casi di diritto civile 2013

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casi di diritto civile 2013
LUIGI VIOLA
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CASI DI DIRITTO CIVILE 2013
TRACCE, SOLUZIONI SCHEMATICHE E GIURISPRUDENZA
Dispensa esclusiva riservata agli iscritti al corso di preparazione per l’esame forense,
tenuto da Luigi Viola su overlex.com
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LUIGI VIOLA, Avvocato (esercita la propria attività professionale tra Lecce, Roma e Milano; riceve
solo per appuntamento anche a Londra), docente di Diritto Processuale Civile presso l’Università degli
Studi E-Campus sede di Novedrate-Como, Roma e Messina; Specialista in Diritto civile. E’ direttore
scientifico della rivista bimestrale La Nuova Procedura Civile, nonché di Altalex Massimario e del
Quotidiano giuridico Overlex.com.
Direttore scientifico dell’Osservatorio Nazionale sul Processo Civile.
Docente in corsi di preparazione per l’esame di avvocato e per il concorso in magistratura ordinaria,
nonché in diversi Master (Roma, Milano, Reggio Calabria, Rimini, Ancona) accreditati dal C.N.F.
E’ docente di Diritto dei contratti presso la Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno
(S.S.A.I.).
Relatore in vari convegni (in Roma presso la Camera dei Deputati, presso l'Università Gregoriana
Pontificia, presso il Campidoglio, presso il Parlamento Europeo, in Milano, in Bari, ecc.), anche
inerenti la formazione decentrata dei magistrati.
Ha scritto diversi libri e curato Trattati, nonché pubblicato circa un centinaio di articoli anche su riviste
internazionali; tra le ultime opere si segnalano Il contratto (Cedam 2009), Prescrizione e decadenza
(Cedam 2009), Inadempimento delle obbligazioni (Cedam 2010), Codice di procedura civile
commentato (Cedam 2011), L’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. (Giuffrè 2011), La
semplificazione dei riti civili (Cedam 2011), Le domande nuove inammissibili nel processo civile
(Giuffrè 2012), Il nuovo appello filtrato (Altalex 2012), La testimonianza nel processo civile (Giuffrè
2012), Il Procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (Giuffrè 2013), Codice di procedura Civile
commentato (Cedam 2013), Manuale di Diritto Processuale Civile (Cedam 2013).
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INDICE:
1) Patto commissorio e procura ad alienare………………………………………….pag. 6
2) Lettera di patronage………………………………………………………………pag. 32
3) Diritto a non nascere se non sano…………………………………………………pag. 38
4) Presupposizione…………………………………………………………………...pag. 81
5) Mediatore e responsabilità………………………………………………………...pag. 107
6) Donazione di cosa altrui…………………………………………………………...pag. 124
7) Contratto immorale ed illecito……………………………………………………..pag. 141
8) Garanzia per evizione e promessa del fatto del terzo………………………………pag. 146
9) Responsabilità del notaio…………………………………………………………..pag. 152
10) Attività pericolosa e partita di calcetto…………………………………………….pag. 171
11) Immissioni…………………………………………………………………………pag. 175
12) Prescrizione e danni lungolatenti………………………………………………….pag. 186
13) Comunione legale tra coniugi e preliminare ad effetti anticipati…………………..pag. 208
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1) Patto commissorio e procura ad alienare
Michele si recava presso la banca Alfa per chiedere un mutuo.
La Banca Alfa accettava, ma pretendeva di ricevere - con contratto separato - da Michele una procura a
vendere il suo immobile Tuscolo, trattenendo la somma dovuta a titolo di mutuo e restituendo la parte
eccedente.
Così venivano conclusi due contratti:
-con il primo (contratto di mutuo), la banca Alfa erogava una somma di denaro in favore di Michele,
con l’accordo che quest’ultimo avrebbe dovuto restituire la somma con l’aggiunta degli interessi;
-con il secondo, Michele firmava una procura a vendere il proprio immobile Tuscolo in favore di Alfa,
con l’accordo che quest’ultima avrebbe potuto procedere a vendita, in caso di inadempimento di
Michele, trattenendo una somma pari solo al mutuo ed agli interessi, mentre la somma eccedente
sarebbe stata restituita.
Il candidato, assunte le vesti di un legale, rediga motivato parere circa la validità dell’operazione
negoziale posta in essere.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 1
In premessa si poteva schematizzare il fatto.
Successivamente il discorso andava focalizzato sull’art. 2744 c.c.: nel caso prospettato vi è patto
commissorio?
Se si ritiene insussistente il patto commissorio, allora Michele nulla potrà fare per impedire la vendita
di Tuscolo.
Se si ritiene sussistente il patto commissorio, allora Michele potrà agire per la nullità della procura ad
alienare, o dell’intera operazione negoziale, così evitando la vendita di Tuscolo.
A favore della tesi negativa si dice:
-il patto commissorio proibisce lo schema inadempimento-passaggio della proprietà in capo al
creditore, diversamente dal caso de quo, dove l’inadempimento di Michele legittima la banca Alfa ad
alienare a terzi;
-l’art. 2744 c.c. non può essere interpretato per via di analogia, essendo norma eccezionale, rispetto ai
principi generali di libertà, ex art. 1322 c.c., e conservazione ex art. 1367 c.c.;
-la ratio del divieto di patto commissorio è salvaguardata; normalmente, questa è individuata nella
necessità di evitare che il creditore possa arricchirsi sine causa lucrando dalla differenza tra valore del
bene e valore del debito, così che tale ratio qui non verrebbe vulnerata in quanto:
a) Tuscolo viene venduto a terzi, e non diviene di proprietà del creditore Alfa;
b) la banca Alfa trattiene presso sé solo una somma corrispondente al mutuo ed interessi, restituendo
l’eccedenza.
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Tuttavia, è preferibile optare per la tesi positiva, comminando la nullità dell’intera operazione
negoziale.
In tal senso si dice:
-è vero che formalmente non viene violato l’art. 2744 c.c., ma nella sostanza ciò accade perché vi è
l’automatica perdita del bene Tuscolo in seguito all’inadempimento, così realizzando un’operazione
contrattuale in frode alla legge, ex artt. 1344-2744 c.c.;
-la causa in concreto, in questa visione, sarebbe quella di vulnerare l’art. 2744 c.c.;
-la ratio sottesa all’art. 2744 c.c. non sarebbe quella di evitare indebiti arricchimenti nel senso
sopradetto, ma quella di evitare l’automaticità tra inadempimento e conseguenze sfavorevoli, perché il
primo può determinare le seconde solo in caso di accertamento giudiziale: è il giudice che deve
valutare la presenza – o meno – di un inadempimento e non la parte autonomamente;
-quando viene comminata la nullità ex artt. 2744-1344 c.c. l’effetto caducatorio colpisce tutto il
contratto e, nel caso, data la presenza di un collegamento negoziale, entrambi i contratti (diversamente
la violazione diretta del patto commissorio ex art. 2744 c.c. determina la nullità del solo pactum).
Alla luce di tali rilievi, Michele ben potrà agire per la nullità dei contratti collegati conclusi con la
banca Alfa.
