Giada Ragone – Giurisprudenza Cedu e ordinamento interno

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Giada Ragone – Giurisprudenza Cedu e ordinamento interno
ISSN 2037-6677
DPCE online 2015-2
Nota a Corte cost. 49/2015. Giurisprudenza Cedu e ordinamento
interno: nuove istruzioni per l’uso da parte della Corte
costituzionale italiana
di Giada Ragone
1. – Lo scorso aprile è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la sentenza
costituzionale n. 49/2015, in materia di confisca in seguito al reato di lottizzazione abusiva.
Come preannuncia il fitto dibattito dottrinale di cui è già stata oggetto, la decisione in
parola è destinata ad occupare a lungo l’attenzione di penalisti e giuspubblicisti (tra i primi
autorevoli commenti si vedano, ex plurimis, V. Zagrebelsky, Corte cost. n. 49 del 2015,
giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, art. 117 Cost., obblighi derivanti dalla ratifica della
Convenzione, in www.osservatorioaic.it; A. Ruggeri, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo
del rilievo della Cedu in ambito interno e F. Viganò, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a
primissima lettura su C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, in materia di confisca di terreni abusivamente
lottizzati e proscioglimento per prescrizione, entrambi in www.penalecontemporaneo.it). Due
ragioni, in particolare, fondano questa predizione: in primis, la sentenza segna un nuovo
passaggio della querelle che da alcuni anni coinvolge l’Italia e la Corte europea dei diritti
dell’uomo circa la natura e il regime della confisca c.d. urbanistica; in secundis, essa prospetta
un’inedita o, quanto meno, una più definita fisionomia dei rapporti tra sistema EDU e
ordinamento nazionale. Su quest’ultimo aspetto, in particolare, si focalizzerà l’attenzione
del presente contributo.
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Quanto al primo, si procederà esclusivamente ad una brachilogica ricostruzione di
quanto avvenuto in occasione delle decisioni Sud Fondi (2009) e Varvara (2013) c. Italia,
perché sia chiaro come l’istituto della confisca – e specificamente della confisca urbanistica
– rappresenti da tempo un importante punto di frizione, o almeno di dibattito, tra il nostro
ordinamento e la Corte europea. Non si può, infatti, escludere che la fermezza di certe
affermazioni della Consulta circa l’efficacia del giudicato EDU, sia parzialmente dettata
dalla volontà di ridimensionare i termini della querelle.
Innanzitutto, in occasione della sentenza Sud Fondi, la Corte europea ha contestato
l’inquadramento della confisca urbanistica nel novero delle misure di sicurezza,
considerandola piuttosto una vera e propria sanzione penale. Conseguentemente ha
giudicato incompatibile con l’art. 7 CEDU la mancata applicazione nell’ordinamento
italiano delle garanzie derivanti dai principi di legalità e di irretroattività delle pene anche
alla confisca in parola. Nella sentenza Varvara, invece, il Giudice di Strasburgo ha sancito il
divieto di applicare l’istituto de quo senza che sia accertata la responsabilità per il reato di
lottizzazione abusiva. Anche il superamento di tale proibizione concreterebbe una
violazione delle prerogative derivanti dall’art. 7 della Convenzione. Queste due decisioni
s’inseriscono nel più ampio solco della giurisprudenza CEDU in materia di confisca, ferma
– sin dal caso Welch c. Regno Unito (1995) – nel ritenere che, a prescindere dalla
qualificazione formale che se ne dia, ogni misura a carattere punitivo-afflittivo debba
soggiacere alla medesima disciplina delle sanzioni penali in senso stretto.
Ebbene, pur a fronte del descritto orientamento di Strasburgo, l’interpretazione
della Cassazione italiana sull’istituto della confisca urbanistica (disciplinato all’art. 44, 2 del
d.P.R. n. 380/2001) è rimasta legata alla nozione di sanzione amministrativa, nonché alla
possibilità di una sua applicazione anche in presenza di sentenza di proscioglimento per
estinzione del reato, purché quest’ultimo sia stato in concreto accertato.
Tale apparente discrepanza tra giurisprudenza CEDU e diritto vivente italiano è
all’origine della questione di legittimità decisa dalla Consulta con la sent. 49/2015 e vertente
sull’art. 44, 2 del Testo Unico sull’edilizia.
