casi di diritto civile 2013
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casi di diritto civile 2013
LUIGI VIOLA ______________________________________________________________________ ______________________________________________________________________ CASI DI DIRITTO CIVILE 2013 TRACCE, SOLUZIONI SCHEMATICHE E GIURISPRUDENZA Dispensa esclusiva riservata agli iscritti al corso di preparazione per l’esame forense, tenuto da Luigi Viola su overlex.com ______________________________________________________________________ _____________________________________________________________________ Overlex.com editore © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 1 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 2 LUIGI VIOLA, Avvocato (esercita la propria attività professionale tra Lecce, Roma e Milano; riceve solo per appuntamento anche a Londra), docente di Diritto Processuale Civile presso l’Università degli Studi E-Campus sede di Novedrate-Como, Roma e Messina; Specialista in Diritto civile. E’ direttore scientifico della rivista bimestrale La Nuova Procedura Civile, nonché di Altalex Massimario e del Quotidiano giuridico Overlex.com. Direttore scientifico dell’Osservatorio Nazionale sul Processo Civile. Docente in corsi di preparazione per l’esame di avvocato e per il concorso in magistratura ordinaria, nonché in diversi Master (Roma, Milano, Reggio Calabria, Rimini, Ancona) accreditati dal C.N.F. E’ docente di Diritto dei contratti presso la Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno (S.S.A.I.). Relatore in vari convegni (in Roma presso la Camera dei Deputati, presso l'Università Gregoriana Pontificia, presso il Campidoglio, presso il Parlamento Europeo, in Milano, in Bari, ecc.), anche inerenti la formazione decentrata dei magistrati. Ha scritto diversi libri e curato Trattati, nonché pubblicato circa un centinaio di articoli anche su riviste internazionali; tra le ultime opere si segnalano Il contratto (Cedam 2009), Prescrizione e decadenza (Cedam 2009), Inadempimento delle obbligazioni (Cedam 2010), Codice di procedura civile commentato (Cedam 2011), L’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. (Giuffrè 2011), La semplificazione dei riti civili (Cedam 2011), Le domande nuove inammissibili nel processo civile (Giuffrè 2012), Il nuovo appello filtrato (Altalex 2012), La testimonianza nel processo civile (Giuffrè 2012), Il Procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (Giuffrè 2013), Codice di procedura Civile commentato (Cedam 2013), Manuale di Diritto Processuale Civile (Cedam 2013). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 3 INDICE: 1) Patto commissorio e procura ad alienare………………………………………….pag. 6 2) Lettera di patronage………………………………………………………………pag. 32 3) Diritto a non nascere se non sano…………………………………………………pag. 38 4) Presupposizione…………………………………………………………………...pag. 81 5) Mediatore e responsabilità………………………………………………………...pag. 107 6) Donazione di cosa altrui…………………………………………………………...pag. 124 7) Contratto immorale ed illecito……………………………………………………..pag. 141 8) Garanzia per evizione e promessa del fatto del terzo………………………………pag. 146 9) Responsabilità del notaio…………………………………………………………..pag. 152 10) Attività pericolosa e partita di calcetto…………………………………………….pag. 171 11) Immissioni…………………………………………………………………………pag. 175 12) Prescrizione e danni lungolatenti………………………………………………….pag. 186 13) Comunione legale tra coniugi e preliminare ad effetti anticipati…………………..pag. 208 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 4 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 5 1) Patto commissorio e procura ad alienare Michele si recava presso la banca Alfa per chiedere un mutuo. La Banca Alfa accettava, ma pretendeva di ricevere - con contratto separato - da Michele una procura a vendere il suo immobile Tuscolo, trattenendo la somma dovuta a titolo di mutuo e restituendo la parte eccedente. Così venivano conclusi due contratti: -con il primo (contratto di mutuo), la banca Alfa erogava una somma di denaro in favore di Michele, con l’accordo che quest’ultimo avrebbe dovuto restituire la somma con l’aggiunta degli interessi; -con il secondo, Michele firmava una procura a vendere il proprio immobile Tuscolo in favore di Alfa, con l’accordo che quest’ultima avrebbe potuto procedere a vendita, in caso di inadempimento di Michele, trattenendo una somma pari solo al mutuo ed agli interessi, mentre la somma eccedente sarebbe stata restituita. Il candidato, assunte le vesti di un legale, rediga motivato parere circa la validità dell’operazione negoziale posta in essere. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 1 In premessa si poteva schematizzare il fatto. Successivamente il discorso andava focalizzato sull’art. 2744 c.c.: nel caso prospettato vi è patto commissorio? Se si ritiene insussistente il patto commissorio, allora Michele nulla potrà fare per impedire la vendita di Tuscolo. Se si ritiene sussistente il patto commissorio, allora Michele potrà agire per la nullità della procura ad alienare, o dell’intera operazione negoziale, così evitando la vendita di Tuscolo. A favore della tesi negativa si dice: -il patto commissorio proibisce lo schema inadempimento-passaggio della proprietà in capo al creditore, diversamente dal caso de quo, dove l’inadempimento di Michele legittima la banca Alfa ad alienare a terzi; -l’art. 2744 c.c. non può essere interpretato per via di analogia, essendo norma eccezionale, rispetto ai principi generali di libertà, ex art. 1322 c.c., e conservazione ex art. 1367 c.c.; -la ratio del divieto di patto commissorio è salvaguardata; normalmente, questa è individuata nella necessità di evitare che il creditore possa arricchirsi sine causa lucrando dalla differenza tra valore del bene e valore del debito, così che tale ratio qui non verrebbe vulnerata in quanto: a) Tuscolo viene venduto a terzi, e non diviene di proprietà del creditore Alfa; b) la banca Alfa trattiene presso sé solo una somma corrispondente al mutuo ed interessi, restituendo l’eccedenza. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 6 Tuttavia, è preferibile optare per la tesi positiva, comminando la nullità dell’intera operazione negoziale. In tal senso si dice: -è vero che formalmente non viene violato l’art. 2744 c.c., ma nella sostanza ciò accade perché vi è l’automatica perdita del bene Tuscolo in seguito all’inadempimento, così realizzando un’operazione contrattuale in frode alla legge, ex artt. 1344-2744 c.c.; -la causa in concreto, in questa visione, sarebbe quella di vulnerare l’art. 2744 c.c.; -la ratio sottesa all’art. 2744 c.c. non sarebbe quella di evitare indebiti arricchimenti nel senso sopradetto, ma quella di evitare l’automaticità tra inadempimento e conseguenze sfavorevoli, perché il primo può determinare le seconde solo in caso di accertamento giudiziale: è il giudice che deve valutare la presenza – o meno – di un inadempimento e non la parte autonomamente; -quando viene comminata la nullità ex artt. 2744-1344 c.c. l’effetto caducatorio colpisce tutto il contratto e, nel caso, data la presenza di un collegamento negoziale, entrambi i contratti (diversamente la violazione diretta del patto commissorio ex art. 2744 c.c. determina la nullità del solo pactum). Alla luce di tali rilievi, Michele ben potrà agire per la nullità dei contratti collegati conclusi con la banca Alfa. Non era da considerare errore la soluzione volta a ritenere nullo solo il contratto con cui veniva rilasciata la procura ad alienare, con una precisazione però: -se ci si collega solo all’art. 2744 c.c. è nullo il pactum e, quindi, la sola eventuale procura ad alienare mentre resta impregiudicato il contratto di mutuo; ciò in quanto l’art. 2744 c.c. predica che “è nullo il patto” ; -se ci si collega all’art. 2744 c.c. letto in combinato disposto con l’art. 1344 c.c. va comminata la nullità dell’intera operazione negoziale, in quanto si predica l’illiceità dell’operazione negoziale perché finalizzata (causa in concreto illecita, in particolare) ad evitare il dictum di una norma imperativa; ciò in coerenza con l’art. 1418 c.c. che parla di nullità del contratto e non del solo pactum (tale nullità colpisce tutta l’operazione negoziale in quanto si tratta di contratti funzionalmente collegati). GIURISPRUDENZA RILEVANTE In materia di patto commissorio, non è possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità perchè qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il contenuto, nell'ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall'ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l'illecita coercizione del debitore al momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell'altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione; pertanto sono stati ritenuti nulli, ex art. 1344 cod. civ., per frode alla legge, atti negoziali di per se astrattamente leciti ovvero operazioni negoziali complesse, pur in assenza di formale costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano rispondenti alla finalità di attribuire al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso di mancato pagamento da parte del debitore, così costretto a sottostare alla volontà' della controparte. Cassazione civile, sezione seconda, sentenza del 8.4.2013, n. 8505 ...omissis... Preliminarmente deve disporsi, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., la riunione del ricorso principale e di quello incidentale. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 7 1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell'art. 2744 e.e. e l'omessa motivazione in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, e sostiene che nella comparsa conclusionale in appello aveva chiesto la pronuncia della declaratoria della nullità della procura in quanto la procura e il mandato dissimulavano un patto commissorio con funzione di garanzia; nella specie la procura era stata rilasciata a tacitazione delle pretese creditorie e aveva determinato la coercizione del debitore che era stato costretto ad accettare il trasferimento di proprietà a tacitazione dell'obbligazione. 2. Il motivo è infondato. In materia di patto commissorio, come già affermato da questa Corte, non è possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità perchè qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il contenuto, nell'ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall'ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l'illecita coercizione del debitore al momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell'altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione; pertanto sono stati ritenuti nulli, ex art. 1344 cod. civ., per frode alla legge, atti negoziali di per se astrattamente leciti ovvero operazioni negoziali complesse, pur in assenza di formale costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano rispondenti alla finalità di attribuire al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso di mancato pagamento da parte del debitore, così costretto a sottostare alla volontà' della controparte (Cass. n. 5426 del 2010; Cass. n. 437 del 2009; Cass. n. 2285 del 2006). Ma tutte queste ipotesi presuppongono che il debitore abbia accettato preventivamente quindi al di fuori di una concordata datio in solutum successiva all'inadempimento - la possibilità di alienazione del proprio bene a seguito di inadempimento e così si è ritenuto che anche una procura a vendere un immobile, rilasciata dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione de mutuo, comporti violazione del divieto del patto commissorio, qualora si accerti che essa sia funzionalmente connessa con il mutuo (Cass. n. 6112 del 1993). Tuttavia non si è mai dubitato che il patto commissorio sia configurabile solo quando il debitore sia costretto al trasferimento di un bene a tacitazione della sua obbligazione che con quel patto intendeva contestualmente garantire e non anche ove tale trasferimento sia frutto di una scelta (Cass. n. 4064 del 1995; Cass. n. 4283 del 1990) e, in particolare, quando il debitore, per sua libera scelta, intenda soddisfare debiti già sorti e non garantiti mediante il trasferimento di propri beni agli stessi creditori (secondo lo schema della datio in solutum) o incaricandoli di liquidare tutte o alcune sue attività e di ripartirne il ricavato secondo lo schema della cessio bonorum (art. 1977 c.c., e segg.). L'individuazione della causa del negozio comporta la necessità un'indagine non limitata agli aspetti formali del negozio, ma diretta a verificarne la causa in concreto e la data dell'insorgenza dei crediti che, se anteriori al conferimento della procura a vendere con relativo mandato, ben difficilmente consentono di ricondurre l'accordo alla fattispecie del patto commissorio nel senso che l'operazione assume, di regola il connotato di negozio con funzione solutoria piuttosto che con funzione di garanzia. Ciò comporta che neppure riconoscendo la più ampia facoltà del giudice del merito di rilevare di ufficio la nullità incidenter tantum (cfr. Cass. S.U. 4/9/2012 n. 14828) appariva possibile, nel caso concreto, una tale pronuncia in quanto dagli atti processuali nessuna nullità emergeva ex actis, non risultando in alcun modo che l'operazione avesse causa di garanzia piuttosto che causa solutoria. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 8 Ne discende che la domanda di nullità per divieto di patto commissorio, formulata solo con la conclusionale in appello, doveva considerarsi domanda nuova e inammissibile sulla quale, proprio in considerazione della sua inammissibilità, il giudice di appello non aveva alcun obbligo di motivazione e, quindi, non sussiste il vizio denunciato e, di conseguenza, neppure la violazione dell'art. 2744 c.c.. 2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1414, 1415 e 1417 c.c., nonchè dei principi in materia di interposizione di persona e l'insufficiente e/o contraddittoria motivazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. La ricorrente censura la sentenza impugnata: - perchè è stata esclusa l'interposizione fittizia nel contratto di vendita tra il D. (che agiva in rappresentanza della B.) e il De. in quanto l'impegno di quest'ultimo di ritrasferire il compendio immobiliare è stato ricondotto all'ipotesi di interposizione reale mentre, a dire della ricorrente, doveva essere riconosciuta l'interposizione fittizia, provata della controdichiarazione scritta; perchè la B. è stata ritenuta parte del contratto simulato essendo invece estranea all'accordo simulatorio e, quindi, non soggetta alle limitazioni probatorie; - perchè la prova della simulazione avrebbe dovuto comunque essere ammessa in quanto diretta a provare l'illiceità del contratto dissimulato. 2.1 Il motivo è infondato. In primo luogo la Corte di Appello ha correttamente individuato gli elementi che differenziano l'interposizione reale dall'interposizione fittizia rilevando che, nella seconda, l'interposto è un figurante estraneo all'accordo tra il terzo e l'interponente e che, perchè si possa configurare una interposizione fittizia, è imprescindibile la partecipazione del terzo contraente. Ciò premesso in diritto, il giudice di appello ha esaminato la dichiarazione con la quale il De. si impegnava a trasferire al V. il bene acquistato dalla B. e ha concluso che tale dichiarazione integrava un accordo tra il V. e il De. costitutivo dell'obbligo di quest'ultimo di ritrasferire il bene acquistato in base ad un negozio i cui effetti erano destinati a prodursi solo tra l'alienante e il De. e che nessuna prova sussisteva della partecipazione all'accordo da parte del terzo contraente, sia che questo fosse individuato nel D. che aveva stipulato il contratto in rappresentanza della B., sia che questo fosse individuato nella B.. Siccome l'attrice era onerata della prova della simulazione per interposizione fittizia, la motivazione non è nè insufficiente nè contraddittoria: la dichiarazione del De. (della quale la ricorrente riporta i contenuti così che può essere legittimamente valutata da questa Corte) non è incompatibile con l'ipotesi di una simulazione per interposizione fittizia, ma certamente non costituisce neppure un indizio in tal senso, perchè contiene solo l'impegno del De. a vendere o a stipulare un preliminare di vendita a favore del V. o a persona o Ente da lui indicato, previo pagamento di L. 408.000.000 che il De. dichiara di avere già pagato a titolo di corrispettivo, imposte, spese notarili e di quanto concordato; al contrario, la circostanza che il corrispettivo fosse stato pagato proprio dal De. depone, semmai, in senso contrario all'ipotesi di un accordo © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 9 simulatorio tra interponente, interposto e terzo contraente per effetto del quale l'interposto doveva rimanere estraneo al contratto di compravendita; al contrario, è dimostrato che il presunto interposto aveva effettivamente pagato il corrispettivo e, quindi, non era rimasto estraneo al contratto di compravendita. Per tali considerazioni la circostanza che, circa due mesi prima della vendita al De., il D., quale rappresentante della B., avesse stipulato un compromesso con il V., diventa circostanza sostanzialmente irrilevante (se non addirittura favorevole alla tesi che il D. non intendeva vendere al V.), così come la circostanza che il V. avesse intentata, contro il De., causa di retratto agrario. La mancanza di prova della simulazione comporta l'assorbimento delle ulteriori censure, comprese quelle relative alla violazione degli artt. 1414, 1415 e 1417 c.c. 3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 184, 187 e 189 c.p.c. nonchè dell'art. 2724 c.c., delle norme in materia di deduzione e valutazione delle prove, dell'art. 132 c.p.c., n. 3 e il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 e sostiene: - che erroneamente e in violazione degli artt. 184, 187 e 189 c.p.c. (nel testo anteriore alla riforma di cui alla L. n. 80 del 2005) i giudici del merito l'hanno dichiarata decaduta dalle prove richieste perchè nessuna norma prevedeva una decadenza nel caso di mancata reiterazione delle istanze istruttorie nell'udienza di trattazione dell'art. 184 c.p.c.; - che erroneamente la Corte di Appello non ha ammesso il capitolo di prova dedotto per provare la partecipazione del D. agli accordi intercorsi tra il V. e il De., prova che doveva essere ammessa anche ai sensi dell'art. 2724 c.c., che, in deroga al divieto di prova testimoniale, la consente in presenza di un principio di prova per iscritto; - che la Corte di Appello ha errato nel non applicare l'art. 132 c.p.c., n. 3 e nel non dichiarare la nullità della sentenza di primo grado con rimessione al primo giudice per l'omessa trascrizione delle conclusioni 3.1 Il motivo è infondato sotto ogni profilo. A) Con riferimento alle istanze istruttorie si rileva quanto segue. Il giudice di appello non ha affermato che l'attrice era decaduta dalla prova per la mancata reiterazione delle istanze istruttorie nell'udienza di trattazione ai sensi dell'art. 184 c.p.c., ma ha ritenuto verificatasi la decadenza perchè "dopo avere formulato istanza istruttorie, segnatamente afferenti a prove testimoniali e per interrogatorio formale, con l'atto di citazione, all'udienza del 23/2/2001, successiva alla scadenza dei termini di cui all'art. 184 c.p.c., comma 1 (che all'epoca stabiliva che il giudice poteva ammettere le prove o, su istanza di parte, assegnare un termine per produzioni e deduzioni istruttorie) e fissata per le conseguenti statuizioni sulle prove, l'attrice non ha coltivato le istanze istruttorie, ma con una condotta processuale assolutamente incompatibile con la volontà di insistere per l'espletamento delle prove costituende, ha richiesto la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni" (pagg. 33 e 34 della sentenza impugnata). La Corte di appello ha aggiunto che l'unico capitolo di prova era inammissibile per genericità. La prima ratio decidendi, relativa alla valutazione del comportamento processuale come rinuncia alle istanze istruttorie è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale "In tema di istruzione probatoria nel rito ordinario, spetta alla parte attivarsi per l'espletamento del richiesto mezzo istruttorio che il giudice abbia ammesso; sicchè, ove la parte rimanga inattiva, chiedendo la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 10 senza più instare per l'espletamento del mezzo di prova, è presumibile che abbia rinunciato alla prova stessa" (Cass. 6/9/2007 n. 18688). Nella specie il mezzo istruttorio non era stato neppure ancora ammesso e la ricorrente aveva chiesto la precisazione delle conclusioni con ciò manifestando inequivocabilmente, come ritenuto dal giudice di appello, la volontà di rinuncia; una diversa conclusione si porrebbe in contrasto con i principi generali del codice di rito, non potendosi riconoscere uno "ius poenitendi" della parte che abbia rinunciato alle istanze istruttorie tale da attribuirle un potere di decidere a sua discrezione di fare regredire alla fase istruttoria il processo già pervenuto alla fase decisoria. La censura sulla declaratoria di inammissibilità del capitolo di prova (peraltro assorbita dalla evidenziata decadenza) è inammissibile in quanto attinge una valutazione di merito sulla assoluta genericità del capitolato, sorretta da adeguata motivazione. B) Non sussiste la violazione dell'art. 132 c.p.c., n. 3, per non essere stata dichiarata la nullità della sentenza appellata in relazione all'omessa trascrizione delle conclusioni istruttorie. Occorre premettere che l'esigenza di indicare in sentenza le "conclusioni" delle parti ex art. 132 c.p.c., n. 3, deve intendersi riferita - in funzione del principio di cui all'art. 112 dello stesso codice alle istanze ed eccezioni relative alla materia da decidere con la sentenza e non anche alle richieste istruttorie, aventi funzione strumentale rispetto alla decisione (Cass. 29/1/1985 n. 521); in ogni caso, non è prevista una espressa comminatoria di nullità per la mancanza della trascrizione delle conclusioni in quanto l'eventuale nullità non discende dalla mancata trascrizione, ma dal mancato esame; a sua volta il mancato esame, con riferimento alle istanze istruttorie, rileva solo nel senso di consentire la riproposizione delle istanze in appello e, per il principio dell'art. 161 c.p.c., i motivi di nullità si convertono in motivi di gravame senza determinare la regressione del procedimento al primo giudice. Le istanze istruttorie sono state valutate e dichiarate inammissibili dalla Corte di appello e pertanto il motivo è inammissibile per difetto di rilevanza. 4. Con il primo motivo del ricorso incidentale D.B. deduce il vizio di ultrapetizione e la violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. sostenendo: - che la domanda di revoca della procura proposta dalla B. doveva semplicemente essere rigettata perchè la domanda presupponeva che la revoca non fosse ancora intervenuta, mentre il giudice di appello avrebbe addotto una motivazione inconferente asserendo che la revoca non possa formare oggetto di pronuncia giudiziale in quanto atto unilaterale della parte; - che la B. non aveva esercitato una azione di inadempimento del mandato, ma aveva dedotto l'inadempimento, con riferimento all'obbligo di rendiconto, rispetto alla procura e non al negozio gestorio; secondo il ricorrente il giudice, accertando l'inadempimento del mandato, si è pronunciato su una domanda non proposta. 4.1 La Corte di appello ha ritenuto non proponibile al giudice la domanda diretta a dichiarare la revoca della procura, trattandosi di esercizio di un potere che compete solo alla parte conferente e ha rigettato la domanda diretta all'accertamento della legittimità ed efficacia della revoca della procura (pag. 42 della sentenza). Il motivo, nella parte in cui censura tale motivazione è inammissibile per carenza di interesse del ricorrente incidentale perchè in ordine al rigetto della domanda attorea il D. non è © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 11 soccombente e pertanto non può proporre impugnazione per ottenere lo stesso rigetto con diversa motivazione. Quanto al dedotto vizio di ultrapetizione in relazione all'accertamento dell'inadempimento del mandato il motivo è infondato perchè nessuna violazione del principio di corrispondenza tra il richiesto ed il pronunciato è ravvisabile nel caso in esame. La violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. è riscontrabile soltanto quando il giudice abbia pronunciato oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio. Spetta al giudice di merito il compito di qualificare la domanda proposta dalla parte in quanto ha il potere-dovere di individuare l'esatta natura del rapporto dedotto in giudizio per precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili, con il solo limite di non esorbitare dalle richieste delle parti e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell'ambito delle questioni sottoposte al suo esame (cfr., tra le altre, Cass. 12/10/2001, n. 12471; Cass. 20/12/2006 n. 27285; Cass. 3/8/2012 n. 13945). Non incorre quindi nel vizio di extrapetizione il giudice di merito che abbia esercitato il proprio compito di interpretazione della domanda - senza essere necessariamente condizionato dalla formula adottata dalla parte e tenendo invece opportunamente conto del contenuto sostanziale della pretesa, come desumibile dalla situazione dedotta in causa e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio - e si sia poi, nel pronunciare su di essa, attenuto ai limiti della domanda medesima, come sopra interpretata (cfr. Cass., sez. un., 21 febbraio 2000 n. 27). La Corte di Appello si è uniformata ai suddetti principi, in quanto nell'atto di citazione era appunto dedotto (come rilevato dalla Corte territoriale) l'inadempimento del mandato per omesso rendiconto e comunque per infedeltà nel suo espletamento e nel corso del giudizio lo stesso D. si era difeso in merito a tali addebiti (v. anche pag. 18 del controricorso dello stesso D., laddove espone e le sue difese nel giudizio di primo grado); in altri termini, la Corte territoriale ha, legittimamente, preso in considerazione il contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate in corso di causa; non assume rilievo l'imprecisione dell'atto di citazione laddove la revoca della procura è apparentemente collegata all'inadempimento del mandato essendo comunque dedotto tale inadempimento ed essendone stato chiesto l'accertamento. 5. Con il secondo motivo il ricorrente incidentale deduce la violazione dell'art. 1703 c.c,. e segg., in relazione all'art. 1387 c.c., e segg., e sostiene che la Corte di appello avrebbe erroneamente applicato le norme sul contratto di mandato all'istituto della procura. 5.1 Il motivo è del tutto infondato in quanto la Corte di Appello, come sopra riferito, ha accertato l'inadempimento del mandato applicando le norme che lo disciplinano, con riferimento all'obbligo di rendiconto ex art. 1713 c.c.. 6. Con il terzo motivo il ricorrente incidentale deduce la nullità della sentenza per violazione dell'art. 132 c.p.c., n. 4 e il vizio di motivazione e sostiene che la motivazione secondo la quale la revoca della procura è insuscettibile di essere pronunciata dal giudice è stata resa funzionale ad una ulteriore attività interpretativa all'esito della quale è stata ritenuta l'eterogestione degli affari dell'attrice ed è stata ritenuta incontroversa l'omissione del © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 12 rendiconto e l'inadempienza del mandatario senza alcuna attività istruttoria e senza che fosse proposta azione di rendiconto. 6.1 Il motivo, quanto alla violazione dell'art. 132 c.p.c., n. 4, è inammissibile perchè la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi della decisione non è mancante e perchè dal motivo non è dato comprendere sulla base di quali elementi la disposizione sarebbe violata. Quanto al vizio di motivazione, il motivo è infondato perchè muove dall'errato presupposto che non sia stato chiesto l'accertamento dell'inadempimento del mandato e, quanto alla motivazione sull'inadempimento del mandato, basti osservare che la Corte di Appello ha rilevato che il mandatario non aveva dato spiegazione delle modalità di espletamento del suo incarico, non aveva rimesso al mandante quanto ricevuto, nè aveva restituito quanto incassato per suo conto. Pertanto la motivazione non è nè insufficiente nè contraddittoria, posto che non risulta che in causa sia mai stata fornita alcuna indicazione al riguardo. 7. Con il quarto motivo il ricorrente incidentale deduce il preteso vizio di "motivazione apodittica ovvero di errata percezione della realtà" e sostiene che l'affermazione della Corte di Appello secondo cui era incontroversa la mancata presentazione del rendiconto e la mancata dazione delle somme incassate a seguito dell'attività gestoria sarebbe viziata per "motivazione apodittica ovvero di errata percezione della realtà" non risultando gli elementi probatori idonei a giustificarla; sostiene che nelle memorie difensive avrebbe sempre dato conto del proprio operato, fornito le spiegazioni occorrenti e che la condotta del mandatario dovrebbe essere posta in relazione al comportamento del mandante che nella specie sarebbe stato negligente; inoltre la B. aveva introdotto in giudizio nuove domande e nuovi documenti oltre i termini di legge. 7.1 Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. E' infondato nella parte in cui deduce un vizio di motivazione in ordine all'inadempimento dell'obbligo di rendiconto perchè è sufficiente, per tale accertamento, la constatazione che il mandatario non ha dato spiegazioni del suo operato e non ha rimesso al mandante quanto ricevuto dalla vendita del bene. E' inammissibile per assoluta genericità nella parte in cui il ricorrente assume di avere dato conto del suo operato e di avere fornito la documentazione necessaria in quanto non da conto delle sue specifiche difese e del contenuto della documentazione non consentendo, così a questo giudice di legittimità valutarne la rilevanza. E' inammissibile nel riferimento al negligente comportamento della mandante non essendo dato comprendere nè perchè sarebbe stato negligente, nè perchè la negligenza sarebbe stata rilevante. E' inammissibile con riferimento alle domande e produzioni nuove che sarebbero state introdotte nel processo perchè non vengono indicate e non ne viene spiegata la rilevanza. 8. Con il quinto motivo il ricorrente incidentale deduce il vizio di "errata percezione di dati processuali" e sostiene di avere formulato eccezione di prescrizione della domanda di annullamento della procura irrevocabile, mentre il giudice di appello l'avrebbe riferita ad una domanda diversa. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 13 8.1 L'inammissibilità del motivo risulta palese: l'annullamento della procura non è stato pronunciato, la relativa domanda è stata rigettata e quindi il D., vittorioso su tale domanda, non può proporre impugnazione. 9. Il D. ha formulato a questa Corte istanze istruttorie subordinatamente all'accoglimento delle istanze di controparte. La condizione alla quale è subordinata la richiesta non si è verificata, ma occorre preliminarmente rilevare l'inammissibilità di richieste istruttorie nel giudizio di legittimità. 10. In conclusione deve essere rigettato sia il ricorso principale che quello incidentale; le spese di questo giudizio di cassazione devono essere interamente compensate tra la ricorrente principale e il ricorrente incidentale, mentre la ricorrente principale, soccombente nei confronti della società Aziende Agricole Villa Le Gagge di Lara Alinovi & C. s.a.s. deve essere condannata a rimborsare a quest'ultima le spese del processo liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte riuniti il ricorso e quello incidentale rigetta entrambi e compensa le spese tra la ricorrente principale e il ricorrente incidentale. Condanna la ricorrente principale a pagare alla società Aziende Agricole Villa Le Gagge di Lara Alinovi & C. s.a.s. le spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 2.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi. Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2013. Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2013 Il divieto del patto commissario, sancito dall'art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, ancorchè di per se astrattamente lecito, che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato dall'ordinamento, di assoggettare il debitore all'illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un suo bene, quale conseguenza della mancata estinzione di un debito. In particolare, è stato puntualizzato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia (piuttosto che per una causa di scambio), nell'ambito della quale il versamento del danaro, da parte del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, ed il trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute. La predetta vendita, infatti, in quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con patto commissario, piuttosto che dalla causa di scambio propria della vendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato dall'art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed esprime, perciò, una causa illecita che rende applicabile, all'intero contratto, la sanzione dell'art. 1344 c.c. Cassazione civile, Sez. VI, Ord., 12.10.2011, n. 20956 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 14 Svolgimento del processo Il relatore della sezione ha depositato in Cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell'art. 380 bis c.p.c.: "Con atto di citazione notificato il 17-4-1993 C.S. conveniva dinanzi al Tribunale di Roma I.M., per sentir dichiarare la nullità dell'atto di compravendita per notaio Perrotta del 5-8-2007, perchè simulato e illecito, in quanto volto ad eludere il divieto del patto commissorio. L'attore chiedeva altresì che venisse riconosciuto il suo diritto di proprietà sull'appartamento oggetto del predetto contratto, invocando in via subordina il riconoscimento in suo favore del relativo acquisto per usucapione, in virtù del possesso continuato e indisturbato per oltre venti anni. Nel costituirsi, la convenuta contestava la fondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto. Il Tribunale adito, con sentenza depositata il 16-1-2003, rigettava la domanda. Con sentenza depositata il 3-3-2010 la Corte di Appello di Roma, in accoglimento dell'appello proposto da C.D., C. T., C.M. e B.I., quali eredi di C. S., nei confronti di I.C., erede di I. M., dichiarava la nullità dell'atto di compravendita per notaio Perrotta del 5-8-2007 e, conseguentemente, dichiarava gli appellanti, nella qualità, proprietari dell'immobile oggetto di tale contratto. Per la cassazione di tale sentenza ricorre I.C., sulla base di un unico motivo. C.D., C.T., C.M. e B. I. resistono con controricorso. Rileva in diritto. Con l'unico motivo il ricorrente, denunciando la violazione degli artt. 2744 e 1963 c.c., l'erronea valutazione della prova ex art. 116 c.p.c. e l'insufficienza, contraddittorietà ed erroneità della motivazione su fatti decisivi della controversia, sostiene che nella specie, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, non si è in presenza di un contratto simulato, ma di una vera compravendita con patto di riscatto, nella quale il venditore si è riservato il diritto di riavere la proprietà del bene alienato mediante la restituzione del prezzo, delle spese e degli interessi. Fa altresì presente che, contestualmente alla vendita, tra le parti è stato stipulato un contratto di locazione che ha consentito al C. di continuare ad abitare nello stesso immobile alienato all' I., dietro pagamento di un canone. Il ricorso è inammissibile. La Corte di Appello, sulla base degli elementi acquisiti, ha accertato, con apprezzamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, che il contratto di compravendita dell'appartamento per cui è causa, pur se ad effetti apparentemente immediati, è stato stipulato a scopo di garanzia, con il fine specifico di attribuire l'immobile al creditore acquirente soltanto nel caso d'inadempimento, da parte del debitore venditore, dell'obbligazione di restituire la somma prestatagli. Essa ha dato un'adeguata e logica motivazione di tale convincimento, ponendo in evidenza una serie di indizi (quali la mancata prova del versamento del prezzo da parte dell'acquirente; la sostanziale ammissione resa in sede d'interrogatorio formale da I.M. circa il prestito elargito al C., per la cui concessione quest'ultimo era stato costretto a stipulare con immediatezza il contratto di compravendita della sua casa di abitazione; la mancata richiesta di verificazione, da parte della convenuta, della sottoscrizione apposta sul contratto di locazione prodotto in giudizio, disconosciuta dall'attore, e la conseguente inutilizzabilità di tale atto; la mancata dimostrazione, da parte dell'attore, del pagamento di canoni di locazione da parte del C., © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 15 rimasto nella disponibilità dell'appartamento) sintomatici della esclusiva finalità di garanzia dell'adempimento dell'obbligazione contratta dal C. nei confronti dell' I., perseguita dalle parti attraverso la stipulazione dell'atto pubblico di vendita e della contestuale sottoscrizione di una convenzione avente ad oggetto il patto di retrocessione. Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ritenuto la nullità del contratto in questione, in quanto posto in essere in violazione del divieto del patto commissario sancito dall'art. 2744 c.c., e, conseguentemente, affetto da causa illecita. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, infatti, il divieto del patto commissario, sancito dall'art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, ancorchè di per se astrattamente lecito, che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato dall'ordinamento, di assoggettare il debitore all'illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un suo bene, quale conseguenza della mancata estinzione di un debito (v., tra le tante, Cass. 12-1-2009 n. 437; Cass. 11-6-2007 n. 13621; Cass. 19-5-2004 n. 9466; Cass. 2, 20-7-1999 n. 7740). In particolare, è stato puntualizzato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia (piuttosto che per una causa di scambio), nell'ambito della quale il versamento del danaro, da parte del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, ed il trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute. La predetta vendita, infatti, in quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con patto commissario, piuttosto che dalla causa di scambio propria della vendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato dall'art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed esprime, perciò, una causa illecita che rende applicabile, all'intero contratto, la sanzione dell'art. 1344 c.c. (Cass. 4-31996 n. 1657; Cass. 20-7-2001 n. 9900; Cass. 8-2-2007 n. 2725). Nel caso in esame la Corte territoriale ha accertato la sussistenza di una fattispecie rispondente allo schema negoziale indiretto sopra descritto, avendo dato atto che il versamento del denaro da parte dell'acquirente non aveva costituito il pagamento del prezzo, ma l'adempimento di un mutuo, e il trasferimento del bene era stato previsto in funzione di garanzia, per il caso di mancata restituzione della somma mutuata. Sussistendo, pertanto, l'illiceità dell'operazione negoziale, che si è risolta nella sovrapposizione e sostituzione, alla funzione di scambio tipica del contratto di compravendita, di quella di garanzia dell'adempimento dell'obbligazione pecuniaria, legittimamente è stata ritenuta la nullità del contratto. La validità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di appello non può essere inficiata dalle deduzioni svolte dal ricorrente, con le quali, in buona sostanza, vengono proposte mere censure di merito, basate su una ricostruzione della vicenda alternativa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata. In tal modo, si sollecita a questa Corte una diversa valutazione in fatto delle emergenze processuali, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità. L'accertamento della effettiva volontà delle parti e della concreta portata dell'atto dalle stesse posto in essere, infatti, è compito esclusivo del giudice di merito, che nella specie ha fondato il proprio giudizio su argomentazioni esaustive ed immuni da vizi logici. Il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 c.p.c.". © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 16 La relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata alle parti costituite. Il ricorrente ha depositato una memoria ex art. 378 c.p.c.. Motivi della decisione Il Collegio, all'esito della discussione, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione, ai quali non sono stati opposti validi argomenti nella memoria difensiva depositata dal ricorrente. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge. Non sussiste patto commissorio laddove non emerga la previsione di un automatismo traslativo del bene, ma sia il giudice a permetterlo. Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 14.9.2012, n. 15449 Svolgimento del processo 1. Con contratto del 18 luglio 1996 la s.p.a. Saffi - Società fiduciaria finanziaria italiana concesse in mutuo alla s.r.l. Formificio Forlivese la somma di lire 100 milioni con piano di ammortamento in rate bimestrali per ventiquattro mesi, garantito dalla dazione in pegno di una quota pari all'84,21% del capitale sociale della CMC Plastici s.r.l., per un valore di lire 80 milioni, della quale la mutuataria era titolare. Nell'agosto 1997, non avendo la Formificio Forlivese - nel frattempo posta in liquidazione provveduto al pagamento dei primi due ratei di rimborso, la Saffi s.p.a. la convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano per sentir disporre l'assegnazione ad essa mutuante, in pagamento dell'intero debito restitutorio, della quota sociale data in pegno dalla mutuataria, in attuazione della espressa clausola contrattuale che prevedeva tale diritto. La società convenuta si costituì deducendo che aveva inutilmente tentato il versamento della somma dovuta, provvedendo anche ad offerta reale; chiese quindi l'accertamento dell'avvenuto adempimento e della liberazione di essa debitrice - oltre allo svincolo della quota sociale data in pegno - con condanna della controparte al risarcimento dei danni. Nel giudizio, riunito ad altro promosso dalla Formificio Forlivese per la convalida dell'eseguita offerta reale di lire 112 milioni, intervennero volontariamente C.G. - acquirente delle quote corrispondenti all'intero capitale sociale della CMC Plastici srl - per aderire alla posizione della Formificio Forlivese, e la s.r.l. Bianco Fiduciaria di revisione, cessionaria del credito fatto valere da Saffi s.p.a.. Il Tribunale, espletata c.t.u. ai fini della determinazione della somma dovuta e del valore della quota sociale data in pegno, ritenne inammissibile la questione di nullità del contratto di mutuo - in quanto sollevata tardivamente dalla Formificio Forlivese e dal C., peraltro sulla base di documentazione tardivamente depositata -, ma rigettò la domanda della Saffi s.p.a. (e della cessionaria Bianco s.r.l.) per avere la stessa abusato del suo diritto, ponendo in essere una condotta volta ad impedire alla debitrice l'adempimento. Rigettò anche la domanda di convalida dell'offerta reale della Formificio Forlivese perchè la somma offerta era, sia pure in misura lieve (poco più di un milione di lire), inferiore al dovuto. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 17 Interposto appello da parte sia della Bianco s.r.l. sia della Formificio Forlivese s.r.l., e riuniti gli appelli, la Corte di Milano, con sentenza depositata il 15 febbraio 2006, ha ammesso la questione di nullità del contratto di mutuo pignoratizio in questione ed i documenti prodotti al riguardo, ed ha accertato tale nullità, per illiceità della causa. In tal senso, premesso che il contratto era intercorso in sostanza tra M.M., quale amministratore della società mutuataria, ed il medesimo, quale mandante (e fornitore della provvista) della fiduciaria mutuante Saffi in base a scrittura privata in atti, ha osservato che tale contratto non era diretto a svolgere l'obiettiva funzione sociale che lo contraddistingue (anche perchè non risultava neppure prospettata la ragione del finanziamento, in un contesto nel quale la società era priva di qualsiasi operatività e dei mezzi per restituire la somma mutuata), bensì la diversa funzione, perseguita dal M., di sottrarre alla proprietaria Formificio Forlivese la quota sociale data in pegno, finalità vietata dall'ordinamento perchè in violazione tanto degli obblighi propri dell'amministratore di società di capitali quanto della funzione propria del pegno, che non è quella di acquisizione diretta della proprietà del bene dato in garanzia. Obiettivo, questo, che risultava perseguito nella specie attraverso una condotta, tenuta da Saffi s.p.a. (evidentemente conforme alle direttive ricevute dal mandante M.), di astensione dall'intimare alla debitrice il pagamento del debito, negandole poi ogni collaborazione per consentirle di provvedervi. Avverso tale sentenza, notificata il 27 marzo 2006, hanno proposto distinti (ancorchè di identico contenuto) ricorsi a questa Corte la Saffi s.p.a. e la cessionaria Bianco s.r.l. Resistono con controricorsi la Formificio Forlivese s.r.l. e C.G., il quale ha altresì proposto ricorso incidentale. Motivi della decisione 1. Deve, innanzitutto, disporsi la riunione dei ricorsi in esame, in quanto proposti avverso la medesima sentenza. 2. Quanto ai due ricorsi principali, essi si basano su quattro motivi, tutti diretti a censurare le statuizioni della sentenza di appello aventi ad oggetto l'illiceità del contratto di mutuo pignoratizio in questione. Con il primo motivo si denuncia la violazione delle norme di diritto in materia di nullità dei contratti per illiceità della causa, sostenendo che la Corte avrebbe disapplicato il principio secondo cui i motivi o moventi soggettivi (nella specie del M., dominus effettivo dell'operazione), che non siano esteriorizzati in una condizione o patto, sono elementi estranei al contratto e ininfluenti ai fini del giudizio sulla illiceità dello stesso, salva l'ipotesi distinta di illiceità dei motivi. Con il secondo motivo si denuncia l'omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione: la Corte avrebbe tratto il suo convincimento in merito alla illiceità della causa presupponendo, senza considerare alcune circostanze di segno contrario, che la mutuataria non avesse alcuna valida ragione per chiedere un finanziamento. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, per avere la Corte identificato nella violazione dei doveri in capo agli amministratori di società una ragione di nullità del contratto per illiceità della causa: si sostiene che non esiste nell'ordinamento una norma che preveda in via generale l'invalidità del contratto stipulato in frode ai terzi, bensì norme che accordano diversi rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio (azione revocatoria, azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore, azione di annullamento del contratto per conflitto di interessi del rappresentante), salve ipotesi di particolare disvalore, sanzionate anche penalmente (art. 2642 c.c.). Con il quarto motivo, si denuncia l'omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione circa la esistenza di un preordinato inadempimento della Formificio Forlivese al piano di ammortamento, con conseguente trasferimento della quota della CMC alla Saffi e quindi al M.. 3. Con il ricorso incidentale, il C. censura, sotto il profilo dell'insufficienza e contraddittorietà della motivazione, la conferma da parte della Corte della statuizione (negativa per il ricorrente) sulle spese del giudizio di primo grado, nonostante l'accoglimento del gravame da lui proposto e la condanna delle controparti al rimborso in suo favore delle spese del giudizio di secondo grado. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 18 4. Le doglianze espresse con i ricorsi principali, attesa la loro connessione, possono essere esaminate congiuntamente, e meritano accoglimento, nei limiti delle considerazioni che seguono. 4.1. Invero, il tema su cui focalizzare l'attenzione non attiene alla pacifica distinzione tra i motivi soggettivi, o intendimenti particolari che ciascuna parte si propone di realizzare, e la causa quale obiettiva funzione economico - sociale del contratto. Posto che l'indagine su tale elemento essenziale del contratto va svolta non "in astratto" ma "in concreto", onde verificare - secondo il disposto degli artt. 1343 e 1344 c.c. - la conformità a legge dell'attività negoziale posta in essere dalle parti e quindi la riconoscibilità nella specie della tutela apprestata dall'ordinamento giuridico (cfr. ex multis Sez. 1 n. 1898/2000; Sez. 3 n. 5324/03; Sez. 1 n. 3646/09), una siffatta indagine in ordine alla funzione obiettiva del negozio posto in essere non può prescindere dall'apprezzamento degli interessi che lo stesso è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla sua conclusione) secondo la valutazione, riservata al giudice del merito, del materiale probatorio acquisito. E, ove da tale indagine risulti che le parti abbiano utilizzato un determinato modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva che sia non solo diversa da quella per la quale tale strumento giuridico è previsto dalla legge ma anche in contrasto con norme imperative (ciò che caratterizza l'illiceità della causa), il giudice deve negare al negozio posto in essere dalle parti la tutela apprestata dall'ordinamento. 4.2. Tuttavia in tale prospettiva - nella quale sembra muoversi la Corte milanese - riveste rilevanza decisiva la chiara indicazione delle norme imperative la cui violazione risulti perseguita nel contratto in esame: ed è su questo punto che la motivazione della sentenza impugnata si mostra carente, atteso che in essa è dato solo rinvenire alcuni generici riferimenti del tutto inidonei a sostenere la conclusione cui la Corte è giunta. Ciò vale, in primo luogo, per il riferimento alla violazione (che sarebbe realizzata dalla appropriazione da parte del M. della partecipazione in CMC) degli obblighi, gravanti sugli amministratori delle società di capitali, di conservazione del patrimonio sociale, violazione che è piuttosto fonte di responsabilità a carico degli amministratori, per la quale la legge appresta in favore dei soggetti titolari degli interessi lesi mezzi tipici di reazione. Analogamente, deve ritenersi inidoneo ad individuare una violazione di norma imperativa la elusione della norma che vieta al rappresentante di acquistare beni del rappresentato, atteso che anche per tale condotta in conflitto di interessi l'ordinamento appresta in favore del rappresentato uno specifico rimedio, costituito dall'azione di annullamento del contratto concluso dal rappresentante. Quanto, poi, alla evidenziata deviazione dalla funzione di garanzia propria del pegno, con attribuzione a tale negozio della diversa funzione di strumento di acquisizione diretta da parte del creditore della proprietà del bene dato in garanzia, va osservato che, ove in tal modo si intendesse far riferimento alla violazione del divieto del patto commissorio previsto dall'art. 2744 c.c., tale riferimento sarebbe nella specie inappropriato, attesa la specifica clausola del contratto che, contrariamente all'automatismo traslativo che caratterizza il patto commissorio, prevedeva il ricorso al giudice (del quale la Saffi si è per l'appunto avvalsa) per l'assegnazione al creditore del bene dato in garanzia. 4.3. In definitiva, l'impianto motivazionale sulla illiceità della causa concreta perseguita con il negozio in esame risulta vulnerato dal difetto di una chiara e specifica individuazione ed esplicazione circa l'elemento decisivo costituito dal contrasto tra lo scopo obiettivamente perseguito con il negozio in esame ed il disposto di norme imperative. La cassazione sul punto della sentenza impugnata si impone dunque (restando assorbito il ricorso incidentale), con il rinvio della causa alla Corte territoriale, la quale provvederà anche a regolare le spese di questo giudizio di cassazione. P.Q.M. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 19 La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso della Saffi s.p.a. e della Bianco s.r.l., dichiara assorbito il ricorso incidentale del C.; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione. La convenzione intercorsa tra due parti, avente ad oggetto un primo contratto di vendita di un immobile di proprietà, con versamento di una parte del prezzo pattuito in denaro e di altra parte mediante accollo di mutui ipotecari contratti dal venditore, un contestuale contratto di locazione, per mezzo del quale l'acquirente loca lo stesso immobile al venditore, ed una successiva scrittura privata avente ad oggetto un patto di opzione con riconoscimento in favore dell'alienante della facoltà di riacquistare la proprietà dell'immobile oggetto di alienazione dietro versamento di un prezzo di poco superiore a quello pattuito per la vendita, non integra gli estremi del patto commissorio vietato ai sensi dell'art. 2744 c.c. Nella descritta ipotesi, invero, non è ravvisabile il presupposto fondamentale della fattispecie contemplata dalla richiamata norma, ovvero la esistenza di una situazione di debito del venditore nei confronti dell'acquirente, preesistente o coeva alla vendita, in quanto elemento imprescindibile affinché la vendita realizzi una forma di garanzia impropria, sanzionata con la nullità per violazione del divieto del patto commissorio posto dall'art. 2744 c.c Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-02-2012, n. 1675 Svolgimento del processo 1. - Con atto di citazione notificato il 3 gennaio 2001, la Ma.El. s.r.l. convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli, la General Trade Group s.r.l. per sentire dichiarare la nullità dell'atto di vendita per notar Milone di Napoli in data 30 dicembre 1998, del contratto di locazione del 30 dicembre 1998 e del patto di opzione al riacquisto anch'esso del 30 dicembre 1998, perchè stipulati in frode alla legge, in violazione degli artt. 1344 e 2744 cod. civ.. Espose la società di avere alienato alla convenuta, con il citato atto pubblico, l'immobile di sua proprietà sito in (OMISSIS), per il prezzo di L. 2.600.000.000; che il prezzo pattuito era stato in parte corrisposto dall'acquirente General Trade Group contestualmente alla stipula dell'atto pubblico di compravendita e, per il residuo, mediante accollo da parte dell'acquirente di mutui ipotecari contratti dalla Ma.El. s.r.l. con la Icle s.p.a. e con l'Isveimer s.p.a.; che unitamente alla stipula del contratto di compravendita era stato sottoscritto, nella stessa data e tra le stesse parti, un contratto di locazione, con cui l'acquirente aveva locato alla venditrice l'immobile oggetto del primo contratto; che con diversa scrittura privata la General Trade Group s.r.l. aveva stipulato con la Ma. El. un patto di opzione, in base al quale era stata riconosciuta a quest'ultima la facoltà di riacquistare la proprietà dell'immobile oggetto della compravendita contro il versamento della somma delle vecchie L. 2.800.000.000, oltre all'IVA, cifra da rivalutarsi in base ad un tasso annuo pari all'8%. Tanto premesso, l'attrice concluse per l'accoglimento delle seguenti conclusioni: (a) accertare il collegamento negoziale tra il contratto di compravendita, il contratto di locazione ed il patto di opzione; (b) accertare che l'effetto realizzato dal complesso delle predette pattuizioni non era quello di pattuire un prezzo come corrispettivo di una compravendita, bensì quello di mutuare una somma, costituendo allo stesso tempo una garanzia reale in favore del mutuante, garanzia rappresentata dal trasferimento dell'immobile; (c) dichiarare, quindi, la nullità dei contratti, perchè in frode alla legge, e condannare la convenuta alla restituzione dei canoni di locazione. Si costituì la convenuta, resistendo, ed in via subordinata chiedendo, a mezzo di riconvenzionale e per l'ipotesi di accoglimento della domanda dell'attrice, la condanna della Ma.El. alla restituzione delle somme indebitamente ricevute. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 20 Il Tribunale adito, con sentenza depositata in data 20 gennaio 2005, rigettò la domanda della Ma.El. 2. - La Corte d'appello di Napoli, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 5 febbraio 2010, ha respinto il gravame della Ma.El. 2.1. - La Corte territoriale ha premesso che la domanda di nullità di una compravendita, finalizzata alla configurabilità di un patto commissorio, non può prescindere dalla dimostrazione dell'esistenza tra le parti di un accordo preventivo, in virtù del quale, da un lato, il debitore consenta che il trasferimento del bene sia la conseguenza della mancata estinzione del debito e, dall'altro lato, il creditore realizzi un arricchimento ingiustificato in danno della controparte. Nella specie - ha rilevato la Corte partenopea - la società appellante non ha dimostrato il preesistente rapporto obbligatorio con l'acquirente General Trade Group nè, tanto meno, il preesistente contratto di mutuo e la debolezza economica della predetta alienante. Con l'operazione economica intervenuta - ha sottolineato la Corte d'appello - è stato realizzato l'interesse sia della Ma.El, quale alienante, a conservare la conduzione dell'immobile al fine di salvaguardare il proprio avviamento commerciale, sia l'interesse della General Trade Group, quale acquirente, ad ottenere un corrispettivo per la locazione. Nè è stata accertata alcuna sproporzione tra il valore del bene ed il corrispettivo versato dall'acquirente. 3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello la Ma.El. ha proposto ricorso, con atto notificato il 5 luglio 2010, sulla base di tre motivi. L'intimata General Trade Group ha resistito con controricorso. Motivi della decisione 1. - Con il primo motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento all'art. 360 cod. proc. civ., n. 5) la società ricorrente lamenta che la Corte d'appello abbia confermato in fatto ed in diritto l'impianto della sentenza di primo grado, anche in punto di inquadramento dell'operazione negoziale in un contratto di sale and lease back, senza motivare sui rilievi mossi dall'appellante, in particolare circa il fatto che la General Trade Group non era una società finanziaria di leasing e che l'oggetto sociale della medesima prevedeva soltanto la possibilità di stipulare esclusivamente locazioni non finanziarie. Ad avviso della ricorrente, "se la sentenza di appello ha condiviso la ricostruzione giuridica del giudice di primo grado, avrebbe necessariamente dovuto motivare sui motivi di appello in ordine alla natura del contratto di leasing (finanziario o operativo), del canone di locazione da intendersi o meno come compenso per l'uso del bene o piuttosto restituzione rateale delle somme mutuate, sulla natura del prezzo di riscatto che cumulato con i canoni oltre all'8% di rivalutazione annua avrebbe difatti reso oltremodo gravoso, usurario ed impossibile per la venditrice il riacquisto dell'immobile". Con il secondo mezzo (violazione o falsa applicazione degli artt. 1344, 1345, 1418 e 2744 cod. civ., dell'art. 106 T.U. leggi in materia bancaria e creditizia, dell'art. 1421 cod. civ. in relazione all'art. 644 cod. pen., dell'art. 1362 cod. civ., e segg., in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell'art. 2721 cod. civ.) si sostiene che il divieto di patto commissorio, sancito dall'art. 2744 cod. civ., si estende a qualunque negozio, quale che sia il contenuto, che venga impiegato per conseguire il risultato concreto vietato dall'ordinamento, dell'illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di proprietà di un bene, con conseguente estinzione del debito. Ad avviso della ricorrente, l'accertamento delle condizione di debolezza del venditore si può ricavare anche per presunzioni o tenuto conto della esposizione debitoria del medesimo di cui l'acquirente dell'immobile si renda accollatario al momento © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 21 dell'acquisto del bene, costituendo l'opzione di riacquisto in favore del venditore, qualora chiaramente sproporzionata rispetto al prezzo pattuito al momento della cessione del bene, sintomo della coercizione a carico dell'originario venditore ed elemento utile alla qualificazione dei negozi intercorsi tra le parti. Inoltre, qualora il giudice ritenga la sussistenza tra le parti di una fattispecie negoziale di sale and lease back, nel caso in cui la parte finanziata lamenti la eccessiva onerosità per il superamento del tasso soglia ai sensi della L. 7 marzo 1996, n. 108, e dell'art. 640 cod. pen., dovrebbe essere dichiarata la nullità dei negozi intercorsi tra le parti per violazione di norma imperativa: sotto questo profilo, anche la circostanza che la parte finanziata non possa accedere al credito stante la preesistenza di ipoteche sul bene compravenduto a fini di garanzia per l'estinzione di debiti preesistenti anche nei confronti di terzi, costituirebbe elemento per la sussistenza della fattispecie vietata del patto commissorio di cui all'art. 2744 cod. civ.. Infine, la ricorrente sostiene che il contratto di sale and lease back o vendita con locazione di ritorno sarebbe nullo per frode al divieto di patto commissorio ogni qualvolta si riscontrino anomalie idonee a snaturarne la funzione socialmente tipica e a rivelarne lo scopo di garanzia, come ad esempio nel caso in cui il prezzo venga utilizzato a scopo di sostegno finanziario alla società venditrice o non venga erogato come nel caso di mero accollo di mutui pregressi della venditrice e di estinzione di pregresse esposizioni della venditrice nei confronti della locataria acquirente. Il terzo motivo denuncia "violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in relazione all'art. 1362 c.c., e segg., artt. 2744 e 2721 cod. civ., nonchè omessa ed erronea valutazione delle prove documentali ed in particolare del patto di opzione del 30 dicembre 1993 e della transazione del 22 dicembre 2008, agli atti del giudizio di appello". Con esso si sostiene che il giudice d'appello dovrebbe poter ricavare argomenti di prova "anche dai documenti prodotti da una delle parti per dimostrare la eventuale cessata materia del contendere al fine di ricavare, come nella fattispecie dedotta in giudizio, la sussistenza della condotta dell'acquirente finanziatore volta ad eludere il divieto di cui all'art. 2744 cod. civ., condotta sussistente anche qualora la volontà del venditore a formalizzare la vendita con scopi di garanzia si sia formata con il concorso dello stesso acquirente socio di maggioranza della società venditrice". 2. - I tre motivi - i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente - sono infondati. 2.1. - Incorre nella sanzione della nullità per violazione del divieto del patto commissorio posto dall'art. 2744 cod. civ. la convenzione mediante la quale le parti abbiano inteso costituire, con un determinato bene, una garanzia reale in funzione di un mutuo, i- stituendo un nesso teleologico o strumentale tra la vendita del bene ed il mutuo, in vista del perseguimento di un risultato finale consistente nel trasferimento della proprietà del bene al creditore- acquirente nel caso di mancato adempimento dell'obbligazione di restituzione del debitore-venditore. L'art. 2744 cod. civ. costituisce infatti una norma materiale, destinata a trovare applicazione non soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente condizionate all'inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative risolutivamente condizionate all'adempimento del debitore (Cass., Sez. Un., 3 aprile 1989, n. 1611). Detta norma esprime un divieto di risultato, mirando a difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore, assicurando nel contempo la garanzia della par condicio creditorum. E' tale risultato che giustifica il divieto di legge, non i mezzi impiegati: con la conseguenza che, ove, sulla base della corretta qualificazione della fattispecie, il versamento del denaro non costituisca il pagamento del prezzo, ma l'esecuzione di un mutuo e il trasferimento del bene non integri l'attribuzione al compratore, bensi l'atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, manca la funzione di scambio tipica del contratto di compravendita e si realizza proprio il negozio vietato dalla legge (Cass., Sez. 2^, 8 febbraio 2007, n. 2725; Cass., Sez. 2^, 12 gennaio 2009, n. 437; Cass., Sez. 2^, 10 marzo 2011, n. 5740). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 22 Perchè la vendita realizzi una forma di garanzia impropria occorre quindi, tra l'altro, l'esistenza di una situazione di debito del venditore nei confronti dell'acquirente, preesistente o coeva alla vendita. Nella specie, la Corte d'appello ha rilevato che nella specie difetta proprio tale presupposto, necessario perchè l'operazione incorra nel divieto del patto commissorio. Il giudice del merito ha anche escluso tanto la sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato e, più in generale, tra le reciproche obbligazioni nascenti dal rapporto, quanto l'approfittamento da parte dell'acquirente della situazione dell'alienante. Non essendo stata fornita la prova dell'esistenza coeva o precedente di un'obbligazione dell'alienante verso l'acquirente, correttamente la Corte territoriale ha escluso che il trasferimento immobiliare fosse destinato a sovrapporsi all'inadempimento di un rapporto obbligatorio. Si è trattato, infatti, di una vendita "isolata" con patto di opzione, dettata da esigenze di finanziamento, nella quale - ha rilevato la Corte d'appello, con logico e motivato apprezzamento delle risultanze di causa - manca, tra l'altro, qualsiasi sproporzione tra il valore del bene ed il corrispettivo versato, essendo il prezzo pagato dall'acquirente congruo rispetto ai valori indicati nella perizia giurata effettuata in base alla richiesta della stessa Ma.El. e costituendo l'accollo dei mutui una modalità di adempimento dell'obbligazione di pagamento del prezzo. Dalla sentenza impugnata risulta altresì che l'equilibrio tra le prestazioni dei contraenti non è risultato alterato per effetto della stipulazione del contratto di locazione, perchè con detta pattuizione è stato realizzato l'interesse sia della Ma.El. (quale alienante) a conservare la conduzione dell'immobile al fine di salvaguardare il proprio avviamento commerciale, sia l'interesse della General Trade Group ad ottenere un corrispettivo per la locazione. Inoltre, escludendo la sussistenza di una più generale sproporzione tra le reciproche obbligazioni nascenti dall'intero rapporto, la Corte territoriale, ponendosi in continuità con l'accertamento compiuto dal Tribunale, ha - implicitamente ma chiaramente - negato che il corrispettivo pattuito per l'esercizio del diritto pote- stativo di opzione in capo all'alienante fosse di entità tale da determinare un'alterazione degli equilibri contrattuali o una sopraffazione di una parte a danno dell'altra. Le verifiche compiute dal giudice del merito per escludere la frode dimostrano che la Corte di Napoli non si è fermata ad un'indagine formale dei tre atti in questione (il contratto di vendita, il contratto di locazione ed il patto di opzione), ma ha compiuto una valutazione penetrante e d'insieme, apprezzando ogni circostanza di fatto relativa alle pattuizioni intervenute e al risultato concreto che l'operazione negoziale nel suo complesso era idonea a produrre. 2.2. - Anche le ulteriori censure articolate con i motivi non colgono nel segno: la doglianza relativa alla mancata iscrizione dell'acquirente nell'albo degli intermediari finanziari autorizzati, previsto dall'art. 106 T.U. leggi in materia bancaria e creditizia (approvato con il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385), introduce nella controversia un tema d'indagine nuovo, che dal testo della sentenza impugnata non consta abbia costituito oggetto del thema decidendum nei gradi di meritoria critica consistente nel non avere la sentenza d'appello preso in considerazione la censura, rivolta alla sentenza di primo grado, relativa al discostarsi dell'operazione da un vero e proprio contratto di leasing o di sale and lease back, è priva di decisività e di pertinenza, perchè non tiene conto del fatto che la Corte territoriale ha ampiamente motivato sia sull'insussistenza di uno scopo di garanzia alla base della concreta operazione, sia sulla mancanza degli altri indici sintomatici della frode (la sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato e, più in generale, delle reciproche obbligazioni nascenti dal rapporto) (cfr. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 23 Cass., Sez. 3^, 16 ottobre 1995, n. 10805; Cass., Sez. 3^, 21 gennaio 2005, n. 1273; Cass., Sez. 3^; 14 marzo 2006, n. 5438; Cass., Sez. 3^, 22 marzo 2007, n. 6969); il riferimento alìusurarietà dell'operazione negoziale contrasta con la valutazione di complessivo equilibrio della stessa formulato dalla Corte d'appello, e muove da una lettura delle pattuizioni negoziali già smentita dal primo giudice, il quale aveva evidenziato come la prevista liberazione per l'intero della General Trade dall'accollo dei mutui era stata stipulata per la sola ipotesi in cui il diritto di opzione fosse stato esercitato in epoca anteriore all'estinzione dei debiti stessi, cosicchè ove l'acquirente fosse stata liberata dagli accolli, il relativo importo avrebbe dovuto essere detratto dal prezzo di opzione; in ogni caso, detta censura non considera che la nullità per usurarietà dell'intera operazione era stata oggetto di una diversa azione giudiziaria, promossa dinanzi al Tribunale di Salerno dalla curatela del fallimento della Ma.El. s.r.l. nei confronti della General Trade: domanda non solo rigettata da quel giudice, ma anche oggetto, successivamente, della transazione in data 22 dicembre 2008, con la quale la curatela, a ciò debitamente autorizzata, ha riconosciuto "la piena legittimità e liceità" dell'atto di compravendita notar Milone del 30 giugno 1998 nonchè del contratto di locazione e del patto di opzione di pari data. 3. - Il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 6.000,00 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge. La procura a vendere un immobile, conferita dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione del mutuo, può integrare la violazione del divieto del patto commissorio, qualora si accerti che tra il mutuo e la procura sussista un nesso funzionale. Tale accertamento è demandato al giudice di merito, il quale tuttavia, nel compierlo, non deve limitarsi ad un esame formale degli atti posti in essere dalle parti, ma deve considerarne la causa in concreto, e, in caso di operazione complessa, valutare gli atti medesimi alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale, apprezzando ogni circostanza di fatto rilevante ed il risultato stesso che l'operazione negoziale era idonea a produrre e, in concreto, ha prodotto. Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-03-2011, n. 5740 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ODDO Massimo - Presidente © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 24 Dott. BURSESE Gaetano Antonio - Consigliere Dott. MIGLIUCCI Emilio - Consigliere Dott. MANNA Antonio - Consigliere Dott. BERTUZZI Mario - rel. est. Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: V.G., residente in (OMISSIS), rappresentato e difeso per procura a margine del ricorso dall'Avvocato Pacchioli Roberto, elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avvocato Aniello Costanza in Roma, via Tacito n. 23; - ricorrente - contro G.I. e C.M.R., rappresentati e difesi per procura a margine del controricorso dagli Avvocati Gentile Reno e Spadafora Giorgio, elettivamente domiciliati presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via Panama n. 88; - controricorrenti e Ch.Va., rappresentato e difeso dagli Avvocati Giuffrè Bruno e David Marino per procura in calce al controricorso e dall'Avvocato Paolo Vitali per procura speciale autenticata per atto del dott. Artidoro Solaro, notaio in Nerviano, in data 30 aprile 2008, elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via XX Settembre n. 1; - controricorrente avverso la sentenza n. 1112 della Corte di appello di Milano, depositata il 26 aprile 2005; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25 gennaio 2011 dal consigliere relatore dott. Mario Bertuzzi; udite le difese svolte dall'avv. Francesco Cerasi per delega dell'Avv. Bruno Giuffrè per il contro ricorrente Ch. V.; udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha chiesto il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo V.G., premesso di essere debitore in forza di un rapporto usuraio di G.S., a cui aveva conferito una procura a vendere un proprio immobile sito in (OMISSIS), procura che il creditore aveva effettivamente utilizzato trasferendo fittiziamente il bene alla propria moglie C.M. R. con atto stipulato a mezzo del notaio Ch.Va. in data 6 maggio 1998, convenne dinanzi al Tribunale di Milano © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 25 G.I., C.R.M. e Ch.Va., chiedendo che L'atto di compravendila fosse dichiarato nullo per violazione del divieto del patto commissorio ovvero, in subordine, che venisse annullato, previa dichiarazione che esso era affetto da simulazione relativa, ai sensi dell'arT. 1395 cod. civ., in quanto contratto dal rappresentante con se stesso, o, in ulteriore subordine, che il G. fosse condannato a versargli il prezzo della vendita, pari all'importo di l. 280.000.000; chiese inoltre che il notaio rogante la compravendita fosse condannato al risarcimento del danno per avere incluso nell'atto anche il cortile antistante l'immobile, bene che non era compreso nella procura da lui rilasciata. Si costituirono in giudizio i convenuti opponendosi alle domande contro di loro rispettivamente proposte e i coniugi G.I. e C.M.R. chiedendo altresì, in via riconvenzionale, la condanna dell'attore alla restituzione del debito di L. 280.000.000. Il giudice di primo grado, disattese nel corso dell'istruttoria le richieste di prove orali avanzate dalle parti, respinse la domanda principale di nullità del contratto di compravendita per violazione delle divieto di patto commissorio e quella avanzata dall'attore nei confronti del notaio Ch.; accolse invece quella di annullamento della compravendita ai sensi dell'art. 1395 cod. civ., previa dichiarazione di simulazione del contratto, nonchè la domanda riconvenzionale dei convenuti G. e C., condannando l'attore al pagamento della somma richiesta, oltre interessi legali dalla data del 14 maggio 1996 al saldo. Interposto gravame da parte del solo V., con sentenza n. 1112 del 26 aprile 2005 la Corte di appello di Milano confermò in toto la decisione impugnata, affermando, con riferimento alla riproposta domanda di nullità della compravendita ex art. 2744 cod. civ., che, nella specie, difettavano i presupposti del patto commissorio, per insussistenza di un nesso di interdipendenza tra l'assunzione del debito e la procura a vendere l'immobile, atteso che quest'ultima, nelle intenzioni delle parti, era destinata non già a realizzare il trasferimento della proprietà del bene in capo al creditore nel caso di inadempimento del debito, ma di consentire la vendita del bene a prezzo di mercato, con obbligo del creditore di versare al debitore la differenza in caso di realizzo ad un prezzo superiore al debito stesso; in relazione all'accoglimento della domanda riconvenzionale, il giudice di secondo grado ritenne invece che non era stata data la prova nè degli interessi usurari nè della eccepita restituzione del debito, confermando la valutazione del primo giudice di inammissibilità delle prove orali articolate dalla parte attrice su questi punti; ritenne infine infondato il gravame avverso il rigetto della domanda proposta dal V. nei confronti del notaio Ch., assumendo che l'accoglimento della domanda di annullamento del contratto da questi rogato determinava il venir meno dell'interesse ad affermare l'eventuale responsabilità del professionista ed all'accertamento dell'eventuale danno conseguente. Per la cassazione di questa decisione, notificata il 17 maggio 2005, con atto notificato il 5 e 6 luglio 2005, ricorre V.G., affidandosi a cinque motivi. Con distinti controricorsi resistono in giudizio sia G. I. e C.R.M., che Ch.Va.. Il ricorrente ed il controricorrente Ch. hanno depositato memorie. Motivi della decisione Il primo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 1418, 1344 e 2744 cod. civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto essenziale della controversia, censurando la sentenza impugnata per avere respinto la domanda di nullità del contratto di compravendita per violazione del divieto del patto commissario. Ad avviso del ricorso il giudice territoriale è pervenuto a questa conclusione in forza di una non corretta interpretazione del divieto sancito dall'art. 2744 cod. civ., il quale va esteso ad ogni atto negoziale che abbia il fine di far conseguire al creditore la proprietà del bene del debitore in caso di inadempimento del debito. Nel caso di specie, il nesso di interdipendenza tra l'assunzione del debito e la procura a vendere emergeva ictu oculi, essendo stato nel corso del giudizio pienamente provato che il V. era stato costretto a © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 26 rilasciare la procura a vendere al G. nell'ambito di un rapporto debitorio, che la suddetta procura era stata rilasciata a garanzia delle somme mutuate e che la procura a vendere era stata in concreto utilizzata dal creditore al fine di acquisire, dietro lo schermo della moglie, l'effettiva proprietà del bene. La decisione di secondo grado è quindi incorsa anche nel denunziato vizio di motivazione, in quanto il giudicante, da un lato, ha sostenuto di condividere un'interpretazione estensiva dell'art. 2744 cod. civ., affermando la sola necessità dell'interdipendenza tra i due negozi, dall'altro, contraddicendosi, ha negato che la procura a vendere potesse considerarsi atto negoziale idoneo a far pervenire al creditore la proprietà del bene, limitandosi sul punto ad osservare che essa era destinata "a realizzare una vendita effettiva e al reale valore di mercato", ma senza rilevare che, nel concreto, essa era servita al creditore per intestarsi il bene attraverso lo schermo della sua vendita simulata alla moglie. Nel proprio controricorso G.I. e C.M.R. eccepiscono l'inammissibilità del motivo, assumendo che la controparte non ha interesse a coltivare la domanda di annullamento del contratto per violazione del divieto di patto commissorio, atteso che il contratto di compravendita impugnato risulta essere stato già annullato in accoglimento della domanda subordinata ex art. 1395 cod. civ., in forza di una statuizione su cui, non essendo stata impugnata, si è ormai formato il giudicato. Il primo motivo di ricorso è fondato. L'eccezione preliminare di inammissibilità del motivo per difetto di interesse non può essere accolta, risultando pacifico dall'esposizione delle vicende del processo che la domanda di nullità ex art. 2744 cod. civ. è stata proposta dall'attore in via principale e quella di annullamento ex art. 1395 cod. civ. in via soltanto subordinata. Questo ordine di proposizione delle domande, che costituisce esplicazione del diritto di azione in giudizio (art. 24 Cost.), conferisce evidentemente alla parte il diritto di insistere sull'accoglimento della domanda principale fino all'esaurimento di tutti i gradi di giudizio, senza che su detto interesse possa minimamente incidere l'avvenuto accoglimento della domanda proposta in via subordinata e la mancata proposizione contro di essa di impugnazione. In disparte poi il rilievo che la differenza degli effetti sostanziali riconducibili alla dichiarazione di nullità del contratto rispetto alla pronuncia di annullamento conferisce un interesse anche obiettivo alla parte di insistere sulla propria richiesta. Tanto precisato, quanto al merito del motivo, si osserva che il giudice territoriale ha escluso nel caso di specie che i negozi posti in essere dalle parti volessero aggirare il divieto del patto commissorio per l'assenza del nesso di interdipendenza tra la dichiarazione di debito firmata dai V. e la procura a vendere, dal momento che quest'ultima "era destinata non già a realizzare il trasferimento della proprietà del bene in favore di G. stesso o di chi per lui, ma a realizzare una vendita effettiva e al reale valore di mercato del bene, tant'è che, stimando il bene di valore superiore all'ammontare del debito nei confronti di G., in caso di cessione dell'immobile si prevedeva che G. trattenesse per sè la somma capitale corrispondente al proprio credito, versando a V. la differenza". Questo ragionamento non appare condivisibile, risultando del tutto inappagante l'indagine con cui il giudice territoriale ha escluso l'eventuale nesso di interdipendenza tra gli atti negoziali posti in essere dalle parti, nonchè la dedotta finalità degli stessi di realizzare il trasferimento del bene del debitore in caso di suo inadempimento. In materia di violazione del divieto del patto commissorio, questa Corte ha già avuto modo di precisare come non sia possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità, occorrendo invece riconoscere che qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il contenuto, nell'ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall'ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l'illecita coercizione del debitore al momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell'altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 27 Più volte, di conseguenza, è stata ritenuta la nullità, ex art. 1344 cod. civ., per frode alla legge, in quanto finalizzati alla violazione o elusionedel divieto del patto commissorio, di atti negoziali di per se astrattamente leciti ovvero di operazioni negoziali complesse che, pur in assenza di formale costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano rispondenti alla finalità di attribuire al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso di mancato pagamento da parte del debitore, così costretto a sottostare alla volontà della controparte (Cass. n. 5426 del 2010; Cass. n. 437 del 2009; Cass. n. 2285 del 2006). Nel caso in cui il debitore abbia accettato preventivamente quindi al di fuori di una concordata datio in solutum successiva all'inadempimento - la possibilità di alienazione del proprio bene a seguito di inadempimento, viene infatti a mancare la causa tipica dello scambio a parità di condizioni, che connota il contratto di compravendita e si verte in ipotesi di causa illecita, che vizia e rende nullo il negozio o l'operazione negoziale conclusa. In applicazione di questi principi, si è ritenuto quindi, per quanto qui specificatamente interessa, che anche una procura a vendere un immobile, rilasciata dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione de mutuo, comporti violazione del divieto del patto commissorio, qualora si accerti che essa sia funzionalmente connessa con il mutuo (Cass. n. 6112 del 1993) collegamento questo necessario dal momento che il patto commissorio è configurabile solo quando il debitore sia costretto al trasferimento di un bene a tacitazione della sua obbligazione e non anche ove tale trasferimento sia frutto di una scelta (Cass. n. 4064 del 1995; Cass. n. 4283 del 1990). La considerazione che il patto commissorio costituisce un vizio che attiene alla causa del contratto, che viene piegata all'interesse del creditore ad acquisire una garanzia reale diretta, autonoma ed atipica sul bene del debitore, con conseguente snaturamento della causa tipica del negozio di scambio, autorizza d'altra parte l'interprete a svolgere, ai fini di tale accertamento, un'indagine penetrante, che non si può fermare agli aspetti formali del negozio, ma deve inoltrarsi anche a verificarne la causa in concreto. In particolare, ciò richiede che, in caso di operazione complessa, i singoli atti vengano valutati alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale e che a tal fine venga apprezzata ogni circostanza di fatto relativa agli atti compiuti e, non ultimo, il risultato concreto (la funzione) che, al di là delle clausole negoziali ambigue o non vincolanti, l'operazione negoziale nel suo complesso era idonea a produrre ed ha in concreto prodotto (cfr. Cass. n. 9466 del 2004). Ora, se si legge la decisione impugnata alla luce di tali principi, non si sfugge alla conclusione che essa li abbia sostanzialmente disattesi. La Corte territoriale ha respinto la prospettazione dell'esistenza di un patto commissorio limitandosi ad osservare che non era ravvisabile un nesso di interdipendenza tra la dichiarazione di assunzione del debito sottoscritta da V. e il rilascio della procura al creditore a vendere il proprio immobile dal momento che quest'ultima era effettivamente diretta a vendere l'immobile al reale valore di mercato, tanfo che era prevista la consegna al rappresentato del prezzo di vendita per la parte eventualmente eccedente l'ammontare del suo debito. Si tratta di un'indagine e di una motivazione, come detto, inappaganti. In particolare, ciò che difetta è una lettura complessiva degli atti posti in essere dalle parti, che costituisce, come sopra si è evidenziato, nel caso di operazioni complesse, il momento centrale dell'indagine volta ad accertare la presunta violazione del divieto di patto commissario. La Corte territoriale ha omesso di svolgere un'interpretazione funzionale e complessiva del comportamento negoziale delle parti, di accertare che tipo di relazione o collegamento esse avesse inteso stabilire tra la dichiarazione di debito e la procura a vendere l'immobile ed il risultato concreto da esse voluto, mancando, a tal fine, di prendere in considerazione e valorizzare non solo i singoli atti negoziali, con le relative clausole, ma anche ogni elemento o circostanza di fatto, anche temporale, in presenza della quale erano stati posti in essere, nonchè del risultato con essi in concreto voluto, anche alla luce del comportamento successivo delle parti (risulta ad esempio trascurato il dato secondo cui la dichiarazione di debito e la procura a vendere risultano entrambe sottoscritte lo stesso giorno, il 14 maggio 1996, nonchè la circostanza che © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 28 la procura a vendere ha avuto esecuzione, attraverso la stipulazione del rogito impugnato, circa due anni dopo, il 6 maggio 1998). Trattasi, per le ragioni sopra esposte, di accertamenti tutti necessari al fine di dare risposta al quesito se in realtà le parti con la procura a vendere l'immobile intendessero effettivamente trasferire a terzi l'immobile al fine di realizzare una provvista da destinare all'estinzione del debito ovvero, come ritenuto dal ricorrente, costituire un garanzia reale a favore del creditore tale da consentire allo stesso, in caso di mancata restituzione della somma dovuta, di acquisire la proprietà del bene o comunque il potere di disporne. Il motivo va pertanto accolto. Il secondo motivo di ricorso denunzia "violazione o falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. e dell'art. 2733 c.c.; ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia; in relazione alla infondatezza della domanda riconvenzionale dei convenuti C. e G. "Con esso il ricorrente lamenta che la Corte di appello. Dell'accogliere la domanda riconvenzionale della controparte di restituzione della somma mutuata, non abbia correttamente valutato le prove documentali in atti, che dimostravano chiaramente che il prestito era stato dato ad interessi usurari e che la procura a vendere l'immobile del debitore era stata data nell'ambito di tale rapporto di mutuo ed al fine di costituire una garanzia del prestito, in tale senso depongono, ad avviso del ricorrente, le dichiarazioni rese dalle controparti dinanzi al pretore di Milano nel corso del giudizio possessorio da lui intentato e le stesse ammissioni fatte nella loro comparsa di risposta, cui va riconosciuto valore confessorio. Il terzo motivo di ricorso denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione o falsa applicazione dell'art. 2724 cod. civ. e dell'art. 112 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per avere disatteso, con motivazione facente mero rinvio a quella dell'ordinanza di rigetto adottata dal giudice di primo grado, le istanze di prova orale articolate dall'attore al fine di opporsi alla domanda riconvenzionale di restituzione del debito, volte a dimostrare che esso era stato integralmente rimborsato, omettendo per di più di pronunciarsi sullo specifico motivo di appello che aveva contestato la legittimità e fondatezza della decisione di primo grado sulle istanze di prova. I due motivi di ricorso, che possono esaminarsi congiuntamente in ragione della loro connessione oggettiva, sono entrambi infondati. In questo senso spinge l'assorbente rilievo che le censure sollevate, che criticano la valutazione operata dal giudice di merito del materiale probatorio raccolto nel corso del giudizio e delle stesse istanze istruttorie della parte, si collegano ad eccezioni svolte dal V. nei confronti della domanda della controparte di restituzione della somma data a mutuo prive del necessario carattere di specificità e concretezza. La difesa del ricorrente appare infatti sul punto, per come riprodotta nel ricorso, eccessivamente generica; si assume, da un parte, che nella somma pretesa sarebbero stati computati interessi usurari e che comunque essa sarebbe stata restituita ne tempo, ma senza invero indicare l'esatto ammontare del prestito ricevuto, dato all'evidenza indispensabile al fine di verificare la sussistenza del tasso di interesse usurario, nè in quali momenti e con quali pagamenti si sarebbe verificata la dedotta restituzione del prestito; nè, merita aggiungere, tali indicazioni appaiono concretamente ricavabili dai capitoli di prova articolati dalla parte e non ammessi dal giudice di merito, che pure il ricorso riproduce. L'onere di provare tali fatti incombeva sicuramente sul ricorrente, ma sul punto è opportuno precisare che l'onere della prova implica anche il preventivo onere di specificare in modo preciso e puntuale i fatti che si ritengono idonei a paralizzare la pretesa della controparte. Ora, poichè le censure sollevate nel ricorso si riferiscono, come sottolineato, alla mancata valutazione ed ammissione delle prove, ne consegue che l'indeterminatezza dei fatti opposti dall'attore alla domanda della controparte si trasmette anche alle relative prove e porta a ritenere generiche e, quindi, inammissibili, le relative doglianze. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 29 Il quarto motivo di ricorso, che denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 116 e 112 cod. proc. civ. e dell'art. 1283 cod. civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, lamenta che la sentenza impugnata, in accoglimento della domanda riconvenzionale, abbia condannato il ricorrente anche al pagamento degli interessi legali maturati e maturandi sulla somma da restituire, nonostante che la stessa fosse stata determinata dalle parti computando gli interessi usurari, in aperta violazione del divieto di anatocismo. La Corte - prosegue il ricorrente - ha poi omesso di pronunciarsi sulla domanda formulata dall'appellante in estremo subordine di compensazione del credito vantato dalla controparte con gli interessi maturati sul prezzo di vendita dell'immobile, mai versato dal G., tra la data del contratto e l'adozione della pronuncia di annullamento di primo grado. Anche questo motivo è infondato. La prima censura, con cui il ricorrente sostanzialmente lamenta di essere stato condannato anche al pagamento degli interessi usurari, non può essere accolta in quanto la parte, come affermato dal giudice di merito, non ha fornito alcuna prova della convenzione usuraria. La seconda censura è invece infondata in quanto la richiesta di pagamento degli interessi sulla somma riscossa dal G. a titolo di prezzo sulla vendita dell'immobile si collegava chiaramente all'altra a domanda avanzata dal V. di restituzione del prezzo, domanda proposta in via subordinata e di fatto rimasta assorbita dalla pronuncia di annullamento della vendita, che ha altresì accertato la simulazione dell'atto di trasferimento posto in essere dal G.. Il quinto motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 91 ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata per avere omesso di prendere in considerazione il motivo di appello con cui l'attuale ricorrente assumeva che il giudice di primo grado non poteva limitarsi a rigettare la domanda avanzata nei confronti del notaio in ragione del sopravvenuto annullamento del contratto da questi rogato, ma avrebbe dovuto, sia pure al limitato fine della decisione sulle spese di causa, verificare se tale domanda era o meno fondata o comunque compensare tra le parti le spese di lite. Si assume inoltre che la Corte di appello, condannandolo alla rifusione delle spese pur in assenza di soccombenza sia reale che virtuale, ha violato l'art. 91 cod. proc. civ., adottando sul punto una motivazione contraddittoria, dal momento che, da un lato, ha rilevato che la domanda avanzata nei confronti del notaio era divenuta priva di interesse per effetto dell'annullamento del contratto, dall'altro ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato tale domanda. Il mezzo è infondato. Il motivo censura la statuizione con cui l'appellante è stato condannato al pagamento delle spese di giudizio nei confronti del notaio Ch., ma non anche il capo della decisione che ha dichiarato la domanda di risarcimento avanzata contro quest'ultimo assorbita dalla pronuncia di annullamento del contratto per mezzo di questi stipulato. Occorre poi chiarire che la domanda di risarcimento era motivata non già perchè il notaio avesse rogato un atto nullo, ma perchè aveva dato corso alla vendita anche di un bene non compreso nella procura a vendere rilasciata dall'attore. Tanto precisato, la regolamentazione delle spese adottata dal giudice di merito appare giuridicamente corretta, in quanto rispondente al principio di causalità che governa la materia. Questa conclusione si impone non solo perchè il notaio era stato chiamato in causa dall'attore, ma in quanto questi aveva chiesto in via principale che il contratto stipulato tramite il professionista fosse dichiarato nullo o annullato, accettando pertanto la possibilità che, a seguito dell'accoglimento di tali domande, il giudice di merito non si pronunciasse, ritenendola assorbita, sulla successiva domanda di risarcimento del danno. In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso e rigettati gli altri. La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Milano che, nel decidere, si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 30 Si rinvengono invece giusti motivi, tenuto conto delle ragioni della decisione, per compensare interamente le spese di giudizio tra il ricorrente ed il Ch.. P.Q.M. accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese, ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Compensa le spese di lite tra il ricorrente ed il Ch.. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 31 2) Lettera di patronage Mix è una piccola società controllata dalla Max s.r.l. Mix, tramite il suo rappresentante Adolfo, si recava presso la banca Delta per ottenere un prestito. Delta chiedeva delle garanzie a Mix; quest’ultima esibiva una lettera (di patronage) con cui Max affermava la solidità di Mix. Delta concedeva il prestito a condizioni privilegiate. Purtroppo, Mix non riusciva a saldare il debito assunto con Delta. Delta scriveva a Max chiedendo la restituzione del denaro prestato, unitamente agli interessi, alla luce dell’art. 1936 c.c. Max si recava dal legale Vittorio. Il candidato, assunte le vesti di Vittorio, rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua attenzione. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 2 In premessa poteva essere schematizzato il fatto. Successivamente bisognava chiedersi se è applicabile la disciplina sulla fideiussione di cui all’art. 1936 c.c. e ssgg. In caso positivo, Max sarà ritenuto fideiussore, così da dover restituire il denaro (preso a prestito da Mix) unitamente agli interessi in favore di Delta. In caso negativo, Max – senza la qualità di fideiussore – potrebbe non essere tenuto a restituire il denaro suddetto. In senso positivo, depone il rilievo che la lettera (di patronage) redatta dalla società Max, presentata a Delta, affermava la solidità di Mix e, pertanto, implicitamente la prima assumeva un’obbligazione posta a garanzia del creditore, secondo lo schema dell’art. 1936 c.c. Si ritiene, però, di rispondere in senso negativo: nel caso in esame non vi è spazio per la fideiussione in quanto: -nel caso di fideiussione il debitore assume un obbligo direttamente nei confronti del creditore, diversamente dal caso de quo dove la società Max si limitava ad un’affermazione (la solidità di Mix), senza alcuna assunzione di obblighi; -nella fideiussione la volontà di prestare fideiussione deve essere espressa ex art. 1937 c.c., mentre nel caso de quo non emerge tale impegno formale; -nella fideiussione l’obbligazione deve essere personale, ovvero il garante deve impegnarsi con le proprie sostanze a garantire l’adempimento del garantito, mentre nel caso de quo tale personalità non emerge; -la lettera di patronage, ai fini dell’assunzione dell’obbligazione, è una dichiarazione unilaterale, che al più può seguire lo schema negoziale della proposta ex art. 1333 c.c.; tuttavia, in questo caso, la lettera di patronage non conteneva neanche una proposta, così da doversi escludere pure l’applicabilità dell’art. 1333 c.c. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 32 Pertanto, Max non sarà tenuto a restituire il dovuto a Delta in luogo di Mix. Si poteva aggiungere che, a tutto concedere, potrebbe restare spazio applicativo per la tutela risarcitoria, affermando che Max ha violato i canoni di buona fede durante le trattative sviluppatesi tra Delta e Mix, ex artt. 1337-1338 c.c. GIURISPRUDENZA RILEVANTE Il rapporto di patronage di risultato non soggiace alla disciplina desumibile per analogia dalla figura tipica della fideiussione, stante l'assoluta diversità oggettiva e funzionale delle diverse garanzie utilizzate. Cass. civ. Sez. III, Sent., 25-09-2012, n. 16259 Svolgimento del processo 1. Con citazione del 22 settembre 1999 la banca Unicredito Italiano spa conveniva dinanzi al Tribunale di Ferrara la società cooperativa COPMA di Ferrara s.r.l. e ne chiedeva la condanna al pagamento della somma di L. 334.090.260 oltre interessi ed accessori dal 1 settembre 1999. Deduceva la Banca di essere creditrice nei confronti della società cooperativa a r.l. TEMAPLAST per la somma di L. 263.486.964 in relazione ad uno scoperto di conto corrente e della somma di L. 70.602.298 in relazione ad uno scoperto di conto anticipi salvo buon fine. La Banca in data 8 aprile 1999 aveva revocato i crediti messi a disposizione della Temaplast che era stata dichiarata fallita nel maggio 1999. Sosteneva la Banca che la COPMA con lettera di patronage scritta in data 8 agosto 1998 aveva garantito alla Banca quanto segue: "formuliamo la presente per comunicarvi che la scrivente è impegnata a sviluppare il piano di risanamento economico e di sviluppo produttivo della società cooperativa Temaplast indicata in oggetto. A tale scopo la società PARFIN a.r.l. di cui la scrivente è socio unico, ha sottoscritto e versato, in qualità di socio sovventore, la somma di un miliardo di lire a capitale sociale. Pertanto vi assicuriamo che ogni rapporto che andrete a tenere con la succitata Temaplast sarà costantemente improntato sulla base della massima correttezza e faremo in modo che la stessa possa regolarmente adempiere gli impegni assunti nei vostri confronti". 2. La società COPMA si costituiva chiarendo di essere controllante della PARFIN e che questa ultima era uno dei quattro soci sovventori della Temaplast, sosteneva che la Parfin non aveva il controllo della Pemaplast e che la lettera del 8 agosto 1998 era una semplice promessa unilaterale atipica e non vincolante. Chiedeva pertanto il rigetto delle domande, eccependo: a. il difetto di legittimazione della Banca; b. la decadenza della facoltà di agire ai sensi dello art. 1957 c.c.; c. in via gradata chiedeva l'annullamento della promessa in quanto viziata da errore essenziale. In sede di precisazione delle conclusioni la convenuta deduceva prova per testi come dedotta in comparsa di risposta e nelle note istruttorie. 3. Il Tribunale di Ferrara, con sentenza depositata il 21 marzo 2002, respingeva la domanda proposta dalla Banca e compensava le spese tra le parti. Il tribunale accertava che la lettera in questione era una semplice interposizione di buoni uffici, priva di effetti giuridici per la promettente. 3. Avverso la sentenza proponevano appello la Unicredit Banca spa, nonchè quale successore particolare ai sensi dell'art. 111 c.p.c., Unicredit Banca di impresa spa, chiedendo la riforma della © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 33 sentenza e lo accertamento della validità della garanzia inclusa nella lettera di patronage. La COPMA resisteva deducendo appello incidentale in punto di compensazione delle spese, ed insisteva nelle eccezioni dedotte in primo grado e preliminarmente deduceva la inammissibilità dello appello. In via istruttoria insisteva nella ammissione della prova testimoniale. 4. La Corte di appello di Bologna con sentenza depositata il 13 febbraio 2006, in totale riforma della sentenza impugnata "dichiara tenuta e condanna la Copma al pagamento in favore delle Banche appellanti in solido e per il titolo di cui è causa, della somma di Euro 163.468,43 oltre interessi nella misura legale dal 26 maggio 1999 al saldo". La Corte condannava la garante al pagamento delle spese processuali dei due gradi. La motivazione della Corte, che viene in analisi esaminando i motivi del ricorso, si sostanzia nel riconoscimento del carattere vincolante della garanzia prestata con la lettera di patronage, intesa come obbligazione di risultato, sia pure a contenuto variabile, con ogni conseguenza ai fini della liberazione del patronnant nel risarcimento dei danni da inadempimento, ai sensi dello art. 1218 c.c., dovendo lo stesso fornire la prova che lo inadempimento non è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile:" 5. Contro la decisione ricorre la COPMA deducendo sette motivi di ricorso illustrati da memoria, resistono le Banche con controricorso e memoria. Successivamente al controricorso, notificato dalle Banche alla COPMA il 3 aprile 2007, la Unicredit Management Banck spa con sede in Verona ha depositato una comparsa di costituzione con nuovo difensore, con procura speciale in foglio separato, sottoscritta dal quadro direttivo della società come sopraindicata dr. B. ed autenticata dal difensore avv.to Ugo De Nunzio. Il documento peraltro è privo della data del deposito dello atto, e reca la data di redazione al 30 maggio 2012. Cfr. art. 369 n. 3 c.p.c. in relazione allo art. 83 c.p.c., e vedi Cass. 28 AGOSTO 2007 N.18187. Motivi della decisione 6. Preliminarmente deve ritenersi inammissibile la costituzione della Unicredit Management spa, essendo la procura rilasciata in foglio separato e spillato agli atti della comparsa di costituzione ed essendo l'atto di procura privo di data, onde non è possibile il controllo del rilascio anteriore o contestuale all'atto, onde il conferimento non risulta conforme ai precetti di cui all'art. 83 c.p.c.. Restano peraltro ferme le parti processuali che rappresentano UNICREDIT in sede di controricorso, per le ragioni appresso precisate. 7. Il ricorso della soc. COPMA non merita accoglimento. Per chiarezza espositiva se ne offre dapprima una sintesi descrittiva dei motivi ed a seguire la confutazione in diritto. 7.1.SINTESI DEI MOTIVI. Nel PRIMO MOTIVO si deduce "violazione e falsa applicazione dell'art. 111 c.p.c., e art. 2967 c.c., nullità del procedimento in relazione allo art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Il quesito a ff.17 è in termini: "se colui che si dichiara successore a titolo particolare del diritto controverso e in tale veste impugna la sentenza resa inter alios debba dimostrare con documentazione completa ed univoca la qualità e se avendo la controparte contestato la idoneità di tale documentazione, se sia tenuto a dimostrare la legittimazione ad impugnare, ed il giudice debba motivare la ragione per cui ritiene invece tale documentazione completa". Nel SECONDO MOTIVO si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1333, 1176, 1218, 1362 ss., 1337, 1338, 1381, 1936 ss, 1987 e 2043 c.c., e art. 2967 c.c., L. n. 59 del 1992, art. 4, © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 34 commi 2 e 3, in relazione allo art. 360 c.c., n. 3; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione e vizio logico in relazione allo art. 360 c.p.c., n. 5. QUESITO a ff 35 nei seguenti termini: "Se la dichiarazione rilasciata dal socio di minoranza esuli dal campo degli obblighi giuridicamente rilevanti; dica inoltre la Corte se la obbligazione del patronnant sia di mezzi, con conseguente onere del creditore di provare la mancanza di diligenza del patronnant, ovvero di risultato e, in questo ultimo caso, se il patronnant, che dimostri di avere agito in buona fede e correttezza e provi di aver fatto tutto il possibile affinchè il patrocinato adempisse agli impegni assunti verso il creditore, possa essere esente da responsabilità:" Nel TERZO MOTIVO si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1176 e 1218 c.c., art. 2697 c.c., comma 2, e vizio della motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria per vizio logico. Quesiti a ff.44: a. se gli artt. 1218 e 2697 debbano essere interpretati nel senso che il giudice deve consentire al debitore la prova liberatoria e se debba prova liberatoria consista nella dimostrazione dello specifico inadempimento che ha reso impossibile la prestazione, ovvero nella dimostrazione di avere pienamente soddisfatto lo impegno di diligenza e di cooperazione richiesto secondo il tipo del rapporto obbligatorio per la realizzazione dello interesse del creditore; b. se l'art. 2697 c.c., comma 2, debba essere interpretato nel senso che il giudice deve consentire alla parte di provare i fatti su cui si fonda la eccezione. Nel QUARTO MOTIVO si deduce error in iudicando per violazione degli artt. 1936, 1937 e 1938 c.c., e vizio logico della motivazione per contraddittorietà, sul rilievo che la norma dello art. 1939 c.c., si applichi anche alle lettere di patronage. Quesito in termini perentori a ff 46. Nel QUINTO MOTIVO si deduce error iniudicando per violazione degli artt.1175 e 1957 c.c. e vizio della motivazione su punto decisivo. Quesito a ff.50: "se gli artt. 1175 e 1957 c.c., debbano essere applicati anche alla lettera di patronage, con conseguente decadenza del creditore dalla azione nei confronti del patronnant nella ipotesi in cui non eserciti il diritto di credito entro sei mesi dalla scadenza della sua obbligazione. Nel SESTO MOTIVO si deduce error in procedendo e nullità della sentenza per la extra o ultrapetizione nel punto in cui la sentenza condanna la COMPA al pagamento in favore degli appellanti in solido, per il titolo per cui è causa, della somma etc.... sul rilievo che le appellanti sono soggetti diversi dalla originaria parte processuale del giudizio di primo grado. QUESITO a pag 52. Nel SETTIMO MOTIVO si deduce error in iudicando per violazione e falsa applicazione degli artt. 1428, 1429 e 1431 c.c., ed il vizio della motivazione su punto decisivo, in relazione alla domanda riconvenzionale di annullamento della lettera 8 agosto 1998 per errore essenziale sulla situazione economica della Temaplast, domanda riproposta in secondo grado in via incidentale condizionata. Quesito a ff 56 in termini "se nel valutare la riconoscibilità dello errore essenziale di una lettera di patronage si debba considerare la qualità di operatore professionale della banca sia le specifiche conoscenze che questa ultima aveva per il fatto che il patrocinato era suo cliente. NELLA MEMORIA ILLUSTRATIVA si illustrano recenti arresti giurisprudenziali a sostegno delle tesi e delle regulae iuris proposte. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 35 8. CONFUTAZIONE IN DIRITTO. Il primo motivo è inammissibile in quanto il quesito in diritto manca di una chiara sintesi o premessa introduttiva e non contesta la chiara ratio decidendi espressa dalla Corte di appello a gg 6 della motivazione, che afferma la legittimazione attiva dei due soggetti Unicredit, dopo aver esaminato la documentazione allegata. Manca inoltre l'interesse alla deduzione della nullità del procedimento, posto che il debitore conosce i soggetti creditori di riferimento, la cui legittimazione è correttamente valutata dal giudice del riesame. Il secondo motivo è inammissibile in relazione alla errata formulazione dei quesiti, che ipotizzano alternative tra di loro inconciliabili: dapprima si sostiene che il socio di minoranza possa fare promesse anche insensate e non obbligatorie; subito dopo si sostiene che essendo valide tali promesse occorreva stabilire se queste erano di mezzi e di risultato, e in ordine a tale valutazione si propongono regole di comportamento per il patronnant. Sfugge al ricorrente la ampia e coerente motivazione data dalla Corte di appello a ff 8 e ss della parte argomentativa e ricostruttiva del rapporto, come obbligazione di garanzia atipica con promessa di risultato, sia pure a contenuto variabile,con ogni conseguenza ai fini della liberazione del patronnant dal risarcimento dei danni da inadempimento, ai sensi dello art. 1218 c.c., dovendo lo stesso fornire la prova che lo inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Tale sintesi descrittiva contrasta in pieno con le alternative come sopra proposte, e non risulta correttamente censurata. Il terzo motivo è infondato, in quanto censura proprio il punto della motivazione che applica al rapporto di garanzia atipico, che per locuzione dottrinale si configura come patronage con obbligazione di risultato, la unica disciplina possibile desunta del regime generali delle obbligazioni, e cioè quella dello esatto adempimento in relazione alla natura della promessa formulata, da ritenersi lecita e valida e non viziata, come si deduce, ma infondatamente, nel settimo motivo. La chiara ratio decidendi evidenzia come nessuna prova della impossibilità dello inadempimento risulta proposta o dedotta: la Temaplast Scarl è stata dichiarata fallita proprio in ragione dello stato di insolvenza che la dichiarazione di patronage assicurava invece che non si sarebbe verificato. INFONDATI risultano il quarto ed il quinto motivo, che pretendono di applicare al patronage di risultato, la diversa disciplina desunta per analogia dalla figura tipica della fideiussione, attesa la assoluta diversità oggettiva e funzionale delle diverse garanzia utilizzate, onde risulta arduo risalire, in via dottrinaria o speculativa, ad una configurazione di principi generali che non siano quelli propri del sistema delle obbligazioni considerato nella parte generale e sistematica del codice civile. Non sussiste pertanto alcuna violazione delle norme sostanziali dedotte e la motivazione è congrua e corretta in ordine allo accertamento della responsabilità. INFONDATO il sesto motivo, in relazione alla legittimazione attiva delle Banche e dunque alla statuizione solidale di condanna. Infondato il settimo motivo, posto che dalla motivazione emerge a chiare lettere che nessun errore essenziale appare nella lettera di patronage, che invece è lo strumento che induce la Banca ad una erogazione del credito a rischio di no fault. IN CONCLUSIONE, dichiarata la inammissibilità della ed comparsa di costituzione della Unicredit Management spa, il ricorso della COPMA deve essere rigettato con la condanna alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione in favore delle Banche resistenti con unico atto,liquidate come in dispositivo. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 36 P.Q.M. DICHIARA INAMMISSIBILE la ed comparsa di costituzione per Unicredit Credit Management Bank spa; rigetta il ricorso COPMA e la condanna a rifondere alle Banche Unicredit come costituite, le spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 5200,00 di cui Euro 200,00 per spese oltre accessori e spese generali come per legge. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 37 3) Diritto a non nascere se non sano Michela rimaneva incinta di Michelino. Michela si recava spesso presso l’ospedale Alfa per farsi controllare l’andamento della gravidanza, accompagnata dal marito Michele, padre di Michelino. Michela chiedeva espressamente al dott. Enrico, della struttura ospedaliera Alfa, di effettuare tutti i controlli necessari ed utili per verificare che Michelino non fosse down; altresì, Michela rendeva edotto Enrico del fatto che, nel caso in cui fosse probabile la nascita di un figlio down, avrebbe preferito abortire, rischiando – diversamente – di cadere in una depressione mortale. Enrico, colpevolmente, ometteva alcuni controlli. Michelino nasceva ed era down. Il candidato, premessi brevissimi cenni sul contratto atipico di spedalità e sul diritto a non nascere se non sano, rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Michelino. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 3 Bisognava procedere con i brevissimi cenni indicati nella traccia, per poi procedere all’esame del caso: -il contratto atipico di spedalità è un negozio giuridico normalmente intercorrente tra struttura ospedaliera (pubblica o privata) e paziente, composto da una prestazione tipica intellettuale (quella del singolo medico o dell’equipe medica) unitamente a prestazioni latamente alberghiere (si pensi al vitto ed alloggio, nel caso di ricovero); è ad effetti protettivi verso terzi, ex art. 1372 comma 2 c.c., 1411 c.c., 2 Cost.; -il diritto a non nascere se non sano riguarda il nascituro, ovvero il suo diritto a preferire di non nascere, piuttosto che nascere malato; solitamente viene esclusa l’esistenza di tale diritto. Nel caso in esame, Michelino ha strumenti di tutela? Non esiste nel nostro ordinamento un diritto a non nascere se non sano, per cui Michelino non può dolersi – a fini risarcitori – di essere nato malato, ipotizzando che avrebbe preferito non nascere; ciò in quanto: -il diritto a privilegiare la vita da malato (come appunto per Michelino) spetta, al più, alla madre che è titolare esclusiva del c.d. diritto all’aborto, di cui alla legge 194/1978; -neanche è predicabile per la madre Michela l’aborto eugenetico, perché anche il diritto all’aborto necessita di allinearsi con gli altri criteri di legge (tempestività – entro novanta giorni – e rischio per la salute, anche psichica, della gestante); -l’ordinamento tutela la nascita e non la “non nascita”; -accogliendo una ricostruzione contraria, si arriverebbe all’absurdum per cui il figlio potrebbe agire contro la madre per il mancato esercizio dell’aborto, in contrasto con gli artt. 2-29 Cost. che pretendono la solidarietà familiare. Pertanto, se così è, allora Michelino non potrebbe pretendere il risarcimento danni da Alfa. Tuttavia, si ritiene che Michelino possa esperire l’azione risarcitoria – per il tramite della madre Michela – nei confronti di Alfa; ciò in quanto: -Michelino è soggetto terzo protetto dal contratto atipico di spedalità, ex artt. 1411-3172 comma 2 c.c. ed art. 2 Cost.; © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 38 -la lesione del diritto alla procreazione cosciente e responsabile ex art. 1 della L. 194/1978 a monte, determina a valle la propagazione intersoggettiva di effetti negativi; -il medico Enrico colpevolmente ha omesso alcuni controlli; -il danno sussiste non nella nascita, ma nella vita da diversamente abile; in particolare il danno è costituito dal “disagio esistenziale” che subisce Michelino nel fare ingresso in una famiglia che si attendeva un figlio sano, ex artt. 2-3-29-30-32 Cost. Pertanto, Michelino potrà vedersi risarcito tale danno tramite un’azione da inadempimento ex art. 1218 c.c., concretizzabile dalla madre Michela in sua rappresentanza. Il danno potrà essere quantificato in via equitativa ex art. 1226 c.c. GIURISPRUDENZA RILEVANTE La responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti di entrambi i genitori anche ai fratelli del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta, nonché al figlio nato malformato. La situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute, non quello a nascere sano. Cassazione civile, sez. III, sentenza del 2.10.2012, n. 16754 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.- Nel febbraio del 1999 M. B. O. e M. O., in proprio e nella qualità di genitori esercenti potestà sulle figlie minori G., L. e M., convennero in giudizio dinanzi al tribunale di Treviso il ginecologo P. D. e la USSL 8 di X., esponendo: • Che la signora B., appena consapevole del proprio stato di gravidanza, si era rivolta al dott. D. chiedendo di essere sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere malformazioni del feto; • Che la nascita di un bimbo sano era stata rappresentata al sanitario come condizione imprescindibile per la prosecuzione della gravidanza; • Che il dott. D. aveva proposto e fatto eseguire alla gestante il solo “Tritest”, omettendo di prescrivere accertamenti più specifici al fine di escludere alterazioni cromosomiche del feto; • Che nel settembre del 1996 era nata la piccola M., affetta da sindrome di Dawn. Il ginecologo, nel costituirsi, contestò analiticamente tutti gli addebiti, chiedendo nel contempo l’autorizzazione alla chiamata in causa della propria compagnia assicuratrice. Si costituì in giudizio anche l’azienda sanitaria, lamentando, in rito, la nullità del libello introduttivo attoreo (per mancata specificazione delle ragioni di fatto e di diritto sui quali era fondata la domanda risarcitoria) e la carenza di legittimazione attiva delle minore, eccependo poi, nel merito, il regime cd. in extra moenia - nel quale il medico aveva, da libero professionista, assistito l’attrice. L’azienda contestò, ancora nel merito, la stessa fondatezza della pretesa risarcitoria, per resistere alla quale chiese anch’essa il differimento della prima udienza, onde chiamare in causa le proprie compagnie assicurative succedutesi nel rapporto di garanzia durante l’anno 1996. L’Assitalia (compagnia assicuratrice del dott. D.), nel costituirsi, aderì in toto alle difese del proprio assicurato. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 39 Le Assicurazioni Generali (originaria assicuratrice della USL) eccepì, all’atto della costituzione in giudizio, la cessazione degli effetti della polizza stipulata con la struttura sanitaria nel 30 giugno 1996; declinò ogni responsabilità vicaria per i fatti successivi a tale data; fece proprie, nel merito, le difese della propria garantita - salva richiesta, in caso di condanna del sanitario, di essere da questi rimborsata di quanto eventualmente tenuta a corrispondere agli attori. La RAS (succeduta alle Generali nel rapporto assicurativo con l’unità sanitaria) eccepì, in limine, la non operatività della polizza, per essere la vicenda di danno lamentata dagli attori riferibile ad un’epoca anteriore alla data del suo subingresso alla precedente compagnia, contestando poi nel merito le pretese risarcitorie nell’an, nel quantum, nel quivis. Il giudice di primo grado, previa declaratoria di difetto di legittimazione attiva della minore M. O., respinse la domanda dei genitori e dei fratelli. 2.- La corte di appello di Venezia, investita del gravame proposto dagli attori in prime cure, lo rigettò: - sul punto del ritenuto difetto di legittimazione attiva di M. O., facendo propri alcuni passi della motivazione della sentenza 14888/2004 con la quale questa Corte di legittimità aveva respinto una analoga richiesta, affermando il principio di diritto a mente del quale verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa in condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto; - con riferimento alla pretesa risarcitoria dei familiari, fondata sul preteso inadempimento contrattuale del sanitario, ritenendo quest’ultimo del tutto esente da colpa. Nel rigettare la detta pretesa, la corte lagunare osserverà, in particolare: - che, nella specie, la sola indicazione del cd. “tritest” quale indagine diagnostica funzionale all’accertamento di eventuali anomalie fetali doveva ritenersi del tutto giustificata, alla luce dell’età della signora B. (al tempo dei fatti soltanto ventottenne) e dell’assenza di familiarità con malformazioni cromosomiche, onde l’esecuzione di un test più invasivo come l’amniocentesi (che la partoriente conosceva “per sentito dire”) avrebbe potuto essere giustificata soltanto da una esplicita richiesta, all’esito di un approfondito colloquio con il medico sui limiti e vantaggi dei test diagnostici, mentre non risultava né provato né allegata la richiesta di sottoposizione a tale esame; - che l’accertamento di una malformazione fetale “non è di per sé sufficiente a legittimare un’interruzione di gravidanza”, posto che, nella specie, tale interruzione sarebbe stata praticata nel secondo trimestre, mentre la sussistenza dei relativi presupposti di legge, ex art. 6 della legge n. 194/1978 non era neppure stata adombrata dagli attori, onde nessuna prova poteva dirsi legittimamente acquisita al processo in ordine alla esposizione della donna a grave pericolo per sua la vita o per la sua salute fisica o psichica in caso di prosecuzione della gravidanza nella consapevolezza della malformazione cromosomica del feto; - che lo “spostamento” della quaestio iuris sul versante della carenza di informazione, operato in sede di appello, doveva ritenersi del tutto estraneo e diverso rispetto alla fattispecie sì come originariamente rappresentata in funzione risarcitoria: non era stata, difatti, censurata, con il libello introduttivo, la privazione del diritto di scelta della puerpera a causa di esami fatti male o non fatti, bensì l’inadempimento della prestazione sanitaria richiesta dalla signora B. al dott. D.. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 40 3.- La sentenza è stata impugnata da tutti i componenti della famiglia O. con ricorso per cassazione articolato in sei motivi. Resistono con controricorso P. D., le Assicurazioni Generali, l’Ina Assitalia, L’Allianz, l’Azienda sanitaria USSL 8 di Y.. Le parti ricorrenti e le resistenti Assitalia e Allianz, hanno depositato memorie illustrative. MOTIVI DELLA DECISIONE 1.- Devono essere in limine esaminate le due preliminari questioni processuali poste al collegio dalla difesa della controricorrente USSL 8. Entrambe appaiono prive di pregio. - Quanto alla erronea spendita della veste di rappresentanti legali delle due figlie - divenute nelle more maggiorenni - da parte dei genitori (circostanza che, in sé considerata, renderebbe il ricorso inammissibile, secondo quanto opinato da Cass. ss.uu. 15783/2005), va rilevato come, al di là ed prescindere da tale, erronea qualificazione a loro stessi ascritta da parte dei coniugi B./O., tanto L. quanto G. B. hanno personalmente sottoscritto la procura speciale apposta in calce al ricorso per cassazione, onde la impropria indicazione di una (ormai spirata) rappresentanza legale dei genitori si risolve, ai fini della regolare costituzione in giudizio, in un irrilevante flatus vocis, atteso che il nome delle ricorrenti viene legittimamente indicato e speso in proprio dal difensore altrettanto legittimamente fornito di procura alle liti; - Quanto alla pretesa carenza di poteri rappresentativi in appello degli stessi coniugi O. riguardo alla figlia L., la vicenda deve ritenersi coperta da giudicato implicito ai sensi del disposto dell’art. 346 c.p.c.: la corte territoriale, difatti, dopo aver affrontato la questione della legittimazione attiva escludendola - di M. O. (ff. 9 ss. della sentenza impugnata), rigetterà l’appello nel merito, senza affrontare il tema (pur rilevabile ex officio, essendo stato sollevato, a torto o a ragione, una questione di legitimatio ad causam e non di mera titolarità del rapporto sostanziale) della rappresentanza dei genitori con riferimento alla posizione processuale di L. O. - la cui domanda verrà conseguentemente rigettata per motivi di merito (il cui esame presuppone positivamente superata il vaglio delle questioni pregiudiziali e/o preliminari di rito da parte del giudice procedente). Sarebbe stato pertanto necessario proporre, da parte degli interessati, un ricorso incidentale avente ad oggetto il relativo capo implicito della sentenza; impugnazione nella specie non proposta, senza che la relativa eccezione contenuta nel controricorso possa ritenersi “convertita” in censura incidentale per l’assenza dell’essenziale requisito dell’istanza di riforma della sentenza di secondo grado impugnata. Non merita, infine, accoglimento l’eccezione, sollevata da più d’una della parti controcorrenti, di inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. nella formulazione anteriore alla novella del 2009, atteso che la sentenza impugnata risulta depositata il 2 novembre 2010 (epoca successiva all’abrogazione della norma sui quesiti di diritto, pertanto inapplicabile nella specie ratione temporis), mentre la doglianza di difetto autosufficienza del ricorso appare contraddetta ictu oculi dalla semplice lettura dell’odierna impugnazione (cui, piuttosto, potrebbero al più muoversi censure – peraltro irrilevanti sul piano giuridico - di segno contrario). 2.- Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 346 c.p.c. Vizio logico di motivazione. Il motivo è fondato. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 41 Risulta espresso e non equivoco, nel corpo dell’atto di citazione di primo grado (che i ricorrenti riportano, per quanto rilevante in parte qua, al folio 15 dell’odierno atto di impugnazione), il riferimento “alla valutazione sul livello di consenso informato che il referto relativo al tritest determina, non essendovi alcun modo per una paziente incolta di medicina di riuscire a comprendere la relativa finalità, e che ad esso non era possibile affidarsi con certezza per sapere se vi fossero o non vi fossero le paventate anomalie”; onde il successivo atto di appello del tutto legittimamente denuncerà (a fronte di una sentenza di primo grado che inesattamente imputa all’attrice “di non aver dimostrato di avere espressamente richiesto l’effettuazione di accertamenti invasivi diversi”) la mancata informazione, da parte dei competenti sanitari, circa la complessiva attendibilità del test prescelto a dispetto della precisa richiesta della gestante di venir resa partecipe di eventuali malattie genetiche del feto e della altrettanto espressa intenzione, in tal caso, di non portare a termine la gravidanza. A tanto consegue la impredicabilità di qualsivoglia “spostamento del thema decidendum dal primo al secondo grado” erroneamente rilevato dalla corte di appello, la cui pronuncia deve, sul punto, essere cassata. 3.- Con il secondo motivo, si denuncia: a) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 1223 c.c. per mancato accertamento dell’inadempimento contrattuale rispetto alla richiesta di diagnosi e al dovere di fornirla e di dare corretta informazione circa l’inidoneità degli esami previsti in funzione della diagnosi richiesta; mancata motivazione sul punto; b) violazione dell’art. 32 comma 1 e 2 Cost. c) violazione dell’art. 2697 c.c. in ordine al riparto degli oneri probatori relativi al’adempimento del dovere di informazione preventiva circa i limiti oggettivi di affidabilità delle metodiche alternative alla diagnosi suggerite Il motivo è fondato. Risulta provato (anche all’esito della mancata contestazione, sul punto, da parte del medico oggi resistente, non potendosi ritenere tale la generica affermazione di stile, contenuta nell’atto di costituzione in giudizio del dott. D., volta alla “contestazione analitica di tutti gli assunti di parte attrice”) che la gestante avesse espressamente richiesto un accertamento medico-diagnostico per esser resa partecipe delle eventuali malformazioni genetiche del feto, così da poter interrompere la gravidanza. Oggetto del rapporto professionale medico-paziente doveva, pertanto, ritenersi, nella specie, non un accertamento “qual che esso fosse”, compiuto all’esito di una incondizionata e incomunicata discrezionalità da parte del sanitario, bensì un accertamento doppiamente funzionale alla diagnosi di malformazioni fetali e (condizionatamente al suo risultato positivo) all’esercizio del diritto di aborto. Ne consegue la non conformità a diritto della motivazione del giudice territoriale nella parte in cui ritiene (folio 15 della sentenza impugnata) “non provato e neppure allegato che la signora B. avesse chiesto di essere sottoposto a tale esame” (l’amniocentesi), motivazione che illegittimamente capovolge il riparto degli oneri probatori tra le parti del processo: - onere della paziente sarebbe stato, difatti, quello di provare la richiesta della diagnosi di malformazioni funzionale all’esercizio del diritto di interruzione della gravidanza in caso di esito positivo; © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 42 - onere del medico, di converso, risultava quello di provvedere ad una completa informazione circa le possibilità (tutte le possibilità) di indagini diagnostiche, più o meno invasive, più o meno rischiose, e circa le percentuali di falsa negatività offerte dal test prescelto (test in ipotesi da suggerire, ma non certo da eseguire sic et simpliciter, in guisa di scelta sostitutiva e di assunzione del rischio parimenti sostitutivo), onde consentire alla gestante una decisione il più aderente possibile alla realtà della sua gestazione. Ne consegue una responsabilità del medico predicabile non soltanto per la circostanza dell’omessa diagnosi in sé considerata (ciò che caratterizzerebbe il risarcimento per un inammissibile profilo sanzionatorio/punitivo, in patente contrasto con la funzione propria della responsabilità civile), ma per la violazione del diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica. Deve pertanto ritenersi configurabile, nella specie, l’inadempimento alla richiesta di diagnosi sì come funzionale all’interruzione di gravidanza in caso di positivo accertamento di malformazioni fetali (in senso non dissimile, sia pur con riferimento a diversa fattispecie, di recente, Cass. 15386/2011), alla luce dell’ulteriore considerazione costituita dalla (incontestata) circostanza dell’altissimo margine di errore che il test selezionato dal ginecologo offriva nella specie (margine pari al 40% dei cd. “falsi negativi”), onde il suo carattere, più che di vero e proprio esame diagnostico, di screening del tutto generico quanto alle probabilità di malformazione fetale. 4.- Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. con riferimento alla presunzione di volontà di esercizio del diritto di interruzione di gravidanza da parte di donna risultata portatrice di patologia permanente dopo il parto della scoperta malformazione fetale. Il motivo è fondato. Non risulta conforme a diritto, difatti, la motivazione della corte lagunare nella parte in cui (folio 16 della sentenza impugnata) si opina “non esservi prova alcuna che, anche se a conoscenza della malformazione cromosomica del feto, la signora B. avrebbe potuto interrompere la gravidanza”. E ciò perché, prosegue il giudice lagunare, “non vi è alcun elemento dal quale desumere – ovviamente con giudizio ex ante – che la prosecuzione della gravidanza avrebbe esposto la signora a grave pericolo di vita o grave pericolo per la sua salute fisica o psichica”. A prescindere dalla considerazione per la quale tale affermazione si pone in contrasto con un principio già affermato in passato, anche di recente (sia pur con le precisazioni operate da Cass. 22837/2010, come rileva al folio 23 del controricorso la resistente Generali), da questa corte regolatrice – per tutte, Cass. 6735/2002, Pres. Carbone, Rel. Vittoria (risulta erronea la citazione, contenuta al folio 21 del ricorso, della pronuncia 6365/2004, avente diverso oggetto) a mente dei quali in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, l'inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna di compiere la scelta di interrompere la gravidanza. Infatti la legge, in presenza di determinati presupposti, consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto, principi la cui portata verrà esaminata ed approfondita dal collegio nel corso dell’esame del quinto motivo di ricorso, è qui sufficiente osservare come, nel caso di specie, a fronte di una precisa istanza diagnostica della signora B. espressamente funzionale ad una eventuale interruzione della gravidanza, appare di converso ricorrere l’opposta presunzione - ovviamente predicabile ex ante sul piano della causalità ipotetica ex lege 194/78 - di una patologia materna destinata ad insorgere a seguito della scoperta della paventata malformazione fetale (patologia poi puntualmente insorta sotto forma di danno © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 43 biologico psichico, come accertato in sede di consulenza medico-legale, ad indiretta conferma - sia pur ex post e sia pur con carattere non dirimente ai fini del giudizio prognostico - della esattezza della presunzione de qua). 5.- Con il quarto motivo, si denuncia: a) violazione e falsa applicazione dei limiti soggettivi di legittimazione attiva all’azione di risarcimento danni ex art. 1218 e 2043 c.c. conseguenti all’inadempimento di obbligazione assistenziale verso una gestante. b) Violazione dell’art. 1 c.c. e della legge 194/78 che attribuiscono la titolarità di diritti al feto solo al momento della nascita. Revisione critica della giurisprudenza in materia anche alla luce degli orientamenti espressi dalla Corte Suprema con la sentenza n. 10741/2009. c) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. con riferimento alla mancata pronuncia in ordine alla legittimazione attiva degli attori diversi dalla signora B. e di M. O. La doglianza deve essere accolta. Rinviando all’esame del quinto motivo la questione della cd. “legittimazione attiva” di M. O., va in questa sede affermato il principio di diritto secondo il quale la responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre (come già affermato da Cass. n. 14488/2004 e prima ancora da Cass. 6735/2002), nonché, a giudizio del collegio, alla stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta. L’indagine sulla platea dei soggetti aventi diritto al risarcimento, difatti, già da tempo operata dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento al padre (di recente, ancora, da Cass. n. 2354/2010), non può non essere estesa, per le stesse motivazioni predicative della legittimazione dell’altro genitore, anche ai fratelli e alle sorelle del neonato, dei quali non può non presumersi l’attitudine a subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere dagli eventuali risvolti e delle inevitabili esigenze assistenziali destinate ad insorgere, secondo l’id quod plerumque accidit, alla morte dei genitori. Danno intanto consistente, tra l’altro (come meglio si avrà modo di specificare di qui a breve, esaminando la posizione di M. O.) nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono invece non sempre compatibili con lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno fortunato; consci - entrambi i genitori - che il vivere una vita malformata è di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza, pur senza che questo incida affatto sull’orizzonte di incondizionata accoglienza dovuta ad ogni essere umano che si affaccia alla vita qual che sia la concreta situazione in cui si trova - principio cardine non di una sola, specifica morale, ma di una stessa ed universale Etica (e bioetica) della persona, caratterizzata dalla insostituibile centralità della coscienza individuale. 6.- Con il quinto motivo, si denuncia violazione degli artt. 1218, 2043 1223 2056 c.c. con riferimento: • Alla dannosità dell’handicap congenito per il bambino nato © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 44 • Al diritto del medesimo al risarcimento • Al rilievo causale dell’inadempimento dell’obbligo di diagnosi precoce nei confronti della madre. Il motivo è fondato. Viene posto al collegio il delicato problema della titolarità di un diritto al risarcimento del danno in capo al minore handicappato, nato - a seguito della omessa rilevazione, da parte del sanitario, della malformazione genetica - da una madre che, contestualmente alla richiesta dell’esame diagnostico, abbia manifestato la volontà di non portare a termine la gravidanza nell’ipotesi di risultato positivo del test. La questione chiama l’interprete, fin dai tempi del diritto romano classico, ad una complessa indagine sulla natura giuridica (e sulle sorti) dei diritti riconosciuti a colui qui in utero est (Dig., 1.5.7.). Essa oscilla, nella sua più intima sostanza, tra semplicistiche trasposizioni della abusata fictio romanistica che rimanda al conceptus come soggetto pro iam nato (habetur) quotiens de eius commodis agatur (aforisma storicamente confinato, peraltro, nell’orbita dell’acquisto di diritti patrimoniali condizionati all’evento nascita), e contrastate adesioni alla sua rappresentazione sicut mulier portio vel viscerum (espressiva della teoria cd. pro choice, cara a tanta parte della giurisprudenza nordamericana in termini di diritto soggettivo assoluto della donna a decidere della sorte del concepimento e del concepito). La questione induce, in limine, ad indagare sulla qualità da attribuire al concepito nella sua dimensione rigorosamente giuridica, attraverso un’analisi scevra da facili quanto inevitabili suggestioni di tipo etico o filosofico, onde predicarne la natura di soggetto di diritto ovvero, del tutto specularmente, di oggetto di tutela sino al momento della sua nascita. Non è questa la sede per ripercorrere funditus, in via interpretativa, le tappe di un complesso itinerario di pensiero segnato da norme ordinarie e costituzionali non meno che da (reali o presunte) “clausole generali” - quali quella della centralità della persona -, itinerario funzionale a scelte di teoria generale dell’ermeneutica tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi di cui è compiuta e approfondita traccia (sia pur non del tutto condivisibile tanto nelle premesse metodologiche quanto nelle conseguenti conclusioni) nella sentenza di questa stessa sezione n. 10741/2009. Ma da tale itinerario il collegio non può, d’altro canto, del tutto prescindere, proprio al fine di condurre a non insoddisfacente soluzione giuridica la questione di cui in premessa, ripercorrendone, sia pur brevemente, le tappe essenziali, attesi gli espliciti riferimenti operati dalle parti dell’attuale procedimento proprio alla sentenza n. 10741/2009. L’analisi delle affermazioni contenute in quella pronuncia deve, peraltro, essere preceduta dall’esame dei principi di diritto contenuti nella sentenza n. 14488/2004 di questa sezione, predicativa, come è noto: - della irrisarcibilità del danno da nascita malformata lamentato in proprio dal neonato; - della speculare limitazione di tale diritto a due soli soggetti, rappresentati dalla madre e dal padre del bambino malformato. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 45 6.1.-. Nella vicenda di cui questa Corte ebbe ad occuparsi nel 2004, genitori affetti da talassemia non vennero informati dal medico, durante la gravidanza, del rischio che anche la nascitura potesse risultarne contagiata, e perciò convennero in giudizio il professionista chiedendone la condanna al risarcimento del danno patito sia da loro che dalla figlia nata talassemica. Il giudice di merito riconobbe e liquidò il risarcimento dei danno subiti da entrambi i genitori per l'omissione del medico, che aveva così precluso un'eventuale interruzione della gravidanza, negando peraltro il medesimo diritto alla neonata, la cui malattia venne ritenuta non evitabile né rimediabile. La corte di legittimità, sollecitata alla rivisitazione di tale dictum, confermerà nell’an quella pronuncia, argomentando diffusamente su questioni la cui delicatezza trascende non poco il compito dell’interprete, inducendolo a riflettere (come è stato suggestivamente osservato in dottrina) sul “miserabile ruolo del diritto” che, nel riconsiderare tanto gli spazi concessi alla giurisprudenza quanto quelli di esclusiva pertinenza del legislatore, affronta in questi ultimi anni, con i soli strumenti suoi propri e perciò solo del tutto inadeguati, l’inedita dimensione della responsabilità sanitaria del ventunesimo secolo nei suoi aspetti più problematici, quando cioè essa oscilla tra la vita (non voluta) e la morte (voluta, per espressa dichiarazione o per silenziosa presunzione). L’iter motivazionale della Cass. n. 14488/2004 è scandito dai seguenti passaggi argomentativi: a) nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute della donna e il valore (e la tutela) del concepito, l’ordinamento consente alla madre di autodeterminarsi, ricorrendone le condizioni richieste ex lege, a richiedere l'interruzione della gravidanza. La sola esistenza di malformazioni del feto che non incidano sulla salute o sulla vita della donna non permettono alla gestante di praticare l'aborto: il nostro ordinamento non ammette, dunque, l'aborto eugenetico e non riconosce né alla gestante né al nascituro, una volta nato, il diritto al risarcimento dei danni per il mancato esercizio di tale diritto (della madre); b) la legge n. 194 del 1978 consente invece alla gestante d'interrompere la gravidanza solo quando dalla prosecuzione della gestazione possa derivare, anche in previsione di anomalie o malformazioni del concepito, un reale pericolo per la sua salute fisica o psichica, ovvero per la sua vita; c) prevale, in seno agli ordinamenti stranieri, la tendenza a rigettare la domanda proposta in proprio dal nato malformato e ad accogliere quella dei genitori relativamente ai danni patrimoniali e non patrimoniali; peraltro, la Corte di Cassazione francese in assemblea plenaria, nel celebre arrét Perruche del 27.11.2001, operando un revirement rispetto alla precedente giurisprudenza, affermò che, "quando gli errori commessi da un medico e dal laboratorio in esecuzione del contratto concluso con una donna incinta impedirono a quest'ultima di esercitare la propria scelta di interruzione della gravidanza, al fine di evitare la nascita di un bambino handicappato, questi può domandare il risarcimento del danno consistente nel proprio handicap, causato dai predetti errori". A tale pronuncia fece immediato seguito l’intervento del legislatore (loi Kouchner 303/2002), che escluse qualsivoglia pretesa risarcitoria dell'handicappato per il solo fatto della nascita “quando l'handicap non è stato provocato, aggravato o evitato da errore medico”; d) la tutela giuridica del nascituro, pure prevista dal nostro ordinamento, è peraltro regolata in funzione del diritto del concepito a nascere (sano), mentre un eventuale diritto a non nascere sarebbe un diritto adespota in quanto, a norma dell'art. 1 c.c., la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, ed i diritti che la legge riconosce a favore del concepito (artt. 462 687 715 c.c.) sono subordinati all'evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita. Nella fattispecie, invece, il diritto di non nascere, fino alla nascita, non avrebbe un soggetto titolare dello stesso, mentre con la nascita sarebbe definitivamente scomparso; © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 46 e) sotto altro profilo, ma nella stessa ottica, ipotizzare il diritto del concepito malformato di non nascere significa concepire un diritto che, solo se viene violato, ha, per quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di non nascere), non vi è mai un titolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai la possibilità di esercitarlo (non esisterebbe un soggetto legittimato a farlo valere): non può farlo valere, ovviamente, il concepito, ancora non nato; non potrebbe farlo valere, altrettanto ovviamente, il medico; non potrebbe essere esercitato neppure dalla gestante. Il suo diritto all'aborto non ha, infatti, una propria autonomia, per quanto relazionata all'esistenza o meno delle malformazioni fetali, come invece nella legislazione francese, ma si pone in una fattispecie di tutela del diritto alla salute: il diritto che ha la donna è solo quello di evitare un danno serio o grave, a seconda delle ipotesi temporali, alla sua salute o alla sua vita. Per esercitare detto diritto, nel bilanciamento degli interessi, l'ordinamento riconosce la possibilità alla donna di interrompere la gravidanza, ed è la necessità della tutela della salute della madre che legittima la stessa alla (richiesta di) soppressione del feto scriminandola da responsabilità (se l'interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978, accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8, costituisce reato anche per la stessa gestante ex art. 19 stessa legge); f) il nostro ordinamento positivo tutela il concepito - e quindi l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui, se di diritto vuol parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere. Già la Corte Costituzionale, con la sent. 18.2.1975, n. 27, dichiarando costituzionalmente illegittimo l'art. 546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando la sua prosecuzione implicava danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre, aveva precisato che anche la tutela del concepito ha "fondamento costituzionale" nell'art. 31 comma 2° della Costituzione, che "impone espressamente la protezione della maternità" e, più in generale, nell'art. 2, che "riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito". La successiva legge 22.5.1978, n. 194, significativamente intitolata "norme per la tutela sociale della maternità" oltre che "sull'interruzione volontaria della gravidanza", proclama all'art. 1 che "lo Stato .... riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio"; inizio che, come si evince dal combinato disposto con gli articoli successivi, va riferito al momento del concepimento (e non tanto, o non solo allo scadere del novantesimo giorno dal concepimento, cui fa riferimento il successivo art. 4); g) va poi osservato che, se esistesse detto diritto a non nascere se non sano, se ne dovrebbe ritenere l'esistenza indipendentemente dal pericolo per la salute della madre derivante dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l'ulteriore problema, in assenza di normativa in tal senso, di quale sarebbe il livello di handicap per legittimare l'esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto livello è legittimante della non nascita. Infatti, anche se non vi fosse pericolo per la salute della gestante, ogni qual volta vi fosse la previsione di malformazioni o anomalie del feto, la gestante, per non ledere questo presunto diritto di "non nascere se non sani", avrebbe l'obbligo di richiedere l'aborto, altrimenti si esporrebbe ad una responsabilità (almeno patrimoniale) nei confronti del nascituro una volta nato. Quella che è una legge per la tutela sociale della maternità e che attribuisce alla gestante un diritto personalissimo, in presenza di determinate circostanze, finirebbe per imporre alla stessa l'obbligo dell'aborto (salvo l'alternativa di esporsi ad un'azione per responsabilità da parte del nascituro). Nei primi commenti alla sentenza, la dottrina non mancò di osservare come il riconoscimento di un diritto al risarcimento accordato anche al padre - terzo rispetto al contratto intercorso tra il medico e la gestante, e privo di qualsivoglia os ad eloquendum nella sua decisione d'interrompere la gravidanza -, con riferimento agli "effetti protettivi" del contratto verso i terzi comunque esposti ai pregiudizi conseguenti all'inadempimento del sanitario, indebolisse la soluzione del diniego dell'analoga pretesa fatta valere dai genitori a nome della figlia nata, che a più forte ragione doveva ritenersi ricompresa © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 47 nella cerchia dei suddetti terzi danneggiati. Lo stesso riferimento alla non-imputabilità dell’evento (per via dell'inevitabilità della malformazione) all'omissione del medico venne sotto vari aspetti sottoposta a critica, volta che tale riferimento non appariva poi idoneo ad escludere non solo l'affermata responsabilità del medico verso la madre (in quanto) privata della possibilità di autodeterminarsi nella prosecuzione della gravidanza, ma anche quella nei confronti del padre, sebbene non legittimato in alcun modo ad interloquire sull'interruzione della gestazione (e ciò nondimeno, "egualmente protetto dal contratto originario"). Per altro verso, l'argomento cardine utilizzato per negare il risarcimento richiesto (anche) dalla figlia – costituito dalla conclamata inesistenza nel nostro ordinamento di un diritto a non nascere se non sano, in quanto "posizione non meritevole di tutela" – venne definito “affermazione meramente retorica - e quindi elusiva del grave problema posto a quel tempo al collegio, da riassumersi nel quesito se una persona nata con una malformazione che ne segna la vita e di cui sicuramente non è responsabile abbia o meno diritto a chiederne conto a qualcuno, considerato che il nostro ordinamento, per un verso, favorisce, sì, la procreazione, ma in quanto "cosciente e responsabile", ex art. 1 l. n. 194/1978, mentre, d’altro verso, tutela (come ribadisce la stessa sentenza) il diritto del concepito a nascere sano. Né la mancata previsione legale di un diritto a non nascere venne ritenuto argomento spendibile (“come avrebbe mai potuto l’ordinamento prevedere un simile diritto?”): se, come è ovvio, ogni tutela giuridica deve essere, per necessità logica, riferita ad un soggetto esistente, l'unica alternativa in ordine all'ammissibilità di una siffatta tutela non era tra non nascere o nascere malato, bensì tra nascere sano o nascere malato. Sotto altro profilo, perplessità vennero sollevate perché, nel discorrere di una pretesa assenza dell'interesse protetto, la sentenza postulava una valutazione di "non ingiustizia" del danno estranea all'ambito della responsabilità contrattuale, (lasciando così il fanciullo handicappato senza alcuna tutela nei casi di abbandono, di cattiva amministrazione o di premorienza dei genitori). Si osservò, significativamente, come la questione non consistesse nell'affermare o nel negare pretesi diritti di nascere (o di non nascere, o di non "nascere handicappato") o di morire (o di non morire), né di valutare quanto valga il "non-essere" rispetto all'"essere” (handicappato), posto che il vivere una vita malformata è di per se una situazione esistenziale negativa, onde il danno ingiusto risarcibile provocato da un'azione comunque colpevole altrui – consisterebbe nell’obiettività del vivere male indipendentemente dalle alternative a disposizione, espungendo dalla sfera del rilevante giuridico una concezione del danno come paragone con la vita sana perché questa vita sana non ci sarebbe stata: a seguito della nascita, si è sostenuto, “la questione non è più quella della sua venuta al mondo, ma soltanto quella del suo handicap”. Poco convincenti apparvero, infine, le ulteriori obiezioni che paventavano un potenziale quanto “innaturale” diritto risarcitorio del minore esercitabile nei confronti della madre - che, correttamente informata dal medico sui rischi della nascita, avesse liberamente deciso di generare un figlio invalido - ovvero del padre contro la madre: danni in realtà irrisarcibili per l'assenza di una condotta colposa, se il fatto di dare la vita, o la rinuncia, da parte della madre, a interrompere la gravidanza, non possono mai essere considerati in termini di colpa né di ingiustizia del danno. L'atto della procreazione è frutto di una scelta che spetta, giuridicamente, soltanto ai genitori; ma la donna è, inevitabilmente, il solo legittimo destinatario del diritto a decidere se procedere o no all'interruzione della gravidanza. Ancor meno convincenti apparvero, agli occhi della più attenta dottrina, le osservazioni contenute in sentenza circa la disciplina dell'interruzione della gravidanza allo scopo di individuare "il bene giuridico protetto dalle norme che sanzionano l'aborto", considerato che annettere il risarcimento del danno prenatale nei confronti del fanciullo nato handicappato al territorio della responsabilità contrattuale indurrebbe ad opinare che “il bébé préjudice sia risarcibile nei riguardi del neonato quale conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) dell'obbligazione © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 48 d'informazione, senza che assuma rilievo la valutazione della condotta in termini di ingiustizia del danno”. Onde il voler rifiutare di ammettere che un handicap sia, per l'andicappato medesimo, un "danno" venne definito “un puro e semplice sofisma", se è non la "vita" dell'handicappato che si tratta di assimilare a un danno, ma proprio il suo handicap. Altro limite rilevato dalla dottrina con riguardo alla motivazione della sentenza ebbe riguardo a quella che venne (del tutto condivisibilmente) ritenuta da più parti la questione giuridica essenziale, quella, cioè, del rapporto di causalità. La sentenza, difatti, non affrontò specificamente il problema del nesso eziologico (diversamente da quanto accaduto in Francia, dove sia la giurisprudenza del Consiglio di Stato e delle Corti d'appello, sia gli autori che contestarono la decisione della Cassazione sul caso Perruche motivarono la soluzione negativa sull'assenza del legame eziologico tra l'inadempimento e il danno), mentre la questione del nesso di causalità per il danno patito dal fanciullo handicappato - si disse -, lungi dal poter derivare da una analisi conseguente alla cd. biologisation du droit , andava riguardata sotto un profilo rigorosamente giuridico, così come accade ad esempio in caso di contagio da trasfusione, ove la causa “biologica” della malattia è certamente il virus HIV o HCV, ma nessuno dubita che la responsabilità vada imputata, sulla base di un criterio di causalità giuridicamente rilevante, a quel soggetto (pubblico o privato) che, con la sua colpevole omissione, abbia provocato, reso possibile o non impedito il contagio. 6.2.- Con la sentenza n. 10741/2009, questa Corte di legittimità, nuovamente investita della questione della risarcibilità in proprio del nascituro, sia pur sotto il diverso profilo della rilevanza - in guisa di conseguente danno ingiusto - di una attività commissiva (oltre che omissiva) del sanitario, dopo aver premesso che il nascituro o il concepito devono ritenersi dotato di autonoma soggettività giuridica (specifica, speciale, attenuata, provvisoria o parziale che si voglia), perché titolari, sul piano sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, e quelli alla salute o integrità psico-fisica, all'onore o alla reputazione, all'identità personale, affermò il principio di diritto secondo il quale, stante la soggettività giuridica del concepito, al suo diritto a nascere sano corrisponde l’obbligo dei sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento condizionato, quanto alla titolarità, all'evento nascita ex art. 1 comma 2 c.c., ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine ai possibili rischi teratogeni conseguenti alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso. Il collegio ebbe poi cura di precisare, sia pur in guisa di mero obiter dictum, che quest'ultimo non avrebbe avuto diritto al risarcimento qualora il consenso informato circa il rischio di malformazioni prenatali fosse stato funzionale soltanto alla interruzione di gravidanza da parte della donna, dando così ulteriore continuità al principio di diritto espresso dalla sentenza n. 14488/2004. L’iter motivazionale della sentenza del 2009 – all’esito di una lunga e approfondita riflessione che, premesse alcune considerazioni di teoria generale del diritto, specie in tema di fonti e di interpretazione, giunge alla conclusione della attuale configurabilità, in seno all’ordinamento, di una posizione di autonoma soggettività in capo al nascituro – si caratterizza per i seguenti passaggi argomentativi: a) il mancato esercizio di una doverosa informazione a ciascuno dei coniugi circa la potenzialità dannosa di un farmaco somministrato alla futura madre per stimolarne la funzione riproduttiva aveva precluso loro di scegliere, con avvertita coscienza dei rischi, di farne uso o meno, con conseguente responsabilità del medico nei confronti di entrambi, in quanto destinatari delle informazioni colpevolmente omesse; © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 49 b) l’esistenza di un danno ingiusto risarcibile era, nella specie, predicabile anche con riguardo alla posizione del neonato portatore di handicap e perciò vittima, dopo il suo concepimento (secondo le accertate risultanze in fatto della vicenda) degli effetti nocivi del farmaco prescritto, attesa la molteplicità e concordanza degli indici normativi volti a riconoscere la soggettività giuridica del nascituro, titolare, come tale, del diritto (tra gli altri) alla salute, azionabile a fini risarcitori a seguito della effettiva nascita; c) il diritto al risarcimento così riconosciuto al figlio nato in conseguenza di una terapia nociva non contraddice la esclusione di ogni tutela risarcitoria nel diverso caso della mancata informazione (sui rischi di malformazione del feto) incidente sulla decisione della madre di interrompere, in tal caso, la gravidanza, attesa la già affermata inconfigurabilità nel nostro ordinamento, di un diritto a non nascere se non sano. La grande novità della sentenza, rispetto al precedente costituto dalla pronuncia n. 6735 del 2002 (che ammise al risarcimento anche il padre del bambino nato malformato), consiste nel riconoscimento che gli effetti protettivi del rapporto obbligatorio (contrattuale o da cd. "contatto sociale") instaurato tra la paziente e i sanitari che la assistono durante la gestazione si producono non solo a favore del marito, bensì anche del figlio. Per la prima volta questo giudice di legittimità si è spinto, sia pur sotto un diverso profilo rispetto a quello che oggi occupa il collegio, a valutare l'incidenza della nascita di un bambino in condizioni menomate sul piano dell'esistenza dell'intera famiglia, e non più solo della coppia, riconoscendo un autonomo diritto al risarcimento anche al protagonista principale di una vicenda di danno prenatale. 6.2.- La soluzione della questione di diritto affrontata nella sentenza n. 10741/09, al pari di quella oggi sottoposta all’esame del collegio, non sembra, peraltro, postulare né imporre come imprescindibile l’affermazione della soggettività del nascituro, soluzione che sconta, in limine, un primo ostacolo di ordine logico costituito dalla apparente contraddizione tra un diritto “a nascere sano” (un diritto, dunque, alla vita, che si perpetuerebbe nel corso della gestazione) e la sua repentina quanto inopinata trasformazione in un diritto alla salute di cui si invocherebbe tutela solo dopo la nascita. In premessa, l’accurata analisi, gli approfonditi riferimenti e gli spunti critici riservati in sentenza alla giurisprudenza cd. normativa, nell’ottica di una rinnovata funzione “creativa” della speculare Interessenjurisprudenz, ne lascia poi impregiudicato l’interrogativo circa la collocazione di quest’ultima nell'ambito della gerarchia delle fonti – salvo a voler riservare alle sole fonti “poste” tale preordinazione gerarchica, onde la giurisprudenza normativa sarebbe singolarmente fuori da quell'assetto. Se quest'ultimo appare a prima vista l’approdo più agevole sul piano dogmatico, per altro verso non sembra seriamente discutibile che, così opinando, il giudice civile, laddove ritenga nell’interpretare la legge alla luce dei valori costituzionali che essa non tuteli (o non tuteli a sufficienza) una situazione giuridica di converso meritevole, interviene a creare una corrispondente “forma” giuridica di tutela, eventualmente in contrasto con la legge stessa, ma senza subire alcun sindacato di costituzionalità, in quanto il sistema non prevede un meccanismo immediato di sindacato della costituzionalità degli orientamenti pretori salvo che questi riguardino la stretta interpretazione di una o più norme di legge esistenti (e sempre che un giudice sollevi la questione di costituzionalità secondo il consueto procedimento di cognizione incidentale). Il problema – che non può essere approfondito in questa sede se non nei limiti in cui la risoluzione del caso concreto lo impone e che attinge all'equilibrio stesso tra i poteri dello Stato, oltre che al modo di essere, e dunque di evolversi, dell'ordinamento giuridico – induce l’interprete ad interrogarsi sui limiti del suo intervento in seno al tessuto normativo e al di là di esso, senza mai omettere di considerare che, di interpretazione contra legem (non diversamente che per la consuetudine), non è mai lecito discorrere in un sistema (pur semi-aperto) di civil law, che ammette e legittima, © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 50 esaurendone in sé la portata innovativa, l’interpretazione estensiva e l’integrazione analogica, anch’essa condotta pur sempre ex lege ovvero ex iure. Non altro. Non oltre. Merito della sentenza è senz’altro quello di aver distinto tra due situazioni apparentemente simili, ma in realtà, sul piano giuridico, tra loro assai diverse. Al contrario di quanto avviene nel caso di prescrizione di farmaci teratogeni, la errata o mancata diagnosi non rileva ex se, sul piano eziologico, con riguardo alla genesi della patologia sofferta dal bambino, vicenda per la quale i genitori possono conseguentemente lamentare, nei confronti dei sanitari, la sola omissione di informazione circa lo stato di salute del feto per avere tale difetto di informazione di fatto impedito alla madre di potersi determinare ad un aborto terapeutico nei termini e alle condizioni previste dalla legge. Meno condivisibile appare, per le ragioni che in seguito meglio si approfondiranno, il principio, ribadito in obiter, della irrisarcibilità del danno direttamente subito dal neonato, che ad avviso del collegio perpetua lo stesso equicovo concettuale immanente alla sentenza n. 14488/2004: quello secondo il nato non ha comunque diritto ad alcun risarcimento del danno per essere venuto alla vita, in quanto privo della titolarità di un interesse a non nascere. La contraddizione in materia di diritti del concepito sta proprio, da un lato, nel considerarlo (a torto o a ragione), in fase prenatale, soggetto di diritto e perciò centro di imputazione di alcuni diritti, della personalità e patrimoniali - da far valere solo se ed in quanto nato -; dall'altro, nel riservargli, alla nascita un trattamento di non-persona, disconoscendone sostanzialmente gli aspetti più intimi e delicati della sua esistenza. La concezione della vita come oggetto di tutela, da parte dell’ordinamento, in termini di “sommo bene”, di alterità normativa superiorem non recognoscens - di talché non potrebbe in alcun modo configurarsi un interesse a non nascere giuridicamente tutelato (al pari di un interesse a non vivere una non-vita, come invece condivisibilmente riconosciuto da questa stessa corte con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) - è percorsa da forti aneliti giusnaturalistici, ma è destinata a cedere il passo al raffronto con il diritto positivo. Decisiva appare, difatti, la considerazione secondo cui, al momento stesso in cui l'ordinamento giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire, sia pur nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si palesa come incontestabile e irredimibile il sacrificio del “diritto” del feto a venire alla luce, in funzione della tutela non soltanto del diritto alla procreazione cosciente e responsabile (art. 1 della legge n. 194 del 1978), ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre. Mentre non vi sarebbe alcuno spatium comparationis se, a confrontarsi, fossero davvero, in una comprovata dimensione di alterità soggettiva, un (superiore) diritto alla vita e un (“semplice”) diritto alla salute mentale. E’ questo l’insegnamento, oltre che del giudice delle leggi, della stessa Corte internazionale di Strasburgo che, con (ancora inedita) sentenza dell’agosto di quest’anno, ha dichiarato la sostanziale incompatibilità di buona parte della legge 40/2004 in tema di fecondazione assistita (che, comunque, consentiva anche nell’originaria formulazione il sacrificio di due dei tre embrioni fecondati in vitro), per (illogicità e) contraddittorietà, proprio con la legge italiana sull’interruzione della gravidanza, così mettendo in discussione ab imo la stessa ratio ispiratrice di quella normativa, già considerevolmente vulnerata in non poche disposizioni dalla Corte costituzionale nel 2009. Troppo spesso si dimentica che una norma statuale di rango primario, più volte legittimata dal vaglio della Corte costituzionale, riconosce alla madre il diritto ad interrompere la gravidanza quando questa si trovi "in circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 51 comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito" (così testualmente l’art. 4 della legge n. 194 del 1978). Appare di indiscutibile efficacia la scelta lessicale di un legislatore che descrive la situazione giuridica soggettiva attribuita alla gestante in termini di diritto alla procreazione cosciente e responsabile, a lei rimesso in termini di assoluta quanto inevitabile esclusività. Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è, dunque, attribuito alla sola madre, per espressa volontà legislativa, sì che risulta legittimo discorrere, in caso di sua ingiusta lesione, non di un diritto esteso anche al nascituro in nome di una sua declamata soggettività giuridica, bensì di propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito (come incontestabilmente ammesso nei confronti del padre) - salvo l’indispensabile approfondimento (che di qui a breve seguirà) sul tema della causalità in relazione all’evento di danno in concreto lamentato dal minore nato malformato. Altra e diversa questione è quella se la facoltà riconosciuta ex lege alla madre di interrompere volontariamente la gravidanza - consentendole di porre fine, con la propria manifestazione di volontà, allo sviluppo del feto - possa ritenersi rappresentativa di un esclusivo interesse della donna, e non piuttosto anche del nascituro. Questione, peraltro, di stampo etico, filosofico, religioso, che pone all’interprete interrogativi destinati a scorrere su di un piano metagiuridico di coscienza, ma non impone la ricerca di risposte né tampoco di soluzioni sul piano del diritto positivo, postulando che l'interesse alla procreazione cosciente e responsabile non sia solo della madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno. La titolarità del relativo diritto soggettivo, riconosciuto espressamente dall'art. 1 della legge n. 194 del 1978, non può che spettare, si ripete, alla sola madre, in quanto solo alla donna è concessa (dalla natura prima ancora che dal diritto) la legittimazione attiva all'esercizio del diritto di procreare coscientemente e responsabilmente valutando le circostanze e decidendo, alfine, della prosecuzione o meno di una gravidanza che vede la stessa donna co-protagonista del suo inizio, ma sola ed assoluta responsabile della sua prosecuzione e del suo compimento. Il rigoroso meccanismo legislativo, in consonanza con quello di natura, esclude tout court la possibilità che il bambino, una volta nato, si dolga nei confronti della madre, come pure si è talvolta ipotizzato seguendo gli itinerari del ragionamento per assurdo, della scelta di portare avanti la gravidanza accampando conseguentemente pretese risarcitorie. E' la madre, infatti, che, esercitando un diritto iure proprio (anche se, talvolta, nell'interesse non soltanto proprio, pur essendo tale interesse confinato nella sfera dell’irrilevante giuridico), deciderà presuntivamente per il meglio: né potrebbe darsi ipotesi contraria, a conferma della mancanza di una reale soggettività giuridica in capo al nascituro. A tanto consegue la non condivisibilità, sul piano strettamente giuridico, della ricostruzione delle singole situazioni soggettive (della madre, del padre, dei componenti il nucleo familiare, del neonato stesso) che postulino in premessa l’esistenza, in capo al nascituro, di un diritto a nascere sano, contrapposto idealmente ad un non diritto “a non nascere se non sano". Altra questione, del tutto fuori dall’orbita del diritto, è quella che vede tuttora discutersi a vario titolo sulla scelta legislativa di consentire alla madre di scegliere se proseguire o meno la gravidanza in presenza di determinate condizioni. Compiuta una simile opzione normativa da parte del legislatore ordinario, e ricevuta ripetuta e tranquillante conferma della sua conformità al dettato costituzionale da parte del giudice delle leggi, l’interprete è chiamato non ad un compito “creativo” di pretese soggettività limitate, ma all’accertamento positivo di un diritto, quello della madre, e di un interesse, quello del nascituro (una volta in vita), oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, alla procreazione cosciente e responsabile. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 52 Sarà poi destinata alle considerazioni che di qui a breve seguiranno l’analisi della questione centrale della causalità, la questione, cioè, se ledere un siffatto interesse abbia come conseguenza diretta ed immediata quella di porre il nascituro malformato in condizioni di diseguaglianza rispetto agli altri nascituri, e se tale condotta lesiva sia o meno concausa del suo diritto al risarcimento, da valutare anche sotto il profilo del suo inserimento in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo. Sgombrato il campo dall'equivoco che si annida nella poco felice locuzione "diritto a non nascere se non sano", e ricondotta la vicenda alla sua più corretta dimensione giuridica, il principio di diritto che appare predicabile è quello secondo il quale la propagazione intersoggettiva dell’illecito legittima un soggetto di diritto, quale il neonato, per il tramite del suo legale rappresentante, ad agire il giudizio per il risarcimento di un danno che si assume in ipotesi ingiusto (tuttora impregiudicata la questione del nesso causale e dell’ingiustizia del danno lamentato come risarcibile in via autonoma dal neonato). Ritiene, pertanto, il collegio che la protezione del nascituro non passi necessariamente attraverso la sua istituzione a soggetto di diritto - ovvero attraverso la negazione di diritti del tutto immaginari, come quello a “non nascere se non sano”, locuzione che semplicemente non rappresenta un diritto; come non è certo riconducibile ad un diritto del concepito la più ferma negazione, da parte dell’ordinamento (non soltanto italiano), di qualsiasi forma di aborto eugenetico. E’ tanto necessario quanto sufficiente, di converso, considerare il nascituro oggetto di tutela, se la qualità di soggetto di diritto (evidente astrazione rispetto all’essere vivente) è attribuzione normativa funzionale all’imputazione di situazioni giuridiche e non tecnica di tutela di entità protette. Nessuna rilevanza, in positivo o in negativo, pare assumere all’uopo il pur fondamentale principio della centralità della persona, universalmente riconosciuto e tutelato a qualsiasi livello normativo, ma inidoneo ex se a rientrare nel novero delle vere e proprie “clausole generali” (quali quelle della correttezza, della buona fede, della funzione sociale della proprietà, della giusta causa del licenziamento, della cooperazione del creditore all’adempimento del debitore, della solidarietà passiva, tutte espressamente previste, esse sì, per via normativa). La centralità della persona (al di là della significazione che si attribuisce al termine “persona”, la cui etimologia evoca peraltro l’originario significato latino di maschera del teatro) è qualcosa di più e di diverso rispetto ad una semplice clausola generale, è un “valore assoluto”, rappresentabile esso stesso come proiezione di altre norme (tra le altre, gli art. 2 e 32 della Costituzione) e come autentico fine dell’ordinamento.. Per altro verso, una corretta e coerente attuazione dei principi cardine della giurisprudenza degli interessi (a mente della quale la correttezza della decisione del giudice dipende dalla altrettanto corretta valutazione dello scopo delle norme, anche a prescindere dalla relativa struttura semanticocontenutistica, secondo una ricerca del relativo significato in una dimensione teleologica, diversamente da quanto propugnato dalla giurisprudenza dei concetti, che procede invece per progressiva astrazione da norme di sistema valutandone soltanto il corrispondente significante) sembra condurre alla conclusione che tutte le norme, costituzionali e ordinarie, volte a disciplinare il delicato territorio del concepimento considerino il concepito come un oggetto di tutela necessaria, essendo la soggettività – come s’è detto – un’astrazione normativa funzionale alla titolarità di rapporti giuridici. Ne è conferma tanto lo storico dictum della Corte costituzionale (di cui alla sentenza del 18 febbraio 1975, n. 27, predicativa del fondamentale principio della non equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare) quanto le già ricordate disposizioni sull’interruzione di gravidanza che, se realmente postulassero un confronto tra due diverse soggettività giuridiche, e cioè fra due soggetti di diritto portatori di interessi e istanze contrapposte, non potrebbero mai operare una © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 53 comparazione tra una malattia psichica e una vita privilegiando la prima, dovendosi di converso lasciar ovvio spazio alla vita in quanto valore supremo superiorem non recognoscens. Sotto un ulteriore profilo, non appare seriamente predicabile l’attuale esistenza, in capo al concepito, dei pur rinvenuti “interessi personali quali il diritto all’onore, alla reputazione, all’identità personale”, situazioni soggettive che presuppongono una dimensione di relazioni sociali (la reputazione, l’identità personale) ovvero una consapevolezza di sé (l’onore), che, ipso facto, difettano tout court al concepito sul piano naturalistico prima ancora che su quello giuridico. Non si intende, con ciò, mettere in discussione quanto recentemente opinato da una attenta dottrina quando osserva che, malgrado il nascituro, da un punto di vista terminologico, non sia una figura rintracciabile nella nostra Costituzione, ciò non significa che non possa essere ricondotto nell'ambito di tutela ad essa proprio. Quando la Costituzione – si afferma – riconosce l'idoneità a essere titolare di situazioni giuridiche attive e passive solo a chi è partecipe della qualità e dignità di uomo, non può che fare riferimento al carattere biologico del soggetto, dal che deriva l'innegabilità del riconoscimento in capo al nascituro dei diritti inviolabili dell'uomo previsti dall'art. 2 della Carta fondamentale, che esalta l'imprescindibile legame di tali diritti con la natura umana. Tale conclusione troverebbe “puntuale conferma” negli art. 2, 30, 31, 32 e 37 Cost., mentre le stesse espressioni che fanno riferimento alla maternità, contenute negli artt. 31, comma 2 e 37 comma 1, si saldano logicamente con la normativa per cui la maternità viene in rilievo come situazione esistenziale “plurima” da salvaguardare, in quanto la tutela giuridica si dirige sia verso la madre sia nei confronti del figlio, e si estende dalla gestante al nascituro. Dalla rassegna delle disposizioni del codice civile – si sostiene ancora - può inoltre evincersi che l'attribuzione delle situazioni giuridiche imputabili al concepito, delle quali solo quelle di natura patrimoniale sarebbero subordinate all'evento nascita, implica necessariamente la valutazione del medesimo come centro di interessi suscettibili di tutela. La locuzione “centro di interessi suscettibile di tutela” è peraltro espressione anfibologica, dalla quale è lecito dedurre tanto la conclusione (non necessaria) della soggettività giuridica del nascituro, quanto quella, più realisticamente aderente al dato normativo ed alla stessa concezione del soggetto in termini di fattispecie (come illuminantemente opinato, oltre sessant’anni fa, da uno dei più illustri esponenti della civilistica italiana), in termini, cioè, di oggetto di tutela “progressiva” da parte dell’ordinamento, in tutte le sue espressioni normative e interpretative. Al là di alcune recenti e poco condivisibili formulazioni lessicali (si pensi alla tecnica normativa adoperata dal legislatore della legge 40/2004 sulla procreazione assistita, la cui improprietà anche terminologica ha cagionato, come si è avuto modo di osservare in precedenza, un inevitabile intervento abrogans di buona parte della sue disposizioni, mentre ancora più recente risulta l’intervento, parimenti tranchant, della Corte di giustizia europea, che ne ha evidenziato la patente contraddittorietà), l’intero plesso normativo, ordinario e costituzionale, sembra muovere nella direzione del concepito inteso come oggetto di tutela e non anche come soggetto di diritto. Solo a seguito dell’evento nascita, difatti, la fattispecie scrutinata dalla sentenza 10741/2009 si presentò non diversamente da un ordinario caso di danno alla salute: la lesione inferta al concepito si manifesta e diviene attuale al momento della nascita, la situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute, non quello a nascere sano. Chi nasce malato per via di un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il concepimento non fa, pertanto, valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né tantomeno un diritto a non nascere. Fa valere, ora per allora, la lesione della sua salute, originatasi al momento del concepimento. Oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quotidiana) il perdurante e irredimibile stato di infermità. Non la nascita non sana. O la non nascita. 6.3.- I principi sinora esposti risultano già in gran parte affermati da questa corte nella sentenza n. 9700 del 2011. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 54 La pronuncia afferma, difatti, il principio di diritto secondo il quale chi sia nato successivamente alla morte del padre può ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali verificatisi contemporaneamente alla nascita e/o posteriormente ad essa, essendo irrilevante la non contemporaneità fra la condotta dell'autore dell'illecito (che ben può realizzarsi durante la fase del concepimento) e il danno (che ben può prodursi successivamente, come già opinato da questa stessa corte, in sede penale, con la sentenza n. 11625 del 2000). Nella specie, si dissero risarcibili i danni subiti dal minore, a partire dal momento della nascita, in conseguenza dell’uccisione del padre avvenuta in epoca anteriore alla nascita stessa, al tempo in cui il minore era soltanto concepito. Così modificata la tesi espressa da questo stesso giudice di legittimità con una risalente pronuncia (Cass. n. 3467 del 1973, affermativa del carattere eccezionale, e dunque di stretta interpretazione, delle disposizioni di legge che, in deroga al principio generale dettato dall'art. 1 comma 1 c.c., prevedono la tutela dei diritti del nascituro), La Corte ritenne irrilevante la questione della soggettività giuridica del concepito, ed comunque impredicabile una sua giuridica configurazione al fine di affermare il diritto del nato al risarcimento “non potendo, d'altro canto, quella soggettività evincersi dal fatto che il feto è fatto oggetto di protezione da parte dell'ordinamento”, in evidente e consapevole adesione all’insegnamento della civilistica classica, uno dei cui più autorevoli esponenti ebbe efficacemente ad evidenziare come la soggettività giuridica trovi il suo normale svolgimento nella capacità giuridica (impregiudicata la questione della soggettività indipendente dalla capacità degli enti impersonali, che rileva piuttosto sotto il profilo dell’attitudine alla titolarità di rapporti giuridici attivi e passivi, in guisa di soggetti di diritto - e dal diritto espressamente contemplati e disciplinati sul piano funzionale - come attualmente esistenti, a differenza del nascituro). D’altronde, non è senza significato la circostanza per la quale sono rimasti privi di seguito, non essendo mai stati discussi neppure in commissione, i due disegni e le due proposte di legge presentati nel corso dell’attuale legislatura, sia al Senato che alla Camera, volti a modificare l’art. 1 comma 1 c.c. sostituendone il testo originario nel senso che “ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento”. La sentenza 9700/2011 evidenziò ancora, con argomentazioni che questo collegio interamente condivide, come il diritto di credito di natura risarcitoria appartenesse alla figlia in quanto nata orfana, e come tale destinata a vivere senza la figura paterna, mentre la circostanza che il padre fosse deceduto prima della sua nascita per fatto imputabile a responsabilità di un terzo assumeva significato nella sola misura in cui condotta ed evento materiale costituenti l'illecito si erano già verificati prima che ella nascesse, ma non anche che prima di nascere ella potesse avere acquistato il diritto di credito al risarcimento. Questo, difatti, postula la lesione di una situazione giuridica tutelata dall'ordinamento, da identificarsi, nella specie, con il diritto al godimento del rapporto parentale, diritto certamente inconfigurabile prima della nascita, così come solo successivamente alla nascita si verificano le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione del diritto derivano. Del rapporto col padre – si legge ancora in sentenza - la figlia è stata privata nascendo, non prima che nascesse. In precedenza, esistevano solo le condizioni ostative al suo insorgere per la già intervenuta morte del padre che la aveva concepita: ma la mancanza del rapporto interpersonale, del legame emozionale che connota la relazione tra padre e figlio è divenuta attuale quando la figlia è venuta alla luce. In quel momento si è dunque verificata la propagazione intersoggettiva dell'effetto dell'illecito “per la lesione del diritto della figlia (non del feto) al rapporto col padre, e nello stesso momento è sorto il © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 55 suo diritto di credito al risarcimento, del quale è dunque diventato titolare un soggetto fornito della capacità giuridica per essere nato”. La sentenza esclude, infine, che possa revocarsi in dubbio l’esistenza di un nesso di causalità fra illecito e danno, inteso questo come insieme di conseguenze pregiudizievoli derivate dall'evento (morte del padre): il figlio cui sia impedito di svilupparsi nell’ambito di questo rapporto genitoriale ne può riportare un pregiudizio che costituisce un danno ingiusto indipendentemente dalla circostanza che egli fosse già nato al momento della morte del padre o che, essendo solo concepito, sia nato successivamente (in tal senso, già Cass. 22 novembre 1993, n. 11503 e Cass. 9 maggio 2000, n. 5881, pur se non condivisibilmente contraddette, di recente - con motivazione, peraltro, meramente assertiva - da Cass. 21 gennaio 2011, n. 1410). Pur se non direttamente investita della questione che occupa invece oggi il collegio, la sentenza in discorso avrebbe concluso, con un breve quanto significativo obiter dictum, nel senso che, nelle modalità di insorgenza del diritto al risarcimento, il caso scrutinato non si differenziava da quello della lesione colposamente cagionata al feto durante il parto (dunque prima della nascita), da cui derivi, dopo la nascita, il diritto del nato al risarcimento per il patito danno alla salute (danno da lesione del diritto alla salute, dunque, e non già del cosiddetto "diritto a nascere sano", che costituisce soltanto l'espressione verbale di una fattispecie costituita dalla lesione provocata al feto, ma che non è ricognitiva di un diritto preesistente in capo al concepito, che il diritto alla salute acquista solo con la nascita), aggiungendo poi che, “in altro ambito, null'altro che espressiva di una particolare fattispecie è la locuzione diritto a non nascere se non sano, alla cui mancanza, in passato, si è correlata la risposta negativa al quesito relativo al se sia configurabile il diritto al risarcimento del nato geneticamente malformato nei confronti del medico che non abbia colposamente effettuato una corretta diagnosi in sede ecografica ed abbia così precluso alla madre il ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza, che ella avrebbe in ipotesi domandato”. Onde “la diversa costruzione che il collegio ritiene corretta consentirebbe invece, nel caso sopra descritto, una volta esclusa l'esigenza di ravvisare la soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al nato, di riconoscere il diritto al risarcimento anche al nato con malformazioni congenite e non solo ai suoi genitori, come oggi avviene, sembrando del tutto in linea col sistema e con la diffusa sensibilità sociale che sia esteso al feto lo stesso effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra madre e medico; e che, come del resto accade per il padre, il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all'autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)”. La pronuncia del 2011, pur senza affermarlo espressamente, ascrive pertanto la vicenda risarcitoria alla categoria dei danni futuri: a quei danni, cioè, che al tempo della consumazione della condotta illecita non si sono ancora (o non si sono del tutto) prodotti pur in presenza di elementi presuntivi idonei a ritenere che il pregiudizio si produrrà (in argomento, funditus, Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147), senza che osti a tale ricostruzione il dato letterale dell'art. 2043 c.c., che discorre di condotta dolosa o colposa che cagiona "ad altri" un danno ingiusto, ma non esige per questo l'attuale esistenza del danneggiato al tempo della condotta lesiva. 6.4.