Non era da considerare errore la soluzione volta a ritenere nullo solo il contratto con cui veniva
rilasciata la procura ad alienare, con una precisazione però:
-se ci si collega solo all’art. 2744 c.c. è nullo il pactum e, quindi, la sola eventuale procura ad alienare
mentre resta impregiudicato il contratto di mutuo; ciò in quanto l’art. 2744 c.c. predica che “è nullo il
patto” ;
-se ci si collega all’art. 2744 c.c. letto in combinato disposto con l’art. 1344 c.c. va comminata la
nullità dell’intera operazione negoziale, in quanto si predica l’illiceità dell’operazione negoziale perché
finalizzata (causa in concreto illecita, in particolare) ad evitare il dictum di una norma imperativa; ciò
in coerenza con l’art. 1418 c.c. che parla di nullità del contratto e non del solo pactum (tale nullità
colpisce tutta l’operazione negoziale in quanto si tratta di contratti funzionalmente collegati).
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
In materia di patto commissorio, non è possibile in astratto identificare una categoria di negozi
soggetti a tale nullità perchè qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il
contenuto, nell'ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato
dall'ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l'illecita coercizione del debitore al
momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell'altra parte nel caso in cui questa
non adempia la propria obbligazione; pertanto sono stati ritenuti nulli, ex art. 1344 cod. civ., per
frode alla legge, atti negoziali di per se astrattamente leciti ovvero operazioni negoziali complesse,
pur in assenza di formale costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano
rispondenti alla finalità di attribuire al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso
di mancato pagamento da parte del debitore, così costretto a sottostare alla volontà' della
controparte.
Cassazione civile, sezione seconda, sentenza del 8.4.2013, n. 8505
...omissis...
Preliminarmente deve disporsi, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., la riunione del ricorso principale e
di quello incidentale.
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1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell'art. 2744 e.e. e l'omessa
motivazione in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, e sostiene che nella comparsa conclusionale in
appello aveva chiesto la pronuncia della declaratoria della nullità della procura in quanto la
procura e il mandato dissimulavano un patto commissorio con funzione di garanzia; nella
specie la procura era stata rilasciata a tacitazione delle pretese creditorie e aveva determinato
la coercizione del debitore che era stato costretto ad accettare il trasferimento di proprietà a
tacitazione dell'obbligazione.
2. Il motivo è infondato.
In materia di patto commissorio, come già affermato da questa Corte, non è possibile in
astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità perchè qualsiasi negozio può
integrare tale violazione, quale che ne sia il contenuto, nell'ipotesi in cui venga impiegato per
conseguire il risultato concreto, vietato dall'ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore,
mediante l'illecita coercizione del debitore al momento della conclusione del negozio, la
proprietà del bene dell'altra parte nel caso in cui questa non adempia la propria obbligazione;
pertanto sono stati ritenuti nulli, ex art. 1344 cod. civ., per frode alla legge, atti negoziali di
per se astrattamente leciti ovvero operazioni negoziali complesse, pur in assenza di formale
costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano rispondenti alla finalità di
attribuire al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso di mancato
pagamento da parte del debitore, così costretto a sottostare alla volontà' della controparte
(Cass. n. 5426 del 2010; Cass. n. 437 del 2009; Cass. n. 2285 del 2006).
Ma tutte queste ipotesi presuppongono che il debitore abbia accettato preventivamente quindi al di fuori di una concordata datio in solutum successiva all'inadempimento - la
possibilità di alienazione del proprio bene a seguito di inadempimento e così si è ritenuto che
anche una procura a vendere un immobile, rilasciata dal mutuatario al mutuante
contestualmente alla stipulazione de mutuo, comporti violazione del divieto del patto
commissorio, qualora si accerti che essa sia funzionalmente connessa con il mutuo (Cass. n.
6112 del 1993).
Tuttavia non si è mai dubitato che il patto commissorio sia configurabile solo quando il
debitore sia costretto al trasferimento di un bene a tacitazione della sua obbligazione che con
quel patto intendeva contestualmente garantire e non anche ove tale trasferimento sia frutto di
una scelta (Cass. n. 4064 del 1995; Cass. n. 4283 del 1990) e, in particolare, quando il
debitore, per sua libera scelta, intenda soddisfare debiti già sorti e non garantiti mediante il
trasferimento di propri beni agli stessi creditori (secondo lo schema della datio in solutum) o
incaricandoli di liquidare tutte o alcune sue attività e di ripartirne il ricavato secondo lo
schema della cessio bonorum (art. 1977 c.c., e segg.).
L'individuazione della causa del negozio comporta la necessità un'indagine non limitata agli
aspetti formali del negozio, ma diretta a verificarne la causa in concreto e la data
dell'insorgenza dei crediti che, se anteriori al conferimento della procura a vendere con
relativo mandato, ben difficilmente consentono di ricondurre l'accordo alla fattispecie del
patto commissorio nel senso che l'operazione assume, di regola il connotato di negozio con
funzione solutoria piuttosto che con funzione di garanzia.
Ciò comporta che neppure riconoscendo la più ampia facoltà del giudice del merito di rilevare
di ufficio la nullità incidenter tantum (cfr. Cass. S.U. 4/9/2012 n. 14828) appariva possibile,
nel caso concreto, una tale pronuncia in quanto dagli atti processuali nessuna nullità emergeva
ex actis, non risultando in alcun modo che l'operazione avesse causa di garanzia piuttosto che
causa solutoria.
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Ne discende che la domanda di nullità per divieto di patto commissorio, formulata solo con la
conclusionale in appello, doveva considerarsi domanda nuova e inammissibile sulla quale,
proprio in considerazione della sua inammissibilità, il giudice di appello non aveva alcun
obbligo di motivazione e, quindi, non sussiste il vizio denunciato e, di conseguenza, neppure
la violazione dell'art. 2744 c.c..
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1414, 1415 e 1417 c.c.,
nonchè dei principi in materia di interposizione di persona e l'insufficiente e/o contraddittoria
motivazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
La ricorrente censura la sentenza impugnata:
- perchè è stata esclusa l'interposizione fittizia nel contratto di vendita tra il D. (che agiva in
rappresentanza della B.) e il De. in quanto l'impegno di quest'ultimo di ritrasferire il
compendio immobiliare è stato ricondotto all'ipotesi di interposizione reale mentre, a dire
della ricorrente, doveva essere riconosciuta l'interposizione fittizia, provata della
controdichiarazione scritta;
perchè la B. è stata ritenuta parte del contratto simulato essendo invece estranea all'accordo
simulatorio e, quindi, non soggetta alle limitazioni probatorie;
- perchè la prova della simulazione avrebbe dovuto comunque essere ammessa in quanto
diretta a provare l'illiceità del contratto dissimulato.
2.1 Il motivo è infondato.
In primo luogo la Corte di Appello ha correttamente individuato gli elementi che
differenziano l'interposizione reale dall'interposizione fittizia rilevando che, nella seconda,
l'interposto è un figurante estraneo all'accordo tra il terzo e l'interponente e che, perchè si
possa configurare una interposizione fittizia, è imprescindibile la partecipazione del terzo
contraente.
Ciò premesso in diritto, il giudice di appello ha esaminato la dichiarazione con la quale il De.
si impegnava a trasferire al V. il bene acquistato dalla B. e ha concluso che tale dichiarazione
integrava un accordo tra il V. e il De.
costitutivo dell'obbligo di quest'ultimo di ritrasferire il bene acquistato in base ad un negozio i
cui effetti erano destinati a prodursi solo tra l'alienante e il De. e che nessuna prova sussisteva
della partecipazione all'accordo da parte del terzo contraente, sia che questo fosse individuato
nel D. che aveva stipulato il contratto in rappresentanza della B., sia che questo fosse
individuato nella B..