2. – Il dubbio sulla legittimità del suddetto articolo è stato sollevato con differenti
argomentazioni da due distinti giudici a quibus: il Tribunale di Teramo e la terza sezione
della Corte di Cassazione penale.
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In sintesi, entrambi i rimettenti sono stati mossi dalla convinzione che, a seguito
della sentenza Varvara c. Italia, vigesse per i giudici comuni italiani l’obbligo derivante
dall’ordinamento CEDU di disporre la confisca urbanistica solo unitamente a sentenza di
condanna; ed entrambi hanno reputato che tale significato si prestasse a rilievi di
costituzionalità. Ma, mentre per il tribunale di Teramo la questione era rivolta a ottenere un
adeguamento del diritto nazionale al giudicato europeo, la Cassazione ha chiesto alla Corte
costituzionale di intervenire per impedire che una lettura incostituzionale – seppur
convenzionale – dell’art. 44, 2 del d.P.R. del 2001 trovasse applicazione nel nostro
ordinamento. in sostanza, entrambi i giudici a quo riscontravano una incompatibilità tra
l’art. 7 Cedu e il diritto interno; ma proponevano di risolverla in modi diametralmente
opposti.
Secondo la Corte costituzionale, le due questioni sono allo stesso modo
inammissibili, in quanto erroneo è il loro comune assunto di partenza. A parere della
Consulta, non sarebbe infatti corretto (per le ragioni che si diranno infra) affidare alle
sentenze di Strasburgo il compito di fornire la corretta interpretazione del contenuto della
disposizione legislativa nazionale. Inoltre, nel caso dell’ordinanza di rimessione della
Cassazione, oggetto della questione di legittimità sarebbe dovuta al più essere la legge
italiana di ratifica della Convenzione, nella parte in cui con essa si è conferita esecuzione ad
una norma sospettata di incostituzionalità. La Corte costituzionale ha pertanto scelto la via
della pronuncia d’inammissibilità, reputando che le questioni fossero malposte. Ciò non di
meno, il nucleo di argomentazioni che ruota intorno al rilievo dalla sentenza Varvara nel
nostro ordinamento (le quali avrebbero forse potuto condurre anche a una sentenza
interpretativa di rigetto) merita particolare attenzione. La Corte, infatti, innovando rispetto
a quanto detto in occasione delle sentenze c.d. gemelle del 2007 e delle gemelle-bis del
2009, afferma in termini chiari la supremazia assiologica della Costituzione rispetto alla
Convenzione e individua un numero chiuso di condiciones sine quibus non, che permettono al
giudicato CEDU di essere utilizzato come parametro interpretativo dai giudici comuni.
3. – Procedendo con ordine, si è detto che la Corte costituzionale contesta anzitutto
l’idea – sottesa a entrambe le argomentazioni dei giudici a quibus – che «competa alla Corte
di Strasburgo determinare il significato della legge nazionale, quando, al contrario, il giudice
europeo si trova a valutare se essa, come definita e applicata dalle autorità nazionali, abbia,
nel caso sottoposto a giudizio, generato violazioni delle superiori previsioni della CEDU»
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(§4, Considerato in diritto). Senza lasciare spazio a dubbi di sorta, il Giudice delle leggi
“confisca” lo scettro dell’interpretazione della legislazione nazionale alla Corte di
Strasburgo e lo pone saldamente nelle mani dei giudici interni. Aggiunge poi che
«naturalmente, non è in discussione che … competa al giudice di assegnare alla
disposizione interna un significato quanto più aderente» (§4, C.i.d.) alla CEDU e
all’interpretazione che di essa fornisce la Corte europea, ma ciò incontra alcune importanti
restrizioni. E infatti, sostiene la Corte, il giudicato europeo può vincolare le decisioni dei
giudici italiani in due sole evenienze: 1) quella in cui il giudice comune debba tornare ad
occuparsi del medesimo caso su cui si è pronunciata la Corte europea; 2) il caso in cui ci si
trovi dinnanzi a “giurisprudenza consolidata”.
