confutare la falsa dottrina di Epicuro: dal De principiis rerum di Scipione Capece (Capicius) edito a Napoli nel 1534 con dedica ad Alessandro Farnese, al De animorum immortalitate di Aonio Paleario (Lugduni 1536), antenati italiani del più celebre e fortunato Anti-Lucretius del Cardinale Melchior de Polignac, edito a Parigi nel 1747 (ma composto quasi interamente prima del 1700)19. Tuttavia, altro sono i liberi rifacimenti20, altro le traduzioni vere e proprie: e di queste, fedeli o libere che siano, se ne trovano ben poche21. suo studio su Lucrezio del 1846 (vd. infra p. 433), il quale, tuttavia, non aveva potuto citare che tre soli esempi italiani: il Marchetti, il Pastore e, per l’Ottocento, il Renieri (sui quali vd. infra rispettivamente pp. 425 e 433). Più ampia, benché ancora incompleta, è la panoramica sui traduttori prodotta da L. Cisorio in un breve articolo in cui si commenta un saggio di versione del Ferracini (Per un saggio di versione del poema di Tito Lucrezio Caro, Cremona 1901, estr. da «Il Torrazzo» XXIII [1901] 22ss.; per il Ferracini, vd. infra p. 440): fra i traduttori di Lucrezio presi in esame – in ordine cronologico il Marchetti, il Vanzolini, il Tolomei, il Sartori, il Rapisardi – è a quest’ultimo che il Cisorio riserva l’elogio più convinto, il quale consuona col giudizio già formulato qualche anno prima dal Trezza (vd. infra p. 438). 16 Come è giustamente rilevato da Gordon, o.c. 147: «translations of the De rerum natura were late in appearing and comparatively fewer then those of other classical authors of equal standing». 17 Cf. W.B. Fleischmann, Lucretius, in P.O. Kristeller-F.E. Cranz, Catalogus translationum et commentariorum. Mediaeval and Renaissance Latin Translations and Commentaries, II, Washington 1971, 349-365. 18 Sull’ambivalente destino del poema nel Cinquecento italiano si veda ora V. Prosperi, Di soavi licor gli orli del vaso. La fortuna di Lucrezio dall’Umanesimo alla Controriforma, Torino 2004 (in part. il capitolo Venere, la Vergine e la voluttà, 97-179), la quale osserva come le esplicite prese di distanza dall’«empio» poeta latino da parte di intellettuali, critici letterari, poeti, filologi e stampatori che costellano l’intero secolo – e di cui la studiosa offre qualche esempio – attestano la discreta diffusione e conoscenza di cui il De rerum natura godeva se non altro presso un pubblico dotto e selezionato di addetti ai lavori. 19 Vd. Fleischmann, o.c. 355 (con bibliografia) e Gordon, o.c. (Appendix II. The Imitators of Lucretius, 293-307). Dell’Anti-Lucretius Francesco Maria Ricci eseguì una traduzione italiana, apparsa in due volumi a Verona nel 1751 e riprodotta in una ristampa della traduzione marchettiana (Lausanne 1761). 20 Per quanto concerne i rifacimenti, basterà ricordare il filone di poesia scientifica di ispirazione lucreziana fiorito in Inghilterra tra Sette e Ottocento (su cui vd. T.J.B. Spencer, Lucretius and the Scientific Poem in English, in Lucretius, ed. by D.R. Dudley, London 1965, 131-164). 21 A proposito della indisponibilità di una traduzione in volgare del De rerum natura nel 424 MAGNONI Secondo la bibliografia lucreziana del Gordon, la prima traduzione italiana del poema sarebbe quella di Gianfranco Muscettola o Musettola (1530 ca.), di cui si sono tuttavia perse le tracce. Diversa testimonianza ci offre, sulla scorta del Quadrio22, la Storia della letteratura italiana del Tiraboschi (VII/3, Milano 1824, 1790), stando al quale sarebbe Tito Giovanni da Scandiano, morto nel 1582, il primo ad avere volgarizzato il De rerum natura. Nella lettera dedicatoria a Pietro Giovanni Ancarani premessa alla Fenice, poemetto in terzine edito a Venezia nel 1555, il letterato scandianese lasciò scritto di avere «tradotto, ampliato e commentato» Lucrezio. Tuttavia, nemmeno di questo lavoro di esegesi e traduzione compiuto sul poema si hanno ulteriori notizie23. Si può poi ricordare il rodigino Girolamo Frachetta, menzionato nella Bibliotheca del Fabricius come autore di una versio prosaica del poema lucreziano (I 84): il lavoro del Frachetta, stampato a Venezia nel 1589, consiste, per la verità, in una «Breve sposizione di tutta l’opera di Lucrezio, nella quale si disamina la dottrina di Epicuro e si mostra in che sia conforme al vero e con gl’insegnamenti di Aristotile, e in che differente»24. È noto che i secoli dal XVII al XVIII assistono alla rapida ascesa della stella lucreziana: il neoatomismo gassendiano, che tenta di conciliare il materialismo epicureo con il provvidenzialismo cristiano (del 1647 è lo scritto apologetico del Gassendi De vita et moribus Epicuri), e la scuola galileiana di Pisa per quanto attiene specificamente all’Italia tornano a leggere il divulgatore latino di Epicuro, fonte principale, insieme a Diogene Laerzio, della dottrina fisica del Giardino. Non stupisce, dunque, che le traduzioni di Lucrezio conoscano un veloce incremento e si infittiscano in tutte, o quasi, le lingue nazionali. Tra il Seicento e il Settecento, in Francia compaiono non meno di tredici traduzioni lucreziane, tra integrali e parziali, altrettante in Inghilterra, almeno quattro in Germania. E l’Italia? Rispetto alle altre nazioni europee, il nostro Paese continua a mostrarsi più refrattario ad accogliere il messaggio ideologicamente imbarazzante di Lucrezio, pregiudizialmente sentito come un alter Epicurus25: il numero esiguo delle traduzioni lo attesta in maniera eloquente. Nulla di rilevante offre il Cinquecento, né tantomeno il Seicento, quando pure Inghilterra e Francia vedono comparire la prima versione del poema lucreziano nelle rispettive lingue nazionali, ad opera di John Evelyn (1656, limitatamente al I libro)26 e di Michel de Marolles (1659). Cinquecento, Prosperi, o.c. 102 nota che «una rassegna dei frammenti o dei singoli versi lucreziani che si trovano tradotti in italiano all’interno di opere cinquecentesche […] testimonia del diffuso desiderio dei letterati italiani di cimentarsi con un’opera così alta». 22 Della storia e della ragione d’ogni poesia dell’abate F. Saverio Quadrio, IV, Milano 1749, 30 (sulle traduzioni). 23 «Della version di Lucrezio il solo sesto libro conservasi nella libreria de’ Conventuali di Asolo a cui fece dono de’ suoi libri» (1790s.). Anche il Fabricius nella sua Bibliotheca cita i «Titi Joannis Scandianensis Commentarii doctissimi» (I 85). 24 Che non si trattasse di una vera e propria traduzione attesta anche J.M. Paitoni, Biblioteca degli autori antichi greci, e latini volgarizzati, II, Venezia 1774, 238: «della traduzione di T. Giovanni Scandinense e della Parafrasi di Girolamo Frachetta io non parlo per non essere quella mai uscita alle stampe e questa una Esposizione diffusa della dottrina, non delle parole di Lucrezio». 25 Vd. A. Grilli, Leopardi e Lucrezio, «A&R» n.s. XLVI (2001) 52. 26 Per la prima traduzione integrale di Lucrezio in lingua inglese bisogna attendere il 1682, anno in cui esce ad Oxford quella del Reverendo Thomas Creech, destinata ad immediato successo editoriale, in patria e all’estero. Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 425 Se passiamo al Settecento, il computo è presto fatto: domina incontrastata la ‘bella infedele’ dello scienziato toscano Alessandro Marchetti, nelle cui mani il poema di Lucrezio assurge a simbolo dell’attacco sferrato dalla scuola galileiana contro il dogmatismo aristotelico dell’Accademia. Non a caso, malgrado la Protesta premessa alla traduzione, in cui il Marchetti dichiarava di non condividere «le ree e malvagie cose» professate da Lucrezio in materia religiosa, la traduzione, già pronta dal 1668, vede la luce postuma solo nel 1717, a Londra, per le cure di Paolo Rolli, e non sfugge alla messa all’Indice. Questo Lucrezio amplificato e ricantato, autentico monumento del «classicismo barocco-arcadico, erede di poesia greca e latina per i filtri di Petrarca, dei didascalici cinquecenteschi, di Caro, di Tasso, di Chiabrera, anticipatore e iniziatore […] delle maniere aggraziate e fiorite dell’Arcadia storica»27, conoscerà una serie pressoché ininterrotta di edizioni e ristampe, sino a quella curata dal Carducci nel 1864 per la casa editrice Barbera. Certo è che il coro di consensi e l’interesse di critica riscosso dalla versione dello scienziato toscano hanno finito per oscurare un’altra traduzione italiana di Lucrezio apparsa nel XVIII sec., quella dell’Abate Raffaele Pastore28, che tardò un poco ad apparire, se è vero che il Tiraboschi ammette di non averla potuta visionare29. Nemmeno questa traduzione del Pastore, decisamente più fedele e pedestre di quella marchettiana30, poté sfuggire alla censura del santo Uffizio, malgrado lo sforzo, trasparente già nel titolo, di neutralizzare le empietà del testo31. Discorso a parte merita poi una traduzione lucreziana inedita, e a quanto mi risulta pressoché sconosciuta, conservata in un manoscritto cartaceo della Biblioteca Statale di Cremona databile al sec. XVIII32, di cui dà notizia un articolo di L. Cisorio (Di una versione inedita del «De rerum natura» di 27 A. Marchetti, Della natura delle cose di Lucrezio, a c. di M. Saccenti, Modena 1992, XVIs. Per l’esauriente disamina dei modelli letterari presenti alla memoria del traduttore si veda, dello stesso autore, Lucrezio in Toscana. Studio su Alessandro Marchetti, Firenze 1966, in part. 170ss. 28 La filosofia della natura di Tito Lucrezio Caro e confutazione del suo deismo e materialismo, col poema di Aonio Paleario dell’immortalità degli animi dell’abate R. Pastore, Londra [ma Venezia] 1776. Ogni libro della traduzione è chiuso da Riflessioni e confutazioni particolari dei principali aspetti della dottrina materialistica di Epicuro. Sulla censura moralistica del Pastore nei confronti del poema lucreziano e le riserve espresse sulla traduzione del Marchetti, vd. Saccenti, Lucrezio in Toscana cit. 131. 29 La seconda edizione apparve a Modena tra il 1787 e il 1793. Cito dalla ristampa milanese del 1822, I 283. 30 Tuttavia, nel suo studio su Lucrezio del 1846, il Mazzarella notava che «la traduzione del Pastore, che è forse la più bella delle sue fatiche, merita lode per quella sobria fedeltà che appunto manca al suo predecessore; e qua e là essa si eleva a tutta la grandezza del proprio modello; però, con tutto questo, per essere il più spesso troppo pedissequa, con poco garbo, e talvolta anzi dura ed equivoca, non lascia di farci desiderare qualche cosa di meglio» (97). 31 L’aspetto curioso è che, a distanza di un secolo, i gusti del cattolicissimo Pastore si incontreranno sorprendentemente con quelli di Mario Rapisardi; l’abate e il poeta cultore di Darwin, infatti, tradussero, oltre al testo di Lucrezio, anche un altro poeta latino, molto lontano dal primo sotto il profilo ideologico: Catullo. Del liber catulliano il Pastore volgarizzò una scelta di carmi «d’espurgata lezione» (Vinegia 1776), verso i quali mostrò la stessa pruderie moralistica già riservata al poeta epicureo. 32 Vd. Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia. Opera fondata dal Prof. G. Mazzatinti, LXX, Firenze 1939, 110 (nr. 132). 426 MAGNONI Lucrezio esistente nella Biblioteca governativa di Cremona, Estratto da «La Provincia» di Cremona [CCV, 1899]). Come si desume dalla dedica posta sul frontespizio, la traduzione fu venduta da un certo Montaldi al prof. C. Fumagalli, insegnante nel Reale Liceo di Cremona, e da questi donata, nell’aprile del 1872, all’allora Bibliotecario della Biblioteca Nazionale di Cremona, Prof. Stefano Bissolati. Di provenienza ignota, il manoscritto reca internamente il nome del traduttore, tale Giovanni Allainig, probabile pseudonimo33. Il testo della traduzione, in versi numerati di cinque in cinque e vergati in scrittura corsiva «ordinata e nitidissima»34, è seguito, nel verso dell’ultima carta, da un foglio contenente l’elenco dei «Versi omessi e trasposti nella traduzione di T. Lucrezio Caro in italiano» e, nell’ultima carta dopo l’indice, da un Avvertimento, dove si specifica che la versione è stata condotta sull’edizione cominiana di Lucrezio stampata a Padova nel 172135. Tornando al problema della datazione e della genesi della traduzione, il Cisorio, nell’articolo citato, pur senza formulare ipotesi precise, è propenso a intendere la nostra versione come il prodotto della ribellione di uno «spirito libero» contro il clima di censura e il coro di critiche con cui era stata accolta la traduzione del Marchetti36. Tant’è che, a quanto riferisce ancora il Cisorio, l’intendimento del traduttore sarebbe filosofico prima che artistico e poetico: prova ne sarebbero, per un verso, la presenza di un ricco indice delle cose più insigni (dove sono elencati con cura i temi principali della dottrina epicurea trattati nel poema), per un altro, la mediocre fattura stilistica della traduzione («l’arte vi è scarsa e in genere vi manca l’eleganza, l’armonia e la maestà propria di Lucrezio», e «lo stile […] è in genere languido e freddo, poco delicato e soave»), la quale risulterebbe compensata, tuttavia, da «un’esposizione di pensiero sempre chiara e piana, tanto che in questa versione sembran quasi scomparsi gli intralciati misteri della filosofia degli atomi» (14s.). Sembra dunque lecito affermare che l’Ottocento mette fine al silenzio forzato cui Lucrezio era stato ridotto tra il Seicento e la fine del Settecento. A quasi due secoli di distanza dal ‘caso’ Alessandro Marchetti, nel XIX sec. il poema epicureo torna a circolare in lingua italiana, grazie ad una capillare attività di traduzione che dai primi decenni del secolo si prolunga sino alle soglie del Novecento. La celebre 33 A questo proposito il Cisorio precisa quanto segue: «dopo alcune ricerche abbiamo potuto constatare che appunto nel 1872 in Sospiro (provincia di Cremona), moriva un dotto parroco, un tal Tosi, dai cui eredi forse poté essere comperato dal Montaldi il manoscritto in questione insieme con altri libri che allora, dicesi, furono venduti. La coincidenza della morte di questo parroco con l’acquisto del codice fatto dal Fumagalli ci sembra degna che sia almeno rilevata» (6s.). 34 Mazzatinti, o.c. 110. 35 Titi Lucretii Cari de rerum natura libri VI. Ad optimorum exemplarium veritatem exacti. Quae praeterea in hac Patavina Editione accesserint, Epistolae subsequentis postremae paginae declarant, Patavii 1721. Excudebat Josephus Cominus. 36 «Non è improbabile che qualche spirito libero […] abbia ritentato con nobile ardire la prova, quasi per tener desta, se non nel pubblico, almeno in se stesso o nel circolo de’ suoi amici, la fiamma di quel libero pensiero acquistato a prezzo di tante lotte e di tanti sforzi. E forse questo spirito libero poteva nascondersi sotto la veste talare di qualche dotto prete, il quale, per isfuggire all’inevitabile censura de’ suoi correligionari, volle tener celato il suo nome sotto uno pseudonimo» (9s.). Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 427 dichiarazione del Terracini secondo cui «la traduzione è il genere letterario che più limpidamente riflette la storia del gusto e delle culture» trova nella vicenda lucreziana un’applicazione ed una conferma esemplari37. Che la vitalità di un testo si misuri e si lasci apprezzare compiutamente anche per il tramite dei suoi interpreti nelle diverse lingue nazionali è fatto ormai largamente riconosciuto da chi si occupa della fortuna e della sopravvivenza di un ‘classico’, di qualunque epoca o lingua: di qui l’idea di tracciare un profilo, o se vogliamo una mappa, della ricezione di Lucrezio nell’Ottocento italiano sub specie translationum. Ho provveduto a stilare un regesto delle traduzioni lucreziane di cui si è riusciti ad avere notizia, per lo più per via autoptica, talvolta solo di seconda mano. Va detto subito che il presente elenco intende raccogliere in una sede unitaria un materiale che, pur essendo almeno in parte noto, risultava sino ad ora disseminato in una pluralità di strumenti, non sempre facili da reperire e consultare38. Per ognuna di queste traduzioni, aventi fisionomie e caratteri difformi, si è provveduto a segnalare, laddove possibile: alcuni essenziali dati bio-bibliografici sul traduttore (o, in alternativa, il semplice rinvio agli strumenti idonei); la consistenza dei brani lucreziani tradotti; la presenza di eventuali dediche e prefazioni; la sede in cui il volgarizzamento vide la luce (opuscolo, volume – monografico o miscellaneo – o rivista); la biblioteca che ne conserva almeno un esemplare; infine – ma soltanto per pochissimi – la circostanza, o meglio l’occasione che ne condizionò l’ideazione e/o la pubblicazione. Infatti, è sufficiente anche solo scorrere alcuni di questi testi per ravvisarvi la fisionomia tipica dei testi d’occasione: un’‘occasionalità’ tanto più evidente per il fatto che, in più di un caso, si tratta di saggi di traduzione offerti in quella veste di opuscoli per nozze che aveva riscosso 37 B. Terracini, Il problema della traduzione, in Conflitti di lingue e di culture, Venezia 1957, 98. Già il Gabotto, o.c. XXs. individuava un nesso causale tra il consistente numero di traduzioni del poema apparse nella seconda metà dell’Ottocento e il fortunato trentennio di cui Lucrezio poté beneficiare in piena stagione darwiniana. 38 Oltre alle pagine del Gordon dedicate alle Italian translations (o.c. 193-211), ai fini del censimento mi sono avvalsa principalmente delle sezioni lucreziane comprese in W. EngelmannE. Preuss, Bibliotheca scriptorum classicorum, II. Scriptores Latini, Leipzig 1882, 400-407; P. Canal, Bibliotheca scriptorum classicorum Graecorum et Latinorum, Bassani 1884, 126-131; R. Klussmann, Bibliotheca scriptorum classicorum et Graecorum et Latinorum, II. Scriptores Latini, Leipzig 1912, 555-566; di alcuni repertori sulle traduzioni dal greco e dal latino, quali F. Argelati, Biblioteca dei volgarizzatori, II, Milano 1767, 349s.; Paitoni, o.c. 237s.; C. Lucchesini, Della illustrazione delle lingue antiche, e moderne e principalmente dell’Italiana procurata nel secolo XVIII dagli Italiani. Ragionamento storico, e critico di C. L., II, Lucca 1819, 158; F. Federici, Degli scrittori latini e delle italiane versioni delle loro opere. Notizie raccolte dall’Ab. F.F., Padova 1840, 17s.; della voce Lucretius del CLIO. Catalogo dei libri italiani dell’Ottocento (1801-1900), Milano 1991, 2695s. Per i profili biografici dei traduttori, mi limito qui a citare l’imprescindibile Archivio Biografico Italiano (ABI), così ripartito: I, a c. di T. Nappo, München 1987-1990; Archivio Biografico Italiano, II. Nuova serie, 1994; Archivio Biografico Italiano sino al 1996, III, 1999; Archivio Biografico Italiano fino al 2001, IV, 2000-. 428 MAGNONI larghissimo seguito negli ambienti del classicismo sette-ottocentesco, in particolare in area emiliano-romagnola39. Ugo Foscolo Da una ventina d’anni a questa parte, il quadro dei rapporti intrattenuti dal Foscolo con il De rerum natura si è fatto sensibilmente più sicuro e dettagliato. Il rinvenimento, negli anni Ottanta, di un esemplare della traduzione del Marchetti appartenuto al poeta, contenente alcuni saggi autografi e inediti di traduzione da Lucrezio, ha permesso di «ricostruire finalmente per intero quel “progetto” lucreziano»40 accarezzato dal Foscolo: il quale, proprio tra il 1802 ed il 1803, compose i tre celebri discorsi in prosa di argomento lucreziano (Della poesia lucreziana, De’ tempi di Lucrezio, Della religione lucreziana), prolegomeni ideali a un lavoro sistematico di traduzione e commento al poema che, di fatto, non fu mai intrapreso. È stato osservato come, nell’evoluzione poetica e filosofica del Foscolo, il De rerum natura fu il viatico privilegiato verso una conoscenza meno superficiale dei temi cardine della dottrina epicurea (l’atarassia, la dottrina del piacere catastematico, l’interpretazione meccanicistica dell’universo che esclude qualsiasi teodicea). Ma per il Foscolo il De rerum natura rappresentò qualcosa di più del semplice medium poetico con cui addolcire l’amara dottrina del Giardino. Se così non fosse, difficilmente ci spiegheremmo la lunga lista di luoghi foscoliani per i quali la critica ha da tempo identificato o fondatamente supposto ora possibili ascendenze lucreziane, ora generiche consonanze tematiche e lessicali tra i due testi, ora vere e proprie allusioni e riprese puntuali del De rerum natura, disseminate lungo un arco temporale che dall’Ortis del 1802 giunge sino alle Grazie (1813), con una concentrazione maggiore nella lirica e nei Sepolcri41. Ma ciò che più importa sottolineare in questa sede è l’esistenza di quei saggi di traduzione che il poeta appose, insieme a note 39 Nella produzione letteraria minore dell’Ottocento «le composizioni poetiche per nozze, “offerte, consacrate, dedicate” – come si scriveva – agli sposi o ai genitori nel giorno “sempre fausto, felice” del loro matrimonio» risultano «le più cariche di storia sociale e di storia del costume, essendo esse proiezione d’usi e rituali soggetti a mutamenti» (Giovanna Bosi Maramotti, Verseggiatori ed eruditi romagnoli tra Sette e Ottocento in opuscoli per nozze, «Studi Romagnoli» XLIII [1992] 338; della stessa vd. anche Le muse d’Imeneo. Metamorfosi letteraria dei libretti per nozze dal ’500 al ’900, Ravenna 1995). La studiosa ricorda come tra l’iniziale dominio della forma poetica, preferita per tutto il Settecento, e l’affermazione definitiva del testo in prosa, avvenuta in pieno Ottocento, si collochi una fase di trapasso, in cui ai componimenti originali furono significativamente preferiti i saggi di traduzione di testi classici. Per quanto attiene alla scelta degli autori tradotti, la palma va senza dubbio ai componimenti catulliani di argomento nuziale: dei soli carmi 61 e 64 J.P. Holoka (Gaius Valerius Catullus. A Systematic Bibliography, New York-London 1985) ha censito non meno di 22 traduzioni italiane, apparse lungo tutto l’arco del secolo. 