9. La Tipo e la notte

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9. La Tipo e la notte
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La Tipo e la notte*
Ho letto sul «Manifesto» che la FIAT di Mirafiori sta
per chiedere l’introduzione del terzo turno sulla linea
della FIAT B; anzi, quasi certamente, se ne parlerà nell’incontro con i sindacati previsto per questa settimana.
Dunque: terzo turno di notte. Non so se a Torino le cose
siano già a questo punto. Dico subito che il ragionamento
che farò può essere prematuro; e in fondo, sapendone
poco, farei meglio a tacere.
Eppure, leggendo la notizia, è scattata dentro di me
una rabbia. Qualcosa di simile, come quando lessi del ricatto sul lavoro notturno fatto alle donne lucane per la
fabbrica FIAT di Melfi. Adesso, la concessione strappata
nel luogo della maggiore debolezza dove più forte era la
sete di lavoro e di salario viene utilizzata per premere sul
punto alto: nelle capitali industriali del Nord. Come sono
bravi questi padroni! Come sono freddi. Come sanno fare i loro affari e dosare i colpi al punto giusto nel prendere alla gola: ora che la sete di lavoro e lo spettro della
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Articolo pubblicato su «il Manifesto» del 9 febbraio 1993 in occasione dell’introduzione del terzo turno alla FIAT.
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disoccupazione di massa dilagano fino alle città opulente
del Settentrione.
Mi allarmo per il lavoro notturno. È vero: so che ora ci
sono già tanti e diversi che lavorano sistematicamente la
notte. Da ragazzo sapevo che il panettiere lavorava la
notte; e anche la guardia notturna. E dal mio letto, nel
mio paese natale, a volte sentivo prima dell’alba lo struscio delle ciocie dei contadini sui selci, nell’avviarsi alla
campagna. Quando ero giornalista a «l’Unità», per più di
dieci anni ho lavorato di notte: allora il giornale si chiudeva verso le cinque del mattino; e molto spesso rientravo a casa all’alba, o a notte profonda. Ma sapevo anche
che il mio – come dire? – era un lavoro strano; e che gli
altri dormivano. E del resto non so proprio dire se è
peggio o è meglio lavorare sempre e solo di notte, oppure l’alternanza del «terzo turno», che frantuma ritmi cruciali del ciclo vitale.
Spesso si viaggia di notte. Ma nel dormiveglia, appunto, le cose ci appaiono stralunate: un buio rotto da luci
che fuggono, a segnalazione della nostra condizione particolare. Da giovane ho fatto le nottate (si diceva così) per
prepararmi agli esami, oppure quando qualche persona
cara era malata. Ma sapevo che queste erano cose «abnormi». E poi studiare, la notte, è un’altra cosa. O anche
stare insonni a letto. O anche svegliarsi e non riaddormentarsi; o leggere un libro di notte. È sempre uno stare
con sé: un ritorno dentro di sé. La notte è il sonno, il sogno, il riposo che è anche abbandonarsi al nostro profondo; il fantasticare; il buio che accende altre luci; è l’intimità della passione, quando – nel distacco dalla fatica
quotidiana – i corpi che si amano possono stringersi l’uno all’altro. La notte è anche veglia.
Ma la veglia e il lavoro nel reparto dove si fanno le Tipo, sono un uscire da sé; per calarsi in un’opera decisa da
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altri e integrarsi nella logica della macchina. È l’oggetto
che prende l’operaio e l’adatta a sé, e tende continuamente a modulare l’operaio secondo la sua attuale «ragione» flessibile.
È come una nuova precarietà dell’operaio: non solo a
motivo dell’incertezza del suo rapporto di lavoro, ma
come nuovo colpo alla intoccabilità di alcune sfere sue
proprie: una invasione di campo che si allarga.
La notte è il silenzio. È vero: si avvertono rumori, fischi lontani, voci brevi, e nelle città come un rombo di
fondo. Ma sono suoni che stanno dentro un silenzio.
Chi può dire che il silenzio è un vuoto? Abbiamo bisogno del silenzio perché nasca la parola: quel raccogliersi
dentro che è anche un ascoltare.
Può darsi che non voli una mosca nel reparto dove si
costruisce la Tipo. Ma non è il silenzio di cui stiamo ragionando: perché l’operaio è proiettato fuori di sé, nella
logica di quel fare specifico, che è proprio di quella organizzazione macchinale.
Ho letto sul «Manifesto» che un operaio della FIAT Mirafiori, alla domanda se era disposto ad accettare il turno
di notte ha risposto: «Dipende quali sono le condizioni.
Io guadagno 1.400 mila lire al mese: se faccio la notte
quali contropartite mi dà la FIAT?».
Può essere che sia questa la risposta da dare. E poi l’operaio potrebbe dirmi: che vuoi da me se mi hai lasciato
solo?
Può darsi. E tuttavia la questione mi sembra di una
simbolicità agghiacciante. Sento che entra in discussione
un tema delicatissimo. Dubito che la cosa possa essere
misurata solo e soprattutto in termini di salario o di contrattazione quantitativa. Entrano in campo soglie, zone
cruciali della vita, che non si possono calcolare in ore in
più o in meno.