Siccome l'attrice era onerata della prova della simulazione per interposizione fittizia, la
motivazione non è nè insufficiente nè contraddittoria: la dichiarazione del De. (della quale la
ricorrente riporta i contenuti così che può essere legittimamente valutata da questa Corte) non
è incompatibile con l'ipotesi di una simulazione per interposizione fittizia, ma certamente non
costituisce neppure un indizio in tal senso, perchè contiene solo l'impegno del De. a vendere o
a stipulare un preliminare di vendita a favore del V. o a persona o Ente da lui indicato, previo
pagamento di L. 408.000.000 che il De. dichiara di avere già pagato a titolo di corrispettivo,
imposte, spese notarili e di quanto concordato; al contrario, la circostanza che il corrispettivo
fosse stato pagato proprio dal De. depone, semmai, in senso contrario all'ipotesi di un accordo
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simulatorio tra interponente, interposto e terzo contraente per effetto del quale l'interposto
doveva rimanere estraneo al contratto di compravendita; al contrario, è dimostrato che il
presunto interposto aveva effettivamente pagato il corrispettivo e, quindi, non era rimasto
estraneo al contratto di compravendita. Per tali considerazioni la circostanza che, circa due
mesi prima della vendita al De., il D., quale rappresentante della B., avesse stipulato un
compromesso con il V., diventa circostanza sostanzialmente irrilevante (se non addirittura
favorevole alla tesi che il D. non intendeva vendere al V.), così come la circostanza che il V.
avesse intentata, contro il De., causa di retratto agrario.
La mancanza di prova della simulazione comporta l'assorbimento delle ulteriori censure,
comprese quelle relative alla violazione degli artt. 1414, 1415 e 1417 c.c. 3. Con il terzo
motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 184, 187 e 189 c.p.c.
nonchè dell'art. 2724 c.c., delle norme in materia di deduzione e valutazione delle prove,
dell'art. 132 c.p.c., n. 3 e il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione, in relazione
all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 e sostiene:
- che erroneamente e in violazione degli artt. 184, 187 e 189 c.p.c. (nel testo anteriore alla
riforma di cui alla L. n. 80 del 2005) i giudici del merito l'hanno dichiarata decaduta dalle
prove richieste perchè nessuna norma prevedeva una decadenza nel caso di mancata
reiterazione delle istanze istruttorie nell'udienza di trattazione dell'art. 184 c.p.c.;
- che erroneamente la Corte di Appello non ha ammesso il capitolo di prova dedotto per
provare la partecipazione del D. agli accordi intercorsi tra il V. e il De., prova che doveva
essere ammessa anche ai sensi dell'art. 2724 c.c., che, in deroga al divieto di prova
testimoniale, la consente in presenza di un principio di prova per iscritto;
- che la Corte di Appello ha errato nel non applicare l'art. 132 c.p.c., n. 3 e nel non dichiarare
la nullità della sentenza di primo grado con rimessione al primo giudice per l'omessa
trascrizione delle conclusioni 3.1 Il motivo è infondato sotto ogni profilo.
A) Con riferimento alle istanze istruttorie si rileva quanto segue.
Il giudice di appello non ha affermato che l'attrice era decaduta dalla prova per la mancata
reiterazione delle istanze istruttorie nell'udienza di trattazione ai sensi dell'art. 184 c.p.c., ma
ha ritenuto verificatasi la decadenza perchè "dopo avere formulato istanza istruttorie,
segnatamente afferenti a prove testimoniali e per interrogatorio formale, con l'atto di
citazione, all'udienza del 23/2/2001, successiva alla scadenza dei termini di cui all'art. 184
c.p.c., comma 1 (che all'epoca stabiliva che il giudice poteva ammettere le prove o, su istanza
di parte, assegnare un termine per produzioni e deduzioni istruttorie) e fissata per le
conseguenti statuizioni sulle prove, l'attrice non ha coltivato le istanze istruttorie, ma con una
condotta processuale assolutamente incompatibile con la volontà di insistere per
l'espletamento delle prove costituende, ha richiesto la fissazione dell'udienza di precisazione
delle conclusioni" (pagg. 33 e 34 della sentenza impugnata).
La Corte di appello ha aggiunto che l'unico capitolo di prova era inammissibile per genericità.
La prima ratio decidendi, relativa alla valutazione del comportamento processuale come
rinuncia alle istanze istruttorie è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la
quale "In tema di istruzione probatoria nel rito ordinario, spetta alla parte attivarsi per
l'espletamento del richiesto mezzo istruttorio che il giudice abbia ammesso; sicchè, ove la
parte rimanga inattiva, chiedendo la fissazione dell'udienza di precisazione delle conclusioni
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senza più instare per l'espletamento del mezzo di prova, è presumibile che abbia rinunciato
alla prova stessa" (Cass. 6/9/2007 n. 18688).
Nella specie il mezzo istruttorio non era stato neppure ancora ammesso e la ricorrente aveva
chiesto la precisazione delle conclusioni con ciò manifestando inequivocabilmente, come
ritenuto dal giudice di appello, la volontà di rinuncia; una diversa conclusione si porrebbe in
contrasto con i principi generali del codice di rito, non potendosi riconoscere uno "ius
poenitendi" della parte che abbia rinunciato alle istanze istruttorie tale da attribuirle un potere
di decidere a sua discrezione di fare regredire alla fase istruttoria il processo già pervenuto
alla fase decisoria.
La censura sulla declaratoria di inammissibilità del capitolo di prova (peraltro assorbita dalla
evidenziata decadenza) è inammissibile in quanto attinge una valutazione di merito sulla
assoluta genericità del capitolato, sorretta da adeguata motivazione.
B) Non sussiste la violazione dell'art. 132 c.p.c., n. 3, per non essere stata dichiarata la nullità
della sentenza appellata in relazione all'omessa trascrizione delle conclusioni istruttorie.
Occorre premettere che l'esigenza di indicare in sentenza le "conclusioni" delle parti ex art.
132 c.p.c., n. 3, deve intendersi riferita - in funzione del principio di cui all'art. 112 dello
stesso codice alle istanze ed eccezioni relative alla materia da decidere con la sentenza e non
anche alle richieste istruttorie, aventi funzione strumentale rispetto alla decisione (Cass.
29/1/1985 n. 521); in ogni caso, non è prevista una espressa comminatoria di nullità per la
mancanza della trascrizione delle conclusioni in quanto l'eventuale nullità non discende dalla
mancata trascrizione, ma dal mancato esame; a sua volta il mancato esame, con riferimento
alle istanze istruttorie, rileva solo nel senso di consentire la riproposizione delle istanze in
appello e, per il principio dell'art. 161 c.p.c., i motivi di nullità si convertono in motivi di
gravame senza determinare la regressione del procedimento al primo giudice.
Le istanze istruttorie sono state valutate e dichiarate inammissibili dalla Corte di appello e
pertanto il motivo è inammissibile per difetto di rilevanza.
4. Con il primo motivo del ricorso incidentale D.B. deduce il vizio di ultrapetizione e la
violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. sostenendo:
- che la domanda di revoca della procura proposta dalla B. doveva semplicemente essere
rigettata perchè la domanda presupponeva che la revoca non fosse ancora intervenuta, mentre
il giudice di appello avrebbe addotto una motivazione inconferente asserendo che la revoca
non possa formare oggetto di pronuncia giudiziale in quanto atto unilaterale della parte;
- che la B. non aveva esercitato una azione di inadempimento del mandato, ma aveva dedotto
l'inadempimento, con riferimento all'obbligo di rendiconto, rispetto alla procura e non al
negozio gestorio; secondo il ricorrente il giudice, accertando l'inadempimento del mandato, si
è pronunciato su una domanda non proposta.