40 Così il Longoni in Foscolo, o.c. 11, al quale si rimanda per una più accurata informazione su tutta la questione Foscolo-Lucrezio. 41 Per le più vistose tessere lucreziane ravvisate sino ad ora nell’opera del Foscolo si veda la ricognizione fatta da Longoni in Foscolo, o.c. 11ss. Particolarmente significativo è il caso del sonetto Alla sera: il già ricordato volume marchettiano contenente le traduzioni di Lucrezio ne ha infatti restituito una redazione con notevoli varianti, le quali attestano «profondi influssi lucreziani sulla stesura definitiva» (ibid. 18). Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 429 varie ed emende ortografiche, come marginalia alla versione lucreziana del Marchetti. Il Foscolo, dunque, non si accontentò di conoscere il De rerum natura per il solo tramite del suo intermediario seicentesco, ma compulsò direttamente l’originale latino: e non già in una qualunque antologia ad usum scholarum, ma nella pregevole edizione commentata del Reverendo inglese Thomas Creech. La stessa di cui il poeta si avvalse al momento di tradurre alcuni excerpta del poema latino. Quello che possiamo leggere nella versione foscoliana è però un Lucrezio quantitativamente ridotto: quasi «ritagliato e arrangiato» a misura del traduttore42. Unico fra i passi tradotti ad avere ricevuto una doppia redazione è l’episodio della giovenca (II 352-366), reso celebre dalle imitazioni virgiliane e ovidiane43: di questo brano il poeta approntò due distinte versioni, una in endecasillabi – conosciuta sin dall’Ottocento – ed una in prosa, decisamente più fedele alla lettera dell’originale, come l’autore stesso ebbe ad ammettere44. A questa seconda tipologia rispondono poi le traduzioni di alcune sezioni del III libro (1-248; 418-422; 770-790), in parte corredate da appunti a piè di pagina. Michele Leoni (?): Della natura delle cose. Poema di T. Lucrezio Caro. Nuovamente volgarizzato, prima edizione, Lugano, Tipografia Ruggia e Comp., 1827. Questa traduzione lucreziana è al centro di un piccolo mistero. Benché la bibliografia del Gordon (o.c. 207), che fa riferimento ad un esemplare conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, attribuisca la nostra versione a Michele Leoni, in realtà essa dovette circolare in forma anonima: tali risultano, infatti, le sei copie di cui ho potuto prendere visione in diverse biblioteche italiane45. Se non che, uno dei tre esemplari conservati presso l’Istituto milanese (precisamente quello con segnatura S N V I. 102), pur identico agli altri, reca, nel recto del foglio di guardia (margine sinistro in alto), la nota manoscritta «versione di Michele Leoni»; di qui l’errata dicitura con cui il volume è inventariato nel catalogo (Tito Lucrezio Caro, Della natura delle cose. Versione di Michele Leoni), la quale spiega, evidentemente, il dato registrato nel Gordon. Pur non essendo possibile accertare né la provenienza né l’attendibilità di questa nota marginale, essa appare di per sé interessante e persino attraente, considerata la notorietà e il ruolo non disprezzabile che Michele Leoni riveste nel 42 Nel senso in cui l’espressione è impiegata da A. Traina, Alfieri traduttore di Seneca, in Seneca nella coscienza dell’Europa, a c. di I. Dionigi, Milano 1999, 240 (ora in Poeti tradotti e traduttori poeti, a c. di I. Dionigi, Bologna 2004, 13) in relazione agli interventi di selezione e di omissione, preliminari alla traduzione, che l’Alfieri opera sul testo senecano. 43 Che il traduttore nutrisse un certo interesse per l’argomento di questo passo è confermato dal fatto che, come precisa Longoni in Foscolo, o.c. 51 n. 1, «il Foscolo ritornerà stigmatizzando, nel discorso Della religione lucreziana, la brutalità umana anche verso “quegli animali tranquilli e solitari” del tutto innocui alla sua incolumità, e riflettendo sulle crudeltà dei sacrifici nella Considerazione terza della Chioma, intorno a Diana Trivia (Ed. Naz., VI, Scritti politici e letterari dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Firenze 1972, pp. 395 sg.)». 44 Il poeta stesso aveva dato notizia di questi esercizi di traduzione in una lettera al Rosini datata 9 gennaio 1803: «vi dirò di me, ch’io morior curis, che vivo in casa più giorni alla settimana, che ho la barba lunghissima, che veglio notte e giorno, che traduco in prosa litteralmente Lucrezio» (Ed. Naz., Epist., I, a c. di P. Carli, Firenze 1949, 170). 45 Tutte e sei le copie – di cui una conservata alla Marciana di Venezia, due a Bologna (Biblioteca dell’Archiginnasio e Biblioteca di Casa Carducci), le restanti tre alla Biblioteca Ambrosiana – condividono la medesima intestazione riportata sopra. 430 MAGNONI panorama dei traduttori ottocenteschi di scuola classicistica46. Nell’ipotesi che l’attribuzione corrisponda a verità, la versione integrale di Lucrezio non sarebbe che una delle tante prove affrontate dal Leoni nel corso di una lunga e prolifica carriera di traduttore dalle lingue antiche e moderne. Per le prime si dovrà ricordare anzitutto il volgarizzamento dell’Eneide, apparso a Pisa nel 1821 e subito stroncato sulla rivista romana «Il Giornale Arcadico di Scienze, Lettere, ed Arti» (XIII [1822] 291-294), «organo ufficioso se non ufficiale» della Scuola classica romagnola47 e sede principe del dibattito sul problema del tradurre che infuriava in quegli anni48. Certo è che le critiche mosse dai Romagnoli al Leoni, caldamente 46 Borgo San Donnino (Parma) 1766-Parma 1858 (cf. ABI I 563,192). Dal 1840 Professore di Letteratura italiana alla Facoltà parmense, fu vivace poligrafo (tragedie e poesie varie) e svolse un’intensa attività pubblicistica presso diverse riviste dell’epoca, tra cui gli «Annali di scienze e lettere», da lui fondati insieme al Foscolo e al Rasori. Il Timpanaro (Aspetti della fortuna di Lucano cit. 59ss.) lo ricorda come «un letterato eclettico […] dotato, nel bene e nel male, di notevoli qualità mimetiche e assimilatrici», che «aveva svolto e continuava a svolgere un’utile opera di divulgazione e di mediazione culturale soprattutto come traduttore di innumerevoli autori classici (Virgilio, Sallustio, Lucano) e stranieri europei». A parte questa benemerita attività di traduzioni divulgative, per il resto il Leoni non diede contributi originali al panorama della cultura classicistica del tempo e al coevo dibattito sulla questione della lingua (vd. M. Turchi, Michele Leoni, testimone e interprete di un rinnovamento culturale, «Archivio storico per le Provincie Parmensi» s. 4 XVII [1965] 313: «la personalità di M. Leoni […] non può dirsi di quelle che riescono ad imprimere un carattere fortemente distintivo ed originale alla propria opera»). Degno di interesse è tuttavia un articolo di contenuto linguistico stampato nel 1821 sulla neonata «Antologia» col titolo Appendice Critica all’opera del Sig. C. Giulio Perticari: questo scritto del Leoni, apparso come recensione all’opuscolo del Perticari Dell’amor patrio di Dante (1820), rappresenta un atto d’accusa diretto contro l’autore e l’illustre suocero Vincenzo Monti, «sia per le premesse teoriche che per i metodi pratici seguiti nella Proposta, ed è, allo stesso tempo, una difesa decisa della funzione e dell’attività dell’Accademia della Crusca» (Stefania De Stefanis Ciccone, La questione della lingua nei periodici letterari del primo ’800, Firenze 1971, 141). 47 P. Ferratini, La traduzione dai classici latini in Romagna: lineamenti tipologici e quantitativi, in Scuola classica romagnola. «Atti del Convegno di studi (Faenza, 30 novembre, 1-2 dicembre 1984)», Modena 1988, 174, cui si rimanda per l’accurata disamina dei caratteri, teorici e pratici, del vertere romagnolo. 48 «Cinque principalmente […] sono i poeti greci e latini, de’ quali la nostra lingua ha così classiche traduzioni, che faticosissima cosa sia non già il superarle, ma l’andar loro pur da vicino: Omero, Callimaco, Lucrezio, Virgilio e Stazio, volgarizzati da altrettanti celebri uomini, il Monti, lo Strocchi, il Marchetti, il Caro e il Card. Bentivoglio. Sicchè noi vivamente preghiamo tutti coloro che si sentono di riuscire nell’arte difficile del tradurre, a consacrare gli studi loro ad altri grandi esemplari, e tenersi oggimai d’ogni inutile concorrenza con que’ solenni» (291). A margine si ricorderà che in quel torno di tempo l’Eneide del Caro fu oggetto di un’aspra polemica tra gli affiliati della Scuola classica, accesi fautori del volgarizzamento cinquecentesco, e alcuni ‘dissidenti’ traduttori di area emiliano-lombarda, tra cui lo stesso Leoni, il parmigiano Clemente Bondi e il Foscolo (cf. E. Bonora, Consensi e dissensi intorno all’«Eneide» del Caro, in Stile e tradizione. Studi sulla letteratura italiana dal Tre al Cinquecento, Milano 1960, 91-102): sulla scia dell’Algarotti (le cui Lettere intorno alla traduzione dell’«Eneide» del Caro risalivano al 1744), costoro rimproverarono al Caro le eccessive infedeltà e la patina linguistica prebarocca, rivendicando il diritto di cimentarsi nella traduzione del poema virgiliano (così il Bondi nella sua Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 431 invitato ad astenersi dai testi classici già brillantemente volgarizzati (tra cui figura anche Lucrezio!), non sortirono l’effetto desiderato. Dopo Virgilio, infatti, negli anni Trenta è la volta del poema di Lucano, apparso nel 1836: per una singolare concomitanza, in quello stesso anno vedeva la luce, a Pesaro, l’ultima attesa dispensa dell’altro e ben più celebre volgarizzamento della Farsaglia, dovuto al conte pesarese Francesco Cassi49. Ma proprio questa indiscriminata e promiscua familiarità con i classici, antichi e moderni (tradusse anche tutto il teatro di Shakespeare, Verona 1819-1822), fu all’origine dei giudizi non sempre benevoli riservatigli dai contemporanei50. Per tornare alla traduzione lucreziana, le ipotesi che si possono formulare si riducono, come è ovvio, a due. La prima: il volgarizzamento si deve ad un classicista di identità ignota, e allora la menzione del Leoni presente sull’esemplare milanese si giustifica con la diffusa tendenza a ricondurre il prodotto adespoto sotto l’auctoritas di un personaggio che in quegli anni godeva di una certa notorietà. La seconda: Michele Leoni fu, in effetti, l’autore della traduzione di Lucrezio edita a Lugano nel 1827 presso quella stessa casa editrice Ruggia con cui – si badi – il nostro pubblicherà, due anni più tardi, un volume di Prose. Se questa ipotesi coglie nel segno (come sembrerebbe indicare anche la recensione che l’«Antologia» di Vieusseux dedicò alla nostra traduzione nel 182851), non c’è dubbio che la scelta dell’anonimato costituisca una prova elo- Prefazione: «la traduzione di Virgilio è un arringo da poter corrersi ancora, e […] il tentarla anche dopo di Annibal Caro non era poi, come pensano alcuni, una temerarietà da Titani», L’«Eneide» tradotta in versi italiani da Cl. B., I, Parma 1790, XXI [il corsivo è mio]). 49 Sulla genesi e la ricezione del volgarizzamento cassiano nel milieu classicistico della prima metà dell’Ottocento si vedano, oltre al canonico S. Timpanaro, Francesco Cassi traduttore di Lucano, in Timpanaro, Aspetti e figure cit. 81-103, i più recenti lavori di Chiara Nonni, La Farsaglia di Francesco Cassi: un filtro dantesco, «Studi e Problemi di Critica Testuale» LXVIII (2004) 49-79 e Aemulatio e intertestualità nella Farsaglia del Cassi, in Poeti tradotti cit. 29-62. 50 Per tutti valgano le parole di G. Mazzoni, L’Ottocento, Milano 1960 7, 94 (cf. anche R. Lasagni, Leoni, in Dizionario biografico dei parmigiani, III, Parma 1999, 191s.): «Michele Leoni […] traduceva in versi sciolti i Nuovi canti di Ossian dall’inglese di Giovanni Smith […] e preparava parecchie altre, per non dire troppe, versioni d’ogni sorta». 51 Proprio la collaborazione intrattenuta dal Leoni con la rivista fiorentina, concretizzatasi in una serie di articoli apparsi tra il 1821 e il 1827 con la sigla L. (vd. P. Prunas, L’«Antologia» di Gian Pietro Vieusseux, Roma-Milano 1906, 71 n. 2 e passim), sembra avvalorare ulteriormente la nostra ipotesi: in caso contrario, riesce difficile credere che una traduzione di autore ignoto potesse essere oggetto della lunga recensione apparsa sul numero XXXI della rivista fiorentina (luglio-agosto-settembre, 59-72). A ciò si aggiunga che la sigla M., posta in calce all’articolo, nasconde con ogni probabilità il nome di Giuseppe Montani, che proprio grazie all’intercessione dell’«amico Leoni» aveva potuto entrare nella rivista (cf. Prunas, o.c. 78s.; l’elenco e la spiegazione delle sigle adottate dai collaboratori della rivista si trovano alle pp. 435-437). Dopo avere difeso il poema di Lucrezio dalle tradizionali accuse di ateismo dirette contro la dottrina di Epicuro e avere menzionato il volgarizzamento del Marchetti, definito mirabile benché non esente da qualche difetto, il recensore passa alla nuova versione di Lucrezio, affermando di apprezzare il «coraggio» che una tale impresa richiede. Sulla traduzione, di cui viene offerto uno specimen (V 1025ss., sull’origine del linguaggio), il recensore esprime un giudizio nel complesso favorevole (benché non manchi qualche rilievo in merito a singole scelte linguistiche), che tiene conto soprattutto del grado di fedeltà all’originale. 432 MAGNONI quente – e non è l’unica – del clima di sospetto che ancora pesava sul poema di Lucrezio52. Se dunque, come sembra, nel 1827 il nome del poeta epicureo non poteva ancora essere pronunciato senza incorrere nel biasimo e nella censura di un certo milieu intellettuale cattolico (quello che il Treves chiama «neoguelfismo»), non stupisce che il Leoni abbia preferito non esporsi e far circolare la propria versione lucreziana in forma anonima, benché la paternità ne fosse ben nota agli addetti ai lavori. Questo quadro sembra trovare una conferma ulteriore nell’Avvertimento che apre il volume della traduzione; in questa sede il traduttore, ricalcando un antico cliché della critica lucreziana, accenna alle «massime erronee» contenute nel poema, sull’esempio della Protesta di Alessandro Marchetti (vd. supra p. 425): «il poema Della natura delle Cose è in ogni sua parte così ben conosciuto, che il pigliare a combatterne le massime erronee e fare protestazioni, a fine di ovviare agli effetti di un volgarizzamento di esso, sarìa da estimare opera superflua». Nel séguito figura un’interessante synkrisis con il Lucrezio toscano, che il nuovo traduttore si vanta di avere surclassato in stringatezza e aderenza all’originale («finalmente intorno il modo di questa versione diremo, che se una maggiore brevità può per ventura disporre a qualche indulgenza, ci confidiamo di ottenerla in vista degli oltre duemila versi risparmiati in confronto dell’altra del Marchetti»): un’affermazione orgogliosa che, alla luce di quanto si è detto, può suonare come una polemica a distanza indirizzata contro chi, qualche anno prima, aveva sancito l’imperfettibilità della versione marchettiana. Da ultimo, è degno di menzione il fatto che il volgarizzatore indichi espressamente i commenti e le edizioni lucreziane seguite: tre, in questo caso, quella del Fayus (Bassani 17882 [Parisiis 16801]), del Lambinus (Lutetiae 15703 [Parisiis 15631]) e dell’Havercampus (Lugduni Batavorum 1725). 52 A questo proposito disponiamo di numerose testimonianze, coeve all’anno di pubblicazione della versione lucreziana, ma anche posteriori di diversi decenni. Ci limitiamo a qualche esempio. Nel 1819 Lucchesini, o.c. 158, dopo avere menzionato in termini elogiativi la traduzione lucreziana del Marchetti, si affretta a precisare quanto segue: «commendando però l’opera del Marchetti io intendo dire, che belli sono i suoi versi, e che fedelmente ha espressi i sensi dell’Autore, ma biasimo solennemente i sentimenti d’irreligione e d’Epicureismo, che la Chiesa ha in lui condannati, e da’ quali doveva la sua penna tenersi più lontana come n’era lontano il suo cuore». Qualche anno più tardi, nel 1839, G.I. Montanari, autore di un fortunato manuale di retorica ad uso scolastico, poteva accusare il De rerum natura di essere «tutto fango epicureo» (Istituzioni di rettorica e belle lettere tratte dalle lezioni di Ugo Blair dal padre F. Soave ampliate e arricchite da G.I. M., Foligno 1836). La seconda edizione fiorentina del 1839 ospita un capitolo aggiuntivo Dei traduttori in cui la versione del Marchetti è oggetto del seguente giudizio: «[A.M.] che ebbe ed ha gran voce di eccellente, se il soggetto epicureo del poema, che è tutto fango epicureo, non mi facesse rimanere dal parlare più oltre e dal disdirne la lettura ai giovani finchè chi ne ha autorità non conceda loro la lettura del traduttore, e l’età matura non conceda proficuamente quella del Poeta latino» (cito dalla ristampa del 1843, 164). Ma fu certamente tra gli esponenti del neoguelfismo che Lucrezio trovò, come è ovvio, i suoi più aspri detrattori: a parte le riserve espresse da Niccolò Tommaseo (per cui vd. I. Dionigi, Un traduttore di Lucrezio tra Foscolo e Rapisardi, in Poeti tradotti cit. 66 e n. 10), si ricorderà che Eugenio Ferrai, nell’introduzione alla sua benemerita traduzione dal tedesco della Istoria della letteratura greca di K.O. Müller, apparsa per i tipi di Le Monnier tra il 1858 e il 1859, proponeva di bandire Lucrezio dalle aule scolastiche «per la ragione morale» (vd. Treves, Lo studio dell’antichità classica cit. 953992; il passo che riguarda Lucrezio è riportato a p. 975). Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 433 Gaetano Renieri53: La natura delle cose di T. Lucrezio Caro. Recata in verso italiano dal Cav. G. R., Venezia 183154. Il volume si apre con una Prefazione, in cui il traduttore si compiace del fatto che le numerose traduzioni lucreziane apparse di recente nelle diverse lingue europee abbiano contribuito, per un verso, a rendere più fruibile il testo, assai impegnativo, del poema latino (si ricorderà il giudizio di Quintiliano sul difficilis Lucretius [X 1,87])55, per l’altro a riscattare Lucrezio dalle pregiudiziali accuse di «immoralità» e di «irreligione» di cui era tradizionalmente fatta oggetto la dottrina di Epicuro56. Segue uno scritto a firma dell’avvocato Aldebrando Paolini (Firenze 18 agosto 1831), il quale annovera tra i molti pregi della traduzione del Renieri («chiara, nobile, schietta e veramente poetica») anche «la purezza dei vocaboli, e dei modi di costruzione, senza vizio di Arcaismo, che la pedanteria vorrebbe metter in moda» (XVII). Amilcare Mazzarella57: Di Tito Lucrezio Caro e del suo poema De rerum natura. Studio di A. M., colla versione di molti frammenti, scelti fra i migliori del testo, Mantova, Negretti, 184658. A conclusione dello studio (pp. 107-178) si trovano i seguenti saggi di traduzione: dal I libro, Invocazione a Venere (vv. 1-40), Il sacrificio d’Ifigenia (vv. 85-101), L’impeto dei venti (vv. 272-291); dal II, La sapienza (vv. 1-65), La vacca orbata del suo vitello (vv. 355366), L’allegoria di Cibele (vv. 589-642); dal III, L’alma soggiace ai mali del corpo (vv. 460-482); La voce della coscienza (vv. 991-135); dal IV, Tutto è movimento (vv. 588-421 e 317-333), L’eco (vv. 574-598), I sogni (vv. 959-994); dal V, I primordi dell’umanità (vv. 925-1456); dal VI, La peste di Atene (vv. 1120-1184). Luigi Carrer59 Il volume Poesie scelte di L. Carrer, Firenze 1854, contiene i seguenti brani lucreziani tradotti60: la versione integrale del primo libro (pp. 539-570), l’Incipit (vv. 1-46, pp. 570s.) 53 Già Bibliotecario della Corte imperiale durante il regime francese, cultore di interessi sia letterari che scientifici, dopo la Restaurazione fu autore di diverse traduzioni di testi latini, fra cui Lucrezio, e biblici, quali l’Apocalisse, i Salmi, il Cantico dei Cantici, il Libro di Giobbe (vd. L. Cheluzzi-G.M. Galgagnetti, Serie cronologica degli uomini di merito più distinto della città di Colle di Val d’Elsa, Colle 1841, 34). 54 La copia conservata presso l’Archiginnasio di Bologna di cui mi sono valsa è una ristampa datata Firenze (per i tipi V. Batelli e figli) 1833. 55 Il Renieri sottrae a questo giudizio positivo proprio la traduzione del De rerum natura di Alessandro Marchetti, che «non sembra averlo né giustificato, né chiaramente interpretato» (Vs.). 56 «Né in qualunque modo al nostro medesimo autore potrà giustamente venire imputato il più indiretto e piccolo tratto, che si opponga alla Religione ed al costume […]; nel poema di Lucrezio non s’incontra né irreligione, né immoralità, né attentato ai costumi, non ostante il poco conto che fa dei superi Dei, il suo più presunto che esplicito materialismo» (XI). 57 Professore di Liceo a Milano, come si ricava da ABI I 637,399. 58 Esemplare visionato presso la Biblioteca Marciana di Venezia. 59 Venezia 1801-1850. Per un profilo bio-bibliografico del Carrer, poeta e critico letterario vicino al Foscolo, di cui curò una pregevole edizione completa delle opere corredata da una Vita (Venezia 1842), rinvio a F. Del Beccaro, Carrer, in DBI XX (1977) 730-734. 