- Va peraltro precisato come fermo convincimento del collegio sia quello per cui l’evaporazione della questione della soggettività giuridica del concepito non conduca punto a rinnegare l'evoluzione subita, in materia, dal nostro ordinamento dal 1942 ad oggi, tanto alla luce delle norme costituzionali, quanto del ruolo sempre più incisivo delle fonti sovranazionali. Non ignora, difatti, il collegio che l'interpretazione dell'art. 1 c.c. non può prescindere da un dato storico certo, quello secondo il quale il codice del 1942 nasce dalla fusione delle leggi civili con i principi fondamentali del diritto commerciale, e dalla conseguente unificazione dei testi normativi © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 56 rappresentati dal codice di commercio e da quello civile. La struttura portante del codice così unificato corre dunque lungo l’asse dei rapporti intersoggettivi di tipo patrimoniale piuttosto che attraversare il territorio dei diritti della persona e della personalità. E’ del pari innegabile che nell'attuale periodo storico, caratterizzato ab imis dalla entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la persona - la sua libertà, la sua dignità - assurge via via a rango di primo motore immobile dell’ordinamento giuridico e della sua interpretazione. Lo stesso giudice delle leggi, con specifico riguardo alla posizione del concepito, ne consacrerà a più riprese un inviolabile interesse alla protezione, sua e della sua vita (particolarmente significativa, al riguardo, la pronuncia 10 febbraio 1997, n. 35). Né può seriamente dubitarsi che l’evoluzione legislativa abbia introdotto una congerie di norme che prendono in considerazione il concepito in quanto tale, come ha avuto cura di evidenziare la citata sentenza n. 10741 del 2009. Ma tale, apprezzabile, condivisibile e probabilmente inevitabile evoluzione del costume legislativo ed interpretativo non conduce, ipso facto, all’approdo necessario della soggettività del concepito. Non convince, difatti, la pur suggestiva riflessione recentemente svolta da un’attenta dottrina su di un piano rigorosamente normativo (e dunque a prescindere da considerazioni etiche, filosofiche, teologiche) a sostegno della teoria della soggettività del nascituro. Essa si fonda sulla generale portata precettiva dell’art. 320 comma 1 c.c. – che attribuisce ai genitori la rappresentanza non solo dei figli nati, ma anche dei nascituri, onde “nell'interpretazione di un linguaggio tecnico come è quello giuridico, non sarebbe revocabile in dubbio che ogni forma di rappresentanza, ivi compresa quella legale, è effettivamente tale se c'è alterità soggettiva fra rappresentante e rappresentato e, dunque, se il rappresentato è il soggetto giuridico in nome del quale il rappresentante agisce”. L’argomento in realtà prova troppo, perché le stesse norme sulla rappresentanza, in ragione della predicata alterità soggettiva, esigono in capo al rappresentato non soltanto la capacità giuridica, ma altresì quella di agire, limitando al rappresentante la sola capacità di intendere e di volere (se tale rappresentanza è conferita dall’interessato). Ne consegue che la “rappresentanza” disciplinata dall’art. 320 sì come riferita al nascituro è istituto affatto peculiare, di portata sicuramente eccezionale, altrettanto certamente limitato al campo dei diritti patrimoniali. E ciò proprio in conseguenza di quella che altra, pensosa dottrina ha dal suo canto definito “la singolarità della relazione tra madre e nascituro, che fa di ogni decisione riguardo al figlio una decisione della madre”, in una relazione non di alterità ma di immedesimazione, questa sì, realmente “organica” (come implicitamente affermato nell’ordinanza 31.3.1988 n. 389 della Corte costituzionale, che dichiarò, con motivazione tranchant, del tutto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 194 nella parte in cui non riconosceva rilevanza alla volontà del padre). Per altro verso, lungi dall’apparire “irrazionale”, appare perfettamente compatibile con la concezione del nascituro inteso come oggetto di tutela e non come soggetto di diritto la disposizione dell'art. 578 c.p. - che punisce la madre che non solo cagiona la morte del proprio neonato subito dopo il parto, ma anche del feto durante il parto, prima che questo si distacchi definitivamente dal proprio organismo -, poiché non pare seriamente discutibile la piena equiparazione delle due situazioni sul piano naturalistico prima ancora che giuridico, una volta che il parto abbia avuto inizio. L’indiscutibile e indiscussa rilevanza giuridica del concepito nel nostro ordinamento, pur a volerne condivisibilmente predicare, come parte della dottrina esige a gran voce, un innegabile “carattere generale”, non limitato né limitabile ad ipotesi puntuali, non ha pertanto come ineludibile conseguenza la creazione ex nihilo di una sua soggettività, ma si sostanzia, si ripete, nel © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 57 riconoscimento, ben più pregnante e pragmatico, della sua qualità di oggetto speciale di tutela da parte dell’ordinamento. Così affrancando il discorso giuridico (come osserverà, di recente, una avveduta dottrina) “dai pantani della soggettività, onde assegnare al concepito garanzie di difesa senza obbligare l’interprete alla necessità pregiudiziale di attribuirgli qualità soggettive nel significato e con le conseguenze che il diritto riconosce a tale concetto”, e finalmente liberi “dalle categorie metafisiche costituite dalla triade concettuale personalità, soggettività, capacità”, la questione della protezione del concepito non si discosta da quella della protezione dell’essere umano, nel senso che sarà compito di un essere umano già vivente assicurare tutela a chi (come magistralmente insegnato dalla Corte costituzionale) essere umano deve ancora diventare. E’ sotto questo profilo che va fermamente respinta l’opinione di chi, dalla risarcibilità del danno da nascita malformata, pretende di inferire l’esistenza (e la rilevanza giuridica) di un diritto ad essere abortito quale rivendicazione propria del nascituro/soggetto di diritto, alla stregua di un preteso principio costituzionale di parità di trattamento, tutte le volte che tale diritto all’aborto sarebbe stato esercitato dalla madre se opportunamente informata della malformazione su sua esplicita richiesta. Sostenere – come a più riprese è stato sostenuto, specie in seno alla dottrina francese all’indomani della sentenza Perruche - che, se alla madre è consentito evitare la nascita in vista di una possibile malattia psichica, sarebbe del tutto contrario al principio di uguaglianza negare il medesimo diritto al minore, risulta una evidente aporia, proprio perché il diritto vantato dal minore non è affatto volto alla sua soppressione “ora per allora”, né tantomeno alla rivendicazione di dover nascere sano ovvero di dover non nascere se non sano in attuazione di una ipotetica quanto inconcepibile eugenetica postnatale, ma alla riparazione di una condizione di pregiudizio per via di un risarcimento funzionale ad alleviarne sofferenze e infermità, talora prevalenti sul valore della vita stessa. 7.- All’esito della ricognizione tanto delle pronunce più significative rese in subiecta materia da questa corte, quanto del sempre fondamentale contributo della dottrina (ancor più necessario tutte le volte che il diritto è chiamato ad affrontare tematiche che trascendono la funzione sua propria e gli strumenti di analisi di cui dispone), sembra potersi avviare ad appagante soluzione la questione processuale sottoposta all’esame del collegio nella sua dimensione rigorosamente giuridica, e altrettanto rigorosamente ancorata al dato normativo (e dunque scevra da facili suggestioni etiche, filosofiche, o anche solo “creative”). Vanno conseguentemente analizzati tutti gli elementi della fattispecie concreta onde inferirne la legittima riconducibilità alla fattispecie astratta dell’illecito aquiliano in tutti i suoi elementi di struttura così come descritti dall’art. 2043 c.c.. Premesso che l’analisi delle questioni relative ai criteri di valutazione del danno, che pur completerebbe l’indagine, è preclusa dall’estraneità del tema al presente giudizio, il collegio ritiene necessario condurre l’esame della fattispecie con riguardo: • al soggetto legittimato ad agire (rectius alla legittimazione soggettiva attiva); • all’oggetto della tutela; • all’evento di danno; • al nesso causale; • alla colpa dell’agente; • ai presupposti normativi della richiesta risarcitoria (gli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978) © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 58 • ai presupposti fattuali della domanda risarcitoria (la richiesta di diagnosi funzionale all’aborto da parte della gestante); • alla titolarità del diritto di rappresentanza nell’esercizio del diritto al risarcimento (e all’eventuale conflitto di interessi con i genitori); • al riparto degli oneri probatori. La Corte non ritiene, difatti, del tutto appagante, nel dar vita ad un così significativo revirement rispetto alle pronunce del 2004 e del 2009, né l’evocazione di quella sensazione di sotterfugio cui ricorrerebbe la giurisprudenza per riconoscere il risarcimento in via indiretta all’handicappato, né la pur suggestiva considerazione volta a rilevare la contraddizione logica del riconoscere il risarcimento del danno ai genitori e non riconoscerlo al minore nato con la malattia, contraddizione resa ancor più evidente se il risarcimento è riconosciuto non solo alla gestante, poiché è stato leso il suo diritto ad interrompere la gravidanza, ma anche al marito della stessa (che non ha un tale diritto), sol perché è diventato padre di un bambino anormale. 7.1.- La legittimazione soggettiva. Alla luce delle considerazioni che precedono, non sembra seriamente discutibile la predicabilità di una legittimazione attiva del neonato in proprio all’azione di risarcimento. Superate le suggestioni rappresentate dall’ostacolo “ontologico” – l’impossibilità per un essere vivente di esistere come soggetto prima della sua vita – e convertita in questione giuridica la posizione del soggetto che, attualmente esistente, avanza pretese risarcitorie (ciò che sposterebbe il piano dell’analisi non sul versante della legittimazione soggettiva astratta, ma della titolarità concreta del rapporto controverso) e prescindendo del tutto, per il momento, dall’analisi degli ulteriori elementi della fattispecie (id est il diritto leso, l’evento di danno, la sua ingiustizia, il nesso di causalità), va riconosciuto al neonato/soggetto di diritto/giuridicamente capace (art. 1 c.c.) il diritto a chiedere il risarcimento dal momento in cui è nato. Sul piano giuridico (che, non va dimenticato, è dimensione meta-reale del pensiero, nella quale le stesse categorie spazio/tempo si annullano o si modificano, se si pensa al commercio elettronico o alla retroattività della condizione sospensiva) nulla sembra diversificare la situazione soggettiva dell’avente diritto al risarcimento conseguente alla nascita malformata da quelle tradizionali pratiche testamentarie di diritto comune attraverso le quali vengono riconosciuti e attribuiti diritti ad una “persona” che ancora deve nascere. Né rileva, ai fini della predicabilità di tale legittimazione soggettiva, la specularità del senso dell’operazione - poichè non di una volontà ascendente che istituisce un soggetto che nascerà si tratta, bensì di un soggetto che, alla sua nascita, istituisce retroattivamente sé stesso, divenendo così titolare di un diritto soggettivo nuovo, il cui esercizio non richiede, peraltro, la finzione di un soggetto di diritto prenatale. Soggetto “autore” del minore malformato non è, pertanto, l’ascendente, il testatore, il donante, ma sé stesso. Ben più che un nuovo diritto soggettivo, il riconoscimento di tale legittimazione istituisce un nuovo soggetto autonomo, al punto che la qualità innata della sua vita diviene un diritto esigibile della persona, senza che – come è stato assai suggestivamente scritto – “questo nuovo soggetto di diritto divenga un mostro senza passato”. E senza che, va aggiunto, la sua pretesa risarcitoria appaia una mostruosità senza passato, confondendo il tempo della vita con il tempo della costruzione (e della finzione) giuridica. 7.2.- L’interesse tutelato. L’assemblea plenaria della corte di cassazione francese, nell’ammettere la legittimità della richiesta risarcitoria in proprio del piccolo Nicolas Perruche, si limitò ad osservare che questi aveva © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 59 effettivamente subito un pregiudizio risultante dall’handicap particolarmente grave da cui era afflitto, specificando che la causalità non potesse, nella specie, essere ridotta alla sua dimensione scientifica o logica, ma andasse intesa in senso “giuridico”. La sentenza, vivacemente contestata, pose e pone tuttora un problema di non poco momento: quello, cioè, di individuare con esattezza la situazione soggettiva di cui si lamenta la lesione, onde ricondurla al conseguente evento di danno che, da quella lesione, ebbe a generarsi (per poi ricondurre ancora la condotta colpevole alla lesione della situazione soggettiva ed all’evento valutato in termini di contra ius). E’ convincimento del collegio che la domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino malformato trovi il suo fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione. Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, difatti, non è la malformazione in sé considerata - non è, in altri termini, l’infermità intesa in senso naturalistico (o secondo i dettami della scienza medica), bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intese come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata. E’ violato il dettato dell’art. 32 della Costituzione, intesa la salute non soltanto nella sua dimensione statica di assenza di malattia, ma come condizione dinamico/funzionale di benessere psicofisico come testualmente si legge nell’art. 1 lettera o) del d.lgs. n. 81 del 2008, e come recentemente riaffermato da questa stessa Corte con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748. Deve ancora ritenersi consumata: - la violazione della più generale norma dell’art. 2 della Costituzione, apparendo innegabile la limitazione del diritto del minore allo svolgimento della propria personalità sia come singolo sia nelle formazioni sociali; - dell’art. 3 della Costituzione, nella misura in cui si renderà sempre più evidente la limitazione al pieno sviluppo della persona; - degli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, volta che l’arrivo del minore in una dimensione familiare “alterata” (come lascia presumere il fatto che la madre si fosse già emotivamente predisposta, se correttamente informata della malformazione, ad interrompere la gravidanza, in previsione di una sua futura malattia fisica o psichica al cospetto di una nascita dichiaratamente indesiderata) impedisce o rende più ardua la concreta e costante attuazione dei diritti-doveri dei genitori sanciti dal dettato costituzionale, che tutela la vita familiare nel suo libero e sereno svolgimento sotto il profilo dell’istruzione, educazione, mantenimento dei figli. Tali situazioni soggettive, giuridicamente tutelate e giuridicamente rilevanti, sono pertanto riconducibili non alla sola nascita né al solo handicap, bensì alla nascita ed alla futura vita handicappata intesa nella sua più ampia accezione funzionale, la cui “diversità” non è discriminata in un giudizio metagiuridico di disvalore tra nascita e non nascita, ma soltanto tutelata, rispettata ed alleviata per via risarcitoria. Non è a discorrersi, pertanto, di non meritevolezza di una vita handicappata, ma una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi, quand’anche fossero i genitori, ipoteticamente liberi di utilizzare il risarcimento a loro riconosciuto ai più disparati fini. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 60 Non coglie dunque nel segno la ulteriore critica, mossa dai sostenitori della non risarcibilità autonoma del danno da nascita malformata, che nega ogni legittimazione ad agire al minore in nome di un preteso rispetto della sua dignità sull’assunto per cui qualificare la nascita in termini di pregiudizio costituirebbe una mancanza di rispetto alla dignità del minore. Tralasciando ogni considerazione in ordine ad una tale concezione della dignità umana (dichiaratamente ostile al soggettivismo della modernità dei diritti dell’uomo, e funzionale ad un’idea che non di diritto dell’uomo in quanto individuo si discorra, bensì di diritti del genere umano come tali opponibili allo stesso individuo onde assoggettarlo ad obblighi verso questa generica qualità umana che lo trascende, con conseguente negazione del fondamentale rapporto dell’individuo con sé stesso in una non negoziabile dimensione di suitas), va osservato che un vulnus alla propria dignità così concepito confonde la dimensione giuridica della richiesta individuale di risarcimento di un pregiudizio altrettanto individuale da parte della vittima di quel pregiudizio con la dimensione etica dell’attentato pregiudizievole non al sé individuale, ma ad una pretesa alterità trascendente che alberga nel singolo essere umano in quanto rappresentante di un genere. Al di là della condivisibilità sul medesimo piano dell’etica di tale concezione, è innegabile che essa si pone del tutto fuori dal territorio segnato dalle norme giuridiche e dalla relativa interpretazione. Deve pertanto concludersi che l’interesse giuridicamente protetto, del quale viene richiesta tutela da parte del minore ai sensi degli articoli della Carta fondamentale dianzi citati, è quello che gli consente di alleviare, sul piano risarcitorio, la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici dal Costituente: il quale ha identificato l’intangibile essenza della Carta fondamentale nei diritti inviolabili da esercitarsi dall’individuo come singolo e nelle formazioni sociali ove svolgere la propria personalità, nel pieno sviluppo della persona umana, nell’istituzione familiare, nella salute. Non assume, pertanto, alcun rilievo “giuridico” la dimensione prenatale del minore, quella nel corso della quale la madre avrebbe, se informata, esercitato il diritto all’interruzione della gravidanza. Se l’esercizio di questo diritto fosse stato assicurato alla gestante, la dimensione del non essere del nascituro impedisce di attribuirle qualsivoglia rilevanza giuridica. Come accade in altro meno nobile territorio del diritto, e cioè in tema di nullità negoziale, l’interprete si trova al cospetto non già di una qualificazione giuridica negativa di un fatto (che ne consentirebbe uno speculare parallelismo con la corrispondente qualificazione positiva), bensì di una inqualificazione giuridica tout court. Ciò che è giuridicamente in-qualificato non ha cittadinanza nel mondo del diritto, onde la assoluta irrilevanza dell’affermazione secondo la quale “nessuno potrebbe preferire la non vita alla vita”, funzionale ad un “dovere di vivere” - ancora una volta relegato entro i confini di una specifica visione e dimensione etica delle vicende umane priva di seri riscontri normativi, come già affermato da questa Corte, in tema di diritti di fine vita con la già ricordata sentenza del 2007 - che in nessun caso può costituire legittimo speculum, sul piano normativo, del diritto individuale alla vita. Il ragionamento apparentemente sillogistico, elaborato da gran parte della dottrina francese all’indomani del caso Perruche, secondo cui “sarebbe insanabilmente contraddittorio considerare che il bambino handicappato, una volta nato, possa usare la sua acquisita qualità di soggetto di diritti per chiedere il risarcimento del danno risultante dal fatto di non essere stato abortito dalla madre, cosa che gli avrebbe impedito di diventare soggetto di diritti”, perde ogni ragionevole senso alla luce di quanto sinora esposto circa l’aspetto soggettivo ed oggettivo della vicenda: l’obiezione caratterizza, difatti, l’enunciato in termini di esigenza meramente logico-discorsiva, che non impone al soggetto © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 61 un obbligo di vivere, ma un dovere linguistico di non affermare nulla che possa portarlo a predicare sé stesso come inesistente. Tutto ciò resta ai margini del discorso giuridico, così come estraneo al diritto positivo, se non nei limiti del suo altrettanto positivo recepimento in norme (ove esistenti), è una considerazione razionale della natura dell’uomo che ne implichi un obbligo di vivere, avendo di converso l’ordinamento positivo eletto ad essenza dei diritti dell’uomo, prima ancora della dignità (diversamente dall’ordinamento tedesco, in conseguenza della storia di quel popolo) la libertà dell’individuo, che si autolimita nel contratto sociale, ma resta intatta nei confronti di sé stesso, in una dimensione dell’essere che legittima alfine anche il non fare o il rifiutare. 7.3.- L’evento di danno. Sgombrato il campo dall’equivoco costituito dalla pretesa equazione “diritto di nascere o di non nascere/diritto al risarcimento da nascita malformata” (pare utile rammentare che la stessa corte di cassazione francese, il 13 luglio 2001, pochi mesi prima dell’arret Perruche, aveva respinto un ricorso che trasponeva erroneamente il pregiudizio “sul fatto stesso di essere in vita”), risulta innegabile come l’esercizio del diritto al risarcimento da parte del minore in proprio non sia in alcun modo riconducibile ad un impersonale “non nascere”, ma si riconnetta, personalmente e soggettivamente, a quella singola, puntuale e irripetibile vicenda umana che riguarda quel determinato (e altrettanto irripetibile) soggetto che, invocando un risarcimento, fa istanza al giudice di piena attuazione del dettato costituzionale dianzi evocato, onde essere messo in condizione di poter vivere meno disagevolmente, anelando ad una meno incompleta realizzazione dei suoi diritti di individuo singolo e di parte sociale scolpiti nell’art. 2 della Costituzione. E’ pertanto un vero e proprio “dibattito sulle ombre” quello volto a sostenere che tale facoltà, in guisa di diritto a sé stessi, potrebbe attuarsi soltanto attraverso due modalità dell’impossibile, il non essere dell’essere ovvero l’essere del non essere. Riflessioni, si ripete, di indiscutibile spessore filosofico. Ma irrilevanti sul piano giuridico se, tra natura e diritto (come lo stesso giusnaturalismo ammette), si erge il triplice filtro costituito dalla legislazione, dalla giurisdizione, dalla interpretazione. E’ dunque confinata nella sfera dell’irrilevante giuridico ogni questione formulata fuori da tale dimensione, in particolare quella (incontrollabile dal diritto) del possibile e del non-possibile ontologico. La legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva, pertanto, da una omissione colpevole cui consegue non il danno della sua esistenza, né quello della malformazione di sé sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentanterappresentato, ma di includente-incluso. Una esistenza diversamente abile rettamente intesa come sintesi dinamica inscindibile quanto irredimibile, e non come algida fictio iuris ovvero arida somma algebrica delle sue componenti (nascita+handicap=risarcimento), né tantomeno come una condizione deteriore dell’essere negativamente caratterizzata, ma situazione esistenziale che, in presenza di tutti gli elementi della fattispecie astratta dell’illecito, consente e impone al diritto di intervenire in termini risarcitori (l’unico intervento consentito al diritto, amaramente chiamato, in tali vicende, a trasformare il dolore in denaro) affinchè quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole. Consentendo, alfine, per il tramite del diritto, ciò che un logica astrattamente giusnaturalitica vorrebbe viceversa negare. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 62 L’evento di danno è costituito, pertanto, nella specie, dalla individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente, e non già destinata “a realizzare un suicidio per interposto risarcimento danni”, come pure s’è talvolta opinato. 7.4.- Il nesso di causa. La esistenza di un nesso di causalità giuridicamente rilevante tra la condotta del sanitario e l’evento di danno lamentato a seguito della violazione di un interesse costituzionalmente protetto del minore (questione che apparve immediatamente come la più problematica dell’intera vicenda risarcitoria all’indomani della sentenza Perruche, e che non venne affrontata funditus dalle due sentenze di questa corte che, nel 2004 e nel 2009, esclusero sotto altro aspetto l’esistenza di un autonomo diritto al risarcimento in capo al minore) può ricevere soddisfacente soluzione all’esito della ricognizione dell’evento di danno così come appena operata. Si sono correttamente sostenute, in proposito, tanto la irrilevanza di un nesso causale tra l’omissione di diagnosi e la nascita - attesa la inconfigurabilità di quest’ultima in termini di evento dannoso -, quanto la inesistenza di tale nesso tra la condotta omissiva e l’handicap in sé considerato, atteso che la malformazione non è conseguenza dell’omissione bensì del presupposto di natura genetica, rispetto al quale la condotta del sanitario è muta sul piano della rilevanza eziologica. Rilevanza che, di converso, appare sicuramente predicabile una volta identificato con esattezza l’evento di danno nella nascita malformata intesa nei sensi poc’anzi esposti. Tale evento, nella più volte illustrata proiezione dinamica dell’esistente, appare senz’altro riconducibile, secondo un giudizio prognostico ex post, all’omissione, volta che una condotta diligente e incolpevole avrebbe consentito alla donna di esercitare il suo diritto all’aborto (sì come espressamente dichiarato al medico nel caso di specie). Una diversa soluzione, sul piano causale, si risolverebbe nell’inammissibile annullamento della volontà della gestante, senza che, in proposito possano assumere rilievo ipotesi alternative confinate, nella specie, in una dimensione dell’improbabile – e dunque del giuridicamente irrilevante – circa la eventualità (come ipotizzata dalla corte territoriale) di un futuro mutamento di decisione da parte della gestante stessa in ordine alla pur programmata interruzione condizionata di gravidanza. Va pertanto affermata, sul piano del nesso di condizionamento, la equiparazione quoad effecta tra la fattispecie dell’errore medico che non abbia evitato l’handicap evitabile (l’handicap, si badi, non la nascita handicappata), ovvero che tale handicap abbia cagionato (come nella ipotesi scrutinata dalla sentenza 10741/2009) e l’errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita malformata (evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante derivante da una espressa disposizione di legge). Facoltà il cui esercizio la gestante aveva, nella specie, espressamente dichiarato di voler esercitare, donde l’evidente paralogismo che si cela nella motivazione della corte territoriale nel momento in cui onera la odierna ricorrente dell’incombente di provare quello che risultava già provato ed acquisito agli atti del processo. 7.5.- La condotta colpevole Si è già avuto modo di evidenziare, nel corso dell’esame del secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, come la colpevolezza della condotta si sia, nella specie, manifestata sotto il duplice profilo della non sufficiente attendibilità del test in presenza di una esplicita richiesta di informazioni finalizzate, se del caso, all’interruzione della gravidanza da parte della gestante, e dal difetto di © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 63 informazioni circa la gamma complessiva delle possibili indagini e dei rischi ad essa correlati, onde sull’argomento non appaiono necessarie ulteriori precisazioni. 7.6.- Gli oneri probatori L’esistenza di una espressa e inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica, quale quella espressa dalla gestante nel caso di specie, esime il collegio da ogni ulteriore valutazione circa la evidente e determinante rilevanza di tale volontà. Ritiene tuttavia la Corte che, all’esito della disamina che precede, un chiarimento sul tema degli oneri probatori si renda opportuno; con l’ovvia premessa che il problema della prova che all’interruzione della gravidanza della donna si sarebbe determinata se fosse stata informata si porrà esclusivamente nel caso in cui il convenuto ne contesti l’assunto (anche implicitamente contenuto nell’atto di citazione) Nell’ipotesi in cui tale volontà non sia stata espressamente manifestata dalla gestante, difatti, la presunzione di cui sembra legittimo discorrere sul piano dell’inferenza logica di un’intenzione (l’interruzione di gravidanza) desumibile da una condotta significante (la sola richiesta di accertamento diagnostico), ha indubbio carattere di presunzione semplice. Essa costituisce, cioè, l’unico elemento indiziante di una volontà che si presume orientata verso un determinato esito finale. Da tale elemento indiziante il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di tipo statistico (o di cd. probabilità a priori), le conseguenti inferenze probatorie e il successivo riparto dei relativi oneri. Il giudice di merito dovrà in altri termini accertare e valutare, secondo il suo prudente apprezzamento, così come disposto dall’art. 116 del codice di rito, se, tenuto conto di tutte le circostanze del singolo caso concreto, tale presunzione semplice - che può essere legittimamente ricondotta a quella vicenda probatoria definita dalla giurisprudenza di questa corte come “indizio isolato” (la richiesta di accertamento diagnostico) del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza) possa o meno essere ritenuta sufficiente a provare quel fatto. La rilevanza di tale presunzione andrà, inoltre, valutata da quello stesso giudice anche in relazione alla gravità della malformazione non diagnosticata). Di volta in volta, escluso qualsivoglia automatismo probatorio, le parti, preso atto della situazione processuale di partenza costituita dall’esistenza di una vicenda probatoria “di indizio isolato” rispetto al fatto da provare (conseguentemente presunto o presumibile), sono chiamate a fornire al giudice gli elementi, che potranno dipanarsi anche sul piano della prova logica, funzionali a dirimere la questione del se le circostanze concrete e specifiche della concreta vicenda processuale consentano una valutazione di sufficienza o meno di quella presunzione semplice. La questione, assai delicata, della materiale possibilità di ricostruzione dell’efficacia probatoria della presunzione semplice in seno al processo, hic et inde, da parte dei difensori di ciascuna parte, trova risposta, ancora una volta, nella specificità ed unicità di quello stesso processo: i fatti così come narrati, le circostanze come di volta in volta evidenziate, le stesse qualità personali delle parti agenti e resistenti (così esemplificando in modo di certo non esaustivo l’elenco degli elementi utili alla formazione di un convincimento) potranno indurre i protagonisti del processo ad integrare o svilire la portata della presunzione semplice che, diversamente da una semplice equazione, non sempre può © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 64 indurre alla automatica significazione “richiesta di diagnosi=interruzione di gravidanza” in caso di diagnosi di malformazioni. In mancanza assoluta di qualsivoglia ulteriore elemento che “colori” processualmente la presunzione de qua, il principio di vicinanza della prova e quello della estrema difficoltà (ai confini con la materiale impossibilità) di fornire la prova negativa di un fatto induce a ritenere che sia onere di parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all’esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione. Non sembra, difatti, predicabile sempre e comunque la legittimità del ricorso ad un criterio improntato ad un ipotetico id quod plerumque accidit perchè, in assenza di qualsivoglia, ulteriore dichiarazione di intenti, non è lecito inferire sempre, sic et simpliciter, da una richiesta diagnostica la automatica esclusione del’intenzione di portare a termine la gravidanza. Ciò è a dirsi, oltre che sotto il profilo del corretto riparto degli oneri probatori in ipotesi di fatto negativo da dimostrare (Cass. sez. un. 13533/2001), anche sotto quello, non meno rilevante, di evitare di trasformare un giudizio risarcitorio (e la natura stessa della responsabilità civile) in una sorta di vicenda para-assicurativa ex post, consentendo sempre e comunque, mercé l’automatica allegazione della presunzione semplice in discorso, di introdurre istanze risarcitorie anche se la volontà della gestante sarebbe stata diversamente orientata. Diverrebbe, in tal caso, vicenda processuale non incerta, ma già segnata ab origine nel suo vittorioso esito finale, quella che finisce per rendere automatico ogni risarcimento all’esito di una semplice richiesta diagnostica nonostante la impossibilità della prova di un fatto negativo da parte del convenuto (la volontà di non abortire nonostante la diagnosi infausta). 7.7.- La rappresentanza del minore La questione centrale che pone il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in proprio in capo al minore, quanto al suo conseguente esercizio per mezzo dei suoi legali rappresentanti - specie quando la intensità del suo handicap gli impedisce e gli impedirà in futuro qualunque espressione di volontà -, ruota attorno al pur ipotizzato conflitto di interessi che potrebbe investire i soggetti della vicenda risarcitoria. Sono state già esposte in precedenza le ragioni poste a fondamento dell’esclusione di ogni potenziale conflitto, e della insostemibilità di ogni ipotetica rivalsa da parte del minore nei confronti della madre. A quest’ultima, e a lei soltanto, è rimessa la facoltà di decidere, in solitudine, della prosecuzione o meno della gravidanza. La dimensione diacronica della vicenda risarcitoria mostra, così, tutta la sua rilevanza sul piano del diritto, volta che, vulnerata la facoltà di decidere per tale interruzione, il rapporto di immedesimazione rappresentativa, anch’esso spettante per legge alla madre (oltre che al padre), consente a quest’ultima di invocare un risarcimento per la nascita malformata del figlio. Possono in tal guisa trovare soluzione le stesse aporie più volte denunciate in dottrina circa la legittimità di una richiesta risarcitoria avanzata dal padre (oltre che dalla madre) del minore malformato e non anche da quest’ultimo, aporie che non avrebbero potuto, peraltro, costituire esse sole giustificazione e motivazione, in punto di diritto, della soluzione oggi adottata. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 65 *** 8.- Il sesto motivo risulta assorbito nell’accoglimento di quelli che lo precedono, dovendo il giudice del merito provvedere ad una completa revisione della disciplina delle spese processuali, il cui precedente regolamento deve intendersi (a prescindere da qualsiasi considerazione sul quantum), ipso facto caducato nell’an. 9.- In applicazione dei suindicati principi di diritto, il giudice del rinvio, da designarsi nella stessa Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, nel regolare anche le spese del giudizio di legittimità, è chiamato a rivalutare ex novo la fondatezza della richiesta risarcitoria sia della minore, sia dei suoi familiari. P.Q.M. la Corte accoglie il primo, secondo, terzo, quarto e quinto motivo del ricorso, dichiara assorbito il sesto, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Venezia in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile, il 10.1.2012. IL CONSIGLIERE ESTENSORE IL PRESIDENTE Il nascituro ha soggettività giuridica ed ha diritto a nascere sano, con il conseguente obbligo dei sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento che per il nascituro, avente carattere patrimoniale, è condizionato, quanto alla titolarità, all'evento nascita ex art. 1, comma 2, c.c., ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso. Il nascituro, diversamente, non ha diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessiti ai fini dell'interruzione di gravidanza (e non della mera prescrizione di farmaci), stante la non configurabilità del diritto a non nascere (se non sano). Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-05-2009, n. 10741 Svolgimento del processo Con atto notificato il 28-2-92, il 5-3-92 ed il 4-5-92 i coniugi P.D. e V.S., in proprio e quali genitori del minore F., premettevano: che la V. non era riuscita ad ottenere, dopo il matrimonio, la gravidanza per problemi di "annidamento", per cui, nel (OMISSIS), si era rivolta in (OMISSIS) al Centro Abate, del prof. A.V., ove era stata affidata alle cure sia del dott. C.D. che del dott. R. C.; che le era stato prescritto un medicinale denominato Clomid e che dopo alcuni mesi era insorta la gravidanza; che, a seguito di ciò, il C. sospendeva la cura a base di Clomid e prescriveva altra terapia a base di Progesteronum; che, durante la terapia, la V. veniva sottoposta ad indagini ed accertamenti, senza però il rilascio di relativa certificazione medica; che in data (OMISSIS) la stessa V. partoriva presso detto Centro, con la nascita di un bambino ai nome F., il quale presentava gravissime malformazioni (consistenti in ectrodattilia del tipo monodactilus agli arti superiori, lobster olge agli arti inferiori, ipospadia ed atresia anale); che, a seguito di accertamenti, era stato escluso che dette malformazioni fossero di origine ereditaria; che, pertanto, le stesse erano dipese dalla somministrazione dei suddetti © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 66 medicinali e non erano state rilevate nel periodo di gravidanza e di sviluppo del feto, con grave responsabilità dei medici curanti. Ciò premesso, convenivano in giudizio il Centro Abate, in persona di A.V., nonchè i dottori C. e R. per sentirli dichiarare responsabili dei fatti in questione, con condanna al risarcimento di tutti i danni patiti. Si costituiva l' A., deducendo di non avere alcuna responsabilità contrattuale o extracontrattuale nei confronti della V. (che si era affidata alle cure degli arai convenuti e non aveva partorito nel Centro); inoltre, che presso detto Centro era stata solo in alcune occasioni visitata dal C. (al quale era permesso di ricevere i pazienti nella sola giornata di sabato, usando però ricettali suoi personali). Si costituivano altresì il C. ed il R., deducendo: di essere meri esecutori delle direttive del Centro Abate e del tutto privi di autonomia terapeutica; che la V. non aveva avuto problemi di annidamento bensì di ovulazione (con conseguente prescrizione del Clomid, sospeso dopo l'inizio detta gravidanza); che sia il Clomid che il Progesteronum non avevano natura teratogena e che, comunque, le denunziate malformazioni non potevano essere accertate, mediante ecografia, prima del quinto mese di gravidanza. Espletate due consulenze medico - legali di ufficio, nonchè prove testimoniali e prodotta documentazione varia, l'adito Tribunale di Napoli, con sentenza depositata in data 25-5-2001, dichiarava la responsabilità esclusiva dell' A., condannandolo al pagamento, in favore del P. e della V., quali genitori di F., della somma di L. 2.152.400.000, nonchè in favore della V. in proprio della somma di L. 78.037.000 e del P. in proprio della somma di L. 41.508.000, oltre interessi e spese di lite; rigettava la domanda nei confronti del C. e del R. e dichiarava compensate le spese di lite ira quest'ultimi e gli attori. Proponeva appello l' A. che, dopo aver chiesto in via preliminare la sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata, contestava che vi fosse prova della prescrizione alla V. di due cicli di Clomid, come ritenuto dal Tribunale, e deduceva che l'unica prescrizione di tale farmaco risultava in data antecedente a quella erroneamente ritenuta dal Tribunale (per curia relativa assunzione era avvenuta in epoca lontana dalla gravidanza) e che non era necessario in proposito richiedere alcun "consenso informato". Aggiungeva che il Clomid era privo di effetti teratogeni e che essendo stato prescritto in epoca in cui non vi era gravidanza non era possibile prevedere eventuali malformazioni del feto, teoricamente rilevabili in epoca in cui non era più possibile ricorrere all'aborto terapeutico. Censurava, infine, la mancata declaratoria di responsabilità dei dottori C. e R., il tasso dei riconosciuti interessi compensativi e la condanna alte spese di lite. Si costituivano il R. ed il C., che contestavano la natura teratogena del Clomid ed affermavano nuovamente che le malformazioni non potevano essere rilevate in tempo utile per praticare un aborto terapeutico; il solo C. eccepiva la prescrizione quinquennale del diritto degli attori nei suoi confronti e l'assenza da parte sua della facoltà di prescrivere, autonomamente, terapie nel Centro. Si costituivano altresì i coniugi P. - V., in proprio e nella qualità, proponendo a loro volta aspetto incidentale, con il quale chiedevano dichiararsi anche la responsabilità del C. e del R., censurando la liquidazione dei danni per come effettuata dal Giudice di primo grado. La Corte d'Appello di Napoli, previa sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza per le somme eccedenti l'importo di L. 500.000.000, con sentenza n. 995, depositata in data 19-3-2004, così statuiva: "in parziale accoglimento dell'appello principale, nonchè dell'appello incidentale dei coniugi © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 67 P., dichiara anche il dott. C.D. responsabile dei danni subiti dai predetti coniugi e dal loro figlio F. e lo condanna, in solido con dott. A.V., al pagamento, in favore dei coniugi P.- V. in proprio e nella qualità, delle somme già liquidate dal Tribunale a titolo di danni, con detrazione degli importi già ricevuti dai danneggiati, nonchè alle rifusione delle spese di lite di primo grado già liquidate in favore degli attori". Avverso detta pronuncia propone ricorso, con atto notificato in data 3-2-2005, l' A. con tre motivi, (r.g.n. 3697/05), illustrati da memoria; resistono con autonomi controricorso il P. e la V. nonchè il C., che, a sua volta, propone ricorso incidentale con cinque motivi (r.g. n. 7013/2005, con atto notificato in data 14/15-3-2005, anche a P.F., divenuto maggiorenne in data (OMISSIS)), illustrati da memoria, cui resiste l' A. con controricorso. Il C. ha proposto altresì ulteriore ricorso (r.g.n. 7006/2005, con atto notificato sempre in data 14/15-3- 2005, anche a P.F.), e sempre con cinque motivi del tutto analoghi a quelli contenuti nel ricorso incidentale; in relazione a detto ricorso del C., resistono con autonomi controricorso sia l' A., sia i coniugi P.- V., sia in proprio P. F. (come detto divenuto maggiorenne). Infine, il C. ha depositato nota di replica al P.G. in udienza. Motivi della decisione Ricorso A.. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043, 1223 e 2056 c.c., nonchè dei principi in materia di rapporto di causalità; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Si censurano due profili argomentativi della Corte territoriale, in ordine al disposto risarcimento dei danni: la violazione dell'obbligo informativo nei confronti della V. da parte dei medici curanti, "che non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentati dal farmaco prescritto"; l'assunzione da parte della V. di clomifene (contenuto nel Clomid), causa delle malformazioni del figlio. Si afferma che "la conclusione è infondata. La Corte napoletana non imputa ai medici di aver prescritto un farmaco erroneo, cioè incapace di curare la sterilità, ma di aver violato il dovere informativo circa i rischi di esso. L'obbligazione di curare è stata esattamente e diligentemente adempiuta. I medici non hanno prescritto un farmaco erroneo, e dunque, sotto questo riguardo, non sono responsabili nè verso i genitori nè verso il minore". Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt 115, e 191 e sgg. c.p.c.. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Si afferma che, in ordine alla ritenuta somministrazione del Clomid in due cicli (uno anteriore alla gravidanza, l'altro "più prossimo"), gli attori non hanno fornito alcuna prova (al di fuori della sola dichiarazione resa dalla V. al consulente tecnico d'ufficio). Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 32 Cost., art. 5 c.c., nonchè dei principi della L. n. 194 del 1978 e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Si deduce che "la sentenza impugnata omette di motivare intorno al titolo di risarcimento accordato al minore. Posto che esso non è riconducibile all'inadempimento del dovere informativo, è altresì da escludere che discenda da violazione del diritto a non nascere". Ricorso incidentale C.. Con il primo motivo si deduce "violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 324, 329, 345, 346 e 167 c.p.c., concernenti norme di legge sul procedimento, per superamento dei limiti della domanda e © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 68 del giudicato formatosi sulla sentenza di primo grado. Violazione dei principi del contraddittorio e del diritto di difesa (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)". Si afferma che "del tutto illegittimamente la Corte d'Appello ha disposto la condanna del C.D. al risarcimento dei danni pretesi dagli attori, senza considerare che mancava una domanda delle parte in tal senso ed anzi, per effetto della mancata impugnazione da parte dei coniugi P. del capo della sentenza di primo grado concernente il rigetto della domanda nei confronti del C., nei loro confronti si era formato il giudicato"; si aggiunge che erroneamente la Corte d'Appello ha dichiarato la responsabilità anche del C. in quanto mancava una domanda in tal senso; si aggiunge ancora che "la domanda originaria formulata in citazione dai coniugi P. anche nei confronti dei C. e R. per la declaratoria di responsabilità professionale e la condanna al risarcimento dei danni, già relegata in forma subordinata nelle conclusioni rassegnate in primo grado dagli attori e comunque esplicitamente rigettata dal Tribunale, doveva ritenersi del tutto abbandonata in grado di appello, non essendo stata riproposta (art 346 c.p.c.) con appello incidentale dagli stessi coniugi P., nè avendo comunque formato oggetto di considerazioni nei motivi della loro impugnativa parziale, con conseguente acquiescenza (art. 329 c.p.c., u.c.) e formazione del giudicato". Con il secondo motivo si deduce violazione dell'artt. 1228, 1299, 2055 e 2232 c.c., nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 324, 329 e 346 c.p.c. concernenti norme di legge sul procedimento e sul giudicato interno. Si afferma che "del tutto illegittimamente la Corte d'Appello di Napoli ha condannato il C.D. al risarcimento dei danni nei confronti degli attori senza considerare che, essendosi formato il giudicato sulla circostanza che il contratto d'opera professionale era sorto direttamente tra la V. ed il A. nonchè in ordine alla sussistenza di un rapporto di collaborazione retribuita tra l' A. ed il C., la fattispecie rientrava nella previsione dell'art. 2232 c.c., con la conseguente non configurabitità di una responsabilità diretta dei collaboratori nei confronti dei clienti del professionista, dovendo essi rispondere soltanto in sede di eventuale rivalsa esercitata dal professionista titolare, ove ne sussistano le condizioni di legge". Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 132 e 189 c.p.c. nonchè 118 disp. att. c.p.c., concernenti norme di legge sul procedimento, in relazione ai limiti della domanda (att. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Violazione e falsa applicazione degli artt 1223 e 2056 c.c. per la determinazione dei danni. Omessa motivazione. Si afferma che "la Corte d'Appello è incorsa in un'ulteriore grave violazione là dove, condannando il C. al risarcimento dei danni liquidati dal Tribunale, ne ha condiviso l'errore, consistente nell'inammissibile superamento, per di più senza la benchè minima motivazione, delle indicazioni quantitative fornite dagli attori in ordine al danno biologico ed al danno morale". Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1228, 2043, 2232 e 2236 c.c. (art 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Violazione e falsa applicazione degli artt 113, 115, 116 e 132 c.p.c., nonchè art. 118 disp. att. c.p.c., concernenti norme di legge su procedimento e sulla valutazione delle prove per superamento delle risultanze processuali (art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5). Omessa motivazione. Si afferma che "manca agli atti il benchè minimo elemento per ritenere che il C. non avesse provveduto ad informare la paziente in ordine ai rischi potenziali dell'utilizzazione del farmaco e, stante la natura extracontrattuale dell'asserita responsabilità verso gli attori di tale medico collaboratore dell' A., l'onere della prova incombeva ai coniugi P.". Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225, 2043, 2056 e 2697 c.c.. Violazione degli artt. 112, 115, 116 e 132 c.p.c. nonchè art. 118 disp. att c.p.c. concernenti © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 69 norme di legge sul procedimento e sulla valutazione delle prove (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Omessa motivazione. Si afferma che "in ogni caso, la sentenza impugnata è palesemente illegittima là dove la Corte d'Appello, pur individuando la fonte della responsabilità dei medici unicamente nell'asserita omissione dell'informativa alla paziente sui rischi dell'utilizzazione del farmaco, ha poi disposto la condanna al risarcimento anche in favore del minore per le malformazioni con cui è nato, quasi che le stesse potessero ritenersi cagionate dall'omessa informativa". Preliminarmente, disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 335 c.c., deve rilevarsi sia che ammissibile è il ricorso principale nella parte in cui risulta proposto nei confronti di P. D. e V.S., oltre che in proprio, quali genitori esercenti la potestà sul minore F., in quanto ad essi notificato in data 3-2-2005 e prima che detto minore diventasse maggiorenne in data (OMISSIS); sia che è ammissibile il ricorso incidentale del C. (nella "versione" del ricorso incidentale come anche del ricorso dallo stesso C. proposto come "principale", ricorsi entrambi dall'identico contenuto) in quanto proposto con atto notificato in data 17-3-05 allo stesso P. F., ormai diventato maggiorenne, in proprio, come attestato dalla cartolina dell'avviso di ricevimento, prodotta in atti, hi relazione a tale notifica (del ricorso incidentale del C.) si ribadisce quanto già statuito da questa Corte (Cass. n. 116/2004), secondo cui "qualora la capacità di stare in giudizio in rappresentanza del figlio minore venga meno per il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo dopo la pubblicazione della sentenza, l'impugnazione va proposta nei confronti dell'ex minore divenuto maggiorenne (e notificata presso il suo domicilio reale) e non nei confronti dei genitori (ovvero del figlio rappresentato dai genitori)". In relazione al ricorso principale il primo motivo presenta profili, da un lato, di inammissibilità e, dall'altro, di infondatezza. Infatti, quanto al primo aspetto, detta doglianza non individua la ratio decidendi dell'impugnata decisione sul punto perchè, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, la Corte napoletana non si limita a ritenere violato il dovere informativo in ordine ai rischi connessi all'assunzione, da parte della madre, di clomifene ma imputa ai medici anche la prescrizione, ai fini dell'ovulazione, di detto farmaco con proprietà teratogene, sulla base di quanto specificamente asserito in una delle espletate consulenze tecniche di ufficio e dei dati statistici in essa indicati; ciò risulta in modo evidente dalla motivazione della pronuncia in esame in cui, dopo aver premesso non rispondere al vero "che l'unica prescrizione del Clomid alla paziente sia stata fatta in epoca lontana dall'ovulazione", si afferma che il consulente "ha descritto una casistica di malformazioni su nati da donne, che avevano assunto il clomifene; in particolare ha riportato che, su 2269 gravidanze associate con somministrazione di tale farmaco, si sono avuti 58 prodotti del concepimento malformati ed ha descritto le malformazioni riscontrate, fra le quali ci sono anche quelle di cui è affetto il minore F., l'ipospadia, la sindattilia e le lesioni congenite intestinali. Ha aggiunto che in otto madri del gruppo di 58 il farmaco fu assunto durante le prime 6 settimane di gravidanza. Ha evidenziato, inoltre, che nei primi 42 mesi di commerciabilità della sostanza si era avuta notizia di 7 infanti malformati su 7 gravidanze. Tali dati statistici sono incontrovertibili e, come ha assunto il primo ausiliare, la considerazione della scarsa frequenza della teratogenicità non giustifica certo la nescienza sulla pericolosità del farmaco, già evidenziata dalla letteratura all'epoca dell'assunzione da parte della V., nè l'aver trascurato, da parte dei medici, te precauzioni necessarie per la somministrazione. Si noti a tale ultimo proposito che anche il secondo ausiliario, che pure ha assunto una posizione più cauta sulla capacità teratogena del Clomid, non l'ha negata recisamente ...". Ed è proprio sulla ritenuta, in premessa, potenzialità dannosa del farmaco in questione, che la Corte di merito configura la sussistenza di colpevolezza in ordine al mancato esercizio di una corretta informazione, sostenendo che "da tutto quanto osservato discende innanzitutto la considerazione che i medici curanti, che non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentanti dal farmaco prescritto per la presenza di studi scientifici in proposito anche all'epoca della prescrizione, sono colpevoli in © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 70 quanto non hanno reso edotta la donna di tali rischi, anche se non frequenti; la conoscenza di essi avrebbe consentito ai coniugi P. di valutare appieno la scelta di ricorrere o meno a tale farmaco per indurre l'ovulazione, ben consapevoli delle possibilità, a cui andavano incontro, di insorgenza di malformazioni nel feto". Riguardo, poi, al secondo aspetto, il primo motivo è infondato là dove prospetta che la mancata corretta informazione in questione ha inciso esclusivamente sul "potere di scelta" spettante i genitori sul "se assumere o non assumere il farmaco" per cui "la violazione del dovere informativo può dar luogo a risarcimento del danno soltanto in favore dei genitori, nel senso che "la condotta emissiva dei medici determina la perdita del potere di scelta ma non presenta alcun rapporto di causalità con le menomazioni del bambino. Altro è non informare, non trasmettere dati conoscitivi, che consentirebbero una scelta consapevole; altro, determinare un danno fisico a soggetto diverso dalle parti negoziali". Tale test non può assolutamente essere condivisa: ritiene, infatti, la Corte che, limitatamente alla titolarità di alcuni interessi personali protetti, vada affermata la soggettività giuridica del nascituro, e, in via consequenziale, il nesso di causalità tra il comportamento dei medici (di omessa informazione e di prescrizione dei fermaci dannosi) e le malformazioni dello stesso nascituro che, con la nascita, acquista l'ulteriore diritto patrimoniale al risarcimento. L'asserzione della configurabilità del nascituro quale soggetto giuridico comporta lo sviluppo di due ineludibili premesse argomentative: l'attuale modo di essere e di strutturarsi del nostro ordinamento, in particolare civilistico, quale basato su una pluralità di fonti, con conseguente attuazione di ed. principi di decodificazione e depatrimonializzazione e la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della ed. giurisprudenza- normativa, quale autonoma fonte di diritto. E' indubbio che il vigente codice civile, contrariamente alle sue origini stanche sulla scia delle codificazioni europee ottocentesche che videro nel code napoleon la più evidente manifestazione, non rappresenta oggi più l'unica fonte di riferimento per l'interprete in un ordinamento caratterizzato da più fonti, tra cui una posizione preminente spetta alla Costituzione repubblicana del 1948 (che ha determinato il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, caratterizzato da un punto di vista giuridico dalla cd. centralità della persona), oltre alla legislazione ordinaria (finalizzata anche all'adeguamento del testo codicistico ai principi costituzionali), alla normativa comunitaria, ed alla stessa giurisprudenza normativa; tale pluralità di fonti (civilistiche) ha determinato i due suddetti fenomeni, tra loro connessi, della decodificazione e della depatrimonializzazione, intendendosi la prima come il venir meno della tradizionale previsione di disciplina di tutti gli interessi ritenuti meritevoli di tutela in un unico testo normativo, a seguito del subentrare di altre fonti, e la seconda nell'attribuzione alla persona (in una prospettiva non individuale ma nell'ambito delle formazioni sociali in cui estrinseca la propria identità e l'insieme dei valori di cui è espressione) una posizione di centralità, quale portatrice di interessi non solo patrimoniali ma anche personali (per quanto esplicitamente previsto, tra l'altro, nello stesso testo costituzionale, con particolare riferimento agli artt. 2 e 32). In tale assetto ordinamentale rapporto della giurisprudenza, in specie di legittimità nell'espletamento della funzione di "nomofilachia" (vale a dire di indirizzo ai imi di un'uniforme interpretazione delle norme) della Corte di Cassazione, assume sempre più rilievo nel sistema delle fonti in linea con la maggiore consapevolezza dei giudici di operare in un sistema ordinamentale che, pur essendo di civil law e, quindi, non basato su soli principi generati come avviene nei paesi di common law (Inghilterra, Stati Uniti ed altri), caratterizzati dal vincolo che una determinata pronuncia giurisprudenziale assume per le decisioni successive, si configura come semi-aperto perchè fondata non solo su disposizioni di legge riguardanti settoriali e dettagliate discipline ma anche su cd. clausole generati, e cioè su indicazioni di "valori" ordinamentali, espressi con formule generiche (buona fede, solidarietà, © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 71 funzione sociale della proprietà, utile sociale dell'impresa, centralità delta persona) che scientemente il legislatore trasmette all'interprete per consentirgli, nell'ambito di una più ampia discrezionalità, di "attualizzare" il diritto, anche mediante l'individuazione (là dove consentito, come nel caso dei diritti personali, non tassativi) di nuove aree di protezione di interessi. In tal modo, con evidente applicazione del modello ermeneutico tipico della interessenjurisprudenz (cd. giurisprudenza degli interessi, in contrapposizione alla begriffsjurisprudenz o giurisprudenza dei concetti quale espressione di un esasperato positivismo giuridico) si evita sia il rischio, insito nel cd. sistema chiuso (del tutto codificato e basato sul solo dato testuale delle disposizioni legislative senza alcun spazio di autonomia per l'interprete), del mancato, immediato adeguamento all'evolversi dei tempi, sia il rischio che comporta il cd. sistema aperto, che rimette la creazione dette norme al giudice sulla base anche di parametri socio-giuridici (ordine etico, coscienza sociale etc.) la cui valutazione può diventare arbitraria ed incontrollata. La funzione interpretativa del giudice, i suoi limiti, la sua vis expansiva sono, dunque, funzionalmente collegati all'assetto costituzionale del nostro ordinamento quale Stato di diritto anch'esso caratterizzato dal Rule of law (vale a dire dal principio di legalità), assetto in cui il primato detta legge passa necessariamente attraverso l'attività ermeneutica del giudice. Pertanto, proprio in virtù di una interpretazione basata sulla pluralità delle fonti e, nel caso in esame, sulla clausola generale della centralità della persona, si addiviene a ritenere il nascituro soggetto giuridico. Tale tesi trova conforto in numerose disposizioni di legge, oltre che in precedenti giurisprudenziali di questa Corte e della Corte Costituzionale. Ed, infatti, la L. n. 40 del 2004, art. 1 nell'indicare le finalità della procreazione medicalmente assistita statuisce la tutela dei diritti "di tutti i soggetti coinvolti compreso il concepito" (tra l'altro, la Corte costituzionale ha dichiarato con sentenza n. 45/2005 inammissibile la richiesta di sottoporre a referendum abrogativo detta intera legge perchè "costituzionalmente necessaria" in relazione agli interessi tutelati, anche a livello internazionale, con particolare riferimento alla Convenzione di Oviedo del 4-4-1997); la L. n. 194 del 1978, art. 1 prevede testualmente che "lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio"; l'art 254 c.c., comma 1 prevede che il riconoscimento del figlio naturale può effettuarsi non solo a favore di chi è già nato ma anche dopo il solo concepimento; la L. n. 405 del 1975, nel disciplinare l'istituzione dei consultori familiari, afferma esplicitamente l'esigenza di protezione della salute del "prodotto del concepimento"; l'art. 32 Cost. (che oltre a prevedere come fondamentale il diritto alla salute e che ha costituito norma primaria di riferimento per l'interprete in relazione all'evoluzione dei diritti della persona), riferendosi all'individuo quale destinatario della relativa tutela, contempla implicitamente la protezione del nascituro; "il diritto alla vita", quale spettante ad "ogni individuo", è esplicitamente previsto non solo dall'art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo del 1948 (approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-11-1948) ma anche dall'art. 2 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7-12-2000 (poi inglobata nella Costituzione europea), alla quale il recente Trattato di Lisbona (con il quale in data 13-12- 2007 i capi dei governi europei hanno deciso di dotare l'Unione europea di nuovo assetto istituzionale) ha riconosciuto l'efficacia, negli ordinamenti degli Stati-membri, propria dei Trattati dell'Unione europea; la Corte Costituzionale con la sentenza n. 35/1997 attribuisce al concepito il diritto alla vita, dando atto che il principio della tutela della vita umana è stato oggetto anche di un riconoscimento nella Dichiarazione sui diritti del fanciullo (approvata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1959 a New York e nel cui preambolo è previsto che "il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica ed intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita"). Deve, quindi, oggi intendersi per soggettività giuridica una nozione senz'altro più ampia di quella di capacità giuridica delle persone fisiche (che si acquista con la nascita ex art. 1 c.p.c., comma 1), con © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 72 conseguente non assoluta coincidenza, da un punto di vista giuridico, tra soggetto e persona, e di quella di personalità giuridica (con riferimento agli enti riconosciuti, dotati conseguentemente di autonomia "perfetta" sul piano patrimoniale): sono soggetti giuridici, infatti, i titolari di interessi protetti, a vario titolo, anche sul piano personale, nonchè gli enti non riconosciuti (che pur dotati di autonomia patrimoniale "imperfetta" sono idonei a essere titolari di diritti ed a esercitarli a mezzo dei propri organi rappresentativi; sul punto, Cass. n. 8239/2000). In tale contesto, il nascituro o concepito risulta comunque dotato di autonoma soggettività giuridica (specifica, speciale, attenuata, provvisoria o parziale che dir si voglia) perchè titolare, sul piano sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, il diritto alla salute o integrità psico-fisica, il diritto all'onore o alla reputazione, il diritto all'identità personale, rispetto ai quali l'avverarsi della condicio iuris della nascita ex art. 1 c.c., comma 2 (sulla base dei due presupposti della fuoriuscita del feto dall'alveo materno ed il compimento di un atto respiratorio, fatta eccezione per la rilevanza giuridica del concepito, anche sul piano patrimoniale, in relazione alla successione mortis causa ex art. 462 c.c. ed alla donazione ex art. 784 c.c.) è condizione imprescindibile per la toro azionabilità in giudizio a fini risarcitoli; su tale punto non può non rilevarsi come la questione della soggettività del concepito sia stata già posta più volte all'attenzione del legislatore italiano con alcuni disegni e proposte di legge (tra cui in particolare il disegno di L. n. 436 del 1996, di iniziativa di alcuni senatori e la proposta di L. n. 2965 del 1997 di iniziativa di alcuni deputati). Ne deriva che, se da un lato, per quanto esposto, appaiono condivisibili le asserzioni già in precedenza espresse da questa Cotte e di cui alla sentenza n. 11503/1993 (poi pedissequamente fatte proprie dalla sentenza n. 14488/2004) secondo cui "lo stesso diritto alla salute che trova fondamento nell'art. 32 Cost., per il quale la tutela della salute è garantita come fondamentale diritto dell'individuo, oltre che interesse della collettività, non è limitato alle attività che si esplicano dopo la nascita od a questa condizionate, ma deve ritenersi esteso anche al dovere di assicurare le condizioni favorevoli per l'integrità del nascituro nel periodo che la precedono. Numerose norme prevedono del resto forme di assistenza sanitaria atte gestanti non al solo fine di garantire la salute della donna ma altresì al fine di assicurare il miglior sviluppo e la salute stessa del nascituro", non altrettanto può dirsi, dall'altro lato, in ordine alle ulteriori affermazioni (sempre in dette sentenze) secondo cui "attraverso tali norme non viene ovviamente attribuita al concepito la personalità giuridica, ma dalle stesse si evince chiaramente che il legislatore ha inteso tutelare l'individuo sin dal suo concepimento, garantendo se non un vero e proprio diritto alla nascita, che sia fatto il possibile per favorire la nascita e la salute". Ciò in quanto, a parte la considerazione che attualmente l'espressione personalità giuridica ha acquisito uno specifico significato tecnico (come sopra già detto) con riferimento alla sola categoria degli enti riconosciuti (perchè è proprio il riconoscimento che attribuisce personalità, ma non soggettività, e con essa un particolare regime di responsabilità patrimoniale), non si può riconoscere all'individuo- concepito la titolarità di un interesse protetto senza attribuirgli soggettività. Con specifico riferimento al thema decidendum in esame il nascituro ha, dunque, il diritto a nascer sano, in virtù, in particolare, degli artt. 2 e 32 Cost. (senza dimenticare l'art. 3 detta citata Dichiarazione di Diritti fondamentali dell'Unione europea che esplicitamente prevede il diritto di ogni individuo all'integrità psicofisica); su tale aspetto, la relativa lesione in questione a carico di P.F. risulta correttamente affermata e motivata sulla base dell'inadempimento detto specifico obbligo a carico sia dell' A., nella qualità, che del C. di non somministrare medicinali potenzialmente dannosi, anche dal punto di vista teratogeno nonchè dell'obbligo di corretta informazione, ai fini del consenso, nei confronti della V. in ordine ai rischi della terapia adottata (obbligo, quest'ultimo, che "si riflette" anche nei confronti di P.F., quale terzo destinatario di effetti protettivi in relazione al rapporto madremedico). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 73 La Corte territoriale, infetti, sulla base delle risultanze processuali e della discrezionale valutazione dei dati delle espletate consulenze tecniche d'ufficio, non ulteriormente esaminabili nella presente sede di legittimità, dopo aver premesso che "l' A. ha dichiarato nel suo atto di appello di non impugnare la sentenza, nella parte in cui ha riconosciuto che la V. si rivolse al suo studio (e non al C.) per la cura della sua sterilità ed ha, conseguentemente, dichiarato resistenza di un rapporto contrattuale tira l'appellante e la donna, da cui è derivata la responsabilità del detto medico per le malformazioni del minore F.", ha statuito che "da tutto quanto osservato discende innanzitutto la considerazione che i medici curanti, che non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentati dal farmaco prescritto per la presenza di studi scientifici in proposito anche all'epoca della prescrizione, sono colpevoli in quanto non hanno reso edotta la dorma di tali rischi, anche se non frequenti; la conoscenza di essi avrebbe consentito ai coniugi P. di valutare appieno la scelta di ricorrere o meno a tale farmaco per indurre l'ovulazione, ben consapevoli delle possibilità, a cui andavano incontro, di insorgenza di malformazioni nel feto. In secondo luogo, considerato che non può escludersi la capacità teratogena del clomifene, la sua presenza in circolo all'epoca del concepimento, l'assenza di aberrazioni cromosomiche nei genitori del piccolo F. e di altre cause scatenanti, nonchè il verificarsi proprio di alcune di quelle malformazioni evidenziate dalla letteratura scientifica e dalla stessa casa farmaceutica produttrice della sostanza, deve riconoscersi che le malformazioni da cui è affetto il minore fin dalla nascita vadano ascritte alla assunzione, da parte della madre, di clomifene". Detto argomentare evidenzia che il comportamento posto in essere dall' A. e dal C. ha riguardato, provocando i danni per cui è processo, P.F. dopo il suo concepimento (questione di fatto non ulteriormente valutabile da questa Corte) e risulta in linea con quanto già asserito dalla giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità medica nei confronti del nascituro in ordine alla somministrazione di fermaci anche potenzialmente dannosi per la salute, e indipendentemente da una corretta informazione ai fini del consenso. Deve premettersi, in generale, che sia il contratto che la paziente pone in essere con la struttura sanitaria e sia il contratto della stessa con il singolo medico risultano produttivi di effetti, oltre che nei confronti delle stesse parti, anche di ulteriori effetti, ed. protettivi, nei confronti del concepito e del genitore, come terzi (sul punto, tra le altre, Cass. n. 14488/2004, n. 698 del 2006, n. 13953/2007, e n. 20320/2005); ciò in quanto, con specifico riferimento al tema in esame, l'efficacia del contratto, che si determina in base alla regola generale ex art. 1372 c.c. ovviamente tra le parti, si estende a favore di terzi soggetti, più che in base alla pur rilevante disposizione di cui all'art. 1411 c.c., in virtù della lettura costituzionale dell'intera normativa codicistica in tema di efficacia e di interpretazione del contratto, per cui tale strumento negoziale non può essere considerato al di fuori della visione sociale (e non individuale) del nostro ordinamento, caratterizzato dalla centralità della persona. Se, in tale prospettiva, causa del contratto (sia tipico che atipico) è la sintesi degli interessi in concreto dei soggetti contraenti, quale fonte dei cd. effetti essenziali che lo stesso produce, non può negarsi all'accordo negoziale che intercorre tra una paziente- gestante, una struttura sanitaria ed i medici l'idoneità a dar luogo a conseguenze giuridiche riguardo al soggetto nascituro e all'altro genitore, nella sua qualità di componente familiare; detto accordo, infatti, "si proietta" nei confronti del destinatario "finale" del negozio (il concepito che poi viene ad esistenza) come anche nei confronti di chi (genitore), insieme alla madre, ha i diritti ed i doveri nei confronti dei figli di cui all'art 30 Cost. ed alla connessa normativa codicistica ed ordinaria. Riguardo al consenso informato, deve ribadirsi che la relativa esigenza del suo "realizzarsi" trova riscontro, oltre che in quanto previsto in tema di Codice deontologico dei medici (dapprima nella versione del 1998 agli artt. 30 e 32 e in seguito in quella del 2006 agli artt 33 e 35, per cui il medico deve correttamente ed esaurientemente informare il paziente in ordine alle terapie praticate al fine di ottenere il consenso), principalmente nell'art. 32 Cost., comma 2 (a norma del quale "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge"), nell'art. 13 Cost. (che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute ed integrità fisica), nella L. n. 833 del 1978, art. 33 (che esclude © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 74 trattamenti salutari contro l'assenso del paziente se questo non è in grado di esprimerlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.); detto consenso ha come presupposto una attività di corretta informazione, sia nella fase di formazione del consenso, sia nella fase antecedente che in quella di esecuzione del contratto, riconducibile (come in altri settori) alla clausola generale di buona fede del nostro ordinamento civilistico ex artt. 1175, 1337 e 1375 c.c.. La violazione di tale obbligo comporta, consistendo in un dovere di comportamento, non un vizio (nullità) del contratto stesso, in mancanza di una esplicita previsione in tal senso, bensì il risarcimento del danno, come di recente affermato da questa Corte a Sezioni Unite (con la sentenza n. 26724/2007). Come bene messo in evidenza nella decisione impugnata, nella vicenda in esame la mancata osservanza dell'obbligo dei salutari del consenso informato ha riguardato esclusivamente la somministrazione a fini terapeutici di medicinali poi rivelatisi dannosi per il concepito e non l'eventuale esercizio del diritto all'interruzione di gravidanza; in proposito ha affermato la Corte territoriale che "non appare rilevante la censura dell'appello principale riguardante l'omessa rilevazione e comunicazione alla V. delle malformazioni del feto, onde consentirle di ricorrere all'aborto terapeutico ... non potrebbe, a prescindere dalla sussistenza o meno di tali requisiti, comunque riconoscersi un risarcimento a tale titolo, poichè la donna non ha dimostrato che essa avrebbe effettivamente esercitato il diritto all'interruzione di gravidanza, se fosse stata esattamente informata dal medico sulle malformazioni del feto": è dunque evidente che detta mancanza di consenso (ai fini della terapia e non dell'interruzione di gravidanza), in relazione anche agli effetti nei confronti del nascituro, ha determinato l'obbligo a carico del responsabile al risarcimento del danno. Non sfugge, infatti, a questo Collegio che la mancanza di consenso informato, nella diversa fattispecie da quella in esame con riguardo alla interruzione volontaria di gravidanza (e non in relazione alla sola effettuazione di una terapia), non può dar luogo a risarcimento anche nei confronti del nascituro poi nato con malformazioni, oltre che nei confronti della gestante-madre; ciò perchè, in base alla condivisibile giurisprudenza di questa Corte (sul punto, tra le altre, la già citata sentenza n. 14488 del 2004, la n. 6735/2002 e la n. 16123/2006) non è configurabile nel nostro ordinamento un diritto "a non nascere se non sarto" perchè, in base alla L. n. 194 del 1978, sull'interruzione volontaria di gravidanza, e in particolare agli artt. 4 e 6 nonchè all'art 7, comma 3, che prevedono la possibilità di interrompere la gravidanza nei soli casi in cui la sua prosecuzione o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la vita della donna, deve escludersi nel nostro ordinamento il ed. aborto eugenetico. Pertanto il concepito, poi nato, non potrà avvalersi del risarcimento del danno perchè la madre non è stata posta nella condizione di praticare l'aborto; tale circostanza non è in contrasto con la tutela riconosciuta al nascituro, quale soggetto giuridico, ed ai suoi interessi e non prospetta profili di incostituzionalità per quanto affermato anche dalla Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 27/1975 (anche se antecedente alla legge sulla interruzione volontaria di gravidanza), secondo cui, pur sussistendo una tutela costituzionale del concepito, deducibile dall'art. 31 Cost., comma 2, e art. 2 Cost., gli interessi dello stesso possono venire in collisione con altri beni anch'essi costituzionalmente tutelati (come, nel caso di specie, la salute della madre). Del pari la Corte territoriale ha ritenuto la responsabilità dei medici curanti ( A. oltre che C.) in ordine alla somministrazione di un farmaco dannoso, e ciò sulla base di una valutazione in fatto non ulteriormente censurabile nella presente sede di legittimità; ha affermato in proposito detta Corte: "nè può l' A. asserire che, poichè il parto fu preso dai soli dottori C. e R., ogni responsabilità sia da ascrivere esclusivamente ai detti medici. Invero, innanzitutto è dimostrato con i testi e la © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 75 documentazione delta camere di commercio che il reparto della Clinica (OMISSIS), ove partorì la donna, è riservato alle partorienti in cura pressi il Centro Abate e che il dott. A. è azionista della detta Clinica; in secondo luogo, le malformazioni al minore non sono derivante da una cattiva conduzione del parto, bensì dalla somministrazione del clomifene, avvenuta durante il periodo in cui la V. era in cura presso il Centro Abate ed affidata al dott. C.. Deve, dunque, ritenersi la responsabilità concorrente dei dottori A. e C. per i danni causati agli attori." Altresì infondata è l'ulteriore censura, sempre espressa nel primo motivo, in ordine alla dedotta violazione "dei principi in materia di rapporto di causalità". Sul punto, deve ribadirsi quanto già statuito da questa Corte, secondo cui la valutazione del nesso di causalità (materiale), in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (per cui un evento è da considerarsi causato da un altro se il primo non può verificarsi in assenza del secondo), fatte salve alcune peculiarità, presenta una rilevante differenza in relazione ai parametri probatori. Infatti, stante la diversità dei valori in gioco tra la responsabilità penale (in cui principale punto di riferimento per il legislatore è l'autore del reato, in relazione a fattispecie tipiche) e quella civile (in cui il legislatore è di regola equidistante dalle parti contendenti, con particolari situazioni di tutela del danneggiato, e vige, per l'illecito aquiliano, la regola generale del neminem laedere), nel primo caso occorre che sia fornita la prova "oltre ogni ragionevole dubbio" (in tal senso l'ormai consolidato indirizzo della giurisprudenza penale di questa Corte) mentre in materia civile vige il diverso principio del "più probabile che non", ovvero della prevalenza probabilistica, rispetto alla (quasi) certezza (sul punto, di recente Cass. S.U. n. 576/2008 nonchè Cass. n. 21619/2007). Deve aggiungersi, poi, che in tema è responsabilità contrattuale (o da "contatto sociale", spesso configurabile, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, in caso di attività medico- chirurgica nell'ambito di strutture sanitarie), come nel caso in esame, rileva in particolar modo l'oggettiva "inesattezza" dell'adempimento da parte del debitore da compararsi al soggettivo criterio di valutazione del suo operato in base alla diligenza media o "rafforzata" di cui, rispettivamente, all'art. 1176 c.c., commi 1 e 2. In definitiva, diversi sono i criteri di indagine in ordine alla responsabilità penale ed alla responsabilità civile, perchè, con riferimento a quest'ultima, l'ilecito extracontrattuale è "sanzionato" con il risarcimento del danno ove il fatto sia oggettivamente probabile e soggettivamente prevedibile, mentre la responsabilità contrattuale, anch'essa fonte in primis dell'obbligo risarcitorio, sussiste se la prestazione eseguita non corrisponde a quanto pattuito (per qualità, quantità, vizi, ritardo ed altro) in stretta connessione con il grado di diligenza richiesto nel caso di specie. Ciò premesso, nella vicenda in esame, risultando comunque l'accertamento della sussistenza del nesso di causalità come quaestio facti, è da rilevare che logica e sufficiente è la motivazione sul punto: sta l' A. che il C. sono stati ritenuti responsabili contrattualmente perchè, da un lato, non hanno informato compiutamente la V. in relazione alla pericolosità dei fermaci prescritti, con ciò venendo meno allo specifico dovere di comportamento sopra richiamato (sul rapporto di causalità in tema di obbligo informativo, Cass. n. 14638/2004) e, dall'altro, hanno "inesattamente" adempiuto la prestazione a loro carico, in modo non diligente ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2 prescrivendo un farmaco dannoso per il nascituro (sul tema, Cass. n. 11316/2003). In entrambe dette ipotesi è evidente la sussistenza del nesso di causalità: il comportamento omissivo ha impedito alla V. di acconsentire al trattamento (o di negarlo) in piena consapevolezza dei rischi connessi; la prescrizione del Clomid, sulla base di un'evidente e grave negligenza (per quanto accertato dalla Corte territoriale), ha determinato le lesioni e le malformazioni in oggetto. In relazione a tale ultimo punto in ordine alla diligenza professionale del medico-chirurgo, la sentenza in esame risulta in linea con quanto più volte affermato di recente da questa Corte (tra le altre, Cass. n. 12273/2004), secondo cui, in linea con la decisione della Consulta n. 16671973, deve © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 76 affermarsi che la limitazione stabilita dall'art. 2236 c.c., della responsabilità del prestatore d'opera intellettuale alla colpa grave, configurabile nel caso di mancata applicazione della cognizioni fondamentali attinenti alla professione, è applicabile soltanto per la colpa da imperizia nei casi di prestazioni particolarmente difficili; non possono invece mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel medico gli obblighi di diligenza del professionista che è un debitore qualificato, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, e di prudenza, che pertanto, pur in casi di particolare difficoltà, risponde per colpa lieve. In parte infondato e in parte inammissibile è il secondo motivo (del ricorso principale) in ordine alla prova "offerta" dagli attori, con specifico riferimento alla "duplice" somministrazione del farmaco, nonchè in ordine all'accoglimento "acritico" da parte della Corte territoriale del contenuto della relazione tecnica. Infondata è la censura sul regime probatorio nella controversia in esame: in proposito deve ribadirsi quanto già statuito in modo consolidato da questa Corte (tra le altre Cass. n. 9471/2004) che, dando luogo la relazione che si instaura tra medico (nonchè la struttura sanitaria) e paziente ad un rapporto di tipo contrattuale (quand'anche fondato su solo contatto sociale), in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c. compete non già al paziente "allegarne" e provarne la sussistenza, ma al medico ed alla struttura sanitaria dimostrarne la mancanza; il paziente ha l'onere di "allegare" l'inesattezza dell'adempimento non la colpa nè tanto meno la gravità della colpa. Per il resto detto secondo motivo è inammissibile là dove tende ad un non consentito riesame delle risultanze di causa (modalità di somministrazione del Clomid) o dei dati della consulenza di ufficio, discrezionalmente valutabili dal giudice di merito. Altresì inammissibile è il terzo motivo in quanto non censura, come tra l'altro esposto in sede di esame deprimo motivo, la ratio decidendi dell'impugnata decisione, fondata sulla violazione di due obblighi (quello relativo all'informazione della paziente e quello riguardante la prescrizione di un farmaco potenzialmente dannoso), limitandosi ad esporre un convincimento proprio del ricorrente in antitesi a quello della Corte territoriale, con specifico riferimento alla violazione del diritto a nascere sano. Non meritevole di accoglimento è anche il ricorso incidentale in relazione a tutti i motivi. Quanto al primo motivo si osserva innanzitutto che la responsabilità del C. è stata affermata dalla Corte di Napoli in virtù di un compiuto esame delle risultanze processuali e con ampia e logica motivazione; ha dedotto, infatti, detta Corte che: "egli seguì la donna nell'ambito della struttura dell' A. per tutto il periodo della gravidanza e quello precedente, le prescrisse i fermaci e gli esami necessari e la operò al momento del parto, avvenuto con taglio cesareo ... egli non ha dimostrato la assunta imposizione del protocollo da seguire e dei formaci da prescrivere da parte dell' A.; ... dagli atti di causa è emerso che egli collaborava con il Centro Abate da alcuni anni come assistente del titolare, era inserito nella struttura e veniva retribuito regolarmente per l'opera professionale prestata in favore delle pazienti del Centro (cfr. deposizioni dei testi di parte attrice e dei convenuti C. e R., nonchè ricevute di pagamento degli emolumenti prodotti dal C.). Ma l'inserimento di un medico in una struttura pubblica o privata non lo esime certamente da responsabilità personale per l'opera professionale prestata ai pazienti, in considerazione del fatto che è proprio il medico che valuta il caso del paziente, decide il programma terapeutico da attuare e ne controllo l'evolversi nel tempo". Quanto poi alla dedotta mancanza di una domanda di accertamento di responsabilità (e di conseguente pronuncia risarcitoria) nei confronti del C., si rileva: i coniugi P.- V. hanno convenuto sia l' A., nella qualità, che i dottori C. e R. per sentirli condannare al risarcimento di tutti danni subiti in relazione alla loro condotta complessiva nell'ambito del rapporto sanitario-paziente, che non può non comprendere, per quanto già esposto, sia il dovere generale di una corretta informazione, sia l'obbligo di non prescrivere farmaci potenzialmente lesivi del bene salute (come poi "in concreto" © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 77 accertato in sede di consulenza di ufficio); inoltre, mentre l' A., in sede di gravame, non proponeva alcuna domanda di condanna del C., solo prospettando una differente tesi rispetto a quanto ritenuto in primo grado, la condanna, a titolo solidale, nei confronti dello stesso C. fu introdotta innanzi al Tribunale da detti coniugi e dagli stessi riproposta, in via d'appello incidentale secondo grado. Nè, infine, l'appello principale dell' A. introduceva questioni "nuove" (rispetto all'originaria causa petendi), tali da comportare l'inammissibilità del gravame, con riflessi sull'impugnazione incidentale. Privo di pregio è anche il secondo motivo, in ordine al presunto giudicato formatosi sull'inserimento nella struttura e sull'esistenza di un rapporto contrattuale tra la V. e l' A., con ritenuta conseguente esclusione della responsabilità "diretta" del C.: in base degli artt. 1228 e 2232 c.c., va rilevato che la solidarietà tra vari soggetti obbligati verso il danneggiato non è esclusa dal diverso titolo di responsabilità a carico degli "ausiliari" o "sostituti" rispetto ai "padroni" o "committenti", soprattutto in casi in cui un unico evento dannoso è ascrivibile a più persone, come nella vicenda in esame, in cui, per la Corte territoriale,il rapporto tra la V. ed i sanitari in questione, pur nella diversità dei compiti di ciascuno, era da considerarsi unico (come testualmente si afferma alle pagine 9 e 10 nella sentenza impugnata, in relazione alla "responsabilità concorrente dei dottori A. e C. per in danni causati agli attori"). In definitiva, si evince dalla motivazione dei giudici di secondo grado la configurazione dell'attività svolta dal C., nell'ambito del Centro Abate, da "contatto sociale" con la V., con conseguente assunzione di obblighi personali e diretti da parte del C.. Inammissibili sono le doglianze di cui al terzo e il quarto motivo: a parte la considerazione, come già detto, che la Corte di Napoli ha dato ampiamente conto delle ragioni del decidere, anche con riferimento dei danni liquidati a P.F. ed ai suoi genitori (sia non patrimoniali che patrimoniali), le censure, in particolare, di cui a detti motivi in parte sono generiche (non è infatti dato comprendere "l'arbitrarietà" e la mancanza di motivazione in proposito dedotte dal ricorrente incidentale nel terzo motivo) e in parte riguardano circostanze di fatto (l'entità delle lesioni e dei danni patrimoniali in sede di terzo motivo nonchè il comportamento del C. in ordine all'obbligo di informazione, la prova in proposito offerta dalla V., la dannosità del Clomid in relazione alla terapia praticata nell'ambito del quarto motivo) non ulteriormente valutabili in questa sede. Per quanto già esposto, assorbito è il quinto motivo. In conclusione, deve affermarsi, stante la soggettività giuridica di P.F. sul piano personale (nei limiti indicati), quale concepito, il suo diritto a nascere sano ed il corrispondente obbligo di detti sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento che per il nascituro, avente carattere patrimoniale, è condizionato, quanto alla titolarità, all'evento nascita ex art. 1 c.c., comma 2, ed azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in ordine alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sta del dovere di somministrare fermaci non dannosi per il nascituro stesso. Non avrebbe invece quest'ultimo avuto diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessitasse ai fini dell'interruzione di gravidanza (e non della mera prescrizione di formaci), stante la non configurabilità del diritto a non nascere (se non sano). Ancora, e sempre sulla base del nesso di causalità quale prospettabile nella vicenda in esame ai sensi dell'art. 1218 c.c. e dell'art. 1176 c.c., comma 2, risulta dovuto, come stabilito nella sentenza impugnata, il risarcimento in questione nei confronti dei coniugi P.. In relazione alla natura della controversia sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate tra tutte le parti le spese del presente giudizio. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 78 Infine, ricorrono i presupposti D.Lgs. n. 96 del 2003, ex art. 52, comma 2, in materia di protezione di dati personali, per disporre, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, che sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati nella presente controversia. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta sia il ricorso principale che il ricorso incidentale. Compensa le spese. Dispone l'omessa indicazione delle generalità e dei dati identificativi degli interessati. Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2009. Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2009 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 79 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 80 4) Presupposizione Andrea e Luigi si incontravano dinnanzi al notaio Piero per la conclusione di un contratto di compravendita avente per oggetto il trasferimento di Beta. I contraenti erano entrambi convinti che il nuovo piano regolatore avrebbe permesso a Luigi di edificare sul terreno Beta. L’atto veniva regolarmente redatto e Beta veniva dichiarato come terreno non edificabile. Dopo circa due mesi dal rogito, Luigi veniva a sapere che non avrebbe mai potuto costruire alcunchè sopra Beta, perché zona sismica. Luigi si recava da un legale, al quale precisava che, con Andrea, avevano voluto implicitamente subordinare la validità del contratto all’edificabilità di Beta. Il candidato, assunte le vesti del legale, rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua attenzione. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 4 In premessa poteva essere schematizzato il fatto. Successivamente, il discorso poteva essere inquadrato nell’ambito della presupposizione che è una condicio iuris di efficacia, data per implicita dalle parti ed idonea a subordinare la validità del contratto stesso; sussiste la presupposizione nel caso in esame? Si poteva rispondere positivamente, coì da caducare il contratto di compravendita tramite la risoluzione ex art. 1467 c.c. Sussiste l’istituto della presupposizione perché: -le parti Andrea e Luigi sono convinte della futura edificabilità di Beta; -è una condizione relativa a fatti esterni dalla loro volontà; -entrambi Andrea e Luigi avevano voluto implicitamente subordinare la validità del contratto all’edificabilità di Beta. Ne segue che il contratto de quo è caducabile tramite la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. Era legittimo ipotizzare la nullità per difetto (sopravvenuto) di causa in concreto ovvero l’annullabilità per errore. GIURISPRUDENZA RILEVANTE Affinchè sia configurabile una presupposizione (o condizione inespressa), è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l'esistenza di una situazione di fatto considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venire meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti stesse. Cass. civ. Sez. II, Sent., 27-02-2012, n. 2971 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 81 Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 13-9-1985 L.M. D., D.M., D.A. e D'.Ma. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Messina D.C. e D'.Co. chiedendo che venisse riconosciuta e dichiarata la validità ed efficacia giuridica della scrittura privata intervenuta tra le parti il 16-6- 1984 e delle planimetrie redatte per l'occasione dal geometra Co.Sa. ad essa allegate e l'esecuzione della stessa, che venisse disposta ai sensi dell'art. 2931 c.c. e segg. la divisione e l'attribuzione immobiliare per quote del fabbricato sito in (OMISSIS), che venisse assegnata al condividente D'.Ma. la quota contraddistinta dalla lettera C della menzionata planimetria Co., ai condividenti germani D.L.M., D.A. e D.M. la quota contraddistinta con la lettera B con l'area soprastante, alle condividenti D.C. e D'.Co. congiuntamente o alla prima di esse la quota contrassegnata con la lettera A con la relativa area soprastante, che venisse disposto ogni provvedimento consequenziale per l'attribuzione delle quote, e che venisse ripartito in parti uguali tra le quote A e B il tratto di terreno antistante il fabbricato compreso tra questo a la S.S. (OMISSIS); in subordine, qualora si fosse rivelata impossibile la divisione in quattro quote di quel tratto di terreno, chiedevano che esso venisse attribuito agli attori dietro pagamento del controvalore relativo alle quote agli altri spettanti. All'udienza del 16-3-1992 si costituiva in giudizio D. C. chiedendo dichiararsi l'invalidità della scrittura privata del 16-8-1984 per la mancata partecipazione ad essa di tutti i condividenti e per la mancanza del presupposto condizionante il negozio; chiedeva disporsi la divisione del cespite o, se impossibile, l'assegnazione di esso in proprio favore in quanto titolare della quota maggiore, e condannarsi gli attori al rendiconto per il godimento del bene e dei frutti. Successivamente al presente venivano riuniti altri due procedimenti rispettivamente proposti da D.L.M. e D. M. e da D.A., D.L. e T. V. nei confronti delle due suddette convenute per l'esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. della richiamata scrittura privata e di altra successiva scrittura privata di transazione del 15- 4-1986. All'udienza del 3-4-1995 si costituiva in giudizio M. G. quale procuratrice speciale di D.C.. Il Tribunale adito con sentenza del 4-8-2003 attribuiva la piena proprietà dell'immobile per cui è causa a D.L.M., D.M. ed D.A. condannandoli in solido al pagamento in favore della M. nella predetta qualità della somma di Euro 43.623,00 oltre interessi dal 1-1-2003 a titolo di conguaglio. Proposto gravame da parte della M. quale erede di D.C. resistevano in giudizio L.M. D., D.M. e D.L. introducendo altresì un appello incidentale; si costituiva in giudizio anche C.A. quale avente causa di C. D. eccependo la sua estraneità al giudizio in quanto la propria madre in data 19-4-1985 aveva ceduto la propria quota indivisa alla sorella D.C.. La Corte di Appello di Messina con sentenza del 12-3-2010 ha dichiarato valide ed efficaci le scritture private di divisione stipulate tra le parti il 16-8-1984 ed il 15-4-1986 ed autentiche le sottoscrizioni apposte dalle parti in calce alle predette scritture private ed alle allegate planimetrie del geometra Co., previo frazionamento catastale ha ordinato al Conservatore dei Registri Immobiliari di trascrivere le suddette scritture private, ha in parte rigettato ed in parte dichiarato assorbite tutte le altre domande proposte dalle parti, ed ha compensato le spese di entrambi i gradi di giudizio per la metà, condannando la M. al pagamento dell'altra metà di esse in favore degli appellati. Avverso tale sentenza la M. quale erede di C. D. ha proposto un ricorso articolato in cinque motivi illustrato successivamente da una memoria cui D.A., D.M. e D.L.M. da un lato e A. C. dall'altro hanno resistito con controricorso; © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 82 quest'ultimo ha introdotto anche un ricorso incidentale affidato ad un solo motivo cui D.A., D.M. e D.L.M. hanno resistito con controricorso; L. D. e T.V. non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Motivi della decisione Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza. Venendo quindi all'esame del ricorso principale, si rileva che con il primo motivo la M., deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 112-216 c.p.c., dell'art. 2932 c.c. e dell'art. 2652 c.c., n. 3 nonchè omessa motivazione, assume che il giudice di appello, dichiarando valide ed efficaci le scritture private del 16-8-1984 e del 15-4-1986, ed ordinando al Conservatore dei Registri Immobiliari di trascrivere dette scritture private, previo frazionamento catastale, ha violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, posto che le controparti non avevano mai formulato domande volte a far accertare e dichiarare l'autenticità delle sottoscrizioni apposte alle suddette scritture ai sensi dell'art. 216 c.p.c., comma 2, nè tantomeno ad ottenere la trascrizione delle scritture o il frazionamento delle unità immobiliari, avendo invece richiesto ai sensi dell'art. 2932 c.c. l'emissione di una sentenza che producesse gli effetti delle menzionate scritture private. La censura è infondata. Premesso come dato pacifico che D.L.M., D.M. ed D.A. avevano introdotto nel giudizio di primo grado una domanda di declaratoria di validità ed efficacia della scrittura privata del 16-6-1984, estesa poi alla successiva scrittura privata del 15-4-1986 intervenuta in pendenza di giudizio, ne consegue che, una volta accolta tale domanda, l'accertamento in ordine alle autenticità delle relative sottoscrizioni, anche se non richiesto, costituisce una statuizione implicita al riguardo, posto che la sentenza che accoglie la domanda; diretta ad accertare l'avvenuto trasferimento della proprietà di un immobile a mezzo scrittura privata con firma non autenticata presuppone logicamente l'accertamento, con efficacia di giudicato, della autenticità della sottoscrizione di tale scrittura (Cass. 25-9- 2002 n. 13924; Cass. 22-6-2011 n. 13695); d'altra parte nella specie non risulta che sia stata mai in contestazione l'autenticità delle suddette sottoscrizioni. Con riferimento poi alla statuizione relativa alla trascrizione delle suddette scritture private previo frazionamento catastale, si tratta pur sempre di una pronuncia consequenziale all'accertamento della autenticità delle sottoscrizioni di tali scritture ai sensi dell'art. 2657 c.c. al fine di rendere opponibile ai terzi l'acquisto degli immobili di cui alle scritture private stesse. Con il secondo motivo la ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 1350 c.c., n. 11 - dell'art. 1418 c.c., comma 2, degli artt. 1421 e 713 c.c. - dell'art. 2657 c.c., comma 1 e dell'art. 216 c.p.c. nonchè omessa ed insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata per aver del tutto ignorato le specifiche eccezioni sollevate da D.C. con la comparsa di costituzione e risposta del 13-3-1992, ovvero che la scrittura del 16-8-1984 non era mai stata sottoscritta dalle coeredi M.E. e D'.Co., non potendo per quest'ultima avere alcun valore la sottoscrizione apposta dal figlio C.A., e che la firma rinvenibile in calce alla scrittura del 15-4-1986, apparentemente riferibile a D'.Co., rimasta contumace in primo grado, era stata espressamente disconosciuta dal C.A. con la comparsa di costituzione in appello del 3-12-2004, avendo dichiarato che tale scrittura non era mai stata firmata dalla propria madre. La censura è inammissibile. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 83 Sotto un primo profilo, relativo alla mancata sottoscrizione della scrittura privata del 16-8-1984 da parte di M.E. e D'.Co., si osserva che, poichè la questione prospettata, che implica un accertamento di fatto, non risulta trattata dalla sentenza impugnata, la ricorrente, al fine di evitare una sanzione di inammissibilità per novità della censura, aveva l'onere - in realtà non assolto - non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di appello, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo avesse fatto, per dar modo a questa Corte di controllare "ex octis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa; è quindi irrilevante al riguardo l'avvenuta proposizione della questione nel giudizio di primo grado con la comparsa di costituzione e risposta del 13-3-1992, se la questione stessa non è stata poi riproposta al giudice di appello. Quanto poi alla eccezione sollevata dal C.A. nel giudizio di secondo grado, il motivo è privo di autosufficienza, non essendo stata trascritta la deduzione in proposito contenuta nell'atto di costituzione in appello del 3-12-1984 del C.A. stesso e non essendo quindi possibile verificare il contenuto effettivo di tale eccezione; invero ai sensi dell'art. 214 c.p.c. il disconoscimento di scrittura privata, pur non richiedendo l'uso di formule sacramentali, postula che la parte contro la quale la scrittura è prodotta in giudizio impugni chiaramente l'autenticità della stessa, nella sua interezza o limitatamente alla sottoscrizione, contestando formalmente tale autenticità, ove egli sia l'autore apparente del documento prodotto, ovvero, nel caso di erede o avente causa dall'apparente sottoscrittore, dichiarando di non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione di quest'ultimo (Cass. 17-2002 n. 9543). Con il terzo motivo la M., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, commi 2 e 3 - L.R. Sicilia n. 37 del 1985, art. 9 - degli artt. 1418 e 1421 c.c., sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare la nullità della scrittura del 15-4-1986, posto che non sussisteva negli atti di causa alcun atto notorio da cui fosse risultata la prescritta dichiarazione che il fabbricato per cui è causa era stato realizzato in data antecedente al 1967; la ricorrente principale inoltre fa presente che ai sensi dell'art. 9 della richiamata legge della Regione Sicilia la divisione di un unico immobile in due unità autonome ed indipendenti presupponeva la preventiva concessione edilizia e, pertanto, qualsiasi contratto traslativo o costitutivo di diritti reali, ivi compreso quello di divisione, avente ad oggetto un immobile abusivamente modificato, deve ritenersi nullo per contrarietà a norme imperative. La censura è inammissibile. Invero, poichè la questione giuridica prospettata, che implica un accertamento di fatto, non risulta trattata dalla sentenza impugnata, la ricorrente principale, al fine di evitare una sanzione di inammissibilità per novità della censura, aveva l'onere - in realtà non assolto - non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di appello, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente io avesse fatto, per dar modo a questa Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa. Con il quarto motivo la ricorrente principale, deducendo violazione degli artt. 1419-1421-1425-13621367 e 1375 c.c. nonchè contraddittorietà della motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che l'accertata irrealizzabilità della soletta in cemento armato nel tratto di terreno antistante tra il fabbricato e la S.S. (OMISSIS) non aveva alcun riflesso sulla validità della divisione del fabbricato stipulata e confermata in corso di causa; in proposito rileva che dall'esame delle due suddette scritture private emergeva che le parti avevano voluto procedere alla contestuale divisione di tutto l'immobile, comprendente sia la casa che il terreno antistante la S.S. (OMISSIS), ed a realizzare con la prevista soletta in cemento armato due accessi autonomi, nonchè altri due vani sottostanti; sotto tale profilo la seconda scrittura privata, lungi dal configurarsi come una mera riproduzione della © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 84 prima, ad integrazione e modifica di quest'ultima prevedeva una diversa divisione del terreno antistante compreso tra il fabbricato e la S.S. (OMISSIS) e la realizzazione di una soletta in cemento armato a livello dell'attuale piano di calpestio; pertanto la previsione della realizzazione della suddetta soletta costituiva parte essenziale ed integrante del progetto di divisione, cosicchè la sua irrealizzabilità si riverberava sull'intero contratto modificandone i dati essenziali. La censura è infondata. Il giudice di appello ha affermato che il contratto di divisione del 16-8-1984 aveva come oggetto il fabbricato che venne ritenuto divisibile secondo porzioni assegnate con il sorteggio, e che detta divisione era stata confermata con la successiva scrittura del 15-4- 1986 intervenuta in pendenza di giudizio, con la quale erano stati stabiliti ulteriori atti riguardanti la divisione del terreno antistante tra gli assegnatari della quota A e quelli della quota B e la previsione della costruzione di una soletta in cemento armato, ferma restando la divisione del fabbricato secondo le modalità di cui alla prima scrittura; la Corte territoriale ha ritenuto a tal punto che il fatto che la soletta prevista tra il fabbricato e la strada non si sarebbe potuta realizzare non aveva alcun riflesso sulla divisione, in quanto la eventuale nullità di tale clausola non poteva incidere sulla validità della divisione del fabbricato stipulata e confermata anche in corso di causa; considerato infatti che in forza del principio di conservazione del contratto ai sensi dell'art. 1419 c.c. la nullità di una singola clausola può comportare la nullità dell'intero contratto soltanto se risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto colpito da nullità, ha rilevato che nè dall'interpretazione degli atti nè dagli elementi probatori acquisiti era risultato che i condividenti non avrebbero concluso la divisione se avessero conosciuto che la soletta in cemento armato non poteva essere costruita, tanto più che in corso di causa essi avevano confermato la divisione del fabbricato con la seconda scrittura. Orbene, in presenza di tale convincimento frutto di un accertamento di fatto sorretto da congrua e logica motivazione, la M. si limita a prospettare una diversa interpretazione degli atti senza comunque censurare specificatamente l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui non era emerso dagli atti e dall'istruttoria svolta che la validità degli atti stipulati fosse condizionata alla edificazione di altra struttura; in proposito deve osservarsi che ai sensi dell'art. 1419 c.c. la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità, e che la norma costituisce applicazione del principio di conservazione del contratto, e trova la sua "ratio" nella propensione dell'ordinamento a consentire che il contratto produca effetti tra i contraenti per la parte non colpita da nullità, a meno che non risulti che, senza quella parte, essi non lo avrebbero concluso; la regola è dunque che la nullità parziale non si estende all'intero contenuto della disciplina negoziale se permane l'utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto emerge dall'attività ermeneutica svolta dal giudice; per converso l'estensione all'intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce l'eccezione, da provarsi dalla parte interessata (Cass. 21-5-2007 n. 11673; Cass. 30-9-2009 n. 20948), mentre nella specie, come si è osservato, tale onere probatorio non è stato assolto. Con il quinto motivo la M., deducendo violazione dell'art. 1362 c.c. e segg.- degli artt. 2730-1175 e 1375 c.c. nonchè omessa ed apparente motivazione, sostiene che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che non era risultato dall'istruttoria svolta che la validità degli atti stipulati fosse stata condizionata alla sopraelevazione del fabbricato; in realtà la divisione oggetto della scrittura privata del 16-6-1984 era stata stipulata nella concordata previsione della sopraelevazione del fabbricato, come del resto espressamente ammesso dalle controparti negli atti di citazione del 5- 8-1985 e del 2811-1992 da esse sottoscritti, laddove si era dedotta la presupposta sopraelevazione del fabbricato; contrariamente poi a quanto affermato dal giudice di appello, l'impossibilità giuridica di sopraelevare il fabbricato non si era verificata successivamente alla sottoscrizione della prima scrittura, posto che dalla relazione del CTU ingegner ca. del 29-9-1997 era emerso che in base alle norme vigenti relative © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 85 alle costruzioni di fabbricati in zona sismica, e precisamente al D.M. 16 gennaio 1996, si doveva concludere che "oggi, viste le attuali caratteristiche costruttive del fabbricato oggetto di causa, non è possibile sopraelevare il fabbricato in quanto strutturalmente non conforme alla normativa antisismica vigente". La ricorrente principale poi evidenzia che la Corte territoriale non ha esaminato un documento decisivo, ovvero le norme di attuazione del PRG del Comune di Taormina, secondo cui nella zona urbana da ristrutturare (nella quale era compreso il fabbricato per cui è causa) era consentita soltanto la mera demolizione e ricostruzione dei volumi edilizi e dei manufatti esistenti, con esclusione, quindi, di ulteriori sopraelevazioni ed ampliamenti. La M. pertanto conclude che le suddette scritture private di divisione erano basate sull'erroneo presupposto comune a tutti i contraenti della possibilità giuridica di sopraelevare il fabbricato, nonchè dell'edificabilità del tratto di terreno adiacente la S.S. (OMISSIS), circostanze che giustificavano la maggiore superficie concessa a D'.Ma.. Tale assunto veniva avvalorato dal rilievo che, in mancanza della presupposta sopraelevazione, la quota attribuita alla dante causa dell'esponente si sarebbe concretizzata in appena mq. 25,80, ossia in una metratura inferiore agli stessi limiti di legge. La censura è infondata. La Corte territoriale ha escluso che dall'interpretazione delle due menzionate scritture private fosse configurabile una presupposizione concernente la sopraelevazione del fabbricato, ricorrendo tale istituto soltanto quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente all'esistenza di una situazione di fatto che assurga a presupposto della volontà negoziale e la cui mancanza comporti la caducazione del contratto stesso; ha poi aggiunto che, risultando dalle scritture difensive che la situazione presupposto sarebbe venuta meno successivamente alla stipula della prima scrittura, detta ipotesi avrebbe potuto condurre non già alla nullità della divisione, bensì alla sua risoluzione. Sotto un primo profilo deve rilevarsi che, affinchè sia configurabile una presupposizione (o condizione inespressa), è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l'esistenza di una situazione di fatto considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venire meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti stesse; orbene tale accertamento, esaurendosi sul piano propriamente interpretativo del contratto, costituisce una valutazione di fatto, riservata, come tale, al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici o giuridici (Cass. 18-2-2009 n. 20245), come appunto nella fattispecie. Inoltre, in riferimento al rilievo della Corte territoriale secondo cui la situazione presupposto, ovvero l'impossibilità della sopraelevazione del fabbricato, si sarebbe verificata dopo la stipula della prima scrittura, si osserva che la trascrizione nel ricorso principale di parte della relazione del CTU ingegner ca. non sembra avvalorare l'assunto della M., sia perchè in essa non si escludeva in via assoluta la possibilità di "edificare una ulteriore elevazione, (totale o parziale)" purchè "preceduta da un adeguato intervento di consolidamento ed adeguamento alle prescrizioni di cui al suddetto D.M. 16 gennaio 1996", sia perchè comunque l'impossibilità della suddetta sopraelevazione è collegata al suddetto D.M. 16 gennaio 1996 recante norme relative alle costruzioni di fabbricati in zona sismica, dunque successivo alla stipula dei suddetti atti di divisione, con conseguente applicazione dell'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ove la situazione presupposta venga successivamente meno nella fase esecutiva del contratto concluso, si verifica una risolvibilità del medesimo per fatto non imputabile alle parti (Cass. 11-8-1990 n. 8200; Cass. 8-8-1995 n. 8689), © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 86 mentre nella specie, come rilevato dal giudice di appello, la domanda di risoluzione non era stata proposta. Il ricorso principale deve quindi essere rigettato. Venendo quindi all'esame del ricorso incidentale, si rileva che con l'unico motivo formulato il C.A., deducendo violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., censura la sentenza impugnata per non aver condannato D.L.M. e consorte al pagamento delle spese di entrambe i gradi di giudizio nonostante che la loro domanda di risarcimento danni per inadempimento ed ex art. 96 c.p.c. proposta anche nei confronti dell'esponente quale erede di Co. D. era stata rigettata; d'altra parte, anche qualora la Corte territoriale avesse voluto compensare dette spese, dovendosi escludere la reciproca soccombenza, avrebbe dovuto indicare esplicitamente le ragioni di tale compensazione. Il C.A. aggiunge che avrebbe dovuto essere pronunciata la condanna al pagamento delle spese del secondo grado di giudizio in proprio favore anche nei confronti della M., essendo quest'ultima ben consapevole che sua madre D.C. aveva acquistato dalla sorella D'.Co. in data 19-4- 1985 la sua quota di comproprietà del fabbricato comune; in ogni caso le controparti avrebbero dovuto essere condannate al pagamento delle spese di giudizio perchè non avevano consentito (la M.) o si erano opposte (i D.) all'estromissione dal giudizio dell'esponente. La censura è infondata. Premesso che la sentenza impugnata ha compensato le spese di entrambi i gradi di giudizio attesa la reciproca soccombenza per alcune domande, deve rilevarsi anzitutto che correttamente la dante causa del C.A. D'.Co. era stata convenuta nel giudizio di primo grado, trattandosi di un giudizio di divisione nel quale tutti i condividenti sono litisconsorti necessari, e considerato che la suddetta scrittura privata del 19-4-1985 con cui D'.Co. aveva venduto la sua quota ereditaria a D.C., priva del requisito dell'autenticità, non era opponibile agli altri coeredi; inoltre deve aggiungersi che il C.A. nel giudizio di appello, come si è visto, pur non essendovi prova che avesse disconosciuto ai sensi dell'art. 214 c.p.c. la scrittura privata del 15-4-1986, aveva comunque dedotto che tale scrittura non era mai stata firmata dalla madre, così opponendosi alla declaratoria di validità ed efficacia della stessa, e restando poi soccombente al riguardo. Pertanto in proposito la statuizione del giudice di appello, esplicazione del potere del giudice di merito di compensare in tutto o in parte le spese di giudizio, è immune dai profili di censura sollevati dal C.A.. Anche il ricorso incidentale deve quindi essere rigettato. La M. soccombente nei confronti di D.A., D.M. e D.L.M. deve essere condannata al pagamento in favore di costoro delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo; ricorrono giusti motivi per compensare interamente le spese tra il C.A. e tutte le altre parti, considerata la natura peculiare della decisione riguardo al rapporto processuale intercorrente tra il primo da un lato e la M. e i D. dall'altro. P.Q.M. LA CORTE Riunisce i ricorsi, li rigetta entrambi, condanna la M. al pagamento in favore di D.A., D.M. e D.L.M. di Euro 200,00 per spese e di Euro 3500,00 per onorari di avvocato, e compensa interamente le spese di giudizio tra il C. e tutte le altre parti. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 87 La presupposizione non è prevista da alcuna norma di legge, ma costituisce un principio dogmatico (di matrice tedesca), che viene costantemente definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione - pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali - dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde - integrandolo - all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro. A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante solamente laddove se ne individui un autonomo e specifico rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi - essenziali o accidentali - del contratto. A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa ricondursi fatti e circostanze ascrivibili alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio significato di causa concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare: i cd. presupposti causali assumono infatti rilievo già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno contrattuale, e pertanto appunto la causa dello stesso. Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di invalidità del contratto (e su tale piano, diversamente che in passato, da una parte della dottrina viene ora propriamente ricondotto il classico esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento riconducibile all'interesse dalle parti concretamente inteso realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto alla causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con la venuta meno della medesima, per la conseguente invalidità del negozio ). Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed in particolare la qualità del bene, giacchè in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento. La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una qualità giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè trattisi di qualità dovuta) rileva sul piano dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento (ad es. la perdita della qualità di edificabilità del terreno promesso in vendita per atto della P.A., con conseguente impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione del contratto). Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacchè a parte il rilievo che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente figura, la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola condizionale. Estranei alla presupposizione vanno a fortiori tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano dal contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto è funzionaiizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se essi © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 88 sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della presupposizione, giacchè l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto. Come correttamente osservato in dottrina, alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti e circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione, assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da parte dell'altra) un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale. Circostanze che, pur senza essere - come detto - dedotte specificamente quale condizione del contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei criteri legali d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale (es. l'ottenimento dello sperato finanziamento). Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o di inefficacia del contratto, nè a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c., art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione, bensì all'esercizio del potere di recesso (anche qualora il presupposto obiettivo del contratto sia già in origine inesistente o impossibile a verificarsi). Nei contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita, ciascuna parte assume su di se il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle rispettive prestazioni, entro i limiti rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi pertanto da ciascun contraente presente al momento della stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua della dovuta diligenza. Per interpretare correttamente la volontà contrattuale delle parti, bisogna considerare anche il comportamento. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 25 aprile 2007, n. 12235 Svolgimento del processo Con atto di citazione ritualmente notificato nel 1992 il Comune di Genova conveniva le Acciaierie di Cornigliano s.p.a. (poi Ilva s.p.a.) e la Ilva s.p.a. (poi Iritecna s.p.a. e quindi Fintecna s.p.a.) avanti al Tribunale di Genova per ivi sentir pronunziare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta o per presupposizione del contratto stipulato il (omissis) con la società Italsider s.p.a. (poi Fintecna s.p.a.), cui dal maggio 1985 era subentrata la società Cogea s.p.a. (poi Acciaierie di Cornigliano s.p.a.), di permuta dell'area di mq. 13.326 in (omissis) (con accesso dalla via (omissis) di proprietà Italsider con un quantitativo di mc. 200 milioni di acqua trattata da costruendo depuratore di acque nere, o proveniente da altre fonti sostitutive, da fornirsi con consegne uniformemente ripartite in 20 anni a decorrere dal settembre 1977. Esponeva al riguardo che sin dall'entrata in funzione il depuratore in questione non aveva potuto rifornire come pattuito lo stabilimento siderurgico Oscar Senigaglia, a causa di imprevisti ed imprevedibili scarichi abusivi di portata tale da determinare l'impossibilità per il medesimo di erogare acqua industriale con le stabilite caratteristiche. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 89 Nella resistenza delle convenute società, che in via riconvenzionale chiedevano accertarsi e dichiararsi l'inadempimento dell'Amministrazione comunale, con conseguente condanna della medesima al pagamento degli importi corrisposti agli acquedotti privati per la fornitura sostitutiva nonchè a rifornire lo stabilimento siderurgico della quantità d'acqua pattuita e al risarcimento dei danni; riunito il procedimento con altri (due) avanti al medesimo tribunale instaurati nel 1993 dall'A.M.G.A. (Azienda Mediterranea Gas e Acqua s.p.a., già Azienda Municipalizzata Gas ed Acqua) nei confronti della società Ilva s.p.a. e della società Acciaierie di Cornigliano s.p.a., per ivi sentirle condannare al pagamento delle somme dovute a titolo di corrispettivo per la fornitura di acqua effettuata in loro favore nei periodi di rispettiva competenza, con sentenza emessa nel 1998 l'adito giudice rigettava le domande del Comune e dell'A.M.G.A., nonchè quelle di A risarcimento danni proposte in via riconvenzionale dalle convenute, e dichiarava inammissibile la domanda di manleva, condannando il Comune a rimborsare alla società Acciaierie di Cornigliano s.p.a. e all'Uva s.p.a. gli importi già corrisposti agli acquedotti privati per le forniture sostitutive, con le conseguenti disposizioni in ordine alla regolazione delle spese. I gravami, interposti con separati atti dal Comune e dall'A.M.G.A. e poi riuniti all'esito della riassunzione del processo successivamente all'interruzione disposta in ragione della fusione per incorporazione della Iritecna s.p.a. nella Fintecna s.p.a., con costituzione di quest'ultima, venivano dalla Corte d'Appello di Genova rigettati con sentenza del 20/9/2002. Avverso la detta sentenza della corte di merito il Comune di Genova propone ora ricorso per cassazione affidato a 5 motivi, illustrati da memoria. Resistono con controricorso le società Uva s.p.a. e Fintecna s.p.a., che hanno anch'esse presentato memoria. La società A.M.G.A. non ha svolto attività difensiva. Motivi della decisione Con il 1^ motivo l'Amministrazione ricorrente de- ( nunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1467, 1552, 1362, 1363, 1366, 1374 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Lamenta che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto non applicabile l'istituto della presupposizione, nel caso concernente il presupposto implicito del contratto determinante la volontà negoziale che, salvo i casi eccezionali specificamente previsti, l'impianto di depurazione de quo fosse in grado di produrre acqua trattata della qualità convenuta rispondente a determinate caratteristiche chimico-fisiche, argomentando dalla circostanza che l'eventualità della mancata produzione di acqua depurata era stata specificamente ed espressamente prevista in contratto laddove si era indicato che in relazione alle eventuali fonti sostitutive "nessuna alea dovesse gravare su Italsider", non essendovi pertanto alcuno "spazio per l'integrazione del contratto nell'ottica del bilanciamento delle prestazioni secondo l'economia interna dello stesso". Deduce essere non revocabile in dubbio, considerando correttamente quale scopo dello stipulato contratto de quo il risparmio di acqua potabile a favore di usi civili per preservare le già carenti risorse idriche (per il Comune) e l'utilizzazione dell'acqua depurata per evitare il rischio di contingentamento in caso di siccità (per l'Italsider), che la circostanza disattesa dai giudici di merito costituisce presupposto implicito del contratto, non risultando invero spiegabile "per quale ragione il Comune - che ben avrebbe potuto espropriare l'area per un costo irrisorio (a quel tempo determinabile secondo i criteri di cui alla L. n. 865 del 1971) - avrebbe dovuto assumersi il rischio di vedersi © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 90 esposto ad un totale stravolgimento delle prestazioni contrattuali, rappresentato dall'obbligo di fornitura di acqua potabile in luogo dell'acqua per mero uso industriale, con aumento dell'onere per la P.A. dagli originari L. 600 milioni (valore di permuta), a L. 26 miliardi (per capitale e interessi)". In considerazione della causa (di permuta), della durata (ventennale) e della natura (ad esecuzione differita) del contratto, il corretto funzionamento dell'impianto costituisce ineludibile presupposto dell'accordo in questione, invero non escluso dalla previsione dell'eventuale - limitato e temporaneo malfunzionamento dell'impianto, giacchè laddove le parti si fossero rappresentate, avuto riguardo anche alla lunga durata del contratto, la situazione di "impossibilità assoluta di effettuare la depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche" non si sarebbero invero indotte a stipulare un contratto "il cui sinallagma era fondato sull'equivalenza economica delle prestazioni (trattandosi appunto di permuta) e la cui distribuzione dei rischi era necessariamente da ricondurre e da riportare a quel determinato tipo contrattuale". Con il 2^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1467, 1552, 1362, 1363, 1366, 1374 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si duole che nell'interpretare il contratto la corte di merito abbia erroneamente escluso che il mancato funzionamento del depuratore sia da considerarsi circostanza straordinaria ed imprevedibile ai sensi dell'art. 1467 c.c., il fenomeno dell'enorme quantità di scarichi abusivi essendosi verificato solamente in epoca successiva alla stipulazione del contratto, una prima volta nel 1985 e poi nel 1989, vanamente avendo tentato di ovviarvi, anche con una denuncia alla locale Procura della Repubblica. Lamenta non potersi considerare al riguardo in qualche modo rilevante la circostanza che il controllo sull'inquinamento delle acque rientra nelle proprie competenze amministrative, venendo altrimenti a sovrapporsi il suo ruolo di autorità di controllo con quello di parte del contratto di permuta in oggetto, laddove l'esercizio dei poteri pubblicistici non può invero riverberare in chiave d'interpretazione di un contratto di diritto comune. Lamenta la contraddittorietà della motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui, dopo essersi ritenuto rientrare nell'alea normale del contratto il rischio dell'immissione di scarichi abusivi nelle condotte adducenti al depuratore, risulta alle parti di contratti commutativi attribuito il potere di assumere, reciprocamente o unilateralmente, un determinato rischio, rendendo eonseguentemente per tale aspetto aleatorio il negozio. Deduce altresì che il rischio di fornire comunque l'acqua, anche in caso di guasti e/o fermate dell'impianto, contrattualmente posto a suo carico, costitusce questione altra e diversa da quella relativa. ad un "assoluto ed indefinito stravolgimento delle prestazioni originariamente previste a titolo di permuta in conseguenza di un evento fuori dall'ordinario", giacchè il ricorso alle "fonti sostitutive" era stato nella specie concepito come rimedio "eccezionale", tendente a riparare circostanze contingenti e necessariamente limitate nel tempo che avessero inciso sulla regolare attività dell'impianto. Si duole non essersi nell'impugnata sentenza tenuto conto che il valore delle prestazioni dedotte in contratto (e cioè il costo a me. dell'acqua, da un canto, e il valore di mercato dell'area all'epoca determinato in L. 600 milioni, da altro canto) era successivamente venuto a risultare fortemente squilibrato, giacchè la prestazione a suo carico era ascesa ad un valore di più di L. 26 miliardi (per capitale ed interessi). E l'imprevedibilità deve essere valutata anche con riferimento ad un evento che ecceda la normale distribuzione dei rischi in relazione alla "dimensione" assunta da evento già esistente al momento della conclusione del contratto. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 91 Si duole, ancora, che nel considerare contrattualmente previsto un concorso della controparte (nella misura del 30% del prezzo dell'acqua) solamente in caso di eventi di forza maggiore, la corte di merito abbia violato le norme in tema di obbligazioni alternative, "risultando evidente che le prestazioni di fornitura di acqua potabile aveva natura necessariamente sostitutiva e non alternativa rispetto alla fornitura di acqua depurata per uso industriale". Con il 3^ motivo denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1366, 1374 e 1375 c.c. in relazione all'art. 1467 c.c. in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 .p.c., comma 1, n. 5. Lamenta che l'interpretazione del contratto da parte della corte di inerito disattende il criterio della buona fede contrattuale, cui occorre fare ricorso a fini interpretativi (art. 1366 c.c.) per valutare il comportamento delle parti anche in fase esecutiva (art. 1375 c.c.), "non solo per dare significato al regolamento, ma anche per bilanciare le prestazioni secondo l'economìa interna del contratto", laddove nell'impugnata sentenza si perviene ad affermare che "tutto il rischio sarebbe stato da addossarsi alla sola parte pubblica, mentre la parte privata sarebbe stata in ogni caso garantita di ogni e qualunque evento che avesse inciso sull'equilibrio delle prestazioni. Con il 4^ motivo l'Amministrazione ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1559, 1562, 1563, 1564, 1569, 1570 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si duole che "Con riguardo alla posizione AMGA (ed alle conseguenze che se ne traggono a suffragio dell'intepretazione propugnata dal Giudicante)", la corte di merito abbia affermato che "avrebbe dovuto competere all'acquedotto comunale dimostrare che furono Italsider, poi Ilva e poi Acciaierie di Cornigliano a richiedere la fornitura di acqua sostitutiva, non essendo sufficiente la circostanza che l'acqua sia di fatto pervenuta allo stabilimento siderurgico", ingiustificato ravvisando "in assenza di un impegno di Amga in proposito" il fatto della "prosecuzione delle forniture per anni senza alcuna interruzione, nonostante i mancati pagamenti" e conseguentemente ritenendo "suffragata la tesi secondo cui la fornitura di acqua sostitutiva da parte di AMGA sia avvenuta in adempimento degli accordi contrattuali assunti dal Comune, che sarebbe quindi tenuto al relativo pagamento". Lamenta l'illogicità e la contraddittorietà di tale argomentare, giacchè la corte di merito ha "posto a premessa del proprio ragionamento quella che in realtà avrebbe dovuto esserne la conseguenza". Sostiene al riguardo che "prima avrebbe dovuto accertarsi l'obbligo del Comune di fornire acqua sostitutiva in ogni caso di malfunzionamento dell'impianto - qualunque ne fosse la causa - e solo successivamente stabilirsi che per tale ragione la fornitura dell'Amga andava riguardata come esecuzione di tale obbligo". Deduce che la somministrazione può trovare fonte anche in fatti concludenti, e che non è al riguardo significativa la circostanza che l'Amga non abbia mai richiesto il pagamento della forniturasomministrata, atteso che ai sensi dell'art. 1562 c.c. solo nella somministrazione a carattere periodico il prezzo è corrisposto all'atto delle singole prestazioni, laddove nel caso si tratta viceversa di somministrazione "continuativa", senza cioè soluzione di continuità. Lamenta che, formulata dall'A.M.G.A. la richiesta di pagamento, in unica soluzione, alle due società somministrate con la domanda introduttiva dei giudizi oggetto di successiva riunione, la corte di © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 92 merito "non si è peritata, sul punto, di argomentare la propria posizione se non sulla base di una precostituita supposizione, la quale ... avrebbe dovuto seguire (e non precedere) il positivo accertamento che la prestazione di A.M.G.A. fosse effettuata su incarico del Comune". I motivi, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono infondati. Il ricorrente si duole della erronea considerazione "del presupposto implicito del contratto, determinante la volontà di entrambi i contraenti" in questione, e quindi del "corretto esercizio del depuratore e la conseguente fornitura di acqua con le pattuite caratteristiche chimico-fisiche", riguardato sia sotto il profilo della presupposizione che dell'eccessiva onerosità sopravvenuta del contratto de quo. Contratto che nell'impugnata sentenza risulta qualificato in termini di permuta, tale venendo anche dall'odierno ricorrente considerato nell'articolazione logico-giuridica delle proprie doglianze. Sotto il primo profilo il ricorrente in particolare si duole che la corte di merito abbia escluso, violando la legge ed illogicamente motivando, la ricorrenza nel caso della figura della presupposizione, da rinvenirsi allorquando "una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali - come presupposto condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal fine: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2) che l'evento supposto sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione differisce dalla condizione); 3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le più recenti, Cass. 21.11.2001 n. 14629). Sicchè la "presupposizione è ... configurabile quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente all'esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorchè a tale situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento" (Cass. 9.11.1994, n. 9304)". Orbene, la presupposizione - vale anzitutto osservare - non è invero prevista da alcuna norma di legge, ma costituisce un principio dogmatico (di matrice tedesca) contestato da gran parte della dottrina, che vi ravvisa una condizione non sviluppata del negozio o un motivo non assurto a clausola condizionale, ma accolto in giurisprudenza anche di legittimità, ove viene costantemente definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali - dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde - integrandolo - all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro (v. Cass., 23/9/2004, n. 19144; Cass., 4/3/2002, n. 3052; Cass., 21/11/2001, n. 14629; Cass., 8/8/1995, n. 8689). Va al riguardo ulteriormente precisato che, come posto in rilievo da una parte della dottrina, la presupposizione costituisce in realtà un fenomeno articolato, cui vengono ricondotti fatti e circostanze sia di carattere obiettivo che valorizzati dalla volontà delle parti. A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante solamente laddove se ne individui un autonomo e specifico rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi - essenziali o accidentali - del contratto. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 93 A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa ricondursi fatti e circostanze ascrivibili alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio significato di causa concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare (cfr. Cass., 8/5/2006, n. 10490). I cd. presupposti causali assumono infatti rilievo già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno contrattuale, e pertanto appunto la causa dello stesso. Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di invalidità del contratto (e su tale piano, diversamente che in passato, da una parte della dottrina viene ora propriamente ricondotto il classico esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento riconducibile all'interesse dalle parti concretamente inteso realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto alla causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con la venuta meno della medesima, per la conseguente invalidità del negozio ). Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed in particolare la qualità del bene, giacchè in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento. La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una gualità giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè trattisi di qualità dovuta) rileva sul piano dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento (ad es. la perdita della qualità di edificabilità del terreno promesso in vendita per atto della P.A., con conseguente impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione del contratto: cfr. Cass., 19/3/1981, n. 1635). Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacchè a parte il rilievo che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente figura, la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola condizionale. Estranei alla presupposizione vanno a fortioriri tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano dal contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto è funzionaiizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se essi sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della presupposizione, giacchè l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto. Come correttamente osservato in dottrina, alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti e circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione, assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da parte dell'altra) un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale. Circostanze che, pur senza essere - come detto - dedotte specificamente quale condizione del contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei criteri legali d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale (es. l'ottenimento dello sperato finanziamento). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 94 Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o di inefficacia del contratto, nè a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c., art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione (contra. v. peraltro Cass., 22/9/1981, n. 5168 ), bensì all'esercizio del potere di recesso ( anche qualora il presupposto obiettivo del contratto sia già in origine inesistente o impossibile a verificarsi). Nel caso di specie il ricorrente, che non ha esercitato il recesso, non deduce la violazione della causa o dell'oggetto o della condizione del contratto, ma lamenta invero l'erroneità della ravvisata esclusione di rilevanza nel caso proprio della specifica figura della presupposizione, dolendosi che la corte di merito non abbia accolto il prospettato riverberarsi sul relativo profilo causale. Sul piano della validità del contratto, dunque. Ovvero, secondo ulteriore ed alternativa impostazione, su quello della inefficacia del contratto laddove i fatti e le circostanze che la integrano determinano l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. Orbene, va al riguardo affermato che in base al significato del contratto - accertato facendo esercizio dei poteri loro spettanti - i giudici del merito hanno invero escluso, dandone congrua motivazione, che nel caso le parti abbiano assegnato rilievo, quale specifico presupposto oggettivo, all'idoneità al normale funzionamento dell'impianto di depurazione in questione. A fronte della questione già in sede di gravame di merito oggetto di censura da parte dell'allora appellante Comune, la corte d'appello ha infatti al riguardo posto in rilievo che "la semplice lettura delle premesse e dell'art. 2 del contratto evidenzia come, a fronte dell'impegno dell'Ilva spa di trasferire al Comune la proprietà di un consistente appezzamento di terreno di sua proprietà e di garantirne il funzionamento, l'Ente locale avesse assunto l'obbligo di fornire alla società, ripartiti uniformementente in un ventennio, duecento milioni di metri cubi di acqua trattata e depurata nell'impianto realizzando "o eventualmente proveniente in tutto o in parte da altre fonti sostitutive" con le modalità ed alle condizioni nel contratto in seguito elencate". Altresì sottolineando essere "evidente come una tale prospettazione dei reciproci obblighi, con l'aggiunta nel quadro complessivo della fornitura costante di ossigeno al depuratore a prezzo di costo, accollasse al Comune il rischio di avvenimenti successivi che per malfunzionamento dell'impianto determinassero il ricorso per la fornitura di acqua a risorse esterne a quelle offerte dal depuratore e, quindi, in realtà attribuissero al Comune l'onere di apprestare e realizzare un impianto idoneo ad evitare il verificarsi di una tale onerosa eventualità ... infatti, sebbene alle condizioni che saranno in seguito meglio illustrate, la fornitura di acqua sostitutiva si presentava in contratto non come subordinata, ma, semplicemente, come alternativa a quella depurata". Se ne è quindi tratto che "l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di prevedibili scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per la rete di fognature che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione diligente di chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto come il Comune di Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e frequente degli scarichi abusivi ... cioè il Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed anche per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella depurata, dimostrava così di essere ben consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi era certamente uno dei più semplici da prevedere, avesse determinato il malfunzionamento del depuratore impedendo l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto impedire, ciò nonostante, l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole aggravio economico della sua prestazione ... a questo fine appare significativo osservare come in un apposito paragrafo (punto C dell'art. 5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche chimico-fisiche minime dell'acqua da fornire e come al © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 95 punto A dello stesso articolo fosse stato posto a carico del Comune l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a permettere la consegna uniforme dell'acqua proveniente da fonti sostitutive". Il rischio della fornitura sostitutiva, si sottolinea nell'impugnata sentenza, era stato cioè assunto come rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in ogni caso, alla società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante dal malfunzionamento dell'impianto di depurazione. Tanto più che, comunque, "nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, nè in se stessi, come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, nè nelle loro dimensioni, mentre in tale contesto (tra l'altro i malfunzionamenti sembrano essere iniziati nel 1985 e proseguiti a partire dal 1989) non vi sono in causa elementi minimi idonei che consentano di affidare ad un tecnico l'incarico di verificare la possibilità di fronteggiare con adeguata progettazione od opportuni aggiustamenti tecnici la predetta situazione continuando a fornire acqua depurata idoena ad usi industriali. Tale interpretazione della corte di merito risulta invero correttamente operata e congruamente motivata, in conformità ai principi più sopra richiamati, da essa con tutta evidenza emergendo come l'idoneità dell'impianto di depurazione al normale funzionamento nella specie in realtà inerisca alla qualità giuridica del bene. A tale stregua, pertanto, quale presupposto intrinseco della prestazione dall'Amministrazione comunale nel casocontrattualmente assunta, il cui difetto se del caso diversamente rileva, alla stregua di quanto sopra esposto, sul piano dell'inadempimento. La censura del ricorrente non può trovare d'altro canto accoglimento nemmeno riguardando l'inidoneità al normale funzionamento del depuratore de quo sotto il profilo dell'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. Va al riguardo anzitutto esclusa l'ammissibilità della prospettazione dell'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione quale conseguenza del venir meno della presupposizione. Pur se in passato da questa Corte in effetti non sempre respinta (v. Cass., 17/5/1976, n. 1738), va al riguardo osservato che - come in dottrina non si e invero mancato di porre in rilievo - il riferimento alla presupposizione viene a far inammissibilmente ridondare l'eccessiva onerosità sul piano dell'interpretazione del contratto, laddove essa viceversa rileva a prescindere dalla volontà delle parti, quale rimedio dall'ordinamento concesso in reazione all'alterazione non già dei presupposti specifici ( valorizzati appunto dalla presupposizione ) bensì dei presupposti generici del contratto, subordinandone cioè il mantenimento alla persistenza delle normali condizioni di mercato e di vita sociale su di esso incidenti. L'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (diversamente dalla più sopra evocata impossibilità sopravvenuta della prestazione, quale rimedio all'alterazione del cd. sinallagma funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta ) non incide sulla causa del contratto, non impedendo l'attuazione dell'interesse con esso concretamente perseguito, ma trova diversamente fondamento nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico della prestazione, salvaguardando cioè la parte dal rischio di un relativo eccezionale aggravamento economico derivante da gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici. Mentre nei contratti a titolo gratuito l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il valore originario della prestazione ed il valore successivo, trattandosi come nella specie di contratto oneroso(pennuta), l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni, laddove una prestazione non trova più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva (v. Cass., 13/2/1995, n. 1559). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 96 Atteso un tanto, risponde invero a principio recepito che, per poter ai sensi dell'art. 1467 c.c. determinare la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita, l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve essere determinata dal verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili. Il carattere della straordinarietà è di natura obiettiva, qualificando un evento in base all'apprezzamento di elementi (come la frequenza, le dimensioni, l'intensità, ecc.) suscettibili di misurazione, tali pertanto da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quantomeno di ordine statistico (v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/2/2001, n. 2661; Cass., 9/4/1994, n. 3342). Il carattere della imprevedibilità deve essere valutato secondo criteri obiettivi, riferiti ad una normale capacità e diligenza media, avuto riguardo alle circostanze concrete del caso sussistenti al momento della conclusione del contratto (v. Cass., 13/2/1995, n. 1559), non essendo invero sufficiente l'astratta possibilità dell'accadimento. L'accertamento da parte del giudice di merito della sussistenza o meno dei caratteri di straordinarietà ed imprevedibilità degli eventi che hanno determinato l'eccessiva onerosità di una delle prestazioni corrispettive previste in contratti ad esecuzione differita spetta peraltro al giudice di merito, ed è insindacabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione (v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/2/2001, n. 2661). Orbene, il Comune ricorrente basa la propria odierna impugnazione sulla distinzione tra meri "casi eccezionali specificamente previsti" di variazione e "impossibilità assoluta di effettuare la depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche" quale fattore di alterazione dell'"equivalenza economica delle prestazioni (trattandosi appunto di permuta)". A parte il rilievo che nell'adombrare siffatta prospettazione omette di considerare che il mutamento di valore concerne nel caso entrambe le prestazioni, laddove in presenza di contratto come nella specie oneroso l'aggravio consiste - come sopra esposto- nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni corrispettive, e non già nella sopravvenuta sproporzione tra il valore originario ed il valore successivo della singola prestazione (viceversa rilevante per i contratti a titolo gratuito), dovendo pertanto considerarsi non solamente il valore della pretazione a suo carico in ragione del diverso costo dell'acqua oggetto di fornitura ma anche il valore dei beni immobili ricevuti in permuta con relativa valutazione comparativa in ragione dei rispettivi attualizzati valori che non risulta nel caso invero compiuta, va osservato che diversamente da quanto dal medesimo lamentato la corte di merito ha invero esaminato e specificamente disatteso l'argomento secondo cui si sia nel caso trattato di un evento imprevedibile. Nel sottolineare che il fenomeno dell'allaccio abusivo di scarichi era al contrario senz'altro prevedibile, a fortiori per chi - come appunto l'odierno ricorrente - è addirittura investito ex lege della funzione pubblica di controllare e monitorare nonchè regolare in concreto gli interventi in materia, anche avvalendosi dei poteri di competenza quale soggetto di diritto pubblico ("da ciò consegue come l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di prevedibili scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per la rete di fognature che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione diligente di chiunque avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto come il Comune di Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e frequente degli scarichi abusivi"), non configurandosi invero al riguardo il pericolo di commistione di funzione e di ruoli paventato dal ricorrente, la corte di merito ha invero posto in rilievo come nel caso le parti abbiano espressamente preso in considerazione l'eventualità del non corretto funzionamento dell'impianto di depurazione, specificamente prevedendo in contratto una prestazione sostitutiva ("il Comune, consapevole che © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 97 l'Italsider non intendeva correre alcun rischio relativo a inadeguatezze dell'impianto di depurazione, circa l'entità e la qualità dell'acqua da ricevere in contropartita della cessione del terreno, se ne è accollato totalmente il carico anche economico, chiedendo un contributo del 30%, come subito dopo nel contratto specificato, nel solo caso in cui il ricorso a fonti sostitutive fosse reso necessario da cause di forza maggiore consistenti in eventi naturali, tra cui pacificamente non rientrano gli scarichi abusivi di cui si tratta; ... dunque, non essendo indicati limiti al minor rendimento ed essendo anzi addirittura prevista la continuità dell'erogazione anche per il caso di fermata del depuratore e per i casi di forza maggiore dovuti ad eventi naturali, non sembra sostenibile, di fronte all'obbligo inderogabile di rifornire uniformemente l'impianto, senza rischio alcuno per l'Italsider, la tesi per cui possa ritenersi caso eccettuato od imprevedibile quello di inidoneità permanente dell'impianto alla depurazione dell'acqua a causa di un evento tra l'altro così prevedibile come quello degli scarichi abusivi, sia pure di rilievo"). Costituisce d'altro canto principio recepito in giurisprudenza di legittimità quello per il quale nei contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita, ciascuna parte assume su di se il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle rispettive prestazioni, entro i limiti rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi pertanto da ciascun contraente presente al momento della stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua della dovuta diligenza (v. Cass., 23/11/1999, n. 12989). Orbene, in esplicazione dei poteri ad essi spettanti i giudici di merito hanno nel caso accertato essere stato tale fenomeno invero contrattualmente previsto e regolato "il Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed anche per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella depurata, dimostrava così di essere ben consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi era certamente uno dei più semplici da prevedere, avesse determinato il malfunzionamento del depuratore impedendo l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto impedire, ciò nonostante, l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole aggravio economico della sua prestazione ... a questo fine appare significativo osservare come in un apposito paragrafo") (punto C dell'art. 5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche chimicofisiche minime dell'acqua da fornire e come al punto A dello stesso articolo fosse stato posto a carico del Comune l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a permettere la consegna "uniforme" dell'acqua proveniente da fonti sostitutive ... cioè il rischio della fornitura sostitutiva era stato assunto come rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in ogni caso, alla società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante dal malfunzionamento dell'impianto di depurazione ... d'altra parte e comunque, nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, nè in se stessi, come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, nè nelle loro dimensioni ...". Nè può d'altro canto nella specie assegnarsi in qualche modo rilievo alla tesi dottrinaria secondo cui la sopravvenienza di circostanze pur prevedibili rende comunque eccessivamente gravosa, e pertanto inesigibile, l'adempimento della prestazione, giacchè come si è al riguardo da altra parte della dottrina correttamente obiettato si viene in tal caso a vertere in tema d'inadempimento, e non già di alterazione dell'economia contrattuale. Infondata è del pari la doglianza concernente il dedotto vizio di motivazione. Va anzitutto osservato che in base a fermo principio di questa Corte l'interpretazione del contratto è riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 98 violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (v. Cass. 21 aprile 2005, n. 8296). Il sindacato di legittimità può avere pertanto ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (v. Cass., 29/7/2004, n. 14495). Pur non mancando qualche pronunzia di segno diverso (v. Cass., 10/10/2003, n. 15100; Cass., 23/12/1993, n, 12758), costituisce orientamento consolidato quello secondo cui in tema di interpretazione del contratto ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate, con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa. Il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dovendo essere peraltro verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, e le singole clausole considerate in correlazione tra loro, procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacchè per "senso letterale delle parole" va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., 25/10/2006, n. 22899; Cass., 22/12/2005, n. 28479; Cass., 24/11/2005, n. 24813; Cass., 2/4/2004, n. 6513). Se è vero che l'elemento letterale assume funzione fondamentale, la valutazione del complessivo comportamento delle parti costituisce peraltro un canone non già sussidiario bensì necessario ed indefettibile, in quanto le singole clausole, da interpretare le une per mezzo delle altre senza arrestarsi alla relativa considerazione atomistica, neppure quando il loro senso possa ritenersi compiuto, debbono essere raccordate al complesso dell'atto, e l'atto deve essere esaminato valutando il complessivo comportamento delle parti. In questo progressivo ampliamento dell'oggetto dell'interpretazione assume allora rilievo anche il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, purchè sia un comportamento comune, ovvero un comportamento unilaterale (anche tacitamente) accettato dall'altra parte, atteso che, così come comune è l'intenzione delle parti, quale fondamentale parametro di interpretazione, del pari comune deve essere il comportamento delle parti quale parametro di valutazione della volontà da esse manifestata (v. Cass., 9/2/2007, n. 2901; Cass., 25/10/2006, n. 22899). Orbene, nel caso in esame, di tali principi la corte di merito ha nell'impugnata sentenza fatto corretta e puntuale applicazione, con motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici, in particolare là dove, nel condividere e confermare l'avviso del giudice di prime cure, ha ritenuto che il contratto sia stato dalle parti stipulato senza che venissero "indicati limiti al minor rendimento ed essendo anzi addirittura prevista la continuità dell'erogazione anche per il caso di fermata del depuratore e per i casi di forza maggiore dovuti ad eventi naturali", espressamente escludendo, "di fronte all'obbligo inderogabile di rifornire uniformemente l'impianto, senza rischio alcuno per l'Italsider", la possibilità di ritenersi "caso eccettuato od imprevedibile quello diinidoneità permanente dell'impianto alla depurazione dell'acqua a causa di un evento tra l'altro così imprevedibile come quello degli scarichi abusivi, sia pure di rilievo". Interpretazione che la corte di merito ha ravvisato "convalidata dal comportamento del Comune successivo alla stipula del contratto, posto che pur nel verificarsi degli eventi cd. imprevedibili fin dal 1985 e poi dal 1989, il medesimo solo in prossimità dell'azione giudiziaria contestò i suoi obblighi così come sopra definiti, chiedendo in precedenza ancora con lettera del (omissis) la comunicazione © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 99 da parte appellata degli elementi contabili necessari per il pagamento da parte sua delle forniture di acqua". Al riguardo sottolineando come tale condotta sia logicamente spiegabile in considerazione delle necessità in cui l'Amministrazione comunale "si trovava di rinnovare le rete fognaria previa realizzazione di un depuratore", e quindi nell'interesse ad "acquisire il terreno Italsider, ottimamente collocato, ai fini del miglior utilizzo economico dell'impianto", oltre che nella sfiducia ... sulle sue capacità di produrre acqua depurata della qualità richiesta pur in presenza di eventi prevedibili come quello degli scarichi abusivi industriali. E specificamente escludendo, ancora, la rilevanza in contrario della durata e dell'esecuzione differita del contratto, in quanto il Comune, "pur partendo, in accordo con la controparte, dalla valutazione della natura commutativa del contratto (art. 7 e dichiarazioni di valore ai fini fiscali)", si è "esplicitamente ed implicitamente accollato il rischio di un suo sbilanciamento in favore dell'Italsider, prendendo atto dell'esigenza inderogabile della medesima di non dover correre alcun inconveniente rispetto alla fornitura di acqua concordata, anche sotto il profilo economico, se non e parzialmente per il caso di forza maggiore dovuta ad eventi naturali". A tale stregua l'impugnata decisione si sottrae invero alle censure mosse dalla ricorrente, dovendo al riguardo farsi d'altro canto richiamo al consolidato principio secondo cui in materia di interpretazione del contratto la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige la specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati, e del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del,1^ vizio di motivazione implica la puntualizzazione dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice del merito. Nessuna delle due censure può invece risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione. Per non soggiacere al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, quella data dal giudice al contratto non deve d'altronde essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni; sicchè quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili) non è consentito alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (v. Cass., 25/10/2006, n. 22899; Cass., 2/5/2006, n. 10131). Quanto alla buona fede, la quale distintamente rileva come criterio di integrazione (art. 1375 c.c.) e quale criterio di interpretazione del contratto (art. 1366 c.c.), assumendo significati diversi (nel primo caso, di canone di condotta o correttezza), nella specie risulta indubbiamente evocata quale criterio ermeneutico. Alla stregua della formulata censura i suindicati principi non risultano dal ricorrente tuttavia osservati. Esso si limita infatti a dedurre genericamente che "con il ricorso al principio dell'interpretazione secondo buona fede si possono arricchire le acquisizioni cui si perviene attraverso l'operazione ermeneutica sul dato testuale, mediante integrazione, utilizzando cioè tutti gli elementi che, rispetto a quanto è oggetto di formalizzazione esteriorizzata dai contraenti, consentono di ricostruirne la volontà effettiva: si tratta, in altri termini, di rapportare il dato testuale, nel concorso di tutti gli elementi valutativi a disposizione dell'interprete, alla buona fede intesa come buona regola di condotta, al fine di effettuare un'operazione di controllo che, nell'ambito strettamente interpretativo, consenta di verificare l'esigibilità dell'adempimento a carico di ciascuna parte, in relazione alle circostanze sopravvenute e a una valutazione dell'economia dell'affare attenta ad una razionale distribuzione dei rischi ... . Il principio di buona fede garantisce un equilibrio fra gli interessi dei contraenti conseguente con le finalità in vista delle quali si sono assunti gli impegni ed in coerenza © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 100 appunto con l'assetto contrattuale ... la buonafede si pone nel sistema come limite interno di ogni statuizione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo, rispetto alla fisionomia apparente ...". Per poi, dopo aver esaminato altri profili al riguardo ravvisati interessanti in chiave di interpratazione del contratto de quo, genericamente concludere: "Il paradosso della sentenza impugnata è invece quello che discende dalla constatazione (invero incomprensibile) secondo cui tutto il rischio sarebbe stato da addossarsi alla sola parte pubblica, mentre la parte privata sarebbe stata in ogni caso garantita di ogni e qualunque evento che avesse inciso sull'equilibrio delle prestazioni". A tale stregua risulta invero omessa l'indicazione di quali aspetti (non suscitare e non speculare su falsi affidamenti; non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte) in cui si specifica il significato di obbligo di lealtà che la buona fede assume quale criterio legale d'intepretazione del contratto risulterebbero nella specie violati, la cui osservanza avrebbe condotto la corte di merito all'adozione di altra e diversa decisione. Orbene, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, tale censura appare allora finalizzata piuttosto, ma inammissibilmente, a sollecitare una diversa lettura delle risultanze di causa, in contrasto proprio con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi all'attenzione dei giudici della Corte di Cassazione tutti gli elementi di fatto già considerati dai giudici del merito a da costoro asseritamente in termini erronei valutati, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento di quegli stessi elementi già sottoposti al vaglio del giudice di seconde cure (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass. n. 12984 del 2006). Quanto infine alla doglianza secondo cui la corte di merito non ha nel caso ravvisato la sussistenza di un contratto di somministrazione (in particolare "continuativa" e non già a carattere periodico), quale fonte della fornitura di acqua nel caso erogata dall'AMGA, precisato anzitutto che la stessa - per non impingere nel divieto di cui all'art. 81 cpv. c.p.c. deve intendersi formulata con stretto riferimento alla considerazione della detta prestazione quale modalità alternativa dell'obbligazione a carico del Comune in virtù dello stipulato contratto di permuta de quo, tenuto conseguentemente al relativo pagamento - ovvero quale contratto da quest'ultima del tutto autonomo, va al riguardo sottolineato che, come sopra esposto, la corte di merito ha dato logica e congrua motivazione della relativa considerazione, la censura del ricorrente invero profilandosi in termini di sostanziale - e in sede di legittimità non consentita - contrapposizione ermeneutica. Con il 5^ motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 62 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si duole che la corte di merito abbia confermato la sentenza di 1 grado anche sotto il profilo della mancata ammissione della richiesta C.T.U. volta ad accertare il mancato funzionamento dell'impianto di depurazione, e in particolare i dettagli del fenomeno dell'impossibilità di produzione della convenuta acqua industriale. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, qualora con il ricorso per cassazione siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di darvi ingresso pur se ritualmente richiesti, e in particolare l'omessa ammissione di consulenza tecnica, il ricorrente ha l'onere di indicare specificamente tali mezzi, trascrivendo le © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 101 circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l'esistenza di un nesso eziologico tra l'omesso accoglimento dell'istanza e l'errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell'errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (v. Cass., 22/2/2007, n. 4178; Cass., 12/6/2006, n. 13556; Cass., 1/4/2004, n. 6396; Cass., 16/6/2003, n. 9616; Cass., 19/7/2002, n. 10573; Cass., 12/5/2000, n. 6115). Nel caso, il ricorrente ad un tanto non provvede, non ponendo invero questa Corte in grado di valutare se e quali ragioni della ritenuta indispensabilità delle indagini tecniche ai fini della decisione (cfr. Cass., 22/3/2005, n. 6178; Cass., 2/1/2002, n. 10; Cass., 20/11/2000, n. 14979, V. anche Cass., 8/172004, n. 88), siano state nel caso prospettate ed immotivatamente disattese. Pacifico essendo che il ricorso da parte del giudice di merito all'ausilio del consulente tecnico d'ufficio è meramente facoltativo e rimesso al suo potere discrezionale, con la conseguenza che le valutazioni in merito non necessitano di motivazione ed esulano dal controllo di legittimità (v. Cass., 25/7/2006, n. 16980; Cass., 3/3/2005, n. 4652; Cass., 16/7/2003, n. 11143; Cass., 9/5/2002, n. 6641; Cass., 17/1/2001, n. 583); e che d'altro canto la consulenza tecnica non costituisce in linea di massima mezzo di prova bensì strumento di valutazione della prova acquisita, ma può assurgere al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolve nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (v. Cass., 19/1/2006, n. 1020; Cass., 30/11/2005, n. 26083), va osservato che nell'impugnata sentenza il giudice del merito ha per converso spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto di non disporre nel caso la c.t.u., ponendo in rilievo che "nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, nè in se stessi, come risultanti dagli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, nè nelle loro dimensioni", sicchè in "in tale contesto ... non vi sono in causa elementi minimi idonei che consentano di affidare ad un tecnico l'incarico di verificare la possibilità di fronteggiare con adeguata progettazione od opportuni aggiustamenti tecnici la predetta situazione continuando a fornire acqua depurata idonea ad usi industriali". All'infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.100,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari di avvocato, in favore di ciascuno dei controricorrenti, oltre a spese generali ed accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2007. Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 102 La presupposizione è una condicio juris che si presume conosciuta dalle parti. Cassazione civile Sez. I, 5.5.2010, n. 10899 Svolgimento del processo Il Comune di Rieti, nella qualità di successore degli Istituti Riuniti di Ricovero di Rieti nella cui amministrazione era compresa la Casa di Riposo M.P., adì il Tribunale di Rieti per chiedere la condanna del Comune di Pescorocchiano al pagamento della somma di L. 53.666.000 per la retta di degenza presso la detta casa di riposo del sig. S.E., maturata dal 1 gennaio 1988 fino al 12.6.93 e rimasta insoluta, alla cui corresponsione il Comune convenuto si era impegnato con la Casa di riposo i giusta Delib. Giunta 27 settembre 1986, n. 415. L'ente convenuto si costituì e, per quel che ancora rileva in questa sede, eccepì nel merito di nulla dovere per essersi devoluto l'onere del pagamento al Comune di Rieti in quanto l'assistito, che concorreva al pagamento, aveva ivi trasferito la propria residenza anagrafica sin dal 12.11.87, il tutto in dipendenza del c.d. istituto di soccorso di cui alla L. n. 6972 del 1890. Il Tribunale adito, con sentenza n. 728/2000, respinse la domanda ritenendo risolto il contratto ai sensi dell'art. 1467 c.c., in forza della presupposizione, ravvisata nel presupposto della delibera di giunta che aveva disposto il ricovero del S. che questi fosse residente nel Comune di Pescorocchiano, ben noto all'altro contraente, perciò al Comune di Rieti che era subentrato alla casa di riposo. Gravata dai rispettivi appelli delle parti, la decisione è stata confermata dalla Corte d'appello di Roma con sentenza n. 3476 depositata il 26 luglio 2004. Avverso questa decisione il Comune di Rieti ha proposto il presente ricorso per cassazione in base a tre mezzi ulteriormente illustrati con memoria difensiva depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c.. L'intimato non ha spiegato difesa. Motivi della decisione Col primo motivo il Comune di Rieti, denunciando violazione dell'art. 112 c.p.c., ascrive alla Corte territoriale errore consistito nell'aver escluso il vizio di ultrapetizione in cui era incorso il primo giudice, e d'aver per l'effetto confermato la rilevabilità d'ufficio della risoluzione sulla base della presupposizione, che concreta invece eccezione in senso stretto, in quanto tale rimessa alla parte interessata. Soggiunge che il Comune di Pescorocchiano non aveva sollevato siffatta eccezione, ma aveva invocato il c.d. domicilio di soccorso per accreditare la propria tesi, secondo cui il Comune di Rieti era ad esso succeduto nell'obbligo di pagare la retta di degenza alla data in cui il ricoverato aveva ivi trasferito la propria residenza. La qualificazione di tale deduzione in termini d'eccezione di risoluzione è perciò errata. Il motivo è infondato. La Corte territoriale, ribadita la natura contrattuale dell'obbligazione, ha negato il vizio di ultrapetizione, denunciato dal Comune di Rieti sull'assunto che controparte non aveva formulato nè © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 103 eccezione, da intendersi in senso stretto, nè domanda di risoluzione del contratto. Ha sostenuto che le parti, pur in mancanza d'espresso riferimento, avevano tenuto presente nella formazione del loro consenso, in modo da costituire presupposto ad esse comune, il fatto che il S. fosse residente nel Comune di Pescorocchiano. Venuta meno tale condizione, l'accordo si era risolto. Ciò premesso, è evidente che, ricostruita la vicenda fattuale sulla scorta delle circostanze narrate dalle parti e sostanzialmente coincidenti, i giudici di merito hanno interpretato il dato nel senso che la sua deduzione avesse introdotto eccezione dell'ente convenuto, che hanno quindi ricondotto, in jure, al paradigma della presupposizione. In questa cornice l'assunto non si presta a critica poichè, l'indagine diretta a stabilire se la situazione esaminata sia stata dai contraenti, nella formulazione del consenso, tenuta presente secondo il delineato schema della "presupposizione" si esaurisce sul piano propriamente interpretativo del contratto e costituisce, pertanto, una valutazione di fatto riservata al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se sia immune da vizi logici e giuridici. La sintesi conclusiva che nella specie i giudei d'appello ne hanno tratto non è perciò fondata sull'assunzione officiosa al thema disputandum di un'eccezione rimessa esclusivamente al potere dispositivo della parte interessata, bensì sull'interpretazione di una circostanza di fatto, ritualmente introdotta nelle difese di parte convenuta, sulla quale, formatosi regolarmente il contraddittorio, parte attrice ha potuto interloquire, spiegando a riguardo ogni opportuna replica. In ragione di ciò non hanno senso i richiami al rilievo non officioso della presupposizione, indiscutibile e certamente condivisibile - per tutte Cass. nn. 2108/2000, 6631/2006. L'approdo si fonda sulla qualificazione giuridica, ritenuta corretta in linea di stretto diritto, di un fatto acquisito al processo nella corretta dialettica tra domanda ed eccezione; è pertanto immune dal vizio denunciato. Col secondo motivo, che denuncia violazione dell'istituto della presupposizione e correlato vizio di motivazione sul punto, il ricorrente illustra la costruzione dogmatica dell'istituto controverso e le finalità tese all'equilibrio patrimoniale che ne legittimano l'operatività nell'ambito del rapporto contrattuale, e, anche con riferimenti a precedenti di questa Corte, ne richiama il tratto indefettibile, rappresentato dalla comune consapevolezza dell'evento supposto. Deduce difetto di motivazione a tal riguardo, osservando che il giudice d'appello non avrebbe chiarito per quale ragione la casa di cura M.P. fosse consapevole che la residenza del S. costituisse presupposto di validità ed efficacia del negozio per il Comune di Pescorocchiano ed ha attribuito rilievo al fatto che il Comune di Rieti pagò la retta di degenza in concomitanza col cambio di residenza del S., senza nulla eccepire. Anche questo motivo è infondato. La decisione impugnata ha sottolineato il fatto che per circa sei anni il Comune di Rieti ha sostenuto i costi della degenza, senza nulla obiettare. Seppur con scarna motivazione, la Corte territoriale ha recuperato e valorizzato, applicandolo correttamente, l'antico istituto del domicilio di soccorso, operante ratione temporis, che, introdotto dalla L. 17 luglio 1809, n. 6972, ed ormai abrogato dalla L. 8 novembre 2000, n. 328, art. 30, regolava le spese per l'assistenza ed il ricovero dei meno abbienti, individuando i Comuni aventi "l'obbligo di provvedere al ricovero stabile presso strutture residenziali dei soggetti in grave disagio" in quelli entro il cui territorio si trovava il domicilio della persona bisognosa d'assistenza. L'art. 72 della legge citata prevedeva che il domicilio di soccorso si acquistava se il povero avesse dimorato in un Comune per più di cinque anni e si perdeva con l'acquisto di altro domicilio di soccorso. Tale ultima condizione, accertata in causa in senso incontrovertibile per aver il S. spostato la propria residenza nel Comune di Rieti dal 1 gennaio 1988, ha svolto nell'individuazione dell'ente tenuto all'adempimento dell'obbligo di provvedere al regolamento economico il ruolo decisivo che in © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 104 sostanza è tipico proprio della presupposizione, dovendo suddetta condicio juris, per sua stessa natura, ritenersi a conoscenza delle parti contraenti. La residenza del soggetto in stato di bisogno, parametro legale d'individuazione dell'ente tenuto all'onere del pagamento della retta di degenza, non poteva essere ignorata dal Comune di Pescorocchiano, all'epoca in cui si assunse l'obbligo di sostenere le spese del ricovero del suo cittadino presso la casa di cura, anzi ne rappresentò il presupposto indefettibile, nè tanto meno era sconosciuta dal Comune di Rieti, ed ha perciò assunto valore dirimente. In questa chiave, la decisione impugnata non necessitava di ulteriore o meglio argomentato tessuto motivazionale. Il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 1467 c.c., e lamenta che la ravvisata presupposizione non giustifica l'automatica risoluzione del contratto, erroneamente pronunciata dalla Corte territoriale che avrebbe omesso di delibare sulla sussistenza di tale requisito. Anche questo motivo devesi dichiarare infondato. La Corte territoriale non ha trascurato di prendere in esame il profilo funzionale del rapporto, e proprio in questa prospettiva ha correttamente considerato, in linea di diritto, che il venir meno del presupposto fondante l'obbligazione assunta dal Comune di Pescorocchiano configurava una causa di scioglimento del rapporto obbligatorio, attesa l'impossibilità della sua prosecuzione. La presupposizione, o meglio la condizione non svolta ma tenuta presente dagli originar contraenti, per la quale il contratto ebbe a fondarsi sulla base dell'indicata "situazione di fatto" assurta a presupposto della volontà negoziale, ove venga a mancare comporta appunto la caducazione del contratto stesso. Il ricorso va, pertanto, integralmente respinto. Non vi è luogo alla pronuncia sulle spese in assenza d'attività difensiva dell'intimato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 105 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 106 5) Mediatore e responsabilità Tizio è un mediatore immobiliare. Tizio veniva a sapere che Caio voleva vendere la sua villa Tuscolana; veniva pure a sapere che Sempronio era interessato a comprare la villa Tuscolana. Tizio, allora, decideva di mettere in relazione i due, facendosi dare un anticipo sulla provvigione da Sempronio. Dopo qualche giorno dal versamento dell’acconto sulla provvigione, Sempronio veniva a sapere che Caio non era il vero proprietario della villa Tuscolana. Sempronio subiva dei danni, facendo affidamento incolpevole sulla possibilità di acquistare Tuscolana. Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Tizio. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 5 In premessa poteva essere utile schematizzare il fatto. Successivamente, il parere andava inquadrato nell’ambito della responsabilità del mediatore, ex art. 1759 c.c. Il mediatore, quando la mediazione è tipica, ovvero nei casi in cui agisce senza mandato, ex art. 1754 c.c., deve attenersi a criteri di imparzialità; laddove viola tali criteri, ovvero più in generale viola criteri di buona fede nei rapporti con i terzi, ne risponde ex art. 1759 c.c., per contatto sociale, perché: -viola norme specifiche di condotte, ex artt. 1754-1759-1176 c.c. (nonché ex l. 39/1989, inerente l’albo dei mediatori) e non principi generali di neminem laedere; -entra in contatto con le possibili “parti” dell’affare. Considerando, allora, che le parti entrano in contatto e che viene ad essere vulnerata una norma specifica, ne segue una responsabilità qualificabile come da contatto sociale, che rende concretamente applicabile lo schema logico dell’art. 1218 c.c. Tizio, pertanto, potrebbe essere chiamato a rispondere per “contatto sociale” rispetto a Sempronio che afferma di aver subito danni? Se Tizio era a conoscenza dell’altruità del bene e non ha avvertito Sempronio, ben si configurerà la suddetta responsabilità, derivante dalla violazione dell’obbligo di comunicazione inerente circostanze note a proposito della valutazione e sicurezza dell’affare, ex art. 1759 c.c.; in tal caso, Tizio dovrà risarcire, secondo lo schema logico dell’art. 1218 c.c., i danni subiti da Sempronio, ex art. 1223 c.c. Se, diversamente, Tizio non era a conoscenza dell’altruità del bene (Villa Tuscolana), in un’ottica difensiva, sarebbe possibile sostenere l’assenza di responsabilità, in quanto il mediatore tipico è responsabile solo per ciò che conosce, senza che gli sia richiesto una responsabilità per mancata comunicazione di informazioni conoscibili; tale rilievo è direttamente desumibile dalla lettera della legge, ex art. 1759 c.c., con particolare riferimento all’inciso “comunicare alle parti circostanze a lui note”, ovvero ciò che già si conosce, senza che gli sia chiesto di acquisire ulteriori informazioni. GIURISPRUDENZA RILEVANTE In tema di responsabilità del mediatore, non rientra nella comune ordinaria diligenza, alla quale il mediatore deve conformarsi nell'adempimento della prestazione ai sensi dell'art. 1176 c.c., lo svolgimento, in difetto di particolare incarico, di specifiche indagini di tipo tecnico giuridico, dovendosi ritenere pertanto che in caso di intermediazione in compravendita immobiliare, non può considerarsi compreso nella prestazione professionale del mediatore l'obbligo di accertare, previo esame dei registri immobiliari, la libertà dell'immobile oggetto della trattativa da trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 107 Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-11-2012, n. 19075 Svolgimento del processo 1. - Con atto di citazione notificato in data 4 aprile 2004, T. D.D. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Novara - Sez. distaccata di Borgomanero, la Immobiliare Marini s.a.s. di G. P., esponendo che, insieme al defunto marito, aveva stipulato un contratto preliminare di compravendita immobiliare relativo ad una villetta con relativo terreno pertinenziale in (OMISSIS), di proprietà di M.V., versando a titolo di caparra confirmatoria la somma di L. 10.000.000, contestualmente alla sottoscrizione del preliminare, in data 5 agosto 2000, la somma di L. 40.000.000 l'8 agosto 2000, la somma di L 100.000.000 il 24 agosto 2000, e che a detta stipulazione le parti erano giunte per effetto della mediazione della convenuta, cui avevano versato L. 9.000.000 a titolo di compenso; che il contratto preliminare dava atto dell'esistenza di una ipoteca a favore del Mediocredito s.p.a., prevedendo che l'immobile, al momento della stipulazione del contratto definitivo, avrebbe dovuto essere libero da pesi; che successivamente al pagamento degli indicati acconti, i promissari acquirenti avevano scoperto che l'immobile era gravato da ulteriori ipoteche giudiziali, che successivamente all'incontro dinanzi al notaio essi avevano versato ulteriori acconti sino alla complessiva somma di L. 290.000.000 senza che i venditori estinguessero i debiti di cui alle iscrizioni ipotecarie, sicchè il contratto definitivo non si era potuto stipulare. Pertanto l'attrice, ritenendo che sussistesse una responsabilità contrattuale dell'agenzia per omessa informazione su dati essenziali ai fini della fattibilità dell'affare, chiese la condanna della convenuta al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di quanto versato in esecuzione del preliminare. 2. - Il Tribunale adito limitò la pretesa risarcitoria di parte attrice al danno emergente conseguito al versamento degli acconti effettuati alla promittente venditrice sino all'incontro del 23 gennaio 2001 presso il notaio, e, quindi, alla somma di L. 150.000.000, con rivalutazione monetaria ed interessi legali, considerando innegabile un difetto di diligenza del mediatore per non aver fornito al cliente le informazioni conoscibili con l'ordinaria diligenza, ed accogliendo altresì la domanda di manleva nei confronti dei terzi chiamati, i venditori, sulla base del rilievo che il soggetto interessato a proporre la vendita di un proprio immobile non può tacere circostanze di estremo rilievo quale la presenza di ipoteche. 3. - La Immobiliare Marini propose appello nei confronti di tale sentenza. La Corte d'appello di Torino, con sentenza depositata il 14 aprile 2010, rigettò il gravame. Rilevò la Corte di merito che il mediatore, secondo il principio di buona fede e diligenza in concreto esigibile da un professionista, ha l'obbligo di acquisire concretamente le informazioni ordinariamente accessibili con la diligenza propria del professionista che dispone di strumenti adeguati, e soprattutto di verificare la fondatezza delle informazioni in suo possesso, fra cui la informazione circa la iscrizione ipotecaria dal venditore data alla mediatrice. 4. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la Immobiliare Marini s.a.s. di G.P. affidandosi ad un unico motivo. Resiste con controricorso T.D.D., che ha anche depositato memoria. Motivi della decisione 1. - Con l'unico motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1759 c.c., relativo agli obblighi gravanti sul mediatore. Avrebbe errato la Corte di merito nell'affermare la responsabilità per difetto di informazione del mediatore che non abbia acquisito e, comunque, comunicato, circostanze che egli avrebbe dovuto e potuto conoscere con l'ordinaria diligenza, quali le iscrizioni ipotecarie. Si richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che assegna un contenuto meno gravoso al dovere di diligenza posto a carico del mediatore, escludendo © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 108 che nello stesso rientri, in mancanza di conferimento di uno specifico incarico in tal senso, rientri anche l'obbligo di provvedere allo svolgimento di specifiche indagini di carattere tecnico - giuridico, quali sono quelle volte all'accertamento di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli sull'immobile oggetto di compravendita. 2.1. - La censura merita accoglimento. 2.2. - Secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio intende ribadire, poichè la legge n. 39 del 1989 subordina l'esercizio dell'attività di mediazione al possesso di specifici requisiti di capacità professionale, configurandola come attività professionale, l'obbligo di informazione gravante sul mediatore a norma dell'art. 1759 c.c., va commisurato alla normale diligenza alla quale è tenuto a conformarsi nell'adempimento della sua prestazione il mediatore di media capacità, e pertanto deve ritenersi che il suddetto obbligo deve riguardare non solo le circostanze note, ma tutte le circostanze la cui conoscenza, in relazione all'ambito territoriale in cui opera il mediatore, al settore in cui svolge la sua attività ed ad ogni altro ulteriore utile parametro sia acquisibile da parte di un mediatore dotato di media capacità professionale con l'uso della normale diligenza. Tuttavia, secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, non rientra nella comune ordinaria diligenza, alla quale il mediatore deve conformarsi nell'adempimento della prestazione ai sensi dell'art. 1176 c.c., lo svolgimento, in difetto di particolare incarico, di specifiche indagini di tipo tecnico giuridico, quale, con riguardo al caso di intermediazione in compravendita immobiliare, quella relativa all'accertamento, previo esame dei registri immobiliari, della libertà dell'immobile oggetto della trattativa, le trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli (v., tra le altre, Cass., sentt. n. 15926 del 2009, 15274 e n. 822 del 2006, n. 16009 del 2003, n. 6389 del 2001, n. 4791 del 1999. Per un caso in cui si è ritenuto che l'obbligo del mediatore di riferire alle parti le circostanze dell'affare a sua conoscenza, ovvero che avrebbe dovuto conoscere con l'uso della diligenza da lui esigibile, ricomprenda, nel caso di mediazione immobiliare, le informazioni sulla esistenza di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli, v. Cass., sent. n. 16382 del 2009). 2.3. - Nella specie, dunque, la Immobiliare Marini correttamente, sulla base del riportato orientamento giurisprudenziale, ritenne che l'incarico ricevuto non comportasse, in assenza di una previsione diversa, l'obbligo di svolgere approfondite indagini in ordine alla sussistenza di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli sull'immobile di cui si tratta. 3. - Il ricorso de quo va, quindi, accolto. La sentenza impugnata va, di conseguenza, cassata e la causa rinviata ad un diverso giudice - che viene designato in altra sezione della Corte d'appello di Palermo, cui è demandato altresì il regolamento delle spese del presente giudizio - che riesaminerà la controversia attenendosi al seguente principio di diritto: "In tema di responsabilità del mediatore, non rientra nella comune ordinaria diligenza, alla quale il mediatore deve conformarsi nell'adempimento della prestazione ai sensi dell'art. 1176 c.c., lo svolgimento, in difetto di particolare incarico, di specifiche indagini di tipo tecnico giuridico, dovendosi ritenere pertanto che in caso di intermediazione in compravendita immobiliare, non può considerarsi compreso nella prestazione professionale del mediatore l'obbligo di accertare, previo esame dei registri immobiliari, la libertà dell'immobile oggetto della trattativa da trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli". P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d'appello di Torino. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 109 La mediazione tipica, disciplinata dall'art. 1754 c.c. e segg., è soltanto quella svolta dal mediatore in modo autonomo, senza essere legato alle parti da alcun vincolo di mandato o di altro tipo, e non costituisce un negozio giuridico, ma un'attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il diritto alla provvigione. Tuttavia, in virtù del "contatto sociale" che si crea tra il mediatore professionale e le parti, nella controversia tra essi pendente trovano applicazione le norme sui contratti, con la conseguenza che il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile nell'adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, e di non aver agito in posizione di mandatario. Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-10-2010, n. 21737 Svolgimento del processo La House Europa s.a.s. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze la Spess Italia s.r.l. e la Impresa Costruzioni Lombardini s.n.c. chiedendo la loro condanna al pagamento in suo favore della somma di L. 27.800.000, oltre accessori, per l'attività di mediazione che asseriva essere stata svolta da F.R., sua legale rappresentante, per l'acquisto da parte della stessa Spess di un capannone edificato dalla Lombardini. La Spess, costituendosi in giudizio, contestava le pretese attrici e sosteneva che la House Europa non poteva vantare diritti su una prestazione eventualmente eseguita da F.R., non essendo senz'altro riferibili alla società le attività svolte da un socio. La convenuta sosteneva quindi la nullità della citazione per la carente esposizione dei motivi di fatto e di diritto a fondamento della domanda e che nessuna mediazione era stata svolta nè dalla F. nè dalla House Europa. Secondo la convenuta a mettere in contatto le parti furono invece il geom. C., incaricato dalla stessa Spess e la Claudio Paganelli e C. s.n.c. incaricata dalla promittente venditrice impresa Lombardini. Ai sensi dell'art. 1758 c.c. le parti convennero che la Spess Italia pagasse il geom. C. e che l'Impresa Lombardini pagasse la Paganelli Claudio e C. s.r.l. F.R., secondo la Spess, fu occasionalmente presente ad uno solo dei molti incontri fra C. M. e P.C. e comunque non si mise in contatto con le parti nè partecipò alle trattative. La Spess avendo pagato il Geom. C. chiedeva la chiamata in causa di quest'ultimo per essere tenuta indenne dalle richieste della società attrice o per sentirlo condannare a rifondere le somme che essa Spess fosse stata condannata a pagare alla House Europa. L'Impresa di costruzioni Lombardini confermava l'estraneità della F. alle trattative che si erano svolte con la Spess Italia per l'acquisto del capannone. Rimanevano contumaci C. e Paganelli. Il Tribunale di Firenze, in accoglimento della domanda della House Europa S.a.s. nei confronti della Spess Italia e della Impresa Costruzioni Lombardini condannava le società convenute al pagamento, in favore dell'attrice, della somma di L. 27.800.000 ciascuno, oltre accessori, a titolo di provvigione per la mediazione relativa all'acquisto da parte della Spess del capannone edificato dalla Lombardini; condannava inoltre C.M. e P. C. alla restituzione alla Spess ed alla Lombardini della somma da queste corrispostagli a titolo di provvigione per il medesimo affare. Proponeva appello la Spess Italia lamentando l'erronea valutazione delle risultanze processuali ed insistendo per il rigetto della domanda. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 110 La House Europa contestava la fondatezza dell'appello e chiedeva la conferma della sentenza impugnata. Rilevava la Corte d'Appello, quanto alla dedotta nullità della citazione, che tale atto fu proposto da F.R. quale legale rappresentante della House Europa, assumendo che l'attività di mediazione era stata proprio da lei espletata quale legale rappresentante della stessa House Europa il cui scopo sociale è quello di svolgere attività di mediazione. E la F. risulta iscritta allo speciale albo dei mediatori quale legale rappresentante della suddetta società. Quanto al merito sosteneva la Corte d'Appello che la F. partecipò al primo incontro relativo all'affare, nonchè ad un altro incontro fra le parti contraenti; che la Lombardini spedì alla F. una lettera con la bozza di capitolato per i lavori da eseguire. La House Europa ha prodotto in giudizio altri documenti il cui possesso si spiega soltanto con la sua partecipazione alle trattative in qualità di mediatore. Rileva altresì la Corte che le convenute in primo grado non hanno offerto alcun elemento di riscontro a sostegno delle loro tesi. La Corte d'appello confermava quindi l'impugnata sentenza con conseguente condanna dell'appellante alle spese del grado. Proponeva ricorso per cassazione la Spess Italia s.r.l. con tre motivi. Resisteva con controricorso la House Europa S.a.s. Motivi della decisione Per ragioni di priorità logico giuridica è opportuno esaminare in primo luogo il secondo motivo con il quale si denuncia "Violazione e falsa applicazione dell'art. 2266 c.c. laddove si afferma che l'attività svolta dalla F. doveva ritenersi a favore della House Europa s.a.s. per il fatto che la F. era legale rappresentante". Secondo la Spess Italia l'art. 2266 c.c. stabilisce che le società agiscono attraverso i loro legali rappresentanti, ma non che qualsiasi attività svolta dal legale rappresentante debba riferirsi alla società. Per tale ragione, sostiene quindi la ricorrente, l'argomentazione del giudice di merito secondo la quale la F. ha promosso l'azione giudiziaria quale legale rappresentante della House Europa è del tutto irrilevante in quanto nel rapporto sostanziale la F. non si qualificò mai quale legale rappresentante della House Europa. Il motivo è infondato. Come accertato dal Giudice di merito, infatti, la F. risulta iscritta allo speciale albo dei mediatori quale legale rappresentante della suddetta società ed inoltre partecipò al primo incontro fra le parti, nonchè ad un successivo incontro. Risulta ancora che la Lombardini spedi alla F. (e alla Spess Italia) una lettera con la bozza del capitolato dei lavori da eseguire ai fini della realizzazione dell'edificio in cui era ubicato il capannone oggetto di vendita, nonchè la copia degli elaborati tecnici relativi a detto edificio. La House Europa ha inoltre prodotto in giudizio altri documenti il cui possesso conferma la propria partecipazione alle trattative in qualità di mediatore. Le convenute invece, secondo l'impugnata sentenza, non hanno offerto elementi a sostegno della propria tesi. Con il primo mezzo d'impugnazione parte ricorrente denuncia "Violazione e falsa applicazione dell'art. 1754 laddove viene ritenute accertato il rapporto di mediazione sulla base di fatti di per sè inconcludenti a tale fine, quali la presenza a due incontri, la spedizione dall'altro contraente di una © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 111 lettera, inviata alla Soc. ricorrente solo per conoscenza, il possesso di copie di alcuni documenti concernenti le trattative". Secondo la ricorrente si configura la mediazione solo quando la volontà di avvalersi dell'opera del mediatore sia stata espressa da entrambe le parti. Nel caso in esame, invece, la Spess non ha manifestato alcuna volontà in tal senso ed in specie nè la presenza della F. a due riunioni, nè la spedizione di una lettera dell'altro contraente alla stessa Spess, nè il possesso di documenti provano la volontà di quest'ultima di avvalersi dell'attività di mediazione della F. o della House Europe. Il motivo è infondato. L'art, 1754 c.c. non afferma infatti che il mediatore deve essere incaricato da entrambe le parti ma che tale è "colui che mette in relazione due parti o più parti per la conclusione di un affare senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza». In tal senso la giurisprudenza di questa Corte sostiene che il rapporto di mediazione, inteso come interposizione neutrale tra due o più persone per agevolare la conclusione di un determinato affare, non postula necessariamente un preventivo accordo delle parti sulla persona del mediatore, ma è configurabile pure in relazione ad una materiale attività intermediatrice che i contraenti accettano anche soltanto tacitamente, utilizzandone 1 risultati ai fini della stipula del contratto. Ed ove il rapporto di mediazione sia sorto per incarico di una delle parti ma abbia avuto poi l'acquiescenza dell'altra, quest'ultima resta del pari vincolata verso il mediatore, onde un eventuale successivo suo rifiuto non sarebbe idoneo a rompere il nesso di causalità tra la conclusione dell'affare, effettuata in seguito direttamente tra le parti, e l'opera mediatrice precedentemente esplicata (Cass., 20.4.1963, n. 974). In altri termini, la mediazione tipica, disciplinata dall'art. 1754 c.c. e segg., è soltanto quella svolta dal mediatore in modo autonomo, senza essere legato alle parti da alcun vincolo di mandato o di altro tipo, e non costituisce un negozio giuridico, ma un'attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il diritto alla provvigione. Tuttavia, in virtù del "contatto sociale" che si crea tra il mediatore professionale e le parti, nella controversia tra essi pendente trovano applicazione le norme sui contratti, con la conseguenza che il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile nell'adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, e di non aver agito in posizione di mandatario (Cass., 14.7.2009, n. 16382). Con il terzo ed ultimo motivo si lamenta infine "Violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. in quanto viene affermato nell'impugnata sentenza del Giudice di merito che "a fronte di tali gravi, univoci e convergenti elementi indiziari, le convenute in primo grado non hanno offerto alcun positivo elemento alla propria generica negativa", mentre l'art. 2697 c.c. stabilisce che "chi vuol far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento". Il motivo, incentrato sull'affermazione che in nessuna delle sentenze dei Giudici di merito risulta conseguita la prova del fatto affermato dalla Soc. attrice, è infondato. La sussistenza di "gravi, univoci e convergenti elementi indiziari" costituisce dimostrazione dell'avvenuto svolgimento dell'attività mediatoria. Il concreto accertamento di tali indizi è attività di merito, non sindacabile in sede di legittimità ed è stato, nella specie, correttamente svolto dall'impugnata sentenza. Spetta infatti al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 112 requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità. Deve peraltro rilevarsi che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare (come nel motivo di ricorso in esame) un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (Cass., 2.4.2009 n. 8023). In conclusione, per tutte le ragioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato e le spese del ricorso per cassazione poste a carico di parte ricorrente nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del processo di cassazione che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori come per legge. Nella mediazione tipica la responsabilità del mediatore, con specifico riferimento agli obblighi di correttezza e di informazione, si configura come responsabilità da "contatto sociale"; nel caso in cui il mediatore agisca invece come mandatario, assume su di sè i relativi obblighi e, qualora si comporti illecitamente recando danni a terzi, è tenuto a favore di quest'ultimi al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., (non escludendosi in proposito un'eventuale corresponsabilità del mandante). SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 14 luglio 2009, n. 16382 Svolgimento del processo Con scrittura in data 27-7-1989, M.R. dette incarico alla Italiana Immobiliare s.r.l. (poi divenuta s.p.a.) di promuovere la vendila di un appartamento sito in ****, di cui aveva dichiarato di essere comproprietaria insieme alla madre M.E. e a N.L.. O.B.E., che a sua volta si era rivolta alla Italiana Immobiliare per l'acquisto di una casa, sottoscrisse una prima proposta di acquisto di detto appartamento in data **** e la M.R., all'atto dell'accettazione fece presente al mediatore che comproprietari del bene erano anche M.I., M.A., N.I.V., N.A., P.R. e P.G., anche in nome e per conto dei quali la stessa M.G. sottoscrisse l'accettazione; la stessa O.B., in data ****, sottoscrisse una seconda proposta di acquisto per lo stesso immobile, in quanto era emersa l'esistenza di una pratica di condono edilizio in precedenza non comunicata dalla M.G., e anche tale seconda proposta fu accettata dalla M.G., con le ulteriori sottoscrizioni di N.L. e M.E.. In seguito, in virtù di più approfonditi accertamenti da parte del notaio rogante, risultò che l'immobile in questione era riportato nel n.c.e.u. con due diversi numeri di partita, uno dei quali risultava intestato per 1/8 a C.R., deceduta da anni e della quale non erano reperibili gli eredi. Pertanto, la O.B. rinunciò ad acquistare la proprietà per intero, ottenendo la restituzione della caparra versata, e chiedendo alla società mediatrice Italiana Immobiliare il rimborso della provvigione, oltre al risarcimento dei danni. Per il rifiuto della società in ordine a tali richieste, la O.B., con atto notificato il 16-9-1993, conveniva in giudizio la Italiana Immobiliare ai fini della restituzione della provvigione e del risarcimento dei danni; costituitasi la società (che in particolare negava ogni responsabilità a suo carico, con particolare riferimento all'esistenza della quota della C.R.), l'adito Tribunale di Firenze, con sentenza n. 2502/2002, accoglieva in parte la domanda condannando, la Immobiliare al pagamento di Euro 2.582,28, corrispondenti all'importo versato, oltre interessi e rivalutazione monetaria a titolo di restituzione della provvigione pagata dalla O.B.; ciò in quanto riteneva che il mediatore è tenuto ad una corretta informazione, secondo il criterio di media diligenza di cui all'art. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 113 1176 c.c., e che pertanto doveva ritenersi responsabile per avere omesso di accertare l'effettiva titolarità del bene. A seguito dell'appello della Italiana Immobiliare, la Corte d'Appello di Firenze, costituitasi la O.B., con la sentenza in esame, in data 28-5-2004 / 22-4-2005, rigettava l'impugnazione; affermava, in particolare, la Corte territoriale che "esaminando la proposta contrattuale che l'appellante sottopose all'appellata, facendogliela sottoscrivere, essa appare stesa nella maniera più semplice e più piana, in perfetta complementarietà con le diciture di rito del modulo prestampato, senza il minimo segnale verso il grosso problema, che c'era dietro, della complicata intestazione dell'immobile. Anzi, dal tenore letterale della proposta si esclude addirittura l'ipotesi di una comproprietà, giacchè l'oggetto dell'acquisto proposto è la sua pozione immobiliare, sua nel senso di appartenente alla venditrice. Insomma, la promittente acquirente sentiva di muoversi in un campo sicuro. E invece non era così. A questo punto, le possibili soluzioni sono due: o la società di mediazione non si curò affatto di guardare, o forse nemmeno di richiedere alla venditrice, i titoli di provenienza del suo diritto dell'immobile; oppure, avendoli guardati, ed essendosi accorta che le venditrice non era l'unica proprietaria, o che, comunque, la situazione dell'intestazione non era chiara, omise di farlo presente nella proposta contrattuale fatta firmare all'appellata. Si scelga l'una o l'altra ipotesi, la responsabilità contrattuale della società di mediazione c'è comunque. Sul dovere professionale di esaminare il tìtolo di provenienza, prima di sottoporre come fattibile l'affare al pubblico, o anche al singolo interessato, non esistono dubbi, perchè la funzione del mediatore professionale, con determinanti requisiti di cultura e competenza (Cass. n. 6389 del 8-2-2001), implica innanzitutto la verifica della fattibilità reale dell'affare, e non si riduce ad essere soltanto un megafono della grida negoziali altrui; sul dovere di rappresentare con scrupolo e lealtà alle parti le reali difficoltà che gli constano circa la fattibilità dell'affare non si può dubitare ugualmente, alla luce dell'insegnamento della Suprema Corte, più volte sopra citato". Ricorre per cassazione la Italiana Immobiliare con due motivi, illustrati con memoria; resiste con controricorso la O.B.. Motivi della decisione Con il primo motivo si deduce violazione degli artt. 1755 e 1759 c.c., e relativo difetto di motivazione, in quanto erroneamente i giudici d'appello osservano che nella mediazione sarebbe "insito" un rapporto di mandato; si aggiunge che "ciò è errato e forviante perchè la mediazione presuppone la imparzialità del mediatore, che istituzionalmente non è nè può essere il rappresentante o comunque il mandatario di una sola parte, se non rinunciando al proprio ruolo di intermediario imparziale e perdendo quindi il diritto alla provvigione" ed inoltre che "in senso contrario non può certo invocarsi il disposto della L. n. 39 del 1989, art. 2, comma 4, là dove prevede l'iscrizione nel Ruolo, in un'apposita sezione, anche degli agenti muniti di mandato a titolo oneroso: iscrizione che ha il solo scopo di garantire la professionalità anche di tale categoria di soggetti, ma che non implica il venir meno della differenza ed incompatibilità oggettiva tra le due figure"; si afferma, infine, che erroneamente "nel nostro caso la Corte di merito ha ritenuto per l'appunto che l'accertamento della proprietà costituisse una verifica elementare, come tale dovuta dal mediatore in forza dell'obbligo di adeguamento della propria attività al criterio di diligenza professionale media". Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 1224 e 1277 c.c., e relativo difetto di motivazione, in quanto "errata è poi la sentenza della Corte d'Appello di Firenze nella parte in cui ha confermato la decisione del Tribunale di gravare l'importo di Euro 2.582,28 della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sulla somma così rivalutata"; si aggiunge che "la mera condanna alla restituzione della provvigione era invece in astratto giustificata dal ritenuto inadempimento del mediatore, ma costituiva all'evidenza debito di valuta, giacchè l'obbligo restitutorio si concretizza nel pagamento della stessa somma ricevuta, cioè di un tantundem già predeterminato nel suo ammontare" e che "la Corte di merito dimentica anche che il danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie va dimostrato come danno ulteriore ex art. 1224 c.c., comma 2". Il ricorso è infondato in relazione a entrambi i suddetti motivi. Riguardo alla doglianza di cui al primo motivo avente ad oggetto la natura della mediazione e la "misura" della responsabilità del mediatore, considerate dal Giudice della Corte territoriale come © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 114 entrambe riconducibili al "rapporto di mandato", rapporto non ritenuto invece sussistente dall'odierna ricorrente, con conseguente esclusione dell'obbligo di diligenza professionale in ordine alla comunicazione di tutti i dati e le circostanze, note al mediatore o comunque dallo stesso conoscibili dell'immobile oggetto di compravendita, occorre rilevare che la censura non è meritevole di accoglimento, pur dovendosi provvedere a rivisitare le argomentazioni dei Giudici di secondo grado. Occorre in proposito osservare, anche sulla base, in parte, di quanto recentemente affermato da questa Corte (in particolare le sentenze nn. 24333/2008 e 19066/2006) che, oltre alla mediazione c.d. ordinaria o tipica di cui all'art. 1754 c.c., consistente in un attività giuridica in senso stretto, è configurabile una "mediazione" di tipo contrattuale che risulta correttamente riconducibile, più che ad "una mediazione negoziale atipica", al contratto di mandato. Accanto, infatti, all'ipotesi delineata dall'art. 1754 c.c., i disposti di cui agli artt. 1756 e 1761 c.c., supportano l'eventuale configurazione di un vero e proprio rapporto di mandato ex art. 1703 c.c.. La previsione tipica di cui all'art. 1754 c.c., individuando nel mediatore "colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legalo ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione di dipendenza o di rappresentanza", pone in rilevo tre aspetti: a) l'attività di mediazione prescinde da un sottostante obbligo a carico del mediatore stesso, perchè posta in essere in mancanza di un apposito titolo (costituente rapporto subordinato o collaborativo); b) "la messa in relazione" delle parti ai fini della conclusione di un affare è dunque qualificabile come di tipo non negoziale ma giuridica in senso stretto; c) detta attività si collega al disposto di cui all'art. 1173 c.c., in tema di fonti delle obbligazioni, e, specificamente, al derivare queste ultime, oltre che da contratto, da fatto illecito, o fatto, da "ogni altro atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico" (nel senso, quindi, che l'attività del mediatore è dallo stesso legislatore individuata come fonte del rapporto obbligatorio nel cui ambito sorge il diritto di credito alla provvigione di cui all'art. 1756 c.c.). Appare preferibile ritenere l'attività in oggetto (per quanto "di regola" previsto nel codice civile) quale giuridica in senso stretto e non negoziale, non solo perchè, riconducendosi all'antica distinzione tra atto e negozio, gli effetti della stessa sono specificamente predeterminati dallo stesso legislatore (con particolare riferimento a detta provvigione) ma soprattutto perchè non vi è alla base della stessa un contratto (rectius: regolamento di interessi "preventivamente" concordalo dal mediatore con una o più parti); ciò comporta che il mediatore, sempre per quanto configurato nell'art. 1754 c.c., acquista il diritto alla provvigione (a condizione della conclusione dell'affare) non in virtù di un negozio posto in essere ai sensi dell'art. 1322 c.c., (in tema di autonomia contrattuale) ed i cui effetti si producono ex art. 1372 c.c. ("il contratto ha forza di legge tra le parti", nel senso che l'efficacia contrattuale è giuridicamente vincolante) bensì sulla base di un mero comportamento (la messa in relazione di due o più parti) che il legislatore riconosce per ciò solo fonte di un rapporto obbligatorio e dei connessi effetti giuridici. Ciò non toglie, per come già esposto, che l'attività del c.d. mediatore possa essere svolta anche sulla base di un contratto di mandato. Per definizione, l'affidamento di un incarico "col quale una parte si obbliga a compiere uno più atti giuridici per conto dell'altra" da luogo al contratto di mandato ex art. 1703 c.c., (oltre che ad alcune particolari figure di contratto, quali la commissione, la spedizione e l'agenzia di cui rispettivamente agli artt. 1731, 1737 e 1742 c.c., in cui il nucleo essenziale degli interessi dei soggetti contraenti, caratterizzato da un'attività giuridica posta in essere da una parte per conto dell'altra, con presunzione di onerosità, e individuante la causa, è analogo a quello tipizzante il mandato stesso ed è altresì specificato; nella commissione: acquisto o vendita di beni per conto del committente e in nome del commissionario; nella spedizione: conclusione di un contratto di trasporto in nome proprio e per conto del mandante; nell'agenzia: promozione, in modo stabile, per la conclusione di contratti in una zona determinata). Ne deriva, come spesso avviene nella prassi (e come è facile rinvenire nei contratti standard di mediazione immobiliare, ove appunto si indica, nella maggior parte dei casi, un mandato o un incarico a vendere o ad acquistare beni immobili), che il mediatore in molti casi agisca non sulla base di un comportamento di mera messa in contatto tra due o più soggetti per la conclusione di un affare © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 115 (attività giuridica in senso stretto che prescinde da un sottostante titolo giuridico) ma proprio perchè "incaricato" da una o più parti ai fini della conclusione dell'affare (generalmente in ordine all'acquisto o alla vendita di un immobile); in tal caso risulta evidente che l'attività del mediatore - mandatario è conseguenziale all'adempimento di un obbligo di tipo contrattuale (e dunque, ex art. 1173 c.c., questa volta riconducibile al contratto come fonte di obbligazioni). Tale diversa, duplice qualificazione giuridica dell'attività del mediatore si rinviene, al di là di detta prassi e da un punto di vista formale, non solo, nell'ambito della disciplina codicistica della mediazione, all'art. 1754 c.c. (diritto al rimborso delle spese nei confronti della persona per "incarico" della quale sono state eseguite, anche se l'affare non è concluso) e all'art. 1756 c.c., (incarico al mediatore da una delle parti di rappresentarla negli atti relativi all'esecuzione del contratto concluso con il suo intervento), ma anche nella L. n. 39 del 1989, (recante "modifiche ed integrazioni alla L. 21 marzo 1958, n. 253, concernente la disciplina della professione di mediatore"), istitutiva del ruolo professionale degli agenti di affari in mediazione; in quest'ultima, in particolare, rilevano l'art. 2, punto 2 ("il ruolo è distinto in tre sezioni: una per gli agenti immobiliari, una per gli agenti merceologici ed una per gli agenti muniti di mandato a titolo onerose, salvo ulteriori distinzioni in relazione a specifiche attività di mediazione da stabilire con il regolamento di cui all'art. 11"), l'art. 2, punto 4 ("l'iscrizione al ruolo deve essere richiesta anche se l'attività viene esercitata in modo occasionale o discontinuo, da coloro che svolgono, su mandato a titolo oneroso, attività per la conclusione di affari relativi ad immobili o ad aziende"), l'art. 5, punto 4 ("il mediatore che per l'esercizio della propria attività si avvalga di moduli o formulari, nei quali sono indicate le condizioni del contratto, deve preventivamente depositare copia presso la Commissione di cui all'art. 7"). Del resto, come già detto, è la stessa giurisprudenza della Corte a prospettare la possibilità che tra mediatore ed una delle parti intercorra un rapporto di tipo contrattuale (da ultimo, Cass. n. 8374/2009 8374/2009 ), salvo poi a verificare la compatibilità di questo con la mediazione con senso tipico. Ciò posto, è ovvio che per il mediatore, a seconda se agisca senza mandato sulla base della generale previsione di cui all'art. 1754 c.c., oppure quale incaricato-mandatario, muti il regime della sua responsabilità. Nel primo caso il mediatore pur compiendo, come detto, un'attività giuridica in senso stretto, è comunque tenuto all'obbligo di comportarsi in buona fede, in virtù della clausola generale di correttezza di cui all'art. 1175 c.c., (sull'estensione della regola della buona fede in senso oggettivo a tutte la fonti delle obbligazioni ex art. 1173 c.c., ivi compreso l'atto giuridico non negoziale, Cass. n. 5140/2005), estrinsecantesi, in specie, nell'obbligo di una corretta informazione, tra cui la comunicazione di tutte le circostanze a lui note o conoscibili sulla base della diligenza qualificata di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, vertendosi senz'altro in tema di attività professionale per come ulteriormente ribadito dalla citata L. n. 39 del 1989. Tale obbligo di correttezza sussiste a favore di entrambe le parti, messe in contatto ai fini della conclusione dell'affare, quale comprensivo di qualunque operazione di tipo economico - giuridico (sulla posizione di "neutralità" ed "imparzialità" nei confronti delle parti che concludono l'affare, tra le altre, Cass. n. 12106/2003, Cass. n. 13184/2007, la quale sottolinea la posizione di "terzietà" del mediatore rispetto ai contraenti posti in contratto in ciò differenziandolo dall'agente di commercio, nonchè Cass. n. 6959/2000, che sottolinea come carattere essenziale della figura giuridica del mediatore, ai sensi dell'art. 1754 c.c., è appunto la sua imparzialità, intesa come assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d'opera, di preposizione institoria e di qualsiasi altro rapporto che renda riferibile al dominus l'attività dell'intermediario, per cui nel caso di specie la S.C. ha escluso il requisito dell'imparzialità ritenendo sussistente un mandato costituito dall'affidamento dell'incarico di trattare la vendita dell'immobile in norme e per conto del preponente). In particolare, egli è tenuto a comunicare: l'eventuale stato di insolvenza di una delle parti, l'esistenza di iscrizioni o pignoramenti sul bene, oggetto della conclusione dell'affare, la sussistenza di circostanze in base alle quali le parti avrebbero concluso il contratto con un diverso contenuto, l'esistenza di prelazioni ed opzioni (su tali punti, tra le altre, Cass. n. 5938/1993). Inoltre, se, prima facie, la responsabilità del mediatore non mandatario appare agevolmente di natura extracontrattuale, risulta preferibile, riguardando la stessa una figura professionale, applicare la più © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 116 recente previsione giurisprudenziale di legittimità della responsabilità "da contatto sociale" (su cui, tra le altre, Cass. S.U. n. 577/2008; Cass. n. 12362/2006 e Cass. n. 9085/2006, con specifico riferimento al medico ed alle sue prestazioni prescindenti da un rapporto contrattuale); infatti, tale situazione è riscontrabile nei confronti dell'operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali ed abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista l'iscrizione ad un apposito ruolo, ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche (si pensi, ad esempio, alle c.d. agenzie immobiliari dalle particolari connotazioni professionali ed imprenditoriali). Da tale configurazione di responsabilità a carico del mediatore, che opera ai sensi dell'art. 1754 c.c., in caso di contenzioso tra il mediatore stesso e le parti, deriva sia che e il primo che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile, in base alla richiamata diligenza ex art. 1176 c.c., comma 2, nell'adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico (mentre spetta alle seconde fornire prova esclusivamente dell'avvenuto contatto ai fini della conclusione dell'affare), sia che il termine di prescrizione per far valere in giudizio detta responsabilità del mediatore è quello ordinario decennale (e non quello quinquennale della responsabilità ex art. 2043 c.c.). Ancora, per quanto già esposto, è evidente che l'attore che agisce per ottenere la provvigione di una mediazione da lui effettuata ha l'onere di dimostrare di non aver agito in posizione di mandatario di una delle parti. Nel secondo caso, vale a dure dell'attribuzione al professionista - mediatore di un incarico, e quindi, per quanto esposto, della sussistenza di un mandato, anche eventualmente con poteri rappresentativi mediante procura in ordine alla spendita del nome (mediante sottoscrizione dei relativi moduli di contratto standard in uso presso i mediatori o le c.d. agenzie immobiliari a veste societaria, erroneamente qualificati come "contratto di mediazione" o "conferimento incarico di mediazione per la vendita di un immobile"), le conseguenze sul piano giuridico sono ben diverse rispetto alla figura, tipica, ordinaria o tradizionale che dir si voglia, della mediazione ex art. 1754 c.c.. Ed infatti: il mediatore è in realtà un mandatario poichè assume "essenzialmente", sulla base della causa in concreto del contratto posto in essere, quale derivante dalla sintesi degli interessi regolamentati, l'incarico, di solito, di reperire un acquirente (oppure un venditore) o un locatario (oppure un locatore) di un immobile, con "ulteriori compiti" (di consulenza anche fiscale, di assistenza nelle trattative e sino al p momento del rogito, di pubblicizzare la relativa offerta, di far visitare l'immobile etc.), in molti casi con la fissazione di un termine, con la previsione del c.d. diritto di esclusiva all'incaricato nonchè del diritto di recesso per entrambi i contraenti; a fronte di dette prestazioni riceve un corrispettivo, nella percentuale convenuta sul prezzo di compravendita, con pagamento sospensivamente condizionato (in modo esplicito o implicito) alla conclusione dell'affare (generalmente all'accettazione della proposta). E' di tutta evidenza che siamo ben al di fuori della previsione codicistica della mediazione per svariati motivi: la posizione del mandatario in esame è inconciliabile ed ostativa rispetto alla mediazione tradizionale (in cui come detto il mediatore, senza preliminare assunzione di obblighi, compie l'attività di messa in contatto tra due soggetti che concludono quindi contrattualmente, e non solo, mediante comunque l'assunzione di vincoli giudici, un'operazione di natura economica - sul punto, tra le altre, Cass. n. 2200/2007); il diritto al relativo compenso (o provvigione), sempre condizionato all'iscrizione nel ruolo professionale ai sensi della L. n. 39 del 1989, sorge non più, ex art. 1755 c.c., nei confronti "di ciascuna delle parti" e solo "per effetto del suo intervento", quale appunto conseguenziale alla sua neutralità ed imparzialità nel metterle in relazione, bensì è a carico del solo mandante, per quanto previsto agli artt. 1709 e 1720 c.c., (così come avviene, ad esempio, nel contratto di agenzia, ove sussiste l'obbligo di corrispondere le provvigioni a carico del solo preponente) rispetto al quale è, a sua volta, contrattualmente vincolato, nell'espletamento dell'incarico (di fiducia o intuitus personae) e delle connesse prestazioni, pur sempre con la diligenza ex art. 1176 c.c., comma 2, stante la sua natura professionale, in deroga a quanto stabilito all'art. 1710 c.c.; ancora, il mandatario in esame, oltre ad essere obbligato ai sensi dell'art. 1711 c.c. e ss., è tenuto all'osservanza della normativa in tema di contratti di consumo (ove ne ricorrano i presupposti soggettivi, vale a dire il rapporto professionista - imprenditore, da un lato, e consumatore - persona © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 117 fisica) di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, con particolare riferimento al generale dovere di informazione ex art. 5, alla disciplina delle clausole vessatorie ex art. 33 e ss. ed, in specie, alla connessa azione inibitoria ex art. 37; ferma restando, ovviamente, l'applicazione della disciplina generale dei contratti in tema di onere della prova e prescrizione. Tra l'altro, sul carattere "essenziale" della figura giuridica del mediatore, ai sensi dell'art. 1754 c.c., quale collegato all'assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d'opera, di preposizione institoria e di qualsiasi altro rapporto, carattere non configurabile in caso di soggetto munito di mandato (con rappresentanza o meno) per la stipulazione di un contratto con un terzo, si è da tempo pronunciata questa Corte (si veda, in particolare, Cass. nn. 4340/1980 e 1995/1987). Riguardo, pertanto, a detto primo motivo di ricorso, pur non risultando condivisibile la configurazione della mediazione quale avente sempre a base un mandato, con "coinvolgimento" in esso di entrambe le parti che concludono l'affare in un sorta di rapporto trilaterale con il mediatore, priva di pregio è però la tesi sostenuta dal ricorrente di esclusione della sua responsabilità. Per quanto esposto, nel caso in cui, come quello in esame, il c.d. mediatore ha in realtà agito in virtù di un incarico consistente in un mandato (tale circostanza, oltre ad essere dedotta nella decisione impugnata, è ammessa dalla stessa ricorrente ove afferma che "con scrittura in data **** la signora M.R. incaricò la Italiana Immobiliare s.r.l., poi divenuta s.p.a., di promuovere la vendita di un appartamento su due piani posto in Scandicci"), esso mandatario, e quindi, nella fattispecie in oggetto, detta Italiana Immobiliare, risponde, ove si comporti in modo illecito, a titolo di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., nei confronti del soggetto "destinatario" della sua attività che assume quindi, in quanto estraneo a detto rapporto contrattuale, la qualifica di terzo. Ne deriva che la Italiana Immobiliare, incaricata dalla M.R. di vendere l'immobile in questione, nel non rendere edotta la O.B., quale sottoscrittrice di due proposte di acquisto in ordine all'effettiva contitolarità del bene in capo a più soggetti (di cui uno deceduto e con eredi non reperibili) ed in ordine alle reali condizioni dell'immobile (assoggettato a pratica di condono edilizio), nel non assolvere con la diligenza professionale richiesta i propri obblighi di mandataria, ha ingenerato nell'odierna resistente un affidamento non colpevole sulla corrispondenza alla realtà della situazione apparente, con il conseguente sorgere di responsabilità a suo carico ex art. 2043 c.c., (sul punto, specificamente Cass. n. 4000/l 977 e Cass. n. 16740/2002, la quale ultima non esclude una conresponsabilità in proposito del mandante, ai sensi dell'art. 2055 c.c., nel caso di specie esulante dal thema decidendum, non chiesta e non provata). Ne deriva ancora, con conferma sul punto di quanto statuito dalla Corte territoriale ("tale inadempimento .... comporta la restituzione della prestazione ricevuta, cioè del compenso per la mediazione, e del risarcimento del danno, il quale, a prescindere da forme di ulteriore perdita, è già insito nel deprezzamento del danaro medio tempore trattenuto dalla parte inadempiente: il che vuoi dire che trattasi comunque di credito di valore e non di valuta"), la sussistenza dell'obbligo risarcitorio a carico della Italiana Immobiliare, parametrato sulla restituzione della ricevuta caparra, in favore dell'odierne resistente, che, quale obbligazione di valore, è soggetta sia alla rivalutazione che al pagamento degli ulteriori interessi legali (in proposito, tra le altre, Cass. n. 4791/2007), con ciò dimostrandosi infondato anche il secondo motivo di ricorso. Privo del requisito dell'autosufficienza è poi lo specifico profilo di censura di cui a detto secondo motivo in ordine alle modalità di liquidazione degli interessi, essendosi la Corte territoriale limitata a confermare sul punto la decisione di primo grado; in particolare la società ricorrente non riporta quello che a suo dire è stato "specifico motivo di appello inerente il calcolo degli interessi sulla somma rivalutata non di anno in anno". In conclusione: a) la mediazione "tipica" di cui all'art. 1754 c.c., comporta che il mediatore, senza vincoli e quindi in posizione di imparzialità, ponga in essere un'attività giuridica in senso stretto di messa in relazione tra due o più parti, idonea a favorire la conclusione di un affare; b) la stessa è incompatibile con un sottostante rapporto di mandato tra il c.d. mediatore ed una delle parti che ha interesse alla conclusione dell'affare stesso, nel qual caso il c.d., mediatore - mandatario non ha più diritto alla provvigione da ciascuna delle parti ma solo dal mandante; c) nella mediazione tipica la responsabilità del mediatore, con specifico riferimento agli obblighi di correttezza e di informazione, © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 118 si configura come responsabilità da "contatto sociale"; d) nel caso in cui il mediatore agisca invece come mandatario, assume su di sè i relativi obblighi e, qualora si comporti illecitamente recando danni a terzi, è tenuto a favore di quest'ultimi al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., (non escludendosi in proposito un'eventuale corresponsabilità del mandante); e) nella vicenda in esame, risultando pacifica la circostanza dell'affidamento di un mandato a vendere alla Italiana Immobiliare da parte di M.R., quest'ultima nel dar luogo da parte della O.B. alla sottoscrizione di proposte di acquisto, sulla base di errati presupposti di fatto prospettati dalla società, risulta obbligata, oltre alla restituzione di quanto indebitamente percepito, al risarcimento dei danni (restituzione e risarcimento chiesti sin dall'atto introduttivo del giudizio). Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese della presente fase che liquida in complessivi Euro 3.100,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi), oltre spese generali ed accessorie come per legge. Così deciso in Roma, il 22 aprile 2009. Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2009. E’ responsabile il mediatore che propone all’acquirente preliminare in forza del quale la maggior parte del prezzo di acquisto doveva essere corrisposta senza alcuna garanzia al "proprietario per compromesso" di un immobile intestato ad una società e nel subordinare la consegna delle chiavi al pagamento del saldo anteriormente alla stipula dei definitivo. Cass. civ. Sez. II, 15-10-2009, n. 21925 Svolgimento del processo Con atto notificato l'8 luglio 1999, G.G. convenne la Artecasa di Negro Gianfranco e C. s.n.c, nonchè i relativi soci illimitatamente responsabili N.G., I.C. e P.G., davanti al Pretore di Desio e, esponendo che nel (OMISSIS) con la mediazione della società aveva sottoscritto una proposta irrevocabile di acquisto di una villetta a schiera e, successivamente, un contratto preliminare, corrispondendo per la mediazione la provvigione di L. 9.000.000, e che solo dopo l'integrale pagamento del prezzo di L. 330.000.000 aveva appreso che il trasferimento della proprietà non era possibile, giacchè titolare dell'immobile non era il promittente venditore C. G., ma la Ilenia e Jenny s.r.l., che nel frattempo era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Monza, domandò la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento del danno da lei sofferto, previo accertamento dalla loro responsabilità contrattuale, e, in subordine, alla restituzione della provvigione. La società Artecasa e l' I., costituitisi in giudizio, eccepirono la prescrizione del diritto della G. e chiesero, nel merito, il rigetto delle domande, evidenziando, in particolare, che nel preliminare il promittente venditore aveva specificato la propria qualità di "proprietario per compromesso". Il Tribunale di Monza - sezione staccata di Desio -, competente a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 51 del 1998, con sentenza del 2 luglio 2002 accolse entrambe le domande della G. e condannò i convenuti, in solido, a restituire la provvigione di Euro 5.112,92, oltre interessi al saldo, ed a risarcire nella misura di Euro 20.000,00 il disagio morale oltre che fisico cagionato all'attrice. La decisione, gravata dalla società Artecasa, dall' I. e dal P. e, in via incidentale, dalla G., venne riformata il 7 ottobre 2003 dalla Corte di appello di Milano che rigettò l'impugnazione incidentale e, in parziale accoglimento di quella principale, rigettò la domanda di risarcimento del danno e compensò per la metà le spese del doppio grado, ponendo carico dei convenuti l'altra metà. Premessa la validità del contratto di mediazione , in quanto il rappresentante della società risultava essere stato iscritto nell'albo dei mediatori, osservarono i giudici di secondo grado, per quello che ancora interessa, che sul mediatore grava un dovere di imparzialità e di informazione, che gli impone © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 119 una positiva ed efficace comunicazione alle parti da lui messe in relazione di ogni notizia in suo possesso che possa avere per esse rilevanza od interesse, e che, costituendo un dato rilevante la circostanza che la villetta oggetto della proposta irrevocabile e del compromesso era intestata ad una società e non al promittente venditore, costituiva un comportamento non corretto la proposta di un preliminare di vendita, nel quale la maggior parte del rezzo veniva corrisposta senza alcuna garanzia al "proprietario per compromesso" prima del rogito notarile, ed un grave inadempimento l'avere il P. sottaciuto tale circostanza nel corso delle trattative e tranquillizzato reiteratamente la G. che non c'erano "pendenze" ed era "tutto a posto", e condizionato la consegna delle chiavi dell'immobile al pagamento anche del saldo del prezzo, che avrebbe dovuto essere invece corrisposto al momento della stipula del contratto definitivo. Aggiunsero che l'attrice non aveva provato di avere subito a seguito dell'inadempimento un danno patrimoniale, avendo infine acquistato la villetta, o psico-fisico e che in assenza di ipotesi di reato non era risarcibile il danno morale La G. è ricorsa con un motivo per la cassazione della sentenza, la società Artecasa e l' I. hanno notificato controricorso con contestuali due motivi di ricorso incidentale e gli intimati N. e P. non hanno resistito in giudizio. Motivi della decisione A norma dell'art. 335 c.p.c., va disposta la riunione di ricorsi proposti in via principale ed incidentale avverso la medesima sentenza. Segue, in difetto di un litisconsorzio necessario, la declaratoria d'inammissibilità del ricorso principale nei soli confronti del N., avendo la ricorrente omesso di ottemperare all'ordinanza del 23 gennaio 2008, con la quale questa Corte ne aveva disposto la rinotifica nel domicilio reale dell'intimato, entro il termine di sessanta giorni. Con l'unico motivo, la ricorrente principale denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2059 e 2697 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c., dolendosi che la sentenza abbia escluso: - il danno patrimoniale derivatole dal pagamento dell'intero prezzo della villetta senza l'ottenimento nè del promesso trasferimento del bene e nè della restituzione delle somme versate, in base all'illogico rilievo che aveva successivamente acquistato l'immobile dal fallimento della società intestataria e non aveva documentato "quanto avrebbe pagato in più", benchè il danno le fosse stato già liquidato nel procedimento penale a carico del promittente venditore e dipendesse direttamente ed immediatamente dal colpevole inadempimento della società; - il danno non patrimoniale, nonostante il concorso dei partecipanti alla società nel reato ascritto al promittente venditore ed in esso dovesse essere incluso anche ogni pregiudizio cagionatole dalla lesione di interessi costituzionalmente protetti, quali quello alla proprietà, all'abitazione, all'integrità patrimoniale e ad una esistenza serena; - il danno biologico, disattendendo la deposizione del suo medico curante e non ammettendo una c.t. per il difetto della produzione di una documentazione medica, che nulla avrebbe potuto aggiungere alla testimonianza, e pur potendo supplire alla sua determinazione con il criterio dell'equità. I ricorrenti incidentali, eccepita preliminarmente l'acquiescenza dell'attrice al rigetto della domanda principale di risarcimento dei danni, non avendo impugnato l'accoglimento di quella subordinata di restituzione della provvigione, lamentano; - con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1754 e 1759 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, avendo la sentenza disconosciuto che al momento della conclusione del preliminare l'attrice era consapevole che la villetta non era di proprietà del prominente venditore, pur essendosi egli qualificato nel preliminare come "proprietario per compromesso", e che le vicende negoziali successive ed il pagamento del prezzo erano state gestite direttamente dai contraenti senza l'intervento dei convenuti, dando credito a contraddittorie deposizioni dei familiari dell'attrice, di cui quella del marito inammissibile, non essendo documentato il regime patrimoniale vigente tra i coniugi, che contraddicevano le dichiarazioni rese dalla stessa attrice nel procedimento penale a carico del promittente; © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 120 - con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., avendo omesso di parametrare le spese liquidate per il primo grado di giudizio alla riduzione della somma liquidata in favore dell'attrice e compensato solo parzialmente le spese di entrambi i gradi, nonostante l'esito del giudizio di appello. Precede nell'ordine logico l'esame del primo motivo di ricorso incidentale. Il motivo è infondato. La decisione impugnata, sollecitata dalla società e dai suoi soci a rivalutare la circostanza che nel preliminare il promittente venditore si era qualificato come "proprietario per compromesso", non ha riconosciuto alla circostanza l'idoneità ad attenuare il dovere della mediatrice, da un lato, di informare la promissoria che l'immobile oggetto del preliminare era intestato ad una società, giacchè la circostanza imponeva attenti controlli e prudenti garanzie nella corresponsione del prezzo, e, dall'altro, di non proporre la stipula di un preliminare nel quale la maggior parte del prezzo doveva essere corrisposta senza alcuna garanzia a detto "proprietario per compromesso" prima dell'effettivo trasferimento della proprietà. Inoltre, dalle deposizioni dei testi, sia pure figlie e marito dell'attrice, risultava che la mediatrice, e per essa il P., aveva reiteratamente rassicurato la promissaria sulla regolarità dell'operazione e costituiva una grave violazione del dovere di imparzialità l'avere il medesimo, nonostante i rischi connessi all'intestazione del bene ad una società ed alle condizioni stabilite nel preliminare, subordinato, come riferito dalle testi, la consegna delle chiavi dell'immobile all'anticipato pagamento del saldo del prezzo. Nessuna censura i ricorrenti hanno rivolto al primo ordine di argomenti, sul quale i giudici di merito hanno fondato la responsabilità della mediatrice e dei suoi soci, se non la generica denuncia della violazione degli artt. 1754 e 1759 c.c., ai quali correttamente la corte territoriale ha ricollegato il dovere del mediatore di comunicare alla promissaria le caratteristiche particolari dell'affare e gli elementi rilevanti ai fini di una valutazione della sua convenienza e sicurezza, in quanto tenuto ad osservare nello svolgimento della propria attività una diligenza qualificata. Quanto al secondo ordine, le doglianze investono, sotto la specie della violazione delle norme di rito in tema di disponibilità e libero apprezzamento delle prove, una valutazione degli elementi acquisiti al processo, che in sede di legittimità è verificabile nei soli limiti del vizio di motivazione, di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, (cfr.: Cass. civ., sez. 1^, sent. 20 giugno 2006, n. 14267) e che, relativamente al giudizio sull'attendibilità dei testi e sulle risultanze delle prove è sindacabile soltanto per inadeguatezza o contraddittorietà dei motivi, rientrando questo nei poteri riservati al giudice di merito. Nella specie, siffatto sindacato non è consentito dal mero richiamo dei ricorrenti all'esistenza di documenti o dichiarazioni, anche se provenienti dell'attrice, contrastanti con le deposizioni testimoniali, avendo il giudice dato idoneo e logico conto del proprio convincimento ed essendo egli libero di attingerlo da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto all'esplicita confutazione di quelli implicitamente disattesi, mentre 6 inammissibile la questione relativa all'incapacità di uno dei testi, non essendo specificato nel ricorso se e con quali espressioni la stessa fosse stata tempestivamente sollevata nel giudizio di merito. Precede l'esame dell'unico motivo di ricorso principale la declaratoria dell'infondatezza dell'eccezione di acquiescenza della ricorrente al rigetto della domanda principale, atteso che il principio che per evitare la formazione di un giudicato la parte ha l'onere di impugnare, non solo il rigetto della domanda principale, ma anche, in via condizionata, l'accoglimento di quella subordinata, trova applicazione unicamente nel caso, che esula dalla fattispecie, in cui tale accoglimento abbia comportato l'accertamento di un fatto incompatibile con quello posto a fondamento della domanda principale (cfr. Cass. civ. sez. in, sent. 16 giugno 2003, n. 9631). Nel merito il ricorso principale è parzialmente fondato. La sentenza, ha negato che dall'esborso del prezzo della villetta non seguito dall'acquisto della proprietà del bene o dalla restituzione delle somme versate fosse derivato un danno all'attrice, ritenendo assorbita ogni questione sul nesso di causalità, sulla prevedibilità e sull'applicazione della disciplina di cui all'art. 1227 c.c., commi 1 e 2, sul rilievo che la promissaria: a) aveva © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 121 successivamente acquistato la villetta dal fallimento della società intestataria; b) sì era costituita parte civile nel procedimento penale contro il promittente venditore ottenendone la condanna al pagamento di una provvisionale; c) non aveva documentato di avere sopportato ulteriori esborsi per l'acquisto del bene o di avere dovuto partecipare ad un'asta giudiziaria per aggiudicarsene la proprietà. Orbene, puntualizzato che al pagamento dell'intero prezzo dell'immobile promesso in vendita non erano seguiti nè l'adempimento del preliminare e nè la restituzione delle somme versate, contraddittoriamente i giudici di secondo grado non hanno ravvisato un danno nel pregiudizio subito dalla promissaria per il mancato rispetto del sinallagma contrattuale, essendo del tutto illogica la presunzione di un acquisto dell'immobile a titolo gratuito dal fallimento dell'intestataria e mancando la prova del pagamento della provvisionale di cui l'attrice era stata beneficiaria nel procedimento penale. Affermata, quindi, la violazione da parte dei convenuti degli obblighi di imparzialità e di informazioni gravanti sul mediatore nel proporre all'acquirente un preliminare in forza del quale la maggior parte del prezzo di acquisto doveva essere corrisposta senza alcuna garanzia al "proprietario per compromesso" di un immobile intestato ad una società e nel subordinare la consegna delle chiavi al pagamento del saldo anteriormente alla stipula dei definitivo, essi non potevano sottrarsi al dovere di esaminare, ai fini della concreta determinazione del pregiudizio che dalla condotta dei convenuti era derivato alla promissaria, le questioni relative al nesso di causalità tra l'inadempimento al contratto di mediazione ed il danno subito dalla attrice in conseguenza della stipula e del l'esecuzione del preliminare ed alla prevedibilità di esso. Quanto al danno non patrimoniale, va invece ribadito il principio, recentemente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr.: Cass. civ., sez. un. 11 novembre 2008, n. 26972) che ai diritti inviolabili della persona va riconosciuta la tutela risarcitoria e che in caso di loro violazione sussiste l'obbligo di ristoro dei danni, indipendentemente dalla fonte contrattuale od extracontrattuale della responsabilità. Su detti punti, quindi, la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese di questo giudizio, ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Questione nuova, inammissibile in sede di legittimità, perchè presuppone un accertamento di fatto, è quella relativa alla risarcibilità del danno morale per un concorso dei convenuti nel reato ascritto al promittente venditore, mentre attengono a valutazioni di merito non sindacabili in sede di legittimità, in quanto adeguatamente e logicamente motivate con il richiamo ad una mera e non motivata sintetica espressione di un'opinione da parte del teste, gli assunti del difetto di prova del danno psicofisico lamentato dall'attrice e del carattere meramente esplorativo che una consulenza tecnica avrebbe assunto con riferimento soltanto ad essa. Resta assorbito dalla cassazione della sentenza l'esame del secondo motivo di ricorso incidentale, attinente alla regolamentazione delle spese dei precedenti gradi del giudizio. P.Q.M. Riunisce i ricorsi. Accoglie il primo motivo di ricorso principale nei sensi di cui in motivazione, rigetta il primo motivo di ricorso incidentale e dichiara assorbito l'esame del secondo. Rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 luglio 2009. Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2009 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 122 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 123 6) Donazione di cosa altrui Tizio conosceva Caia in un locale del centro di Milano. Tizio si fidanzava con Caia; i due andavano a convivere in via Salaria 1234 a Roma. Caia manifestava - da subito - un immenso amore verso Tizio. Caia era in trattative con il dott. Sempronio per l’acquisto dell’immobile Alfa; Caia e Tizio si recavano presso lo studio del notaio Astuto, per procedere ad una donazione. In particolare, Astuto stipulava l’atto richiesto: veniva realizzato un contratto di donazione, ex art. 769 c.c., con cui si stabiliva il trasferimento dell’immobile Alfa in favore di Tizio, laddove Caia avesse proceduto all’acquisto del detto immobile. Dopo alcuni giorni, Caia riusciva ad acquistare Alfa; dopo circa un mese dall’acquisto, Tizio e Caia litigavano. Tizio, allora, si recava dal legale BellaDonna, chiedendo lumi circa la titolarità dell’immobile Alfa. Il candidato, assunte le vesti di BellaDonna, premessi brevi cenni sulla donazione di cosa altrui, rediga motivato parere favorevole alla posizione giuridica di Tizio. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 6 La donazione di cosa altrui è un contratto con il quale si vuole trasferire al donatario un bene appartenente ad altri (e non al donante); tale schema riguarda il caso perché Caia dona il bene Alfa che al momento della donazione stessa appartiene ad altri. E’ un istituto non espressamente previsto dal codice civile, che si limita a trattare la figura della donazione di beni futuri all’art. 771 c.c., comminando la nullità (limitata ai beni futuri, senza colpire l’intera operazione negoziale). In difetto di previsione normativa, la sua validità e dubbia. Nel caso in esame: -se si ritiene invalida la donazione di cosa altrui, allora Alfa sarà di proprietà esclusiva di Caia; -diversamente, se si ritiene valida la donazione di cosa altrui, allora Alfa sarà di proprietà esclusiva di Tizio. Invero, prima facie, la donazione di beni altrui sembrerebbe nulla: se è vietata quella di beni futuri di cui all’art. 771 c.c., allora dovrebbe essere “proibita” anche quella di cose altrui, emergendo in entrambi i casi una futurità del bene (ovvero non se ne ha il possesso al momento della donazioni). Invero, si ritiene di predicare la validità del contratto di donazione posto in essere, con la conseguenza pratica che Tizio potrà legittimamente qualificarsi come proprietario di Alfa. Ciò per le seguenti ragioni: -la nullità ex art. 771 c.c. è comminata solo per i beni oggettivamente futuri (ovvero quelli non ancora venuti ad esistenza) e non per quelli soggettivamente futuri (appartenenti ad altri); -l’art. 769 c.c. menziona la donazione obbligatoria e la donazione di cosa altrui è un tipo di donazione obbligatoria (in quanto si assume l’impegno/obbligo a trasferire il bene successivamente); -ad ogni modo, nel caso in esame emerge puramente una condizione sospensiva apposta sulla donazione perché si conclude un contratto in cui già si prevede la produzione degli effetti a partire dal momento della verificazione del fatto esterno (futuro ed incerto, ex art. 1353 c.c.); mentre, nella donazione di cosa altrui, normalmente, il donante non è a conoscenza dell’altruità del bene (si pensi a colui che crede erroneamente, ma in buona fede, di aver usucapito). Pertanto, alla luce dei suddetti rilievi, ben potrà Tizio ritenersi proprietario di Alfa. GIURISPRUDENZA RILEVANTE La donazione dispositiva di un bene altrui, benché non espressamente disciplinata, deve ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell'art. 771 cod. civ., poiché il divieto di donazione di beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionatisi prima che il loro © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 124 oggetto entri a comporre il patrimonio del donante; tale donazione, tuttavia, è idonea ai fini dell'usucapione decennale prevista dall'art. 1159 cod. civ., poiché il requisito richiesto da questa norma va inteso nel senso che il titolo deve essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l'acquisto del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare. Cass. civ. Sez. II, Sent., 05-05-2009, n. 10356 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROVELLI Luigi Antonio - Presidente Dott. MENSITIERI Alfredo - Consigliere Dott. SCHERILLO Giovanna - Consigliere Dott. BURSESE Gaetano Antonio - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: S.T.A., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv. OCCHINEGRO FRANCESCO, per legge domiciliata presso la cancelleria civile della Corte di cassazione, Piazza Cavour, Roma; - ricorrente contro C.N., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del controricorso, dall'Avv. MORRONE ROCCO, per legge domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione, Piazza Cavour, Roma; - controricorrente avverso la sentenza della Corte d'appello di Salerno depositata il 20 aprile 2004; Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 3 aprile 2009 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti; © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 125 udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LO VOI Francesco, che ha concluso per l'accoglimento del secondo e del terzo motivo e per il rigetto del primo motivo. Svolgimento del processo 1. - Con atto notificato l'11 dicembre 1995, C.N. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Salerno S.T.A., per sentirsi dichiarare proprietario della giusta metà della part. (OMISSIS) del foglio (OMISSIS) del Comune di (OMISSIS) - lasciatogli in eredità dalla madre St.Lu. - e per vedere accolta la domanda di condanna della convenuta alla restituzione della zona di terreno già oggetto di un'azione possessoria inter partes, oltre al risarcimento del danno. Si costituì in giudizio la convenuta, la quale chiese il rigetto della domanda di rivendicazione e propose domanda riconvenzionale affinchè il Tribunale la dichiarasse proprietaria dell'intero fondo per avvenuto acquisto a titolo di usucapione abbreviata ovvero ordinaria. Con sentenza in data 22 marzo 2000, il Tribunale di Salerno rigettò la domanda di rivendicazione proposta dal C., mentre, in parziale accoglimento della riconvenzionale, dichiarò usucapita la porzione di particella n. (OMISSIS), pervenuta alla convenuta con l'atto di donazione del 15 settembre 1982 per notar Gentile. 2. - Pronunciando sul gravame interposto dal C., la Corte d'appello di Salerno, con sentenza depositata il 20 aprile 2004, ha rigettato la domanda riconvenzionale e, in accoglimento della domanda principale, ha dichiarato che il C. è proprietario di una parte della part. (OMISSIS) del foglio (OMISSIS) del Comune di (OMISSIS), come da atto di divisione per notar Caprio dell'11 marzo 1941, ed ha condannato l'appellata alla restituzione in favore della controparte della zona di terreno posta nella parte confinante con i manufatti del C. (come indicata dai punti C-A-D-E-B gravante su detta particella (OMISSIS), giusta l'allegata tav. (OMISSIS) della relazione del consulente tecnico d'ufficio, facente parte integrante della decisione). 2.1. - L'errore del primo giudice - ha evidenziato la Corte territoriale - è consistito nell'avere attribuito valore di titolo astrattamente idoneo, ai fini dell'applicabilità dell'usucapione abbreviata, all'atto del 15 settembre 1982 (con il quale P.M. donava alla figlia l'appezzamento di terreno in questione, che la parte stessa dichiarava di avere usucapito), laddove a tale atto di donazione, che riguardava un bene altrui, non poteva essere attribuito alcun effetto, perchè la donazione di un bene che non appartenga al donante è nulla per assenza di causa donandi e non, semplicemente, inefficace. In ogni caso - ha proseguito la Corte d'appello - l'esperita prova testimoniale non ha fornito la dimostrazione certa ed obiettiva dell'intervenuto possesso, decennale o ventennale, da parte della S.T., del bene, che ha ad oggetto una zona di modeste dimensioni, prossima al confine e un tempo recintata metallicamente. Quanto alla domanda proposta dal C., la Corte d'appello ha osservato che i principi in tema di prova nel giudizio di rivendicazione non hanno carattere assoluto, ma vanno adeguati alle concrete particolarità delle singole situazioni in relazione alla posizione difensiva della parte convenuta, la quale, non contestando, nel caso, i titoli dell'attore, ha allegato invano di avere acquistato il bene per usucapione. Tanto premesso, la Corte del merito, esaminando gli atti di provenienza e recependo le conclusioni del consulente d'ufficio, ritenute obbiettive e suffragate da corrette valutazioni tecnico-strumentali e non contraddette da parimenti elaborate contestazioni tecniche, è pervenuta alla statuizione che deve essere annessa alla proprietà di C.N. una superficie terriera di circa mg. 79, derivante dalla maggiore consistenza della part. (OMISSIS), come indicata nella tavola (OMISSIS) della relazione di c.t.u. con la specificazione dei punti C-A-D-E-B. 3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello, © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 126 notificata il 10 giugno 2004, ha interposto ricorso S.T.A., con atto notificato il 17 settembre 2004, articolando tre motivi di censura. Ha resistito, con controricorso, C.N.. Motivi della decisione 1. - Con il primo motivo (violazione dell'art. 2909 c.c., artt. 324 e 100 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4) la ricorrente deduce che il C. non ha proposto uno specifico motivo di appello contro il rigetto della domanda, da esso proposta, di rivendicazione, ma si è limitato a censurare la decisione del primo giudice perchè, con il diniego dell'ammissione della consulenza tecnica, avrebbe impedito l'accertamento di un preteso errore commesso in suo danno nel corso dell'esecuzione della sentenza resa in sede possessoria. Posto che il motivo di gravame non aveva alcun legame logico con la domanda di revindica proposta in primo grado e con le ragioni del suo rigetto, la Corte salernitana avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità del proposto appello (e dichiarare inammissibile, altresì, per carenza di interesse, il motivo di appello relativo alla domanda riconvenzionale proposta dalla S.T.). 1.1. - E' infondata la tesi in base alla quale il C., rivolgendo specificamente un unico sostanziale motivo d'appello contro la pronuncia con cui era stata accolta la domanda riconvenzionale diretta alla declaratoria d'acquisto della proprietà della particella di terreno contesa per usucapione, avrebbe implicitamente rinunciato ad impugnare la statuizione di rigetto della domanda principale di rivendicazione, con la conseguenza che la Corte salernitana, riformando sul punto la sentenza di primo grado, avrebbe violato il, dedotto dall'appellata, giudicato interno formatosi su tale parte della controversia. Occorre premettere che il requisito della specificità dei motivi di appello, prescritto dall'art. 342 c.p.c., non può essere definito in via generale ed assoluta, ma deve essere correlato alla motivazione della sentenza impugnata, nel senso che la manifestazione volitiva dell'appellante deve essere formulata in modo da consentire d'individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le specifiche critiche indirizzate alla motivazione, e deve quindi contenere l'indicazione, sia pure in forma succinta, degli errores attribuiti alla sentenza censurata, i quali vanno correlati alla motivazione di quest'ultima e quindi devono essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore specificità nel caso concreto di quella motivazione (Cass., Sez. 1^, 19 settembre 2006, n. 20261; Cass., Sez. 3^, 24 agosto 2007, n. 17960). Dagli atti - ai quali è possibile accedere, essendo denunciato un vizio in procedendo - risulta che la sentenza di primo grado, avendo dichiarato la fondatezza della domanda riconvenzionale della S.T. di declaratoria dell'intervenuta usucapione decennale ex art. 1159 c.c., ha dedicato al rigetto della domanda attrice di rivendicazione soltanto un fugace accenno, ritenendo che "dall'espletata istruttoria, anche documentale, non si rinviene alcun elemento diretto a provare la pretesa proprietà dell'attore su porzione di part. (OMISSIS) maggiore di quella, di fatto posseduta dalla S.". L'atto di appello non solo contiene, nelle conclusioni, la richiesta di accoglimento della domanda di rivendicazione avanzata con il libello introduttivo; ma si articola in due motivi di gravame: e mentre il secondo di essi (rubricato "errata interpretazione dell'art. 1159 c.c.") censura che sia stato ritenuto titolo idoneo, ai fini dell'usucapione decennale, la donazione del bene altrui, il primo (intitolato "errata ed insufficiente motivazione") lamenta che la sentenza di primo grado abbia fatto leva esclusivamente sulle risultanze del giudizio possessorio e sulla esecuzione (erronea) conseguente a detto procedimento, senza effettuare "una nuova, e certamente più completa e più obiettiva indagine tecnica" e senza tener conto del fatto che i testi avevano "concordemente dichiarato" la presenza di una "rete metallica" ("la quale divideva di fatto i due fondi"). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 127 Ora, attesa l'incompatibilità dei due diritti addotti dalle parti (cfr. Cass., Sez. 2^, 15 aprile 1987, n. 3724), è da ritenere che la censura svolta con il primo mezzo di gravame, da leggere in connessione con le conclusioni dell'atto di appello, sia rivolta, specificamente, non solo contro l'accoglimento della domanda riconvenzionale di usucapione, ma anche contro il rigetto della domanda principale di rivendicazione, e indichi le ragioni concrete per la richiesta di riesame del rigetto di quest'ultima domanda, con un supporto argomentativo idoneo a contrastare la motivazione della sentenza impugnata. 2. - Il secondo mezzo è rubricato "violazione degli artt. 771 e 1159 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3". Con esso viene censurato l'accertamento di nullità dell'atto di donazione del 15 settembre 1982 in quanto riguardante un bene altrui. Ad avviso della ricorrente, che richiama Cass., Sez. 2^, 5 febbraio 2001, n. 1596, occorre invece distinguere, ai fini del verificarsi dell'ipotesi prevista dall'art. 1159 c.c., tra donazione di cose future e donazione di cose altrui. In ipotesi di donazione di bene altrui, quando vi sia, come nel caso di specie, la buona fede delle parti, il contratto non è nullo, ma soltanto inefficace fino a quando non siano trascorsi gli anni prescritti nell'art. 1159 c.c.. 2.1. - Il motivo è fondato, nei termini e nei limiti di seguito precisati. Esso investe due problemi: la sorte della donazione dispositiva di beni altrui; l'idoneità della donazione di cosa altrui a rappresentare titolo per il perfezionamento di un acquisto a non domino a norma dell'art. 1159 c.c.. In ordine alla prima questione, nella giurisprudenza di questa Corte si confrontano due indirizzi. Secondo un primo orientamento, la donazione di un bene non esistente nel patrimonio del disponente è nulla. La donazione di beni altrui - afferma Cass., Sez. 2^, 20 dicembre 1985, n. 6544 - "non genera a carico di costui alcun obbligo poichè, giusta la consolidata interpretazione dell'art. 771 c.c., dal sancito divieto di donare beni futuri deriva che è invalida anche la donazione nella parte in cui ha per oggetto una cosa altrui; a differenza di quanto avviene, ad esempio, nella vendita di cosa altrui, che obbliga il non dominus alienante a procurare l'acquisto al compratore". A questo indirizzo ha aderito - in un caso nel quale la donazione, compiuta da una pubblica amministrazione, aveva ad oggetto un'area che la stessa si era impegnata ad espropriare - Cass., Sez. 1^, 18 dicembre 1996, n. 11311: nel divieto riguardante i beni futuri, sancito dall'art. 771 c.c., "deve ritenersi compreso anche il bene che non fa parte del patrimonio del disponente". Secondo un altro, più recente orientamento, la donazione traslativa di beni che le parti considerano di proprietà del donante, ma che in realtà appartengono a terzi, non è nulla, ma semplicemente inefficace, sia per la ristretta portata letterale dell'art. 771 c.c., sia per la natura eccezionale del divieto di donare beni futuri, atteso il riferimento alla disciplina della vendita di cosa altrui. La pronuncia che esprime tale indirizzo (Cass., Sez. 2^, 5 febbraio 2001, n. 1596) fa leva sul fatto che, nella formulazione dell'art. 771 c.c., "il riferimento del divieto" è "ai soli beni non ancora esistenti In rerum natura", ma non manca di sottolineare l'"argomento logico costituito dal fatto che, ad altri fini, il legislatore ha considerato separatamente gli effetti di atti di disposizione di beni futuri e di beni altrui (artt. 1472 e 1478 c.c.)". Il Collegio intende dare continuità - sotto il profilo della sorte della donazione dispositiva di beni altrui - al primo indirizzo. E ciò per le seguenti ragioni. Sebbene la nullità della donazione con cui il donante dispone di un diritto altrui, intendendo produrre un effetto traslativo immediato, non sia espressamente comminata da alcuna norma, la conclusione si ricava dalla disciplina complessiva della donazione. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 128 L'art. 769 c.c., infatti, per la fattispecie rispondente allo schema del contratto con efficacia reale, definisce la donazione come il “contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto”. La regola di attualità dello spoglio, tratto caratterizzante della donazione con effetti reali immediati, implica il requisito dell'appartenenza del diritto al patrimonio del donante al momento del contratto, ossia, come precisa l'inciso della citata disposizione, l'arricchimento realizzato mediante disposizione di un “suo diritto”. Inoltre, mentre i principi generali sanciscono la validità tanto dell'atto su cosa futura, quanto dell'atto sul patrimonio altrui, il microsistema della donazione, al fine di inibire liberalità anticipate, reca un principio settoriale di tenore diverso, prevedendo, all'art. 771 c.c., comma 1, la nullità della donazione di beni futuri. L'esigenza, che ne è alla base, di porre un freno agli atti di prodigalità e di limitare l'impoverimento ai beni esistenti nel patrimonio del donante, accomuna futurità ed altruità, sicchè l'istanza protettiva disvelata dalla norma citata impone di ritenere - superando un'interpretazione pedissequa-mente ancorata all'enunciato - che il divieto da essa dettato abbracci tutti gli atti di donazione dispositiva perfezionati prima ancora che il loro oggetto (non importa se futuro in senso oggettivo o anche futuro in senso soltanto soggettivo) entri a comporre il patrimonio del donante. Se la donazione dispositiva di bene altrui è da considerare nulla, nondimeno, ai fini della soluzione, in favore del terzo di buona fede, del conflitto di interessi che lo oppone al proprietario, essa può fungere da coelemento della fattispecie acquisitiva a titolo originario a norma dell'art. 1159 c.c.. Difatti, la nullità della donazione di cosa altrui dipende, non da un vizio di struttura, ma esclusivamente - come è stato osservato in dottrina - da una ragione inerente alla funzione del negozio, ossia dalla altruità del bene donato rispetto al patrimonio del donante, altruità dalla quale, tuttavia, occorre prescindere allorchè si procede alla valutazione della idoneità del titolo, che si ha tutte le volte in cui l'effetto immediatamente attributivo è unicamente precluso dalla carenza di legittimazione traslativa dell'alienante. In altri termini, la provenienza dell'attribuzione dal non legittimato, se intacca la validità della donazione (non consentendo ad essa, per questa sola ragione, di adempiere concretamente la funzione traslativa del tipo al quale appartiene), non inficia la sua astratta idoneità ad inserirsi in una più complessa fattispecie acquisitiva a non domino. Va, pertanto, data continuità, in parte qua, alla citata sentenza di questa n. 1596 del 2001. Essa, pur muovendo da diverse premesse (l'inefficacia anzichè la nullità della donazione dispositiva di beni altrui), è pervenuta, superando il precedente rappresentato dalla sentenza n. 6544 del 1985 (ma ponendosi in continuità con Cass., Sez. 2^, 23 giugno 1967, n. 1532), alla conclusione - che il Collegio condivide - secondo cui tale negozio, quando conformato in termini di atto di alienazione, stante l'ignoranza delle parti circa l'alienità della res donata, è suscettibile di fungere da titulus adquirendi ai fini dell'usucapione abbreviata ai sensi dell'art. 1159 c.c., in quanto il requisito, richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della esistenza di un titolo idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l'acquisito del diritto si sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare. Ha errato, pertanto, la Corte d'appello a ritenere che l'atto di donazione del 15 settembre 1982 per notar Gentile, nullo in quanto proveniente a non domino, impedisse alla donataria, sussistendone gli altri requisiti (buona fede e trascrizione), l'acquisto del diritto per usucapione abbreviata decennale. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 129 3. - Il terzo motivo (violazione degli artt. 1141 e 1158 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) lamenta che la Corte d'appello abbia negato che, nel caso di specie, sia stata fornita la prova, certa ed obiettiva, dell'intervenuto possesso, decennale o ventennale. La motivazione al riguardo sarebbe scarna e contraddittoria. La Corte d'appello - assume la ricorrente - non avrebbe adeguatamente considerato la deposizione dei testi G.G. e St.Vi., non contraddette da testi I.M. e I.L.; non avrebbe valutato le sentenze sul possesso rese dal Pretore di Eboli e dal Tribunale di Salerno; nè avrebbe preso in esame la circostanza della omessa indicazione, da parte del C., del fondo di cui si discute nella denuncia di successione della madre, la quale sarebbe indicativa della ritenuta appartenenza ad altri della porzione del fondo stesso. 3.1. - Il motivo è fondato. L'indagine diretta a stabilire se il possesso di un bene, per i suoi requisiti soggettivi ed oggettivi e per la sua durata, sia idoneo a determinare l'acquisto, da parte del possessore, della sua proprietà per usucapione, costituisce un accertamento di fatto, riservato come tale al giudice del merito e sottratto al sindacato di legittimità, ove si avvalga di una motivazione adeguata e coerente. Nella specie la Corte di Salerno ha escluso l'idoneità, al fine predetto, del possesso addotto dalla odierna ricorrente, sulla base del rilievo che i testi escussi non avrebbero fornito la prova certa ed obiettiva del possesso, decennale o ventennale, del bene da parte della S.T., accertato solo ai fini dell'interdetto possessorio. Senonchè, la motivazione al riguardo impiegata dalla Corte d'appello - che ha ribaltato la decisione alla quale era giunto il Tribunale - non da conto del contenuto delle deposizioni testimoniali raccolte, ma si limita ad esprimere un giudizio, approssimativo, di frammentarietà ed incertezza delle testimonianze. In effetti, per come risulta dalle risultanze processuali puntualmente trascritte dalla ricorrente, i testi non si sono limitati a riferire che il confine tra i fondi prima del terremoto del 1980 era delimitato da una rete metallica e che tale recinzione fu tolta dalla S.T. e fu collocata lungo un fienile di proprietà del C., ma hanno anche evidenziato: che il fondo posseduto dalla S.T. arrivava fino al fienile ed era formato dall'intera particella (OMISSIS), oltre ad una porzione della particella (OMISSIS); che il fondo per cui è causa è sempre stato posseduto nella medesima dimensione dalla S.T., e prima di lei dalla madre e dalla nonna; ancora, che il fondo era originariamente coltivato dalla madre della S.T.. Il contenuto di tali deposizioni corrisponde inoltre ai risultati degli accertamenti che già erano stati svolti dal Pretore di Salerno, sezione distaccata di Eboli, nel giudizio possessorio, nel quale, stando alla sentenza conclusiva, è rimasto dimostrato che la S.T. "ebbe ad esercitare il possesso dell'orto dedotto in controversia negli ultimi tempi antecedenti alla condotta del C., dopo che, in precedenza, era stato esercitato dalla madre e dai nonni". Ricorre, pertanto, il lamentato vizio di insufficiente motivazione, perchè dall'esame del ragionamento svolto dalla Corte d'appello emergono l'obliterazione di elementi che avrebbero potuto portare ad una diversa decisione e l'obiettiva deficienza del procedimento logico posto a base della impugnata decisione. 4. - La sentenza impugnata è cassata. Il giudice del rinvio - che si designa nella Corte d'appello di Salerno, in diversa composizione provvederà ad un nuovo esame della causa facendo applicazione del principio di diritto sub 2.1. Al giudice del rinvio è rimessa anche la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 130 La Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d'appello di Salerno, in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 3 aprile 2009. Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2009 La tipizzazione del contratto di donazione (artt. 769 e ss. c.c.) impone una prospettiva di indagine che deve tendere ad una verifica in concreto della sussistenza o meno della causa del contratto; occorre a tal fine evidenziare che lo spirito di liberalità che connota, in guisa di requisito genetico del contratto (art. 1325 cod. civ.), l'incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio (art. 769 c.c.), va ravvisato, alla stregua dell'insegnamento di questa Corte (Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n. 1411 del 1997; Cass. n. 3621 del 1980), nella consapevolezza del donante di attribuire al donatario un vantaggio patrimoniale in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o morale, secondo un intento pienamente discrezionale. Dunque, se a realizzare la funzione economico-sociale della donazione concorre la spontaneità dell'attribuzione patrimoniale, questa, come tale, non si pone in relazione di incompatibilità, così da poter essere in concreto elisa, con la circostanza di un esasperato rapporto conflittuale, e finanche violento, esistente tra le parti del vincolo contrattuale, che, seppur presente al momento della conclusione del contratto, si atteggia come elemento fattuale del tutto neutro rispetto alla valenza causale dell'attribuzione patrimoniale operata per liberalità, non integrando nè l'ipotesi di cogenza giuridica, nè quella di costrizione morale dell'anzidetta attribuzione, semmai corroborando proprio l'ipotesi contraria della decisa e netta sussistenza dell'animus donandi, essendosi giunti alla formazione del vincolo nonostante il clima di conflittualità interpersonale in essere. Cassazione civile, Sez. II, sentenza del 21.5.2012, n. 8018 ...omissis... Motivi della decisione 1. - Con il primo mezzo, la ricorrente denuncia un vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Tale vizio si anniderebbe, anzitutto, là dove la sentenza impugnata, nel riconoscere l'erroneità delle conclusioni raggiunte dal primo giudice in ordine alla qualificazione del negozio stipulato per atto pubblico il 5 febbraio 1998 - da quest'ultimo ritenuto integrante una divisione consensuale, raggiunta tramite lo schema giuridico dell'atto di liberalità reciproco - ed affermando l'effettiva esistenza di un atto di donazione, sarebbe poi caduta in contraddizione inconciliabile nel reputare che siffatta diversa qualificazione del contratto non incidesse "sulla fondatezza dei rilievi del Tribunale (precisati a pag. 4)" di segno "diametralmente opposto", avendo quest'ultimo non già ritenuto infondata la domanda di nullità della donazione per mancanza di causa, ma ravvisato la sussistenza di una divisione, contrariamente, appunto, a quanto opinato dal giudice di secondo grado. Inoltre, la Corte distrettuale sarebbe incorsa in ulteriore contraddizione nell'aver dapprima riconosciuto che la domanda principale di nullità della donazione era stata formalmente riproposta in appello e, poi, affermato che mancava una specifica doglianza "riguardo alla pronunzia sul punto del Tribunale"; © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 131 doglianza che, invece, era presente nella deduzione per cui la ravvisata "esasperata conflittualità" tra coniugi avrebbe dovuto portare all'accoglimento della domanda di nullità ex artt. 1418 e 1325 c.c., "essendo tale conflittualità incompatibile con l'animus demandi". Infine, sarebbe priva di senso la ragione addotta dalla Corte d'Appello nel rilevare l'assenza di effetto pratico di un eventuale accoglimento dell'anzidetta domanda di nullità, per aver il Tribunale comunque esaminato e respinto la domanda subordinata di revocazione della donazione per ingratitudine. 1.1. - Con il secondo motivo, si denuncia la violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 1418 1325 e 1421 c.c.. Posto che è indiscusso che la causa della donazione risiede nello spirito di liberalità e che, nella specie, è risultato comprovato che tra i coniugi sussisteva, già prima della conclusione del negozio, un "clima di estrema conflittualità", successivamente protrattosi e sfociato anche "episodi di violenza morale e fisica", il giudice del gravame avrebbe dovuto - ad avviso della ricorrente - dichiarare, anche d'ufficio, la nullità dell'atto pubblico stipulato il 5 febbraio 1998 per la mancanza di causa, "essendo l'esasperata conflittualità e gli episodi di violenza assolutamente incompatibili con l'animus donandi". Il motivo di ricorso è assistito dal seguente quesito di diritto: "Se l'esasperata conflittualità tra due coniugi sfociata in episodi di violenza, precedente, durante e successiva alla stipula di un atto di donazione di beni di rilevante valore (cinque appartamenti) comporti la mancanza della causa propria dell'atto di donazione, di cui all'art. 1325 c.c., comma 1, n. 2 in relazione all'art. 1418 c.c., cioè se sia o meno compatibile con l'animus donandi"; se, accertata la mancanza di causa nella stipula di un atto di donazione a causa dell'esasperata conflittualità sfociata in episodi di violenza tra i coniugi stipulanti, la nullità prevista dall'art. 1418 c.c. sia rilevabile d'ufficio ai sensi dell'art. 1421 c.c.". 1.2. - Con il terzo mezzo è ancora denunciato un vizio di motivazione della sentenza, ex art. 360 c.c., comma 1, n. 5. La ricorrente si duole della palese insufficienza delle ragioni addotte a sostegno del rigetto del motivo di gravame relativo a far valere la revocazione della donazione per ingratitudine del donatario, avendo la Corte distrettuale omesso di esaminare una serie di episodi successivi alla stipula dell'atto di donazione, rappresentati dall'appellato e provati nel corso del giudizio di primo grado. In particolare, l'omissione riguarderebbe: a) l'ordinanza del 17 luglio 1998 con la quale il Tribunale aveva disposto la cancellazione, perchè gravemente offensive e sconvenienti, delle espressioni "di cui alla comparsa di risposta pag. 2 rigo 9 e segg....nonchè pag. 6, rigo 8 e segg."; b) l'esito delle prove testimoniali (testi V. e L.), dalle quali era emerso che il M. apostrofava essa ricorrente con epiteti quali "puttana" e "ancora peggio con riferimento ai rapporti anali", minacciandola di distruggerla economicamente; c) l'episodio del (OMISSIS) - unico preso in considerazione dalla Corte d'appello allorchè, dopo averla fatta pedinare da una agenzia di investigazioni e raccolta "una moltitudine di amici e parenti", l'aveva sorpresa "in macchina con un amico per poterla svergognare ed offendere"; d) la rivelazione in comparsa di risposta (fasc. n. 693/99), gratuita e senza scopo difensivo, della violenza sessuale subita da essa ricorrente "da ragazzina"; e) la denuncia, in data 11 giugno 1998, di furto a carico di essa A. al solo scopo di recarle offesa; f) il "danno grave arrecato dolosamente al residuo patrimonio" di essa ricorrente, avendole il M., complice il di lui fratello, fatto credere dell'esistenza di un debito comune, in gran parte estinto, al fine di sottrarle l'unico immobile che le era stato lasciato (come documentato dalla produzione nel fasc. n. 693/99). In definitiva, si tratterebbe di episodi tutti successivi alla stipula della donazione, che, "dato il loro ripetersi nel tempo, rappresentano con certezza il costante sentimento del M. di grave avversione nei © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 132 confronti della moglie, innumerevoli volte offesa tanto gravemente da ledere profondamente il suo patrimonio morale". Peraltro, soggiunge la ricorrente, delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la parte, la quale, come nella specie, ha sottoscritto la procura a margine delle comparse di risposta (doc. n. 3 e 14 fasc. 693/99). 2. - L'esame dei primi due motivi di censura può effettuarsi congiuntamente, vertendo entrambi sullo stesso thema decidendum - che ruota intorno alla asserita insussistenza dell'animus donandi - sebbene occorra muovere dalla dedotta violazione di legge, la cui delibazione è logicamente prioritaria rispetto a quella di vizio motivazionale, giacchè pone in radicale discussione la consistenza stessa della statuizione resa sul punto resa dalla sentenza impugnata. 2.1. - Il motivo è infondato. La ricorrente, come linearmente evidenziato nel formulato quesito di diritto, si duole del fatto che il giudice del gravame non abbia ritenuto nullo per mancanza di causa la donazione inter partes, posto che l'accertato clima di estrema conflittualità, sfociato anche in episodi di violenza morale e materiale, esistente tra le stesse parti contrattuali si presentava incompatibile con l'animus donandi. Premesso che la tipizzazione del contratto di donazione (artt. 769 e ss. c.c.) impone una prospettiva di indagine che deve tendere ad una verifica in concreto della sussistenza o meno della causa del contratto intercorso tra l' A. ed il M., occorre a tal fine evidenziare che lo spirito di liberalità che connota, in guisa di requisito genetico del contratto (art. 1325 cod. civ.), l'incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio (art. 769 c.c.), va ravvisato, alla stregua dell'insegnamento di questa Corte (Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n. 1411 del 1997; Cass. n. 3621 del 1980), nella consapevolezza del donante di attribuire al donatario un vantaggio patrimoniale in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o morale, secondo un intento pienamente discrezionale. Dunque, se a realizzare la funzione economico-sociale della donazione concorre la spontaneità dell'attribuzione patrimoniale, questa, come tale, non si pone in relazione di incompatibilità, così da poter essere in concreto elisa, con la circostanza di un esasperato rapporto conflittuale, e finanche violento, esistente tra le parti del vincolo contrattuale, che, seppur presente al momento della conclusione del contratto, si atteggia come elemento fattuale del tutto neutro rispetto alla valenza causale dell'attribuzione patrimoniale operata per liberalità, non integrando nè l'ipotesi di cogenza giuridica, nè quella di costrizione morale dell'anzidetta attribuzione, semmai corroborando proprio l'ipotesi contraria della decisa e netta sussistenza dell'animus donandi, essendosi giunti alla formazione del vincolo nonostante il clima di conflittualità interpersonale in essere. Del resto, non può confondersi con l'assenza dello spirito di liberalità dell'attribuzione patrimoniale il diverso piano, sebbene anch'esso correlato alla genesi del vincolo negoziale, delle ragioni di annullamento del contratto risiedenti nell'esistenza di vizi della volontà e, tra questi, segnatamente della violenza, rispetto alla quale parrebbe meglio conformarsi, in tesi, la situazione circostanziata dedotta dalla ricorrente. Ambito, quest'ultimo, che, però, non è stato scalfito da alcuna censura in questa sede, sebbene anch'esso sia stato oggetto di cognizione da parte del giudice del gravame, con delibazione negativa rispetto all'interesse coltivato dalla appellante ed odierna ricorrente. 2.2. - Venendo, quindi, all'esame del primo motivo, va osservato che, una volta ritenutasi priva di fondamento la censura imperniata sulla dedotta violazione di legge, la ricorrente difetta di interesse a coltivare la specifica doglianza sulla motivazione, giacchè con essa si tende, al pari del motivo in precedenza scrutinato, a demolire la sentenza impugnata nella statuizione che ha ritenuto sussistente, nel contratto concluso dalle parti, la causa donativa e, segnatamente, l'animus donandi siccome compatibile con la situazione di conflitto interpersonale tra gli stessi contraenti. Pertanto, seppure si ravvisassero le supposte carenze motivazionali, con conseguente accoglimento del motivo, esso non © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 133 avrebbe alcun effetto utile (si vedano, tra le altre, Cass., sez. 5, 19 luglio 2011, n. 11731; Cass., sez. lav., 19 luglio 2001, n. 9777), essendosi già escluso, in diritto, l'esistenza della nullità della donazione per mancanza di causa nei termini denunciati con il ricorso. Tale ragione di inammissibilità del motivo è, pertanto, assorbente di ogni altro profilo di indagine. 3. - Anche il terzo motivo di ricorso è inammissibile. Con esso si denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, un vizio di motivazione della sentenza là dove questa disattende il gravame avverso la reiezione della domanda di revocazione della donazione per ingratitudine del donatario, senza che la censura sia, però, corredata - come imposto, a pena di inammissibilità, dall'art. 366-bis c.p.c. (nella specie applicabile ratione temporis, giacchè la decisione impugnata è stata resa pubblica il 25 marzo 2006, nella vigenza, dunque, della predetta norma, introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006, posto che l'abrogazione dello stesso art. 366-bis, da parte della L. 18 giugno 2009, n. 69, non opera retroattivamente, trovando essa applicazione soltanto per i ricorsi proposti avverso provvedimenti pubblicati successivamente al 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della medesima legge n. 69; n tal senso, v. anche Cass., sez. 3, 24 marzo 2010, n. 7119) - dal cd. quesito di fatto e cioè di apposito momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che consenta alla Corte di comprendere, in modo immediatamente percepibile, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione (v., tra le altre, Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603 e, più di recente, Cass., sez. 3, 30 dicembre 2009, n. 27680 e Cass., sez. 5, 18 novembre 2011, n. 24255 del 2011). Del resto, la riscontrata carenza strutturale del motivo non si palesa fine a se stessa, giacchè è sintomo rivelatore dell'obiettivo ultimo della censura, la quale, lungi dall'aggredire le deficienze o le contraddizioni del convincimento raggiunto dal giudice di merito all'esito dell'indagine condotta sul materiale probatorio, tende essenzialmente a sostituire ad esso l'apprezzamento della parte. Ciò conducendo inevitabilmente all'inammissibilità di una doglianza cosi congegnata, posto che secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte (v., tra le tante, Cass., sez. 1, 30 marzo 2007, n. 7972) - la deduzione del vizio di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 "non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito". Sotto tale profilo è da ricondursi, anzitutto, l'addotta insufficiente valutazione degli elementi di prova emergenti dalle comparse di risposta, dall'ordinanza istruttoria del luglio 1998, dalle prove testimoniali, dalla denuncia di furto del giugno 1998, dalla documentazione relativa all'apparente "debito comune" (fonti di prove, queste, indicate, oltretutto, senza fornire la necessaria puntualizzazione dei relativi contenuti rilevanti e decisivi), mancando, però, di porre in discussione le ragioni fornite dalla sentenza impugnata, nel contesto di una valutazione complessiva delle emergenze istruttorie, sulla irrilevanza, ai fini probatori specifici, di quei fatti e di quelle risultanze di causa collocabili temporalmente dopo la proposizione della domanda di revocazione della donazione. Del pari è da ritenersi, poi, quanto alla pretesa rivalutazione dell'episodio ingiurioso e violento dell'aprile del 1998, sul quale la Corte territoriale, attribuendo ad esso centralità ai fini del proprio convincimento, si è soffermata per escludere, con motivazione priva di vizi logici e giuridici, che un © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 134 tale fatto potesse integrare, di per sè, gli estremi dell'ingratitudine idonea a determinare la revocazione della donazione, inserendosi invece in contesto "rapporti interpersonali estremamente deteriorati indipendenti e irrilevanti rispetto alle volontà manifestate" con la intervenuta liberalità. Si tratta, del resto, di motivazione che non incontra le asserite aporie, giacchè l'operata delibazione in fatto, di esclusiva pertinenza del giudice del merito, si raccorda pianamente con la fattispecie legale di riferimento (art. 801 c.c.), la quale, come messo in luce dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. 