4.1 La Corte di appello ha ritenuto non proponibile al giudice la domanda diretta a dichiarare
la revoca della procura, trattandosi di esercizio di un potere che compete solo alla parte
conferente e ha rigettato la domanda diretta all'accertamento della legittimità ed efficacia della
revoca della procura (pag. 42 della sentenza).
Il motivo, nella parte in cui censura tale motivazione è inammissibile per carenza di interesse
del ricorrente incidentale perchè in ordine al rigetto della domanda attorea il D. non è
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soccombente e pertanto non può proporre impugnazione per ottenere lo stesso rigetto con
diversa motivazione.
Quanto al dedotto vizio di ultrapetizione in relazione all'accertamento dell'inadempimento del
mandato il motivo è infondato perchè nessuna violazione del principio di corrispondenza tra il
richiesto ed il pronunciato è ravvisabile nel caso in esame.
La violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. è riscontrabile soltanto quando il giudice abbia
pronunciato oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su
questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio.
Spetta al giudice di merito il compito di qualificare la domanda proposta dalla parte in quanto
ha il potere-dovere di individuare l'esatta natura del rapporto dedotto in giudizio per
precisarne il contenuto e gli effetti in relazione alle norme applicabili, con il solo limite di non
esorbitare dalle richieste delle parti e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell'ambito
delle questioni sottoposte al suo esame (cfr., tra le altre, Cass. 12/10/2001, n. 12471; Cass.
20/12/2006 n. 27285; Cass. 3/8/2012 n. 13945).
Non incorre quindi nel vizio di extrapetizione il giudice di merito che abbia esercitato il
proprio compito di interpretazione della domanda - senza essere necessariamente
condizionato dalla formula adottata dalla parte e tenendo invece opportunamente conto del
contenuto sostanziale della pretesa, come desumibile dalla situazione dedotta in causa e dalle
eventuali precisazioni formulate nel corso del giudizio - e si sia poi, nel pronunciare su di
essa, attenuto ai limiti della domanda medesima, come sopra interpretata (cfr. Cass., sez. un.,
21 febbraio 2000 n. 27).
La Corte di Appello si è uniformata ai suddetti principi, in quanto nell'atto di citazione era
appunto dedotto (come rilevato dalla Corte territoriale) l'inadempimento del mandato per
omesso rendiconto e comunque per infedeltà nel suo espletamento e nel corso del giudizio lo
stesso D. si era difeso in merito a tali addebiti (v. anche pag. 18 del controricorso dello stesso
D., laddove espone e le sue difese nel giudizio di primo grado); in altri termini, la Corte
territoriale ha, legittimamente, preso in considerazione il contenuto sostanziale della pretesa
come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate
in corso di causa;
non assume rilievo l'imprecisione dell'atto di citazione laddove la revoca della procura è
apparentemente collegata all'inadempimento del mandato essendo comunque dedotto tale
inadempimento ed essendone stato chiesto l'accertamento.
5. Con il secondo motivo il ricorrente incidentale deduce la violazione dell'art. 1703 c.c,. e
segg., in relazione all'art. 1387 c.c., e segg., e sostiene che la Corte di appello avrebbe
erroneamente applicato le norme sul contratto di mandato all'istituto della procura.
5.1 Il motivo è del tutto infondato in quanto la Corte di Appello, come sopra riferito, ha
accertato l'inadempimento del mandato applicando le norme che lo disciplinano, con
riferimento all'obbligo di rendiconto ex art. 1713 c.c..
6. Con il terzo motivo il ricorrente incidentale deduce la nullità della sentenza per violazione
dell'art. 132 c.p.c., n. 4 e il vizio di motivazione e sostiene che la motivazione secondo la
quale la revoca della procura è insuscettibile di essere pronunciata dal giudice è stata resa
funzionale ad una ulteriore attività interpretativa all'esito della quale è stata ritenuta
l'eterogestione degli affari dell'attrice ed è stata ritenuta incontroversa l'omissione del
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rendiconto e l'inadempienza del mandatario senza alcuna attività istruttoria e senza che fosse
proposta azione di rendiconto.
6.1 Il motivo, quanto alla violazione dell'art. 132 c.p.c., n. 4, è inammissibile perchè la
concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi della decisione non è
mancante e perchè dal motivo non è dato comprendere sulla base di quali elementi la
disposizione sarebbe violata.
Quanto al vizio di motivazione, il motivo è infondato perchè muove dall'errato presupposto
che non sia stato chiesto l'accertamento dell'inadempimento del mandato e, quanto alla
motivazione sull'inadempimento del mandato, basti osservare che la Corte di Appello ha
rilevato che il mandatario non aveva dato spiegazione delle modalità di espletamento del suo
incarico, non aveva rimesso al mandante quanto ricevuto, nè aveva restituito quanto incassato
per suo conto.
Pertanto la motivazione non è nè insufficiente nè contraddittoria, posto che non risulta che in
causa sia mai stata fornita alcuna indicazione al riguardo.
7. Con il quarto motivo il ricorrente incidentale deduce il preteso vizio di "motivazione
apodittica ovvero di errata percezione della realtà" e sostiene che l'affermazione della Corte di
Appello secondo cui era incontroversa la mancata presentazione del rendiconto e la mancata
dazione delle somme incassate a seguito dell'attività gestoria sarebbe viziata per "motivazione
apodittica ovvero di errata percezione della realtà" non risultando gli elementi probatori
idonei a giustificarla; sostiene che nelle memorie difensive avrebbe sempre dato conto del
proprio operato, fornito le spiegazioni occorrenti e che la condotta del mandatario dovrebbe
essere posta in relazione al comportamento del mandante che nella specie sarebbe stato
negligente; inoltre la B. aveva introdotto in giudizio nuove domande e nuovi documenti oltre i
termini di legge.
7.1 Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
E' infondato nella parte in cui deduce un vizio di motivazione in ordine all'inadempimento
dell'obbligo di rendiconto perchè è sufficiente, per tale accertamento, la constatazione che il
mandatario non ha dato spiegazioni del suo operato e non ha rimesso al mandante quanto
ricevuto dalla vendita del bene.
E' inammissibile per assoluta genericità nella parte in cui il ricorrente assume di avere dato
conto del suo operato e di avere fornito la documentazione necessaria in quanto non da conto
delle sue specifiche difese e del contenuto della documentazione non consentendo, così a
questo giudice di legittimità valutarne la rilevanza.
E' inammissibile nel riferimento al negligente comportamento della mandante non essendo
dato comprendere nè perchè sarebbe stato negligente, nè perchè la negligenza sarebbe stata
rilevante.
E' inammissibile con riferimento alle domande e produzioni nuove che sarebbero state
introdotte nel processo perchè non vengono indicate e non ne viene spiegata la rilevanza.
8. Con il quinto motivo il ricorrente incidentale deduce il vizio di "errata percezione di dati
processuali" e sostiene di avere formulato eccezione di prescrizione della domanda di
annullamento della procura irrevocabile, mentre il giudice di appello l'avrebbe riferita ad una
domanda diversa.