60 Esemplare visionato alla Biblioteca di Casa Carducci. Nella strenna Non ti scordar di me, Milano 1846 erano già apparsi i seguenti saggi di traduzione: Il Voto (I 330-418); l’Omeomeria 434 MAGNONI e una selezione di passi del II libro (Amor materno della giovenca [vv. 352-366; pp. 571s.]; Processione di Cibele [vv. 598-628; pp. 572s.]), dal III (Congedi mortuari [vv. 894-899; pp. 573s.], La morte inevitabile a tutti [vv. 1024-1041; p. 574], Perplessità della vita [vv. 10451067; p. 575]), dal V (Antichi usi di guerra [vv. 1297-1325; pp. 576s.]), dal VI (Le nubi e la pioggia [vv. 495-512; p. 577], La pestilenza d’Atene [vv. 1138-1285; pp. 577-582]). Lodovico Pellegrino Merenda Colombani61: Invocazione a Venere di Tito Lucrezio Caro. Versione inedita del Conte P. M. C. di Forlì, Forlì, Casali, 185862. La traduzione, pubblicata postuma per iniziativa del fratello Giuliano Colombani, figura in un opuscolo per le nozze Mengoni-Bianconcini. Giuliano Vanzolini63: T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose libri sei. Traduzione di G. V., seconda edizione corretta e riveduta, Pesaro, Federici, 1879. La fatica trentennale della traduzione lucreziana, iniziata già negli anni Cinquanta, edita in dispense tra il 1863 e il 1877 e apparsa postuma in versione integrale nel 1879, due soli mesi dopo la prematura morte, suscitò l’ammirazione e il plauso di un giovane ma già autorevole Carducci, promosso da poco all’Ateneo bolognese (con lui il Vanzolini intrattenne un proficuo scambio epistolare), oltre che del concittadino pesarese Terenzio Mamiani. Muovendo da alcune dichiarazioni di poetica del Vanzolini – il quale per un verso si appella ai principi di fedeltà e chiarezza rispetto all’originale, per un altro accosta non casualmente la poesia di Lucrezio a quella del ‘padre’ Dante – si è tentato altrove di illustrare i due volti, tra loro complementari, del nostro traduttore: il traduttore letterario e il traduttore filologo64. Se infatti le frequentissime reminiscenze dantesche e, più in generale, l’adesione al modello linguistico tre-cinquecentesco delineato da Vincenzo Monti ripropongono grosso modo i dettami della Scuola classica romagnola, fiorita nella prima metà dell’Ottocento tra EmiliaRomagna e Marche e coagulata intorno al magistero del traduttore dell’Iliade, vero è, tuttavia, che il rigore linguistico e la vocazione esegetica che il Vanzolini mostra verso il testo latino hanno radici più antiche, che escono dai confini della Romagna. Nel corso del Settecento, infatti, la scuola filologica veronese – nelle figure di Anton Maria Salvini e di Scipione Maffei e allievi – aveva teorizzato e praticato la traduzione letterale e ‘strumentale’ dei classici, contrastando la moda imperante delle ‘belle infedeli’ con le armi dell’«inerenza» e della «religiosa esattezza» da tenersi verso l’originale. Questi, dunque, i precedenti e i modelli più probabili cui il Vanzolini poteva guardare per la traduzione lucreziana: va detto, di Anassagora (I 830-903), mentre la Pestilenza d’Atene (VI 1136ss.) era già comparsa nella Strenna Italiana, Milano 1847. 61 Forlì 1813-Bologna 1852. Nel fondo Piancastelli della Biblioteca Saffi di Forlì si conservano alcuni suoi scritti d’occasione quali Idillio di Salomone Gessner. Imitazione del conte Lodovico Pellegrino Merenda. Nozze Sauli-Visconti Aimi, Forlì 1844 e Per la promozione alla porpora di monsignore Ignazio Masotti. Ode, Faenza 1884. 62 La copia di cui mi sono giovata è conservata alla Biblioteca Marciana. 63 Casteldimezzo (Pesaro) 1824-Pesaro 1879. Sulla personalità e l’opera del Vanzolini, vd. A. Boschini, Cenni biografici di Giuliano Vanzolini, in Armi vecchie, Pesaro 1907, 393-399, I. Ciavarini Doni, G. Vanzolini. Ricordo, Ancona 1879, nonché Dionigi, Un traduttore cit. passim. 64 Vd. Giuliano Vanzolini tra Lucrezio e Dante, «Studi e Problemi di Critica Testuale» LXV (2002) 13-46 e Leggere Lucrezio con Dante. Il De rerum natura tradotto da Giuliano Vanzolini, in Poeti tradotti cit. 79-127. Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 435 tuttavia, che l’impiego serrato e a tratti sorprendentemente circostanziato che il Vanzolini fa della lingua della Commedia evidenzia elementi di indubbia originalità. Non è un caso che, sin dal 1852, il traduttore avesse additato nell’aurorale Dante e nell’enniano Lucrezio due archetipi letterari e linguistici, degni della qualifica di «primi poeti ordinati» delle rispettive letterature: evidentemente, il traduttore potè sperimentare quell’affinità linguistica e stilistica tra Dante e Lucrezio – artefici entrambi di prodigiose creazioni lessicali (nova verba) – che, dopo essere stata notata dal Foscolo nel suo commento alla Commedia, si avviava a diventare fortunato topos di tanta critica lucreziana, fino al Novecento. Giovan Battista Cipriani65: Da Tito Lucrezio Caro. Saggio di traduzione di G.B. C., Venezia 186366. Antonio Tolomei67 Il Tolomei pubblicò a più riprese saggi di traduzione da Lucrezio (a cominciare dall’opuscolo per le nozze Giusti-Cittadella [Padova 1863]), i quali furono raccolti nel volume postumo Scritti vari, Padova, Draghi, 1894 (I 1-50; II 352-366 [L’istinto dell’amor materno]; III 972-1024 [Le favole antiche]; V 925-1268 [L’umanità primitiva]; VI 1138-1286 [La peste d’Atene])68. Queste versioni piacquero, tra gli altri, al Trezza, che ne pubblicò alcuni brani all’interno della monografia Lucrezio (Firenze 1870) con questa presentazione: «in vece della mia prosa, io porgo al Lettore questi versi mirabilmente belli di A. Tolomei. Così l’egregio padovano ci possa dar presto compita un’Opera che onorerebbe la nostra letteratura non tanto ricca di traduzioni eccellenti»69. I passi lucreziani riportati nella traduzione del Tolomei sono: I 1-25, 29-40, 80-101; II 352-366; V 970-981, 1028-1058, 1063-1086, 1198-1240; VI 1145-1177. Jacopo Sartori70: Tito Lucrezio Caro. La natura delle cose. Libri sei. Tradotti in versi italiani da J. S. veronese. Edizione Postuma, aggiuntovi il testo latino secondo le stampe migliori e più recenti, Verona, Tip. Cesira Noris, 187671. 65 Avvocato di origine friulana, attivo a Venezia. Fu autore di sonetti, odi, canzoni, apparse in giornali, strenne e raccolte varie del Veneto e dell’Istria (vd. ABI I 299,286). 66 Un copia dell’opuscolo, contenente la versione del solo inno a Venere, si conserva alla Biblioteca Marciana. 67 Padova 1839-1888 (cf. ABI II 623,57). Letterato e giurista, fu patriota e partecipò attivamente alla vita politica del Paese, sia a livello locale – ricoprendo le cariche di consigliere comunale, assessore alla cultura e infine sindaco nella città di Padova – sia nazionale, in qualità di Deputato parlamentare. 68 Traduzioni parziali si trovano in Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Libro I, dal v. 102 al v. 150. Versione poetica di A. T., Padova, Tip. F. Sacchetto, 1887 (nozze Giusti-Godoy); T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Libro V, dal v. 1240 al v. 1267. Traduzione di A. T., Padova, Tip. F. Sacchetto 1891 (nozze Luzzatti-Pontremoli). 69 Giudizio riecheggiato da A. De Gubernatis, Tolomei, in Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, 1259 («stampò […] alcuni bellissimi saggi di versione dal poema di Lucrezio che ne fanno desiderare il compimento anche dopo l’ondosa e tumida del Rapisardi tanto lodata dal Trezza») e dal Cisorio (vd. supra n. 15). 70 Soave [Verona] 1808-Sona [Verona] 1874. 71 Mi sono valsa di due esemplari conservati presso la Biblioteca Statale Isontina di Gorizia e la Marciana di Venezia. 436 MAGNONI Alla traduzione, dedicata dal curatore Osvaldo Perini al conte Leopoldo Pulle, è premessa una lunga sezione introduttiva, che si apre con una Nota bio-bibliografica del Sartori (XI-XXVI): qui si ricordano, in particolare, la precoce vocazione del traduttore per la poesia latina (nata nel periodo di formazione presso il seminario di Verona ma presto accantonata per la carriera forense) e la lunga fatica della traduzione lucreziana, iniziata in epoca giovanile, interrotta e successivamente ripresa, ma rimasta incompiuta72. Come ci fa sapere il curatore, la versione di Lucrezio, data alle stampe postuma, è il frutto della collazione di quattro diverse redazioni; inoltre, dal momento che il testo latino stampato a fronte riproduce quello della recente edizione del Munro (1866), il curatore asserisce di avere segnalato in nota i casi in cui la traduzione del Sartori presuppone lezioni diverse, ricavate da edizioni lucreziane precedenti. È significativo che per mostrare al lettore l’eccellenza della traduzione del Sartori – improntata alla massima fedeltà verso l’originale – il curatore scelga la via del confronto con «alcuni brani delle altre versioni che sono in Italia più in voga e si dividono o contendono il suffragio del pubblico»: i traduttori coinvolti sono il Marchetti, come è ovvio, e il Tolomei, mentre i brani lucreziani scelti come campione sono l’inno a Venere, il sacrificio di Ifigenia e la peste d’Atene. La Nota biografica è seguita da un’ampia Prefazione (XXVII-LXXXVII) concepita, sull’esempio dei medioevali accessus ad auctores, come introduzione generale al poema lucreziano, considerato nei suoi rapporti con la tradizione poetica latina anteriore e successiva, la temperie politica, letteraria e filosofica della Roma del I sec. a.C., e con i fondamenti etici e fisici della dottrina epicurea. Dopo una breve sezione dedicata alla lingua di Lucrezio, giudicata mirabile sotto molti aspetti tranne che per il vizio d’arcaismo, segue un excursus sulla trasmissione, la fortuna e le principali edizioni del testo lucreziano. Mario Rapisardi73: Libri sei di T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R., Milano, Brigola, 1880; Libri sei di T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R. Seconda edizione riveduta dal traduttore e accresciuta di una prefazione di G. Trezza, Torino-Roma-Firenze, Loescher, 1882; Libri sei di T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R., in Opere ordinate e corrette da esso, Catania 1896 (riproduce sostanzialmente il testo della traduzione dell’8074). Il poeta catanese Mario Rapisardi, guadagnatosi una certa notorietà in virtù di una clamorosa polemica col Carducci, fu con Gaetano Trezza il principale corifeo della rilettura positivistica del poema lucreziano invalsa in Italia nell’ultimo trentennio del XIX sec.75 Fu 72 «La fece e la rifece più volte con cura e passione dedicandovi tutta la pazienza e tutta la tenacità d’una mente laboriosa e feconda come la sua» (XIII). 73 Catania 1844-1915. 74 Alcune varianti d’autore della traduzione lucreziana, annotate dal Rapisardi sulla propria copia delle Opere, sono state edite da A. Tomaselli, Commentario rapisardiano, con numerose lettere di illustri scrittori a Mario Rapisardi, Catania 1932, 215ss. 75 Il culto tributato dal Positivismo al poeta epicureo, apprezzato per l’entusiasmo da neofita con cui tesse l’elogio della ratio e combatte l’ignoranza delle cause, trova compiuta espressione nella poetica Epistola a Lucrezio del Rapisardi, affine, per il tono innologico, agli appassionati elogi lucreziani di Epicuro («è tua l’anima ribelle, è tua la possa / che in granitici carmi il vero incide»). Il componimento ripercorre le tappe salienti della fortuna del De rerum natura: nella galleria di imagines che occupa buona parte dell’epistola («l’egregio Toscan», alias Alessandro Marchetti, «Poggio», «Aldo solerte», «Marullo audace», «Avanzio», «Crechio bizzarro», «Lambino», Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 437 anzi proprio dal Lucrezio del Trezza (Firenze 1870 [18873]) che il Rapisardi trasse l’impulso decisivo a cimentarsi nella versione integrale del De rerum natura, cui lavorò per circa un ventennio76. Negli endecasillabi della traduzione lucreziana i critici hanno riconosciuto in maniera pressoché unanime l’esito migliore della vena poetica del catanese: merito di quella autentica simpatia e consonanza spirituale con il poeta epicureo, nel quale il Rapisardi «sentì un altro se stesso»77. Per l’autore dei poemi filosofico-scientifici Palingenesi, Giobbe, Lucifero, l’incontro con Lucrezio fu l’approdo naturale di una entusiastica adesione al verbo darwiniano78. Non a caso, in una lettera del 26 aprile 1877 all’amico Filippo Zamboni (professore di Lettere Italiane all’Accademia Commerciale di Vienna, corrispondente anche del Carducci)79, il Rapisardi accoppiava i due profeti della ragione nell’elenco degli auctores congeniali al suo orientamento ideologico e letterario: «ora vado per un mese in campagna, senza altri libri che le opere di Darwin e il De rerum natura». Alla traduzione lucreziana il Rapisardi si accostò senza ambizioni filologiche, lasciate a studiosi più competenti. Essa doveva piuttosto assolvere un duplice scopo: per un verso, non adulterare l’austerità vigorosa e titanica del poema lucreziano, demerito di tutte le versioni precedenti80; per l’altro, dar finalmente prova del genio poetico del traduttore, rimasto, sino ad allora, per lo più incompreso («se un lavoro di erudizione lo possono fare parecchi in Italia, una traduzione, modestia a parte, non la possono fare che pochi»). D’altra parte, la decisione di tradurre Lucrezio più in veste di letterato militante che non in quella di filologo non impedì al Rapisardi di sincerarsi del fatto che la versione fosse condotta sulle più recenti e attendibili edizioni critiche: di qui la richiesta allo Zamboni di procurargli l’«opera magistrale del «Lachmanno, acuta/mente divinatrice», il «buon Munro», il «divo Galilei», il «Darvinio carro») è facile riconoscere i traduttori, i filologi, gli esegeti, gli editori e financo gli scienziati che hanno contribuito, a diverso titolo, a mantenere viva la fama di Lucrezio nei secoli. La fede scientista ed evoluzionistica del Rapisardi traspare in maniera inequivocabile sul piano del lessico: si ritrovano tutti i temi e i vocaboli chiave del gergo darwiniano, tra cui il «Vero» («tu che diritto / miravi al Ver con infallibil dardo»), la «Forza» che governa gli elementi del cosmo, il «pensier gagliardo» che combatte la superstizione religiosa, la «mavorzia prole» epicurea che ha aperto la strada alla conoscenza razionale della natura. Lo spirito marziale che pervade tutta l’Epistola non era sfuggito al Trezza, che così concludeva la sua Prefazione all’edizione del 1882: «l’Epistola del Rapisardi a Lucrezio è impressa del suo spirito ardente e titanico; poesia tutto sdegno contro i tartufi superstiti del mondo moderno, somigliante a lava che si rovescia da un vulcano in fiamme. La ribellione ai gioghi dell’intelletto vi è piena e aperta; l’ironia redentrice si libra sulle rovine olimpiche degli Dei, ed il vero scientifico vi si afferma come l’eterna salute dell’uomo [i corsivi sono miei]». 76 Dell’amicizia che legò il Rapisardi al Trezza testimonia il fitto scambio epistolare, di cui fornisce qualche esempio Tomaselli, o.c. 143ss. 77 P. Tremoli, Mario Rapisardi traduttore di Lucrezio, «Annali Triestini» XIX (1949) 10. 78 Vd. anche I. Dionigi, L’inferno è qui. Un esempio di lettura lucreziana (De rerum natura 3, 978-1023), in AA.VV., Latina didaxis, XII, a c. di S. Rocca, Genova 1998, 19-34. 79 Traggo questa e le successive informazioni sulla corrispondenza Rapisardi-Zamboni da Tremoli, o.c. 11ss. 80 In una lettera al Fanfani del 15 settembre 1878, riportata da Tomaselli, o.c. 70, il Rapisardi dichiarava di volere presentare «il titano così com’è, senza fargli la barba e mettergli la cipria, come sogliono fare tutti i traduttori». 438 MAGNONI Munro» (Cambridge 1864 [Editio minor]), con la quale temperare le «audacie filologiche» del Lachmann, come il traduttore avrà a ripetere nell’Avvertenza filologica premessa all’edizione del 1896. Le speranze che il Rapisardi aveva riposto nella fatica lucreziana vennero tuttavia frustrate. Dopo la delusione per le critiche poco benevole ricevute dal suo Lucifero (da imputarsi, come dirà all’amico Zamboni, alla pochezza delle miserae mentes di memoria lucreziana), anche la versione del De rerum natura fu accolta da un coro di stroncature81, suggellate dalla massima autorità letteraria vivente, il Carducci82. L’unica voce levatasi a difesa del Rapisardi era stata quella del Trezza, suo sodale nella causa positivistica: nella Prefazione alla versione lucreziana citata, il Veronese non esitò a tributargli entusiastiche lodi e gli riconobbe il merito di essere riuscito, «meglio di ogni altro», nel difficile compito di «riprodurre lo stile di Lucrezio»83. Uriele Cavagnari84: Lucrezio. I sei libri intorno alla natura delle cose. Recati in versi italiani da U. C. Libro primo, Roma, tip. Savio e C., 188285. La traduzione fa parte di un opuscolo miscellaneo, che comprende anche alcuni saggi di versione dal poema di E.D. Parny La guerre des dieux. Francesco De Antonio86: Della natura delle cose di Tito Lucrezio Caro. Traduzione di F. D. A., Milano, Fratelli Dumolard Editori, 188387. Il volume, pubblicato postumo, è dedicato dalla vedova Angiolina Rossi alla città di Alessandria e ai suoi cittadini. Alla traduzione è premessa un’introduzione, datata 1882, a firma del Prof. Giuseppe Brambilla: dopo alcuni ringraziamenti di rito rivolti al De Antonio per essersi cimentato nella traduzione dalle lingue classiche, impresa ardua e pur tuttavia utile 81 Si veda ad esempio quella di Ruggero Bonghi, Una nuova traduzione di Lucrezio [Rapisardi 1880], «La Rassegna settimanale» XCVI (1879) 304-307 (= R. B., Horae subsecivae, I, Roma 1883, 81-94). 82 In proposito si vedano le testimonianze raccolte in M. Rapisardi-G. Carducci, Polemica. Introduzione di F. De Roberto, Catania 1881. 83 «Se chi traduce Lucrezio dee possedere un’anima affine alla sua, l’autore del Lucifero la possiede. Egli è un grande ribelle a tutti i gioghi del dogma che ricomparve, con altre forme, ad arrestare la ragione disviandola in una fede ebbra d’assurdi […]. Perciò il Rapisardi riuscì, meglio di ogni altro, nel riprodurre lo stile di Lucrezio. Certo gli ostacoli non erano lievi, né direi che egli li abbia superati senza lasciarvi, qualche volta, i segni delle resistenze patite. Ma nessuno prima di lui li superò con tanta efficace vittoria [i corsivi sono miei]» (6). Gli fa parziale eco il Mazzoni, o.c. 1408, il quale riconosce al traduttore «la straordinaria attitudine a rendere in versi eloquenti non i concetti precisi né le immagini determinate, bensì un’esaltazione, che ha del religioso, verso la sublimità della vita e per ciò contro quanto la mortifichi o l’abbassi». 84 Del Cavagnari (Este [Padova] 1845-?), giornalista attivo tra Venezia, Padova, Roma e Firenze, si conosce anche una tragedia intitolata Assalonne, Roma 18832 (Napoli 18771). 85 Esemplare visionato presso la Biblioteca di Casa Carducci. 86 Alessandria 1821-1881. Ottenuta nel 1842 la laurea in medicina presso l’Ateneo di Torino, dal 1860 al 1880 fu stimato Professore di Storia Naturale al Reale Liceo di Alessandria, città nella quale ricoprì anche le cariche di consigliere comunale e di assessore alla cultura (vd. D. Bonardi, Cenni biografici del dott. Prof. Cav. Francesco De Antonio, «Rivista di Storia, Arte, Archeologia della Provincia di Alessandria» XIII [1914] 304-310). 87 Copia visionata presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 439 all’incivilimento della nazione, il curatore loda le virtù poetiche e la «potenza inventiva» di Lucrezio, pari a Virgilio nello «splendor dello stile» e nella «purità della lingua», ma a lui superiore «nel vigore e nell’altezza dei concetti». Subito dopo avere rilevato come lo stile di Lucrezio sia stato per lo più tradito dalle traduzioni precedenti, con la sola eccezione (sic!) della versione di «Alessandro Marchetti che, non ostante le sue non piccole mende, da tutti gl’intelligenti si giudica la migliore», il Brambilla riconosce alla versione del De Antonio, condotta su di una ristampa dell’edizione del Creech, «esattezza d’interpretazione e facilità di versificazione». Antonio Nardozzi88: Amor omnibus idem (da Lucrezio, Libro II). Traduzione di A. N., «Lettere e Arti» I/9 (1889) 10. Si tratta della traduzione di alcuni versi del celebre episodio della giovenca, passo fra i più tradotti nell’Ottocento (lo stesso Foscolo vi si era cimentato a più riprese; vd. supra p. 429). Il nome del Nardozzi è legato soprattutto ad un’apprezzata versione in endecasillabi delle Georgiche di Virgilio 89, redatta tra il 1876 e il 1886, di cui il Carducci elogiò «la flessuosità melodica e sfumata onde più fantastica e affettuosa spira la imagine»90. Luigi Pinelli91: Dal De rerum natura di Lucrezio (lib. III, v. 931 e seg.), «La Biblioteca delle Scuole Italiane» III/17 (1891) 267; Dal De rerum natura di Lucrezio (V, v. 1192 e seg.). Traduzione di L. P., «La Biblioteca delle Scuole Italiane» IV/6 (1891) 91. Giovan Battista Menegazzi92: L’inno a Venere di Lucrezio ed altre versioni metriche di G.B. M., Alatri, Tip. O. De Andreis, 189293. 88 Imola 1839-1892. Virgilio Marone, Le Georgiche. Tradotte da A. Nardozzi, seconda edizione migliorata e accresciuta con la versione di Peleo e Teti di Catullo, Imola 1894 (18851). Per un ritratto complessivo del traduttore, non esente da intenti celebrativi, vd. F. Lanzoni, Della vita e degli scritti del cav. Antonio Nardozzi, commentario del Prof. Can. Co F. L., Imola 18932: di qui apprendiamo che se «Cicerone, Cesare, Sallustio, Cornelio [furono] i suoi prosatori latini», il Nardozzi «sentiva Lucrezio e gli doleva che mentre si porgeva solenne maestro d’eleganza, si facesse guida al materialismo» (80). 90 Il giudizio, apparso sulle pagine della «Domenica del Fracassa», è riportato integralmente da Lanzoni, o.c. 87s. Una copia della traduzione virgiliana si trova non a caso presso la Biblioteca di Casa Carducci, dove si conservano anche alcune lettere e biglietti di ringraziamento autografi del Nardozzi. 