Gli indici che permettono di affermare che tale ultimo requisito sia presente sono i
seguenti: deve trattarsi di sentenze pronunciate dalla Grande Camera, caratterizzate da un
basso tasso di creatività innovativa; non devono rinvenire contrasti tra precedenti EDU, né
essere fornite opinioni dissenzienti da parte dei giudici di minoranza; da ultimo, si deve
poter escludere il dubbio che, nel caso specifico, il giudice europeo non sia stato posto in
condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale. L’unica
eccezione ammessa è l’ipotesi di sentenza c.d. pilota, ossia di decisione presa dalla Corte in
pendenza di numerosi casi analoghi a quello giudicato. In questa evenienza i casi ripetitivi
vengono sospesi al dichiarato scopo di permettere soluzioni nazionali convenzionalmente
orientate senza che sia necessaria un’ulteriore pronuncia del Giudice europeo.
Solo quando tutte le condizioni supra elencate sono soddisfatte «il giudice italiano
sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo
criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto
per mezzo di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione, ovvero, se ciò non fosse
possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale» (§7, C.i.d). Fuori dalle
suddette ipotesi – ed è questo il caso della pronuncia Varvara, decisa da una sezione
semplice anziché dalla Grande Camera – il giudice comune sarà libero dall’obbligo
d’interpretazione convenzionalmente orientata.
4. – Il quadro così definito non implica che l’interprete nazionale debba agire sicut la
giurisprudenza EDU non consolidata non esset; ma significa che l’interpretazione ad essa
orientata non deve rivelarsi del tutto eccentrica rispetto alla lettera della legge. E ciò in
quanto il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla
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CEDU è «subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente
conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della
Costituzione sulla CEDU» (§4, C.i.d.). Quest’ultima sottolineatura svela tutta la prudenza
che anima la Corte costituzionale nei riguardi degli approcci di operatori giuridici e corti
sovranazionali quanto alla tutela dei diritti fondamentali, soprattutto quando si tratti di
soluzioni isolate. Sebbene la Consulta non manchi di auspicare la più ampia convergenza
tra soluzioni adottate in ambito domestico e in contesto internazionale, essa afferma altresì
che «nelle ipotesi estreme in cui tale via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice
debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana» (§4, C.i.d.). Ecco dunque il richiamo
all’impiego dei principi costituzionali come ultimo baluardo verso l’ingresso nel nostro
ordinamento di un diritto vivente eteronomo. Nel caso in commento, la terza sezione della
Cassazione penale aveva chiesto l’azionamento di questo meccanismo al Giudice delle leggi,
auspicando una dichiarazione di illegittimità costituzionale. Tuttavia la sent. 49/2015 nega
la necessità di un ricorso a tale procedura per il caso di giurisprudenza CEDU non
consolidata: in tale evenienza è affidato al giudice comune il compito di evitare – attraverso
un’interpretazione costituzionalmente orientata – che le indicazione promananti da
Strasburgo introducano nel nostro ordinamento regole contra Constitutionem.
Semplificando, laddove il giudice comune sospetti che il giudicato europeo
pertinente al proprio thema decidendum sia incompatibile con i principi espressi dalla nostra
Costituzione, dovrà agire in maniera differente a seconda che si tratti di giurisprudenza
consolidata (o sentenza pilota) oppure no. Nel primo caso dovrà adire la Corte
costituzionale, nel secondo dovrà semplicemente rinunciare a utilizzare la giurisprudenza in
parola come canone ermeneutico.
Nessuna di queste soluzioni è, peraltro, quella che secondo la Consulta avrebbero
dovuto seguire il Tribunale di Teramo e la Cassazione. Una lettura della sentenza Varvara
che tenga conto delle ineludibili differenze terminologiche tra diritto nazionale e
sovranazionale avrebbe, infatti, permesso di superare l’apparente antinomia di vedute sulla
confisca urbanistica e, conseguentemente, i dubbi d’incostituzionalità. Afferma la Corte che
«il giudice europeo, quando ragiona espressamente in termini di “condanna”», come
requisito per l’applicazione della confisca, non ha «a mente la forma del pronunciamento
del giudice», bensì «la sostanza che necessariamente si accompagna a tale pronuncia, […]
vale a dire l’accertamento della responsabilità» (§6.2, C.i.d.). Ergo, poiché anche in assenza di
condanna, l’Italia richiede comunque che per l’applicazione della confisca sia dimostrata la
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presunzione di colpevolezza, il diritto vivente italiano non contrasterebbe con il giudicato
europeo in materia, il quale proprio sul requisito della colpevolezza pone l’accento. Come si
è accennato supra, quest’ultima indicazione permette di sostenere che, sebbene si tratti
formalmente di pronuncia di inammissibilità, la sentenza in commento assomigli in certa
misura ad una interpretativa di rigetto.