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8.1 L'inammissibilità del motivo risulta palese: l'annullamento della procura non è stato
pronunciato, la relativa domanda è stata rigettata e quindi il D., vittorioso su tale domanda,
non può proporre impugnazione.
9. Il D. ha formulato a questa Corte istanze istruttorie subordinatamente all'accoglimento delle
istanze di controparte.
La condizione alla quale è subordinata la richiesta non si è verificata, ma occorre
preliminarmente rilevare l'inammissibilità di richieste istruttorie nel giudizio di legittimità.
10. In conclusione deve essere rigettato sia il ricorso principale che quello incidentale; le
spese di questo giudizio di cassazione devono essere interamente compensate tra la ricorrente
principale e il ricorrente incidentale, mentre la ricorrente principale, soccombente nei
confronti della società Aziende Agricole Villa Le Gagge di Lara Alinovi & C. s.a.s. deve
essere condannata a rimborsare a quest'ultima le spese del processo liquidate come in
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riuniti il ricorso e quello incidentale rigetta entrambi e compensa le spese tra la
ricorrente principale e il ricorrente incidentale.
Condanna la ricorrente principale a pagare alla società Aziende Agricole Villa Le Gagge di
Lara Alinovi & C. s.a.s. le spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 2.700,00 di
cui Euro 200,00 per esborsi.
Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2013
Il divieto del patto commissario, sancito dall'art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, ancorchè di
per se astrattamente lecito, che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato
dall'ordinamento, di assoggettare il debitore all'illecita coercizione da parte del creditore, sottostando
alla volontà del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un suo bene, quale
conseguenza della mancata estinzione di un debito.
In particolare, è stato puntualizzato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche
quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia
(piuttosto che per una causa di scambio), nell'ambito della quale il versamento del danaro, da parte
del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, ed il trasferimento
del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda
che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute. La predetta vendita, infatti,
in quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con patto commissario, piuttosto
che dalla causa di scambio propria della vendita, pur non integrando direttamente un patto
commissorio vietato dall'art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed
esprime, perciò, una causa illecita che rende applicabile, all'intero contratto, la sanzione dell'art.
1344 c.c.
Cassazione civile, Sez. VI, Ord., 12.10.2011, n. 20956
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Svolgimento del processo
Il relatore della sezione ha depositato in Cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell'art. 380 bis
c.p.c.:
"Con atto di citazione notificato il 17-4-1993 C.S. conveniva dinanzi al Tribunale di Roma I.M., per
sentir dichiarare la nullità dell'atto di compravendita per notaio Perrotta del 5-8-2007, perchè simulato
e illecito, in quanto volto ad eludere il divieto del patto commissorio. L'attore chiedeva altresì che
venisse riconosciuto il suo diritto di proprietà sull'appartamento oggetto del predetto contratto,
invocando in via subordina il riconoscimento in suo favore del relativo acquisto per usucapione, in
virtù del possesso continuato e indisturbato per oltre venti anni.
Nel costituirsi, la convenuta contestava la fondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto.
Il Tribunale adito, con sentenza depositata il 16-1-2003, rigettava la domanda.
Con sentenza depositata il 3-3-2010 la Corte di Appello di Roma, in accoglimento dell'appello
proposto da C.D., C. T., C.M. e B.I., quali eredi di C. S., nei confronti di I.C., erede di I. M.,
dichiarava la nullità dell'atto di compravendita per notaio Perrotta del 5-8-2007 e, conseguentemente,
dichiarava gli appellanti, nella qualità, proprietari dell'immobile oggetto di tale contratto.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre I.C., sulla base di un unico motivo.
C.D., C.T., C.M. e B. I. resistono con controricorso.
Rileva in diritto.
Con l'unico motivo il ricorrente, denunciando la violazione degli artt. 2744 e 1963 c.c., l'erronea
valutazione della prova ex art. 116 c.p.c. e l'insufficienza, contraddittorietà ed erroneità della
motivazione su fatti decisivi della controversia, sostiene che nella specie, contrariamente a quanto
ritenuto dalla Corte di Appello, non si è in presenza di un contratto simulato, ma di una vera
compravendita con patto di riscatto, nella quale il venditore si è riservato il diritto di riavere la
proprietà del bene alienato mediante la restituzione del prezzo, delle spese e degli interessi.
Fa altresì presente che, contestualmente alla vendita, tra le parti è stato stipulato un contratto di
locazione che ha consentito al C. di continuare ad abitare nello stesso immobile alienato all' I., dietro
pagamento di un canone.
Il ricorso è inammissibile.
La Corte di Appello, sulla base degli elementi acquisiti, ha accertato, con apprezzamento in fatto non
sindacabile in sede di legittimità, che il contratto di compravendita dell'appartamento per cui è causa,
pur se ad effetti apparentemente immediati, è stato stipulato a scopo di garanzia, con il fine specifico di
attribuire l'immobile al creditore acquirente soltanto nel caso d'inadempimento, da parte del debitore
venditore, dell'obbligazione di restituire la somma prestatagli. Essa ha dato un'adeguata e logica
motivazione di tale convincimento, ponendo in evidenza una serie di indizi (quali la mancata prova del
versamento del prezzo da parte dell'acquirente; la sostanziale ammissione resa in sede d'interrogatorio
formale da I.M. circa il prestito elargito al C., per la cui concessione quest'ultimo era stato costretto a
stipulare con immediatezza il contratto di compravendita della sua casa di abitazione; la mancata
richiesta di verificazione, da parte della convenuta, della sottoscrizione apposta sul contratto di
locazione prodotto in giudizio, disconosciuta dall'attore, e la conseguente inutilizzabilità di tale atto; la
mancata dimostrazione, da parte dell'attore, del pagamento di canoni di locazione da parte del C.,
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rimasto nella disponibilità dell'appartamento) sintomatici della esclusiva finalità di garanzia
dell'adempimento dell'obbligazione contratta dal C. nei confronti dell' I., perseguita dalle parti
attraverso la stipulazione dell'atto pubblico di vendita e della contestuale sottoscrizione di una
convenzione avente ad oggetto il patto di retrocessione.
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ritenuto la nullità del contratto in questione, in
quanto posto in essere in violazione del divieto del patto commissario sancito dall'art. 2744 c.c., e,
conseguentemente, affetto da causa illecita.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, infatti, il divieto del patto commissario, sancito
dall'art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, ancorchè di per se astrattamente lecito, che venga
impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato dall'ordinamento, di assoggettare il debitore
all'illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà del medesimo di conseguire il
trasferimento della proprietà di un suo bene, quale conseguenza della mancata estinzione di un debito
(v., tra le tante, Cass. 12-1-2009 n. 437; Cass. 11-6-2007 n. 13621; Cass. 19-5-2004 n. 9466; Cass. 2,
20-7-1999 n. 7740).
In particolare, è stato puntualizzato che la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche quando
sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia (piuttosto
che per una causa di scambio), nell'ambito della quale il versamento del danaro, da parte del
compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, ed il trasferimento del
bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda che
il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute. La predetta vendita, infatti, in
quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con patto commissario, piuttosto che
dalla causa di scambio propria della vendita, pur non integrando direttamente un patto commissorio
vietato dall'art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed esprime, perciò,
una causa illecita che rende applicabile, all'intero contratto, la sanzione dell'art. 1344 c.c. (Cass. 4-31996 n. 1657; Cass. 20-7-2001 n. 9900;
Cass. 8-2-2007 n. 2725).