91 S. Antonino (Treviso) 1839-1913 (vd. R. Binotto, Personaggi illustri della marca trevigiana. Dizionario bio-bibliografico dalle origini al 1996, Treviso 1996, 451s.). Abbandonati gli studi di legge a Pavia, si laureò in Lettere alla Normale di Pisa, per poi intraprendere la carriera di Professore di Letteratura Italiana e di Preside presso il Liceo di Udine. Fu autore di varie raccolte di versi, molto apprezzate dal Carducci, cui fu legato da sincera amicizia (come attesta il fitto epistolario conservato presso la biblioteca della casa); ricordiamo: Affetti e pensieri, Udine 1869; Vita intima, Milano 1876; Poesie minime con alcune traduzioni, Bologna 1880; Epigrammi e satire, Treviso 1896. 92 Poeta, traduttore e critico letterario: cf. G.V. Catullo. L’epistola ad Ortalo ed altri carmi. Tradotti da G.B. Menegazzi, Roma 1895; La vecchia e l’anfora. Nuove versioni metriche di G.B. Menegazzi, Monteleone 1897; Contemplando la terra. Versi, Padova 1890; I latinismi nella Divina Commedia, Roma 1913. 93 Copia conservata presso la Biblioteca di Casa Carducci. 89 440 MAGNONI Si tratta di una crestologia di poesia greca e latina (classica e umanistica) in traduzione italiana (Saffo, Anthologia Palatina, Catullo, Virgilio, Orazio, Persio, Anthologia Latina, Pontano, Poliziano, Ariosto); i passi lucreziani tradotti sono l’inno a Venere94 (I 1-40), l’episodio della giovenca (II 352-366), la processione delle stagioni (V 735-747). Il libretto è dedicato al prof. Giuseppe Tambara con la seguente intestazione: «le ragioni artistiche che mi guidarono in queste traduzioni furono da me esposte in vari articoli pubblicati, e in riassunto, in una breve prefazione alla versione delle Bucoliche di Virgilio95. Certo, rimane sempre vera, in parte, la sentenza di Dante “Nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza e armonia”»96. Andrea Ferracini97: T. Caro Lucrezio. De rerum natura. Traduzione di A. F., Vicenza, Franzoi, 189498. Questa traduzione del proemio lucreziano in endecasillabi sciolti figura in un opuscolo per le nozze Pigatti-Cibele. Alcuni altri saggi di versione dal II libro99 sono stampati e commentati dal Cisorio in due articoli apparsi sulla rivista «Il Torrazzo» del 1901, il secondo dei quali presenta un confronto, decisamente favorevole al Ferracini, con le traduzioni del Marchetti, del Sartori e del Rapisardi 100. 94 Già apparso in «Lettere e Arti» I/33 (1889) 12. G.B. Menegazzi, Le Bucoliche di Virgilio. Traduzione metrica, Padova, Angelo Draghi Editore-Libraio, 1891. Nella Prefazione si legge: «Ho tentato di rendere in italiano sicuramente, […] senza irreligiose zeppe o parafrasi, dal testo criticamente curato, col senso dell’originale anche il suono del verso e gli enjambements che sono così caratteristici nello stile di Virgilio; di riprodurne il disegno del verso e della frase; di conservare, quando e quanto l’indole di nostra lingua il conceda, il pensoso e poetico vocabolario virgiliano. Insomma, ho tentato ogni mezzo perché il verso la lingua lo stile ritenessero, più ch’è possibile, i caratteri dell’originale. Esser riuscito da per tutto non credo, in molti tratti lo spero». 96 Sulla celebre sentenza dantesca (Conv. I 7,14s.), alla quale si sono appellati i numerosi sostenitori dell’intraducibilità della poesia dall’Umanesimo sino al Novecento (da Croce a Jakobson), si veda G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino 1991, 27ss. 97 Novoledo di Villaverla (Vicenza) 1857-Vicenza 1908. Abbandonata la carriera di farmacista per dedicarsi agli studi letterari, a partire dal 1887 insegnò dapprima al Liceo di Marsala e successivamente presso la Scuola Industriale Rossi di Vicenza, coniugando cultura umanistica e interessi scientifici (Alla scienza. Versi, Padova 1880; Una lezione di geometria piana. Versi, Vicenza 1893; Nozze Bassani-Trivellato. Allo sposo. Poesia epitalamica, Vicenza 1893); vd. S. Rumor, Gli scrittori vicentini dei secoli decimottavo e decimonono, I, Venezia 1905, 593. 98 L’esemplare di cui ho preso visione si trova presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. 99 II 1-61; 146-158; 483-502. 100 Vd. supra n. 15. Alla traduzione del vicentino sono riconosciute «varietà di ritmo, chiarezza di pensiero […] lingua di buona tradizione italiana, fedeltà religiosa anche nei passaggi più ardui, forma non istentata né ricercata, spezzatura del verso artistica e armoniosa» (10). A quanto ci risulta, il Ferracini non pubblicò nessun’altra traduzione lucreziana, benché il Cisorio affermi di avere visionato «il manoscritto dell’intero primo libro e il principio del secondo» (7). 95 Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 441 Carlo Lanza101: La pestilenza nel poema di Lucrezio e nel poema di Virgilio, «AAP» XXV/ 17 (1895) 1-12102. Garibaldino e antiborbonico, socio di diverse associazioni culturali tra cui l’Accademia Pontaniana, il Lanza tenne l’insegnamento di Letteratura Greca e Latina, dapprima al Liceo Umberto di Napoli, successivamente presso il Liceo Genovesi, dove insegnò sino all’anno della morte. Svolse un’intensa attività di esegesi sui testi classici, fu autore di dissertazioni monografiche (Cicerone e Sallustio) e curatore di diversi strumenti ad uso scolastico (manuali e antologie). Prolifico volgarizzatore sia dal greco – Colluto Tebano, Trifiodoro, Esiodo, Apollonio Rodio, Museo – che dal latino (Catullo, Virgilio, Orazio, Petronio e naturalmente Lucrezio), teorizzò e praticò la versione libera in base alla convinzione che «quanto meno vedete voi il traduttore, meno la versione è imperfetta, e in quel luogo, in cui non lo vedete più, l’opera è veramente perfetta»103. Raffaele Elisei104: Nozze Brizi-Elisei. Invocazione a Venere. Traduzione dal poema La natura di Lucrezio, Firenze, Tipografia di S. Landi, 1896105. La traduzione, che il volgarizzatore avverte essere stata eseguita di getto sul testo critico del Bernays, venne offerta dai fratelli Elisei come dono per le nozze della sorella Clotilde con Alfonso Brizi. Emanuele Armaforte106: Da Lucrezio. Inno a Venere. Traduzione di E. A., Palermo 1902 (con dedica alla Nobile donna Contessa Maria Airoldi di Lecco)107. È l’ultima delle traduzioni ottocentesche di Lucrezio di cui abbiamo notizia, e anzi sconfina nel secolo seguente: il testo della traduzione fu ripubblicato nel 1928 sulla rivista «Atene e Roma» (n.s. IX 73s.)108. 101 Foggia 1834-Napoli 1908. Si tratta della traduzione del finale lucreziano della peste (VI 1089-1384) e della pestilenza del Norico del III libro delle Georgiche (vv. 475-565). Per un profilo del Lanza latinista e traduttore, vd. Patrizia Ippolito, Carlo Lanza, in La cultura classica a Napoli nell’Ottocento, Napoli 1987, 669-676. 103 Trifiodoro. Lo sterminio di Troia, «AAP» XIV (1881) 265. 104 Assisi 1870-Firenze 1957 (cf. ABI I 378,422s.). Tra le altre opere, si ricordino anche Di un passo controverso nella canzone all’Italia di G. Leopardi, Perugia 1901; Della città natale di Sesto Properzio, Roma-Assisi 1916; Euripide. Le Baccanti. Con ampio commento esegetico grammaticale sintattico ed etimologico delle parole del prof. R. Elisei, Firenze 1930; Orazio lirico maggiore. Scelta di 44 odi e 6 epodi con prefazione e commento del prof. R. Elisei, Firenze 1935. 105 Un esemplare dell’opuscolo è posseduto dalla Biblioteca di Casa Carducci. 106 Altofonte (Palermo) 1870-New York 1926. 107 Ne ho visto copia presso la Biblioteca di Casa Carducci. 108 Da una succinta nota biografica che accompagna la traduzione apprendiamo che l’Armaforte fu autore, oltre che di una Grammatica e di una Sintassi latine (Palermo 1926), anche di apprezzati componimenti poetici in lingua latina, che nel 1911 gli valsero il secondo posto, dopo Giovanni Pascoli, al concorso bandito per la celebrazione del Natale di Roma (vd. Carmina praemiis et laudibus in certamine poetico ornata quod S.P.Q.R. edidit ad Diem Natalem Urbis anno ab regno Italico instituto L. sollemniter celebrandum, Romae MCMXI). 102 442 MAGNONI Carlo Leardi109: T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Traduzione di C. L., con una Prefazione di F. Gabotto, Tortona 1918 110. Per ultime segnaliamo alcune traduzioni a tutt’oggi irreperibili o che presentano ancora ampi margini di incertezza, per lo più relativi all’identità del traduttore, che sinora non è stato possibile colmare con l’ausilio dei repertori biografici disponibili: Cl. Quaranta111 A quanto mi risulta, la sola testimonianza sul volgarizzamento in prosa del Quaranta è quella offerta da V.E. Alfieri, Lucrezio, Firenze 1929, 218 nell’àmbito di un giudizio assai severo nei riguardi dei traduttori lucreziani: «nessuna traduzione italiana merita di essere citata, non quella classica e rimbombante del Marchetti, non quella del Rapisardi, non quella del Vanzolini, neppure il tentativo in prosa di Cl. Quaranta (libro VI), perché tutte danno un’immagine gravemente alterata del poeta: non mantengono il tono dell’originale, cosa pressoché impossibile, né della poesia sono buoni commenti». Luciano Chiesa: Titi Lucretii Cari De rerum natura libri sex. Libro primo recato in versi italiani da L. C., Alessandria, Jacquemod, 1874112. Michele Psaila: T. Lucrezio Caro. La natura, libri sei. Traduzione di M. P., Napoli, Detken e Rocholl, 1895113. A conclusione di questa rassegna bio-bibliografica, procederemo con un sintetico esame comparativo circa la ratio vertendi dei nostri traduttori, utilizzando come cartina di tornasole l’esordio del De rerum natura, l’inno a Venere, passo fra i più fortunati e discussi del poema114. Per parte nostra, non pretendiamo di fornire contributi originali ad un brano così vexatus, né intediamo soffermarci sui singoli problemi. Piuttosto, tenendo fede alla prospettiva di studio che ci interessa, ci limiteremo a rilevare che, fra le traduzioni lucreziane ottocentesche, il proemio vanta non a caso un numero di tentativi superiore a qualsiasi altro episodio all’in109 Viguzzolo (Tortona) 1835-1882 (vd. ABI I 557,395s.). Per un profilo del Leardi, deputato in Parlamento fra i banchi della Sinistra (fu Segretario delle Finanze durante il primo gabinetto Cairoli), vd. L. Leardi Antongini, Cenni biografici di Carlo Leardi, Firenze 1883. 110 Ma la data di pubblicazione non deve trarre in inganno, giacché la traduzione, «terminata da molti anni» (così Gabotto, o.c. XXIII), ha come termine ante quem il 1882, anno di morte del traduttore. La copia da me visionata si conserva presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. 111 Un Clinio Quaranta è menzionato nel CLIO come autore di traduzioni da Virgilio, Marziale e Anacreonte, copie delle quali si trovano presso la Biblioteca di Casa Carducci (inviate in dono dal Quaranta stesso, che figura non a caso tra i corrispondenti del Professore bolognese). 112 Di questa traduzione non sono riuscita a trovare copia fino ad ora. 113 Se ne conserva una copia presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. 114 Una disamina particolareggiata dei primi otto versi del proemio lucreziano nella versione del Vanzolini e del Rapisardi ha condotto Dionigi, Un traduttore cit. 70-72. Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 443 terno del poema, ed è pertanto il candidato migliore per l’indagine che ci proponiamo. Va da sé che, per la patina linguistica arcaica e lo stile alto in cui è composto, evidenti sin dal grandioso attacco Aeneadum genetrix (probabile ricordo dell’enniano te †saneneta precor, Venus, te genetrix patris nostri, Ann. 58 Sk.115), il testo dovette rappresentare un difficile banco di prova per i volgarizzatori. Considerando l’ampiezza (43 esametri) e la complessità concettuale del passo, anziché addentrarsi in un esame dettagliato delle singole versioni (ben diciannove, i cui testi vengono comunque riprodotti per intero nell’Appendice)116, abbiamo interpellato la sensibilità linguistica e la vocazione esegetica dei traduttori su alcune questioni significative. In primo luogo (A), si è verificato come vengono resi in italiano certi tratti linguistici e stilistici lucreziani di matrice epico-tragica, e segnatamente enniana, quali gli aggettivi composti e gli arcaismi (in particolare morfologici), che conferiscono solennità al dettato e trovano nel genus grande del proemio la propria sede naturale117. Contestualmente, si è inteso portare un piccolo contributo alla storia dell’esegesi italiana del De rerum natura, sondando la reazione dei traduttori rispetto a singoli vocaboli o locuzioni di interpretazione dubbia o problematica, che meglio di altri rivelano l’acume interpretativo di chi traduce. Nell’àmbito del nostro campione testuale, la scelta è ricaduta naturaliter su due casi: concelebras (v. 4) e ferae pecudes (v. 14)118. In secondo luogo (B), l’intertestualità, 115 L’incomprensibile saneneta è stato oggetto di numerose proposte di emendamento, tra cui nunc sancta del Colonna, sale nata del Vahlen e Aeneia dello Skutsch, il quale vi sente un possibile riferimento alla `Afrodivth Aijneiav" cui era dedicato un tempio ad Ambracia (vd. The Annals of Q. Ennius, ed. with introd. and comm. by O. S., Oxford 1985, ad l.). 116 Alle diciotto traduzioni ottocentesche si è ritenuto opportuno associare, in quanto inedita, anche la traduzione tramandata sotto il nome dell’Allainig, ascritta al XVIII sec. (vd. supra pp. 458s.). 117 Sui diplâ onómata come marca peculiare della Dichtersprache rinvio ai contributi compresi nel volume La lingua poetica latina, a c. di A. Lunelli, Bologna 19883, in particolare H.H. Janssen, Le caratteristiche della lingua poetica romana 121ss. e M. Leumann, La lingua poetica latina 169ss. 118 Ad un discorso analogo si presta anche il v. 41 (nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo), di interpretazione controversa: più di uno studioso, infatti, ha tentato di inferire notizie circa la cronologia del poema a partire dalla vaga determinazione temporale patriai tempore iniquo, che a qualcuno è parsa alludere, se non ad una specifica guerra in corso, quantomeno ad una situazione di generale instabilità politica e sociale della res publica (cf. anche talibus in rebus del v. 43; contra, F. Giancotti, Ipotesi cronologica. Il patriottismo di Lucrezio e il precetto LAQE BIWSAS, in Il preludio di Lucrezio e altri scritti lucreziani ed epicurei, Messina-Firenze 1978, 139-155, al quale si rimanda per una rassegna delle varie ipotesi). In questa sede però importa soprattutto notare che la maggior parte dei traduttori concorda nell’intendere il dimostrativo hoc come ablativo riferito a tempore (Allainig «tra i romor bellici, in cui trovasi / ora la patria»; Leoni «in questo tempo, sì a la patria iniquo»; Renieri «in questa […] avversa etade»; Mazzarella «in questa […] iniqua etade»; Carrer «in tal […] / età dira»; Cipriani «in tali tempi […] avversi»; Tolomei «in questi giorni […] iniqui»; Sartori «in questi / […] perversi tempi»; Psaila «in questi tempi / tristi»; Armaforte «sì iniqui alla patria anni volgendo»; Leardi «in questi 444 MAGNONI cui è interamente dedicato il paragrafo conclusivo, oltre ad alcune osservazioni sparse nel corso dell’analisi. Il nostro intento è mostrare come nell’officina di lavoro dei traduttori entrino in gioco due differenti forme di memoria intertestuale: se le frequenti analogie e coincidenze testuali attestano una costante imitatio/aemulatio verso i precedessori (anzitutto il Marchetti), più significative risultano alcune reminiscenze, probabili allusioni e persino autentiche citazioni letterarie, che rinviano ad auctores individuabili o, più genericamente, alla langue codificata e dunque anonima. Dove possibile, ho provveduto a segnalare tali riscontri (anche soltanto per via ipotetica), non già per mera crenofilia, ma per ragioni di senso: talvolta, infatti, soltanto l’agnizione dei possibili modelli (italiani o latini che siano) presenti alla memoria del traduttore consente di chiarire opzioni stilistiche singolari e persino scarti vistosi rispetto all’originale. A questo si somma poi un secondo motivo di interesse. Chiunque abbia un minimo di familiarità con le traduzioni prodotte nella temperie del classicisimo ottocentesco non esiterà a riconoscere in queste versioni ‘musive’ un segno dei tempi e quasi una marca di scuola. L’ossequio per i campioni della stagione letteraria del Tre-Cinquecento (da Dante, numen onnipresente nella coscienza linguistica dell’Ottocento, fino a Tasso) e, soprattutto, l’esempio magistrale dell’Iliade di Vincenzo Monti – il quale aveva sentenziato, come è noto, che «quando si traduce, non è più la lingua del tradotto, a cui si debbono i primi riguardi, ma quella del traduttore»119 – fanno sì che, non di rado, la stretta aderenza all’originale sia preoccupazione meno urgente che riecheggiare ‘i testi di lingua’ della letteratura nazionale, riesumandone movenze e formule collaudate120. Se dunfortunosi / tempi») anziché come complemento oggetto di agere (nel senso di ‘condurre avanti questa impresa poetica’, come lasciano intendere Rapisardi «attender […] io non potrei / […] all’opra», De Antonio «compir io non potrei / l’opra incoata»): a favore di questa seconda opzione, preferita dalla quasi totalità degli editori e commentatori lucreziani recenti, depongono sia il confronto con IV 969 [in somnis videmur] nos agere hoc autem et naturam quaerere rerum, sia la caratura solenne di cui è dotata l’espressione agere hoc, formula di origine rituale poi passata nel linguaggio ordinario (vd. Bailey, o.c. ad l. e Lucrèce. De rerum natura. Comm. exégét. et crit. par A. Ernout et L. Robin, I-III, Paris 19622, ad l.). 119 Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade, in Opere, a c. di M. Valgimigli e C. Muscetta, Milano-Napoli, 1953, 1028s. 120 Su questo tratto peculiare del Monti traduttore, si vedano I. De Luca, L’«Iliade» del Monti, in Tre poeti traduttori. Monti, Nievo, Ungaretti, Firenze 1988, 11-53 e A. Bruni, Cesarotti nell’«Iliade» di Vincenzo Monti, in Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre Cesarotti, a c. di G. Barbarisi-G. Carnazzi, Milano 2002, 661-724. Vero è che il recupero della letteratura nazionale nella traduzione dei testi latini e greci vanta origini più antiche dell’Iliade montiana: si pensi, per fare solo due nomi eccellenti, alla cinquentesca Eneide di Annibal Caro o al seicentesco ‘Lucrezio toscano’ di Alessandro Marchetti. Tuttavia, nel classicismo ottocentesco, tale prassi sembra essere portata a sistema e acquisire significati inediti, soprattutto alla luce della «restaurazione del culto di Dante» – per riprendere le parole del Dionisotti (Varia fortuna di Dante, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1977 2, 266) – che impronta l’intero secolo: in merito si vedano, tra gli altri, Scuola classica romagnola cit. passim; V. Citti, Traduzione e Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 445 que un’autorità riconosciuta come Vincenzo Monti, il «tesoriere musaico» della tradizione italiana illustre (secondo la felice definizione del Russo121), non aveva esitato a rivestire l’originale con le «finissime lane» degli auctores italiani122, non dovrà sorprendere che anche i nostri ben più modesti traduttori abbiano ceduto al richiamo della tradizione. Delle forme e degli esiti concreti del riuso intertestuale ci occuperemo tra breve. Tuttavia, anticipando i risultati della nostra indagine, è bene precisare sin d’ora che soltanto in una minoranza di casi la reminiscenza dotta incastonata nel testo presuppone un’effettiva corrispondenza, concettuale e/o formale, tra il locus classico e l’auctor italiano fruito dal traduttore, come invece accade in altri volgarizzamenti ottocenteschi, quali la Farsaglia del Cassi (per la coppia Lucano-Dante) o il meno noto De rerum natura di Giuliano Vanzolini (per la coppia Lucrezio-Dante)123. Nelle traduzioni lucreziane esaminate, le tessere d’autore di rado svolgono una funzione esegetica; più di frequente, esse rispondono ad una esigenza di ornatus, ossia innalzano e impreziosiscono il dettato124, alla stregua di arcaismi e latinismi (linguistici e semantici), collaudati o di nuova formazione. Per concludere, malgrado l’esiguità del campione testuale considerato, si ha l’impressione che i nostri traduttori, con la sola eccezione del Rapisardi, in linea generale attingano dal serbatoio della tradizione non già per scrupoli di ordine etico o ideologico – che pure non sarebbero suonati fuori luogo trattandosi dell’epicureo Lucrezio125 – ma per ragioni squisitamente estetico-letterarie: ora per esibire la propria cultura letteraria, ora per bilanciare il nitore formale del testo classico con le glorie letterarie nazionali, secondo quella norma del ‘compenso’ che aveva giocato un ruolo decisivo nella riflessione ottocentesca sul tradurre126. rapporti intertestuali, in La traduzione dei testi classici. Teoria, Prassi, Storia. «Atti del Convegno di Palermo (6-9 aprile 1988)», a c. di S. Nicosia, Napoli 1991, 91-102; M. Mari, Momenti della traduzione fra Settecento e Ottocento, Milano 1994, passim. 121 Vincenzo Monti e la letteratura moderna, in Ritratti e disegni storici, III. Dall’Alfieri al Leopardi, Firenze 19632, 164. 122 L’espressione è ancora del Monti, che la usa nelle Considerazioni cit. 1032. 123 Per le riprese della Commedia nella traduzione del Cassi (che gioca in modo virtuosistico sui luoghi in cui la Commedia dipende dalla Farsaglia lucanea) e del Vanzolini (che addita alcune suggestive analogie linguistiche tra i due poeti, a dispetto della mancata conoscenza di Lucrezio da parte dell’Alighieri), si vedano rispettivamente Nonni, La Farsaglia del Cassi cit. passim e Magnoni, Leggere Lucrezio con Dante cit. 97-119. 