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Ho resistito dentro di me – e nel dibattito con gli altri
– a quelle posizioni culturali e politiche, che possono
oscurare ciò che a noi moderni ha dato lo sviluppo
straordinario della razionalità tecnologica del nostro
tempo, con le sue sconvolgenti innovazioni. Non mi piacerebbe, quando sto male in salute, se mi venissero a
mancare gli strumenti che consentono di vedere, al millesimo, ciò che succede nel mio ventre, nel mio cuore,
nel mio cervello (anche se la malattia mi appare una cosa
più complicata). Non mi piacerebbe vedere accorciata la
vita degli esseri umani, con un cammino a ritroso. Non
mi piacerebbe tornare alla pellagra, alle carestie; e impallidisco quando vedo il volto dei bambini (occhi che
guardano quasi da scheletri) colpiti dalla fame nel cuore
dell’Africa.
E mi piace molto potere andare in poche ore in America e in Asia; e anche che siamo stati capaci di atterrare
sulla luna.
Ma dobbiamo vedere bene quello che ne viene a noi e
quello che perdiamo, appunto quale scambio (per stare nel
linguaggio dell’epoca). Perché ciò che sta entrando in
gioco è enorme; e riguarda beni essenziali quanto il pane.
Non sto alludendo soltanto al disastro ecologico, cioè
ad una minaccia in atto alle condizioni «fisiche» della nostra esistenza; che pure è problema grave. Parlo di altri
beni che sono necessari alla nostra esistenza quanto il
mangiare: affettività, immaginazione, comunicazione simbolica, linguaggi che vanno oltre la «ragione strumentale». Discutiamo se e quanto questi beni sono indispensabili alla vita dei moderni; e quale è il prezzo che si paga
(stiamo pure a questo vocabolario) quando essi vanno
perduti. Non si tratta di sfere separate: anzi, nel caso del
lavoro notturno, vediamo che l’una invade di prepotenza
le altre: le assorbe, le stravolge. E allora non è il caso di
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rifare i conti, ammesso e non concesso che certe perdite
siano misurabili?
So che alcuni a Torino dicono: contrattiamo l’accettazione del terzo turno in cambio di una riduzione dell’orario di lavoro. Mettiamo pure che vada così, e che la
FIAT ci stia. Dubito che questo risarcirà la rottura del
ritmo vitale. E soprattutto penso che una sostanziale riduzione dell’orario di lavoro non sarà raggiunta, se questa rivendicazione non verrà collegata assai più nettamente ad una esaltazione del valore del tempo di vita,
non solo come tempo della cura, ma anche io dico – polemicamente – come ozio, nel significato più intenso di
questo termine (non dicevano i poeti che la domenica è
fatta per pregare?).
So che l’uso di questa parola può apparire, in questo
momento, ridicolo. Ma non dobbiamo avere paura di
apparire (a taluni) ridicoli, perché la sfida in cui siamo
oggi coinvolti è giunta a questi livelli.
Può apparire assurdo un discorso del genere quando
centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori, nella
sola Italia, invocano oggi disperatamente di lavorare, mentre altri da altri continenti bussano alle porte: so che essi
vedono nella perdita del posto di lavoro non solo un colpo pesante al loro reddito, ma un crollo della loro identità. E il paese stesso teme una grave retrocessione nella
gerarchia delle nazioni capaci di reggere ad una competizione produttiva che è divenuta mondiale.
Ma la questione è grande e attuale proprio perché siamo arrivati ad un tale punto, e la stretta è giunta a toccare
tali nodi. E questo è ancora più vero se questi problemi
hanno raggiunto – come dire? – una loro oggettività.
Insomma: quanto più una mossa come quella della
FIAT non sia dovuta solo ad una prepotenza di quel padrone; quanto più essa venga presentata come obbligata
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e «razionale»; tanto più la questione diventa grave e simbolica.
Ci sono oggi, a sinistra, voci che sollevano il problema
dei rapporti tra rendita finanziaria e mondo della produzione; ed è una questione reale. Ma la giusta lotta alle
manovre ed ai privilegi della rendita finanziaria cancella
forse il tema, attuale e stringente, delle nuove soglie a cui
sta giungendo questa pratica del produrre, e delle conseguenze che ne derivano circa la scala dei beni?
Esistono non solo squilibri tra le monete, e tra la moneta e il produrre. Si stanno determinando terremoti
nella relazione tra ambiti vitali, nell’equilibrio tra il «fare
produttivo» e un altro «fare», che è anch’esso costitutivo
della vita umana.
È strano che di questi squilibri sconvolgenti (da dove
sgorga la violenza su cui si versano tante lacrime?) parli
anche il Papa romano, e non la sinistra. Naturalmente è
significativo anche che ministri della Chiesa romana gridino oggi contro il diritto della donna di essere libera
nella sua decisione di concepire; e invece siano rimasti in
prevalenza muti quando alle donne di Melfi è stata posta
quella scelta ricattatoria tra intimità della vita e lavoro.
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