Nel caso in esame la Corte territoriale ha accertato la sussistenza di una fattispecie rispondente allo
schema negoziale indiretto sopra descritto, avendo dato atto che il versamento del denaro da parte
dell'acquirente non aveva costituito il pagamento del prezzo, ma l'adempimento di un mutuo, e il
trasferimento del bene era stato previsto in funzione di garanzia, per il caso di mancata restituzione
della somma mutuata. Sussistendo, pertanto, l'illiceità dell'operazione negoziale, che si è risolta nella
sovrapposizione e sostituzione, alla funzione di scambio tipica del contratto di compravendita, di
quella di garanzia dell'adempimento dell'obbligazione pecuniaria, legittimamente è stata ritenuta la
nullità del contratto.
La validità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di appello non può essere inficiata dalle
deduzioni svolte dal ricorrente, con le quali, in buona sostanza, vengono proposte mere censure di
merito, basate su una ricostruzione della vicenda alternativa rispetto a quella posta a base della
decisione impugnata. In tal modo, si sollecita a questa Corte una diversa valutazione in fatto delle
emergenze processuali, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità. L'accertamento
della effettiva volontà delle parti e della concreta portata dell'atto dalle stesse posto in essere, infatti, è
compito esclusivo del giudice di merito, che nella specie ha fondato il proprio giudizio su
argomentazioni esaustive ed immuni da vizi logici.
Il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375
c.p.c.".
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La relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata alle parti costituite. Il ricorrente ha
depositato una memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Il Collegio, all'esito della discussione, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione, ai
quali non sono stati opposti validi argomenti nella memoria difensiva depositata dal ricorrente.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio di Cassazione, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro
2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.
Non sussiste patto commissorio laddove non emerga la previsione di un automatismo traslativo del
bene, ma sia il giudice a permetterlo.
Cassazione civile, Sez. I, sentenza del 14.9.2012, n. 15449
Svolgimento del processo
1. Con contratto del 18 luglio 1996 la s.p.a. Saffi - Società fiduciaria finanziaria italiana concesse in
mutuo alla s.r.l.
Formificio Forlivese la somma di lire 100 milioni con piano di ammortamento in rate bimestrali per
ventiquattro mesi, garantito dalla dazione in pegno di una quota pari all'84,21% del capitale sociale
della CMC Plastici s.r.l., per un valore di lire 80 milioni, della quale la mutuataria era titolare.
Nell'agosto 1997, non avendo la Formificio Forlivese - nel frattempo posta in liquidazione provveduto al pagamento dei primi due ratei di rimborso, la Saffi s.p.a. la convenne in giudizio dinanzi
al Tribunale di Milano per sentir disporre l'assegnazione ad essa mutuante, in pagamento dell'intero
debito restitutorio, della quota sociale data in pegno dalla mutuataria, in attuazione della espressa
clausola contrattuale che prevedeva tale diritto.
La società convenuta si costituì deducendo che aveva inutilmente tentato il versamento della somma
dovuta, provvedendo anche ad offerta reale; chiese quindi l'accertamento dell'avvenuto adempimento e
della liberazione di essa debitrice - oltre allo svincolo della quota sociale data in pegno - con condanna
della controparte al risarcimento dei danni. Nel giudizio, riunito ad altro promosso dalla Formificio
Forlivese per la convalida dell'eseguita offerta reale di lire 112 milioni, intervennero volontariamente
C.G. - acquirente delle quote corrispondenti all'intero capitale sociale della CMC Plastici srl - per
aderire alla posizione della Formificio Forlivese, e la s.r.l. Bianco Fiduciaria di revisione, cessionaria
del credito fatto valere da Saffi s.p.a..
Il Tribunale, espletata c.t.u. ai fini della determinazione della somma dovuta e del valore della quota
sociale data in pegno, ritenne inammissibile la questione di nullità del contratto di mutuo - in quanto
sollevata tardivamente dalla Formificio Forlivese e dal C., peraltro sulla base di documentazione
tardivamente depositata -, ma rigettò la domanda della Saffi s.p.a. (e della cessionaria Bianco s.r.l.) per
avere la stessa abusato del suo diritto, ponendo in essere una condotta volta ad impedire alla debitrice
l'adempimento. Rigettò anche la domanda di convalida dell'offerta reale della Formificio Forlivese
perchè la somma offerta era, sia pure in misura lieve (poco più di un milione di lire), inferiore al
dovuto.
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Interposto appello da parte sia della Bianco s.r.l. sia della Formificio Forlivese s.r.l., e riuniti gli
appelli, la Corte di Milano, con sentenza depositata il 15 febbraio 2006, ha ammesso la questione di
nullità del contratto di mutuo pignoratizio in questione ed i documenti prodotti al riguardo, ed ha
accertato tale nullità, per illiceità della causa. In tal senso, premesso che il contratto era intercorso in
sostanza tra M.M., quale amministratore della società mutuataria, ed il medesimo, quale mandante (e
fornitore della provvista) della fiduciaria mutuante Saffi in base a scrittura privata in atti, ha osservato
che tale contratto non era diretto a svolgere l'obiettiva funzione sociale che lo contraddistingue (anche
perchè non risultava neppure prospettata la ragione del finanziamento, in un contesto nel quale la
società era priva di qualsiasi operatività e dei mezzi per restituire la somma mutuata), bensì la diversa
funzione, perseguita dal M., di sottrarre alla proprietaria Formificio Forlivese la quota sociale data in
pegno, finalità vietata dall'ordinamento perchè in violazione tanto degli obblighi propri
dell'amministratore di società di capitali quanto della funzione propria del pegno, che non è quella di
acquisizione diretta della proprietà del bene dato in garanzia. Obiettivo, questo, che risultava
perseguito nella specie attraverso una condotta, tenuta da Saffi s.p.a. (evidentemente conforme alle
direttive ricevute dal mandante M.), di astensione dall'intimare alla debitrice il pagamento del debito,
negandole poi ogni collaborazione per consentirle di provvedervi.
Avverso tale sentenza, notificata il 27 marzo 2006, hanno proposto distinti (ancorchè di identico
contenuto) ricorsi a questa Corte la Saffi s.p.a. e la cessionaria Bianco s.r.l. Resistono con controricorsi
la Formificio Forlivese s.r.l. e C.G., il quale ha altresì proposto ricorso incidentale.
Motivi della decisione
1. Deve, innanzitutto, disporsi la riunione dei ricorsi in esame, in quanto proposti avverso la medesima
sentenza.
2. Quanto ai due ricorsi principali, essi si basano su quattro motivi, tutti diretti a censurare le
statuizioni della sentenza di appello aventi ad oggetto l'illiceità del contratto di mutuo pignoratizio in
questione. Con il primo motivo si denuncia la violazione delle norme di diritto in materia di nullità dei
contratti per illiceità della causa, sostenendo che la Corte avrebbe disapplicato il principio secondo cui
i motivi o moventi soggettivi (nella specie del M., dominus effettivo dell'operazione), che non siano
esteriorizzati in una condizione o patto, sono elementi estranei al contratto e ininfluenti ai fini del
giudizio sulla illiceità dello stesso, salva l'ipotesi distinta di illiceità dei motivi. Con il secondo motivo
si denuncia l'omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione: la Corte avrebbe tratto il
suo convincimento in merito alla illiceità della causa presupponendo, senza considerare alcune
circostanze di segno contrario, che la mutuataria non avesse alcuna valida ragione per chiedere un
finanziamento. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto,
per avere la Corte identificato nella violazione dei doveri in capo agli amministratori di società una
ragione di nullità del contratto per illiceità della causa: si sostiene che non esiste nell'ordinamento una
norma che preveda in via generale l'invalidità del contratto stipulato in frode ai terzi, bensì norme che
accordano diversi rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio (azione revocatoria, azione
di responsabilità nei confronti dell'amministratore, azione di annullamento del contratto per conflitto di
interessi del rappresentante), salve ipotesi di particolare disvalore, sanzionate anche penalmente (art.