5. – Volgendo a conclusione, siano concesse alcune brevi valutazioni sulla sentenza
esaminata, pur con la premessa che solo il tempo e le concreta applicazione dei principi in
essa enunciati permetteranno di sciogliere le riserve sui molti chiaroscuri di questa
pronuncia (cfr. A. Pin, A Jurisprudence to Handle with Care: The European Court of Human Rights’
Unsettled Case Law, its Authority, and its Future, According to the Italian Constitutional Court, in Int’l
J. Const. L. Blog, www.iconnectblog.com).
Innanzitutto, un cauto plauso può essere rivolto al tentativo di mettere in guardia i
giudici nazionali rispetto alla tentazione di assumere un atteggiamento di eccessiva
deferenza verso le decisioni europee. Da questo punto di vista il richiamo ad una lettura
critica della giurisprudenza EDU, soprattutto avuto riguardo all’alto numero di decisioni –
talvolta tra loro contrastanti – che le varie sezioni della Corte di Strasburgo adottano, è
apprezzabile (sul rapido evolvere e mutare della giurisprudenza europea v., ex multis, S.
Dothan, Judicial tactics in the European court of human rights, Chicago Journal of International Law,
vol. 12, 1/2011, 115-142; F. Tulkens, La Cour européenne des droits de l’homme : le
chemin parcouru, les défis de demain, in Les Cahiers de droit, vol. 53, 2/2012, 419-445). E lo
è sia tenuto conto di una generale esigenza di certezza del diritto (che sarebbe minata
laddove ogni giudice comune ritenesse di dover interpretare la legge sulla base di isolate
indicazioni strasburghesi), sia in ragione del fatto che, ancorché tenda «ad assumere un
valore generale e di principio», ogni pronuncia dalla Corte europea «resta pur sempre legata
alla concretezza della situazione che l’ha originata» (§6.2, C.i.d.).
Di contro non è semplice pronosticare se gli argini individuati dalla Corte
costituzionale siano davvero adeguati. Anzitutto, alcuni degli indici che permettono di
valutare se una certa giurisprudenza sia consolidata o meno non sembrerebbero di
oggettiva interpretazione: si pensi, in particolare, al giudizio circa «la creatività del principio
affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea» e al dubbio che «il
giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari
dell’ordinamento giuridico nazionale» (§7, C.i.d.). Secondariamente e conseguentemente,
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qualche preoccupazione è data dalla nodale responsabilità affidata ai giudici comuni. Si
ricordi che dalla valutazione operata dal giudice nazionale circa il consolidamento di un
certo giudicato CEDU dipende l’obbligatorietà, per il medesimo soggetto, di operare
un’interpretazione convenzionalmente orientata oppure no. Pertanto non si può escludere
il rischio che il giudice restio all’applicazione di una determinata indicazione della Corte
europea, possa facilmente escluderla dai propri strumenti ermeneutici, appellandosi a quegli
tra gli indici elencati dalla Consulta che appaiono maggiormente discrezionali. O viceversa,
che egli si adegui ad una certa giurisprudenza CEDU, sottovalutando l’esistenza di uno
degli indici ostativi.
Da ultimo, sia permesso sottolineare l’aspetto della sentenza commentata che pare
maggiormente apprezzabile: l’invito a non attribuire alla giurisprudenza europea una
funzione nomofilattica del diritto interno, che non le spetta, e ad applicare nei sui riguardi
una lettura che tenga conto della sua naturale estraneità al linguaggio e alle categorie proprie
degli ordinamenti a cui, pure, le sue sentenze si rivolgono. La Corte costituzionale, infatti,
rimprovera ai giudici a quibus di non aver saputo dare alla sentenza Varvara
l’interpretazione, «compatibile con il testo della decisione e gli estremi della vicenda decisa,
più armonica rispetto alla tradizionale logica della giurisprudenza europea, e comunque
rispettosa del principio costituzionale di sussidiarietà in materia penale, nonché della
discrezionalità legislativa nella politica sanzionatoria degli illeciti» (6.2§, C.i.d).
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