124 Sull’omologia funzionale che lega il meccanismo dell’arte allusiva ai tropi in generale, vd. G.B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario. Catullo Virgilio Ovidio Lucano, Torino 19852, 13s. 125 Secondo un costume ben attestato fino a tutto il Settecento e oltre: sentenze moraleggianti di ispirazione cristiana miranti ad adeguare i testi pagani alla sensibilità moderna abbondano, ad esempio, nelle traduzioni omeriche del Cesarotti (in particolare nella seconda versione poetica, intitolata La morte di Ettore), per cui si veda M. Mari, Le tre Iliadi di Melchiorre Cesarotti, in Momenti della traduzione cit. 161-235. 126 L’esigenza di ‘compensare’ la perdita di elementi significativi del testo originale, già 446 MAGNONI A. v. 3 navigerum (scil. mare) A partire dal Renieri, risulta maggioritaria la traduzione-ricalco: navigerum127, neologismo lucreziano occasionalmente ripreso nella letteratura posteriore (Marziale, Ausonio), è traslitterato in «navigero», latinismo acquisito alla lingua letteraria a partire dalla traduzione dell’Odissea del Pindemonte (XV 545). D’altra parte, sulla scia del Marchetti, che aveva oscurato l’aggettivo composto nel semplice «profondo», topico del mare, nell’Ottocento rifuggono dal latinismo il Leoni, il Mazzarella, il Cipriani, il Tolomei, lo Psaila, l’Elisei, l’Armaforte e il Leardi: mentre i primi due optano per «navigabil», la soluzione «navigato», adottata da tutti gli altri, ripropone un modulo risalente all’Eneide del Caro (III 251 «rinavigando il navigato mare», dove il traduttore cinquecentesco aveva reso mediante la figura etimologica il sema virgiliano della ripetizione: rursus … remenso / … ire mari [III 143s.]). C’è poi anche chi, come il Merenda, annacqua il composto nella perifrasi esornativa («il mar che ha carco / di navi il dorso»), che potrebbe avere il proprio modello diretto in Tasso, Gerusalemme Conquistata XVI 55 «mentre il mar carco, e le minute arene / son di schiere, e di navi, e d’auree spoglie». v. 3 frugiferentis (scil. terras) Il composto a terminazione participiale frugiferentis128, hapax quasi assoluto con una probabile matrice enniana (cf. Ann. 510 Sk. terrai frugiferai) 129, è conservato unicamente dal tardo Menegazzi, che osa il probabile neologismo «frugiferente»130; appena più cauto era presente nella trattatistica del Settecento (per cui vd. Claudia Fanti, Teorie della traduzione nel Settecento italiano. Note e discussioni, Bologna 1980, in part. 21ss.), fu particolarmente sentita, nella prima metà del secolo XIX, dagli esponenti della Scuola classica romagnola: questo spiega in gran parte una tipologia di traduzione che si propone di sostituire «alle grazie latine le grazie italiane» (sono parole di Paolo Costa), e che, come ricorda il Ferratini, per «bilanciare l’originale, perfetto nelle sue intatte misure classiche», ricorre «a una lingua altrettanto pura e decantata, resa disponibile da una tradizione non meno nobile» (o.c. 191). 127 Sui composti in -fer e -ger, tra i più rappresentati in Lucrezio, vd. J.C. Arens, -Fer and -Ger. Their Extraordinary Preponderance among Compounds in Roman Poetry, «Mnemosyne» s. 4 III (1950) 241-262. Per l’elenco complessivo dei composti lucreziani si veda T. Lindner, Lateinische Komposita. Morphologische, historische und lexikalische Studien, Innsbruck 2002, 276-278. 128 Per questa tipologia di aggettivi, di cui il poema offre diversi esempi (cf. tra gli altri, I 945 suaviloquens, II 878 e V 789 pennipotens, II 942 omnituens), vd. il classico Françoise Bader, La formation des composés nominaux du latin, Paris 1962, 254-260 (Noms d’agent en -nt-: di frugiferens si parla a p. 259). 129 Il lessema lucreziano tornerà, e col medesimo referente, nel solo Iuvenc. II 549 (terrarum frugiferentum). 130 Per questa tendenza a tradurre il novum verbum dell’autore antico con un vocabolo che suoni parimenti nuovo nella lingua d’arrivo è d’obbligo il rinvio al Leopardi, che nello Zibaldone (luglio o agosto 1817) dedica interessanti osservazioni alla resa italiana di quei composti creati «a bella posta» dagli scrittori greci: «un’osservazione importantissima intorno alle traduzioni, e che non so se altri abbia fatta, e di cui non ho in mente alcuno che abbia profittato, è questa. Molte Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 447 stato il Renieri, il quale aveva ripiegato su «fruttifero», latinismo composto pluriattestato dal Duecento in avanti. Nelle altre traduzioni il composto è in prevalenza soppiantato dal semplice e più opaco «ferace», latinismo standardizzato nella lingua letteraria in relazione alla terra e dotato di un color lucreziano (cf. II 1098 terras … feraces); in alternativa, troviamo i più prosaici «fruttuoso» (Carrer, Cipriani, Psaila), «pingue» (Mazzarella, Elisei) e «ubertose» del Tolomei (e poi del Sartori, del Rapisardi e dell’Armaforte). Fanno eccezione il Merenda e il Leardi: il primo opta anche qui (come già nel caso di navigerum, vd. supra p. 446) per una circonlocuzione, «la terra / che di spiche s’adorna» (a margine si noterà che nella traduzione i termini mare/terra con relativi epiteti compaiono in sequenza invertita rispetto al latino); il Leardi sceglie la iunctura arcaizzante di matrice quattrocentesca «la di biade / terra altrice», già riattivata nell’Ottocento dal Pindemonte131. v. 18 frondiferasque (scil. domos) Il composto (altre 2 occorrenze in Lucrezio: I 256 [silvae], II 359 [nemus]) si trovava già nel teatro di Nevio (Trag. 22 R.3 frondiferos locos) e ritornerà nel solo Seneca tragico (Oed. 274 [nemora]). Benché dotato di una coloritura epicheggiante (cf. Pindemonte, Odissea XX 338 «bosco frondifero»), il calco «frondiferi» non riscuote molta fortuna tra i volgarizzatori: lo troviamo infatti nel solo Rapisardi («case frondifere»). Le altre soluzioni lessicali si dispongono entro un arco sinonimico in cui trovano posto forme participiali di impiego per lo più prosastico («frondeggianti alberghi» traduce il Leoni, seguito alla lettera dallo Psaila), vocaboli dalla patina letteraria quali l’arcaizzante «fronduto» (Renieri) e l’allotropo «fronzuto» (Vanzolini, Cavagnari e Ferracini) e infine il più neutro «frondoso», adottato già nel Settecento dall’Allainig e poi molto sfruttato nell’Ottocento (Mazzarella, Carrer, Merenda, Cipriani, Tolomei, Sartori, Menegazzi, Elisei e Leardi, presso gli ultimi due nella iunctura «frondosi alberghi» di cui offre esempi il Tasso delle Rime [1066,6 e 1069,9, in entrambi i casi al singolare]). C’è poi chi (De Antonio e Armaforte), sull’esempio del Marchetti («boschi ombrosi»), oscura la ricercata perifrasi lucreziana in una più generica determinazione paesaggistica («foreste ombrose»), non priva, tuttavia, di risonanze poetiche132. v. 29 fera moenera militiai La iunctura in questione (lett. «feroci doveri della guerra»), che ricompare quasi identica al v. 32 con variatio lessicale del determinante (belli fera moenera), esibisce una volte noi troviamo nell’autore che traduciamo p.e. greco, un composto una parola che ci pare ardita, e nel renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e fatto questo siamo contenti. Ma spessissimo quel tal composto o parola comechè sia, non solamente era ardita, ma l’autore la formava allora a bella posta, e però nei lettori greci faceva quell’impressione e risaltava nello scritto come fanno le parole nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle tante parole dell’Alfieri p.e. spiemontizzare ec. ec. Onde tu che traduci, posto ancora che abbi trovato una parola corrispondentissima proprissima equivalentissima, tuttavia non hai fatto niente se questa parola non è nuova e non fa in noi quell’impressione che facea ne’ greci» (Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a c. di R. Damiani, Milano 1997, I 17). 131 Cf. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili 31,2; Pindemonte, Odissea XIX 499-501 «d’uomini e donne / su l’altrice di molti immensa terra / spavento io fui». 132 Oltre al Pindemonte, Odissea XIII 240, dove la iunctura torna identica, si vedano anche Boiardo, Orlando Innamorato II 21,14 e Tasso, Gerusalemme Liberata XII 29. 448 MAGNONI studiata patina arcaica (tanto nella grafia dittongata moenera quanto nella forma del genitivo militiai) che conferisce solennità al dettato. Prima di Lucrezio il nesso munera militiai, che conoscerà un discreto impiego nella storiografia (Cesare, Livio e Tacito) e nell’epica tarda, compare nel frammento di una Menippea di Varrone intitolata Kosmotoruvnh. Peri; fqora'" kovsmou133. Ma veniamo ai traduttori. Mentre il Marchetti aveva concentrato la resa del dettato lucreziano, agglutinando le due espressioni lucreziane sinonimiche (vv. 29 e 32, vd. supra) nella locuzione topica «il fiero Marte» (capillarmente attestata dal Boccaccio al Monti), «i fieri ludi» del Leoni (riecheggiato dal Vanzolini e dal Tolomei con «il fiero ludo dei brandi») presuppongono con ogni probabilità il celebre incipit delle Stanze polizianee134. A considerazioni analoghe si presta la metonimia «campi cruenti» del Cavagnari («de’ campi / cruenti il nume, Marte armipossente», che rende assai liberamente quoniam belli fera moenera Mavors / armipotens regit), la quale mostra una rispondenza più che sospetta con un passo montiano (riecheggiato, a quanto pare, anche dal Manzoni)135. Gli altri traduttori si attengono per lo più al lessico marziale standardizzato nel registro epico-tragico, riattivando talora locuzioni di consolidato uso letterario: «il militar furore» (Renieri), «i feri della guerra travagli» (Mazzarella), «l’aspre guerresche fazïoni» (Carrer), «l’ire di guerra» (Merenda), «l’armi» (Cipriani), «l’empie fiamme di guerra» (Vanzolini), «il furore empio di guerra» (Sartori), «gli acri studj dell’armi» (Rapisardi), «i ludi dell’armi» (De Antonio), «de le pugne le rabbie» (Menegazzi), «le crude opre di guerra» (Ferracini), «i giuochi aspri di guerra» (Psaila), «l’aspre militari fatiche» (Elisei), «strepito de l’armi» (Armaforte), «l’opre di guerra» (Leardi)136. v. 33 armipotens (scil. Mavors) L’epiteto di Marte armipotens, già impiegato da Accio come attributo di Minerva (Trag. 127 R.3), è poetismo caro, tra gli altri, a Virgilio, che lo applica sia ad eroi (Aen. VI 839, Achille) che a dèi (IX 717, Marte). Nell’intento di preservare la caratura solenne dell’espressione lucreziana, la maggioranza dei traduttori (Leoni, Mazzarella, Carrer, Vanzolini, Rapisardi, Cavagnari, Ferracini, Psaila, Armaforte, Leardi) opta per «armipotente» (anche nella variante «armipossente»), latinismo di origine trecentesca (Boccaccio, Teseida VII 32) tornato in auge nella poesia classicheggiante dell’Ottocento per opera del Monti e del Pindemonte (rispettivamente Iliade IV 151 e Odissea XXII 251), alle prese con l’arduo compito di 133 Si tratta del fr. 223 fera militiai munera belli ut praestarem (vd. Marcus Terentius Varro. Saturae Menippeae, hersg., übers. und komm. von W.A. Krenkel, St. Katharinen 2002, 394-398), dove sia fera che militiai risultano correzioni del Palmerius rispettivamente in luogo delle lezioni sera e militia in, tràdite nei codici di Nonio (538,20s. M. = 863 L.); militia si legge viceversa nell’edizione di Buecheler (Petronii Saturae rec. F.B. Adiectae sunt Varronis et Senecae Saturae similesque reliquiae ex ed. sext. anni MDCCCCXXII a Guilelmo Heraeo cur. rep. et suppl., Berolini 1958). 134 Stanze I 1 «Le gloriose pompe e’ fieri ludi / della città che ’l freno allenta e stringe / a magnanimi Toschi». Ma va detto che la stessa iunctura compare anche in due opere del de’ Medici (De summo bono 1,93 e Selve 2,11) pressapoco coeve a quella del Poliziano. 135 Mascheroniana 3,139s. «su i cruenti suoi campi più non freme / di Marte il tuono»; Adelchi (At. 3, Coro 65). 136 Per fermarsi ad un unico esempio, «strepito dell’(d’/de l’) armi» ricorre diffusamente, sia in prosa che in poesia, dal Boccaccio (Filocolo I 17) al D’Annunzio (Elegie romane, Felicem Niobem! 20). Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 449 tradurre in italiano gli epiteti formulari omerici137. Retaggio della dizione arcaica è pure l’altro latinismo, «belligero»138, adottato dal solo De Antonio («il belligero Iddio Marte Gradivo»): qui il teonimo entra in un cumulo di epiteti altisonanti tra cui spicca il latinismo «Gradivo», attributo topico di Marte sin dal Cinquecento139, già precedentemente adottato dal Leoni e dal Tolomei («Gradivo armipotente»). All’artificiosa pesantezza del composto altri traduttori preferiscono ora (Renieri, Menegazzi) la circonlocuzione di memoria alfieriana «possente in armi» (cf. Polinice at. 1, sc. 4, v. 264), ora il latinismo «bellicoso» (Elisei e, in unione con «armipotente», Cipriani), che, sempre in riferimento al dio della guerra, vanta diversi esempi nella lingua poetica (dal trecentesco Serdini [15,40] al Pindemonte [Odissea VIII 353]). Armipotens è invece del tutto soppresso nel Sartori, che converte teonimo e relativo epiteto nella locuzione «dell’armi il Dio», la cui trafila corre dal Tassoni (La secchia rapita II 56) al Monti (Iliade V 587), passando per il Marino (Adone I 2, etc.) e l’Alfieri (Satire 10,16). Loci di interpretazione dubbia: 1) La voce concelebras (v. 4), qui riferita all’azione vivificatrice che Venere-voluptas esercita sulla triade topica cielo/mare/terra, è stata variamente intepretata. A partire dal Pius (1511)140, editori e commentatori hanno inteso il vocabolo ora nel senso etimologico di «popoli», «affolli di creature» (così il Lambino [1564]), con cui il verbo è certamente impiegato in II 344s. (variae volucres, laetantia quae loca aquarum / concelebrant)141, ora in quello più ampio, comprensivo anche del primo, di «vivifichi», «riempi della tua presenza 137 La questione di come rendere adeguatamente la formulità omerica, dibattuta sin dal Settecento (dai francesi Perrault e La Motte agli italiani Salvini, Maffei, Cesarotti), coinvolse anche i principali traduttori ottocenteschi di Omero, dal Monti, al Foscolo e al Pascoli, i quali adottarono soluzioni non univoche: per il Monti, incline a sostituire il composto con aggettivi semplici, esornativi e di risonanza letteraria, vd. M. Mari, Introduzione all’Iliade montiana, in Momenti della traduzione cit. 347-392: 362ss.; per il Foscolo si veda A. Bruni, Foscolo traduttore del primo canto dell’Iliade, «Filologia e critica» IV (1979) 280-321: 308s.; per il Pascoli, le cui traduzioni perseguono «la rivitalizzazione semantica» dell’epiteto, recuperandone «l’immagine originaria, oblitterata nel grigiore della lingua comune», vd. A. Traina, Il latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico, Firenze 19712, 170-172 e Retractationes Pascolianae, «Rivista Pascoliana» XV (2003) 181 (con bibliografia). Di tutti e tre i traduttori si occupa, con risultati invero deludenti, D. Zoppi, I traduttori di Omero e la formularità, «AFLM» XVI (1983) 447-482. 138 «Belligero Marte» si trovava nel Boccaccio (Comedìa delle ninfe fiorentine XXXVIII 15) e nella quattrocentesca Hypnerotomachia Poliphili del Colonna (6,8; 11,3; 28,3). 139 Così nell’Ariosto (Cinque canti 1,98) e nella Traduzione delle deche di Tito Livio di Jacopo Nardi (1554,7; vd. GDLI VI 1011), ma più di frequente «Gradivo» è impiegato in sostituzione del teonimo (cf. e.g. Marino, Adone XII 84; Redi, Bacco in Toscana 649; Parini, Il giorno [II red.], Meriggio 359; Pindemonte, Odissea VIII 466; Monti, Musogonia 577 e Iliade II 840). 140 «Auges tuo dulci initu: ut ita multiplicata celebria sint et populosa. Vel concelebras, frequentas: penetras enim in viscera maris et in terras: afflatuque tuo feminali mare terramque non minus auges quam laetificas», ad l. 141 Così anche il ThLL IV 18, che registra entrambi i passi lucreziani sotto la prima accezione di concelebro «frequentare, inhabitare, complere». 450 MAGNONI fecondatrice», il quale pare suggerito alla lontana da un passo di Nonio142. Per la prima soluzione, accreditata dal Creech (1695)143, propende, fra i moderni, l’Ernout («toi par qui sous les signes errants du ciel, la mer porteuse de vaisseaux, les terres fertiles en moissons se peuplent de créatures»), mentre la seconda, più fortunata a partire dal Munro («the goddness fills at once with her presence […] this sense is therefore more poetical than, and also implies, that of peopling») è stata recepita, tra gli altri, dal Giussani («riempi di te; ti diffondi; sei la vita di»), dal Bailey («who [Venus] fillest with thy presence»), dal Pizzani («riempi della tua presenza»), dal Fellin («désti la vita»), dal Rouse (che traduce «fille with yourself»), dal Giancotti (il quale suggerisce di tradurre «dovunque avvivi della tua presenza»)144. Fra i traduttori italiani, merita di essere menzionato il Marchetti, che in questo caso non si limita a seguire il commento del Creech, ma trascrive quasi alla lettera e ingloba nella traduzione la citata nota esegetica del reverendo inglese («d’animai d’ogni specie orni [il mar e tutta la terra]», con cui consuona anche la posteriore versione dell’Allainig, «riempi di viventi»). Fra i volgarizzatori ottocenteschi, solo un’esigua minoranza si accontenta di un’unica forma verbale: di norma, infatti, la voce concelebras è amplificata in dittologie sinonimiche e persino tricola verbali (Armaforte, vd. infra). L’esegesi di concelebrare nel senso di «popolare» trova riscontro nel Mazzarella («allieti di popolo»), nel Merenda («popoli»), e poi soprattutto dal Rapisardi in avanti, ossia nel De Antonio («popoli ed orni d’animali e piante») e nello Psaila («popoli il mar […] di pesci, / di fruttüose biade orni la terra»), dove l’impiego di «orni» rinvia con sicurezza al precedente marchettiano (vd. supra); viceversa, più sbilanciate verso la seconda opzione esegetica risultano le traduzioni «fecondi, e colmi» (Renieri), «fecondi» (Carrer, seguito dal Cipriani e dall’Elisei), «empi di tua virtù» (Vanzolini145), «fai di vita festanti» (Tolomei), cui farà eco parziale «empi di vita» (Cavagnari), e ancora «del tuo sguardo fecondi» (Sartori), «di vita allieti» (Ferracini), «fecondi» (Leardi). D’altra parte, se «famosa (la terra) rendi» del Leoni deriva da un palese 142 Il quale chiosava concelebrare con commovere ([274,32 M. = 421 L.]). Per questa seconda opzione propende anche il Lewis-Short, che registra il nostro passo sotto il significato «to fill, animate, enliven, cause to abound», suggerendo la seguente traduzione «who hast filled with life». 143 «Clarius vero, reples et exornas varia animantium foetura», ad l. 144 Per cui vd. rispettivamente Lucrèce. De la nature, texte ét. et trad. par A. Ernout, I-II, Paris 1924 2 ; T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex. Ed. with notes and transl. by H.A.J. Munro, I-III, Cambridge 1886 [Editio maior], ad l.; T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex. Rev. del testo, comm. e stud. introd. di C. Giussani, I-III, Torino 1896-1898, ad l.; Bailey, o.c. ad l.; Lucreti de rerum natura locos praecipue notabiles coll. et illustr. H. Paratore, comm. instr. H. Pizzani, Romae 1960, ad l.; Lucrezio. Della natura, a c. di A. Fellin, Torino 1963; Lucretius. De rerum natura, with an engl. transl. by W.H.D. Rouse. Rev. with new text, introd., notes, and index by M.F. Smith, London 1975; F. Giancotti, Religio, natura, voluptas. Studi su Lucrezio, Bologna 1989, 367. 145 La soluzione «empi di tua virtù» del Vanzolini sembra tenere presente, a sua volta, un passo dell’Adone mariniano, e più precisamente un’invocazione a Venere (XVI 64) che è traduzione pressoché letterale dell’ipotesto lucreziano: «luce del terzo ciel, pietosa diva, / d’ogni esser, d’ogni ben fonte fecondo, / vivo e vital principio onde deriva / quant’ha di bel, quant’ha di dolce il mondo, / che dela tua virtù generativa / empi l’aria, la terra e ’l mar profondo, / anime e corpi, misti ed elementi». Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 451 fraintendimento del vocabolo lucreziano (inteso nel senso di «laudibus efferre», ThLL III 746), più difficile è dire quale interpretazione accolgano il Menegazzi, con il suo fantasioso «susciti a nozze», e l’Armaforte, che addirittura triplica il verbo lucreziano rifondendo soluzioni già adottate dai predecessori («empiendo di te, popoli e abbelli»). 2) Spetta all’Ernout – è cosa nota – il merito di avere riconosciuto nella discussa locuzione ferae pecudes (v. 14) una coppia polare asindetica la quale designa «gli animali selvaggi e gli animali domestici» sensibili al fascino di Venere-voluptas146. L’interpretazione avanzata dallo studioso nel 1924, e in seguito accolta dalla maggioranza degli editori e commentatori lucreziani, fra cui il Bailey, ha segnato una svolta decisiva rispetto all’esegesi precedente147: fino a tutto l’Ottocento, infatti, gli studiosi si dividevano sostanzialmente tra la posizione del Creech (1695), il quale, contro l’emendamento ferae <et> pecudes proposto dal Bentley, aveva inteso ferae pecudes come ossimoro costituito da un aggettivo con valore predicativo e da un sostantivo (nel senso di pecudes Venere efferatae; così anche Giussani, Pascal, Merril), e la posizione del Wakefield (1796-1797), il quale aveva corretto il testo tràdito in fere pecudes («gli animali in generale», seguito dubitosamente dal Munro, ad l.)148. D’altra parte, ampio credito ha riscosso, sino al Novecento149, l’esegesi di ferae pecudes = 146 Per la puntuale disamina di tutta la questione, di cui ci limitiamo a ricordare le tappe salienti, si rinvia a V. Citti, In principio erat Bentley, in La parola ornata. Ricerche sullo statuto delle forme nella tradizione poetica classica, Bari 1986, 103-127. L’esegesi dell’Ernout è ora accolta nel ThLL X/6 956. 