2642 c.c.).
Con il quarto motivo, si denuncia l'omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione
circa la esistenza di un preordinato inadempimento della Formificio Forlivese al piano di
ammortamento, con conseguente trasferimento della quota della CMC alla Saffi e quindi al M..
3. Con il ricorso incidentale, il C. censura, sotto il profilo dell'insufficienza e contraddittorietà della
motivazione, la conferma da parte della Corte della statuizione (negativa per il ricorrente) sulle spese
del giudizio di primo grado, nonostante l'accoglimento del gravame da lui proposto e la condanna delle
controparti al rimborso in suo favore delle spese del giudizio di secondo grado.
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4. Le doglianze espresse con i ricorsi principali, attesa la loro connessione, possono essere esaminate
congiuntamente, e meritano accoglimento, nei limiti delle considerazioni che seguono.
4.1. Invero, il tema su cui focalizzare l'attenzione non attiene alla pacifica distinzione tra i motivi
soggettivi, o intendimenti particolari che ciascuna parte si propone di realizzare, e la causa quale
obiettiva funzione economico - sociale del contratto. Posto che l'indagine su tale elemento essenziale
del contratto va svolta non "in astratto" ma "in concreto", onde verificare - secondo il disposto degli
artt. 1343 e 1344 c.c. - la conformità a legge dell'attività negoziale posta in essere dalle parti e quindi la
riconoscibilità nella specie della tutela apprestata dall'ordinamento giuridico (cfr.
ex multis Sez. 1 n. 1898/2000; Sez. 3 n. 5324/03; Sez. 1 n. 3646/09), una siffatta indagine in ordine
alla funzione obiettiva del negozio posto in essere non può prescindere dall'apprezzamento degli
interessi che lo stesso è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse,
coeve e successive alla sua conclusione) secondo la valutazione, riservata al giudice del merito, del
materiale probatorio acquisito. E, ove da tale indagine risulti che le parti abbiano utilizzato un
determinato modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva che sia non solo diversa da quella
per la quale tale strumento giuridico è previsto dalla legge ma anche in contrasto con norme imperative
(ciò che caratterizza l'illiceità della causa), il giudice deve negare al negozio posto in essere dalle parti
la tutela apprestata dall'ordinamento.
4.2. Tuttavia in tale prospettiva - nella quale sembra muoversi la Corte milanese - riveste rilevanza
decisiva la chiara indicazione delle norme imperative la cui violazione risulti perseguita nel contratto
in esame: ed è su questo punto che la motivazione della sentenza impugnata si mostra carente, atteso
che in essa è dato solo rinvenire alcuni generici riferimenti del tutto inidonei a sostenere la conclusione
cui la Corte è giunta.
Ciò vale, in primo luogo, per il riferimento alla violazione (che sarebbe realizzata dalla appropriazione
da parte del M. della partecipazione in CMC) degli obblighi, gravanti sugli amministratori delle società
di capitali, di conservazione del patrimonio sociale, violazione che è piuttosto fonte di responsabilità a
carico degli amministratori, per la quale la legge appresta in favore dei soggetti titolari degli interessi
lesi mezzi tipici di reazione. Analogamente, deve ritenersi inidoneo ad individuare una violazione di
norma imperativa la elusione della norma che vieta al rappresentante di acquistare beni del
rappresentato, atteso che anche per tale condotta in conflitto di interessi l'ordinamento appresta in
favore del rappresentato uno specifico rimedio, costituito dall'azione di annullamento del contratto
concluso dal rappresentante. Quanto, poi, alla evidenziata deviazione dalla funzione di garanzia
propria del pegno, con attribuzione a tale negozio della diversa funzione di strumento di acquisizione
diretta da parte del creditore della proprietà del bene dato in garanzia, va osservato che, ove in tal
modo si intendesse far riferimento alla violazione del divieto del patto commissorio previsto dall'art.
2744 c.c., tale riferimento sarebbe nella specie inappropriato, attesa la specifica clausola del contratto
che, contrariamente all'automatismo traslativo che caratterizza il patto commissorio, prevedeva il
ricorso al giudice (del quale la Saffi si è per l'appunto avvalsa) per l'assegnazione al creditore del bene
dato in garanzia.
4.3. In definitiva, l'impianto motivazionale sulla illiceità della causa concreta perseguita con il negozio
in esame risulta vulnerato dal difetto di una chiara e specifica individuazione ed esplicazione circa
l'elemento decisivo costituito dal contrasto tra lo scopo obiettivamente perseguito con il negozio in
esame ed il disposto di norme imperative. La cassazione sul punto della sentenza impugnata si impone
dunque (restando assorbito il ricorso incidentale), con il rinvio della causa alla Corte territoriale, la
quale provvederà anche a regolare le spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
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questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro.
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La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso della Saffi s.p.a. e della Bianco s.r.l., dichiara assorbito il
ricorso incidentale del C.; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di
cassazione, alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione.
La convenzione intercorsa tra due parti, avente ad oggetto un primo contratto di vendita di un
immobile di proprietà, con versamento di una parte del prezzo pattuito in denaro e di altra parte
mediante accollo di mutui ipotecari contratti dal venditore, un contestuale contratto di locazione, per
mezzo del quale l'acquirente loca lo stesso immobile al venditore, ed una successiva scrittura privata
avente ad oggetto un patto di opzione con riconoscimento in favore dell'alienante della facoltà di
riacquistare la proprietà dell'immobile oggetto di alienazione dietro versamento di un prezzo di poco
superiore a quello pattuito per la vendita, non integra gli estremi del patto commissorio vietato ai
sensi dell'art. 2744 c.c. Nella descritta ipotesi, invero, non è ravvisabile il presupposto fondamentale
della fattispecie contemplata dalla richiamata norma, ovvero la esistenza di una situazione di debito
del venditore nei confronti dell'acquirente, preesistente o coeva alla vendita, in quanto elemento
imprescindibile affinché la vendita realizzi una forma di garanzia impropria, sanzionata con la nullità
per violazione del divieto del patto commissorio posto dall'art. 2744 c.c
Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-02-2012, n. 1675
Svolgimento del processo
1. - Con atto di citazione notificato il 3 gennaio 2001, la Ma.El. s.r.l. convenne in giudizio, dinanzi al
Tribunale di Napoli, la General Trade Group s.r.l. per sentire dichiarare la nullità dell'atto di vendita
per notar Milone di Napoli in data 30 dicembre 1998, del contratto di locazione del 30 dicembre 1998
e del patto di opzione al riacquisto anch'esso del 30 dicembre 1998, perchè stipulati in frode alla
legge, in violazione degli artt. 1344 e 2744 cod. civ..
