Grotta del colle a Rapino

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Grotta del colle a Rapino
SITI ARCHEOLOGICI
Grotta del Colle a Rapino
La Grotta del Colle è una cavità naturale aperta sul versante nord-orientale della Maiella (in
provincia di Chieti), a quota 550 mt. slm, in località Costa Le Solagne. Oltrepassato un grande
arco di roccia, largo oltre 15 mt., che ne costituisce l'ingresso, si accede a una ampia sala
irregolarmente rettangolare, di 40 x 60 mt., alta tra i 4 e i 12 mt., con piano pavimentale
attualmente
inclinato
verso
il
fondo
della
grotta.
Un cunicolo, a quota più alta del piano, si apre sulla destra dell'ingresso. Nella cavità è ancora
attivo il fenomeno dello stillicidio delle acque, a cui si deve la formazione di numerose stalattiti
e forse anche il distacco dalla volta di grossi blocchi, che attualmente ingombrano la zona
centrale.
Le emergenze archeologiche visibili riguardano il piccolo edificio sacro che sorge all'ingresso
della cavità, parzialmente al suo interno, su una preesistente struttura tradizionalmente nota
come "tempio italico". La piccola chiesa, sede forse già in età longobarda di un culto rupestre
dedicato a Sant'Angelo, nel medioevo rientrò nelle pertinenze del monastero di San Salvatore
a Maiella; in seguito è denominata Santa Maria in Cryptis. Le indagini archeologiche a più
riprese condotte nel sito (1) hanno verificato la continuità di frequentazione della grotta dal
Paleolitico superiore (scavi Radmilli) fino almeno alla piena età medievale (scavi Annibaldi).
Mentre per le fasi più antiche (Paleolitico - Neolitico - Eneolitico - Bronzo) la destinazione
d'uso non è evidente, la valenza cultuale della grotta è sicuramente documentata a partire
dall'età arcaica (2), alla quale è da riferire la celebre statuetta femminile bronzea nota come
"Dea di Rapino", e interpretata dal Galli come dea Cerfia. Con l'età ellenistica la funzione
religiosa del sito è più evidente, come testimonia la massiccia presenza di materiale votivo
(per lo più ex voto fittili) e soprattutto la "Tabula Rapinensis", una piccola lamina di bronzo di
ca. 15x15 cm, su cui è incisa una iscrizione in dialetto marrucino (3). Si tratta di una legge
sacra riguardante il culto di Giove e Giovia (quest'ultima coincidente con la dea Cerfia), a cui è
connessa la pratica del sacro meretricio (4). Nel testo, oltre alle prescrizioni rituali, si fa
menzione, della "Touta Marouca", cioè del popolo dei Marrucini, e della "ocre Tarincria",
identificata nel vicino insediamento fortificato di Civita Danzica. Un ulteriore riferimento al
culto di Giove sembra costituito dalla gemma con raffigurazione di Zeus in trono, rinvenuta
nelle immediate vicinanze della grotta. La fondamentale testimonianza epigrafica della Tabula
Rapinensis, la continuità di frequentazione a scopo cultuale e la stessa collocazione
topografica del sito, punto di riferimento e di avvistamento del territorio, concorrono ad
identificare
nella
Grotta
del
Colle
il
santuario
dell'intero
ethnos
marrucino.
Merita una digressione la statuetta femminile, per il suo valore di documento relativo ai culti
praticati
nella
grotta
in
età
arcaica.
L'identificazione del bronzetto con la Dea Madre è suggestiva e fu proposta già dal Galli, il
quale inoltre considerava la statuetta una copia in piccole dimensioni del grande simulacro di
culto
della
divinità
forse
un
acrolito
(5).
Della Dea di Rapino si può cogliere la valenza di divinità primigenia, espressione del mondo
spirituale e religioso indigeno originario e non influenzato da sovrapposizioni esterne. La sua
duplice essenza, terrestre e infera (6), è legata al mondo naturale, agrario in particolare, in
quanto divinità della fertilità, dispensatrice delle messi e quindi della vita (in questo senso si
può forse interpretare la focaccia con le spighe tenuta nella mano destra, offerta propiziatoria
dei fedeli e nello stesso tempo dono elargito dalla divinità); come dea legata alla terra e ai cicli
della vita vegetale, qui simboleggiati dalle spighe di grano, nato dalla terra, mietuto, seppellito
e rinascente (7), è però anche il nume che accoglie l'uomo alla sua morte, in un felice e
propiziatorio parallelismo con il mondo vegetale che continuamente si rinnova.
Non è quindi un caso il rinvenimento della statuetta in una grotta (e sulla montagna "sacra"
per eccellenza), quindi in una sorta di grembo dal quale scaturisce e al quale ritorna la vita.
Il persistere di queste ancestrali concezioni, accanto a nuove divinità (Giove), si può forse
cogliere nella presenza, tra i votivi delle fasi successive ellenistico-romane, di un galletto
fittile, animale che per primo annuncia la nascita del nuovo giorno.