147 Colgo l’occasione per segnalare un fatto sfuggito, a quanto pare, agli studiosi lucreziani che si sono occupati del problema: prima dell’Ernout, la proposta di considerare ferae pecudes come asindeto era stata avanzata, seppur con cautela e senza la minuta discussione che le riserverà lo studioso francese, da J.H. Warburton Lee nell’edizione commentata dei primi tre libri lucreziani apparsa a Londra nel 1884 e ristampata nel 1888 (T. Lucreti Cari De rerum natura, libri I-III. Ed. with introd. and notes by J.H. W.L.): nella breve nota di commento ad l., subito prima di accreditare la correzione del Wakefield fere (che per altro è erroneamente segnalata come «MSS reading»), lo studioso afferma: «the analogy of 163 (armenta atque aliae pecudes, genus omne ferarum) suggests that ferae pecudes might be an instance of asyndeton – “beasts and cattle”», concludendo però che «this is perhaps inadmissible with two words, though it is common with three or more» (123). Ma va detto che già l’Eichstädt, nel primo tomo della sua edizione lucreziana del 1801 (Titi Lucreti Cari de rerum natura libri sex ad optimorum exemplarium fidem emendati cum Richardi Bentleii animadversionibus, Gilberti Wakefieldi praefationibus et commentariis integris caeterorumque interpretum praestantissimorum observationibus selectis edidit suas notas et indices copiosissimos adiecit H.C.A. E., I, Lipsiae 1801), aveva stampato ferae, pecudes, tant’è che i due vocaboli sono registrati separatamente nell’Index finale. 148 Le incertezze e oscillazioni esegetiche relative al nostro nesso sono ben testimoniate dalla nota ad l. nell’edizione dell’Havercamp, Lugduni Batavorum 1725; ma la chiosa è dovuta alla mano del Preiger): «cur ferae, omissis mansuetis? an quia feras omnes simpliciter bestias dixit, oppositione ad homines facta? [...] an, quia amore omnes efferantur mansuetae pariter ac ferae?». 149 P. Ferrarino, Laus Veneris, in AA.VV., Ovidiana, Paris 1958, 301-316 (ora in Scritti scelti, Firenze 1986, 305-319); Lucreti de rerum natura locos praecipue notabiles coll. et illustr. H. Paratore, o.c. ad l.; E. Flores, La composizione dell’inno a Venere di Lucrezio e gli Inni omerici ad Afrodite, «Vichiana» n.s. VIII (1979) 237-251. 452 MAGNONI «gli animali selvaggi» (come se fosse una perifrasi per ferae), che dà a pecudes il significato generico di omnia animalia (cf. Nonio, 158,31s. M. = 233 L.)150. Veniamo ai nostri traduttori. Trattandosi di versioni prive, in linea generale, di note esplicative, nella maggioranza dei casi risulta problematico accertare quale interpretazione essi abbiano seguito: fa eccezione l’Armaforte, il cui «il gregge disfrenato» presuppone con ogni evidenza l’esegesi del Creech (vd. supra). Quanto agli altri, i più si limitano a trasporre in modo pressoché letterale i due vocaboli, accedendo così a iuncturae ossimoriche (costituite ora da due sostantivi, ora da un nome più attributo) quali «il gregge de le belve» del Leoni, «feraci armenti, e greggi» del Renieri, «le quadrupede fere» del Mazzarella (di cui è semmai apprezzabile il tentativo di tradurre ‘Lucrezio con Lucrezio’, forse sulla base di more ferarum / quadrupedumque … ritu [IV 1264s.]), «il gregge ferin» del Carrer (e del Cipriani), «il gregge feroce» del Merenda, «il selvaggio armento» del Tolomei (al plurale nel Ferracini)151. Altri si limita a tradurre uno solo dei due termini del binomio lucreziano, più spesso pecudes (ma il Vanzolini, il Sartori e il Leardi traducono rispettivamente «ogni fera», «selvagge fere» e «le vaganti belve», possibile ricordo, questo ultimo, della iunctura lucreziana montivaga fera di I 404 152), omettendo del tutto l’altro: abbiamo così «le greggi» del Rapisardi (al singolare nel De Antonio), «le mandre» del Cavagnari, «gli armenti» del Menegazzi, «il lanuto bestiame» dello Psaila153, sino a «le agnelle» dell’Elisei. B. I traduttori lucreziani esaminati esibiscono una certa familiarità con il thesaurus della letteratura italiana e con alcuni auctores in particolare: a ben vedere, nello scrittoio dei nostri volgarizzatori l’antico si sposa col moderno, sicché, accanto agli immancabili Petrarca, Ariosto e Tasso – pilastri del canone classicistico montiano – spiccano alcune voci poetiche illustri del panorama ottocentesco, quali Leopardi e Carducci; di qui i traduttori mutuano 150 Ma vero è che quest’ultima proposta si fonda su due passi di Varrone (RR II 1,5 in locis multis genera pecudum ferarum sunt aliquot) e Columella (IX 1 ferae pecudes ut capreoli dammaeque nec minus orygum cervorumque genera et aprorum) in cui la locuzione ferae pecudes designa, in un caso, animali domestici che vivono allo stato selvatico, nell’altro, animali selvatici allevati in riserve. Precisazioni in Citti, o.c. 114s. 151 Sebbene nella lingua italiana i lessemi ‘armento’, ‘fera (fiera)’, ‘gregge’ possano designare per estensione anche «gli animali in genere» (GDLI, rispettivamente I 669s., V 950, VII 29s.), illustri esempi letterari – fra cui Petrarca, RVF 128,40 «fiere selvagge et mansuete gregge», Gambara, Rime 43,21s. «fiere isnelle e ben pasciuti armenti / scherzar si veggion per i campi insieme», Tasso, Rime 723,27-29 «la lor doppia virtute / infonde ardire e forza / ne gli augei, ne le fere, e ne gli armenti», Il Mondo creato VI 101s. «e ’nsieme / con le fere produca (la terra) armenti e gregge» – inducono a ritenere che le traduzioni lucreziane riportate sopra accostino impropriamente sotto il profilo semantico vocaboli che nella langue letteraria erano divergenti se non antitetici. 152 E «le fiere» reca anche la versione settecentesca a firma dell’Allainig. 153 Locuzione che sembra alludere al lucreziano lanigerae pecudes (II 318, 662; V 866; VI 1237), ma attraverso il filtro linguistico dell’ariostesco «gregge lanuto» (Orlando furioso XXXI 58), ripreso anche dal Tasso (Il Mondo creato III 899). Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 453 soluzioni linguistiche collaudate e garantite che, mentre innalzano il tono della traduzione, ne certificano l’appartenenza ad una precisa lignée letteraria. Va detto, tuttavia, che una siffatta prassi traduttoria, sensibile alle suggestioni della tradizione poetica nazionale, non esclude occasionali esempi di aderenza letterale o iper-letterale al testo latino, quale si registra, ad esempio, nella resa degli aggettivi composti lucreziani e, più in generale, nella presenza copiosa di latinismi. Gli echi letterari disseminati nel dettato, il cui grado di intenzionalità non è sempre accertabile, appaiono distribuiti con una frequenza disuniforme nelle singole traduzioni e interessano porzioni testuali di estensione variabile, dalla singola locuzione al verso intero. Considerata la natura capillare del fenomeno e l’importanza che esso assume ai fini dell’interpretazione di questi testi (vd. supra pp. 444s.), si è ritenuto di integrare la documentazione già fornita con una campionatura supplementare, relativa a luoghi del proemio sin qui trascurati. La clausola di matrice enniana lumina solis (v. 5; cf. Ann. 265 Sk.), che designa la «luce della vita» cui accedono le creature (genus omne animantum) al momento di nascere (exortum), nella versione del tardo Elisei («a l’aprico / raggio di Febo il novo parto esulta») acquista una vernice mitologica sconosciuta all’originale, in virtù di una puntuale citazione leopardiana (Inno ai Patriarchi 32-34 «e gl’inarati colli / solo e muto ascendea l’aprico raggio / di febo»). Altrove la mediazione della lingua poetica italiana esplicita ciò che in latino è taciuto o sottinteso, come nell’esempio seguente tratto dall’Armaforte154: al v. 6 i venti (menzionati da Lucrezio senza ulteriore specificazione), che con la loro fuga annunciano l’avvento di Venere-primavera, diventano i «brumal soffi» di mariniana memoria (Adone VII 128 «soffi gelidi brumali»). Altrove la reminiscenza letteraria è facilmente innescata da topoi universali, diffusi tanto nella letteratura latina che in quella italiana: così, il verso lucreziano che descrive l’epifania della bella stagione (v. 10 nam simul ac species patefactast verna diei) deve aver suscitato nel Merenda il ricordo di un’altra primavera (e di un altro Zefiro) al cui ritorno è consacrato un celebre e fortunato incipit petrarchesco («come più tosto primavera il dolce / tempo rimena», di contro a RVF 310,1s. «Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena, / e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia»155) 156. Proseguendo, nel De Antonio, la iunctura allitterante «fecondo fiato», che impreziosisce fonicamente il latino genitabilis aura (v. 11) oscurando però il valore causativo dell’aggettivo157, parrebbe ispi154 Il quale risulta particolarmente corrivo agli innesti e alle reminiscenze poetiche, come dimostra anche la traduzione di rapidos amnis (v. 15) con «le correntìe di rapide fiumane», che riprende quasi alla lettera un componimento del Giusti (Poesie, A Gino Capponi 2 «correnti di rapide fiumane»). 155 L’attacco petrarchesco, oggetto di molteplici allusioni (vd. Ariosto, Rime 61,1; Tasso, Rime 1547,86), riecheggia formalmente l’incipit catulliano iam ver egelidos refert tepores (46,1), il quale si innestava, a sua volta, su ben precisi modelli letterari ellenistici, in particolare epigrammatici, fra cui Leonida di Taranto (AP X 1 [= 85 G.-P.],1s. oJ plovo" wJrai'o", kai; ga;r lalageu'sa celidwvn / h[dh mevmblwken cwj carivei" Zevfuro"), da cui dipende, ad esempio, Antipatro di Sidone, AP X 2 (= 41 G.-P.); cf. The Greek Anthology. Hellenistic Epigrams, ed. by A.S.F. GowD.L. Page, Cambridge 1965, II 385s. 156 Analogamente, illustri precedenti letterari ha pure la clausola «il nuovo Aprile» del Tolomei, a monte della quale stanno Tasso, Rime 121,4 e 1674,34; Marino, La Sampogna, Idillio 12,241; Carducci, Rime nuove 45 (Vignetta), 4 e 68 (Idillio maremmano), 1. 157 Il valore attivo e propriamente causativo di genitabilis, ‘che fa generare, che fa nascere 454 MAGNONI rata alla descrizione mariniana della Primavera in Adone VII 157 «Altra (sorella) spirando ognor fecondo fiato / ride con giovenil faccia serena» (nel contesto di una processione delle stagioni). Ancora nel Merenda, la definizione degli uccelli come «dipinti dell’aria abitatori» (v. 12 aeriae … volucres) non si spiega se non risalendo all’archetipo virgiliano pictae volucres (Georg. III 243 e Aen. IV 522), forse filtrato da alcuni intermediari italiani (Poliziano, Stanze I 90 «augelletti dipinti»; Tasso, Gerusalemme Liberata II 96 «pinti augelli» e soprattutto Marino, Adone XX 7 «dipinti del’aria alati figli»)158. In corrispondenza del v. 15, ben dieci traduttori (Allainig, Leoni, Renieri, Mazzarella, Carrer, Vanzolini, Tolomei, Sartori, Psaila, Leardi) duplicano, mediante locuzioni sinonimiche, la voce lepos contenuta nella locuzione capta lepore159, dove il nome verbale capta – accordato proletticamente con il quamque del verso successivo (vd. Munro, ad l.) – esprime la condizione dell’animale soggiogato dal fascino di Venere. Tale duplicazione lessicale non costituisce un gratuito artificio retorico ma riflette, piuttosto, una precisa situazione testuale: per lungo tempo, a partire dalla Iuntina curata dal Candidus (ma non nella seconda Aldina del Navagerius [1515]), le edizioni lucreziane hanno continuato a stampare, in corrispondenza del v. 15, l’esametro illecebrisque tuis omnis natura animantum, fortunata interpolazione umanistica volta, con ogni probabilità, a dare un soggetto esplicito al participio capta (Bailey, ad l.)160. Scendendo nel dettaglio delle traduzioni, la coppia nominale «vezzi e lusinghe» adottata sia dal Renieri che dal Carrer possiede una duplice motivazione: anzitutto agglutina le soluzioni lessicali già operate dal Marchetti («teneri tuoi vezzi lascivi»; e «vezzi», per lepos, tornerà nel Rapisardi, nel De Antonio, nel Ferracini e nello Psaila) e dal Leoni («tue lusinghe»); al tempo stesso, la nostra iunctura vanta una cospicua serie di antecedenti letterari che potevano legittimarne l’impiego (cf. Tasso, Gerusalemme Conquistata XIII 27; Il Mondo creato V 897; Marino, La Sampogna, Idillio 3,397). L’iterazione dell’avverbio cupide al v. 20 (cf. v. 16 te sequitur cupide quo quamque inducere pergis) sottolinea il trasporto con cui gli animali accolgono l’arrivo di Venere e si dispongono a perpetuare la stirpe. La quasi totalità dei traduttori, eccezion fatta per il Ferracini («con desio»/«con desio»), predilige la variatio nella resa dei due avverbi, per la vita’ (derivante dall’originaria funzione strumentale degli aggettivi in -bilis, su cui cf. C. De Meo, Note semantiche sulle formazioni latine in -bilis, Bologna 1972, ora in Varia selecta, Bologna 1994, 87-108) è meglio conservato nella perifrasi del Mazzarella, «altor di vita», o nella «brezza fecondatrice» del Merenda. 158 Su questa espressione topica vd. V. Citti, Gli augelli pinti, in La parola ornata cit. 139-141. 159 «Allettato / dalla tua grazia e dalle tue lusinghe» Allainig; «da tua beltà, da tue lusinghe preso» Leoni; «dai vezzi, e le lusinghe tue / […] commossa» Renieri; «a la tua festa, / ai vezzi tuoi rapita» Mazzarella; «a tuoi vezzi preso e alle lusinghe» Carrer; «alle tue grazie presa e a’ blandimenti» Vanzolini; «di tuoi molli incanti / e di tue gioje […] annodi» Tolomei; «dalle grazie tue, / dai tuoi vezzi […] presa» Sartori; «da bellezza indotto / e dai tuoi vezzi» Psaila; «alle tue grazie preso e alle lusinghe» Leardi. 160 Per la genesi di questa interpolazione tradizionalmente ascritta al Marullo (ma ancora il Lambino ne difendeva la genuinità, sentenziando «mihi videtur versus Lucretio dignissimus»), si leggano le precisazioni del Munro nella Introduction 8s. (dove è avanzata l’ipotesi che l’autore fosse il Poliziano). Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) 455 scongiurare il pericolo di pesanti e monotone ripetizioni161: tra le varie soluzioni prescelte, spiccano la locuzione «con accesa brama» del Carrer, per la quale si può richiamare Tasso (Rinaldo VIII 3) e l’arcaismo «disïosamente/desïosamente» (già adottato dal Cipriani e dal Vanzolini e poi ripreso dal Menegazzi e dall’Elisei), avverbio di primogenitura dantesca (Conv. Canz. 2,1s. «Amor che nella mente mi ragiona / della mia donna disïosamente») ripreso dal Boccaccio (Rime I 7,8) e dai narratori toscani (Bandello, Novelle 3,27; Firenzuola, Ragionamenti, Dedica 2). Per restare in tema di omaggi a Dante, non si può non menzionare il preziosismo «s’infuturi (ogni schiatta)» del Tolomei, composto verbale di primogenitura dantesca162, occasionalmente recuperato tra Otto e Novecento163 e qui riattivato per tradurre, sempre al v. 20, il lucreziano saecla propagent164 (dove la forma sincopata saecla ricorre non già nell’accezione cronologica di ‘generazioni’ ma come sinonimo di genera, ‘razze’). Talvolta il traduttore rimodula in maniera nient’affatto lieve l’ordito del testo lucreziano, come accade nei versi del Cavagnari «e fora, orbato / del tuo soccorso, arida landa e muta / e inamabile il mondo», a fronte di nec sine te quicquam dias in luminis oras / exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam (vv. 22s.): dettaglio interessante è che il nesso «muta landa», che non ha precedenti, riapparirà a pochi anni di distanza nel Carducci (al quale il traduttore inviò copia del proprio lavoro; vd. supra n. 85) e nel Pascoli165. Il giro «grazia perenne a’ detti miei comparti», con cui il Leoni rende aeternum da dictis, diva, leporem (v. 28), riproduce un modulo arcaico e letterario attestato, tra gli altri, nell’Ariosto (Orlando 161 Ma non mancano nemmeno casi di ripetizioni prive di riscontro nell’originale e introdotte a scopo di enfasi: un esempio è offerto dai versi del Carrer «e nulla / esce al dì senza te, senza te nulla / v’ha d’amabile e lieto» (cf. vv. 22s. nec sine te quicquam dias in luminis oras / exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam), dove l’epifora di «nulla» è potenziata dalla geminatio «senza te, senza te», non nuova nella lingua letteraria (cf. Ariosto, Orlando Furioso XLIII 171 «Solo senza te son; né cosa in terra / senza te posso aver più, che mi piaccia» e Cesarotti, Ossian V Temora 1,362-364 «senza te la pugna / combatterassi, senza te nel bosco / le lievi damme inseguiransi»). 162 Tra i numerosi lessemi verbali di innovazione dantesca, particolare rilevanza quantitativa e stilistica possiedono quelli con prefisso in-, modulo formativo presente sin dalla lingua delle origini che Dante estende a sostantivi, aggettivi, numerali, avverbi, pronomi personali e possessivi, tra cui «indiarsi» (‘assimilarsi a Dio’, di Par. IV 28), «imparadisare» (‘innalzare a gioie paradisiache’ di Par. XXVIII 3), «insemprarsi» (‘durare per sempre’ di Par. X 148), «indovarsi» (‘trovar luogo’ di Par. XXXIII 138), tutti non a caso dalla terza cantica, che risulta infatti la più ricca di neologismi; sui nova verba danteschi e la loro fortuna nella tradizione letteraria successiva si veda il classico P.A. Di Pretoro, Innovazioni lessicali nella «Commedia», «Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei» CCCLXVII (1970) 263-297, il quale ha censito 84 probabili vocaboli di nuovo conio, tra lessemi verbali (70), nominali (13) e aggettivali (1), e altresì G. Ghinassi, Neologismi, in Enciclopedia Dantesca IV (1973) 38. 163 Par. XVII 98 «s’infutura la tua vita», di cui serberanno memoria, tra gli altri, D’Annunzio (Maia, Laus vitae 20,75 «sculta rupe che s’infutura» e Alcyone, L’Alpe sublime 42) e Montale (Satura, Milano 1971, 49 «il tempo s’infutura nel totale»). 164 Non si può escludere che proprio l’espressività del neologismo dantesco abbia agevolato il bizzarro conio «s’aggioconda» – hapax assoluto stando alla LIZ e al GDLI – qui adibito dal Tolomei per tradurre fit laetum (v. 23). 165 Carducci, Rime nuove 38 (Brindisi d’aprile), 11s.; Pascoli, Poesie varie 31 (Astolfo), 157s. 456 MAGNONI Furioso XVII 113 «e di sua grazia tanto gli comparte») e nel Tasso (Gerusalemme Conquistata I 6 «e tu l’alte sue grazie a me comparti»; Rime 1390,13 «tanto più di tua grazia a me comparti»). Veniamo ora all’icastico quadro delle due divinità contenuto nei versi finali. Nella traduzione dello Psaila, l’«insanabil piaga» d’amore di cui Marte è vittima (v. 34 aeterno devictus vulnere amoris, laddove la gran parte dei traduttori mantiene l’attributo lucreziano «eterno») mostra un inequivocabile colore alfieriano (tre occorrenze nelle tragedie, di cui due in clausola: Don Garzia at. 3, sc. 1, v. 142; Sofonisba at. 2, sc. 2, v. 257, Mirra, at. 1, sc. 1, vv. 146s.). Ancora. Il verso che ritrae Marte in estatica contemplazione delle grazie di Venere (v. 36 pascit amore avidos inhians in te, dea, visus) offre al Renieri l’occasione di un raffinato intarsio intertestuale: l’espressione «li famelici sguardi in te di amore / pasce» riecheggia da vicino i versi con cui Tasso, lettore e postillatore di Lucrezio, aveva ritratto, nel canto XVI della Liberata, le figure di Armida e Rinaldo, novelli Venere e Marte: 18s. «Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle / le posa il capo, e ’l volto al volto attolle, / e i famelici sguardi avidamente / in lei pascendo si consuma e strugge. / S’inchina, e i dolci baci ella sovente / liba or da gli occhi e da le labra or sugge». Il medesimo verso lucreziano nella traduzione dell’Elisei suona «in te fissi gl’immoti occhi bramosi, / d’amor li pasce»: qui, soppresso ogni riferimento alla bocca del dio (inhio, lett. ‘sto a bocca aperta’, ‘anelo ansiosamente’), l’immagine verte tutta sul motivo della visione, grazie all’inserzione della iunctura «immoti occhi», ampiamente collaudata nel registro poetico166. Petrarchismi codificati nella lingua poetica sono sia «soavi accenti» (RVF 283,6)167 con cui il Leoni, il Tolomei (nella variante lessicale «soavissimi») e il Ferracini traducono suavis loquellas (v. 39), sia «soavi parolette» (adattamento di RVF 183,2 «le soavi parolette accorte»168) del Vanzolini e più tardi dello Psaila, soluzione, questa, forse agevolata da un’errata interpretazione dell’astratto verbale loquella (alternante con loquela) quale diminutivo169; è poi ancora il Canzoniere petrarchesco (26,10) che si intravvede dietro ai «dolci amorosi detti» del Menegazzi. Le «dolcissime querele» («lamenti, espressioni lamentose e querule», GDLI XV 116-118), che, nella versione del Sartori, rimpiazzano impropriamente le suavis loquellas di Venere, costituiscono un omaggio alla poesia del Tasso (Rime 303,8) e del Parini (Il Giorno [II red.], Meriggio 157). Infine, il giro di frase petens placidam Romanis, incluta, pacem (v. 40), saldato dalla triplice iterazione della labiale, nel De Antonio costituisce il punto di partenza 166 La trafila corre dall’Ariosto (Cinque canti I 90) all’Ottocento (Carducci, Rime e ritmi 8 [Bicocca di S. Giacomo], 125), passando per il Caro (Eneide IV 501) e l’Alfieri (Agamennone at. 4, sc. 5, v. 236). Ma «immoto», riferito a Marte, si trovava già nella traduzione del De Antonio («pende immoto / dal labbro tuo divin»). 167 Vd. e.g. Pulci, Morgante XXVII 155; Sannazaro, Arcadia, Ecloga 11,47; Tasso, Rime 35,9, etc. 168 Una ripresa puntuale dell’intera iunctura petrarchesca si trovava nel Tasso lirico (Rime 300,1-3 «Quante soavi parolette accorte / a’ miei desiri intrica / la mia gentil guerriera»); per riecheggiamenti parziali vd. anche Trissino, Rime 59,69; Pindemonte, Odissea I 82s. («con soavi e molli / parolette»). 169 Per l’oscillazione grafica -l-/-ll-, che interessa gli astratti con suffisso -ēla (ad es. querela, suadela, nitela), da ricondursi all’influsso delle formazioni diminutive in -ella, vd. B. Zucchelli, Studi sulle formazioni latine in -lo- non diminutive e sui loro rapporti con i diminutivi, Parma 1969, 34 n. 14. 