2, 5 aprile 2005, n. 7033; Cass., sez. 2, 24 giugno 2008, n. 17188 e, più di recente, Cass., sez. 2, 31 marzo 2011, n. 7487), ravvisa nell'ingiuria grave, quale presupposto indispensabile per la revocabilità della donazione per ingratitudine, un comportamento, non isolato, del donatario che sia altamente lesivo del patrimonio morale del donante, cosi da palesare una profonda e radicata avversione di quest'ultimo verso il primo, tale da ripugnare la coscienza collettiva. 4. - Il ricorso va, dunque, rigettato. In. considerazione delle peculiarità che hanno connotato la vicenda sostanziale versata nella controversia oggetto di cognizione, appare equo disporre la compensazione delle spese di lite del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. LA CORTE rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese processuali del presente giudizio. L'intestazione fiduciaria di un bene presuppone, oltre al trasferimento del medesimo a favore del fiduciario (effetto reale) anche l'obbligo, derivante dal "pactum fiduciae", di ritrasferire il bene al fiduciante o al beneficiario (effetto obbligatorio). E' assente qualsiasi intento di liberalità in favore del fiduciario, il quale acquisisce una provvisoria posizione di titolarità sul bene solo a vantaggio del fiduciante. Cassazione civile, sez. II, sentenza del 29.2.22012, n.3134 Il Tribunale di Civitavecchia, con sentenza in data 13 ottobre 2006, ha rigettato la domanda di C.G. poi rappresentato in corso di causa, in quanto colpito da interdizione legale per effetto di condanna penale, dalla tutrice P. R. - ...omississ...avente ad oggetto l'accertamento della simulazione della dichiarazione di nomina e della sua accettazione ex art. 1402 cod. civ. - ha rilevato che "l'assunto di parte attrice è rimasto del tutto sfornito di prova, non essendo stato offerto, in particolare, alcun effettivo e certo elemento di riscontro in ordine all'esistenza del dedotto patto di trasferimento". Secondo la Corte territoriale, "dal tenore della corrispondenza intercorsa tra le parti, e cosi dalle proposte conciliative formulate a suo tempo dalla Ca., emerge, al più, solo la consapevolezza che l'azienda era stata acquistata con il denaro del padre, cosi realizzandosi una donazione indiretta dell'azienda medesima, ma certamente non l'ammissione dell'esistenza di un obbligo, assunto dalla stessa Ca., di trasferire la proprietà dell'azienda a favore del padre". Quanto alle prove, la Corte d'appello ha giudicato inammissibili le richieste istruttorie formulate per la prima volta con l'atto di gravame, sottolineando che la statuizione di irrilevanza di quelle formulate in primo grado non è stata sottoposta a specifiche censure. 3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello la tutrice di C.G. ha proposto ricorso, con atto notificato l'11 febbraio 2010, sulla base di tre motivi. L'intimata ha resistito con controricorso. La parte ricorrente ha depositato una memoria illustrativa. Cessato nella pendenza del giudizio di cassazione lo stato di interdizione legale, C.G. ha depositato una memoria in proprio, conferendo procura speciale notarile all'Avv. Maurilio . DIRITTO IN DIRITTO © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 135 1. - Il primo motivo denuncia 'violazione e falsa applicazione degli artt. 769 771 e 782 cod. civ., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, ed all'art. 101 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., comma 6'. Premesso che l'azienda ristorante era stata acquistata, con scrittura privata autenticata del 1 dicembre 2000, da C.G., il quale poi, esercitando la facoltà prevista in contratto, aveva sciolto la riserva e nominato fiduciariamente la figlia C. G., continuando tuttavia a condurre personalmente la gestione dell'attività e curando i rapporti con il venditore, cui corrispondeva alle scadenze pattuite il prezzo, la ricorrente, nella indicata qualità, ritiene che nella specie non sussistano l'animus donandi, la spontaneità e la liberalità, tenuto conto del fatto che, per stessa ammissione di Ca.Gi., il padre G. si risolvette di intestare l'azienda alla figlia a causa di disavventure giudiziarie che non gli consentivano di svolgere alcuna attività. D'altra parte, non ricorrerebbe l'elemento dell'impoverimento, giacchè C.G. non aveva pagato, alla data della presunta donazione, nè in tutto nè in parte, il prezzo, e difetterebbe l'elemento dell'arricchimento, in quanto Ca.Gi. aveva assunto tutti gli obblighi, compreso quello dell'intero prezzo in sedici rate mensili di lire 10.000.000 ciascuna e dell'azienda il cedente si era riservata la proprietà fino al pagamento di tutte le rate. C.G. - si sostiene - non avrebbe assunto verso la figlia l'obbligo di pagare il prezzo di acquisto dell'azienda a rate con scadenze successive all'acquisto operato ed alla dichiarazione di nomina e di accettazione, nè avrebbe confermato la pur remota promessa di donazione con un atto successivo al pagamento dell'intero prezzo. L'azienda sarebbe di pertinenza esclusiva di C.G. e ove l'atto (la dichiarazione di nomina e di accettazione del 4 dicembre 2000) fosse qualificabile donazione indiretta, esso sarebbe nullo, avendo ad oggetto un bene ancora - fino al totale pagamento delle rate del corrispettivo - di proprietà del terzo. 2. - La censura è infondata. Affinchè ricorra l'intestazione fiduciaria di un bene - frutto della combinazione di effetti reali in capo al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante - occorre che il trasferimento vero e proprio in favore del fiduciario sia limitato dall'obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae. In detta figura manca qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di titolarità creata in capo a quest'ultimo è soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a vantaggio del fiduciante (Cass., Sez. 3, 2 aprile 2009, n. 8024). La sentenza impugnata è pervenuta alla conclusione che l'effetto reale - l'acquisto dell'azienda in capo a Ca.Gi. a seguito della dichiarazione di nomina da parte di C.G. e dell'accettazione della convenuta non è stato accompagnato da alcun patto contenente l'obbligo della persona nominata di modificare la posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato. L'assunto della parte che ha promosso l'azione - ha rilevato la Corte d'appello, con congruo e logico apprezzamento delle risultanze di causa - 'è rimasto del tutto sfornito di prova, non essendo stato © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 136 offerto, in particolare, alcun effettivo e certo riscontro in ordine all'esistenza del dedotto patto di ritrasferimento'. E poichè la prova del pactum fiduciae non discende, automaticamente, dal fatto che il bene sia stato acquistato con denaro dello stipulante, la decisione della Corte d'appello resiste alle censure del ricorrente. La Corte d'appello, esclusa l'esistenza del pactum fiduciae, ha poi qualificato la fattispecie dell'acquisto dell'azienda da parte della nominata con denaro del padre stipulante in termini di donazione indiretta. Le doglianze articolate con il motivo, tutte dirette a contestare proprio tale ricostruzione o ad ottenere una declaratoria di invalidità della donazione (tra l'altro neppure proposta con la domanda di primo grado), non colgono nel segno. La Corte d'appello ha rilevato: che C.G. ha stipulato il contratto di compravendita dell'azienda per sè o per persona da nominare; che la parte acquirente, sciogliendo la riserva, ha provveduto alla dichiarazione di nomina della figlia e quest'ultima ha accettato detta dichiarazione; che il denaro occorrente per l'acquisto dell'azienda è stato fornito dal padre. Tali essendo i presupposti di fatto, correttamente la Corte d'appello ha ravvisato nell'acquisto del complesso aziendale con denaro proprio del disponente e nell'intestazione della relativa titolarità in favore della persona designata e cosi beneficiata - la quale, con l'accettazione della dichiarazione di nomina, è divenuta parte in senso sostanziale del negozio stesso, cancellando ogni situazione giuridica riconducibile al soggetto che aveva svolto per lei l'attività materiale di autore del contratto una donazione indiretta di quella universitas. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, la donazione indiretta è caratterizzata dal fine perseguito, che è quello di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario, nei limiti consentiti dall'ordinamento, e può essere costituito anche da più negozi tra loro collegati, come nel caso in cui un soggetto, stipulato un contratto di compravendita, paghi o si impegni a pagare il relativo prezzo ed, essendosene riservata la facoltà nel momento della conclusione del contratto, provveda ad effettuare la dichiarazione di nomina, sostituendo a sè, come destinatario degli effetti negoziali, il beneficiario della liberalità, cosi consentendo a quest'ultimo di rendersi acquirente del bene ed intestatario dello stesso (Cass., Sez. 2, 16 marzo 2004, n. 5333). La configurabilità della donazione indiretta e la validità della stessa non sono impedite dalla circostanza che la compravendita del complesso aziendale sia stata stipulata, nella specie, con riserva della proprietà in favore del venditore fino al pagamento dell'ultima rata di prezzo, giacchè quel che rileva è che lo stipulante abbia pagato il corrispettivo (non importa se in unica soluzione o a rate) o messo a disposizione del beneficiario i mezzi per il relativo pagamento. L'ulteriore deduzione della parte ricorrente, secondo cui difetterebbero lo spirito di liberalità, il depauperamento e l'arricchimento, perchè Ca.Gi. si sarebbe obbligata in realtà a pagare tutte le rate del prezzo, contrasta con gli accertamenti compiuti dalla Corte di merito, la quale è giunta alla conclusione dell'avvenuto acquisto dell'azienda con denaro del disponente in base al 'tenore della corrispondenza intercorsa tra le parti' e delle 'proposte conciliative formulate a suo tempo dalla Ca.', da cui emerge 'la consapevolezza che l'azienda era stata acquistata con il denaro del padre'. Del resto, come si ricava dalla parte della sentenza impugnata dedicata allo svolgimento del processo (pag. 2), è stato lo stesso attore a dichiarare 'di avere provveduto con mezzi propri in data 1 dicembre 2000 all'acquisto dell'azienda (OMISSIS)'. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 137 2. - Con il secondo mezzo (violazione e falsa applicazione degli artt. 183, 184 240 e 345 cod. proc. civ., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e all'art. 111 Cost., comma 6) si deduce che 'l'art. 345 cod. proc. civ. non impedisce alla Corte d'appello, che è giudice del merito, di ammettere i mezzi di prova già articolati davanti al Tribunale e di integrarli, qualora si dimostri che ciò non è stato possibile nel giudizio di primo grado instaurato prima del primo giugno 2006, specialmente se è stata omessa l'udienza di cui agli artt. 183 e 184 cod. proc. civ. secondo la formulazione a quella data vigente e che consentiva nell'udienza ex art. 183 anche di modificare le domande e rendeva obbligatoria la fissazione dell'udienza di cui al successivo art. 184. Addirittura non è impedito al giudice di appello di accedere sia alla modifica delle domande che alla ammissione di nuovi mezzi di prova. E non costituisce nuovo mezzo di prova neppure il giuramento suppletorio de scientia, richiamato nell'atto di appello e che può essere disposto in sede di gravame, qualora si ritenga, a compiuta istruttoria, che possa giovare ai fini della corretta decisione, che deve essere aderente al principio di legalità'. Con il motivo si chiede anche conclusivamente di dichiarare che 'anche per quanto espresso in ordine all'irregolare andamento del giudizio di primo grado, poteva essere proposta la modifica delle domande in appello, modifica che rientra pur sempre in fattispecie similare al patto fiduciario e che consiste nella simulazione della dichiarazione ex artt. 1401 e 1402 cod. civ., malamente ritenuta donazione indiretta, per la quale, in considerazione del rapporto familiare (padre e figlia) era ammissibile la prova orale'. 2.1. - Il motivo è infondato. La Corte territoriale - nel ritenere precluse le istanze istruttorie formulate soltanto con il motivo di gravame e non articolate in primo grado in sede di precisazione di conclusioni, in mancanza di assegnazione del termine per le deduzioni istruttorie, ai sensi dell'art. 184 cod. proc. civ., (nel testo ratione temporis applicabile) - si è attenuta alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, 21 febbraio 2002, n. 2504; Sez. 2, 29 luglio 2005, n. 16092; Sez. 3, 24 agosto 2007, n. 17965; Sez. 3, 3 ottobre 2007, n. 20745). Secondo il costante indirizzo, l'udienza per le deduzioni istruttorie indicata dall'art. 184 cod. proc. civ. non costituisce un momento indefettibile che debba necessariamente precedere la rimessione della causa al collegio, giacchè, a norma dell'art. 187 codice di rito, il giudice, ove ritenga che la causa sia matura per la decisione senza necessità di assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio per la decisione, e la rimessione al collegio non comporta la perdita del diritto ad integrare le deduzioni istruttorie, ove si consideri che l'art. 187 c.p.c., comma 4, prevede che, qualora risulti necessario procedere all'istruzione della causa, i termini di cui all'art. 184, se richiesti e non concessi prima della rimessione al collegio (o del trattenimento della causa per la decisione), devono essere assegnati dal giudice istruttore su istanza di parte nella prima udienza dinanzi a lui. L'altra doglianza veicolata con il motivo - relativa alla mancata osservanza, nel giudizio di primo grado, delle sequenze procedimentali rivolte alla definitiva determinazione del thema decidendum muove da un inesatto presupposto interpretativo. E' infatti erroneo l'assunto secondo cui, proposta con l'atto di citazione domanda rivolta a vedersi attribuito il trasferimento del bene in attuazione del pactum fiduciae, sarebbe consentito all'attore, in virtù della facoltà che l'art. 183 cod. proc. civ. concede alle parti di precisare e modificare la domanda, di introdurre il tema della interposizione fittizia di persona, derivante dalla simulazione della dichiarazione di nomina ex artt. 1401 e 1402 cod. civ.. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 138 Invero, costituisce domanda nuova - e non semplice precisazione o modificazione della domanda già proposta - avanzare in corso di causa una richiesta volta al riconoscimento della proprietà di un determinato bene o di un complesso di beni sul presupposto del carattere fittizio dell'intestazione discendente dalla simulazione tanto della dichiarazione di nomina da parte dello stipulante quanto dell'accettazione della persona nominata, laddove l'atto di citazione sia diretto ad ottenere il trasferimento di quei medesimi beni in favore dell'istante in forza dell'obbligo assunto dall'intestatario fiduciario, e ciò data la diversità tra le due anzidette situazioni, deducendosi con la prima un'ipotesi di divergenza tra volontà e manifestazione e con la seconda l'esistenza di un contratto valido ed efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell'obbligo di ritrasferire il bene a vantaggio del fiduciante (Cass., Sez. 2, 27 marzo 1999, n. 2944). 3. - Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ.. Il motivo non reca in realtà una autonoma censura, ma è proposto in via riflessa rispetto ai primi due motivi. La cassazione della statuizione sulle spese e la condanna della controparte al rimborso delle spese di legittimità sono richieste come conseguenza dell'accoglimento dei primi due motivi del ricorso. Il loro rigetto comporta, pertanto, l'assorbimento del terzo motivo. 4. - Il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente, nella qualità, al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, liquidate in complessivi Euro 2.700, di cui Euro 2.500 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 139 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 140 7) Contratto immorale ed illecito Noemi svolgeva l’attività di prostituta, presso Via del CorpoBello in Bologna. Tramite tale attività, guadagnava una somma considerevole, tanto da acquistare la Villa Sensual, situata sul lago di Como. Al momento dell’acquisto di detta Villa, Noemi chiedeva al notaio dott. Bravo di cointestarla al convivente Culdesac, senza che quest’ultimo erogasse alcuna somma di denaro. Purtroppo, successivamente ed improvvisamente, Noemi decedeva. La figlia di Noemi riteneva nulla la donazione indiretta fatta dalla madre in favore di Culdesac, data la provenienza del denaro utilizzato; così contattava Culdesac per chiedergli di pagare il canone di locazione, inerente l’utilizzo della Villa Sensual. Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua attenzione, dopo aver premesso brevissimi cenni sulla differenza tra contratto immorale ed illecito. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 7 In premessa, bisognava accennare alla differenza tra contratto immorale ed illecito: -il primo si ha quando viene realizzato con causa contraria al buon costume, ex art. 1343 c.c., che rende predicabile l’art. 2035 c.c.; -il secondo si ha quando viene realizzato con causa o oggetto illecito, ossia contrario alla legge; in tal caso, ne discende la nullità con la conseguenza pratica di poter agire ex art. 2033 c.c. per la ripetizione dell’indebito. Successivamente, bisognava chiedersi: la donazione indiretta fatta da Noemi a Culdesac è nulla perché illecita, con la conseguenza che potrà pretendere da Culdesac un canone di locazione? Invero, nel caso in esame non si intravedono ragioni di nullità del contratto di acquisto della villa Sensual perché: -il denaro utilizzato per l’acquisto non è di provenienza illecita; -l’acquisto della villa non ha vulnerato alcuna norma. Pertanto, ben potrà Culdesac ritenersi comproprietario di Sensual, senza che la figlia di Noemi possa avanzare pretese volte ad ottenere il pagamento di un canone di locazione. GIURISPRUDENZA RILEVANTE La donazione indiretta, consistente nell'intestazione in favore del beneficiario di una quota di immobile acquistata con danaro proprio della disponente, proveniente dall'attività di meretricio di quest'ultima, dalla quale il primo traeva guadagno, non è affetta da nullità per illiceità della causa, rimanendo la condotta di sfruttamento della prostituzione irrilevante rispetto all'atto di liberalità, espressione di piena autonomia negoziale ed oggetto di semplice accettazione da parte del donatario. Cass. civ. Sez. II, 25-03-2013, n. 7480 Con atto di citazione del 9-12-1986 R.L. quale erede di T.D. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma D.G.C. chiedendo lo scioglimento della comunione esistente tra le parti sull'appartamento sito in (OMISSIS), e la condanna della convenuta alla corresponsione in proprio favore della metà del valore di un preteso fitto da calcolare in base alla normativa sull'equo canone. L'attrice asseriva che il suddetto immobile era stato acquistato da R.D. insieme alla D.G. allorchè i due erano conviventi, e che il proprio diritto di comproprietà su di esso le era pervenuto per successione "mortis causa". © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 141 Costituendosi in giudizio la convenuta eccepiva di aver acquistato il suddetto bene, all'epoca consistente in una soffitta abusiva priva di servizi ed abitabilità, esclusivamente con denaro proprio, non avendo il T. alcuna disponibilità economica; aggiungeva di aver provveduto personalmente alla trasformazione della soffitta in appartamento e, sempre con denaro proprio, di aver pagato la sanatoria dell'abuso edilizio; deduceva che la cointestazione al R. per ragioni sentimentali dell'immobile doveva comunque essere qualificata una donazione nulla per non essere stata redatta alla presenza di testimoni come richiesto dalla L. 16 dicembre 1913, n. 89, artt. 47 e 48, ed in difetto del consenso del beneficiario, e per illiceità del motivo della supposta accettazione sanzionato dalla L. 28 febbraio 1958, n. 75, art. 3; la D.G. chiedeva quindi il rigetto delle domande attrici ed in via riconvenzionale l'accertamento della sua esclusiva proprietà in ordine al predetto immobile, ed in subordine del suo diritto all'incremento di valore conseguito dall'appartamento a seguito della trasformazione e del successivo condono. Il Tribunale adito con sentenza del 13-8-1999 respingeva la domanda riconvenzionale della D.G., dichiarava aperta la successione di R.D., dichiarava che l'eredità era costituita dalla quota di 34 del predetto appartamento, dichiarava che tale quota si era devoluta per successione in favore dell'attrice, disponeva lo scioglimento della comunione, disponeva la vendita dell'immobile al pubblico incanto al prezzo di L. 107.000.000 con attribuzione del ricavato in ragione di metà per ciascuna delle parti, disponeva con separata ordinanza le modalità della vendita, accertava il diritto della D.G. a percepire dalla R. la somma di L. 5.000.000 quale incremento di valore dell'immobile, condannava la D.G. al pagamento in favore della R. della somma di L. 11.400.500 quale quota parte dei frutti civili relativi al godimento del bene oltre interessi legali e respingeva la domanda della convenuta per il rimborso degli oneri condominiali. Proposto gravame da parte della D.G. cui resisteva la R. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 7-2-2006 ha rigettato l'impugnazione. Per la cassazione di tale sentenza la D.G. ha proposto un ricorso affidato a cinque motivi; la R. non ha svolto attività difensiva in questa sede. Motivi della decisione Con il primo motivo la ricorrente, deducendo violazione degli artt. 115 e 166 c.p.c., artt. 2697, 1100, 936 e 713 c.c., nonchè vizio di motivazione, assume che l'oggetto della controversia era costituito dallo scioglimento di una comunione ordinaria dove era necessario preliminarmente accertare se la quota del bene in contestazione fosse validamente entrata nel patrimonio del defunto del quale la controparte si dichiarava erede; spettava quindi alla R. provare sia la sua qualità di erede, sia il fatto che la quota del bene suddetta fosse entrata nel patrimonio del defunto; in ogni caso l'incremento di valore (e non soltanto il rimborso dei costi) doveva essere accreditato per intero all'esponente. La ricorrente sostiene che vi era prova documentale in atti di aver corrisposto interamente il prezzo di acquisto dell'appartamento in questione, ed aggiunge che solo in sede della stipula notarile del 27- 51981 l'esponente aveva consentito che il bene venisse cointestato al R.. Con il secondo motivo la D.G., denunciando violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 2697 c.c., comma 2, e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto non provato l'acquisto dell'immobile per cui è causa da parte dell'esponente esclusivamente con denaro proprio, laddove sulla base delle prove testimoniali era emersa inconfutabilmente la circostanza che R.D. non lavorava e che si era confessato debitore della D.G. stessa, secondo le dichiarazioni del teste B.; nè in senso contrario poteva attribuirsi rilievo all'esito dell'interrogatorio formale reso dalla stessa R. L.. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 142 Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 115, 116 e 213 c.p.c., e vizio di motivazione, assume che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante l'indagine circa l'appartenenza dei fondi, la traenza e l'incasso degli assegni occorsi per l'acquisto dell'immobile per cui è causa considerandola in contrasto con la tesi dell'appellante circa l'esistenza di una donazione in favore del R.; in realtà proprio dalla completezza della prova in ordine alla totale appartenenza alla D. G. delle somme spese per l'acquisto del bene, per la sua trasformazione e per il condono si confermava la donazione di esso in favore del R.. Con il quarto motivo la D.G., deducendo violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2697, 1418, 1343 e 2035 c.c., art. 185 c.p., L. 28 febbraio 1958, n. 75, art. 3, e vizio di motivazione, rileva come fatto provato dalle deposizioni dei testi assunti che l'esponente traeva i propri guadagni dal fatto che si accompagnava con uomini che la retribuivano per tale compagnia, e che questa attività veniva svolta con il consenso del convivente R.; pertanto quest'ultimo, quale beneficiario e sfruttatore dei guadagni della D.G., aveva posto in essere un comportamento costituente reato e dunque "contra legem", e ed era quindi tenuto alla restituzione delle somme provenienti da tale attività; invece il giudice di appello aveva ignorato tali risultanze ed aveva stravolto il principio di diritto in tema di negozio nullo per illiceità della causa. Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono infondate. La Corte territoriale, premesso che la stessa D.G. aveva dedotto di aver effettuato una donazione in favore del R. (da intendersi avente ad oggetto il denaro corrispondente alla metà del prezzo dell'immobile per cui è causa, donazione della quale l'appellante chiedeva dichiararsi la nullità per illiceità della causa, trattandosi di denaro proveniente da attività svolta "contra bonos mores"), ha ritenuto che, anche qualora la provenienza del denaro e la consapevolezza della medesima da parte del R. potessero ritenersi provate, l'accertata illiceità della causa e la conseguente nullità del negozio avrebbero escluso la possibilità per l'appellante di chiedere la rimozione degli effetti del medesimo, ed in particolare la ripetizione del denaro donato o la restituzione del bene con esso conseguito alla stregua del principio "in pari causa turpitudinis melior est condicio possidendi". Il Collegio ritiene che tale motivazione sia erronea, ma che il dispositivo sia conforme al diritto, con la conseguenza che in questa sede occorre soltanto correggere la motivazione stessa ai sensi dell'art. 384 c.p.c., u.c.. Premesso che non risulta essere stato oggetto di contestazione almeno in grado di appello il fatto che R.L. fosse erede di R.D., si osserva che, secondo la stessa prospettazione dell'attuale ricorrente, l'intestazione in favore del R. di una quota pari alla metà dell'immobile predetto al momento dell'acquisto del bene per cui è causa da parte della D.G. doveva essere qualificata una donazione; se questo è quindi il negozio che giustifica l'acquisto da parte del R. della quota dell'immobile stesso, non appare fondata la tesi della ricorrente in ordine alla pretesa nullità di tale donazione indiretta per illiceità della causa; infatti il fatto che il denaro impiegato per l'acquisto del bene provenisse dalla attività di prostituzione della D.G. è ininfluente al riguardo in quanto attinente ad una fase pregressa rispetto alla donazione, che in effetti è stato il frutto dello spirito di liberalità con il quale l'attuale ricorrente intese beneficare il T., all'epoca suo convivente; al riguardo è irrilevante la circostanza che quest'ultimo traesse dei guadagni dall'attività di meretricio della D.G. una volta che resta incontestato, ed anzi è stato dedotto dalla stessa ricorrente, che essa con l'intestazione al T. della metà dell'immobile acquistato aveva voluto effettuare una donazione di tale quota in favore di quest'ultimo, da ricondurre quindi ad un atto di piena autonomia negoziale; il riferimento generico quindi all'attività del T. di sfruttamento della prostituzione è irrilevante rispetto a questo specifico atto di donazione, oggetto semplicemente di accettazione da parte di quest'ultimo. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 143 Con il quinto motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 782 c.c., L. 16 dicembre 1913, n. 89, artt. 47 e 48, nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per non aver ravvisato la nullità della suddetta donazione per difetto di forma, in assenza di testimoni. La censura è infondata. Premesso che nella fattispecie ricorre una donazione indiretta, ovvero l'acquisto di un immobile posto in essere per spirito di liberalità per quanto riguarda l'intestazione della quota parte di esso in favore del T., acquisto che ha prodotto il medesimo effetto di una donazione contrattuale, è agevole rilevare che per la validità delle donazioni indirette non è richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo sufficiente l'osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l'art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall'art. 769 c.c., non richiama l'art. 782 c.c., che prescrive l'atto pubblico per la donazione (Cass. 29-3-2001 n. 4623; Cass. 16-3-2004 n. 5333). Il ricorso deve quindi essere rigettato; non occorre emettere alcuna pronuncia sulle spese del presente giudizio, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva in questa sede. P.Q.M. La Corte Rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2013. Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2013 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 144 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 145 8) Garanzia per evizione e promessa del fatto del terzo Tizio, proprietario dell’immobile Alfa, si incontrava con Caio. Caio manifestava la volontà di acquistare Alfa; Tizio rendeva noto che sull’immobile gravava una domanda giudiziale, ma che sarebbe riuscito a cancellarla entro 6 mesi dalla stipula dell’atto di trasferimento dell’immobile. Così, i due concludevano un contratto di compravendita avente per oggetto il trasferimento del diritto di proprietà di Alfa; nell’atto veniva scritto: “Il venditore Tizio si impegna a cancellare la domanda giudiziale gravante sull’immobile entro 6 mesi dalla stipula del presente atto”. Successivamente, passavano 9 mesi, ma Tizio non si attivava in alcun modo per procedere alla citata cancellazione. Caio si recava da un legale. Il candidato, assunte le vesti del legale, premesse le differenze tra garanzia per l’evizione e promessa del fatto del terzo, rediga motivato parere sulla questione giuridica proposta. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 8 In premessa bisognava tracciare le differenze tra garanzia per l’evizione e promessa del fatto del terzo: -la prima è disciplinata dall’art. 1483 c.c. e riguarda una garanzia sul bene; incide sul presente; in caso di violazione, impone il risarcimento in capo al venditore (dovendosi provare anche il danno); -la seconda è disciplinata dall’art. 1381 c.c. e riguarda l’assunzione di un’obbligazione inerente il comportamento altrui; incide sul futuro; non incide direttamente sul bene, ma sul comportamento altrui; in caso di violazione, impone l’indennizzo in capo al promittente (venditore), senza prova del danno. Nel caso in esame, la clausola intercorsa nel contratto tra Tizio e Caio, avente per oggetto il trasferimento della proprietà di Alfa, rientra nella prima fattispecie oppure nella seconda? Se si opta per la prima fattispecie, allora Tizio sarà tenuto a risarcire il danno causato a Caio; diversamente, se si opta per la seconda fattispecie, allora Tizio sarà tenuto solo ad indennizzare Caio. Si ritiene che sussista la seconda fattispecie perché: -Tizio ha assunto un’obbligazione; -la citata obbligazione è proiettata sul futuro; -merge un facere e non solo un dare. Pertanto, alla luce di tali rilievi, Tizio dovrà indennizzare Caio, ex art. 1381 c.c. GIURISPRUDENZA RILEVANTE Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-02-2013, n. 5034 Svolgimento del processo La M.T.M. Manifattura Tessile Montalese s.r.l., acquirente di un complesso immobiliare posto in comune di Montemurlo, agiva innanzi al Tribunale di Pistoia nei confronti della L.A.R.C.E. s.a.s., società venditrice, affinchè quest'ultima fosse condannata a cancellare i gravami ancora esistenti sui beni alienati, che si era obbligata a eliminare il prima possibile, e a risarcire il relativo danno. Nel resistere in giudizio la società convenuta deduceva che le formalità pregiudizievoli erano state cancellate e che, ad ogni modo, ove ancora esistenti, la relativa responsabilità sarebbe stata dei soggetti terzi a favore dei quali erano state effettuate. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 146 Ritenuta quale unica formalità ancora esistente la trascrizione di una domanda giudiziale, come tale cancellabile solo in forza di sentenza passata in giudicato ovvero col consenso dell'avente diritto, il Tribunale escludeva la responsabilità della società venditrice e rigettava la domanda. Tale sentenza era riformata dalla Corte d'appello di Firenze, che accoglieva la domanda di condanna al risarcimento dei danni proposta dalla M.T.M. Manifattura Tessile Montalese s.r.l.. Inquadrata la fattispecie sotto la norma dell'art. 1381 c.c., la Corte territoriale riteneva che la società venditrice non aveva provato, nè offerto di provare di essersi attivata per ottenere il consenso alla cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale, essendo a tal fine del tutto inutile la sola produzione della copia di un verbale della causa tra la stessa L.A.R.C.E. e il terzo a favore del quale era stata trascritta la domanda, verbale nel quale la prima chiedeva al giudice istruttore di ordinare la cancellazione della formalità, valutata l'infondatezza della pretesa. Osservava, quindi, la Corte fiorentina che la società obbligata non aveva fatto nulla affinchè quella trascrizione fosse cancellata, come ad esempio presentare opportune offerte economiche alla controparte, per cui tale condotta omissiva doveva essere qualificata come inadempimento e fonte di responsabilità risarcitoria. In ordine alla quale, infine, la Corte toscana rilevava che la mancata disponibilità da parte della M.T.M. di una parte considerevole del prezzo di rivendita a terzi del medesimo immobile, a causa proprio della mancata cancellazione della domanda giudiziale trascritta sul bene, costituiva un danno prevedibile al momento in cui era sorta l'obbligazione, considerata la natura imprenditoriale del soggetto acquirente; e che il nocumento poteva essere risarcito attraverso la corresponsione degli interessi legali sulla somma di cui era stato sospeso il pagamento alla M.T.M.. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la L.A.R.C.E. s.a.s.. Resiste con controricorso la M.T.M. Manifattura Tessile Montalese s.r.l., che ha depositato memoria. Motivi della decisione 1. - Preliminarmente va respinta l'eccezione, sollevata dalla parte controricorrente, d'inammissibilità del ricorso per mancata formulazione dei quesiti di diritto ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c., in quanto a norma del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2, tale disposizione si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto, e dunque a far data dal 2.3.2006. 1.1. - La sentenza impugnata, invece, è stata pubblicata il 20.9.2005, e dunque in epoca anteriore all'introduzione dell'art. 366- ter c.p.c.. 2. - Ugualmente infondate sono le eccezioni ulteriori d'inammissibilità del ricorso per mancata specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui esso si fonda, ai sensi dell'art. 366 c.p.c., n. 6, e d'improcedibilità del ricorso stesso per mancato deposito di tali atti e documenti, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., n. 4. 2.1. - La prima, non considera che l'omessa indicazione dei documenti e degli atti produce l'inammissibilità del ricorso solo qualora riguardi atti e documenti necessari per accogliere i mezzi d'annullamento proposti. In difetto di ciò, la mancata indicazione - come nella fattispecie - di atti o documenti a base dell'impugnazione non conduce a conseguenze di sorta sulla validità dell'atto propulsivo dell'impugnazione. 2.2. - Quanto alla seconda, poichè l'art. 369 c.p.c., n. 4 fa obbligo al ricorrente di depositare gli atti e i documenti sui quali si fonda il ricorso e non già gli interi fascicoli del giudizio di merito, il ricorso per cassazione è inammissibile per violazione del suddetto obbligo solo quando la mancata produzione riguarda atti o documenti già acquisiti al giudizio di merito, il cui esame sia necessario © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 147 per la decisione della causa. A tal fine il giudizio sulla sufficienza o meno degli atti depositati è rimesso al criterio valutativo del giudice e non della parte (Cass. n. 11169/97). E nella specie non vi sono ragioni per ritenere necessario l'esame di atti non depositati dalla parte ricorrente. 3. - Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell'art. 1381 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Premesso che la fattispecie ipotetica dell'art. 1381 c.c. non può consistere nella promessa di adempimento di un obbligo cui il terzo sia già tenuto, parte ricorrente deduce che nel caso in esame è stato l'inadempimento del terzo che aveva trascritto la domanda giudiziale a determinare le lungaggini processuali concluse, poi, con la sentenza che aveva ordinato la cancellazione della trascrizione. In realtà, sostiene parte ricorrente, l'art. 1381 c.c. non poteva essere applicato alla fattispecie, la quale configura invece una promessa di garanzia per evizione, peraltro già dovuta per legge. 4. - Col secondo motivo è dedotta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, relativamente alla configurabilità della promessa del fatto del terzo, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5. La motivazione della sentenza della Corte territoriale, nella parte in cui ritiene configurato lo schema legale dell'art. 1381 c.c. per il solo fatto che la trascrizione della domanda giudiziale fosse avvenuta ad istanza e nell'interesse di un soggetto terzo, è illogica, poichè da ciò non consegue che, assunto l'obbligo di cancellare detta formalità, sia stato promesso il fatto del terzo. Nello specifico, la clausola contrattuale non prevedeva che la L.A.R.C.E. s.a.s. dovesse ottenere il consenso alla cancellazione, ma solo che essa si obbligava a cancellare la trascrizione, come logica e giuridica conseguenza della garanzia per evizione. Del resto, prosegue la parte ricorrente, la cancellazione della domanda giudiziale può avvenire o in forza del consenso della parte che ha ottenuto la trascrizione o in forza di sentenza passata in giudicato (art. 2668 c.c.), per cui è evidente che in difetto di consenso, la causa col terzo sia proseguita per ottenere la pronuncia giudiziale. 5. - Col terzo motivo è dedotta la violazione degli artt. 1362, 1366 e 1371 c.c., in punto d'interpretazione della clausola negoziale contenente l'obbligo di cancellare la trascrizione come promessa del fatto del terzo, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. La Corte territoriale ha violato il canone d'interpretazione letterale del contratto, lì dove non ha considerato che la L.A.R.C.E. si era obbligata a cancellare la trascrizione, non ad ottenere l'assenso del terzo alla cancellazione. Nè ha considerato che, nonostante la presenza della trascrizione della domanda giudiziale, la M.T.M. avesse pagato l'intero prezzo dell'immobile, e che inoltre, le parti non avevano stabilito alcun termine per l'adempimento della ridetta obbligazione di cancellazione, nè alcuna penale in caso di inadempimento. La relativa clausola contrattuale, pertanto, doveva interpretarsi come promessa di liberare l'immobile dalla trascrizione esistente, non appena ciò fosse stato possibile e, quindi, non appena passata in giudicato la sentenza contenente l'ordine di cancellazione. 6. - Il quarto motivo deduce il vizio motivazionale della decisione impugnata per l'omessa valutazione di documenti decisivi, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5. La Corte fiorentina non ha considerato che dai verbali, prodotti in giudizio, della causa tra la L.A.R.C.E. e la Dinamica s.r.l., in favore della quale era stata trascritta la domanda, risultava che la L.A.R.C.E. aveva fatto tutto il possibile per adempiere l'obbligo assunto con la M.T.M., e di essere © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 148 riuscita nell'intento solo poco prima del passaggio in decisione della causa in appello. In particolare, la Corte di merito non ha menzionato l'ottenimento della sentenza con l'ordine di cancellazione della domanda giudiziale, nè ha motivato in ordine alla condotta positiva posta in essere dalla L.A.R.C.E. nel corso della causa con il terzo, allo scopo di conseguire la pronuncia di cancellazione. 7. - Il quinto motivo denuncia la violazione e/o errata applicazione degli artt. 1381 e 1218 c.c. nonchè il difetto di motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione, rispettivamente, all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. A parte la già dedotta inapplicabilità dell'art. 1381 c.c., ricorrerebbe una causa di esonero della responsabilità prevista dall'art. 1218 c.c., in quanto il ritardo nell'adempimento è stato determinato da impossibilità non imputabile alla società debitrice, avendo più volte la Dinamica s.r.l. manifestato nella causa con la L.A.R.C.E. la propria contrarietà alla cancellazione della domanda giudiziale, come risulta dai verbali di causa prodotti. 8. - Col sesto motivo è dedotta la violazione degli artt. 1223, 1225, 1227 e 1481 c.c., nonchè il difetto di motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione, rispettivamente all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. La sentenza impugnata non ha considerato che quand'anche vi fosse stato un inadempimento imputabile alla società odierna ricorrente, per riconoscere il diritto al risarcimento sarebbe stato necessario un danno che non solo fosse conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento o del ritardo nell'esecuzione della prestazione (art. 1223 c.c.), ma che fosse altresì prevedibile nel tempo in cui era sorta l'obbligazione (art. 1227 c.c.). Inoltre, la Corte distrettuale avrebbe dovuto considerare che il danno asseritamente subito dalla M.T.M. avrebbe potuto essere evitato usando l'ordinaria diligenza, ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 2, "perchè la venditrice non era affatto tenuta a subire la sospensione del pagamento del prezzo da parte dell'acquirente, ai sensi dell'art. 1481 c.c.". Su tali questioni la motivazione della sentenza d'appello sarebbe, secondo la parte ricorrente, profondamente carente. 9. - Con il settimo ed ultimo motivo parte ricorrente deduce la violazione dell'art. 2702 c.c. e il difetto di motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione, rispettivamente all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Sostiene che il danno asseritamente subito dalla M.T.M. è stato riconosciuto sic et simpliciter sulla base di documenti provenienti da terzi, di per sè sforniti di efficacia probatoria ai sensi dell'art. 2702 c.c. e mai confermati in via testimoniale. 10. - I primi cinque motivi vanno esaminati congiuntamente in quanto replicano, sotto titolazioni e con argomentazioni diverse, una medesima tesi giuridica, quella secondo cui la parte venditrice obbligata a cancellare le formalità pregiudizievoli gravanti sul bene immobile alienato, non risponderebbe della mancata cancellazione imputabile al difetto di cooperazione del terzo a favore del quale le formalità stesse risultano trascritte o iscritte. 10.1. - Detti motivi sono, nei termini che seguono, infondati. 10.1.1. - La Corte distrettuale ha accertato che la L.A.R.C.E. doveva procurare il prima possibile la cancellazione della domanda giudiziale trascritta sull'immobile venduto. Parte ricorrente ha attaccato tale accertamento non già dimostrando la contraddittorietà interna della motivazione che lo sostiene, ma deducendo l'esistenza di elementi fattuali a suo giudizio idonei a consentire un'interpretazione alternativa della clausola, come diretta semplicemente ad obbligare il venditore a cancellare la domanda non appena ciò fosse stato possibile, ossia una volta passata in giudicato la sentenza contenente l'ordine di cancellazione. Ma una tale ricostruzione della fattispecie sollecita un © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 149 inammissibile sindacato di puro merito, distonico rispetto alla funzione che l'ordinamento assegna al giudice di legittimità. Ferma, pertanto, l'interpretazione del contratto operata dalla Corte fiorentina, la riconduzione dell'obbligo della società venditrice sotto la previsione dell'art. 1218 c.c., quale riflesso della garanzia per l'evizione, piuttosto che sotto quella dell'art. 1381 c.c., non muta minimamente i termini della questione in senso favorevole alla parte ricorrente. Nell'un caso come nell'altro, infatti, la responsabilità del venditore è esclusa solo dall'impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore, impossibilità che nella specie la Corte distrettuale ha escluso con motivazione anch'essa congrua ed esente da vizi logico- giuridici, incentrata sulla mancata prova di una condotta idonea a indurre la parte a favore della quale era stata trascritta la domanda giudiziale a desistere della propria pretesa. 11- Anche il sesto motivo è infondato. E' fuor di luogo il richiamo all'art. 1481 c.c., in base al quale il pagamento del prezzo non può essere sospeso se il pericolo di evizione era noto al compratore al momento della vendita. Premesso che la mancata cancellazione da parte del promittente venditore di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli sull'immobile promesso abilita il promissario a sospendere il pagamento del corrispettivo, tanto che egli può ugualmente domandare l'emissione di sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c. senza formalizzare l'offerta del residuo prezzo (giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. Cass. nn. 19135/04, 5228/99, 936/97 e 7013/88), va osservato che la stessa parte ricorrente fornisce l'argomento base per l'inapplicabilità alla fattispecie dell'art. 1481 c.c. Nel sostenere a pag. 19 del ricorso che il terzo acquirente dalla M.T.M. era a conoscenza della trascrizione della domanda giudiziale a favore della Dinamica s.r.l. e contro la L.A.R.C.E., parte ricorrente, pur riservando l'enfasi di scrittura alla sola frase che esprime tale concetto, non manca di riprodurre il testo seguente, da cui pure si desume che la stessa M.T.M. si era comunque obbligata a far cancellare dalla propria dante causa la domanda giudiziale. Al pari di quanto innanzi verificato nel rapporto tra la L.A.R.C.E. e la M.T.M., anche in quello tra quest'ultima e il terzo acquirente dell'immobile la cancellazione della ridetta formalità era oggetto di un'obbligazione inadempiuta, e come tale legittimava la sospensione del pagamento del saldo prezzo. 12. - Anche il settimo motivo è infondato. Nel processo civile le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite costituiscono meri indizi, liberamente valutabili dal giudice e contestabili dalle parti senza necessità di ricorrere alla disciplina prevista in tema di querela di falso o disconoscimento di scrittura privata autenticata (cfr. tra le ultime, Cass. n. 24208/10 e S.U. n. 15169/10). Nella specie, la Corte territoriale ha motivato la propria decisione in merito valutando come fonti del proprio convincimento una lettera della Banca Toscana in data 24.1.1997 e una lettera dell'avvocato del soggetto acquirente dalla M.T.M. datata 30.4.1998 (v. pag. 6 sentenza impugnata). Orbene, il contenuto di tali documenti non risulta riprodotto nel motivo in esame, che pertanto pecca di autosufficienza non consentendo a questa Corte di valutare se ed in qual misura la motivazione della sentenza impugnata incorra nel denunciato vizio di insufficienza o di contraddittorietà. 13. - In conclusione il ricorso va respinto. 14. - Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente. P.Q.M. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 150 La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 4.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 novembre 2012. Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2013 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 151 9) Responsabilità del notaio Tizio è notaio in Roma. Caia è proprietaria del fondo Tuscolano; Sempronia è interessata a comprare il fondo Tuscolano pagando una somma pari ad euro 650.000,oo. Caia e Sempronia concludevano un contratto di compravendita avente per oggetto il trasferimento del citato fondo Tuscolano, al prezzo concordato di euro 650.000,oo; l’atto veniva formalizzato dal notaio Tizio. Dopo due mesi dall’acquisto, Sempronia scopriva che: -sul detto immobile gravava ipoteca giudiziale pari ad euro 150.000,oo; -il contratto avente per oggetto il trasferimento di Tuscolano non era stato qualificato come di classe “AB”, di cui al piano regolatore, che avrebbe permesso di fruire di sgravi fiscali. Sempronia si recava da un legale a cui manifestava la volontà di: -agire contro il notaio, chiedendo a quest’ultimo di cancellare a sue spese l’ipoteca giudiziale; -agire contro il notaio per chiedere il risarcimento danni derivanti dalla mancata qualificazione dell’operazione negoziale nell’ambito della classe “AB” che avrebbe permesso un vantaggio fiscale legittimo. Il candidato, assunte le vesti del legale di Sempronia, rediga motivato parere rispondendo alle richieste della propria assistita. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 9 In premessa si poteva schematizzare il fatto. Successivamente, e nell’ordine suggerito, bisognava rispondere ai quesiti: -Sempronia può agire e chiedere il risarcimento in forma specifica al notaio Tizio, pretendendo da questo la cancellazione a sue spese dell’ipoteca? -Sempronia può pretendere il risarcimento danni derivanti dalla scelta negoziale di Tizio che non ha optato per il regime fiscale più vantaggioso? Relativamente al primo quesito, si poteva dare risposta positiva, evidenziando che: -il notaio è responsabile per aver realizzato un atto senza aver informato le parti dell’esistenza di un’ipoteca, in base all’art. 1176 c.c.; -il risarcimento può essere realizzato in modo specifico ex art. 2058 c.c. in quanto è possibile, trattandosi di prestazione non personale e che pretende una sola erogazione di denaro (con consenso del creditore). Pertanto, ben potrà Sempronia chiedere ed ottenere il risarcimento in forma specifica al notaio Tizio. Relativamente al secondo quesito, del pari poteva essere data risposta positiva: -se si evidenzia che il notaio Tizio avrebbe dovuto eseguire la prestazione con diligenza, ex art. 1176 c.c., e che questa richiede anche di tenere presente le esigenze ed interessi delle parti in un’ottica di solidarietà, ex art. 2 Cost., allora Tizio stesso è stato inadempiente nel non aver individuato il “percorso fiscale legittimo” più vantaggioso; -laddove si opinasse diversamente, si finirebbe per legittimare il notaio a non tenere in considerazione le esigenze dei clienti, arrivando, ad absurdum, ad esempio a ritenere corretto l’operato del notaio che al posto di una compravendita realizzi due donazioni (il donante cede il denaro al donatario, e quest’ultimo – a sua volta – cede gratuitamente il bene, concretizzando due donazioni), con aumento notevole dei costi. Pertanto, alla luce di quanto osservato, ben potrà Sempronia agire e chiedere il risarcimento danni, ex artt. 1218 – 1223 c.c., derivante dalla mancata qualificazione dell’operazione negoziale nell’ambito della classe “AB” che avrebbe permesso un vantaggio fiscale legittimo. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 152 GIURISPRUDENZA RILEVANTE Ove il notaio rogante dichiari libero un bene che risulta, invece, gravato da ipoteca, il risarcimento del danno conseguente può essere disposto anche in forma specifica, mediante condanna del notaio alla cancellazione della formalità non rilevata, a condizione, tuttavia, che vi sia la possibilità di ottenere, a tal fine, il consenso del creditore procedente e che il relativo incombente non sia eccessivamente gravoso, sia per la natura dell'attività occorrente, che per la congruità, rispetto al danno, della somma da pagare. Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 16.1.2013, n. 903 ...omissis... Da ciò, la responsabilità professionale del notaio, fondata sul "dedotto ed ammesso inesatto adempimento" dei suoi obblighi professionali "quale è quello di corretta informazione alle parti ed alla banca mutuante in relazione gli oneri gravanti sul bene oggetto del contratto ai fini dell'erogazione del finanziamento e quello di presentare una relazione attestante una situazione ipotecaria corrispondente a quella reale" (cfr pag.28) ed il danno subito dagli attori "consistente nello stesso fatto di ritrovarsi in una posizione ipotecaria più gravosa rispetto a quanto legittimamente si aspettavano......ed in relazione al fatto che il finanziamento avrebbe dovuto essere erogato e versato alla Poliedro solo una volta che questa avesse provveduto a cancellare, secondo l'obbligo che le incombeva, le ipoteche gravanti sull'immobile a favore della Cariplo per farne iscrivere una di primo grado a favore della Banca Commerciale Italiana" (cfr pag.29 della sentenza impugnata). Ciò posto, appare pertanto evidente come la Corte abbia escluso ogni rilevanza alle circostanze dedotte dalle parti ricorrenti ed è appena il caso di sottolineare che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle - fra esse - ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. Passando all'esame delle altre censure, formulate dal ricorrente principale e sostanzialmente condivise dalla sopraindicata ricorrente incidentale, va osservato che con la prima doglianza, deducendo la violazione e la falsa applicazione dell'art.2058 c.c., l'Accolla ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello ha disposto a suo carico la reintegrazione in forma specifica, benchè parte attrice non avesse fornito alcuna prova nè in ordine alla possibilità, da parte del debitore, di compierla nè in ordine alla non eccessiva gravosità della medesima. Con la successiva doglianza per omessa o insufficiente motivazione, l'Accolla ha altresì lamentato che la Corte non avrebbe motivato circa la sua possibilità di ottenere la cancellazione dell'ipoteca e circa la non eccessiva onerosità della soluzione trascurando che un terzo, diverso dal creditore ipotecario, non ha il potere di cancellare l'ipoteca nè può esprimere alcun consenso a tale cancellazione. I motivi in questione, che vanno esaminati congiuntamente in quanto sia pure sotto diversi ed articolati profili, prospettano ragioni di censura intimamente connesse tra loro, sono fondati e meritano di essere accolti. A riguardo, corre l'obbligo di rilevare che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, se da un lato è stato affermato che il notaio officiato di un atto comportante il trasferimento di un immobile, che non abbia compiuto diligentemente le visure ipocatastali non rilevando l'esistenza di © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 153 un'ipoteca, può essere condannato a titolo di risarcimento in forma specifica, a procurare la cancellazione della formalità (sent. 26 gennaio 2004 n. 1330), dall'altro, è stato precisato che tale risarcimento in forma specifica presuppone la possibilità di ottenere il consenso del creditore, che l'incombente non sia eccessivamente gravoso sotto i profili dell'attività da svolgere e della congruità, rispetto al danno, dalla somma da pagare (sent. 26 gennaio 2004, cit.). Tale orientamento è stato ribadito recentemente statuendosi che, ove il notaio rogante dichiari libero un bene che risulta, invece, gravato da ipoteca, il risarcimento del danno conseguente può essere disposto anche in forma specifica, mediante condanna del notaio alla cancellazione della formalità non rilevata, a condizione, tuttavia, che vi sia la possibilità di ottenere, a tal fine, il consenso del creditore procedente e che il relativo incombente non sia eccessivamente gravoso, sia per la natura dell'attività occorrente, che per la congruità, rispetto al danno, della somma da pagare. (Cass. n. 14813/2006, n. 15726/2010). Ora, a fronte di una situazione come quella oggetto di causa, era obbligo del giudice di merito verificare la sussistenza delle condizioni richieste dall'art.2058 cc e spiegare perchè esse fossero tali da giustificare la condanna al risarcimento in forma specifica: attività che la Corte territoriale si è invece ben guardata dal fare, limitandosi ad affermare, assai genericamente ed immotivatamente, che nella specie il risarcimento poteva essere accordato in forma specifica, tale essendo in effetti la forma più adeguata per riparare il pregiudizio subito dagli acquirenti. Ne consegue che nella specie l'omesso compimento degli accertamenti indicati non solo inficia la correttezza del ragionamento svolto dalla Corte di merito ma ne determina altresì la sua censurabilità. All'accoglimento delle censure in esame consegue altresì l'assorbimento dell'ultima doglianza, per violazione dell'art. 1917 c.c., formulata dal ricorrente principale e fondata sulla considerazione che la Corte di Appello avrebbe dovuto in applicazione della norma citata condannare le compagnie assicuratrici a rimborsare al notaio le spese legali dovute al danneggiato manierandolo da tale obbligazione. Ugualmente resta assorbita la terza doglianza, articolata dall'altra ricorrente incidentale, la Fondiaria Sai Spa, sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1917 c.c., la quale si fonda sulla considerazione che la Corte territoriale avrebbe sbagliato quando ha fatto rientrare nell'obbligazione dell'assicuratore ex art. 1917 c.c., anche le spese necessario alla cancellazione delle ipoteche, le quali al contrario esulano completamente dal concetto di danno risarcibile oggetto di copertura assicurativa, da limitarsi al solo importo dovuto dall'assicurato al danneggiato equivalente all'ammontare del danno Occorre infine portare l'attenzione sulle prime due doglianze, formulate dalla Fondiaria SAI Spa, doglianze,intimamente connesse tra loro - la prima articolata sotto il profilo della violazione o falsa applicazione dell'art. 1917 c.c., la seconda per omessa o insufficiente motivazione - con cui la ricorrente incidentale ha dedotto che la Corte di merito nell'accogliere la domanda di manleva del notaio avrebbe del tutto omesso di considerare che il titolare della venditrice Poliedro fosse il cugino dell'Accolla e che il comportamento di quest'ultimo sarebbe stato caratterizzato da malafede al fine di agevolare l'ottenimento di un finanziamento volto all'ottenimento del pagamento a favore della Poliedro, che altrimenti non sarebbe stato ottenuto. Da ciò la violazione della norma citata, la quale esclude l'obbligo a carico dell'assicuratore della responsabilità civile di tenere indenne l'assicurato per i danni derivanti da fatti dolosi. Entrambe le censure sono inammissibili. A riguardo, occorre premettere che la Corte di merito ha espressamente escluso la sussistenza di comportamenti dolosi da parte dell'Accolla affermando che la condotta, pur inadempiente, del notaio doveva essere giudicata meramente colposa in mancanza di fondati elementi idonei a dimostrare l'adombrato interesse personale del notaio nell'affare. Ciò posto, appare evidente come la sentenza, pur motivata assai sobriamente, consente di seguire con assoluta © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 154 chiarezza il percorso argomentativo della Corte di merito e di comprendere le ragioni che l'hanno portata ad escludere l'ipotesi del comportamento doloso. Ora, è principio di diritto che i vizi di motivazione non possono consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalle parti, perchè spetta soltanto al giudice del merito individuare le fonti del proprio convincimento ed all'uopo valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere fra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne deriva l'inammissibilità delle doglianze in quanto la ricorrente in realtà tende - prospettando una soggettiva valutazione e ricostruzione dei fatti - ad una rilettura dei documenti e ad un riesame del merito della causa, e dunque ad una nuova e diversa valutazione da parte del giudice di legittimità, allo stesso preclusa. Alla stregua di tutte le pregresse considerazioni, vanno accolte le prime due censure, proposte dal ricorrente principale A. F.G. e dalla ricorrente incidentale Le Assicurazioni Generali Spa; vanno dichiarate assorbite l'ultima censura formulata dal ricorrente principale e la terza censura formulata dalla ricorrente incidentale La Fondiaria Sai Spa; va dichiara inammissibile ogni altra doglianza; va infine cassata la sentenza impugnata nei limiti dei motivi accolti. Con l'ulteriore conseguenza che, occorrendo un rinnovato esame da condursi nell'osservanza del principio richiamato, la causa va rinviata alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità. P.Q.M. La Corte decidendo sui ricorsi riuniti accoglie le prime due censure, proposte dal ricorrente principale A.F.G. e dalla ricorrente incidentale Le Assicurazioni Generali Spa; dichiara assorbite l'ultima censura formulata dal ricorrente principale e la terza censura formulata dalla ricorrente incidentale La Fondiaria Sai Spa; dichiara inammissibile ogni altra doglianza; cassa la sentenza impugnata nei limiti dei motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità. Il notaio, quand'anche venga esonerato dal compiere le visure relative al bene immobile oggetto di compravendita, laddove sia a conoscenza o abbia anche solo il mero sospetto della sussistenza di un'iscrizione pregiudizievole gravante sul predetto immobile, è tenuto, in ogni caso, ad informarne le parti, dovendo quest'ultimo eseguire il contratto di prestazione d'opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata di cui all'art. 1176, comma 2, c.c. e della buona fede. Cass. civ. Sez. III, 29-01-2013, n. 2071 Svolgimento del processo Con sentenza del 20/7/2010 la Corte d'Appello di Roma respingeva il gravame interposto dal sig. B.F. nei confronti della pronunzia Trib. Roma n. 24072/2004, di condanna al pagamento di somma in favore dei sigg.ri G.M. e C.L. a titolo di risarcimento dei danni dai medesimi sofferti in conseguenza di compravendita di immobile sito nel Comune di (OMISSIS), in relazione al quale risultavano iscritte formalità pregiudizievoli e trascritto un pignoramento dal predetto, nella sua qualità di notaio, non rilevati. Con rigetto altresì, per decorsa prescrizione, della domandata manleva da parte delle chiamate compagnie assicuratrici Lloyd Adriatico s.p.a. e S.I.A.D. s.p.a.. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 155 Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il B. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi, illustrati da memoria. Resistono con controricorso il G. e la C., che hanno presentato anche memoria, nonchè, con separato controricorso, le compagnie assicuratrici Allianz s.p.a. (già Lloyd Adriatico s.p.a.) e U.G.F. Assicurazioni s.p.a. (già S.I.A.D. s.p.a. e poi Meie Aurora s.p.a.). Motivi della decisione Con il 1^ motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2703 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, c.p.c.; nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si duole che la corte di merito non abbia considerato che nel caso trattavasi di mera autenticazione di scrittura privata, sicchè non era tenuto ad "effettuare accertamenti circa l'esistenza di eventuali pregiudizialità sull'immobile". Lamenta al riguardo che "il legislatore ha voluto porre un distinguo tra la scrittura privata e l'atto pubblico, prevedendo che soltanto quest'ultimo sia redatto con le richieste formalità, da un notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli, fede nel luogo dove l'atto è formato, in modo tale da assumere piena prova delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta", e che pertanto, mentre "nell'ipotesi di redazione di un atto pubblico, il notaio non può limitarsi a registrare ciò che le parti dichiarano, ma deve indagare la loro volontà (cfr. art. 47, L. n.) e accertare la sussistenza o meno di eventuali vizi dell'atto (cfr. art. 28, L. n.)", allorquando come nella specie trattisi di "scrittura privata" il notaio viceversa "attesta semplicemente che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza". Si duole non essersi tenuto invero conto che "dal tenore della normativa vigente in materia, appare di tutta evidenza che le prestazioni a cui è tenuto il notaio si differenzino notevolmente nell'ipotesi di autentica di scrittura privata rispetto a quella di redazione di un atto pubblico", risultando pertanto "chiaro che la corte territoriale ha errato nel non dare alcun rilievo al fatto che le parti abbiano fatto ricorso al notaio solo per l'autenticazione delle firme di una scrittura privata di compravendita" e "nel ritenere responsabile il notaio", giacchè l'omessa verifica delle formalità pregiudizievoli "è stata giustificata dalla scelta operata dalle parti stesse. In altri termini, i sig.ri G., decidendo di redigere essi stessi l'atto di compravendita de quo, si sono assunti il rischio che sull'immobile potessero gravare formalità pregiudizievoli". Il motivo è infondato. Superato l'orientamento formatosi sotto la previgente codificazione che - in assenza di espresso e specifico incarico al riguardo - escludeva il relativo obbligo per il notaio rogante, si è da epoca ormai risalente da questa Corte affermato che ove richiesto della stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare il medesimo è tenuto al compimento delle attività accessorie e successive necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti, e in particolare all'effettuazione delle c.d. visure catastali e ipotecarie, allo scopo di individuare esattamente il bene e verificarne la libertà (v. Cass., 28/7/1969, n. 2861, e, più recentemente, Cass., 24/9/1999, n. 10493; Cass., 18/1/2002, n. 547). La sussistenza di tale obbligo è stata dalla giurisprudenza di legittimità dapprima argomentata dal combinato disposto di cui all'art. 2913 c.c., e art. 28 L. N. in ragione della funzione pubblica del notaio (v. Cass., 1/8/1959, n. 2444), ovvero da quello di cui al D.P.R. n. 640 del 1972, artt. 4 (secondo cui alle domande di voltura debbono essere acquisiti i certificati catastali) e 14 (che fa obbligo al notaio di chiedere la voltura), in base al quale il notaio è tenuto ad espletare attività di © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 156 verifica catastale ed ipotecaria volta ad accertare la condizione giuridica ed il valore di un immobile, da tenersi distinta dalla normale indagine giuridica occorrente per la stipulazione dell'atto (v. Cass., 23/7/2004, n. 13825). Successivamente, rimasta invero priva di seguito nella giurisprudenza di legittimità la tesi dottrinaria riconducente tale obbligo all'uso negoziale ex art. 1340 c.c., (da provarsi da colui che l'invoca), nel sottolinearsi che l'opera professionale di cui è richiesto il notaio non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti e di direzione nella compilazione dell'atto ma si estende alle attività preparatorie e successive perchè sia assicurata la serietà e la certezza degli effetti tipici dell'atto e del risultato pratico perseguito dalle parti (da ultimo cfr. Cass., Sez. Un., 31/7/2012, n. 13617, ove la relativa omissione si è considerata integrare anche illecito deontologico comportante responsabilità disciplinare, trattandosi di violazione prevista dalla L. n. 89 del 1913, art. 138, come sostituito dal D.Lgs. n. 249 del 2006, art. 22), la fonte dell'obbligo in argomento è stata da questa Corte ravvisata nella diligenza che il notaio è tenuto ad osservare (v. già Cass., 1/3/1964, n. 525, e, da ultimo, Cass., 28/9/2012, n. 16549; Cass., 27/10/2011, n. 22398. V. anche Cass., 2/3/2005, n. 4427) nell'esecuzione del contratto d'opera professionale (v. già Cass., 25/10/1972, n. 3255, e, da ultimo, Cass., 5/12/2011, n. 26020; Cass., 28/11/2007, n. 24733; Cass., 23/10/2002, n. 14934; nel senso che tra notaio ed il cliente intercorre un rapporto professionale inquadrabile nello schema del mandato v. peraltro Cass., 18/03/1997, n. 2396), il cui contenuto si è da ultimo affermato essere da tale obbligo integrato ai sensi dell'art. 1374 c.c., (v. Cass., 27/11/2012, n. 20991). La responsabilità del notaio, si è al riguardo altresì precisato, rimane esclusa solamente in caso di espresso esonero - per motivi di urgenza o per altre ragioni - del notaio per concorde volontà delle parti, con clausola inserita nella scrittura (v. Cass., 16/3/2006, n. 5868; per l'ammissibilità di una dispensa anche in forma verbale v. peraltro Cass., 1/12/2009, n. 25270), da considerarsi pertanto non già meramente di stile bensì quale parte integrante del contratto (v. Cass., 1/12/2009, n. 25270; Cass., 12/10/2009, n. 21612), sempre che appaia giustificata da esigenze concrete delle parti (v. Cass., 1/12/2009, n. 25270). Quand'anche sia stato esonerato dalle visure, si è ulteriormente sottolineato, il notaio che sia a conoscenza o che abbia anche solo il mero sospetto della sussistenza di un'iscrizione pregiudizievole gravante sull'immobile oggetto della compravendita deve in ogni caso informarne le parti, essendo tenuto all'esecuzione del contratto di prestazione d'opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e della buona fede (v. Cass., 2/7/2010, n. 15726; Cass., 11/1/2006, n. 264; Cass., 6/4/2001, n. 5158). Orbene, a parte il rilievo che una limitazione della misura dello sforzo diligente dovuto nell'adempimento dell'obbligazione, e della conseguente responsabilità per il caso di relativa mancanza o inesattezza, non può farsi in ogni caso discendere (diversamente da quanto invero da questa Corte pure in passato affermato: cfr. Cass., 26/5/1993, n. 5926; Cass., 29/8/1987, n. 7127; Cass., 23/6/1979, n. 3520; Cass., 2/4/1975, n. 1185; Cass., 17/5/1972, n. 1504) dalla qualificazione della prestazione dovuta dal notaio in termini di "obbligazione di mezzi" (cfr. Cass., 9/10/2012, n. 17143; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., Sez. Un., 28/7/2005, n. 15781), va al riguardo (ulteriormente sviluppandosi. quanto già emergente in nuce nelle più sopra richiamate pronunzie Cass., 2/7/2010, n. 15726; Cass., 11/1/2006, n. 264; Cass., 6/4/2001, n. 5158) osservato come (essendo nella specie in ogni caso non rilevante - oltre che ratione temporis inapplicabile - la modifica legislativa costituita dall'introduzione da parte dal D.L. n. 78 del 2010, art. 19, comma 14, (conv. in L. n. 122 del 2010) della L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1 bis, secondo cui "Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 157 fabbricati già esistenti (ad esclusione dei diritti reali di garanzia) devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie (sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale). Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari") la fonte dell'obbligo per il notaio rogante di effettuare le visure in questione deve invero propriamente ravvisarsi non già nella diligenza professionale qualificata (la quale non può essere comunque intesa in termini deponenti per la limitazione della responsabilità del professionista, e del notaio in particolare (in tal senso v. invece Cass., 15/6/1999, n. 5946), in caso di prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà - nella specie d'altro canto nemmeno dedotti come sussistenti -, in quanto l'art. 2236 c.c., non contempla un'ipotesi di responsabilità attenuata e non esonera affatto il professionista- debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di prestazioni complesse, ma si limita a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza, sicchè la diligenza esigibile dal professionista nell'adempimento delle obbligazioni assunte nell'esercizio delle sua attività è una diligenza speciale e rafforzata, di contenuto tanto maggiore quanto più sia specialistica e professionale la prestazione richiesta: cfr., da ultimo, Cass., 25/9/2012, n. 16254) bensì nella clausola generale (nell'applicazione pratica e in dottrina indicata anche come "principio" o come "criterio") di buona fede oggettiva o correttezza ex artt. 1175 c.c. (cfr. Cass., 2/30/2012, n. 16754; Cass., 11/5/2009, n. 10741). Come osservato anche in dottrina, oltre che regola (artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c.) di comportamento (quale dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost. (v. Cass., 10/11/2010, n. 22819; Cass., 22/1/2009, n. 1618; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, 28056) che trova applicazione a prescindere alla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso, nonchè volto alla salvaguardia dell'utilità altrui nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità: v. Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 20/2/2006, n. 3651. V. altresì Cass., 24/9/1999, n. 10511; Cass., 20/4/1994, n. 3775), e regola (art. 1366 c.c.) di interpretazione del contratto (v. Cass., 23/5/2011, n. 11295), la buona fede oggettiva o correttezza è infatti anche criterio di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo invero fonte - altra e diversa sia da quella eteronoma suppletiva ex art. 1374 c.c., (in ordine alla quale v. la citata Cass., 27/11/2012, n. 20991) che da quella cogente ex art. 1339 c.c. (in relazione alla quale cfr. Cass., 10/7/2008, n. 18868; Cass., 26/1/2006, n. 1689; Cass., 22/5/2001, n. 6956. V. altresì Cass., 9/11/1998, n. 11264) - di integrazione del comportamento dovuto (v. Cass., 30/10/2007, n. 22860), là dove impone di compiere quanto necessario o utile a salvaguardare gli interessi della controparte, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (che non si sostanzi cioè in attività gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (v. Cass., 30/3/2005, n. 6735; Cass., 9/2/2004, n. 2422), come ad esempio in caso di specifica tutela giuridica, contrattuale o extracontrattuale, non potendo considerarsi implicare financo l'intrapresa di un'azione giudiziaria (v. Cass., 21/8/2004, n. 16530), anche a prescindere dal rischio della soccombenza (v. Cass., 15/1/1970, n. 81)). L'impegno imposto dall'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza va quindi correlato alle condizioni del caso concreto, alla natura del rapporto, alla qualità dei soggetti coinvolti (v. Cass., 30/10/2007, n. 22860). L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza è infatti da valutarsi alla stregua della causa concreta dell'incarico conferito al professionista dal committente, e in particolare al notaio (cfr. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 158 Cass., Sez. Un., 31/7/2012, n. 13617. V. anche Cass., 28/1/2003, n.1228; Cass., 13/6/2002, n. 8470. Per il riferimento alla serietà e certezza dell'atto giuridico da rogarsi e alla sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla stipula dell'atto medesimo cfr. altresì Cass., 28/11/2007, n. 24733, e, conformemente, Cass., 5/12/2011, n. 26020), e cioè con lo scopo pratico dalle parti perseguito mediante la stipulazione, o, in altre parole, con l'interesse che l'operazione contrattuale è propriamente volta a soddisfare (cfr. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass., 7/10/2008, n. 24769; Cass., 24/4/2008, n. 10651; Cass., 20/12/2007, n. 26958; Cass., 11/6/2007, n. 13580; Cass., 22/8/2007, n. 17844; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 27/7/2006, n. 17145; Cass., 8/5/2006, n. 10490; Cass., 14/11/2005, n. 22932; Cass., 26/10/2005, n. 20816; 21/10/2005, n. 20398. V. altresì Cass., 7/5/1998, n. 4612; Cass., 16/10/1995, n. 10805; 6/8/1997, n. 7266; Cass., 3/6/1993, n. 3800. Da ultimo v. Cass., 25/2/2009, n. 4501; 12/11/2009, n. 23941; Cass., Sez. Un., 18/2/2010, n. 3947; Cass., 18/3/2010, n. 6538; 9/3/2011, n. 5583; Cass., 23/5/2011, n. 11295, nonchè la citata Cass., 27/11/2012, n. 20991). Cass., Cass., Cass., Cass., L'obbligo di effettuare le visure ipocatastali incombe allora senz'altro al notaio officiato della stipulazione di un contratto di trasferimento immobiliare anche in caso di utilizzazione della forma della scrittura privata autenticata (v. Cass., 1V12/2009, n. 25270; Cass., 31/5/2006, n. 13015; Cass., 16/3/2006, n. 5868). Nè al fine di escluderne la responsabilità rilievo alcuno può invero riconoscersi alla circostanza che l'utilizzazione della forma della scrittura privata come nella specie risponda a scelta della parte, la quale si sia rivolta al notaio "per la autenticazione delle firme di una scrittura privata di compravendita" in precedenza da terzi o come nella specie da essa stessa redatta (diversamente v. peraltro Cass., 23/12/2004, n. 23934; Cass., 18/1/2002, n. 547. E già Cass., 22/3/1994, n. 2699; Cass., 6/4/1995, n. 4020; Cass., 20/1/1994, n. 475). La clausola di buona fede o correttezza ha infatti - come detto - valenza generale, e trova anche in tal caso applicazione. Orbene, dei suindicati principi la corte di merito ha nel l'impugnata sentenza fatto invero corretta applicazione. Nell'affermare la necessità di valutare se "nel caso specifico si possa ritenere sussistente una responsabilità del notaio appellante in relazione agli obblighi di diligenza media e di buona fede a cui lo stesso deve improntare la sua prestazione nell'interesse del cliente", tale giudice, facendo richiamo al precedente costituito da Cass. n. 5926 del 1993, ha infatti correttamente sottolineato come "per il notaio, richiesto della stipula di un atto di compravendita di un bene già gravato da una iscrizione ipotecaria, la preventiva verifica della libertà del bene costituisce, salvo l'espressa dispensa degli interessati, obbligo da ricomprendersi nel rapporto di prestazione di opera professionale: siffatto obbligo va adempiuto impegnando la diligenza ordinaria media rapportata alla natura della prestazione". La corte di merito ha dato quindi al riguardo risposta positiva in ordine alla sussistenza nella specie dell'obbligo di visura de quo, e negativa al corretto assolvimento del medesimo ("Nel caso in esame risulta che l'appellante notaio non abbia correttamente eseguito la prestazione contrattuale a favore degli appellati secondo la diligenza richiesta ad un professionista, mediamente preparato ed © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 159 avveduto, per avere omesso (non la visura) di riportare nell'atto - o di avvisare gli acquirenti che sul bene esistevano altre formalità pregiudizievoli oltre alla iscrizione dell'ipoteca della B.N.L.; ciò costituendo elemento che comportò la omessa indicazione del pignoramento gravante sul bene immobile all'epoca della stipula della compravendita"). Al riguardo ha argomentato dal rilievo che fosse "proprio il contesto specifico in cui veniva ad inserirsi l'atto negoziale demandato al notaio" che al medesimo imponeva "maggiore attenzione e scrupolo professionale nell'interesse primario dei clienti che a lui si erano rivolti anche se con una scrittura privata da sottoporre ad autenticazione". Non risultando nella specie esservi stato espresso esonero del medesimo dallo svolgimento delle attività accessorie e successive necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti, e in particolare dal compimento delle c.d. visure ipotecarie, la consapevolezza del notaio odierno ricorrente in ordine alla causa concreta del contratto richiestogli di rogare risulta quindi motivatamente desunta dalla accertata circostanza che "alla data di stipulazione dell'atto" di compravendita de quo gli fu consegnata somma di denaro per provvedere alla cancellazione di (altra) ipoteca che risultava iscritta sull'immobile de quo ("è illuminante ciò che la parte fece in presenza dell'ipoteca iscritta dalla Banca Nazionale del lavoro, avendo lasciato in deposito al notaio l'importo di L. 60 milioni affinchè fosse versato alla BNL ed in vista della cancellazione della predetta ipoteca. L'avere omesso di indicare in modo pieno e completo la situazione dell'immobile che all'epoca dell'atto risultava gravato da altra ipoteca e da un pignoramento immobiliare, non può essere considerato un adempimento completo e puntuale dell'obbligazione professionale gravante sul notaio appellante, tanto più se si considera che alla data di stipulazione dell'atto egli ricevette delle somme per poter tacitare la BNL ed impedire che essa potesse sfruttare la procedura esecutiva immobiliare già attivata dal Banco di S. Spirito presso il Tribunale di Livorno (che anche in presenza di una rinuncia del creditore procedente, poteva essere portata avanti dalla intervenuta creditrice BNL)": v. pag. 4 della sentenza impugnata). Del tutto correttamente la corte di merito ha quindi ritenuto che l'odierno ricorrente fosse, nella sua qualità, tenuto nel caso all'effettuazione delle visure in argomento, escludendo qualsivoglia rilevanza in contrario alla "circostanza che, nella specie, le parti avessero fatto ricorso al notaio per la autenticazione delle firme di una scrittura privata di compravendita", e che "anche in tale situazione il notaio ha l'obbligo di informare le parti e di evidenziare la situazione ipocatastale dell'immobile da compravendere". Con il 2^ motivo il ricorrente denunzia "nullità del procedimento ai sensi e per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., n. 4". Si duole che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto prescritta la garanzia assicurativa benchè "i documenti nn. 22 e 23 (nde. Le lettere datate 3 maggio 1991 e 20 maggio 1991), dai quali risulterebbe che i sig.ri G. avrebbero cominciato ad avanzare richieste risarcitorie nei confronti del notaio fin dal 1991, sarebbero risultati assenti dal fascicolo di parte dei sig.ri G.". Con il 3^ motivo denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si duole che la corte di merito abbia erroneamente fondato l'impugnata decisione sui documenti ritenuti indebitamente ritirati dal fascicolo di parte, senza al riguardo seguire "la procedura a tal fine prevista dal legislatore". © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 160 Con il 4^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si duole che la corte di merito abbia ritenuto decorsa la prescrizione pur essendosi le compagnie assicuratrici limitate a richiamare i documenti nn. 22 e 23 allegati dai sigg. G.. I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati. Va anzitutto osservato (avuto in particolare riguardo al 2^ motivo) che, come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, il ricorso per cassazione richiede, per ogni motivo di cui si compone, la redazione di una rubrica, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui il motivo medesimo - tra quelli espressamente previsti dall'art. 360 c.p.c., è proposto. E' altresì necessaria l'illustrazione del singolo motivo, con esposizione degli argomenti invocati a sostegno delle censure mosse alla sentenza impugnata e l'analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo quale espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (v. in particolare Cass., 19/8/2009, n. 18421). Risponde per altro verso a massima consolidata nella giurisprudenza di legittimità che i motivi posti a fondamento dell'invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla medesima, con - fra l'altro - l'esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo ove non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l'interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione in cui si assume essere incorsa la pronunzia di merito. E' cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del "fatto", sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v. Cass., 4/6/1999, n. 5492). Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (cfr., in particolare, Cass., 20/3/2006, n. 6091; Cass., 25/2/2004, n. 3803). Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322). La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 161 assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718). Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall'odierno ricorrente. Già sotto l'assorbente profilo dei requisiti ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, va posto in rilievo come esso faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., all'"atto di citazione del giorno 8 novembre 1994", all'"atto rogato dal notaio B.F.", alla transazione "con la B.N.L.", alla comparsa di costituzione del B., alla "sentenza n. 24072/04" del Tribunale di Roma, all'"atto di citazione in appello, notificato ai sig.ri G. in data 29 ottobre 2004", alla "comparsa del 23 febbraio 2005" di costituzione in grado di appello delle compagnie assicuratrici, all'"atto del 20 febbraio 2005" di costituzione in grado di appello dei G., ai "documenti... contenuti nel fascicolo processuale", alla "comparsa conclusionale del 19 novembre 2007"), di cui lamenta la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente - per la parte d'interesse in questa sede - riprodurli nel ricorso, ovvero, laddove riportati, senza puntualmente ed esaustivamente indicare i dati necessari al reperimento in atti degli stessi (v. Cass., Sez. Un., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass., 19/9/2011, n. 19069; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279. E da ultimo, Cass., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 6/11/2012, n. 19157). Come infatti da questa Corte - anche a Sezioni Unite - ripetutamente affermato, l'indicazione degli atti e dei documenti posti a fondamento del ricorso esige che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto, tale prescrizione ritenendosi soddisfatta qualora: a) il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purchè nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; b) il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l'indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di controparte, pur se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per il caso in cui la controparte non si costituisca in sede di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o lo produca senza documento; c) si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito, relativo alla nullità della sentenza od all'ammissibilità del ricorso (art. 372 p.c.) oppure di documento attinente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l'esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione del documento, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell'ambito del ricorso (v. Cass., Sez. Un., 25/3/2010, n. 7161; Cass., Sez. Un., 2/12/2008, n. 28547. Da ultimo v. Cass., Sez. Un., 3/11/2011, n. 22726). Ne consegue che il ricorrente non pone invero questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161). Quanto al 3 motivo, va posto ulteriormente in rilievo che la ricostruzione giuridica dei fatti quale compiuta dall'originario attore nella citazione introduttiva e nei successivi atti del 1^ grado di giudizio, sia le difese svolte nel corso del giudizio dalle controparti integrano invero quel "contegno delle parti nel processo" dal quale il giudice del merito ha la facoltà di desumere argomenti di prova ex art. 116 c.p.c., comma 2, (v. Cass., 23/2/1998, n. 1940). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 162 L'art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito il potere discrezionale di trarre elementi di prova dal comportamento processuale delle parti (v. Cass., 5/12/2011, n. 26088; Cass., 10/8/2006, n. 18128, e già Cass., 26/2/1983, n. 1503), e il comportamento (extraprocessuale e) processuale - nel cui ambito rientra anche il sistema difensivo adottato dal rispettivo procuratore - delle parti può in realtà costituire non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite ma anche unica e sufficiente fonte di prova, idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito, che con riguardo a tale valutazione è censurabile nel giudizio di cassazione solo sotto il profilo della logicità della motivazione (v. Cass., 26/6/2007, n. 14748). Orbene, come correttamente osservato dalle controricorrenti compagnie assicuratrici nei loro scritti difensivi, la corte di merito ha nell'impugnata sentenza fondato la decisione esclusivamente sul comportamento processuale ex art. 116 c.p.c., e tale ratio non risulta invero dal ricorrente idoneamente censurata. Il medesimo si è infatti limitato, da un canto, a proporre denunzia di violazione dell'art. 115 c.p.c., dolendosi del valore e del significato attribuito al contenuto di determinati documenti prodotti in giudizio e poi ritirati dal fascicolo (sostenendo che "in ogni caso, qualunque siano state le ragioni che hanno determinato l'assenza dal fascicolo di una parte di alcune sue produzioni documentali, queste ultime non possono essere considerate come tuttora acquisite al processo e, dunque, costituire materiale probatorio su cui il giudice possa fondare la propria decisione; l'organo giudicante è tenuto... a decidere esclusivamente in base alle prove effettivamente assunte, oltre che ai documenti sottoposti al suo esame, in quanto contenuti nel fascicolo processuale; ciò premesso, il ragionamento della corte territoriale nel ricostruire il contenuto delle missive de quibus è totalmente errato e contrario a diritto, ove si sia limitato a compiere tale ricostruzione utilizzando un meccanismo presuntivo, invece di disporre, ad esempio, la ricostruzione del fascicolo"). Per altro verso, ha meramente lamentato di non comprendere "in forza di quale principio o ragione" la corte di merito "abbia potuto opinare che possa ritenersi provato che i sig.ri G. e C. sin dal 1991 avessero sollecitato il notaio a farsi carico delle sue responsabilità... (cfr. sent. impugnata pag. 8)". Ciò il ricorrente ha fatto senza invero indicare argomento alcuno a sostegno della mossa censura, in ogni caso non estesa anche all'art. 116 c.p.c., al di là della mera ed erronea (stante quanto più sopra rilevato ed esposto) deduzione secondo cui "la Corte d'Appello ha ritenuto di dare per acquisita una specifica e decisiva prova documentale (nde. Lettere di messa in mora nei confronti dei notaio datate 3.5.91 e 22.5.91), sulla base, non già di una dichiarazione confessoria della parte, ma soltanto in forza di una condotta processuale... posta in essere dal difensore della parte medesima e che sicuramente non comporta in alcun modo il riconoscimento di altrui diritti e pretese". Non può d'altro canto al riguardo nemmeno sottacersi che, giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, il vizio di motivazione non può essere invero utilizzato per proporre un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità. Il giudizio di legittimità non è infatti un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi all'attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443). Le spese, liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza. P.Q.M. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 163 La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre ad accessori come per legge, in favore del G. e della C.; in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre ad accessori come per legge, in favore della società Allianz s.p.a. (già Lloyd Adriatico s.p.a.) e della società U.G.F. Assicurazioni s.p.a. (già S.I.A.D. s.p.a. e poi Meie Aurora s.p.a.). La funzione del notaio non si esaurisce nella mera registrazione delle dichiarazioni delle parti, ma si estende all'attività di consulenza, anche fiscale, nei limiti delle conoscenze che devono far parte del normale bagaglio di un professionista che svolge la sua attività principale nel campo della contrattazione immobiliare. Ne consegue che si rende responsabile della violazione dell'obbligo di cui all'art. 1176, secondo comma, cod. civ. il notaio che non svolga una adeguata ricerca legislativa (ed una successiva consulenza) al fine di far conseguire alle parti il regime fiscale più favorevole. Cass. civ. Sez. II, 13-01-2003, n. 309 Svolgimento del processo Con atto notificato il 14 marzo 1988 Simone Angeli conveniva il notaio Angelo Frillici davanti al Tribunale di Perugia ed esponeva: - che in relazione ad un atto di donazione stipulato il 20 settembre 1986 aveva corrisposto la somma di L. 9.000.000 al notaio convenuto, di cui lire 800.000 per onorari ed il resto per spese; - che, in realtà, le spese ammontavano a lire 4.700.000, di cui lire 3.300.000 per Invim; - che l'Invim non avrebbe dovuto essere pagata, in considerazione della qualità di coltivatori diretti delle parti dell'atto; sulla base di tali premesse l'attore chiedeva la condanna del convenuto alla restituzione di lire 6.500.000. Il notaio Angelo Frillici, costituitosi, deduceva che, in realtà, l'attore gli aveva corrisposto la somma di lire 8.700.000, la quale era destinata a coprire anche gli onorari relativi ad altri atti rogati per conto dell'attore. Per quanto riguardava l'Invim deduceva che non era suo compito accertare la sussistenza dei requisiti per l'esenzione da tale imposta e che la dichiarazione per ottenere l'esenzione doveva essere fatta dalla parte; ad ogni modo l'attore, se avesse presentato tempestivamente la domanda di rimborso, non avrebbe subito alcun danno a tale titolo. Con sentenza in data 23 maggio 1997 il Tribunale di Perugia riteneva che, in linea di principio, era ravvisabile una responsabilità del notaio per avere taciuto al cliente, o ignorato, l'esistenza di un beneficio fiscale, ma il danno non era conseguenza diretta di tale comportamento, in quanto avrebbe potuto essere evitato con la richiesta di rimborso. Contro tale decisione proponeva appello principale Simone Angeli. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 164 Il notaio Angelo Frillici proponeva appello incidentale, dolendosi del fatto che fosse stato ritenuto responsabile di negligenza professionale. Con sentenza in data 26 gennaio 2000 la Corte di Appello di Perugia rigettava l'appello incidentale ed accoglieva l'appello principale. I giudici di secondo grado ritenevano, in primo luogo, non provato che il notaio, a fronte di un assegno di lire 9.000.000 versatogli da Simone Angeli, avesse corrisposto a quest'ultimo un resto pari a lire 300.000. Ugualmente non era provato che Simone Angeli fosse obbligato a corrispondere al notaio Angelo Frillici gli onorari per atti diversi dalla donazione in data 20 settembre 1986. Uno di tali atti riguardava la vendita di una autovettura avvenuta circa due anni prima da parte del fratello di Simone Angeli, che, quale venditore, non era tenuto a pagare le spese; gli altri due atti erano successivi alla donazione in data 20 settembre 1986 ed alla emissione dell'assegno, oltre a non avere interessato Simone Angeli. I giudici di secondo grado confermavano a responsabilità professionale del notaio, ritenendo, peraltro, che erroneamente il Tribunale di Perugia aveva affermato che Simone Angeli avrebbe potuto agevolmente evitare il danno consistente nel pagamento dell'imposta non dovuto chiedendone tempestivamente il rimborso, in quanto la mancanza richiesta di esenzione contestuale all'atto gli aveva precluso la successiva possibilità di dimostrare l'esistenza dei requisiti per godere delle agevolazioni per la piccola proprietà contadina. In definitiva, pertanto, il notaio doveva restituire la differenza tra la somma di L. 9.000.000 e quanto Simone Angeli avrebbe dovuto effettivamente pagare a titolo di spese ed onorari. Contro tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il notaio Angelo Frillici, con otto motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso Simone Angeli. Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente ribadisce la sua tesi secondo la quale l'assegno di lire 9.000.000 era destinato a coprire anche le spese della vendita dell'autovettura del fratello (ed in proposito deduce che cliente del notaio in tal caso è il venditore la cui dichiarazione di vendita viene autenticata) dell'attore e dei due atti in data successiva, nei quali è vero che Simone Angeli non era parte, ma erano stati comunque rogati nell'interesse di suoi familiari. Il motivo è infondato. Nulla esclude in linea teorica che le spese relative ad atti notarili siano oggetto di accollo ad opera di un soggetto il quale sia rimasto estraneo alla loro stipulazione; nulla esclude, sempre in linea teorica, che un soggetto paghi in anticipo le spese di atti non ancora stipulati ed ai quali non è direttamente interessato. Della ricorrenza di tale ipotesi, però, il notaio deve fornire la prova e nella specie il ricorrente non chiarisce quali elementi, trascurati dai giudici di merito, deponevano in senso favorevole alla sua tesi. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 165 Con il secondo motivo il notaio Angelo Frillici, denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. deduce testualmente: La Corte di Appello di Perugia ha comunque errato nell'applicare l'art. 2697 c.c., quando non ha tenuto conto che il notaio Angelo Frillici aveva in ogni caso provato l'utilizzazione la somma di lire 9.000.000, versatagli a mezzo di un assegno a firma di Angeli Simone, per il pagamento di tasse e competenze inerenti ad atti della famiglia Angeli. Lo stesso appellante ha confermato che l'autovettura Volvo era stata venduta dal proprio fratello convivente Angeli Gregorio e che il pagamento delle imposte Invim, rispettivamente di lire 840.000 e lire 220.000, era stato effettuato per conto del padre convivente Angeli Giuseppe. Ai sensi dell'art. 2697 c.c., costituiva onere della controparte eccepire l'inefficacia di tali fatti, provando i fatti sui quali fondare l'eccezione. La controparte avrebbe almeno dovuto indicare chi in vece di Angeli Gregorio pagò le spese della vendita dell'autovettura e chi in vece di Angeli Giuseppe rimborsò al Notaio i versamenti Invim effettuati per i due atti di vendita. Il motivo è infondato, in quanto si basa su presupposti non solo non accertati, ma addirittura smentiti implicitamente dalla sentenza impugnata (l'utilizzazione della somma di lire 9.000.000, versatagli a mezzo di un assegno a firma di Angeli Simone, per il pagamento di tasse e competenze inerenti ad atti della famiglia Angeli) ed ipotizza un onere probatorio a carico di Simone Angeli (indicare chi in vece di Angeli Gregorio pagò le spese della vendita dell'autovettura e chi in vece di Angeli Giuseppe rimborsò al Notaio i versamenti Invim effettuati per i due atti di vendita) che manca di qualsiasi fondamento giuridico, dal momento che in base ai normali principi in tema di ripartizione dell'onere della prova spettava al notaio Angelo Frillici provare che l'assegno versatogli da Simone Angeli era destinato a coprire spese relative ad atti cui erano interessati i suoi familiari. Con il terzo motivo il ricorrente si duole della liquidazione degli onorari operata dai giudici di merito e deduce testualmente: La Corte di Appello di Perugia, dopo avere affermato che non è possibile ricostruire l'onorario dell'atto di cui è causa, perché confuso nella documentazione del notaio con altre prestazioni, ha ritenuto di poter determinare gli onorari spettanti al notaio Angelo Frillici, facendo riferimento allo schema di una fattura proforma rilasciata dal Consiglio Notarile di Perugia in data 23 aprile 1998. Tale documento è peraltro illegittimo e privo di qualsiasi efficacia in quanto non previsto dalla legge 16 febbraio 1913, n. 89 che, con l'art. 93, stabilisce le attribuzioni spettanti ai Consigli notarili. D'altra parte, la legge 5 marzo 1973 n. 41 ha attribuito al Consiglio nazionale notarile l'esclusiva potestà di determinare gli onorari, i diritti accessori e le indennità ed i criteri per il rimborso delle spese spettanti al notaio. Di conseguenza, la tariffa notarile, approvata dal Ministro di Grazia e Giustizia su deliberazione del Consiglio nazionale notariato, è l'unica fonte per la determinazione degli onorari, dei diritti e dei compensi dovuti al notaio per le sue prestazioni, nonché, per i rinvii operati dagli art. 15 N.T. e art. 29 della legge n. 1158 del 1954, delle quote di onorari spettanti alla cassa Nazionale Notariato e della tassa spettante agli Archivi notarili. In base a tali norme, la parcella non è costituita dai soli onorari graduali indicati dall'articolo 2 del DM 30 dicembre 1980 e rapportati al valore indicato nell'atto, ma comprende altri elementi, che © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 166 vanno determinati in relazione alla tipicità di ciascuna pratica e che necessitano di una indagine specifica dell'atto. Così l'articolo 28 concerne il rimborso delle spese e delle indennità d'accesso dovute in relazione alle prestazioni particolari accessorie compiute fuori studio, quali gli accessi per visure ipotecariecatastali, per trascrizioni e volture catastali quando, come nella fattispecie, gli uffici immobiliari e catastali sono situati in città diversa da quella ove è la sede del Notaio rogante. Così l'articolo 30 determina un complesso supplementare commisurato alle particolari caratteristiche e difficoltà della pratica svolta. A fondamento delle proprie eccezioni, la controparte avrebbe dovuto richiedere al Presidente del Consiglio notarile non uno schema generalizzato di fattura, ma, a norma dell'articolo 89 della legge 16 febbraio 1913 n. 89, un giudizio di congruità della parcella effettivamente emessa dal notaio Frillici. In ogni caso, la Corte di appello di Perugia avrebbe dovuto determinare gli onorari e le competenze del notaio Frillici unicamente applicando essa stessa la tariffa notarile in vigore. Il motivo è infondato, per la elementare considerazione che il ricorrente non indica in quali errori sarebbe incorsa la Corte di appello nella liquidazione degli onorari, ma si limita a criticare il metodo seguito. Con il quarto motivo il notaio ricorrente deduce che i giudici di merito non potevano affermare la sua responsabilità in ordine ad una attività (compilazione della dichiarazione relativa all'Invim) che la legge poneva a carico della parte. Il motivo è infondato, per l'assorbente considerazione che la responsabilità del notaio è stata affermata non per le modalità di compilazione della dichiarazione in questione, quanto per il fatto che il notaio non aveva reso edotto Simone Angeli del fatto che l'Invim, nella specie, non era dovuta. Con il quinto motivo il ricorrente deduce testualmente: La Corte di Appello di Perugia ha erroneamente deciso la causa applicando l'articolo 5 della legge 6 agosto 1954 modificato dall'art. 35 della legge 26 maggio 1965 n. 590 ed ha posto a fondamento della decisione la sentenza 7 settembre 1984 n. 4777 di Cassazione che a tale normativa si riferisce. La Corte di Appello di Perugia non ha considerato che la legge n. 604 del 1954 e la legge n. 590 del 1965 si riferiscono alle agevolazioni delle imposte di registro e trascrizione. Invece, oggetto della causa è l'applicazione dell'articolo 25, lett. d), del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643 relativa all'imposta Invim. Le due disposizioni hanno natura, destinatari, normative completamente diverse e producono conseguenze diverse. Il motivo è infondato. È vero che la sent. n. 4777/1984 di questa S.C. si riferisce alle agevolazioni fiscali in tema di imposta di registro ed ipotecaria, ma ciò non dimostra che, invece, in tema di Invim, è possibile ottenere la restituzione dell'imposta pagata ove non sia stata chiesta l'esenzione contestualmente alla stipulazione dell'atto. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 167 Secondo il ricorrente la norma in questione sarebbe costituita dall'art. 47, secondo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 637, al quale rinvia l'art. 19, primo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643. Si tratta di una tesi infondata. L'art. 19, primo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643, non rinvia espressamente all'art. 47, secondo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 637, ma si limita a stabilire che "in base agli elementi risultanti dalle dichiarazioni previste dall'art. 18, primo e terzo comma, l'ufficio accerta e riscuote l'imposta nei modi e nei termini stabiliti per l'imposta di registro o di successione". L'art. 47 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 637, poi, è norma speciale per la imposta di successione, prevedendo il rimborso non in relazione ad un errore iniziale nella corresponsione della stessa, ma per il venir meno, successivamente al suo pagamento, dei presupposti cui la stessa era ancorata. Con il sesto motivo il ricorrente deduce testualmente: La Corte di Appello di Perugia afferma che, per l'atto di donazione stipulato dai signori Angeli, dovevano senz'altro spettare i benefici fiscali previsti per favorire la piccola proprietà contadina, dal momento che la cessione si svolgeva nell'ambito di una famiglia di agricoltori, fatto di cui il notaio dava atto nello strumento. Tale affermazione è peraltro priva di qualsiasi fondamento in quanto, contrariamente a quanto sostengono la controparte e la Corte di Appello, non risulta dall'atto che le parti avessero la qualifica di "coltivatori diretti". Nell'atto ricevuto dal notaio Frillici, soltanto Angeli Giuseppe si è dichiarato "coltivatore diretto" mentre Angeli Simone e Gregorio si sono dichiarati "coltivatori". Fondamentale, per l'ottenimento della agevolazione fiscale di cui all'articolo 25, lettera d), del D.P.R. n. 643 del 1972 è la distinzione tra "coltivatore diretto" e "coltivatore". Il termine "Coltivatore diretto" identifica colui che è dedito alla lavorazione manuale della terra, si sensi della legge n. 604 del 1954 e della legge n. 590 del 1965: Il termine "coltivatore" identifica semplicemente l'imprenditore agricolo a titolo principale ex artt. 12 e 13 della legge n. 153 del 1975. Si contraddice, pertanto, la Corte di Appello di Perugia quando afferma che dallo stesso atto rogato dal notaio Frillici risulta che spettavano i benefici fiscali previsti per favorire la piccola proprietà contadina e, comunque, erra quando afferma che la semplice qualifica di agricoltore sia sufficiente per ottenere le agevolazioni previste dall'art. 25 del D.P.R. n. 643 del 1972. Il motivo è infondato, in quanto con esso si solleva una questione del tutto nuova. Nel giudizio di appello (v. comparsa conclusionale), infatti, l'attuale ricorrente aveva impostato le sue difese sotto il profilo che non vi era la prova che il trasferimento fosse avvenuto nell'ambito di una famiglia diretto-coltivatrice, come prescritto dall'art. 25 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643, ed aveva testualmente affermato: È evidente come la sussistenza e l'accertamento di tali requisiti non potesse essere dedotta dalla semplice dichiarazione di essere coltivatori e/o coltivatori diretti fatta dalle parti al momento della stipula dell'atto di donazione. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 168 Con il settimo motivo il ricorrente deduce che: a) 11 art. 18 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643 stabilisce che le parti che stipulano l'atto devono produrre la dichiarazione relativa all'Invim al notaio incaricato, il quale è solo obbligato alla presentazione della stessa ed al pagamento dell'imposta risultante; b) l'art. 25, lett. d), del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643 prevede l'esenzione per i trasferimenti nell'ambito di una famiglia diretto-coltivatrice ove sussistano determinati requisiti, da provare con una certificazione dell'Ispettorato Provinciale Agrario, che non può che essere rilasciata ad iniziativa della parte. Sulla base di tali premesse il notaio Angelo Frillici deduce che non poteva essere affermata la sua responsabilità in relazione al mancato compimento di attività che esulavano dai suoi compiti istituzionali e che gravavano sulla parte interessata ad ottenere l'agevolazione. Anche tale motivo è infondato. Nella specie, infatti, la responsabilità del notaio non è stata affermata in relazione alla violazione di obblighi istituzionali connessi alla redazione dell'atto pubblico, ma sul presupposto, pacifico nella giurisprudenza di questa S.C., secondo il quale la funzione del notaio non si esaurisce nella mera registrazione delle dichiarazioni delle parti, ma si estende alla attività di consulenza, anche fiscale, nei limiti delle conoscenze che devono far parte del normale bagaglio di un professionista che svolge la sua attività principale nel campo della contrattazione immobiliare. A tale proposito va sottolineato che nella specie l'esenzione fiscale era prevista nel testo fondamentale in tema di Invim e che è notorio che i coltivatori diretti godono di agevolazioni ai fini dalla formazione della piccola proprietà contadina, per cui un notaio accorto, chiamato a stipulare un atto in cui le parti interessate si dichiarano "coltivatori", ha l'obbligo, ai sensi dell'art. 1176 c.c., di svolgere una adeguata ricerca legislativa (e di successiva consulenza) al fine di far conseguire alle parti il regime fiscale più favorevole, ove per avventura, non fosse già a conoscenza dello stesso. Con l'ottavo motivo il notaio ricorrente deduce testualmente: Contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello di Perugia, i signori Angeli, nonostante la mancata richiesta della agevolazione fiscale con la denuncia Invim, se ed in quanto ne avessero effettivamente avuto diritto, come già aveva ritenuto il Tribunale di Perugia, avrebbero comunque potuto chiedere il rimborso dell'imposta pagata ai sensi dell'art. 47, comma 2°, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 637, cui fa rinvio l'art. 19, comma 1°, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643, se avessero presentato la necessaria domanda entro tre anni dal giorno dell'avvenuto pagamento. Il motivo è inammissibile, in quanto esso ha ad oggetto una questione che non risulta sollevata nel giudizio di merito. Il ricorso, pertanto, va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida nella somma di € 66,68 oltre € 1.000,00 per onorari. Roma, 31 ottobre 2002. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 169 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 170 10) Attività pericolosa e partita di calcetto Michelino, diciottenne, gioca spesso a calcetto con i propri amici. Durante una partita, a gioco fermo, Franceschino (maggiorenne) dava un calcio di punta al ginocchio di Michelino, che cadeva a terra dolorante. Ricoverato in ospedale, si riscontrava che Michelino – a causa del calcio di Franceschino – aveva una frattura. Michelino, allora, prendeva contatti con un avvocato. Il candidato, premessi brevi cenni sull’art. 2050 c.c., rediga motivato parere in ordine ad un’eventuale azione risarcitoria in favore di Michelino e contro Franceschino. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 10 In premessa, come richiesto, bisognava scrivere brevi cenni sull’art. 2050 c.c., che codifica la responsabilità da attività pericolosa: -si tratta di una fattispecie derogatoria rispetto al regime generale dell’art. 2043 c.c., che permette un’inversione dell’onere probatorio, in quanto il danneggiato può limitarsi a provare il danno, mentre spetterà al danneggiante provare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno; -è una fattispecie di responsabilità presunta; -sono attività pericolose per lo più quelle che contengono un’alta (rilevante) possibilità di subire danni. Premesso che Franceschino è responsabile dell’accaduto visto che ha cagionato un danno a gioco fermo, senza che possa operare alcuna scriminante/scusante (codificata e non), l’attività sportiva del calcetto è qualificabile come pericolosa? Se si risponde positivamente, allora Michelino potrà fruire del regime probatorio proprio dell’art. 2050 c.c.; se si risponde negativamente, allora Michelino non potrà utilizzare il regime probatorio dell’art. 2050 c.c., ma dovrà fruire di quello – più oneroso –dell’art. 2043 c.c. Si poteva rispondere negativamente; ciò in quanto: -l’attività di calcetto non può essere considerata pericolosa, in quanto la possibilità di subire danni è ridotta e non è fisiologicamente connessa al gioco normale, ma esclusivamente al suo esercizio abnorme; -non è attività pericolosa, tanto che nelle scuole viene tradizionalmente praticata ed esercitata da minori. Pertanto, Michelino potrà agire per il risarcimento danni (principalmente danno alla salute) contro Franceschino, utilizzando lo strumentario proprio della norma generale dell’art. 2043 c.c., dovendo così provare tutti gli elementi essenziali dell’illecito, ivi compreso il nesso di causalità (attiva). GIURISPRUDENZA RILEVANTE L'attività sportiva riferita al gioco del calcio non può ricondursi ad un'attività pericolosa rilevante nei termini di cui all'art. 2050 c.c., poiché trattasi di una disciplina che privilegia l'aspetto ludico, pur consentendo, con la pratica, l'esercizio atletico. Quando innanzi trova conferma nell'ulteriore circostanza che tale sport viene normalmente praticato all'interno delle scuole di tutti i livelli come attività di agonismo non programmatico finalizzato a dare esecuzione ad un determinato esercizio fisico. In tal senso, pertanto, l'infortunio occorso al giocatore nel corso di una partita di calcio, in assenza di qualsivoglia elemento idoneo a dimostrare la violazione di obblighi e cautele da parte della società sportiva, ovvero il verificarsi di un'azione anomala e/o in contrasto con le regole del gioco, deve ricondursi ad un normale incidente di gioco determinato da caso fortuito, in relazione al quale nessuna responsabilità può attribuirsi alla predetta società sportiva, ovvero al danneggiante. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 171 Cass. civ. Sez. III, 27-11-2012, n. 20982 Svolgimento del processo Nel febbraio del 2003 i genitori del minore R.D. evocarono in giudizio, dinanzi al tribunale di Monza, la società sportiva "La Dominante", lamentando che, nel corso di uno stage multisportivo organizzato nella città di (OMISSIS) (e in particolare nel corso di una partitella di calcio svoltasi a fine mattinata) il figlio era stato colpito al viso da una pallonata, riportando danni ai denti incisivi. Il giudice di primo grado accolse la domanda, condannando la convenuta al complessivo pagamento della somma di 7000 Euro, rigettandone la domanda di manleva proposta nei confronti della Vittoria Assicurazioni, chiamata in causa in corso di giudizio (giudizio che venne invece dichiarato estinto quanto al rapporto processuale tra La Dominante e le compagnie assicurative Milano e Sportass, a loro volta chiamate in causa). La corte di appello di Milano, investita del gravame proposto dalla società sportiva, lo accolse, rigettando la domanda risarcitoria avanzata dagli attori in prime cure. La sentenza è stata impugnata da R.D. in proprio - avendo raggiunto la maggiore età nelle more del giudizio - con ricorso per cassazione sorretto da 4 motivi di doglianza. Resistono con controricorso l'Inail (successore ex lege della Sportass), La Dominante e la Vittoria Assicurazioni (a sua volta ricorrente incidentale). Motivi della decisione I due ricorsi, principale e incidentale, sono infondati. Son infondati, in particolare, il secondo e quarto motivo del ricorso principale (in essi risultando assorbito il primo), mentre il terzo è inammissibile. IL RICORSO PRINCIPALE. Con il primo motivo, si denuncia, testualmente, nell'intestazione della doglianza: Art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione agli artt. 112 e 346 c.p.c.. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: E' o non è conforme a diritto gravare gi appellati che hanno chiesto il rigetto dell'appello dell'onere di censurare - i.e. di proporre appello incidentale - la sentenza di primo grado che abbia accolto la loro domanda disattendendo una diversa qualificazione della domanda stessa da loro proposta in primo espressamente riproposta in secondo grado? Con il secondo motivo, si denuncia: Art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all'art. 2050 c.c. - Violazione e falsa applicazione di norma di diritto: art. 2050 c.c.. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: Il gioco del calcio, insegnato presso società sportiva, rientra tra le attività pericolose ai sensi dell'art. 2050 c.c.? Con il quarto motivo, si denuncia: Art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all'art. 112 c.p.c., e art. 360, n. 3, in relazione all'art. 2697 c.c., art. 360, n. 5. Il motivo sì conclude con il seguente quesito di diritto: E' conforme a diritto considerare eccezionale e imprevedibile, e quindi riconducibile a fortuito, nel corso di una partitella tra giocatori di diversa età e potenza fisica e privi di specifica preparazione © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 172 tecnica, che una violenta pallonata colpisca al volto uno dei giocatori e gli procuri lesioni? Il secondo motivo va esaminato in via preliminare. Al suo rigetto consegue l'assorbimento della prima censura. Il rigetto del secondo motivo consegue alla inconfigurabilità del gioco del calcio in termini di attività pericolosa, come già affermato da questa corte regolatrice con la sentenza 1197 del 2007, a mente della quale deve escludersi che all'attività sportiva riferita al gioco del calcio possa essere riconosciuto il carattere di particolare pericolosità, trattandosi di disciplina che privilegia l'aspetto ludico, pur consentendo, con la pratica, l'esercizio atletico, tanto che è normalmente praticata nelle scuole di tutti i livelli come attività di agonismo non programmatico finalizzato a dare esecuzione ad un determinato esercizio fisico, sicchè la stessa non può configurarsi come attività pericolosa a norma dell'art. 2050 c.c.. A tale principio il collegio intende dare ulteriore continuità. Tale principio esclude implicitamente, per altro verso, la bontà della doglianza rappresentata alla Corte con il quarto motivo del ricorso, avendo il giudice territoriale, nel analiticamente i fatti, condivisibilmente affermato che, nella specie, non poteva legittimamente discorrersi che dì un normale incidente di gioco determinato da caso fortuito, per il quale - attesa l'assenza di qualsivoglia elemento idoneo a dimostrare la violazione di obblighi e cautele da parte della società sportiva, ovvero il verificarsi di una azione anomala e/o in contrasto con le regole del gioco - nessuna responsabilità poteva attribuirsi (nè alla società sportiva La Dominante, nè) al danneggiante, dell'età di circa 14 anni (e non di diciotto come erroneamente affermato dal giudice di prime cure). Con il terzo motivo, si denuncia: art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione agli artt. 2697 e 2043 c.c. - Omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio. La doglianza - prima ancora che infondata nel merito, poichè inammissibilmente volta a censurare le risultanze di fatto emergenti dalla sentenza dì secondo grado che, con motivazione scevra da errori logico-giuridici, ha esattamente ricostruito la dinamica dei fatti, cui il ricorrente pretende dì sovrapporne una diversa e a lui più favorevole, dimentico dei precisi limiti che assistono il giudizio di legittimità risulta inammissibile in rito, poichè in essa manca del tutto la - pur indispensabile ratione temporis - sintesi espositiva del motivo (sintesi che, per costante insegnamento di questo giudice di legittimità, costituisce il pendant del quesito di diritto funzionale alla denuncia dei vizi ex art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) così come imposta dal'art. 366 bis qualora si denunci alla corte - come nella specie - un decisivo difetto di motivazione. Non può trovare, infine, accoglimento l'unico motivo cui è affidato il RICORSO INCIDENTALE proposto dalla Vittoria assicurazioni in tema di spese di giudizio poichè, contrariamente all'assunto della compagnia assicurativa, la Corte territoriale ha fornito una idonea spiegazione (l'incertezza sulla copertura assicurativa del sinistro) della sua decisione di compensare quelle spese. Entrambi i ricorsi sono pertanto rigettati. La disciplina delle spese - che possono equitativamente essere compensate in questa sede - segue come da dispositivo. P.Q.M. La corte, decidendo sui ricorsi riuniti, li rigetta entrambi, e dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, il 3 maggio 2012. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 173 Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2012 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 174 11) Immissioni Francesco è proprietario dell’immobile Alfa, posto nelle vicinanze dell’immobile Beta di Francesca. Francesco faceva realizzare presso il proprio immobile un caminetto, la cui canna fumaria veniva direzionata verso la finestra della Camera da letto di Francesca. La realizzazione della canna fumaria si rivelava non conforme alle normative pubblicistiche. Il candidato individui gli eventuali strumenti di tutela in favore di Francesca, tenendo conto anche che accusava difficoltà respiratorie determinate dall’eccesso di immissioni di “aria nociva per la salute”. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 11 In premessa si poteva riassumere sinteticamente il fatto. Successivamente, il discorso andava inquadrato nell’ambito della tutela da immissioni ex art. 844 c.c.; la formulazione della traccia chiede di individuare strumenti di tutela, così pretendendo un taglio pratico/processuale/strategico e non una mera trattazione dell’istituto delle immissioni. Pertanto, l’interrogativo (implicito) presente nella traccia è: come può tutelarsi Francesca? Si ritiene che possano attivarsi due azioni in via cumulativa: -l’azione inibitoria, ex art. 844 c.c., chiedendo anche l’eliminazione o l’adeguamento alla normativa della canna fumaria; -l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., relativamente al danno alla salute subito causalmente dipendenti dalle immissioni nocive (difficoltà respiratorie). Il cumulo è ammissibile perché: -l’azione ex art. 844 c.c. ha natura reale e mira solo ad impedire la prosecuzione del fatto illecito (ratio); -l’azione ex art. 2043 c.c. ha natura obbligatoria e mira a riparare quanto ingiustamente arrecato ad altri (ratio). Pertanto il cumulo è giustificato: - dal fatto che la tutela, per essere davvero satisfattiva coerentemente con l’art. 24 Cost., deve mirare sia ad impedire la “perpetuatio” del danno, e sia risarcire quello già prodotto; - dal fatto che le due azioni presentano “ratio” diverse e, dunque, non vi è il rischio di duplicazione inutile o abusiva (c.d. divieto di abuso del diritto) di tutele. Sotto tali profili, Francesca ben potrà agire cumulando le due azioni citate. GIURISPRUDENZA RILEVANTE A conclusione del dibattito, può ritenersi consolidata in giurisprudenza la distinzione tra l'azione ex art. 844 c.c., e quella di responsabilità aquiliana per la lesione del diritto alla salute e, allo stesso tempo - ciò che maggiormente rileva in questa sede - l'ammissibilità del concorso delle due azioni. L'azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare. Nondimeno l'azione inibitoria ex art. 844 c.c., può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 c.c., nonchè la domanda di risarcimento del danno informa specifica ex art. 2058 c.c. Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-05-2013, n. 12828 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 175 Svolgimento del processo 1. La sentenza impugnata, per quanto interessa in questa sede, così riassume la vicenda processuale. "Con ricorso per manutenzione del possesso (...) Z.V. e Z.G.B., proprietari di un immobile sito in Comune di (OMISSIS), confinante con l'immobile di P.C., chiedevano la immediata cessazione delle turbative poste in essere da quest'ultimo con il funzionamento delle caldaie e del caminetto poste sul tetto del fabbricato e, quindi, che venisse posto fine alle immissioni e disposta la demolizione della canne fumarie. (...) Si costituiva in giudico P.C. il quale contestava la domanda di cui chiedeva il rigetto. Assumeva, in particolare, che le canne fumarie si trovavano a distanza di metri 11 (quella a servizio del camino), e di metri 7,70 (quella destinata allo sfiato della caldaietta a gas); eccepiva l'inammissibilità della domanda avanzata, fondata sul pregiudizio costituito dalle asserite immissioni di fumo e non dalla violazione delle norme sulle distanze; deduceva comunque l'infondatezza della pretesa in quanto l'impianto era perfettamente in regola, e l'assenza di prove certe e concrete della asserita nocività dei fumi. Con ordinanza in data 12 ottobre 2002 il Pretore di Bergamo rigettava il ricorso, ritenendo non dimostrata la nocività delle esalazioni (...). Con nuovo ricorso depositato in data 25 novembre 2002, Z.V. e Z.G.B. chiedevano, ai sensi degli artt. 669 septies e 669 decies c.p.c., l'adozione di provvedimenti cautelari idonei a far cessare le turbative dipendenti dall'utiliziamone delle canne fumarie. (...) Svolta attività istruttoria il Tribunale, con sentenza emessa nel marzo-aprile 2004, ha accolto la domanda condannando P. C. ad astenersi dall'utilizzare la stufetta e il caminetto a legna e quindi i camini relativi. Il Tribunale, considerando esperibile l'azione possessoria anche "di fronte al fenomeno delle immissioni", ha ritenuto, sulla base della consulenza tecnica espletata, che le immissioni di fumi ed odori (...) eccedevano la normale tollerabilità, da valutare rigorosamente data la vocazione residenziale del luogo e la destinazione dei locali dei ricorrenti ad abitazione (...). Avverso la predetta sentenza ha proposto appello P.C. lamentando l'erroneità e l'illogicità della decisione e la falsa applicazione delle norme di diritto con riferimento: al limite della normale tollerabilità come interpretato dal Tribunale: la previsione di cui all'art. 844, era di carattere oggettivo ed andava rapportata alla condizione dei luoghi, al contesto sociale e produttivo (...) all'entità degli interessi in conflitto.. alle concorrenti abitudini della popolazione dei luoghi. (...) La reciprocità dei diritti e degli obblighi dei proprietari dei fondi contemplata dall'art. 844 c.c., non era stata presa nella giusta considerazione dal Tribunale che, con la decisione adottata, aveva dato preminenza... all'immobile di proprietà degli appellati... finendo per abbassare del tutto inopinatamente, la soglia della normale tollerabilità. (...). Si sono costituiti in giudizio Z.V. e Z. G.B. i quali hanno resistito all'appello avanzato (...) e, in via di appello incidentale, hanno chiesto che venisse disposta la chiusura dei camini per cui è causa". 2. La Corte territoriale rigettava l'appello principale ed accoglieva quello incidentale. Riteneva che "l'accensione delle stufe collegate ai camini di cui si discute crea nell'abitazione dello Z.c. che superano la normale tollerabilità". Rilevava che non era necessario "per integrare il superamento dei limiti della normale tollerabilità, la creazione di una condizione di provata nociuta...e quindi di effettiva lesione dell'integrità fisiopsichica", in quanto "la tutela del diritto alla salute dell'appellato si concretista anche nel diritto a © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 176 condizioni di salubrità dell'ambiente in cui esplica la sua vita, e postula l'adozione dei provvedimenti idonei ad evitare che si verifichino condizioni che la pongano anche soltanto potenzialmente a rischio. La presenza di odori e gas nocivi... costituisce, indubbiamente, violazione dei diritti (alla salute ed al libero godimento dell'immobile) fatti valere dallo Z.". Osservava poi la Corte territoriale che "rispetto a questa situazione è del tutto ininfluente la eventuale regolarità della realizzazione dei camini di cui si discute". La Corte territoriale accoglieva, infine, l'appello incidentale relativo alla richiesta di rimozione o quantomeno di chiusura dei camini, osservando che "la difficoltà della esecuzione di un ordine di astensione, rispetto a cui la reazione dell'ordinamento rischia di essere decisamente tardiva, giustifica pienamente la domanda". 3. Impugna tale sentenza il ricorrente, il quale articola quattro motivi di ricorso. Resistono gli intimati con controricorso. Le parti hanno depositato memorie. Motivi della decisione 1. Il ricorso è infondato e va respinto. Prima di esaminare analiticamente i motivi di ricorso, appare opportuno richiamare i punti significativi della decisione impugnata. La Corte territoriale ha osservato che "la tutela della salute nei rapporti privati richiede accertamento, caso per caso, della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività per lo svolgimento della vita di ogni soggetto interessato. Nel caso concreto (...) l'accensione delle stufe collegate ai camini di cui si discute crea nell'abitazione dello Z. condizioni che superano la normale tollerabilità. Infatti il c.t.u., all'esito delle indagini svolte (...) ha accertato che nell'abitazione della Z. era presente un odore proveniente dai fumi di scarico in atmosfera dai comignoli posti sulla copertura del tetto della casa sottostante (...), monossido di carbonio (...) e ha concluso affermando che l'uso dei camini causarono inquinamento da sostarne chimiche all'interno dell'abitazione dello Z.". Osserva, quindi, la Corte territoriale che "Le critiche mosse dall'appellante non scalfiscono le acquisizioni istruttorie del giudizio di primo grado e la corretta valutazione del Tribunale inevitabilmente discendente dalle prove raccolte: innanzitutto è agevole osservare che la presenta di odore è imprescindibilmente legata alla presenta della sostanza da cui l'odore stesso promana; la rilevazione di gas nocivo all'interno dell'abitazione, poi, indipendentemente dalla durata di tale accertamento, è indice della situazione di degrado che si crea nell'immobile dello Z. quando sono utilizzati i camini per cui è causa. Non è certo necessario, per integrare il superamento dei limiti della normale tollerabilità, la creazione di una condizione di provata nociuta (che nel caso in esame sarebbe esclusa dagli accertamenti dell'ASL competente) e quindi di effettiva lesione dell'integrità fisiopsichica: la tutela del diritto alla salute dell'appellato si concretizza anche nel diritto a condizioni di salubrità dell'ambiente in cui esplica la sua vita, e postula l'adozione dei provvedimenti idonei ad evitare che si verifichino condizioni che la pongano anche soltanto potenzialmente a rischio. In presenza di odori e gas nocivi, qualunque sia la loro concentrazione, in locali destinati alla abitazione e quindi, come esattamente rilevato dal Giudice di primo grado, in luoghi in cui si esplica la dimensione esistenziale prevalente dell'uomo costituisce, indubbiamente, violazione dei diritti (alla salute ed al libero godimento dell'immobile) fatti valere dallo Z.. (...) dispetto a questa situazione è del tutto ininfluente la eventuale regolarità della realizzazione dei camini di cui si discute: infatti, © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 177 come opportunamente sottolineato dal Tribunale, la posizione delle due abitazioni è tale per cui anche l'eventuale innalzamento dei camini (nell'ipotesi di altezze non regolari) non risolverebbe il problema del convogliamento dei fumi derivanti dalla combustione verso l'abitazione degli appellati". 2. - I motivi del ricorso. 2.1 - Col primo motivo di ricorso si deduce: "violazione e falsa applicazione degli artt. 1170, 844 e 2043 c.c., e art. 703 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa motivazione con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5". Osserva il ricorrente che "la Corte d'Appello di Brescia, nella propria motivazione, sostanzialmente, fa esclusivo riferimento alla violazione del diritto alla salute, sostenendo la valenza della decisione del giudice di prime cure, che ha reputato l'accensione delle stufe alimentate con legna, collegate ai camini in discussione, come circostanza che determina la presenta di esalazioni, che superano la normale tollerabilità, nell'abitazione dei convenuti. La Corte, tuttavia, non ha motivato sul punto, pur sollevato, secondo cui il giudizio verte in tema di immissioni e non anche di diritto alla salute, per la cui tutela si sarebbe dovuta esperire azione risarcitoria avente carattere personale e non reale". Rileva, altresì, il ricorrente che la tutela della lesione del diritto alla salute richiede una domanda autonoma e distinta (Cass. 1995 n. 1003, Cass. Sezioni unite 1998 n. 10186). Viene formulato il seguente quesito: "Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte se il diritto alla salute possa essere tutelato con l'azione di manutenzione del possesso esperita con riferimento alla violazione dell'art. 844 c.c., in tema di immissioni". 2.2 - Il motivo è infondato quanto alla dedotta violazione di legge e inammissibile, e comunque infondato, quanto al dedotto vizio di motivazione. Quanto alla violazione di legge, in via generale occorre osservare che questa Corte fin dall'arresto citato dal ricorrente (Sez. U, Sentenza n. 10186 del 15/10/1998, Rv. 519722), ha precisato gli stretti rapporti intercorrenti tra azione a tutela della proprietà in conseguenza di immissioni e azione a tutela delle lesioni al diritto alla salute in conseguenza di immissioni oltre il consentito ex artt. 2043 e 2058 c.c.. Al riguardo, ha affermato che "le propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite della normale tollerabilità costituiscono un fatto illecito perseguibile, in via cumulativa, con l'azione diretta a farle cessare (avente carattere reale e natura negatoria) e con quella intesa ad ottenere il risarcimento del pregiudizio che ne sia derivato (di natura personale), a prescindere dalla circostanza che il pregiudizio medesimo abbia assunto i connotati della temporaneità e non della definitività" (Cass. n. 7420 del 2000 - Rv. 537210). Nella motivazione le Sezioni Unite, affrontando il tema del concorso delle azioni e della tutela apprestabile, hanno concluso come segue: "A conclusione del dibattito, può ritenersi consolidata in giurisprudenza la distinzione tra l'azione ex art. 844 c.c., e quella di responsabilità aquiliana per la lesione del diritto alla salute e, allo stesso tempo - ciò che maggiormente rileva in questa sede - l'ammissibilità del concorso delle due azioni. L'azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare (Cass., Sez. II, 23 marzo 1996, n. 2598; Cass., Sez. 2^, 4 agosto 1995, n. 8602). Nondimeno l'azione inibitoria ex art. 844 c.c., può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 c.c., nonchè la domanda di risarcimento del danno informa specifica ex art. 2058 c.c. (Cass., Sez. Un. 9 aprile 1973, n. 999)". La Corte territoriale non ha fatto altro che applicare tale condiviso principio, ritenendo che gli odierni resistenti abbiano esperito l'azione inibitoria ex art. 844 c.c.... per conseguire la cessazione delle © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 178 esalazioni nocive alla salute. Nessuna violazione di legge, quindi, ma soltanto applicazione della stessa in conformità a principi da tempo affermati da questa Corte. Il dedotto vizio di motivazione risulta inammissibile, perchè avanzato senza il necessario momento di sintesi richiesto dall'art. 366 bis, ratione temporis vigente, e comunque è infondato avendo la Corte di merito chiarito, per quanto sopra riportato, di aver ricondotto l'azione proposta nel solco dell'art. 844 c.c., a tutela del diritto alla salute. 3.1 - Col secondo motivo di ricorso si deduce: "Violazione o falsa applicazione dell'art. 844 c.c., del regolamento locale d'igiene della regione Lombardia punto 3.4.43 e D.P.R. n. 1391 del 1970 punti 6.15 e 6.17, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5". Osserva il ricorrente che la "normale tollerabilità" non è un criterio assoluto, ma variabile. Il limite della normale tollerabilità, posto dall'art. 844 c.c., costituisce "criterio oggettivo", da verificarsi in relazione alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo nel quale si svolge l'attività che si assume lesiva e degli interessi in conflitto, nonchè alle concorrenti abitudini della popolazione del luogo. L'indagine non può prescindere dalla condizione di luoghi, intesa sotto il profilo sociale e cioè in relazione al carattere delle attività normalmente svolte in una determinata zona. La collocazione dell'art. 844 nel capo secondo del codice civile testimonia come "dette norme siano state previste per disciplinare i rapporti tra proprietari dei fondi vicini, avendo presente la necessità di stabilire diritti ed obblighi reciproci dei proprietari di immobili". Tale reciprocità non è stata considerata dalla Corte d'appello, che ha finito per "dare preminenza all'immobile dei ricorrenti, abbassando inopinatamente la soglia della normale tollerabilità, senza addurre alcuna giustificazione e senza apportare alcuna motivazione". Sia il giudice di prime cure, sia la Corte territoriale hanno dato una lettura dell'art. 844 c.c., che "trasforma il concetto di tollerabilità in sinonimo di lesività dei diritti personali dei proprietari confinanti", omettendo di considerare uno dei criteri che la norma impone di osservare: la valutazione dello stato dei luoghi. In particolare la Corte non aveva considerato che "le abitazioni sono situate in un Comune di montagna, dove le case sono normalmente a dislivello e dove tutti posseggono camini alimentati con legna da ardere o utilizzino cucine economiche funzionante a legna". I giudici dei due gradi avevano "omesso di considerare che il criterio adottato dalla norma per operare il bilanciamento tra le diverse situazioni soggettive dei proprietari interessati è quello... della maggiore utilità sociale". La previsione legislativa di un obbligo di sopportazione, in rapporto alla condizione dei luoghi, costituisce l'applicazione di un più ampio principio di solidarietà nell'interesse comune, garantito dalla Costituzione in misura non minore del diritto alla salute". Ad essere comparate devono essere le esigenze abitative dei due nuclei familiari, "esigenze aventi pari dignità". Secondo il ricorrente, "non è stata tenuta in alcuna considerazione l'accertata mancanza di nociuta delle esalazioni, la conformità dei camini alle norme del regolamento locale di igiene ed il rispetto delle distanze legali". Viene formulato il seguente quesito: "Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte: a) se il parametro della normale tollerabilità di cui all'art. 844 c.c., debba avere carattere obiettivo o soggettivo; b) se il giudizio sulla tollerabilità o intollerabilità delle immissioni debba essere affidato a valutazioni condotte in termini relativi, rispetto allo stato dei luoghi; c) se il limite della normale tollerabilità posto dall'art. 844 c.c., debba essere stabilito in relazione alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo, nel quale si svolge l'attività che si assume lesiva, all'entità degli interessi in conflitto, nonchè alle concorrenti abitudini della popolazione del luogo in cui l'emissione avviene; d) se il criterio della normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c., comma 2, debba ritenersi operante non solo quando concorrano proprietà e produzione, ma anche tra situazioni soggettive dei proprietari, in relazione al principio della maggior utilità sociale e in rapporto alla condizione dei luoghi, in applicazione di un più ampio principio di solidarietà nell'interesse comune, costituzionalmente garantito; e) se il giudice, nella valutazione del criterio della normale tollerabilità, © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 179 debba comparare il diritto alla salute con il diritto all'abitazione, tenendo conto dello stato dei luoghi, degli usi e delle abitudini locali e della regolarità delle fonti delle presunte emissioni lesive del diritto alla salute rispetto alle norme previste dal Regolamento locale di Igiene, della conformità edilizio urbanistica dell'opera e del rispetto delle distante legali; f) se il Giudice possa porre a fondamento della sua decisione situazioni di fatto difformi da quelle previste dalla norma che intende applicare". 3.2. - Il motivo è infondato. Il giudice di merito, nella sua valutazione, ha tenuto conto di tutte le argomentazioni esposte dal ricorrente (contrasto tra analoghe situazioni abitative, località montana, conformità dei camini alla disciplina edilizia ed al regolamento sanitario) e ha poi ha valutato se le esalazioni riscontrate rientrassero o meno nella "normale tollerabilità" sulla base delle emergenze istruttorie, in particolare sulla base della espletata CTU. Con riguardo al carattere relativo della nozione della tollerabilità (quesiti lettere da a ad è), la Corte territoriale non ha fatto altro che applicare i principi affermati da questa Corte (di recente con Cass. n. 3438 del 2010, Rv. 611513), secondo la quale "Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma è relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti; spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa". La Corte, infatti, ha analizzato la specificità della situazione, nella quale l'uso dei camini del ricorrente, in relazione alla posizione dei relativi immobili, ove pure in regola con la normativa urbanistica e sanitaria, determinava il fenomeno delle immissioni, da valutarsi in concreto rispetto alla norma codicistica, restando solo da accertare il superamento della normale tollerabilità. E' appena il caso di osservare, infatti, da un lato, che le immissioni conseguenti a violazioni delle norme pubblicistiche determinano "un'attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d'essere l'imposizione di un sacrificio, ancorchè minimo, all'altrui diritto di proprietà o di godimento, sicchè non essendo applicabili i criteri dettati dall'art. 844 c.c., viene in considerazione unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi secondo lo schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'art. 2043 c.c." (Cass. n. 10715 del 2006, Rv. 590127) e che, dall'altro, il rispetto dei limiti imposti dalle norme pubblicistiche non ha rilievo nei rapporti tra proprietà, avendo invece rilievo solo con riguardo alla sfera pubblicistica. Tali disposizioni, infatti, non escludono l'applicabilità, nè dall'art. 844 c.c., nè degli altri principi che tutelano la salute nei rapporti interprivati, che richiedono l'accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività. Quindi, la Corte territoriale ha applicato correttamente i principi di diritto elaborati da questa Corte con riguardo alla applicazione dell'art. 844 c.c., nella sua interpretazione costituzionalmente orientata da tempo consolidatasi e, nel caso di specie, nel conflitto tra due proprietà e delle relative modalità di esplicazione del diritto (uso del camino e tutela della salute), ha correttamente ritenuto di dare la prevalenza a quest'ultimo per il maggior rilievo che assume la tutela della salute rispetto ad una delle possibilità modalità di fruizione e di godimento della proprietà privata. Sicchè non sussiste, come si è detto, la violazione di legge denunciata, restando generico il quesito articolato sub lett. f (se il Giudice possa porre a fondamento de Ih sua decisione situazioni di fatto difformi da quelle previste dalla norma che intende applicare). Quanto alla cesura relativa al vizio di motivazione, essa risulta anche in questo caso inammissibile, per le medesime ragioni esposte nell'esame del primo motivo, ed, in ogni caso, infondata, trattandosi di valutazione (quella della "normale tollerabilità") riservata al giudice e censurabile in cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione, che nel caso in questione non sussiste. Al riguardo, occorre, in proposito, precisare che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito dell'intera vicenda processuale © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 180 sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento. Di conseguenza il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte. Cass. S.U. n. 13045/97 e successive conformi) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logicogiuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 c.p.c., n. 5) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata. Tale revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. Nè, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se - confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie - prendesse d'ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso "sub specie" di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, il citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. (Cass. n. 4766 del 06/03/2006 - Rv. 587349). In definitiva, le censure concernenti vizi di motivazione devono indicare quali siano i vizi logici del ragionamento decisorio e non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (Cass. n. 12467 del 25/08/2003 - Rv. 566240). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. n. 20322 del 20/10/2005 - Rv. 584541). Nel caso in questione, il ricorrente non formula precise censure nei termini su indicati, ma si limita ad una propria valutazione del materiale istruttorio (CTU), prospettando una conclusione diversa da quella della Corte di merito. 4.1 - Col terzo motivo di ricorso si deduce: "Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5". © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 181 Il ricorrente osserva che il CTU "concludeva per la irregolarità dei camini, in quanto, a suo giudizio, avrebbero dovuto sovrastare di un metro il colmo del tetto, sul presupposto che la documentazione fotografica allegata agli atti conferma che i camini non rispettano le prescrizioni del Regolamento di Igiene tipo, L.R. 26 ottobre 1981, n. 64, ex art. 53, (norma che imponeva il sovrano di un metro dal colmo del tetto ai parapetti in presenta di ostacoli a distanza inferiore a 10 metri)". Tale conclusione, ad avviso del ricorrente, è errata perchè "il CTU applicava una norma del Regolamento Locale di Igiene non più in vigore, essendo stata superata dal successivo regolamento pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia in data 25.10.1989 (in atti), il cui contenuto impone un sovralzo di 40 cm dal colmo del tetto, quando vi siano ostacoli a distanza inferiore di 8 metri. Soltanto quest'ultimo regolamento doveva essere considerato ai fini della valutazione della conformità dei camini de quibus alle prescrizioni vigenti, non quindi il Regolamento considerato dal C.T.U., in quanto abrogato, e, neppure la disposizione di cui al punto 6.15 dell'art. 6 del D.P.R. 1391 del 22.12.1970, a cui pure fa riferimento il perito d'ufficio, in quanto norma applicabile ai soli impianti termici (esclusi, quindi, per sua stessa ammissione, camini e stufe) di potenzialità superiore alle 30.000 kcal/h". Rivela il ricorrente ancora che "i camini sulla proprietà P. distano dall'abitazione dei ricorrenti più di 10 metri" e conclude il motivo, osservando che in presenza di specifiche osservazioni delle parti, "il giudice del merito è tenuto a fornire un'adeguata motivazione così della sua adesione alle argomentazioni ed alle consequenziali conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, come del mancato ricorso ad un supplemento o ad un rinnovo della consulenza tecnica d'ufficio". 4.2 - La questione del rispetto delle distanze, della regolarità urbanistica dell'immobile del ricorrente e della applicabilità della normativa sanitaria in materia, resta assorbita dalle considerazioni svolte nel rigetto del precedente motivo. 5.1 - Col quarto motivo di ricorso si deduce: "violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342 e 345 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 4". Osserva il ricorrente che "Gli appellati hanno formulato appello incidentale del seguente letterale il motivo per cui chiediamo la rimozione o quantomeno la chiusura dei camini a legna è dovuto al fatto che gli stessi sono abusivi in quanto mai approvati dalla Commissione Edilizia e ancor peggio mai progettati. Altro motivo è legato al fatto che lo stesso P. non ha sempre rispettato il divieto di utilizzo imposto dalla sentenza accendendo il camino in tarda serata in modo che nessun passante sulla strada potesse vedere il fumo, ad esclusione dello Z., che tanto potrebbe fornire prove per testi". La Corte territoriale sul punto ha accolto l'appello incidentale così motivando: "La difficoltà della esecuzione di un ordine di astensione, rispetto a cui la reazione dell'ordinamento rischia di essere decisamente tardiva, giustifica pienamente la domanda". Secondo il ricorrente, si trattava di una domanda nuova, sulla quale non era stato accettato il contraddittorio, fondata su motivi privi di specificità e su affermazioni che risultavano non vere e comunque smentite dalla documentazione in atti (regolarità amministrativa dei camini). Viene formulato il seguente quesito: "Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte: a) se l'appellante incidentale, nel proporre l'appello, al fine di assolvere all'onere della specificazione dei motivi d'appello previsto dall'art. 342 c.p.c., debba esprimere articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado; b) se l'appellante incidentale, nel dedurre i motivi d'appello, debba comunque formulare espressa censura su un punto decisivo della controversia, sul quale il giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi; c) se il giudice possa emettere una statuizione basando la decisione su fatti costitutivi dedotti per la prima volta in appello e/o su fatti costitutivi diversi da quelli dedotti, sforniti di prova". © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 182 5.2 - Anche tale ultimo motivo è infondato, posto che il giudice d'appello, investito della questione dell'applicabilità al caso in questione dei principi civilistici in materia d'immissioni, non ha considerato le questioni, in tesi nuove, della conformità o meno dei camini alle prescrizioni pubblicistiche, avendo, come detto, fatto applicazione dei principi da tempo affermati da questa Corte al riguardo e sopra riportati. Nè l'appello è carente di specificità, essendo sufficientemente indicate le ragioni della decisione impugnata e le richieste dell'appellante (appunto l'adozione di idonei strumenti atti ad evitare le immissioni). Nè, ai fini della decisione in concreto resa per evitare le immissioni, la Corte territoriale ha fatto riferimento ai fatti, che, secondo il ricorrente, sarebbero stati dedotti dagli appellanti per la prima volta in appello. Richiesta di un provvedimento adeguato alla soluzione del problema, la Corte ha operato una scelta di merito, non censurabile in questa sede, perchè adeguatamente motivata. 6. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 2.500,00 (duemilacinquecento) Euro per compensi e 200,00 (duecento) Euro per spese, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 febbraio 2013. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2013 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 183 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 184 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 185 12) Prescrizione e danni lungolatenti In data 17.7.2002, Michele intratteneva rapporti sessuali non protetti con Mikaela, in Bologna presso l’Hotel Fortunitas di Via Zamboni. Dopo il rapporto occasionale, Michele non aveva più incontrato Mikaela. Nel 2013, Michele iniziava a manifestare alcuni sintomi strani e si recava in ospedale per controlli, dove gli veniva diagnosticato di essere affetto da HIV. Michele faceva un giro di telefonate e veniva a sapere che Mikaela, al momento del rapporto sessuale, era affetta da Hiv. Michele si recava da un legale, al quale raccontava in fatti manifestando anche la preoccupazione dell’eventuale maturata prescrizione dell’azione risarcitoria. Il candidato, assunte le vesti del legale, rediga motivato parere sulla questione proposta. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 12 In premessa, si poteva schematizzare il fatto. Successivamente, il discorso andava inquadrato nell’ambito della prescrizione; considerando che il diritto al risarcimento del danno da illecito si prescrive in cinque anni, Michele è ancora in tempo per agire fruttuosamente? Se si lega il dies a quo al momento causativo (17.7.2002), allora sarà maturata la prescrizione; diversamente, se si lega il dies a quo al momento percettivo o di manifestazione esterna (2013), allora non sarà maturata la prescrizione. Come va decodificato l’art. 2947 c.c., laddove afferma che la prescrizione inizia a decorrere “dal giorno in cui il fatto si è verificato”? Per la tesi del dies a quo ancorato al momento causativo, si afferma che: -l’art. 2947 c.c. parla di fatto, ed il fatto antigiuridico coincide con il momento causativo; nel caso in esame con il 17.7.2002; -anche l’art. 2043 c.c. attribuisce molta importanza al momento fattuale e non percettivo (“qualunque fatto doloso o colposo”); -se sussistono dubbi interpretativi, bisogna privilegiare la tesi più coerente con la ratio della prescrizione che è quella di attribuire certezza ai rapporti giuridici; il momento certo è quello del fatto e non della conoscenza dei danni derivanti dallo stesso che può mutare da soggetto a soggetto ed è pure difficilmente controllabile; -diversamente opinando si rischierebbe di avere una prescrizione sine die. E’ più condivisibile la tesi che lega il dies a quo al momento conoscitivo (2013), con la conseguenza pratica che Michele potrà ancora agire in via risarcitoria. Ciò in quanto: -il fatto a cui si riferisce l’art. 2947 c.c. è quello di cui all’art. 2043 c.c., inerente anche gli effetti della condotta; pertanto, il fatto si completa al momento della produzione dei danni e della loro conoscenza; -diversamente opinando verrebbe vulnerato in concreto il diritto di difesa ex art. 24 Cost., perché il danneggiato si vedrebbe prescritta l’azionabilità del suo diritto senza alcuna colpa. Alla luce dei citati rilievi, pertanto, Michele potrà agire contro Mikaela per il risarcimento danni patrimoniali e non patrimoniali. GIURISPRUDENZA RILEVANTE La prescrizione non necessariamente decorre dalla data in cui il fatto si è verificato nella sua materialità e realtà fenomenica, ma piuttosto dal momento in cui esso si evidenzi all'esterno con tutti i connotati che ne determinano l'illiceità. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 186 Cass. civ. Sez. III, Sent., 04-06-2013, n. 14027 Svolgimento del processo Con sentenza n. 3707/2006, depositata il 3 dicembre 2006, la Corte di appello di Napoli ha respinto la domanda di risarcimento dei danni proposta ai sensi dell'art. 33 legge 10 ottobre 1990 n. 287 da S. W. contro la s.p.a. Axa Assicurazioni, a seguito del Provvedimento 28 luglio 2000 n. 8546 dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), che ha inflitto sanzioni ad un largo numero di società assicuratrici, fra cui AXA, per avere posto in essere un'intesa orizzontale, nella forma di una pratica concordata, consistente nello scambio sistematico di informazioni commerciali sensibili tra imprese concorrenti, con riferimento alle polizze di RCA. L'Autorità garante ha altresì rilevato che detta pratica ha comportato un notevole incremento dei premi, nel periodo interessato dal comportamento illecito (anni 1994 - 2000), con riferimento sia al livello in vigore prima del 1994, anteriormente alla liberalizzazione delle tariffe; sia alla media dei premi sul mercato Europeo, che è risultata inferiore di circa il 20% rispetto alla media dei premi praticati in Italia. L'odierna ricorrente - avendo concluso con Axa, nel periodo indicato, varie polizze di assicurazione RCA - ha chiesto il risarcimento dei danni nell'importo di Euro 269,96, pari al 20% dei premi versati dal 23.4.1996 al 23.10.2000 quale corrispettivo delle suddette polizze. La domanda è stata rigettata per intervenuta prescrizione, quanto ai premi pagati fino al 23.10. 2000, e per mancanza di prova del nesso causale fra l'illecito sanzionato dall'AGCM e l'incremento dei premi, quanto ai pagamenti successivi. La S. propone due motivi di ricorso per cassazione. Resiste Axa con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione 1.- La sentenza impugnata - premesso che nella specie è applicabile il termine di prescrizione stabilito dall'art. 2947 c.c., per l'illecito civile, e non quello di cui all'art. 2952 c.c., relativo ai diritti derivanti dal contratto di assicurazione, come affermato dalla convenuta - ha ritenuto che il termine debba farsi decorrere dalla data in cui sono stati effettuati i pagamenti dei premi ritenuti eccessivi, e non dalla data in cui la danneggiata ha avuto notizia dell'illecito, tramite la pubblicazione del Provvedimento n. 8546/2000 dell'AGCM. Ha addotto a motivazione che la norma dell'art. 2935 c.c., considera impeditive della decorrenza della prescrizione solo le cause giuridiche che rendono impossibile l'esercizio del diritto; non gli ostacoli di mero fatto, e tale deve considerarsi la mancata conoscenza dell'intesa fra le compagnie, dalla quale è derivato l'indebito incremento dei premi. Ha pertanto dichiarato prescritto il diritto al risarcimento dei danni, con riferimento alle somme pagate dall'assicurata oltre cinque anni prima del 18.11.1999, data del primo atto di costituzione in mora. Quanto all'unico pagamento successivo a tale data, ha respinto la domanda sul rilievo che non è stata offerta la prova che gli aumenti dei premi siano stati effettivamente causati dall'intesa sanzionata dall'AGCM. Ha rilevato che l'Autorità garante si è limitata ad accertare la potenzialità lesiva dello scambio di informazioni, senza concretamente accertare se ne sia effettivamente derivato il lamentato rialzo dei premi assicurativi; che la mera produzione in giudizio della decisione dell'Autorità garante non costituisce prova sufficiente del danno lamentato, in quanto il nesso eziologico e l'evento © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 187 dannoso non sono stati oggetto di accertamento da parte dell'Autorità e l'attrice nulla ha chiesto di provare in proposito. Ha escluso che il Provvedimento presenti gli estremi per dedurne la prova presuntiva, poichè da un parere espresso dall'ISVAP si desume che nel periodo in questione si è verificato un notevole incremento dei costi gravanti sulle compagnie assicuratrici, che rende ragione degli aumenti dei premi. Non si spiegherebbe, altrimenti, perchè l'assicurata non si sia rivolta ad alcuna delle compagnie non partecipanti all'intesa, per ottenere migliori condizioni. 2.- Con il primo motivo, denunciando violazione degli artt. 2935 e 2947 c.c., la ricorrente richiama i principi più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nei casi analoghi a quello in oggetto la prescrizione comincia a decorrere non dal momento in cui l'agente compie l'illecito, ma da quello in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile come fatto ingiusto e suscettibile di giustificare il risarcimento; il che nella specie si è verificato solo a seguito della pubblicazione del Provvedimento 28 luglio 2000 n. 8546 dell'AGCM. 2.1.- Il motivo è manifestamente fondato. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito che la prescrizione non necessariamente decorre dalla data in cui il fatto si è verificato nella sua materialità e realtà fenomenica (nella specie, richiesta di un prezzo eccessivo e ricezione del relativo pagamento); ma piuttosto dal momento in cui esso si evidenzi all'esterno con tutti i connotati che ne determinano l'illiceità (cfr., con riferimento ad altra fattispecie, Cass. civ. Sez. 3, 21 febbraio 2003 n. 2645, ed in relazione al caso in esame, Cass. civ. Sez. 3, 2 febbraio 2007 n. 2305: ".... l'azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale, proposta ai sensi del secondo comma della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 33, si prescrive, in base al combinato disposto degli art. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l'ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia"). Ed invero, la nozione di impossibilità dell'esercizio del diritto che impedisce il decorrere della prescrizione, va individuata non sulla base di nozioni formali e aprioristiche circa il carattere giuridico o di fatto dell'ostacolo, ma calibrando natura e significato di questi termini sulle connotazioni concrete della fattispecie esaminata. Costituisce violazione della lettera e dello spirito dell'art. 2935 c.c., il considerare "giuridicamente possibile" l'esercizio di un diritto che il relativo titolare non sapeva e non poteva sapere di avere, per mancanza di informazioni sui fatti che ne costituiscono il fondamento, trattandosi di informazioni che egli non aveva il potere di acquisire legittimamente, prima che venissero pubblicamente divulgate. A fronte del danno derivante da un'intesa illecita - tenuta ovviamente riservata agli occhi del pubblico; accertata ed accertabile solo nella competente sede amministrativa, a seguito di un lungo e complesso procedimento - non può che essere ribadito quanto questa Corte ha affermato, cioè che "...l'assicurato ha avuto la completa conoscenza del danno e della sua ingiustizia (con il corredo di tutte le circostanze e le modalità del fatto).... nel momento in cui è stato adeguatamente e ragionevolmente informato circa il fatto che quellfaumento (delle tariffe, n.d.r.) era conseguenza di un'intesa vietata e quindi nulla tra imprese assicurative"; ....... "...la lungolatenza del danno - ovvero lo scollamento temporale fra il momento dell'inflizione ad opera del danneggiante e il momento della sua percezione da parte del danneggiato - fa si che il titolare del diritto possa dirsi in stato di inerzia........solo al momento in cui sia adeguatamente edotto dalle circostanze di questo particolare fenomeno di illecito prospettato dalla L. n. 287 del 1990". Va altresì ribadito che è a carico di chi eccepisca la prescrizione l'onere di provarne la decorrenza, e che il relativo accertamento compete al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione, se sufficientemente e coerentemente motivato (Cass. civ. n. 2305/2007 cit.). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 188 La sentenza impugnata si è discostata da questi principi e non ha compiuto alcun accertamento in proposito, incorrendo nella violazione dell'art. 2935 c.c., ed in palese carenza di motivazione. 3.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione degli art. 2697 e 1226 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nel capo in cui ha escluso che il Provvedimento dell'AGCM offra sufficienti elementi di prova del collegamento fra il comportamento illecito e l'incremento dei premi assicurativi, verificatosi nel medesimo periodo. Richiama i principi affermati dalla Corte di cassazione, secondo cui il contratto finale fra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso dell'intesa anticompetitiva, che costituisce la condotta preparatoria dell'illecito, rispetto alla condotta finale, consistente nell'aumento del premio (Cass. civ. 4 febbraio 2005 n. 2207); ragione per cui all'assicurato è sufficiente produrre, a prova del danno, il provvedimento sanzionatorio e la polizza contenente l'indicazione del premio pagato. 3.1.- Il motivo è fondato, sotto il profilo dell'assolvimento dell'onere probatorio. La ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni subiti a causa dell'illecito concorrenziale, che lo ha posto in condizione di dover pagare un premio di assicurazione RCA superiore a quello che avrebbe potuto essergli richiesto in mancanza dell'illecito. Se è pur vero che l'onere di fornire la prova del nesso causale grava in linea di principio sul danneggiato, è principio altrettanto generale che la prova può essere fornita anche tramite presunzioni, gravi, precise e concordanti, ai sensi degli art. 2727 e 2729 c.c., e che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte rilevato, nell'esame di casi analoghi a quello in oggetto, che la motivazione del Provvedimento n. 8546/2000 dell'AGCM, evidenzia molteplici accertamenti e rilievi, sulla base dei dati acquisiti nel corso dell'istruttoria che ha preceduto la sua decisione, tali da offrire quanto meno la prova presuntiva del collegamento causale qui controverso. Ed ha effettivamente affermato il principio richiamato dal ricorrente, per cui - ove l'assicurato produca in giudizio la polizza assicurativa ed il provvedimento amministrativo che ha accertato l'intesa illecita il giudice potrà desumere l'esistenza del nesso causale anche attraverso criteri di alta probabilità logica e per il tramite di presunzioni, salvo che l'assicuratore offra adeguati elementi di prova in contrario (cfr. Cass. civ. Sez. 3, 2 febbraio 2007 n. 2305; Cass. civ. Sez. 3, 26 maggio 2011 n. 11610; Idem, 9 maggio 2012 n. 7039, fra le tante). L'AGCM ha accertato che lo scambio di informazioni fra le compagnie assicuratrici è andato ben oltre le finalità - lecite e fisiologiche per le imprese del settore - di comunicarsi i dati rilevanti per la determinazione del c.d. premio puro (cioè di quella parte del premio che è commisurata alla natura e all'entità dei rischi), e si è esteso a comprendere i c.d. dati sensibili, che concorrono a determinare l'importo del premio commerciale: cioè del premio concretamente convenuto in polizza, che include, oltre al premio puro, le imposte, i caricamenti corrispondenti ai costi ed alle spese generali, e soprattutto l'utile di impresa (cfr. pp. 239 - 251, 257 del Provvedimento n. 8546/2000). Ciò ha consentito alle imprese partecipanti di "coordinarsi rapidamente.....su di un equilibrio di mercato collusivo, anche in assenza di accordi espliciti sui prezzi" e di "adeguare le proprie strategie alla realizzazione di equilibri di prezzo a cui sia associato il massimo profitto congiunto per l'industria nel suo complesso, con grave danno per il corretto funzionamento del mercato e per i consumatori" (pp. 251; 254 ss.). Ha soggiunto che tale comportamento ha anche permesso di incrementare la frequenza degli aumenti di tariffa, passati dall'unica variazione annuale, nel primo anno di liberalizzazione, alle oltre quattro variazioni nel corso del 1999. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 189 Ogni impresa era infatti in grado di verificare che i concorrenti si conformassero alle proprie iniziative incrementative, il che consentiva, dopo un periodo di riallineamento, di assumere un'ulteriore, analoga iniziativa (pp. 71, 244, 258). Nell'analisi della situazione di mercato ha poi accertato che, in conseguenza di tali comportamenti, fra il 1994 ed il 2000 i premi normalmente praticati per le polizze di RCA sono aumentati, del 96,55% rispetto al periodo precedente (p. 70 Provv. 8546/2000), e del 63% rispetto alla media Europea; che, se nel medesimo periodo i premi italiani per le polizze RCA avessero seguito incrementi analoghi a quelli della media degli altri paesi Europei, i consumatori avrebbero risparmiato settemila miliardi di lire, nel solo anno 1999 (p. 76). Ha altresì rilevato che tale incremento dei premi non si è accompagnato ad un aumento dei costi particolarmente sostenuto, nè è attribuibile a circostanze esterne e non controllabili dalle imprese (p. 77: pag. 5 della sentenza). Si tratta di affermazioni specifiche e concrete, compiutamente illustrate nel Provvedimento sanzionatorio prodotto in giudizio dell'attore e fondate sui dati accertati nel corso dell'istruttoria, dati costituenti fonte di prova e dell'illecito, e delle indebite maggiorazioni dei premi, di cui la Corte di appello non ha tenuto alcun conto, nel motivare la sua decisione. Il parere dell'ISVAP è stato acquisito dall'AGCM, nel corso dell'istruttoria, e non è stato evidentemente ritenuto sufficiente ad evitare che l'Autorità formulasse i rilievi sopra indicati, circa gli effetti pregiudizievoli dell'intesa sul livello dei premi. Esso si risolve infatti nella generica indicazione di una serie di circostanze che avrebbero provocato l'incremento dei costi a carico delle compagnie, senza alcun riferimento concreto e specifico alle modalità di formazione delle tariffe assicurative, prima, durante e dopo gli anni interessati dal comportamento sanzionato, nè alla concreta struttura ed entità dei costi, in relazione a quelli riferibili al periodo precedente ed a quelli in vigore sul mercato Europeo. L'AGCM ha tenuto conto dei dati di costo esposti dalle imprese ed ha rilevato che le perdite denunciate dalle compagnie assicuratrici sono anche effetto di inefficienze produttive e del mancato controllo dei costi, conseguente alla violazione delle regole della concorrenza (pp. 255 ult. cpv. e 263). Il comportamento collusivo ha infatti impedito che le imprese stesse fossero indotte ad operare in modo da ridurre i loro costi per poter ridurre i prezzi, comportamento che rientra fra i benefici effetti di un mercato concorrenziale (cfr. pp. 77, 78, 240, 259 ss., 263). Il Consiglio di Stato, nel confermare per questa parte la decisione dell'Autorità, ha a sua volta rilevato che neppure il fatto che il settore assicurativo della RCA operi in perdita vale ad escludere l'illiceità dello scambio di informazioni sui dati sensibili, anche e soprattutto perchè il comportamento collusivo, eliminando ogni incertezza sul comportamento dei concorrenti, disincentiva "ogni diversa politica commerciale, potenzialmente idonea anche a mutare le condizioni di perdita del mercato" (cfr. Cons. Stato, sentenza n. 2199/2002, par. 7.2.5). E' nota del resto la polemica circa l'aggravio dei costi del settore assicurativo, provocato per esempio dalle anomalie del sistema di distribuzione ed in particolare, dagli oneri economici inerenti al peculiare assetto delle agenzie di assicurazione. 3.2.- In definitiva, a fronte degli specifici accertamenti di cui al Provvedimento n. 8546/2000 dell'Autorità Garante e del carattere generico e non significativo dei rilievi contenuti nel Parere dell'ISVAP, l'esclusione del nesso causale fra l'illecito e il danno appare inversione delle regole di © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 190 legge in tema di acquisizione delle prove provenienti da un giudice esterno (Consiglio di Stato) e da un provvedimento dell'autorità di garanzia. 3.3.- Palesemente illogica è poi la motivazione della sentenza impugnata, ove afferma che l'assicurato avrebbe potuto e dovuto rivolgersi agli operatori non coinvolti dall'intesa illecita, per evitare il danno. In primo luogo l'aspirante assicurato avrebbe dovuto sapere, per porsi il problema, che era in corso un comportamento anticonconcorrenziale, che alcune imprese vi partecipavano ed altre no, e quali imprese non vi partecipavano: circostanze tutte non note al pubblico, negli anni a cui risale la conclusione del contratto in oggetto, che sono emerse solo a seguito della pubblicazione del provvedimento dell'AGCM. In secondo luogo e soprattutto, i costi dell'illecito debbono gravare su chi lo compie; non su colui che ne subisca danno, imponendo a quest'ultimo maggiori oneri e costi di contrattazione, per compiere le indagini di mercato necessarie a difendersi dall'illecito comportamento altrui. 4.- In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, perchè riesamini la questione della prova del nesso causale fra l'illecito e il danno e decida la vertenza con congrua e specifica motivazione, se del caso previo esperimento delle opportune indagini tecniche. 5.- La Corte di rinvio deciderà anche in ordine alle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte di cassazione accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013. Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2013 La prescrizione del diritto al risarcimento del danno subìto da chi abbia contratto per contagio una malattia decorre dal giorno in cui essa viene percepita quale danno ingiusto conseguente all'altrui condotta dolosa o colposa, ovvero può essere percepita come tale, in relazione all'ordinaria diligenza del soggetto leso e tenuto conto delle comuni conoscenze scientifiche dell'epoca. Cass. civ. Sez. Unite, 11-01-2008, n. 581 Svolgimento del processo Con atto notificato il 27.10.1999, 223 attori convenivano davanti al tribunale di Roma il Ministero della Sanità, chiedendone la condanna al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, ai sensi degli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c., per non avere evitato che agli attori o ai loro danti causa, che necessitavano per patologie congenite di continue trasfusioni, venissero somministrati prodotti emoderivati senza i necessari controlli, per cui questi contraevano varie affezioni, quali HIV, HBV ed HCV, alle quali a distanza di alcuni anni in alcuni casi seguiva la morte. Intervenivano in giudizio anche altri soggetti che assumevano anch'essi di aver contratto il contagio e di avere diritto al risarcimento del danno. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 191 Il Tribunale accoglieva la domanda di condanna generica al risarcimento del danno. L'appello proposto dal Ministero veniva rigettato dalla corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 12.1.2004. Riteneva la corte territoriale che l'eccezione di prescrizione era infondata, in quanto a norma dell'art. 2935 c.c., il diritto può essere esercitato solo allorchè il titolare abbia raggiunto la piena cognizione dell'esistenza e del fondamento del medesimo, ed individuando il dies a quo nel momento del rilascio delle certificazioni relative all'indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, da parte delle Commissioni medico ospedaliere. Riteneva la corte di merito che il termine di prescrizione era decennale, trattandosi di fattispecie di reati di epidemia colposa, lesioni colpose plurime e di omicidio colposo. Nel merito riteneva la corte che, trattandosi di accertamento del solo an debeatur non era necessario valutare la prescrizione in relazione alle singole posizioni, attenendo tale valutazione al successivo giudizio di liquidazione dei danni, mentre risultava accertata la riconducibilità degli eventi dannosi alla responsabilità dell'amministrazione per essere gli stessi stati causati da emotrasfusione o assunzione di emoderivati con sangue infetto, come riconosciuto dallo stesso Ministero che aveva erogato l'indennità di cui alla L. n. 210 del 1992. Riteneva poi il giudice di appello che l'Amministrazione era in possesso delle fin dagli anni '70 di elementi di studio e di ricerca tali da consentire di individuare almeno il virus dell'epatite B e quindi da rendere obbligatoria l'adozione di misure di prevenzione. La corte riconosceva, inoltre, agli attori anche il diritto al risarcimento del danno morale. Nelle more interveniva una transazione tra il Ministero e gran parte degli attori. Il Ministero della salute impugnava la sentenza della corte di appello nei confronti dei soggetti con cui non aveva transatto la lite e cioè: A.C., + ALTRI OMESSI I predetti intimati, ad eccezione degli ultimi tre, resistevano con controricorso; essi hanno presentato anche memoria. Motivi della decisione 1.1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti; alla responsabilità del Ministero della Salute per danni "da sangue infetto". 1.2. Preliminarmente va dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti di A.C., per sopravvenuta carenza di interesse. Infatti come risulta dalla documentazione prodotta da quest'ultima, tra lei ed il Ministero della Salute è intervenuta una transazione, la quale, comportando la cessazione della materia del contendere, fa venire meno l'interesse del ricorrente alla decisione del ricorso nei confronti dell' A.. 1.3. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2934, 2935, 2943, 2946, 2947 c.c., art. 112 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Il ricorrente assume che erratamente, ai fini della prescrizione, nel corso del giudizio di merito non sono state vagliate autonomamente le varie posizioni degli attori, risalenti a diversi momenti, giustificando ciò con il rilievo che nella fattispecie si trattava di domanda di condanna generica al risarcimento del danno. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 192 Assume poi che i fatti nella maggior parte dei casi si collocavano tra il 1978 ed il 1988 e che quindi al momento della proposizione della domanda erano maturate sia la prescrizione decennale che quella quinquennale, le quali andavano valutate con riferimento al verificarsi del danno. Secondo il ricorrente in ogni caso il termine di prescrizione è quinquennale e non decennale, sia perchè il convenuto nel giudizio risarcitorio non coincide con l'autore dell'illecito penale, sia perchè manca l'esistenza dell'elemento soggettivo del reato, sia perchè nella fattispecie sussistevano cause di giustificazione, quali la scriminante dell'attività medico-chirurgica e quella del consenso dell'avente diritto. 2.1. Il motivo è solo in parte fondato. Esso è fondato nella parte in cui censura l'impugnata sentenza, allorchè questa ritiene che la posizione dei singoli attori, ai fini dell'eccepita prescrizione, non fosse rilevante nella fattispecie, trattandosi di accertamento del solo an debeatur, mentre solo nel successivo giudizio di quantificazione del danno tale singole posizioni andavano vagliate ai fini della prescrizione. Infatti non rileva che, nella specie, fosse stata chiesta una condanna in forma generica, dal momento che anche questo tipo di statuizione conforma autoritativamente i contenuti sostanziali del rapporto obbligatorio, imponendo all'obbligato di eseguire una prestazione e rende il vincitore titolare di actio iudicati (cfr. Cass. n. 18825 del 2002; n. 3727 del 2000), cosicchè la parte convenuta ha l'onere di eccepire tempestivamente la prescrizione, essendole precluso di farlo nel giudizio sul quantum (cfr. Cass. n. 3243 del 1985; n. 5211 del 1980). Pertanto anche a fronte di una domanda di condanna in forma generica, il convenuto che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza (cfr. Cass., 23/04/2004, n. 7734; Cass. 27/05/2005, n. 11318). Ciò comporta che il giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato (Cass. 04/04/1992, n. 4151; Cass. 1/08/1987, n. 6651). Solo cosi impostata e risolta la questione si intende il consequenziale principio secondo cui la sentenza di condanna generica passata in giudicato determina l'assoggettamento dell'azione diretta alla liquidazione al termine prescrizionale di cui all'art. 2953 c.c., nonchè la produzione degli effetti interruttivi della prescrizione nei confronti di coloro che hanno esercitato le azioni concluse con la condanna generica (Cass. 15/09/1995, n. 9771; Cass. 13/12/2002, n. 17825; Cass. 04/04/2001, 4966). 2.2. Fondata è anche la censura secondo cui nella fattispecie non è ipotizzabile un reato di epidemia colposa o lesioni colpose plurime. Per poter usufruire di un termine più lungo di prescrizione rispetto a quello quinquennale di cui all'art. 2947 c.c., comma 1, sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni. Sebbene il regime della prescrizione penale sia cambiato (L. 5 dicembre 2005, n. 251), va, tuttavia, osservato che la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all'art. 2947 c.c., comma 3, è quella prevista alla data del fatto, mentre i principi di cui all'art. 2 c.p., attengono solo agli aspetti penali, per effetto di successioni di leggi penali nel tempo. Nella fattispecie è da escludere il reato di epidemia colposa (artt. 438, 452 c.p.), in quanto quest'ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell'eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 193 soggetti, non appare conciliarsi con l'addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono: a) la sua diffusività incontrollabile all'interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell'HCV e dell'HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti; b) l'assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria l'attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poichè altrimenti si verserebbe in endemia). Va esclusa anche la configurabilità del reato di lesioni colpose plurime, stante l'impossibilità di individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue. 2.3. Rimane, quindi, solo la configurabilità dei reati di lesioni colpose, anche gravissime, o del reato di omicidio colposo non potendosi negare che il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell'evento dannoso. Sennonchè va osservato che la prescrizione decennale nell'ipotesi di configurabilità di omicidio colposo opera solo in favore di quegli attori (congiunti del contagiato) che abbiano agito in giudizio (iure proprio) per il risarcimento del danno causato dal decesso ascrivibile all'emotrasfusione (o all'assunzione di emoderivati) con sangue infetto e non per tutti gli altri attori che abbiano agito nello stesso giudizio solo per richiedere il risarcimento del danno conseguente a lesioni colpose. 2.4. Quando, invece, ricorra solo quest'ultima ipotesi (lesioni colpose) va osservato che anche la prescrizione del reato di lesioni colpose matura in cinque anni. 2.5. Infondata è la censura secondo cui non sarebbe possibile nella fattispecie un'equiparazione del termine prescrizionale civile a quello penale (nei termini di cui all'art. 2947 c.c., comma 3) non essendo il Ministero l'autore dell'illecito penale. Infatti in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, la previsione dell'art. 2947 c.c., comma 3, si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa risarcitoria e si applica, pertanto, non solo all'azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile, ma anche all'azione civile diretta contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (Cass. 09/10/2001, n. 12357; Cass. 6/02/1989, n. 729). 2.6. Infondata è anche la censura secondo cui la corte territoriale non avrebbe valutato l'esistenza dell'elemento psicologico, pur necessario ai fini della ritenuta sussistenza dei reati di omicidio colposo (per le sole fattispecie in cui ricorra) o lesioni colpose. E' vero che nel caso in cui l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, l'eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato si applica anche all'azione di risarcimento dei danni, a condizione che il giudice civile accerti "incidenter tantum" la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi e oggettivi (Cass. 28/07/2000, n. 9928; Cass. 10/06/1999, n. 5701). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 194 Sennonchè nella fattispecie la sentenza impugnata (pag. 16) riscontra l'elemento colposo dell'Amministrazione (e, quindi, dei suoi funzionari) nel non adottare gli accorgimenti utili a scongiurare il contagio di tali note patologie effettuando determinati trattamenti ed analisi del sangue acquisito. 2.7. Inammissibile è la censura secondo cui l'Amministrazione avrebbe agito in presenza delle scriminanti dell'attività medico-chirurgica e del consenso dell'avente diritto e che di tanto avrebbe dovuto tener conto il giudice di appello. A parte ogni altra considerazione, va rilevato che il ricorrente non ha indicato se e quando tale questione sia stata posta all'esame del Giudice di merito, non risultando sul punto alcunchè nella sentenza impugnata. Qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al Giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 21/02/2006, n. 3664; Cass. 22/05/2006, n. 11922; Cass. 19/05/2006, n. 11874; Cass. 11/01/2006, n. 230). 3.1. Il punto di maggior rilievo è l'individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio. Come è noto, in base all'art. 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'art. 2947 c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il “fatto si è verificato”. Nell'evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha affrontato il significato da attribuirsi all'espressione “verificarsi del danno”, specificando che il danno si manifesta all'esterno quando diviene “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in relazione alla sua rilevanza giuridica. La Corte, successivamente, ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poichè la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sè a concretizzare il "fatto" che l'art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n .2645; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493). Viene applicato, unitamente al principio della “conoscibilità del danno”, quello della “rapportabilità causale”. 3.2. Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L'individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'”esteriorizzazione del danno” può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 195 E' quindi del tutto evidente come l'approccio all'individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell'evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell'inadempimento - e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno “occulto” a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medicai malpractice). 3.3. Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis, non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca, comunque entrambi verificabili dal Giudice senza scivolare verso un'indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria diligenza dell'uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa. 3.4. I principi, quindi, che vanno affermati, sono i seguenti: "Anche allorchè sia proposta domanda di condanna generica al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, il convenuto, che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto, ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza e non nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il Giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato". "Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell'art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche". 4. Il problema che si pone, anche con riferimento al giudizio in esame, è la valenza del responso delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, ai fini della decorrenza della prescrizione. In linea generale non può ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito. Tale tesi non pare convincente, per diversi ordini di motivi: perchè offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione; perchè potrebbe portare ad affermare che il dies a quo inizi anche a decorrere a causa già iniziata, negando l'effetto interruttivo connaturato alla proposizione dell'azione; perchè rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico-legale © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 196 (effettuata peraltro in riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell'indennizzo). Inoltre è illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto all'indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso. Tenuto conto che l'indennizzo è dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche. 5. Ne consegue che nella fattispecie sono fondate le censure relative al mancato accertamento della prescrizione in relazione a ciascuna posizione soggettiva anche in sede di giudizio relativo solo a domanda di condanna generica, alla ritenuta decorrenza decennale della prescrizione del diritto al risarcimento del danno perchè il fatto costituirebbe un'ipotesi di reato di epidemia colposa o lesioni personali plurime, (mentre la prescrizione è decennale in relazione a domande relative a risarcimento del danno da decesso, proposte da congiunti iure proprio, in cui è ipotizzabile un omicidio colposo); è infondata la censura, per violazione di norme di diritto, relativamente al dies a quo della decorrenza della prescrizione, avendo il giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data in cui il danneggiato ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa era conseguenza della trasfusione con sangue infetto; è fondata la censura di vizio motivazionale della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il danneggiato avesse avuto conoscenza del danno, anche sotto il profilo eziologico, ai fini dell'exordium praescriptionis solo con il responso della commissione medico ospedaliera. 6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 c.c., nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Il Ministero lamenta la violazione di legge in ordine all'accertamento del nesso causale e dell'elemento psicologico della colpa in capo al Ministero. In particolare il ricorrente assume che i virus in questione e le tecniche di rilevazione sarebbero stati individuati solo nel corso degli anni '80, per cui, precedentemente a tale data, non poteva ritenersi sussistente, nè un nesso causale tra la pretesa attività omissiva del Ministero e l'evento del contagio da emotrasfusione o da assunzione di emoderivati nè l'elemento soggettivo; che è errato e non motivato l'assunto apodittico secondo il quale il Ministero già dagli anni 70 sarebbe stato in grado di conoscere ed individuare tali virus; che è errato l'assunto secondo cui, divenuto conoscibile il primo virus (epatite B), il Ministero sarebbe tenuto al risarcimento anche per gli altri due (HIV ed epatite C), anche se ancora non conosciuti alla data dell'emotrasfusione o dell'assunzione degli emoderivati, sulla base del principio, affermato dalla sentenza impugnata, che in tema di responsabilità extracontrattuale si risponde anche dei danni non prevedibili. Infine il Ministero, sulla base della normativa all'epoca vigente, nega che su di esso gravasse un obbligo di vigilanza e controllo tale da renderlo responsabile dei singoli casi di contagio, avendo egli solo un dovere di vigilanza complessiva e non specifica sul singolo caso. 7.1. Il motivo è infondato. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 197 Va anzitutto esaminata la normativa che regolava l'attività del Ministero in tema di emotrasfusione e di emoderivati all'epoca dei fatti. La L. n. 592 del 1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l'organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza, nonchè (art. 21) il compito di autorizzare l'importazione e l'esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico. Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112). La L. n. 519 del 1973, attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica. La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (art. 6, lett. b, c), mentre l'art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale. Il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla ed. "farmacosorveglianza" da parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio. Ne consegue che, anche prima dell'entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L'omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi. 7.2. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va osservato che, come statuito da Corte Cost. 22.6.2000 n. 226 e 18.4 1996 n. 118, la menomazione della salute derivante da trattamenti sanitari può determinare le seguenti situazioni: a) il diritto al risarcimento pieno del danno, secondo la previsione dell'art. 2043 c.c., in caso di comportamenti colpevoli; b) il diritto a un equo indennizzo, discendente dall'ari. 32 della Costituzione in collegamento con l'art. 2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia conseguenza dell'adempimento di un obbligo legale; c) il diritto, ove ne sussistano i presupposti a norma degli artt. 38 e 2 Cost., a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore, nell'ambito dell'esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali. In quest'ultima ipotesi si inquadra la disciplina apprestata dalla L. n. 210 del 1992, che opera su un piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica in tema di risarcimento del danno, compreso il cosiddetto danno biologico. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 198 Per quanto qui interessa, al fine di evidenziare la distanza che separa il risarcimento del danno dall'indennità prevista dalla legge predetta, basta rilevare che la responsabilità civile presuppone un rapporto tra fatto illecito e danno risarcibile e configura quest'ultimo, quanto alla sua entità, in relazione alle singole fattispecie concrete, valutabili caso per caso dal giudice, mentre il diritto all'indennità sorge per il sol fatto del danno irreversibile derivante da infezione post-trafusionale, in una misura prefissata dalla legge. Ciò comporta che vada condiviso l'orientamento favorevole della più avvertita dottrina al concorso tra il diritto all'equo indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, ed il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., per cui nel caso in cui ricorrano gli estremi di una responsabilità civile per colpa la presenza della L. n. 210 del 1992, come modificata dalla L. n. 238 del 1997, non ha escluso in alcun modo che il privato possa chiedere e che il Giudice possa procedere alla ricerca della responsabilità aquiliana, senza che esista automatismo tra le due figure (mentre non è oggetto di questo ricorso il diverso problema se si tratti di diritti alternativi, ovvero cumulabili ed in caso positivo- in quali termini). 8.1. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di responsabilità. Osserva preliminarmente questa Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell'elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anzichè al "fatto illecito", divenuto "fatto dannoso". In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale. E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perchè la responsabilità sorga, giacchè l'imputazione del danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui all'art. 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere. Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria. 8.2. Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria. A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c., (richiamato dall'art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 199 causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili. Secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat). Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nell'art. 1227 c.c., comma 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema civilistico l'unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall'art. 2043 c.c., dove l'imputaizione del "fatto doloso o colposo" è addebitata a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", o, come afferma l'art. 1382, Code Napoleon "qui cause au autrui un dommage". Un'analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità ed. contrattuale o da inadempimento, perchè in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall'ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il "risarcimento del danno", cui è dedicato l'art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l'inadempimento dell'obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili. Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall'art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta. 8.3. Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non). Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell'art. 41 c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268). Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 200 nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962). 8.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poichè non si tratta di accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale). In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito. Inoltre se l'accertamento della prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell'accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale grava l'onere della prova del nesso causale). 8.5. Nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell'affermazione dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. E' questa l'ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p., comma 2. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 201 Poichè l'omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L'individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l'apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale. La causalità nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poichè ex nihilo nihil fit. Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell'omissione e non la causalità normativa (basata sull'equiparazione disposta dall'art. 40 c.p.) fanno coincidere l'omissione con una condizione negativa perchè l'evento potesse realizzarsi. La causalità è tuttavia accettabile attraverso un giudizio ipotetico: l'azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l'evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la responsabilità non sorge non perchè non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sè un comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione non è causa del danno lamentato. Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato. 8.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza. Tanto vale certamente allorchè all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c.. Nè può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento dell'illecito penale, essendo il primo fondato sull'atipicità dell'illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio. La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l'atipicità dell'illecito. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 202 Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all'art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno è tutto normativo. 8.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla " regolarità causale", ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile. Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente in seguito. E' vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un'assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio. L'atipicità dell'illecito attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l'elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione. E' vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico. Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E' esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: "ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell'illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della costbenefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria. Sennonchè il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l'ingiustizia del danno. 8.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest'ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 203 criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità. Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perchè nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno. 8.9. Sennonchè detto ciò, ai fini dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052 c.c., art. 2054 c.c., comma 4), posti all'inizio della serie causale. Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la condotta di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva). In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso. In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell'allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell'illecito civile. 8.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 204 danno del consumatore se "appaia sufficientemente probabile" che l'intesa tra compagnie assicurative possa avere un'influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che "occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili"). Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni). 8.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità, portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza, correttamente applicato dalla sentenza impugnata: "Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento". 9.1. Dal principio sopra esposto in tema di nesso causale da comportamento omissivo, emerge anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero. Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n. 11609, osservava che, finchè non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perchè l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l'omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa. La corte di legittimità, quindi, riteneva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto di delimitare la responsabilità del Ministero a decorrere dal 1978 per l'HBC (epatite B), dal 1985 per l'HIV e dal 1988 per l'HCV (epatite C), poichè solo in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla scienza mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazione. 9.2. Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell'integrità. Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 205 autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge. Di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge, deve inoltre sottolinearsi che si arresta la discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. Il dovere del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula un dovere particolarmente pregnante di diligenza nell'impiego delle misure necessarie a verificarne la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione. 9.3. E' infondata anche la censura relativa alla mancato accertamento dell'elemento psicologico colposo del Ministero. Avendo ritenuto il giudice di merito che il Ministero aveva l'obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazioni delle transaminasi, l'omissione di tale condotta, integrando la violazione di un obbligo specifico, integra la colpa. 10. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 c.c., nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Assume il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha riconosciuto agli attori il danno morale, mentre per il combinato disposto dell'art. 2059 c.c., e art. 185 c.p., sarebbe stato necessario individuare una persona fisica che potesse rispondere del reato e che la stessa fosse legata al Ministero da rapporto di dipendenza. 11.1. Il motivo è infondato. Anzitutto va osservato che l'azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell'operato dell'autore del fatto che integra un'ipotesi di reato, è ammessa - tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali - anche quando rimanga ignoto l'autore del fatto che integra un'ipotesi di reato, sempre che sia certa l'appartenenza di quest'ultimo ad una cerchia di persone legate da un rapporto organico o di dipendenza con il soggetto che di quell'attività deve rispondere (Cass. 10/02/1999, n. 1135; Cass. 21/11/1995, n. 12023). Ne consegue che, una volta che il giudice di merito aveva accertato che il Ministero non aveva compiuto l'attività di farmacosorveglianza, cui era normativamente tenuto, tale omissione non poteva che essere addebitata che ad uno o più funzionari preposti a tale attività, risultando indifferente che poi gli stessi fossero rimasti ignoti. 11.2. In ogni caso l'infondatezza del motivo discende anche dal nuovo orientamento interpretativo dell'art. 2059 c.c., adottato da questa Corte con le sentenze 31.5.2003 n. 8827 ed 8828, ed ormai consolidato (cfr. Cass. 27.6.2007, n. 14846) secondo cui il danno non patrimoniale conseguente all'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacchè il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 206 12. Pertanto va accolto parzialmente il primo motivo di ricorso e vanno rigettati il secondo ed il terzo. Va cassata, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza e va rinviata la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si uniformerà ai principi di diritto esposti al punto 3.4. Esistono giusti motivi per compensare per intero le spese di questo giudizio di cassazione tra A.C. ed il ricorrente Ministero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero della Salute nei confronti di A.C. e compensa tra gli stessi le spese di questo giudizio di Cassazione. Quanto agli altri, accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso e rigetta i restanti motivi. Cassa, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007. Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2008 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 207 13) Comunione legale tra coniugi e preliminare ad effetti anticipati Tizio e Caia erano comproprietari, in virtù di comunione legale tra coniugi, del terreno Alfa. Tizio concludeva con Sempronio un contratto preliminare avente per oggetto il trasferimento del suddetto terreno, senza nulla dire alla moglie Caia. Nel dettaglio, veniva concluso un contratto preliminare ad effetti anticipati di compravendita, con cui l’acquirente Sempronio pagava nell’immediato la somma di euro 140.000,oo in favore di Tizio; quest’ultimo assicurava a Sempronio la possibilità di utilizzo immediata – in attesa del definitivo – del terreno Alfa. Sempronio, una sera, incontrava casualmente Caia, che gli diceva di non sapere alcunchè del contratto preliminare, precisando che senza il suo consenso fosse da considerarsi radicalmente nullo. Sempronio – preoccupato – si recava dal legale Quarto. Il candidato, premessi brevi cenni sul contratto preliminare ad effetti anticipati, rediga motivato parere. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 13 In premessa si doveva accennare alla figura del contratto preliminare ad effetti anticipati (contratto di mutuo gratuito collegato a comodato): -è un negozio giuridico con cui si assume l’obbligo di realizzare successivamente un contratto definitivo; -l’effetto traslativo del diritto di proprietà di realizza al momento del definitivo; -alcuni effetti sono anticipati; in particolare, la possibilità di utilizzare il bene viene garantita al momento del preliminare stesso; -il promissario acquirente (in questo caso Sempronio) diviene detentore qualificato (non possessore). Nel caso de quo, Tizio in comunione legale con Caia concludeva il suddetto contratto senza il consenso della moglie; è valido il contratto così concluso? Si poteva rispondere positivamente: -non è possibile predicare la nullità, in quanto non si versa in casi di assenza di un elemento essenziale del contratto e neanche di violazione di norme imperative, ex art. 1418 c.c.; -neanche è possibile parlare di inefficacia, nel senso di improduttività degli effetti fino al consenso al trasferimento della moglie Caia perché l’art. 184 c.c. predica che il contratto concluso in assenza del consenso dell’altro coniuge è annullabile, se non convalidato; ciò vuol dire che produce da subito effetti, ma può successivamente essere caducato nelle forme dell’annullamento; -non rileva il fatto che il preliminare sia ad effetti anticipati, potendosi parificare ad un normale contratto solo che alcuni effetti sono immediati ed altri successivi. Pertanto, il contratto preliminare ad effetti anticipati posto in essere da Tizio e Sempronio è valido ed efficace, ma esposto ad una possibile azione di annullamento, a meno che: -Caia non proceda a convalida, eventualmente anche in sede di definitivo; -si lasci decorrere il termine annuale per l’impugnazione, di cui al comma 2 dell’art. 184 c.c. GIURISPRUDENZA RILEVANTE In regime di comunione legale tra i coniugi, il contratto preliminare di vendita di bene immobile stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell'altro è soggetto alla disciplina dell'art. 184 primo comma c.c., e non è pertanto inefficace nei confronti della comunione, ma solamente esposto all'azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente, nel breve termine prescrizionale entro cui è ristretto l'esercizio di tale azione, decorrente dalla conoscenza effettiva dell'atto, ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione. Cassazione civile, sezione II, sentenza del 31.1.2012, n. 1385 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 208 Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 21-12-2000 C.G. assumeva: in data 24-6.1996 l'esponente aveva stipulato con T.F. un preliminare di compravendita immobiliare avente ad oggetto un fabbricato ed annesso terreno siti in (omissis) per il corrispettivo di lire 119.500.000 di cui lire 60.000.000 versati al momento della stipulazione, lire 20.000.000 in data 127-1996 e la residua somma di lire 39.5000.000 da pagare all'atto del rogito; l'immobile oggetto del contratto era in comproprietà tra il T. e la moglie L.E., impedita alla firma per le gravi condizioni di salute psicofisica nelle quali ella versava; nel preliminare si dava atto del fatto che il T. aveva presentato un ricorso ex art. 183 c.c. per l'esclusione della moglie dall'amministrazione dei beni comuni, cosicché il preliminare stesso era sottoposto alla condizione risolutiva costituita dal rigetto del ricorso: (il T. aveva rinunciato alla suddetta procedura, ed in data 6-12-1996 era deceduto, mentre il ricorso ex art. 183 c.c. era stato riproposto dai suoi figli, che peraltro avevano invocato la risoluzione del contratto preliminare per il verificarsi della condizione risolutiva; l'attore era riuscito a stipulare il rogito notarile di compravendita con i figli G., L. e T.P., mentre il figlio T.V. (che era stato nominato tutore della madre, la quale era deceduta il xxxxxxxx) non si era presentato davanti al notaio. Tanto premesso, il C. conveniva in giudizio T.V. dinanzi al Tribunale di Saluzzo chiedendo pronunciarsi sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. offrendo il pagamento della residua quota di prezzo spettante al convenuto; in via subordinata chiedeva la condanna del T. al risarcimento dei danni nella somma indicativa di lire 50.000.000. Si costituiva in giudizio il convenuto contestando il fondamento delle domande attrici di cui chiedeva il rigetto. Il Tribunale di Saluzzo con sentenza del 9-9-2002 respingeva le domande del C. . Proposto gravame da parte di quest'ultimo cui resisteva il T. la Corte di Appello di Torino con sentenza del 14-2-2005 ha rigettato l'impugnazione, attribuendo rilevanza decisiva al fatto che dal rogito notarile prodotto risultava che intestataria formale degli immobili era solo la L., moglie di T.F.; orbene, avendo stipulato il suddetto preliminare soltanto quest'ultimo, non intestatario del bene, non poteva applicarsi l'art. 184 c.c. ipotizzando la possibilità di una azione di annullamento dell'atto da parte dell'altro coniuge, ma si doveva ritenere l'atto stesso inefficace, perché la parte interessata non era in grado di conoscerlo e, quindi, di attivarsi nel termine di un anno previsto dall'art. 184 c.c. Per la cassazione di tale sentenza il C. ha proposto un ricorso basato su di un unico articolato motivo illustrato successivamente da una memoria cui il T. ha resistito con controricorso. Motivi della decisione Con l'unico motivo formulato il C. , denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 184 c.c. ed insufficiente e contraddittoria motivazione, assume che la tesi del giudice di appello -secondo cui l'operatività dell'art. 184 c.c. sarebbe esclusa sia nel caso in cui il bene oggetto di comunione legale tra i coniugi risulti intestato ad entrambi, sia nel caso in cui l'atto dispositivo del bene sia stato posto in essere dal solo coniuge non intestatario - non può essere condivisa sotto diversi profili. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 209 Il ricorrente rileva anzitutto che il testo dell'art. 184 c.c. non autorizza a distinguere tra atti concernenti beni intestati nei registri immobiliari esclusivamente al coniuge disponente da un lato, ed atti concernenti beni intestati alla comunione coniugale ovvero non intestati al disponente dall'altro, considerato che gli artt. 177 e seguenti c.c., a differenza di quanto attiene alla comunione ordinaria, fanno riferimento ai beni della comunione coniugale indipendentemente dalla loro formale intestazione; né ciò appare in contrasto con il principio della continuità delle trascrizioni, poiché, quando i coniugi operano congiuntamente, risulta disponente del bene anche il coniuge non indicato nell'atto di provenienza; inoltre, poiché in caso di acquisto di un bene operato da uno solo dei coniugi in regime di comunione l'acquisto opera automaticamente anche a vantaggio dell'altro, non si comprende perché lo stesso principio non debba valere anche nel caso di disposizione del bene medesimo. Il ricorrente evidenzia poi l'infondatezza dell'ulteriore assunto della Corte territoriale secondo cui la sottoscrizione del preliminare suddetto da parte del solo T.F. non intestatario formale comporterebbe l'inefficacia dell'atto, e non la semplice azione di annullamento ex art. 184 c.c., anche per la ragione che il coniuge intestatario non sarebbe stato in grado di conoscere l'atto e di attivarsi quindi nel termine di un anno di cui all'art. 184 c.c.; invero il giudice di appello è incorso nell'equivoco di considerare il momento dai quale decorre il suddetto termine coincidente con la stipula dell'atto, laddove invece esso decorre dal momento in cui il coniuge pretermesso ha effettiva conoscenza dell'atto e, in via sussidiaria, entro un anno dalla trascrizione. Il C. inoltre, sottolineando che l'art. 184 c.c. si limita a prevedere solo l'annullabilità (o la convalida) dell'atto di disposizione dell'intero bene da parte del singolo coniuge a richiesta del coniuge pretermesso, afferma che la norma suddetta presuppone la piena efficacia dell'atto di disposizione dell'intero immobile fin dall'origine, nell'ambito di una scelta legislativa di bilanciamento della tutela da un lato della posizione del coniuge pretermesso e dall'altro del terzo acquirente. La censura è fondata. La sentenza impugnata ha affermato che, poiché il contratto preliminare del 24-6-1996 riguardante un immobile oggetto di comunione legale tra i coniugi T.F. ed L.E. era stato stipulato dal solo marito, non intestatario del bene, si versava in una ipotesi non già di annullamento dell'atto ex art. 184 c.c., non essendo la parte interessata in grado di conoscerlo e quindi di attivarsi nel termine annuale ivi previsto, ma di sua inefficacia; a tal riguardo ha considerato tale caso assimilabile a quello di immobile che, pur appartenente alla comunione legale, sia intestato ad entrambi i coniugi, dove pure si determinerebbe una situazione di inefficacia dell'atto, richiamando a conforto di tale assunto secondo cui quindi l'art. 184 c.c. troverebbe applicazione solo nell'ipotesi di atto compiuto, nonostante il regime di comunione legale, dal coniuge intestatario del bene stesso -la pronuncia di questa Corte 2-2-1995 n. 1252. Tale convincimento è frutto di un errata interpretazione dell'art. 184 c.c. ed anche di un palese fraintendimento della sentenza ora menzionata, che invero ha affermato un principio di diritto del tutto diverso rispetto a quello sostenuto dalla Corte territoriale. Muovendo dunque con tale ultimo rilevante profilo, è bene sottolineare che con tale pronuncia si è ritenuto che in tema di comunione legale tra i coniugi tutto gli atti di disposizione di beni immobili o beni mobili registrati appartenenti alla comunione legale, compiuti da un solo coniuge senza il necessario consenso dell'altro, ovverosia in violazione della regola dell'amministrazione congiunta, sono validi ed efficaci e sottoposti alla sola sanzione dell'annullamento ai sensi dell'art. 184 c.c. in forza dell'azione proponibile dal coniuge (il cui consenso era necessario) entro i termini previsti dalla stessa norma, ed ha cassato la sentenza del giudice di merito, il quale aveva ritenuto che © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 210 l'annullabilità prevista dall'art. 184 c.c. riguarderebbe la sola ipotesi in cui l'atto di disposizione sia compiuto dal coniuge che risulti unico intestatario del bene. Occorre poi evidenziare che la motivazione della pronuncia 2-2-1995 n. 1252 di questa Corte offre esaurienti e convincerti argomentazioni a sostegno de! principio di diritto sopra enunciato; è stato invero ivi affermato in particolare che, a differenza della comunione ordinaria, la comunione legale tra i coniugi prescinde rigorosamente dal dato della intestazione formale dei beni, e che d'altra parte, se le risultanze dei registri immobiliari sono indifferenti per quanto attiene all'accertamento circa l'appartenenza dei beni alla comunione legale, è del tutto arbitrario affermare che la norma in esame non riguardi qualsiasi atto, ma soltanto gli atti concernenti i beni intestati nei registri immobiliari al coniuge disponente. Rilevato poi che, in mancanza di espresse disposizioni derogatorie, gli effetti della disposizione dell'intera cosa comune nella comunione tra i coniugi soggiacciono alle stesse regole stabilite per la comunione ordinaria, e che nessun argomento autorizza a ritenere che l'art. 184 c.c. preveda che gli atti di disposizione posti in essere da uno solo dei coniugi siano soggetti a sanzioni diverse dalla annullabilità e, quindi, sottoposti ad una disciplina diversa, la sentenza impugnata ha concluso che tale norma, per l'esigenza di tutelare la rapidità e la certezza della circolazione dei beni in regime di comunione legale, disciplina il conflitto tra il terzo ed il coniuge pretermesso in modo più favorevole al primo, con il regime degli effetti tendente alla conservazione del negozio. Alla luce di tali considerazioni si deve concludere che il convincimento della sentenza impugnata in ordine alla asserita inefficacia dell'atto di disposizione di un immobile oggetto di comunione legale tra i coniugi da parte del coniuge non intestatario del bene appare sprovvisto di ogni aggancio positivo ed in contrasto con il sistema di circolazione dei beni in regime di comunione legale come sopra delineato; del resto l'orientamento consolidato di questa Corte esclude una disciplina differenziata per tale ipotesi, ritenendo che, in regime di comunione legale tra i coniugi, il contratto preliminare di vendita di bene immobile stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell'altro è soggetto alla disciplina dell'art. 184 primo comma c.c., e non è pertanto inefficace nei confronti della comunione, ma solamente esposto all'azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente, nel breve termine prescrizionale entro cui è ristretto l'esercizio di tale azione, decorrente dalla conoscenza effettiva dell'atto, ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione (Cass. 21-12-2001 n. 16177; Cass. 11-6-2010 n. 14093). In definitiva in accoglimento del ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata, e la causa deve essere rinviata da altra sezione della Corte di Appello di Torino che deciderà la controversia in conformità del principio di diritto sopra enunciato e che provvedere anche alla pronuncia sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Torino. Il c.d. contratto preliminare ad effetti anticipati non è una figura atipica, perché non è intesa a realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei singoli contratti tipici che in essa sono confluiti. Il criterio distintivo fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non va ravvisato in elementi formali - quali l'unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto può essere unico anche se ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 211 mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche in momenti diversi in relazione ad esigenze sopravvenute) - ma nell'elemento sostanziale dell'unicità o pluralità degli interessi perseguiti, dacchè il "contratto collegato" non è un tipo particolare di contratto, ma uno strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull'altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno soltanto dei contratti sia subordinato all'altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in rapporto di principale ad accessorio. Pertanto, affinchè possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l'effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale. Nel c.d. contratto preliminare ad effetti anticipati emergono dei contratti accessori al preliminare (necessariamente perchè funzionalmente connessi e, tuttavia, autonomi rispetto ad esso), rispondendo ciascuno ad una precisa tipica funzione economico-sociale e, pertanto, disciplinati ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale: contratti con i quali le parti pervengono ad una regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben definita, dei rapporti accessori funzionalmente collegati al principale e nei quali, vanno ravvisati, quanto alla concessione dell'utilizzazione della res da parte del promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente venditore, un mutuo gratuito. Ne consegue, con riferimento al primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della res nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Sentenza 27 marzo 2008, n. 7930 Svolgimento del processo O.E., con citazione del 27.4.95, conviene la S.p.A. Ice- Snei innanzi al Tribunale di Napoli e, sulla premessa del possesso esclusivo ed ininterrotto dal 5.1.68 d'un appartamento e pertinente box nell'edificio alla traversa 2 della via *** in ***, catastalmente intestato alla convenuta, chiede dichiararsi l'intervenuto suo acquisto della proprietà dell'immobile per usucapione. Costituendosi, la convenuta S.p.A. Ice-Snei si oppone alla domanda, deducendo che l'attore aveva avuto la mera detenzione dell'immobile, consegnatogli in esecuzione d'un preliminare di vendita inter partes, appunto del 5.1.68, e chiede, in via riconvenzionale, dichiararsi la risoluzione del detto preliminare per grave inadempimento della controparte, questa avendo corrisposto sul prezzo di vendita soltanto un anticipo di L. 42.815, e, quindi, condannarsi la stessa controparte alla restituzione del bene ed al risarcimento dei danni. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 212 Decidendo delle contrapposte domande con sentenza del 2.3.00, il tribunale adito, in accoglimento della principale, dichiara acquisita dall'attore la proprietà dell'immobile. Tale decisione, impugnata dalla S.p.A. Ice-Snei, viene riformata con sentenza del 27.1.03 dalla Corte di Appello di Napoli, che rigetta sia la domanda principale sia quelle riconvenzionali sulla considerazione: da un lato, che l' O., a seguito del preliminare di vendita, avesse acquisito la sola detenzione dell'immobile e che i successivi comportamenti tenuti dallo stesso non fossero stati idonei a mutare detta detenzione in un possesso utile all'usucapione; dall'altro, che non avendo la S.p.A. IceSnei rivolto l'invito a stipulare l'atto definitivo di trasferimento a termini di contratto alla controparte, a quest'ultima non fosse addebitabile un inadempimento al preliminare neppure in relazione al mancato pagamento del prezzo convenuto. Avverso la sentenza di secondo grado la S.p.A. Ice-Snei propone ricorso per cassazione, con atto notificato il 5.4.03, affidato a due motivi; l' O., a sua volta, propone ricorso per Cassazione, con atto notificato il 7.4.03, affidato anch'esso a due motivi; al primo ricorso l' O. resiste con controricorso del 14.5.03, contestualmente proponendo ricorso incidentale nel quale si riporta al proprio precedente ricorso; la S.p.A. Ice-Snei, a sua volta, con atto del 16.5.03, propone controricorso e contestuale ricorso incidentale, nel quale anch'essa si riporta al già proposto ricorso. Entrambe le parti fanno seguire memoria. La Seconda Sezione, disposta ex art. 335 c.p.c. all'udienza 13.6.06 la riunione dei ricorsi proposti in via principale ed incidentale avverso la medesima sentenza, con ordinanza 19.7.06 evidenzia come la questione relativa alla qualificazione, in termini di possesso piuttosto che di detenzione, della disponibilità del bene conseguita dal promissario d'una vendita immobiliare in forza di clausola del contratto preliminare questione ritenuta propedeutica anche rispetto a quella, sollevata dal medesimo ricorrente con il secondo motivo, relativa al difetto d'integrità del contraddittorio quanto alla domanda di risoluzione del contratto, proposta in via riconvenzionale dalla controparte ed oggetto del ricorso per cassazione di quest'ultima abbia avuto soluzioni difformi nella giurisprudenza di legittimità, anche all'interno della stessa Sezione, e rimette, quindi, la causa al Primo presidente, dal quale è disposta la trattazione della questione stessa da parte di queste Sezioni Unite per la composizione del contrasto. Motivi della decisione Preliminarmente, devesi confermare che i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c.. Va, inoltre, del pari preliminarmente rilevato come i ricorsi rubricati sub nn. R.G. 13911/03 ( O. c/ ICE-SNEI) e R.G. 13686/03 (ICE-SNEI c/ O.), proposti contestualmente ai rispettivi controricorsi e con i quali, tra l'altro, le parti riprospettano le medesime questioni fatte valere con i loro ricorsi originari, siano da considerare inammissibili. E', infatti, principio acquisito che la parte, dalla quale siasi già proposto ricorso per cassazione (sia esso principale od incidentale) contro alcune delle statuizioni della sentenza di merito, nel rapporto con un determinato avversario, non possa successivamente presentare un nuovo ricorso, nell'ambito dello stesso rapporto, nemmeno se nel frattempo abbia ricevuto notificazione del ricorso di detto avversario, ed a prescindere dal fatto che quest'ultimo possa suggerire un'estensione della contesa anche con riguardo ad altre pronunzie relative a quel rapporto, atteso che l'ordinamento non consente il reiterarsi o frazionarsi dell'iniziativa impugnatoria in atti separati (secondo il principio della cosiddetta consumazione dell'impugnazione) e che il relativo divieto non trova deroga nelle disposizioni di cui all'art. 334 c.p.c., le quali operano soltanto in favore della parte che, prima © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 213 dell'iniziativa dell'altro contendente, abbia fatto una scelta di acquiescenza alla sentenza impugnata (da ultimo, Cass. 2.2.07 n. 2309, 14.11.06 n. 24219, 27.10.05 n. 20912, 26.9.05 n. 18756, 10.2.05 n. 2704, 24.12.04 n. 23976). Si può, quindi procedere all'esame dei due ricorsi originar, dei quali quello previamente proposto (R.G. n. 10084/03 ICE-SNEI c/ O.) va considerato principale e quello successivo (R.G. 10431/03 O. c/ ICE-SNEI) incidentale. 1. - RICORSO PRINCIPALE. Con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente, denunziando violazione del principio della domanda con riferimento agli artt. 99 e 112 c.p.c., sotto il profilo della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del principio dell'onere della prova con riferimento all'art. 2697 c.c., si duole, rispettivamente: che il giudice a quo non abbia tenuto conto della domanda di risoluzione del preliminare, siccome formulata per inadempimento della controparte non all'obbligazione di stipulare il definitivo, unica presa in considerazione nell'impugnata sentenza pur senza domanda in tal senso, bensì alla diversa obbligazione di pagamento del prezzo, posta con l'art. 4 del contratto, laddove le parti avevano espressamente previsto che il ritardo nel pagamento o il mancato pagamento anche di una sola rata di mutuo avrebbe comportato la facoltà per la venditrice di risolvere il contratto, obbligazione della quale nella sentenza stessa non è stato tenuto alcun conto; che il giudice a quo abbia escluso l'inadempimento della controparte in relazione al pagamento del prezzo convenuto nonostante questa non a-vesse fornito dimostrazione alcuna di tale pagamento. Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente denunzia vizi di motivazione sulle questioni sollevate con il motivo precedente. Le riportate censure - che, per connessione, possono essere trattate congiuntamente - non meritano accoglimento sotto alcuno dei prospettati profili d'omessa pronunzia e d'extrapetizione. Quanto al primo profilo, per inammissibilità: dacchè, come ripetutamente evidenziato da questa Corte, l'omessa pronunzia, quale vizio della sentenza, dev'essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4 e non già in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Ciò che la ricorrente non ha fatto. Può aggiungersi che, onde possa utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed ineludibile, e, dall'altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo del giudizio di secondo grado nel quale l'una o l'altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di legittimità di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività della proposizione nel giudizio a quo ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell'art. 112 c.p.c., ciò che configura un'ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere- dovere del giudice di legittimità d'esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all'adempimento da parte del ricorrente, per il principio d'autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell'onere d'indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 214 ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 19.3.07 n. 6361, 28.7.05 n. 15781 SS.UU., 23.9.02 n. 13833, 11.1.02 n. 317, 10.5.01 n. 6502). Anche rispetto a tali oneri la ricorrente risulta inadempiente, donde un'ulteriore ragione d'inammissibilità della censura. Quanto al secondo profilo, per infondatezza, dacchè, almeno nei termini in cui sono state prospettate, le censure d'extrapetizione e di connesso vizio di motivazione non trovano rispondenza all'esame della sentenza impugnata. Con la quale la causa petendi della riconvenzionale in risoluzione proposta dall'odierna ricorrente è stata correttamente individuata, nel fatto che " O.E. con detto preliminare si era impegnato al pagamento della complessiva somma di L. 8.337.360, ma non aveva provveduto al pagamento delle rate in cui era stato dilazionato il prezzo nè al pagamento delle rate del mutuo accollato", ma ne è stato escluso il fondamento, in quanto vi si è ritenuto che, risultando contrattualmente pattuita la stipulazione del definitivo nei dieci giorni dall'invito rivolto per lettera raccomandata dalla promittente venditrice al promissario acquirente e la prima non avendo mai provveduto al riguardo, nessun inadempimento fosse imputabile al secondo "neanche in relazione al pagamento del prezzo convenuto". In siffatto se pur sintetico iter logico-argomentativo - evidentemente ispirato al principio per cui un inadempimento del promissario acquirente all'obbligazione di pagamento del prezzo non può ravvisarsi ove non siano stati contrattualmente stabiliti versamenti a scadenze determinate anteriori alla stipulazione del definitivo - sarebbero stati eventualmente ravvisabili e denunziabili errori d'interpretazione del contratto preliminare e/o d'inappropriata applicazione del richiamato principio al caso di specie, peraltro neppure accennati con i motivi in esame, ma non sono ravvisabili i dedotti vizi d'extrapetizione e di connesso difetto di motivazione. D'altra parte, la censura neppure presenta il requisito dell'autosufficienza, ed è pertanto inammissibile, dacchè non vi è riportato il testo del contratto o, quanto meno, delle clausole tutte pertinenti alla prospettata questione, di guisa che il giudice di legittimità, cui non è consentito l'esame diretto dell'incarto processuale se non nelle ipotesi di denunziati errores in procedendo, non è posto in condizione di valutare la dedotta erronea applicazione del regolamento pattizio. 2. - RICORSO INCIDENTALE. L' O. - denunziando con il primo motivo del ricorso n. 10431/03 la violazione dell'art. 1158 c.c. e art. 116 c.p.c., nonchè omessa o insufficiente e contraddittoria motivazione - oltre a dolersi dell'inadeguatezza delle argomentazioni svolte dalla corte territoriale, laddove ha escluso l'interversione della sua detenzione sull'immobile de quo in un possesso utile all'usucapione, contesta, anzi tutto, la stessa qualificazione come detenzione, anzichè come possesso, data da quel giudice alla materiale disponibilità del bene quale da lui conseguita in esecuzione di specifica clausola del contratto preliminare; assume, al riguardo, che, tale pattuizione avendo avuto la funzione di anticipare gli effetti del trasferimento del diritto di proprietà, oggetto del contratto cui era intesa la volontà delle parti, e, quindi, anche l'effetto dell'immissione nel possesso e non nella detenzione dell'immobile, non fosse conseguentemente necessario alcun atto d'interversione perchè ne avesse luogo l'usucapione con il decorso del termine ventennale di prescrizione acquisitiva dall'immissione nel godimento dello stesso. In tal senso svolgendo le proprie tesi, l' O. contrappone alla soluzione adottata dal giudice a quo che, come ricordato nell'ordinanza di rimessione, si è conformato alla giurisprudenza di legittimità prevalente - la difforme soluzione adottata da un indirizzo giurisprudenziale minoritario e, tuttavia, a tratti riemergente in alcune pronunzie, anche relativamente recenti, di questa Corte. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 215 La motivazione della maggior parte delle quali si traduce in affermazioni apodittiche, riproduttive di massime tralaticie, mentre, nelle poche obiettivamente argomentate, l'iter logico dell'adottata soluzione prende le mosse dalla considerazione per cui il possesso non è escluso dalla conoscenza del diritto altrui, nè è subordinato all'esistenza della correlativa situazione giuridica,dacchè esso è ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus) sia sotto quello psicologico (animus), ad una situazione di fatto, che si concretizza nell'esercizio di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale e distinguentesi dalla detenzione solo per l'atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita, caratterizzato, nel possesso, dal cd. animus rem sibi habendi (ossia, l'intenzione o il volere di esercitare la signoria che è propria del proprietario o del titolare del diritto reale) e, nella detenzione, dal cd. animus detinendi (che implica il riconoscimento della signoria altrui). Soggiungendosi, poi, che tale principio di carattere generale non soffre deroga nei casi in cui il soggetto che assume d'essere possessore abbia ricevuto il godimento dell'immobile per effetto d'una convenzione negoziale, con la precisazione che, se la convenzione ha effetti obbligatori, perchè diretta ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito del bene, colui che, avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso, nomine alieno, nel godimento del bene, necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto di interversione del possesso, ai sensi dell'art. 1141 c.c., comma 2. Vi si evidenzia, quindi, che ciò spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale "per stabilire se in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia un possesso idoneo alla usucapione o una mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori, dato che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare nel predetto soggetto l'animus possidendi (sent. n. 4819 del 1981; sent. n. 4698 del 1987; sent. n. 741 del 1983)"; che, tuttavia, proprio la ragione del principio di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, escludendone l'applicazione alle convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo obbligatori, le parti tendano a realizzare il trasferimento della proprietà del bene o di un diritto reale su di esso quando ad esse si aggiunga un patto accessorio d'immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente anticipatore degli effetti traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti stesse si sono ripromesse di realizzare. Vi si perviene, così, alla conclusione per cui nelle ipotesi predette, tra le quali rientra quella più diffusa del contratto preliminare di compravendita, la convenzione non tende solo ad attribuire il godimento del bene (che si realizza, appunto, attraverso il trasferimento della mera detenzione, caratterizzando coerentemen-te la consegna della cosa) ma è in funzione di un comune proposito di trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del possesso, che costituisce solo un'anticipazione dell'effetto giuridico finale perseguito; onde il patto di immediato trasferimento del possesso che eventualmente acceda a queste convenzioni, con le quali è perfettamente compatibile, caratterizza, dunque, anche la consegna che ad esso faccia seguito, conferendole effetti attributivi della disponibilità possessoria e non della mera detenzione, anche in mancanza dell'immediato effetto reale del contratto cui il patto accede, tenuto anche conto che la consegna, essendo il possesso un fenomeno che prescinde dal fondamento giustificativo, è atto neutro, o negozio astratto, per il quale non si richiede affatto il requisito del fondamento causale. Tali essendo le ragioni giustificative delle esaminate decisioni, devesi considerare che, sfrondate dei superflui richiami ai principi generali, che si dichiarano condivisi, esse si riducono, in buona sostanza, alla sola affermazione per cui, nonostante la natura esclusivamente obbligatoria del preliminare, con il prevedervi anche l'immediata consegna del bene verso la contestuale © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 216 corresponsione, in tutto od in parte, del prezzo, i contraenti intendono anticipare "l'effetto traslativo del diritto" proprio del definitivo. Tesi siffatta non può trovare adesione, sia che della fattispecie in esame si consideri l'aspetto possessorio, in quanto il possesso non è suscettibile di trasferimento disgiuntamente dal diritto reale del quale costituisce l'esercizio, sia che se ne consideri quello contrattuale, in quanto la disponibilità della res conseguita dal promissario acquirente deriva da un contratto di comodato collegato al preliminare per il quale al comodatario è attribuita la detenzione e non il possesso; ciò per le ragioni che di seguito si espongono. In primis, è lo stesso invocato intento delle parti ad esservi erroneamente individuato e/o travisato, in quanto, con lo stipulare un preliminare, sono per l'appunto gli effetti reali traslativi, propri del definitivo, che le parti non vogliono si verifichino per effetto immediato e diretto della conclusa convenzione. La situazione giuridica in esame, come evidenziato anche in dottrina, è, in vero, il portato d'una prassi contrattuale sviluppatasi, essenzialmente nel settore immobiliare, in ragione della sua attitudine a fornire uno strumento idoneo a soddisfare sollecitamente determinate esigenze delle parti, principalmente la disponibilità del bene per l'una e del denaro per l'altra ma ulteriori se ne possono agevolmente ipotizzare, pur contestualmente garantendone i rispettivi diritti sui beni oggetto delle reciproche attribuzioni, indipendentemente dalla sorte della convenzione, per il tempo necessario a che si realizzino quelle condizioni oggettive e/o soggettive, agevolmente ipotizzabili anch'esse nella loro molteplicità, in ragione delle quali - tanto che siano rimaste del tutto estranee alla convenzione, eppertanto giuridicamente irrilevati anche a solo livello di presupposizione, quanto che, invece, sianvi espressamente previste come condizioni sospensive o risolutive - le parti stesse non hanno voluto o potuto addivenire ad un contratto definitivo. Sono usuali, al riguardo, particolarmente nella materia delle compravendite immobiliari - che è quella più interessata dal fenomeno - le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell'edificio od opere di completamento dell'edificio stesso o delle infrastrut- ture accessorie od estinguere ipoteche o mutui, in difetto di che non sussiste l'interesse e conseguentemente la volontà di perfezionare l'acquisto da parte del promissario acquirente; o quelle in cui quest'ultimo debba, a sua volta, procurarsi, anche in più riprese, le disponibilità necessarie alla corresponsione integrale del prezzo, il conseguimento del quale condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla realizzazione della vendita. Dottrina e giurisprudenza, quando - sulla considerazione per cui la terminologia "promette di vendere o di acquistare" non è automaticamente indicativa d'una semplice promessa e la cosiddetta anticipazione degli effetti della vendita può essere indice dell'intento di porre in essere un contratto definitivo se il differimento della manifestazione di volontà non risulti chiaramente dal contratto affermano che, al fine di attribuire ad una stipulazione il contenuto del contratto di compravendita o piuttosto quello del preliminare di compravendita, è determinante l'identificazione del comune intento delle parti - diretto, nel primo caso, al trasferimento della proprietà della res verso la corresponsione di un certo prezzo, conformemente alla causa negoziale dell'art. 1470 c.c., e, nel secondo caso, all'insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio che impegni ad un'ulteriore manifestazione di volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla res e l'adempimento dell'obbligazione del pagamento del prezzo - onde il giudice del merito deve esaminare la stipulazione nel suo complesso al fine di accertare la comune volontà delle parti nell'un senso piuttosto che nell'altro, compiono, in verità, solo un primo approccio alla questione in esame, che, evidentemente, più non si porrebbe ove l'accertamento demandato al giudice si risolvesse nel senso del contratto ad effetti reali, dacchè, in tal caso, non vi sarebbe, evidentemente, luogo a parlare di preliminare, dacchè le prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 217 Viceversa, se l'accertamento compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in re ipsa, come si è già sottolineato, che le parti intendessero realizzare qualsiasi effetto del definitivo, eppertanto, ai fini della soluzione della questione in esame, si rende necessaria un'indagine ulteriore e diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti, differenti da quelli propri del definitivo ma aggiuntivi rispetto a quelli ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far derivare dalla convenzione, in attuazione della quale ed in particolare delle pattuizioni aggiuntive hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a quelle proprie del definitivo. Al fine della qual ulteriore indagine, devesi preliminarmente considerare come la previsione e l'esecuzione della traditio della res e/o del pagamento, anche totale, del prezzo non siano affatto, di per se stessi, incompatibili con l'intento di stipulare un contratto solo preliminare di compravendita, dacchè, in tal guisa operando, le parti manifestano e concretamente realizzano esclusivamente l'intento d'anticipare non gli effetti del contratto di compravendita - l'impegno alla cui futura stipulazione costituisce l'oggetto delle obbligazioni assunte con la convenzione stipulata nella prescelta forma del preliminare, mentre tali effetti rappresentano, per contro, proprio quel risultato cui le parti stesse non hanno inteso, al momento, pervenire - ma solo quelle prestazioni che delle obbligazioni nascenti dalla compravendita costituiscono l'oggetto, id est la consegna della res ed il pagamento del prezzo, quali, ex artt. 1476 e 1498 c.c., sono poste a carico, rispettivamente, del venditore e del compratore (nel tempo, Cass. 19.4.00 n. 5132, 7.4.90 n. 2916, 3.11.88 n. 5962, ma già 1.12.62 n. 3250). Escluso che con la stipulazione del preliminare, sia pure con previsione, ed esecuzione, della consegna della res e/o del pagamento del prezzo, le parti debbano avere necessariamente inteso che si verificassero gli effetti della compravendita - nel qual caso, d'altronde, come si è già evidenziato, si sarebbe in presenza d'un definitivo e non d'un preliminare - devesi anche escludere che, in virtù di tale esecuzione, possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente il possesso della res. In vero, come questa Corte ha già avuto occasione d'evidenziare - richiamando anche accreditata dottrina, per la quale "ciò che si trasferisce è solo l'oggetto del possesso, il quale, invece, non si compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l'effetto di un negozio", e, perciò, "l'acquisto a titolo derivativo del possesso è un'espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato" - dalla stessa nozione del possesso, definito dall'art. 1140 cod. civ. come "il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale", si evince ch'esso non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto del quale esso costituisca l'esercizio, considerato che un'attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e l'intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l'attività che lo contraddistingue deve essere accompagnata dall'animus possidendi (volontà di esercitare sulla cosa una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale), cioè da un elemento che, per la sua soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto in precedenza. (Cass. 27.9.96 n. 8528). Quindi esattamente si è affermato in dottrina che, essendo il possesso uno stato di fatto, l'acquisto ne è in ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce che di acquisto derivativo possa parlarsi "soltanto per sottolineare che l'acquisto del possesso ha luogo con l'assenso e la partecipazione del precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il possesso, come accade nell'apprensione". L'unica eccezione a questa regola si ha nella successione universale, ma è un'eccezione espressamente prevista e regolata dal legislatore che, in forza dell'elaborata fictio legis, ha consentito la continuazione nell'erede del possesso esercitato dal de cuius, con effetto dall'apertura della © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 218 successione, indipendentemente dalla verificazione dei suoi presupposti di fatto, ma, appunto perchè di diritto singolare ed eccezionale, l'istituto non può essere utilizzato onde pervenire ad una soluzione diversa da quella indicata con la richiamata regola generale. Nè, a sostegno della tesi della possibilità d'una trasmissione contrattuale del possesso, può richiamarsi l'art. 1146 c.c., comma 2, perchè per tale norma l'accessio possessionis, da essa prevista, ha, per presupposto indispensabile, l'esistenza di un titolo, anche viziato, idoneo in astratto, alla cessione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) del bene formante oggetto del possesso (Cass. 6552/81, 3876/76, 3369/72, 936/70, 1378/64, 1044/62); inoltre, la norma non prevede affatto la trasmissione del possesso da un soggetto all'altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo particolare (acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso del dante causa per goderne gli effetti sostanziali e processuali. Per altro verso, devesi considerare che il preliminare di compravendita con il quale siano contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la corresponsione del pari anticipata del prezzo in una o più soluzioni non è un contratto atipico, almeno se con tale termine s'intende definire un contratto caratterizzato da una funzione economico-sociale non riconducibile agli schemi normativamente predeterminati e tuttavia suscettibile di riconoscimento e di tutela, sul presupposto dell'autonomia contrattuale che l'ordinamento riconosce ai privati, in ragione dellasua liceità e della sua meritevolezza. Nella fattispecie in esame va ravvisata, infatti, la convergenza, in un'unica convenzione, degli elementi costitutivi di più contratti tipici, nel qual caso resta escluso che la convenzione stessa possa essere qualificata come atipica, dal momento che, sia pure considerata nelle sue plurime articolazioni, non è intesa a realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei singoli contratti tipici che in essa sono confluiti. Pertanto, considerato che le parti, nell'esplicazione della loro autonomia negoziale, possono, con manifestazioni di volontà espresse in un unico contesto, dar vita a più negozi tra loro del tutto distinti ed indipendenti, come pure a più negozi variamente interconnessi, la qualificazione della fattispecie va, piuttosto, effettuata con riguardo alla sua riconducibilità nell'ambito d'una delle categorie, elaborate da dottrina e giurisprudenza nell'esame delle fattispecie congeneri, dei contratti misti o complessi, o dei contratti collegati. I contratti misti o complessi sono quelli maggiormente assimilabili al contratto atipico, se pur se ne differenziano per non essere intesi alla realizzazione d'una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei contratti tipici che vi confluiscono, dacchè in essi la pluralità degli schemi contrattuali tipici u- tilizzati si combina in guisa che, per la fusione delle cause, gli elementi costitutivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi costitutivi di un negozio rispetto a ciascun d'essi autonomo e distinto caratterizzato dall'unicità della causa; con la precisazione, evidenziata da alcuna parte della dottrina, per cui, nei contratti misti, si ha un solo schema negoziale, al quale vengono apportate alcune variazioni mediante l'inserimento di clausole assunte da uno o più diversi schemi, mentre, in quelli complessi, si ha la convergenza di tutti gli elementi costitutivi tratti da più schemi negoziali tipici nella regolamentazione dell'unico negozio risultantene. Nell'una ipotesi come nell'altra, la disciplina del contratto è unitaria, come unitaria ne è la causa, e va ravvisata in quella del negozio di maggior rilievo, questo da individuarsi, quanto al contratto misto, nell'unico contratto cui sono stati aggiunti singoli elementi tratti da altri e che in esso si fondono (teoria dell'assorbimento), e, quanto al contratto complesso, in quello, tra i più contratti integralmente confluiti nell'unica convenzione, cui, all'esame della volontà quale in concreto manifestata dalle parti, risulti essere stato conferito rispetto agli altri il maggior rilievo in considerazione della finalità perseguita (teoria della prevalenza). © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 219 Minor seguito ha, in dottrina, la tesi per cui, nell'ipotesi del contratto complesso, i vari profili della convenzione andrebbero singolarmente disciplinati con riferimento allo schema contrattuale corrispondente (teoria della combinazione); ed, in effetti, tesi siffatta non consente, poi, a differenza dalla teoria della prevalenza, un'adeguata differenziazione di disciplina tra la fattispecie del contratto complesso e quella dei contratti collegati. La quale ricorre ove più contratti autonomi, ciascuno caratterizzato dalla propria causa, formino oggetto di stipulazioni coordinate, nell'intenzione delle parti, alla realizzazione di uno scopo pratico unitario, costituito, di norma, dall'agevolare la realizzazione della funzione economico-sociale dell'un d'essi. Il collegamento contrattuale, come è stato ripetutamente evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, nei suoi aspetti generali non da luogo ad un autonomo e nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto, bensì attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi. Ond'è che il criterio distintivo fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non va ravvisato in elementi formali - quali l'unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto può essere unico anche se ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche in momenti diversi in relazione ad esigenze sopravvenute) - ma nell'elemento sostanziale dell'unicità o pluralità degli interessi perseguiti, dacchè il "contratto collegato" non è un tipo particolare di contratto, ma uno strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull'altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno soltanto dei contratti sia subordinato all'altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in rapporto di principale ad accessorio. Pertanto, affinchè possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il requisito oggettivo, costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia il requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l'effetto tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria autonomia anche dal punto di vista causale. Tanto considerato, risulta evidente come la fattispecie in discussione debba essere ricondotta alla categoria dei contratti collegati. In essa, infatti, le parti, onde agevolare, per le plurime ragioni quali in precedenza accennate, la realizzazione delle finalità perseguite con la stipulazione del preliminare di compravendita, stipulano altresì - e, come del pari si è già evidenziato, ciò può aver luogo contemporaneamente e contestualmente al preliminare ma anche in tempi e con atti diversi, a seconda che le circostanze lo richiedano - dei contratti accessori, al preliminare necessariamente perchè funzionalmente connessi e, tuttavia, autonomi rispetto ad esso, rispondendo ciascuno ad una precisa tipica funzione economicosociale eppertanto disciplinati ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 220 Contratti con i quali le parti pervengono ad una regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben definita, dei rapporti accessori funzionalmente collegati al principale e nei quali, secondo un'autorevole opinione dottrinaria meritevole d'esser condivisa, vanno ravvisati, quanto alla concessione dell'utilizzazione della res da parte del promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente venditore, un mutuo gratuito. Ne consegue, con riferimento al primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della res nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha natura di detenzione qualificata esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso. Possesso che il promissario acquirente può, dunque, opporre al promittente venditore solo nei modi previsti dall'art. 1141 c.c., in particolare assumendo e dimostrando un'intervenuta interversio possessionis. Questa, come ha correttamente ricordato il giudice a quo, non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore ha cessato d'esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio ed, inoltre, manifestazione siffatta dev'essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l'intenzione del soggetto di sostituire al precedente animus detinendi un nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell'avvenuto mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione all'esercizio del possesso da parte del possessore stesso; tra tali atti, ove non accompagnati da altra manifestazione dotata degli indicati connotati dell'opposizione, non possono ricomprendersi nè quelli che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi in tal caso un'ordinaria ipotesi d'inadempimento contrattuale, nè quelli che si traducano in ordinari atti d'esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene. Al qual riguardo l' O. addebita al giudice a quo, denunziando vizi di motivazione, di non aver desunto dalle emergenze istruttorie quegli evidenti elementi costitutivi della fattispecie ch'egli ritiene vi fossero adeguatamente rappresentati. La censura non merita accoglimento. Per costante insegnamento di questa Corte, in vero, il motivo di ricorso per Cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 dev'essere inteso a far valere, a pena d'inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli e-lementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe - com'è, appunto, per quello di cui trattasi - in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 221 Nè, com'è del pari da tralaticio insegnamento di questa Corte, può imputarsi al detto giudice d'aver omesse l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l'una nè l'altra gli sono richieste, rientrando nel suo potere discrezionale, a norma dell'art. 116 c.p.c., individuare le fonti del proprio convincimento, mentre soddisfa all'esigenza d'adeguata motivazione che questo, una volta raggiunto, risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell'art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell'esito dell'avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell'adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse. Nella specie, non solo il motivo, già non inteso a censurare la rado decidendi ma a prospettare una diversa interpretazione degli accertamenti in fatto, estranea alle valutazioni consentite al giudice di legittimità, è per ciò solo inammissibile, ma la motivazione fornita dal giudice a quo all'assunta decisione risulta logica e sufficiente, basata com'è su argomentazioni adeguate in ordine alla valenza oggettiva dei plurimi e pertinenti elementi di giudizio presi in considerazione e su razionali valutazioni di essi; un giudizio operato, pertanto, nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 c.p.c., n. 5 la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa. Con il secondo motivo, il ricorrente - denunziando violazione dell'art. 102 c.p.c. - si duole che il giudizio di merito promosso dalla controparte per la risoluzione del preliminare si sia svolto a contraddittorio non integro, in quanto il contratto in discussione era stato stipulato anche da suo fratello Ettore, rimasto estraneo al giudizio, e che tale nullità non sia stata rilevata d'ufficio dal giudice a quo. La doglianza va disattesa, in quanto l' O., totalmente vittorioso sul punto essendo stata respinta l'avversa domanda di risoluzione tanto in primo grado quanto in appello, difetta d'interesse ad impugnare per cassazione al riguardo se non condizionatamente all'accoglimento del ricorso di controparte, condizione che, come da reiezione del ricorso principale, non si è avverata. 3. - CONCLUSIONI. Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, entrambi i ricorsi vanno, dunque, respinti. Tale esito del giudizio di legittimità giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio stesso. P.Q.M. LA CORTE Decidendo a Sezioni Unite, dichiara inammissibili i ricorsi iscrittial R.G. con i numeri 13911/03 e 13686/03; respinge i ricorsi iscritti al R.G. 10084/03 e 10431/03; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 maggio 2007. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 222 Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2008. In caso di inadempimento di preliminare di vendita avente ad oggetto un bene della comunione legale tra i coniugi, concluso da uno solo di questi, in qualità di promittente alienante, è impossibile la domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. da parte del promissario acquirente, laddove non sia stato integrato il contraddittorio anche nei confronti del coniuge non contraente, configurandosi un caso di litisconsorzio necessario exart. 102 c.p.c.. Il relativo giudizio è, quindi, nullo. Cass. civ. Sez. Unite, 24-08-2007, n. 17952 Svolgimento del processo L.G.M. ha convenuto il fratello L. C. innanzi al tribunale di Firenze chiedendone, ex art. 2932 c.c., la condanna al trasferimento in proprio favore dell'unità immobiliare costituita da un appartamento al quarto ed ultimo piano dell'edificio sito alla via (OMISSIS) di quella città ed, in subordine, al risarcimento dei danni, sulla premessa: che per contratto preliminare 28.7.89, B.G. gli aveva promesso in vendita l'intero edificio al concordato prezzo di L. tre miliardi; che il 13.10.89 il nominato fratello gli aveva proposto di sostituirsi a lui nell'acquisto, promettendogli la cessione dell'unità immobiliare in questione, a compenso della svolta attività di mediazione, ove quel preliminare, subordinato al mancato acquisto del medesimo intero immobile da parte della Sovrintendenza, avesse avuto esecuzione, - che, in seguito, acquistato definitivamente l'immobile, il fratello, sottraendosi all'obbligazione assunta, aveva, invece, rifiutato di trasferirgli la proprietà della detta unità immobiliare. A tale domanda L.C. si è opposto eccependo, preliminarmente in rito, il proprio difetto di legittimazione passiva, per essere stato l'edificio acquistato in comunione di beni con la propria moglie, non convenuta in giudizio, e quindi, nel merito, sia l'inefficacia della propria dichiarazione 13.10.89, in quanto promessa unilaterale cui la legge non riconosceva tale effetto, sia la nullità della dichiarazione stessa, non essendo la controparte iscritta all'albo dei mediatori, sia, in fine, essere l'obbligazione assunta limitata al trasferimento del solo usufrutto e non della proprietà, come ex adverso preteso, giusta la contemporanea dichiarazione in tal senso sottoscritta dalla controparte nel medesimo contesto. Accoltasi la domanda ex art. 2932 c.c. dall'adito tribunale con sentenza 11.7.00, questa L.C. ha impugnato con appello cui si è opposto L.G.M.. Decidendone con sentenza 28.9.02, la corte d'appello di Firenze ha accolto l'impugnazione ed, in totale riforma della decisione di primo grado, ha rigettato entrambe le originarie domande, principale d'adempimento coattivo e subordinata di risarcimento, sulla considerazione in ordine alla prima unico argomento rimesso alla decisione in questa sede - che l'eccezione riproposta dall'appellante, relativa alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti della propria moglie comproprietaria in comunione dei beni dell'immobile controverso, fosse infondata, in quanto l'azione ex art. 2932 c.c. può essere promossa anche solo nei confronti del promittente, pur essendo il bene promesso oggetto di comunione di beni con il coniuge dello stesso, ove l'attore intenda conseguire una pronunzia limitata al trasferimento della quota del promittente medesimo; che, tuttavia, dacchè nella specie l'originario attore non aveva limitato la pretesa alla sola quota dell'obbligato ma aveva chiesto il trasferimento dell'intera porzione immobiliare, costituente un unicum inscindibile del quale l'uno dei comproprietari non poteva disporre senza il consenso dell'altro, il giudizio sarebbe stato da © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 223 promuovere anche nei confronti di quest'ultimo e, ciò non essendosi fatto, la domanda andava, appunto, rigettata. Avverso tale decisione L.G.M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui resiste L.C. con controricorso, anche contestualmente proponendo ricorso incidentale condizionato, cui, a sua volta, il ricorrente principale resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie. Passata la causa in decisione, la 2^ Sezione Civile, esaminando il primo motivo del ricorso principale, con il quale è denunziato un vizio dell'impugnata sentenza per non essersi ravvisata nella specie un'ipotesi di litisconsorzio necessario, ha rilevato la sussistenza d'una divergenza d'opinioni, nella giurisprudenza di legittimità ed in seno alla stessa Sezione, in ordine alla necessità o meno della partecipazione del coniuge in comunione dei beni al giudizio nel quale si chieda il trasferimento coattivo d'un immobile ricompreso nella comunione familiare; donde la trasmissione degli atti al Primo Presidente, che ha assegnato a queste Sezioni Unite la soluzione del segnalato contrasto. Motivi della decisione Preliminarmente, i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c.. Va, poi, esaminata la questione sollevata dal controricorrente, con la memoria 27.12.06, relativamente alla ritenuta necessità d'esaminare preliminarmente il terzo motivo del ricorso principale, con il quale l'impugnata pronunzia è censurata nel capo in cui, decidendo della subordinata domanda risarcitoria, il giudice a quo ha escluso che dal rapporto inter partes, valutatene le varie possibili qualificazioni, potessero derivare gli effetti giuridici pretesi dall'originario attore; sostiene il controricorrente che, ove tale censura venisse disattesa, verrebbe meno l'interesse alla decisione sulla necessità o meno dell'integrazione del contraddittorio nel giudizio di merito. La questione, anche a voler prescindere dalla non consentita tardiva proposizione in memoria, va comunque disattesa, in quanto, attenendo al merito della controversia, è essa necessariamente condizionata alla previa soluzione della questione posta sull'integrità del contraddittorio ab origine e non viceversa. Con il motivo da esaminare in questa sede, si duole il ricorrente - denunziando violazione degli artt. 2932, 177, 184, 189 c.c., art. 354 c.p.c. - che il giudice a quo erroneamente abbia escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario tra i coniugi in comunione dei beni nel giudizio ex art. 2932 c.c. che il promissario acquirente del bene oggetto di comunione, promessogli in vendita non da entrambi ma da uno soltanto dei coniugi comproprietari, abbia promosso nei soli confronti di quest'ultimo e, pur avendo riconosciuto che detta azione, ove intesa ad ottenere il trasferimento non della sola quota del promittente ma dell'intero bene, debba essere promossa nei confronti d'entrambi i coniugi, abbia tuttavia rigettato la domanda invece di rimettere la causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c. per l'integrazione del contraddittorio. La censura è fondata: per la contestata esclusione del contraddittorio, oltre che per l'evidenziata contraddizione in termini. La comunione ordinaria, quale regolata dagli artt. 1100 e 1116 c.c., si configura come comunione pro indiviso o proprietà plurima parziaria, nella quale il diritto di proprietà è unico ed ha ad oggetto il bene nella sua interezza e, tuttavia, il diritto di ciascuno dei partecipanti non ha per oggetto nè il bene nella sua interezza, nè una parte fisicamente individuata di esso, bensì una quota ideale, proporzionata al suo diritto di partecipazione, del quale costituisce la misura. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 224 In tale situazione, la promessa di vendita di un bene in comunione (come hanno evidenziato queste SS.UU. con la sentenza 8.7.93 n. 7481) è, di norma, considerata dalle parti attinente al bene medesimo come un unicum inscindibile e non come somma delle singole quote che fanno capo a ciascuno dei comproprietari - salvo che l'unico documento predisposto per il detto negozio venga redatto in modo tale da farne risultare la volontà di scomposizione in più contratti preliminari in base ai quali ognuno dei comproprietari s'impegna esclusivamente a vendere la propria quota al promissario acquirente, con esclusione di forme di collegamento negoziale o di previsione di condizioni idonee a rimuovere la reciproca insensibilità dei contratti stessi all'inadempimento di uno di essi - di guisa che i detti comproprietari costituiscono un'unica parte complessa e le loro dichiarazioni di voler vendere si fondono in un'unica volontà negoziale; onde, quando una di tali dichiarazioni manchi (o sia invalida), non si forma (o si forma invalidamente) la volontà di una delle parti del contratto preliminare, escludendosi, pertanto, in toto la possibilità per il promissario acquirente d'ottenere la sentenza costitutiva di cui all'art. 2932 c.c. nei confronti dei soli comproprietari promittenti, sull'assunto di una mera inefficacia del contratto stesso rispetto a quelli rimasti estranei, dacchè, da un lato, non è configurabile un interesse alla sua esecuzione parziale da parte del promissario acquirente (per mancanza del diritto su cui tale interesse si dovrebbe fondare) e, dall'altro, il comproprietario promittente venditore che ha espresso il suo consenso (o lo ha espresso validamente) non oppone un semplice interesse contrario (giuridicamente apprezzabile o meno) all'avversa richiesta d'esecuzione parziale, ma invoca l'insussistenza stessa del diritto vantato dalla controparte. La situazione è diversa ove si verta in tema di comunione legale tra coniugi, quale regolata dagli artt. 177 e 197 c.c.. Fondamentale è stata, al riguardo, la ricostruzione che dell'istituto ha operato la Corte costituzionale con la sentenza 17.3.88 n. 311, nella quale si è evidenziata la netta distinzione tra comunione ordinaria e comunione legale tra coniugi, questa configurata come una proprietà plurima parziaria, per più versi analoga alla classica communio ercto non cito, sulla considerazione: che trattasi di comunione senza quote; che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione; che la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari, la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione, la proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo e il passivo debbono essere ripartiti tra i coniugi od i loro eredi. Configurazione cui consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione e che il consenso dell'altro, richiesto dal modulo dell'amministrazione congiuntiva adottato dall'art. 180 c.c., comma 2 per gli atti di straordinaria amministrazione, non è un negozio unilaterale autorizzativo, nel senso d'atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso, secondo la nota teoria formulata dalla giuspubblicistica, di atto che rimuove un limite all'esercizio di un potere e requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio, onde l'ipotesi regolata dall'art. 184 c.c., comma 1 tecnicamente si riferisce non ad un caso d'acquisto inefficace perchè a non domino, bensì ad un caso d'acquisto a domino in base ad un titolo viziato. Per il che, nella comunione legale tra coniugi, la mancanza del consenso d'uno dei condomini al negozio avente ad oggetto diritti reali su immobili o mobili registrati non determina, come nella comunione ordinaria, l'invalidità assoluta del negozio, ma solo la sua annullabilità nello stabilito termine di prescrizione annuale (e tuttavia, come affermato nella massima CCos. 0010600, la prevista © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 225 annullabilità dell'atto non costituisce deroga al generale principio d'inefficacia degli atti di disposizione posti in essere da alienante non legittimato, onde da parte della dottrina anche si sostiene che l'atto posto in essere dal singolo coniuge è colpito dalla sanzione generale dell'inefficacia dell'atto compiuto dal non legittimato nei confronti del coniuge pretermesso, e che in favore di quest'ultimo si aggiunge la possibilità d'esperire altresì l'azione speciale d'annullamento ex art. 184 c.c. al fine d'evitare di rimanere personalmente obbligato per l'inadempimento verso il terzo). La riportata metodologia ricostruttiva dell'istituto non ha trovato larghi consensi in dottrina - dalla quale se n'è anche evidenziata l'incoerenza con la ratio della comunione legale, quale introdotta dalla novella n. 151/1975, come intesa al superamento della discriminazione del coniuge più debole, insita nel precedente regime della separazione dei beni, ed alla maggiore tutela patrimoniale della famiglia e tuttavia ha costituito la base delle pronunzie adottate in materia dalla successiva giurisprudenza di legittimità che, non di meno, pur partendo da tale comune presupposto, sulla questione che ne occupa è pervenuta, come si è visto, a soluzioni diametralmente opposte. In particolare, la recente Cass. 28.10.04 n. 20867 - ponendosi in consapevole contrasto con la prevalente giurisprudenza anteriore, in ordine alla quale rileva come l'inevitabile coinvolgimento nel giudizio ex art. 2932 c.c. del coniuge rimasto estraneo al preliminare vi fosse stato asserito in modo generico - sulla considerazione che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota ma solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni della comunione, che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione, che l'azione ex art. 2932 c.c. non ha natura reale ma personale, perviene alla conclusione per cui in quest'ultima non sia ravvisabile un'ipotesi di litisconsorzio necessario, non vertendosi in situazione sostanziale caratterizzata da un rapporto unico ed inscindibile con pluralità di soggetti e non rivestendo, quindi, il coniuge rimasto estraneo al preliminare, del quale si chiede l'esecuzione in forma specifica, la qualità di parte la cui presenza in giudizio sia condizione essenziale affinchè la sentenza non venga inutiliter data. In realtà, di quest'ultimo asserto - che non costituisce affatto una logica conseguenza delle premesse, atteso anche il carattere di specialità con il quale si pone la normativa regolatrice dell'istituto della comunione familiare - l'esaminata sentenza non fornisce dimostrazione alcuna, a differenza dai disattesi precedenti che, affatto generici al riguardo, la contraria opinione fondano su una pluralità d'argomenti validi, condivisi ed integrati dalla prevalente dottrina. Non appare, in vero, conclusiva la ragione - mutuata dalle remote Cass. 27.4.82 n. 2635 e 28.12.88 n. 7081 - addotta in considerazione della natura obbligatoria e non reale del preliminare. Va, infatti, considerato che i richiamati precedenti pervenivano a tale affermazione in funzione della ritenuta esperibilità dell'azione ex art. 2932 c.c. limitatamente alla quota del coniuge promittente venditore, tesi disattesa dalla giurisprudenza successiva, con espresso richiamo ai principi posti dal Giudice delle leggi con la richiamata sentenza 311/88, sulla considerazione dell'inconciliabilità dell'ingresso d'un estraneo nella comunione familiare con la natura e la disciplina peculiari dell'istituto (Cass. 2.2.95 n. 1252, 14.1.97 n. 284, 11.4.02 n. 5191, 19.3.03 n. 4033); d'altro canto, stante il pacifico principio per cui, in tema d'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c., la sentenza che tenga luogo del contratto definitivo non concluso deve necessariamente riprodurre, nella forma del provvedimento giurisdizionale, il medesimo assetto d'interessi assunto dalle parti quale contenuto del contratto preliminare, senza possibilità di introdurvi modifiche (e pluribus, Cass. 29.3.06 n. 7273, 25.2.03 n. 2824, 7.8.02 n. 11874, in tema di comunione Cass. 1.3.95 n. 2319, 3 0.12.94 n. 11358, 8.7.93 n. 7481, 2.8.90 n. 7749 e, nello specifico, Cass. 19.5.88 n. 3483), una volta che il preliminare abbia avuto ad oggetto l'obbligazione di trasferire l'intero bene, neppure potrebbe il promissario acquirente agire per il trasferimento della sola quota del promittente venditore. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 226 La tesi in discussione, d'altronde, può giustificare, al più, il difetto di legittimazione attiva del coniuge rimasto estraneo all'atto compiuto dall'altro senza il suo consenso quando trattisi di diritti d'obbligazione, in quanto la comunione legale fra i coniugi, di cui all'art. 177 c.c., attiene agli "acquisti", id est agli atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all'acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione (Cass. 1.4.03 n. 4959, 4.3.03 n. 3185, 13.12.99 n. 13941, 18.2.99 n. 1363, 27.1.95 n. 987, 11.9.91 n. 9513); ma tali ragioni, peraltro fortemente criticate in dottrina, non possono valere nel caso inverso, laddove, come meglio in seguito, l'obbligazione del coniuge che ha agito senza il consenso dell'altro è fatta valere dal terzo e l'adempimento coattivo comporta l'aggressione al patrimonio familiare in generale ed al diritto di comproprietà del coniuge pretermesso in particolare. Inoltre, dalla giurisprudenza e da parte della dottrina si è anche evidenziato come, stante il disposto dell'art. 184 c.c., comma 1, la categoria dei negozi immobiliari, per i quali è previsto il consenso congiunto dei coniugi, sia da identificare in base alla natura del bene sul quale cadono gli effetti del contratto, ricomprendendo, quindi, tanto i negozi ad effetti reali quanto quelli ad effetti obbligatori; come debbasi, ancora, fare riferimento al regime degli effetti, reale o personale che sia l'azione, ai fini dell'affermazione o meno della necessità del litisconsorzio (Cass. 31.3.06 n. 7698, 6.7.04 n. 12313, 14.5.03 n. 7404, 5.7.01 n. 9083, 1.7.97 n. 5895 SS.UU.). E', piuttosto, evidente che l'essere ciascun coniuge titolare del bene per l'intero, e dell'intero poter disporre, non può implicare, di per sè, che debba escludersi la necessaria partecipazione dell'altro coniuge al giudizio nel quale si discuta della traslazione del bene stesso, evento rispetto al quale non può negarsi l'interesse ad interloquire del detto altro coniuge, pur sempre comproprietario del bene stesso. Partire, infatti, dal presupposto che, al momento dell'introduzione del giudizio ex art. 2932 c.c., il coniuge promittente venditore abbia già efficacemente alienato il bene, così che il coniuge rimasto estraneo al negozio abbia perso, contestualmente alla stipulazione del preliminare, la propria contitolarità sul bene e non possa fare ricorso se non all'azione d'annullamento, oltre ad essere in palese contrasto con la lettera dello stesso art. 184 c.c., comma 1, che prevede una possibilità di convalida successiva inconciliabile con una già intervenuta perdita della titolarità del bene, implica una non condivisibile attribuzione a tale tipo di contratto d'un effetto traslativo, estraneo alla sua funzione ed alla sua natura, che non gli è riconosciuto neppure da quella parte della dottrina per la quale esso sarebbe configurabile come una sorta di vendita obbligatoria ed il definitivo come un semplice atto esecutivo o ripetitivo. Vero è, per contro, che, stipulato il preliminare, nel momento in cui il coniuge promittente venditore si rende inadempiente e costringe il promissario acquirente all'azione d'esecuzione specifica, l'altro coniuge, che non abbia partecipato al negozio nè vi abbia prestato altrimenti il proprio consenso, è ancora contitolare del bene e su di esso legittimato ad esercitare i suoi poteri d'amministrazione congiunta; atteso l'effetto solo obbligatorio del preliminare, l'attività negoziale posta in essere dal coniuge promittente con l'impegnarsi ad alienare non ha prodotto ancora l'effetto di sottrarre il bene al patrimonio comune ed alla contitolarità su di esso d'entrambi i comproprietari, onde il coniuge rimasto estraneo al preliminare è ancora titolare d'una situazione giuridica inscindibile che lo rende litisconsorte necessario nel giudizio d'esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre. E', infatti, ancora sul piano degli effetti della promossa azione ex art. 2932 c.c. che occorre muoversi ai fini della soluzione del problema che ne occupa. © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 227 Come evidenziato dalla dottrina prevalente e da quella parte della giurisprudenza che si ritiene qui di confermare, ove dal preliminare scaturiscano controversie, non può disconoscersi al coniuge rimasto estraneo al negozio l'interesse a partecipare ai relativi giudizi, in quanto, pur se non è rimasto personalmente obbligato e se non è corresponsabile assieme al coniuge stipulante, unico obbligato, tuttavia l'impegno assunto da quest'ultimo e la responsabilità personale del medesimo sono comunque tali da incidere sul patrimonio comune e sul tenore di vita della famiglia, giacchè, ex art. 189 c.c., espongono all'altrui azione esecutiva non solo i beni del promittente ma anche quelli della comunione, essendo, infatti, la richiesta pronunzia ex art. 2932 c.c., o l'alternativa pronunzia risarcitoria quanto meno per responsabilità precontrattuale, destinate ad incidere anche sul diritto del coniuge comproprietario o contitolare non stipulante e sulla consistenza del patrimonio familiare. Ne consegue l'ineludibile presenza in giudizio del coniuge rimasto estraneo al preliminare, dacchè, come questa Corte ha ripetutamente evidenziato, si ha litisconsorzio necessario, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, allorquando la decisione richiesta, indipendentemente dalla sua natura (di condanna, d'accertamento o costitutiva), sia di per sè inidonea a spiegare i propri effetti, cioè a produrre un risultato utile e pratico, anche nei riguardi delle sole parti presenti, stante la natura plurisoggettiva e concettualmente unica ed inscindibile, sia in senso sostanziale, sia, alle volte, in senso solo processuale, del rapporto dedotto in giudizio, nel quale i nessi fra i diversi soggetti, e tra questi e l'oggetto comune, costituiscono un insieme unitario, con conseguente immutabilità del rapporto medesimo ove non vi sia la partecipazione di tutti i suoi titolari (da ultimo, Cass. 7.3.06 n. 4890, 6.7.04 n. 12313, 23.9.03 n. 14102, 5.7.01 n. 9083, 11.4.00 n. 4593 e 1.7.97 n. 5895 a SS.UU.). Per altro verso, la necessaria partecipazione del coniuge rimasto estraneo al preliminare va affermata anche in applicazione dell'art. 180 c.c., dal quale, coerentemente alla ratio della novella che riconosce quale principio informatore del diritto di famiglia la parità di diritti e doveri tra i coniugi, si stabilisce che l'amministrazione dei beni della comunione spettano disgiuntamente a ciascuno di essi per gli atti d'ordinaria amministrazione ma congiuntamente ad entrambi per quelli di straordinaria amministrazione e per la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento nonchè la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi. Un valido criterio discretivo tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione generalmente accolto è quello della normalità dell'atto di gestione, che viene travalicata ove questo comporti un rischio di pregiudizio sulla consistenza del patrimonio o la possibilità d'alterazione della sua struttura, per il che a determinare il discrimine non è tanto il contenuto, modesto o rilevante, dell'atto, quanto piuttosto la sua finalità ed il suo effetto; onde può dirsi che, in linea di massima e rapportando comunque il criterio a ciascun singolo caso concreto, ove il negozio sia per sua natura intrinsecamente idoneo ad alterare la consistenza del patrimonio, a pregiudicarne le potenzialità economiche, a sottrarne o modificarne elementi costitutivi, esso è di straordinaria amministrazione, mentre è di ordinaria amministrazione ove sia tendenzialmente idoneo a conservare la consistenza quantitativa del patrimonio pur se rischioso. Alla luce di tale criterio, non si può non riconoscere carattere pregiudizievole al contratto anche solo ad efficacia obbligatoria, in quanto potenzialmente idoneo ad incidere sulla consistenza del patrimonio dello stipulante; in particolare, carattere siffatto va riconosciuto al contratto preliminare di vendita, che, come è stato evidenziato in dottrina ed in giurisprudenza, si pone quale momento originario d'una serie obbligatoria consequenziale e successiva, il cui esito finale necessitato è il trasferimento della proprietà del bene promesso in vendita, sì che, in ragione dell'effetto conclusivo della sequenza, tale contratto, che alla serie obbligatoria da inizio, va considerato atto eccedente l'ordinaria amministrazione. Anche il contratto preliminare può avere, dunque, una rilevanza pregiudizievole sulla consistenza patrimoniale della comunione e sulle condizioni di vita della famiglia, in considerazione © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 228 dell'obbligazione assunta dal disponente, che pur vincola unicamente costui, e della responsabilità dello stesso per l'inadempimento; onde il contratto preliminare di vendita di bene immobile in regime di comunione legale costituisce negozio eccedente l'ordinaria amministrazione e, per il richiamato espresso disposto dell'art. 180 c.c., comma 2, le azioni che da esso traggono origine richiedono la presenza in giudizio d'entrambi i coniugi. In definitiva, per tutte le esposte ragioni, devesi ritenere che nell'azione ex art. 2932 c.c. promossa dal promissario acquirente, per l'adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento precontrattuale, nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comunione dei beni, abbia stipulato senza il consenso dell'altro coniuge, quest'ultimo sia litisconsorte necessario; che, di conseguenza, ove il coniuge rimasto estraneo alla stipulazione del preliminare non sia stato convenuto in giudizio unitamente al coniuge stipulante e nei suoi confronti non sia stato integrato il contraddittorio, il giudizio svoltosi sia nullo e debba essere, pertanto, nuovamente celebrato a contraddittorio integro. Nella specie, deve, dunque, essere dichiarata la nullità delle sentenze di primo e di secondo grado, con conseguente rinvio della causa, ex art. 383 c.p.c., u.c., al Tribunale di Firenze il quale provvedere anche sulle spese, comprese quelle della presente fase del giudizio. P.Q.M. LA CORTE riuniti i ricorsi, accoglie il primo motivo del principale, assorbiti gli altri e l'incidentale, cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, al tribunale di Firenze. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 gennaio 2007. Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2007 © Copyright Overlex.com 2013 - A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile, è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro. 229