457 Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) per un virtuosistico collage di brani d’autore («perché taccia il grido / tristo di guerra e le Romulee genti / pace sotto le bianche ali raccolga»): la prima parte sembrerebbe contaminare il topos poetico del «grido di guerra» (Caro, Eneide VIII 62s.; Alfieri, Saul at. 3, sc. 4, v. 300; Monti, Iliade IV 410; Carducci, Juvenilia 89 [Magenta], 4) con il manzoniano «il tristo grido / della vendetta» (Manzoni, Il Conte di Carmagnola at. 5, sc. 5, vv. 275s.); quello che segue è ripresa letterale del leopardiano Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze (1s. «Perché le nostre genti / pace sotto le bianche ali raccolga»). Se inequivocabile è poi la primogenitura petrarchesca dell’espressione «il chiaro germe (de’ Memmi)»170 con cui il Carrer e il Sartori traducono Memmi clara propago (v. 42), non meno evidente è la coloritura aulica di cui è dotata la locuzione «generosa prole»171 dell’Armaforte; ma nessuno dei due eguaglia la disinvoltura dell’Elisei, che non esita a chiudere la traduzione lucreziana con un palmare tassello petrarchesco: «e i gravi casi ognor fanno il mio Memmio / Pensoso più d’altrui che di se stesso» (cf. RVF 53,99-101 «vedrai / un cavalier, ch’Italia tutta honora, / pensoso più d’altrui che di se stesso»)172. ALESSANDRA MAGNONI 170 RVF 338,7, donde la mutuarono anche il Caro (Eneide XII 576s. «il chiaro germe / de l’antico Dolòne») e il Monti (Iliade V 98s. «fugge davanti / al chiaro germe d’Evemone»). 171 Serdini, Rime 17,39; Ariosto, Orlando Furioso I 3; Marino, Adone IX 128; Monti, Iliade II 832 e XV 643. 172 Ma già il Monti aveva commesso lo stesso furtum nel Bardo 2,26s. «la virtù che fa l’uom negli ardui tempi / più pensoso d’altrui che di se stesso». 458 MAGNONI Appendice I testi Marchetti Alma figlia di Giove, inclita madre del gran germe d’Enea, Venere bella, degli uomini piacere e degli Dei: tu che sotto i girevoli e lucenti segni del cielo il mar profondo e tutta d’animai d’ogni specie orni la terra, che per sé fòra un vasto orror solingo; te, Dea, fuggono i venti; al primo arrivo tuo svaniscon le nubi; a te germoglia erbe e fiori odorosi il suolo industre; tu rassereni i giorni foschi, e rendi col dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo, e splender fai di maggior lume il cielo. Qualor, deposto il freddo ispido manto, l’anno ringiovanisce, e la soave aura feconda di Favonio spira, tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli, ferito il cuor da’ tuoi pungenti dardi, cantan festosi il tuo ritorno, o Diva; liete scorron saltando i grassi paschi le fere, e gonfi di nuov’acque i fiumi varcano a nuoto e i rapidi torrenti; tal da’ teneri tuoi vezzi lascivi dolcemente allettato ogni animale desïoso ti segue ovunque il guidi. Insomma tu per mari e monti e fiumi, pe’ boschi ombrosi e per gli aperti campi, di piacevole amore i petti accendi, e così fai che si conservi ’l mondo. Or se tu sol della natura il freno reggi a tua voglia, e senza te non vede del dì la luce desïata e bella, né lieta e amabil fassi alcuna cosa; te, dea, te bramo per compagna all’opra, in cui di scriver tento in nuovi carmi di natura i segreti e le cagioni al gran Memmo Gemello a noi sì caro in ogni tempo e d’ogne laude ornato. Tu, dunque, o Diva, ogni mio detto aspergi d’eterna grazia, e fa’ cessare intanto e per mare e per terra il fiero Marte, tu che sola puoi farlo. Egli sovente d’amorosa ferita il cuor trafitto umil si posa nel divin tuo grembo. Or, mentr’ei pasce il desïoso sguardo di tua beltà, ch’ogni beltade avanza, e che l’anima sua da te sol pende, deh porgi a lui, vezzosa Dea, deh porgi a lui soavi preghi, e fa’ ch’ei renda al popol suo la desïata pace. Che se la patria nostra è da nemiche armi agitata, io più seguir non posso con animo quïeto il preso stile; né può di Memmo il generoso figlio negar sé stesso alla comun salute. Allainig ? (sec. XVIII) Alma Venere, Madre della Schiatta d’Enea, piacer degli uomini, e dei Divi, che sotto i segni mobili del Cielo riempi di viventi il Mare e il Suolo; mentre per te si concepisce d’essi ogni specie, e sen vien nata a mirare e godere i lucenti rai di Febo: te, Dea, fuggono i venti, e si dileguano al tuo apparir le nubi: a te produce l’industrioso Suol fiori odorosi: tu quieti fai del Mare ondoso i fiotti, e rendi il Ciel più luminoso e chiaro. Sempre che a noi sen riede la ridente stagion di Primavera, e che di zeffiro l’aura feconda invigorisce e domina; tocchi da’ strali tuoi nel cuor gli uccelli col canto, o Diva, annunziano il tuo arrivo. Liete le Fiere scorrono, saltando, le fertili pasture, e a nuoto passano i rapidi torrenti. Sì allettato dalla tua grazia e dalle tue lusinghe è qualunque Animal, ch’ esso ti siegue avidamente ovunque tu il conduci. Per te in somma nei Mari, Monti, e Fiumi, 459 Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) nelle frondose selve, e verdi campi, di piacevole amor i petti ardendo, fai che duri ogni Specie per più Secoli. Poiché dunque tu sola il Tutto reggi, né cos’alcuna senza te alla Luce del dì sen vien, né grata riesce e amabile; bramo che tu mi sia compagna a scrivere della natura delle cose i versi, ch’or m’accingo a compor pel nostro Memmo, che tu, Dea, volesti in ogni genere di virtù sempre adorno ed eccellente. Dai per tanto a’ miei detti eterna grazia, e fa che in questo mentre in Mare e in Terra cessin della milizia le faccende; tu che sola a’ Mortali puoi recare tranquilla pace: imperciocché rettore degli affari della guerra è il fiero Marte, il qual per te d’amor nel cuor ferito sovente nel tuo grembo si riposa: onde allor ch’ei, con te colcato, pasce lo sguardo in contemplar la tua bellezza, e che lo spirto suo da quel sol pende che dalla bocca tua supina esala; allor, dipoi, ch’ei sta fra le tue braccia, chiedigli con parole dolci e vezzi che dia a’ Romani la bramata pace. Poiché tra i romor bellici, in cui trovasi ora la patria nostra, né io posso seguir l’opra intrapresa, né può Memmo non impiegarsi alla comun salute. Leoni (?) 1827 O de gli Eneadi madre, o de’ mortali diletto e de gli Dei Venere bella: tu, che, del ciel sotto i rotanti giri, di biade varie la ferace terra famosa rendi e ’l navigabil mare: ché per te d’animali ogni famiglia si concepe, e del sole emerge al lume: te, Diva, e ’l tuo venir fuggono i venti e le nubi del ciel: soavi fiori l’industre terra a te germoglia: il piano a te ride del pelago, e, placato, con diffuso splendore il ciel riluce. Come di primavera il dì si abbella, e di Favonio il genitabil fiato disciolto spira, da tua forza, o Dea, percossi il cor, te pria gli aërei augelli e ’l tuo ritorno annunziano: ne’ lieti paschi indi il gregge de le belve esulta, e a nuoto varca i rapidi torrenti: da tua beltà, da tue lusinghe preso ogni animal così, te ovunque il guidi cupidamente segue: in fin per mari e monti e fiumi di rapace corso, per le verdi campagne e i frondeggianti alberghi de’ pennuti, in tutti infuso un blando amor, sì fai, che in ogni stirpe con desiderio si propaghi il mondo. Or, poiché sola, o Dea, tu de le cose la naturna governi, e nulla in luce, che lieto e amabil sia, senza te spunta, a me compagna te ne’ carmi invoco, onde quella espor tento a Memmio nostro, che ognor de’ pregi tutti ornar ti piacque. Grazia perenne a’ detti miei comparti, e su la terra e l’onde i fieri ludi fa che tra tanto, o Dea, cessin de l’armi: ché i mortali comporre in queta pace lice a te sola. De la guerra i fieri ludi Gradivo armipotente regge, che d’eterna ferita il cor trafitto, a te sovente si restaura in grembo, e, riguardando, con obliquo collo, gli avid’occhi d’amor pasce in te fiso, e con lo spirto da’ tuoi labbri pende. Or, mentre posa sul divin tuo corpo, soavi accenti, o Dea, sovra lui piovi, e la pace ai Romani, inclita, chiedi. Ché in questo tempo, sì a la patria iniquo, né oprar poss’io con disïoso core, né in tal condizïon l’illustre figlio mancar di Memmio a la comun salute. Renieri 1831 Alma Venere, ô madre dei Romani, e voluttà degli uomini, e dei Numi: del ciel che sotto ai roteanti segni col navigero mar fecondi, e colmi le fruttifere terre; ogni animale 460 poiché per te si concepisce, e, nato, alla luce del sol volge lo sguardo: te, Diva, e il tuo venir le nubi, e i venti fuggon; soavi a te sommette i fiori dedalea la terra; a te sorride placato il mare, e serenato il cielo del diffuso splendor per te riluce. E quando, con l’april, si avviva, e schiude l’aura che spira il genital Favonio; te, Diva, e il nume tuo primi gli augelli nunziano, in cor da tua virtù percossi. Nei pascoli feraci armenti, e greggi saltellano, e a guadar sen vanno i fiumi. Così dai vezzi, e le lusinghe tue la natura animal tutta commossa, te, dove indurla vuoi, segue bramosa. In fin pei monti, per il mar, pei fiumi, per gli alberghi fronduti degli augelli, e i campi verdeggianti un dolce amore spirando in sen d’ogni animal, le specie a generare, e a propagar lo infiammi. E poiché la natura delle cose sola governi, e senza Te non puote cosa nascere al dì, né cosa oprarsi che sia lieta, ed amabile; Te socia ai versi bramo aver, che, delle cose intorno la natura, intesser tanto a Memmio nostro, che tu Dea mai sempre di ogni rara virtù volesti ornato. Eterne al dir quel più dona le grazie, o Diva, e intanto il militar furore, sopito in terra, e in mare, fà che riposi. Gli uomini dilettar con queta pace puoi sola tu, perché, possente in armi, Marte regge di guerra i fieri offici, che se ben spesso, dall’eterna piaga vinto di amor, nel grembo tuo ristora: e disteso così, guatando in suso, li famelici sguardi in te di amore pasce anelando, e ai labbri tuoi sospesa tutta del resupin l’anima resta. E del santo tuo corpo allor che, ô Diva, il giacente circondi, a lui soave della tua lingua il favellar rivolgi, dolce a Roma implorando illustre pace: perché, né noi placati agir possiamo MAGNONI in questa al patrio suolo avversa etade; né puote in caso tal mancar dei Memmi la chiara stirpe alla comun salute. Mazzarella 1846 Salve, o agli Eneadi Genitrice, salve voluttà de’ celesti e degli umani, Alma Venere, o tu, che dell’Empiro sotto ai rotanti segni, il navigato mare allieti di popolo, e le pingui terre. Per te degli animanti il regno tutto s’avviva e a’ rai del sole assorge. Al tuo venir, te, dea, fuggono i venti, te del cielo le nubi: a te l’industre terra soavi schiude i fior, del mare a te ridono i flutti, e serenata con effuso splendor l’etra rifulge. Di primavera non appena i giorni svelino il bel sembiante, e aperto aleggi di Favonio lo spiro, altor di vita, e già primieri i volitanti augelli accesi in cor della tua fiamma, o Dea, te nunziano ed il tuo nume presente; e saltellan per mezzo a’ lieti paschi le quadrupede fere, e i ratti fiumi travarcano, e così degli animali l’universa famiglia, a la tua festa, ai vezzi tuoi rapita, avidamente ne vien seguace ove che tu la guidi. A dir breve, entro al mar, fra’ monti, in mezzo a le fiumane, a le magion frondose de’ volanti, e de’ campi a la verzura, dolce a tutti destando amore in petto, fai che bramosi, come àn legge e forma dall’istinto, propaghino le schiatte. Or poi che delle cose la natura reggi tu sola, e senza di te di sotto ai padiglioni dell’empireo lume cosa alcuna non sorge, e nulla mai di lieto avvien, nulla che amabil sia, io compagna te invoco a questi carmi, che delle cose intorno alla natura cantar m’ardisco al buon Memmiade nostro, cui tu pur sempre d’ogni pregio, o Dea, volesti adorno e sovra gli altri eccelso. Onde viemmeglio i versi miei tu infiori Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) d’eterne grazie, o Diva; e fa che intanto in tutti mari, in tutte piagge i feri della guerra travagli abbian posa. Ben tu i mortali di tranquilla pace sola pui consolar, però che Marte armipotente delle pugne i feri travagli regge, e nel tuo sen ei spesso d’insanabile amor ferito in core, ti si abbandona, e a bocca aperta, il chino onor della sua fronte avidamente fisando in te, pasce d’amor lo sguardo, e dalle labbia tue pende il suo spirito. Su lui dunque sporgendoti, o Divina, mentr’egli posa nel tuo grembo santo, dolce la lingua ai detti sciogli, e pace, secura pace impetra, Inclita, a Roma. Ché in questa della patria iniqua etade né di buon grado noi cantar possiamo, né fallir può di Memmio il chiaro sangue fra tanti casi alla comun salute. Carrer 1854 Madre d’Enea, desio d’uomini e Numi, Alma Venere, tu, che sotto a’ segni roteanti del cielo il mar fecondi navigero, e le glebe fruttuose; per cui quantunque gente d’animali concepe, e nata a’ rai del sol s’allegra; tu venti e nubi, o Dea, sperdi dal cielo all’apparir tuo primo; a te sommette i giocondi suoi fior l’industre terra, t’arridon le marine, e serenato brilla di luce interminata il cielo. Poiché non prima al dì mostra il vivace suo viso primavera, e il genïale alito di Favonio erra diffuso, l’aerio volator che in cor ti sente, te, o Diva, tosto e il tuo venir festeggia; salta il gregge ferin ne’ lieti paschi, e traversa la rapide correnti; tale, a tuoi vezzi preso e alle lusinghe, ovunque trarlo vuoi, cupidamente te segue ogne animante, e in mari e in alpe, entro rapidi fiumi, ne’ frondosi ritiri de’ volanti, e nelle verdi campagne universal spirando amore, 461 fai sì che d’una in altra si propaghi stirpe la vita con accesa brama. S’hai tu il governo di natura, e nulla esce al dì senza te, senza te nulla v’ha d’amabile e lieto, a me ti piaccia venir compagna nel dettar de’ carmi, onde fia delle cose la natura aperta a Memmo nostro, a cui tu desti in ogni tempo, o Dea, tener la cima d’ogni eccellenza. Quindi avviva, o Dea, del tuo riso immortal queste mie carte. Sopite sien per te frattanto l’aspre guerresche fazïoni in terra e in mare, perché tu sola puoi di cara pace giovar le genti, se l’armipotente arbitro Marte delle pugne orrende, preso per te d’insazïato amore, sovente nel tuo grembo s’abbandona, e, resupino la viril cervice, avido figge in te gli occhi e si bea. Tu, allor, o Diva, che del santo corpo sì lo sorreggi, e gli sovrasti amante, dolcissime parole di tua bocca versa, chiedendo pe’ Romani tuoi secura pace; ché né in tal poss’io età dira alla patria aver tranquilli spirti, né in tai distrette il chiaro germe de’ Memmi tôrsi alla comun salute. Merenda 1858 O de’ Quiriti Genitrice, o cara voluttà de’ mortali e degli Dei, Venere bella, che sottesso gli ampi giri degli astri popoli la terra che di spiche s’adorna, e il mar che ha carco di navi il dorso (poiché il vario stuolo degli animali si concepe ed apre tua mercè le pupille ai rai del Sole). O Dea tu vieni, e al tuo venir le nubi fuggono e i venti, e le dedalee glebe menan fiori odorosi, e ridon l’onde, e di luce più viva il Ciel risplende. Come più tosto primavera il dolce tempo rimena, e la soave brezza fecondatrice di Favonio spira, i dipinti dell’aria abitatori 462 cantano o Diva i tuoi ritorni il core dal tuo strale feriti: ai lieti paschi scherza il gregge feroce, e varca a nuoto le rapide riviere; e all’esca preso voluttuosa delle tue lusinghe cupidamente ogni animal ti segue per dovunque lo guidi: in fin pe’ mari, e pe’ monti, e pe’ fiumi, e per le aperte verdeggianti campagne e le frondose dimore degli augelli in ogni petto desti un soave palpito d’amore che le stirpi propaga …. Intanto acqueta l’ire di guerra in ogni dove: il riso della pace è tuo dono: è Marte il Nume delle battaglie che talora si getta nel tuo grembo odoroso il cor trafitto d’immortale ferita. Allor levate verso te le pupille e sul tuo seno appoggiata la testa e colla bocca semiaperta gli sguardi avidamente pasce d’amore, e alle tue labbra avvinta quasi l’alma gli resta. Or mentre o Diva tu lo soffolci col divin tuo corpo il miel soave delle tue parole impetri al germe di Quirin la pace. Cipriani 1863 Degli Eneadi madre, animatrice Venere, amor degli uomini e de’ Numi, che sotto a’ roteanti astri fecondi il navigato mar, le fruttuose glebe, mentre per te si crea e nutre d’animali ogni specie a’ rai del sole: te, Dea, fuggono i venti ed in dileguo al tuo primo apparir vanno le nubi; il suolo industre a te fiori olezzanti germoglia, arridon le marine e brilla per diffuso splendor tranquillo il cielo. E come appena al dì lieta disvela Primavera il suo viso e novamente di Favonio il fecondo alito spira, gli aerei augelli, che nel cor ti sentono te, Diva, e il tuo venir nunziano primi; salta ne’ pingui paschi e le correnti rapide varca a nuoto il ferin gregge: tale allettato da’ tuoi vezzi ovunque MAGNONI trarlo ti piaccia disïosamente ogni animal te segue e in mari, in monti, entro rapidi fiumi, negli asili frondosi degli augelli, in verdeggianti prati spirando universale amore opri così che col desìo la vita ogni specie ne’ secoli propaghi. Se tu sola il governo hai di natura e senza te nulla esce al giorno e nulla senza te lieto e amabile diviene: tu siimi aita nel dettar de’ carmi onde i segreti di natura aperti far tento a Memmo nostro, a cui tu, Diva, in tutte cose valentìa consenti. Quindi tu spira, o Diva, a’ detti miei eterna grazia e fa che quete intanto nella terra e nel mar posino l’armi. Perché tu sola consolar le genti puoi colla pace se al tuo dolce amplesso l’armipotente, bellicoso Marte d’amore inestinguibile compreso s’abbandona sovente e resupino fisando il guardo nel divin tuo viso di tua bellezza estatico si bea. Tu allora, inclita Diva, che del santo corpo sì lo sorreggi ed amorosa gli sovrasti abbracciandolo, soavi parole effondi da’ labbri tuoi e pace stabile implora alla romana gente; ché in tali tempi alla mia patria avversi né possiam noi tranquilli oprar, né torsi puote de’ Memmi la cospicua schiatta in tali eventi alla comun salute. Vanzolini 1863 (ed. int. 1879) Degli Eneadi madre, alma Ciprigna, voluttà de’ mortali e de’ celesti, la qual sotto i rotanti astri del cielo il navigero mare e il suol ferace empi di tua virtù; ché si concepe per te ogni specie d’animanti e nata del sole avvivator si gode al raggio: te, dea, te i venti, te le nubi fuggono quando ne fai ritorno; a te summette soavi fiori la dedalea terra; a te lo suol marino arride, e il cielo Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) luce placato di più spanto lume. Ché appena Primavera in sua beltade al dì si manifesta, e di Favonio spira dischiusa la feconda auretta te primamente, o dea, gli aerei augelli, e tua venuta van significando, dalla tua forza tocchi entro del cuore. Indi ogni fera per gli allegri paschi va saltellando e i rapidi torrenti nuotando varca; con sì forte affetto alle tue grazie presa e a’ blandimenti ogni sorta animai segueti ovunque ti talenta menarli. Infin tu, diva, pe’ mari e’ monti e pe’ rapaci fiumi e pe’ fronzuti alberghi degli augelli e pel verde de’ campi a tutti un dolce mettendo amor per entro alle midolle adopri sì che desïosamente si propaghi ciascuno in sua famiglia. Or poi che sola tu reggi natura, né cosa senza te nasce alle aperte aure del dì, né lieta o amabil fassi; te, diva, amo compagna a questi versi, che delle cose intorno alla natura al Memmiada nostro oso cantare: cui tu volesti porre a tutti in cima d’ogni tuo dono in ogni etade adorno. Onde, o diva, via più spira a’ miei detti eterna grazia: e intanto fa che l’empie per ogni terra e mar fiamme di guerra quetin sopite: ché di lieta pace i mortali bear tu sola puoi, dacché regge di guerra i feri ludi l’armipotente Marte, il qual sovente resupino si adagia entro al tuo grembo, ferito d’eternal piaga d’amore; e sì guardando in suso, il ritondetto collo piegato, e in te le labbra aperte, pasce d’amore i cupid’occhi, e pende tutta l’anima sua dal tuo bel viso. Or mentre presso le tue membra sante questi riposa, e tu sovra gl’inchina, inclita diva, il capo, e dalla bocca versa soavi parolette accorte per li Romani tuoi chiedendo pace. Però che a’ tempi sì funesti a Roma 463 né possiam noi con riposato cuore por mente a scriver versi, né di Memmio la chiara stirpe alla comun salute negarsi in tanta estremità di cose Tolomei 1863 O del seme d’Enea madre, de’ Numi voluttà e de’ mortali, alma Ciprigna, che il navigato mar, che l’ubertose terre nel raggio dei volubil’astri fai di vita festanti, è in tua virtude se nel lume del sol nasce e s’allieta tanta famiglia d’animai. Te Diva fuggono i venti, e il nubilo orizzonte risplende al tuo venir; a Te profumi manda l’industre terra; a Te d’un riso l’infinita dei mari onda s’increspa, serenato e diffuso arde l’Olimpo fulgidamente. E come il nuovo Aprile i giorni abbella, e la feconda espande ala Favonio, aerei pellegrini nunziano il tuo venir, Diva, i pennuti del tuo Nume compunti. Indi pel verde dei lieti paschi erra il selvaggio armento o la ratta disfida onda dei fiumi. Si fattamente di tuoi molli incanti e di tue gioje ogni vivente annodi, che per qual via Tu mova, o a qual Tu miri anelando Ti segue. E via pei mari, e in vetta ai monti, o dentro acque torrenti e dei volanti nei frondosi alberghi, o in apriche verzure, entro ogni petto la soave inspirando aura d’amore, è tua virtù se con dolci desiri si rinnovi ogni schiatta e s’infuturi. Poichè il vario degli enti ordin correggi, Diva, Tu sola, e senza Te prodotta nulla cosa è nel Sol, né s’aggioconda, né s’accende d’amor, socia a miei carmi te invoco or ch’io dell’universe cose canterò la natura; e a Memmio nostro che d’ogni pregio, tua mercè, s’adorna sovr’ ogni altro mortal, voli il mio canto. Però d’eterna venustà cospargi, diva, le note, e fa che intanto il fiero ludo dei brandi in ogni mare e in ogni 464 piaggia si plachi, ché ben puoi Tu sola di tranquilla bear pace i mortali. Tu il puoi, ché impero ha sulla rea vicenda delle pugne Gradivo armipotente: e spesso vien che nel tuo grembo ei posi dalla piaga immortal vinto d’amore, e tal, dimesso il formidabil capo, ti riguardi ammirando, e sospiroso in Te, Dea, gli amorosi occhi disseti avidamente, e dal tuo labro penda tutta l’anima sua. Tu allor d’amplessi, mentr’ei posa sul tuo petto divino, lo ricingi amorosa e gli susurra soavissimi accenti al cor, chiedendo il seren della pace, Inclita, a Roma. Ché in questi giorni della patria iniqui non s’adagia il mio cor; né può l’eccelsa prole dei Memmi, in così duri eventi negar sè stessa alla comun salute. Sartori 1876 Del gran germe d’Enea generatrice, de’ mortai, degli Dei vita, e diletto, Alma Venere bella, o tu del cielo sotto i segni volubili lucenti, tu che il mare navigero, e le terre ubertose del tuo sguardo fecondi: poiché tutta per te la gran famiglia degli animai s’ingenera, e, giâ surta, mira il lume del Sol, te, Dea, te i venti fuggono; te del ciel le fosche nubi al tuo primo apparir: a te soavi porge ingegnosa e frutti, e fior la terra: a te ride del mar l’onda, e di largo lume rifulge il Ciel queto e sereno. Ché tosto che della stagion fiorita si mostrano i bei giorni, e di Favonio spira già l’aura genital dischiusa, te gli aerei pennuti, o Diva, in pria nunciano, e il tuo venir, già tocchi il core dall’arcana tua possa: inde selvagge fere, i pingui scorrendo e lieti paschi, scherzan festose, ed i torrenti, e i fiumi sfidano a nuoto. Dalle grazie tue, dai tuoi vezzi così già presa, e vinta, te desïosa ogn’animal natura MAGNONI segue ovunque la guidi a tuo talento. Alla fine pei mari, i fiumi, e i monti, e degli augei per le frondose stanze, e pei colli, e pei campi, in ogni petto instillando un amor blando e soave cupido fai che si propaghi il mondo. Poiché dunque sei tu, che delle cose sola governi la natura, e nulla surge del lume nell’aeree piagge senza te, né si fa lieta, né degna cosa alcuna d’amor, te guida io bramo aver ne’ carmi miei, ché al nostro Memmio delle cose svelar vo’ la natura, Memmio, cui, Dea, tu stessa ognor volesti d’ogni pregio far ricco: onde al mio dire vieppiù dona, o mia Diva, eterna grazia. Fa ch’intanto il furore empio di guerra per le terre, e pei mari omai s’acqueti. Poiché sola bear puoi di tranquilla pace i mortai: ché della guerra i casi regge dell’armi il Dio, che, dall’eterna amorosa ferita il cor conquiso, spesso ti giace in grembo: e sì riposta la ben fatta cervice in sù lo sguardo fissando tutto in te, Diva, e nel tuo viso assorto d’amor gli avidi lumi pasce, e supin da’ labbri tuoi tal pende ch’in quei sembra versar tutt’i suoi spiriti: tu dunque allor che sul divin tuo corpo ei si riposa, circonfusa, o Diva, sciogli il labbro in dolcissime querele, e pace, o santa, a’ tuoi Romani impetra; ché volontier né della patria in questi pormi all’opra poss’io perversi tempi né mancare de’ Memmj il chiaro germe in tai perigli alla comun salvezza. Rapisardi 1880 O degli Eneadi madre, o degli umani, dei numi voluttà, Venere altrice, che il navigero mar, che l’ubertose terre, del ciel sotto i volgenti segni, popoli, ché per te genera, e nato del sole a’ raggi ogni animal si allegra; te, dea, fuggono i venti; al tuo venire dileguansi le nubi; a te sommette 465 Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) fiori soavi la dedalea terra; a te ridon le vaste onde e placato d’una luce diffusa il ciel risplende. Te, come pria la bella primavera i suoi giorni dischiude, e sciolta avvivasi la dolce di favonio aura feconda, cantan reduce dea gli aerei uccelli, che primi il tuo poter sentono in core; pe’ lieti paschi esultano le greggi, guadan ratte fiumane; ed a tal segno preso è da’ vezzi tuoi, che ovunque il guidi, cupidamente ogni animal ti segue. Tu infin per monti e mari e per rapaci fiumi e campagne verdeggianti e case frondifere d’alati, in ogni petto alto incutendo un dilettoso amore, fai che ciascuno per la propria specie con gran desio la stirpe sua propaghi. E giacché sola tu reggi il governo dell’universo, e nulla a le divine rive del giorno senza te si leva, nulla è senza di te lieto e giocondo, te spiratrice a questi versi imploro or che le leggi di Natura intendo svelar di Memmio al figlio, a noi sì caro e che tu, dea, d’ogni bel pregio ornato sempre e in tutte le cose egregio hai fatto. Però, meglio che mai, diva, consenti una grazia immortale a’ detti miei, e fa’ che in terra e in mar taccian fra tanto gli acri studj dell’armi alfin sopiti, quando sola tu puoi giovar di cheta pace i mortali, e Marte armipossente, che l’aspre della guerra arti governa, dall’eterna d’amor piaga conquiso, spesse volte nel tuo grembo si lascia, e abbandonando stupefatto indietro la bella testa, con bocca anelante d’amore avidi in te pasce gli sguardi, resupino così, che tutto, o dea, dalle tue labbra il suo spirito pende. Deh, mentre tu col corpo intemerato circonfondi sovrana il dio giacente, sciogli del labbro il dir suave, e pace placida pe’ Romani, inclita, chiedi: ché attender non turbato io non potrei fra’ turbamenti della patria all’opra, né di Memmio mancar potría la chiara stirpe in tal uopo alla comun salute. Cavagnari 1882 Della stirpe romulea genitrice, Venere santa, voluttà de’ numi e de’ mortali, che dai cerchi eterni fulgida spiani a’ naviganti il mare e la terra ferace empi di vita, ché da te si procrea, per te s’affaccia alle soglie del giorno ogni animale, te, dea, fuggono i venti; al giunger tuo scompaiono le nubi; a te l’industre gleba coltiva gli odorati fiori, per te scherzano l’onde e riscintilla ne’ diffusi splendori il ciel pacato. Scuote non ben le vesti algide il verno, non il mite e fecondo alita aprile e incitati da’ tuoi dolcepungenti stimoli, già gli aërei cantori s’alzan l’arrivo tuo significando; festose indi saltellano pei verdi paschi le mandre e i rapidi torrenti varcano; colto alle blandizie tue, con infrenabil bramosia te segue ove tu il tragga ogni vivente e via per mari e fiumi e monti e campi e case d’augei fronzute, ad eternar la vita blando ne’ petti tu concili amore. Or te, che sola delle cose tutte la vicenda governi; e non ispunta, se tu nol voglia, un raggio; e fora, orbato del tuo soccorso, arida landa e muta e inamabile il mondo, iddia, te invoco auspice al carme onde a svelar m’accingo di natura gli arcani a Memmio nostro, ch’è d’ogni pregio, tua mercè, superbo. Di non caduca venustà tu dunque ingentilisci il verso e fa che in terra taccia intanto e sul mare ogni guerresco orror. La pace vien da te; de’ campi cruenti il nume, Marte armipossente placar tu puoi quando com’ei costuma, dall’eterno ferir vinto d’amore, estenuato al tuo grembo si dà 466 e la fronte alle stelle, con aperta bocca in te, dea, gli sguardi avidi pasce arrovesciato sì, che il suo respiro onda è del tuo. Allor tu, circonfuso sovra il corpo celeste, inclita, il dio, co’ labbri elisi alla tua Roma pace pace deh implora! Se in nefande guerre duri la patria, mal potrà il mio genio alacre alzarsi e mal porgermi ascolto Memmio, votato alla comun salute. De Antonio 1883 O madre degli Eneadi, alma de’ Numi, e dell’uom voluttà, Venere bella, che il navigero mare e le feraci terre del ciel sotto i rotanti segni popoli ed orni d’animali e piante, per te concepe ogni animale e figlia, e la luce del sol per te rimira: te Dea fuggon i venti, il venir tuo fuggon le nubi, a te fiori soavi nutre e sommette la dedalea Terra, a te sorride il mare, a te placato la placida sua luce il ciel diffonde. E quando riede la stagion novella e col primaveril fecondo fiato Zefiro torna ad allegrar la terra, te, Dea, saluta primo e il tuo ritorno l’augel dell’aria, che d’amor ferito sente nel cor del Nume tuo la possa, esulta il gregge negli ameni paschi e i rapidi torrenti a nuoto varca, e dove il chiami o guidi avidamente preso da’ vezzi tuoi corre giulivo. Tu pe’ mari e pe’ monti e pel rapace corso de’ fiumi e per foreste ombrose e per gli aprici verdeggianti campi, d’amor giocondo riscaldando i petti, desti nell’alme quel desio soave, per cui la specie ogni animal propaga. E poi che sola delle cose, o Diva, tieni il governo e la natura reggi, e niuna cosa senza te mai surse a respirar le pure aure vitali, né letizia esser puote ove tu manchi, socia e propizia all’opra mia te bramo, MAGNONI ove le cose e la natura in dolci carmi descrivo al generoso figlio de’ Memmi, che tu, Dea, d’ogni bell’arte sempre volesti ornato e d’ogni laude. Grazia immortale a’ versi miei concedi e per mari e per terre abbiano intanto tregua i ludi dell’armi e di tranquilla pace gli uomini bea tu che il puoi sola. Da’ nodi avvinto di perenne amore spesso nel grembo tuo riposa il capo il belligero Iddio Marte Gradivo, e lo sguardo bramoso in te fissando, dell’amor tuo si pasce e pende immoto dal labbro tuo divin; ora a lui mentre prona d’un guardo il fai beato, o Diva, volgi preghiera perché taccia il grido tristo di guerra e le Romulee genti pace sotto le bianche ali raccolga. Ché tra i tumulti bellici e i perigli della patria compir io non potrei l’opra incoata, e alla comun salvezza non potrebbe mancar l’opra d’un Memmio germe preclaro della Memmia stirpe. Menegazzi 1892 Madre a gli Eneadi, gioia, desio de’ mortali [e de’ numi, alma Venere iddia, che di sotto al mutevole [cielo il navigero mare, la terra frugiferente susciti a nozze; o iddia, per te d’animanti [ogni specie s’apre a la vita e sorge, la luce a godere del [sole. Te venïente, o dea, te i gelidi venti e le nubi fuggono; a te dischiude la dédala terra i so [avi fiori, sorride a te l’immensa distesa de’ mari, splende, rasserenato, d’un lume diffuso [l’olimpo. Poi come il mondo s’apre nel raggio di [primavera, e disserrata spira di zefiro l’aura feconda, primi gli aerei augelli, nel cuor da tua forza [percossi, il tuo ritorno, o dea, conclaman soave Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) [cantando. Indi gli armenti esultan pe’ lieti pascoli verdi, passan torrenti e fiumi: di tale dolcezza [rapiti, che desïosamente ti seguono, attratti, [dovunque. E via pe’ mari immensi, su’ monti e ne’ [fiumi rapaci, e degli augei ne’ domi frondosi e pe’ campi [virenti, entro nel seno a tutti stillando l’ambrosia [d’amore, fai che cupidamente le schiatte s’innovin per [gli anni. E poi che sola, o dea, tu reggi le cose universe, e senza te nessuno può a fulgidi liti del giorno sorgere, e niuna cosa gioconda ed amabile [farsi, siimi compagna, o diva, ne l’aspra fatica de’ [carmi, or che svelare io tento gli arcani de la natura. E fa che de le pugne s’acquetino intanto le [rabbie, per la terra e pel mare, per tutto dovunque tu [regni. Tu sola, o dea, tu sola, ne puoi ridonare la [pace, poi che possente in armi va Marte reggendo [le pugne. Ei, da l’eterna piaga d’amore ferito, sovente gittasi nel tuo grembo, e, chino la splendida [testa, pasce d’amore gli avidi sguardi, in te fiso, o [divina, e dal tuo labbro pende, a lui resupino, lo [spirto. Or al giacente, o dea, del santo tuo petto [ricinto, dolci amorosi detti dal labbro soave gli [aprendo, tu gli domanda, o santa, pe’ figli di Romolo [pace. Ferracini 1894 Alma Venere, o madre degli Eneadi, voluttà dei mortali e degli dei, 467 che il navigero mare e le feraci terre di sotto alle giranti stelle di vita allieti poiché fai che tutte nascan le stirpi dei viventi e il sole generate rimirino; te, diva, te rifuggon i venti e al tuo apparire si dileguan le nuvole del cielo: fiori soavi la dedalea terra a te germoglia; a te dei vasti mari l’onde mandan sorrisi e serenato di vivido fulgore il ciel risplende diffusamente. E non appena il giorno primaverile si schiude e aperto avvivisi il fecondo favonio, il cor percossi dalla tua forza annunziano i volanti il tuo venire, indi i selvaggi armenti saltellano qua e là pei lieti paschi e traversan le rapide correnti. Così rapito da’ tuoi molli vezzi ogni vivente con desio ti segue, e in qual vuoi parte tu lo guidi. Infine, per mari e monti e travolgenti fiumi e pe’ fronzuti degli uccelli alberghi e i verdi campi, in ogni cor versando un dolce amor, tu fai che con desîo la propria stirpe ogni animal propaghi. Poiché dunque tu sola la natura delle cose governi e niuna cosa nasce del giorno alle region divine, e niuna cosa si allïeta e degna d’amor si rende, nel comporre i carmi te socia io bramo, in cui della natura svelar tento gli arcani al nostro amato sangue di Memmio che tu, diva, adorno d’ogni tuo don sempre innalzar volesti. Perciò grazia immortal meglio tu, diva, dona a’ miei carmi. E in ogni terra e mare fa che intanto le crude opre di guerra posin placate. Ché a te sola è dato bear gli umani di tranquilla pace. Perrocché Marte armipossente l’arti fiere regge di guerra, egli che spesso, domato da immortal piaga d’amore, nel tuo sen s’abbandona e, reclinato il ben tornito collo, ti riguarda, ed anelando l’avide pupille 468 pasce d’amor così che dal tuo labbro tutto pende il suo spirto. Or tu che cingi col santo corpo il resupin, gl’infondi soavi accenti, e una pace tranquilla, inclita diva, pei Romani implora. Psaila 1895 O voluttà degli uomini e di numi, genitrice di Enea, Venere bella, che del ciel sotto i passeggieri segni popoli il mar navigero di pesci, di fruttüose biade orni la terra: per tua cagione ogni animato corpo concetto e nato guarda i rai del sole. Te, Diva, i venti fuggono: le nubi l’arrivo tuo, varïopinti fiori ti schiera ai passi la solerte terra, a te sorride l’ocëano e calmo brilla di effuso lume il firmamento. Tostoché s’apre il maestoso aspetto di primavera e disserrata l’aura del fecondante zeffiro si avviva, primi gli augei da te percossi il core cantan il dolce tuo ritorno, o Diva. Indi saltella per i paschi ameni il lanuto bestiame e passa a nuoto rapidi fiumi: da bellezza indotto e dai tuoi vezzi avidamente segue Te qualunque animale, ove lo guidi. Finalmente pei mar, per le montagne, per i rapaci fiumi e i frondeggianti di uccelli alberghi e i verdeggianti campi, tenero amor spirando in tutti i petti, opri in guisa che ognun generalmente propaghi con fervor la propria stirpe. Giacché tu sola a la natura imperi né, senza te, ai divini orli del giorno risorge alcuna cosa, né diventa alcuna cosa amabile, né lieta te procura esser socia a scriver versi che su natura a stender m’ingegno al nostro Memmio, il qual volesti, o Dea, ornato di ogni pregio andar famoso in ogni tempo: or maggiormente accorda, diva, ai miei detti venustà perenne. Fa sì che intanto i giuochi aspri di guerra MAGNONI per le terre e pei mar giaccian sopiti; poiché tu sola con tranquilla pace puoi sollevare i miseri mortali avvegnaché de la battaglia i duri regga doveri Marte armipotente, che nel tuo grembo spesso si rimette, vinto di amor da una insanabil piaga: e così alzando gli occhi e la rotonda cervice riposando, a bocca aperta, pasce d’amor gli avidi sguardi e pende, dea, dai tuoi labbri del supin lo spirto. Sciogli soavi parolette e prega costui giacente sul divin tuo petto avviticchiata intorno a lui, che renda ferma pace ai Romani, inclita Diva; perocché darci all’opra in questi tempi tristi alla patria non possiam coll’alma imperturbata né potrà la chiara stirpe di Memmio, in tal condizione, abbandonar la pubblica salute. Elisei 1896 O degli Eneadi madre, alma Ciprigna, degli uomini delizia e degli Dei, tu, che, nel raggio de’ superni giri, il navigato mar, la pingue terra fecondi; ché per te, Diva, concepe ogni animata stirpe, ed a l’aprico raggio di Febo il novo parto esulta: a te dinanzi, o Dea, fuggono i venti fuggon le nubi; a te manda odorata copia di fior quest’ammirabil terra; a te ride del mar l’immenso piano; e il ciel tutto di viva luce acceso splende placato. E come al dì l’aspetto primaveril ritorna, e di Favonio spira il fecondator soffio novello; primi salutan te, Diva, che incedi i vaganti augelletti, il cor percossi da tua virtù; saltellano pei lieti paschi le agnelle; a prova altre nei fiumi nuotan per giuoco; e dal piacer condotte move ciascuna ovunque tu le inviti. Pel mar, pei monti e pei correnti fiumi, pe’ verdi campi e pei frondosi alberghi degli augelli, così, mentre soave Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) brama d’amore in ogni petto infondi, segui tue leggi, e disïosamente di stirpe in stirpe avanzano l’etadi. E poi che, sola, di natura, o Diva, l’ordin governi, e senza te non spunta germoglio ovunque il dì spande i suoi raggi, né letizia o bellezza si ritrova; deh! Tu arridi compagna ai versi miei, che a cantar de LA NATURA imprendo DELLE COSE al mio Memmio, a lui che [ornato di tutti pregi, o Dea, sempre volesti dagli altri insigne: e tanto più la grazia quindi immortale ai versi miei concedi. E ne concedi ancor, Diva, che l’aspre militari fatiche in ogni loco e di terra e di mar taccian sopite: tu che, sola, donar puoi la tranquilla pace ai mortali: però che di guerra l’opre nefande il bellicoso impera Marte, ch’ei pure, dall’eterna vinto piaga d’amor, nel tuo grembo sovente s’abbandona: ed il bel collo rovescio, in te fissi gl’immoti occhi bramosi, d’amor li pasce, e sta di lui supino pur dal tuo volto l’anima sospesa. Tu, Diva, allora le tue sante membra sul giacente ricingi, e la diletta voce movendo, placida ne impetra pace ai Romani: ché l’iniqua etade securi tutti noi viver non lascia, e i gravi casi ognor fanno il mio Memmio «Pensoso più d’altrui che di sé stesso». Armaforte 1902 O del germe d’Enea progenitrice, o voluttà degli uomini e dei numi, Alma Venere iddia, che sotto agli astri volgenti per il queto aere celeste, il navigato mare, e l’ubertose terre, empiendo di te, popoli e abbelli; ché, per te generata, al sol s’allegra l’infinita famiglia dei viventi; te fuggono i brumal soffi, e le nubi, al tuo santo apparir; a te cosparge i germinati calici soavi 469 la terra consapevole; a te ride placida la distesa ampia dei mari, e d’un lume diffuso il serenato cielo risplende. Allor che vaga rompe la primavera, e, schiuso, i campi avviva molle alitando di favonio il fiato fecondatore, te gli aerei uccelli cantano primi, o diva, e il tuo ritorno, saettati nel cor dalla possente tua deità; quindi pei lieti paschi scorrazza il gregge disfrenato, e guada le correntìe di rapide fiumane. Tale dovunque a te piace guidarlo, affascinato dalle tue dolcezze, con voglia ardente ogni animal ti segue. Così per monti e mari e per rapaci fiumi e campagne rinverdite e ombrosi penetrali d’alati, in ogni petto incutendo un desio dolce d’amore, fai che cupidamente ogni diversa stirpe si rinnovelli e si propaghi. E poi che sola l’alto imperio reggi di tutto l’universo, e cosa alcuna non sorge alle vitali aure del giorno, senza di te, né lieta di natia grazia s’abbella, o amabile sorride, te, dea, te invoco al canto mio compagna, or che le leggi di Natura e gli alti segreti disvelar tento al sì caro figlio di Memmio, che tu, dea, volesti, in ogni tempo, d’ogni pregio ornato. Però meglio che mai, diva, concedi a me tue grazie, e sia il mio canto eterno. Fa’ che intanto pei mari e in ogni terra lo strepito de l’armi alfin sopito si plachi; quando tu sola, se vuoi, giovi di tranquillissima quiete i mortali; ché Marte armipossente regge il governo dell’acerba guerra. Egli, domato dall’eterna piaga d’amor, spesso al tuo grembo s’abbandona, e arrovesciata la superba testa, te, stupefatto, ammira, ed anelando pasce in te gli affamati occhi d’amore avidamente; sì che, o dea, del nume resupino la grande anima pende 470 dalla tua bocca. Allor mentre inchinato il santo petto, circonfondi il caro giacente, soavissime parole a lui susurra, inclita dea, chiedendo pe’ tuoi Romani la serena pace. Ché, sì iniqui alla patria anni volgendo, attender non potrei con riposato animo al sacro carme, né potria in tal uopo mancar la generosa prole di Memmio alla comune salute. Leardi 1918 (ma ante 1882, vd. supra n. 110) O degli Eneadi madre, degli umani e de’ celesti voluttà, alma Venere, che sotto i segni mobili del cielo il navigato mare e la di biade terra altrice fecondi; ché concetto è ogni animal per te nelle sue specie, e la luce del sol nascendo mira: te, al tuo apparire, o dea, fuggono i venti e l’atre nubi, soavi fior germoglia la terra industre, a te il marino flutto sorride, e il cielo di diffusa luce splende placato. Appena si apre il giorno di primavera, e di Favonio schiusa la genitale aura s’avvisa, primi te salutano, o diva, e il tuo ritorno gli aerei augei da tua forza in cor percossi; pe’ lieti paschi le vaganti belve saltano, e i gonfi varcano torrenti, e alle tue grazie preso e alle lusinghe MAGNONI cupidamente ogni animal ti segue dove li meni; e tu per mari e monti per i fiumi rapaci, ne’ frondosi alberghi degli augei, pe’ verdi campi dolce inspirando in ogni petto amore fai che sue stirpi Cupido propaghi. Poiché le cose di natura sola tu reggi, e senza te cosa non sorge alle divine spiaggie della luce né si fa lieta e amabile, te invoco, compagna a’ versi miei, ne’ quali io studio svelare la natura delle cose a Memmio nostro, cui tu adorno festi ed in ogni opra e in ogni tempo chiaro. Dolcezza eterna al canto mio tu spira, o diva, e fa che intanto in terra e in mare, posin l’opre di guerra, ché tu sola gli uomini allietar puoi di pace queta, ché Marte armipotente le fiere opre regge di guerra, e spesso ei s’abbandona nel grembo tuo dalla ferita eterna d’amore avvinto, e la lunga cervice piegata addietro in alto riguardando con bocca anela in te avido pasce gli occhi di amore, e dal tuo viso pende il suo respiro. Lui che sul tuo santo corpo supino posa, o dea, circonda sopra ridente, e con soavi detti pace tranquilla pei Romani implora. Ché della patria in questi fortunosi tempi cantare con serena mente non io posso, e de’ Memmii l’alta prole non può mancare alla comun salute.