Espose la società di avere alienato alla convenuta, con il citato atto pubblico, l'immobile di sua
proprietà sito in (OMISSIS), per il prezzo di L. 2.600.000.000; che il prezzo pattuito era stato in parte
corrisposto dall'acquirente General Trade Group contestualmente alla stipula dell'atto pubblico di
compravendita e, per il residuo, mediante accollo da parte dell'acquirente di mutui ipotecari contratti
dalla Ma.El. s.r.l. con la Icle s.p.a. e con l'Isveimer s.p.a.; che unitamente alla stipula del contratto di
compravendita era stato sottoscritto, nella stessa data e tra le stesse parti, un contratto di locazione,
con cui l'acquirente aveva locato alla venditrice l'immobile oggetto del primo contratto; che con
diversa scrittura privata la General Trade Group s.r.l. aveva stipulato con la Ma. El. un patto di
opzione, in base al quale era stata riconosciuta a quest'ultima la facoltà di riacquistare la proprietà
dell'immobile oggetto della compravendita contro il versamento della somma delle vecchie L.
2.800.000.000, oltre all'IVA, cifra da rivalutarsi in base ad un tasso annuo pari all'8%.
Tanto premesso, l'attrice concluse per l'accoglimento delle seguenti conclusioni: (a) accertare il
collegamento negoziale tra il contratto di compravendita, il contratto di locazione ed il patto di
opzione;
(b) accertare che l'effetto realizzato dal complesso delle predette pattuizioni non era quello di pattuire
un prezzo come corrispettivo di una compravendita, bensì quello di mutuare una somma, costituendo
allo stesso tempo una garanzia reale in favore del mutuante, garanzia rappresentata dal trasferimento
dell'immobile; (c) dichiarare, quindi, la nullità dei contratti, perchè in frode alla legge, e condannare
la convenuta alla restituzione dei canoni di locazione.
Si costituì la convenuta, resistendo, ed in via subordinata chiedendo, a mezzo di riconvenzionale e
per l'ipotesi di accoglimento della domanda dell'attrice, la condanna della Ma.El. alla restituzione
delle somme indebitamente ricevute.
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Il Tribunale adito, con sentenza depositata in data 20 gennaio 2005, rigettò la domanda della Ma.El.
2. - La Corte d'appello di Napoli, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 5
febbraio 2010, ha respinto il gravame della Ma.El.
2.1. - La Corte territoriale ha premesso che la domanda di nullità di una compravendita, finalizzata
alla configurabilità di un patto commissorio, non può prescindere dalla dimostrazione dell'esistenza
tra le parti di un accordo preventivo, in virtù del quale, da un lato, il debitore consenta che il
trasferimento del bene sia la conseguenza della mancata estinzione del debito e, dall'altro lato, il
creditore realizzi un arricchimento ingiustificato in danno della controparte.
Nella specie - ha rilevato la Corte partenopea - la società appellante non ha dimostrato il preesistente
rapporto obbligatorio con l'acquirente General Trade Group nè, tanto meno, il preesistente contratto
di mutuo e la debolezza economica della predetta alienante.
Con l'operazione economica intervenuta - ha sottolineato la Corte d'appello - è stato realizzato
l'interesse sia della Ma.El, quale alienante, a conservare la conduzione dell'immobile al fine di
salvaguardare il proprio avviamento commerciale, sia l'interesse della General Trade Group, quale
acquirente, ad ottenere un corrispettivo per la locazione. Nè è stata accertata alcuna sproporzione tra
il valore del bene ed il corrispettivo versato dall'acquirente.
3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello la Ma.El. ha proposto ricorso, con atto
notificato il 5 luglio 2010, sulla base di tre motivi.
L'intimata General Trade Group ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio, in riferimento all'art. 360 cod. proc. civ., n. 5) la società
ricorrente lamenta che la Corte d'appello abbia confermato in fatto ed in diritto l'impianto della
sentenza di primo grado, anche in punto di inquadramento dell'operazione negoziale in un contratto
di sale and lease back, senza motivare sui rilievi mossi dall'appellante, in particolare circa il fatto che
la General Trade Group non era una società finanziaria di leasing e che l'oggetto sociale della
medesima prevedeva soltanto la possibilità di stipulare esclusivamente locazioni non finanziarie. Ad
avviso della ricorrente, "se la sentenza di appello ha condiviso la ricostruzione giuridica del giudice
di primo grado, avrebbe necessariamente dovuto motivare sui motivi di appello in ordine alla natura
del contratto di leasing (finanziario o operativo), del canone di locazione da intendersi o meno come
compenso per l'uso del bene o piuttosto restituzione rateale delle somme mutuate, sulla natura del
prezzo di riscatto che cumulato con i canoni oltre all'8% di rivalutazione annua avrebbe difatti reso
oltremodo gravoso, usurario ed impossibile per la venditrice il riacquisto dell'immobile".
Con il secondo mezzo (violazione o falsa applicazione degli artt. 1344, 1345, 1418 e 2744 cod. civ.,
dell'art. 106 T.U. leggi in materia bancaria e creditizia, dell'art. 1421 cod. civ. in relazione all'art. 644
cod. pen., dell'art. 1362 cod. civ., e segg., in relazione agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell'art.
2721 cod. civ.) si sostiene che il divieto di patto commissorio, sancito dall'art. 2744 cod. civ., si
estende a qualunque negozio, quale che sia il contenuto, che venga impiegato per conseguire il
risultato concreto vietato dall'ordinamento, dell'illecita coercizione del debitore a sottostare alla
volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di proprietà di un bene, con
conseguente estinzione del debito. Ad avviso della ricorrente, l'accertamento delle condizione di
debolezza del venditore si può ricavare anche per presunzioni o tenuto conto della esposizione
debitoria del medesimo di cui l'acquirente dell'immobile si renda accollatario al momento
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dell'acquisto del bene, costituendo l'opzione di riacquisto in favore del venditore, qualora
chiaramente sproporzionata rispetto al prezzo pattuito al momento della cessione del bene, sintomo
della coercizione a carico dell'originario venditore ed elemento utile alla qualificazione dei negozi
intercorsi tra le parti. Inoltre, qualora il giudice ritenga la sussistenza tra le parti di una fattispecie
negoziale di sale and lease back, nel caso in cui la parte finanziata lamenti la eccessiva onerosità per
il superamento del tasso soglia ai sensi della L. 7 marzo 1996, n. 108, e dell'art. 640 cod. pen.,
dovrebbe essere dichiarata la nullità dei negozi intercorsi tra le parti per violazione di norma
imperativa: sotto questo profilo, anche la circostanza che la parte finanziata non possa accedere al
credito stante la preesistenza di ipoteche sul bene compravenduto a fini di garanzia per l'estinzione di
debiti preesistenti anche nei confronti di terzi, costituirebbe elemento per la sussistenza della
fattispecie vietata del patto commissorio di cui all'art. 2744 cod. civ.. Infine, la ricorrente sostiene che
il contratto di sale and lease back o vendita con locazione di ritorno sarebbe nullo per frode al divieto
di patto commissorio ogni qualvolta si riscontrino anomalie idonee a snaturarne la funzione
socialmente tipica e a rivelarne lo scopo di garanzia, come ad esempio nel caso in cui il prezzo venga
utilizzato a scopo di sostegno finanziario alla società venditrice o non venga erogato come nel caso di
mero accollo di mutui pregressi della venditrice e di estinzione di pregresse esposizioni della
venditrice nei confronti della locataria acquirente.
Il terzo motivo denuncia "violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in
relazione all'art. 1362 c.c., e segg., artt. 2744 e 2721 cod. civ., nonchè omessa ed erronea valutazione
delle prove documentali ed in particolare del patto di opzione del 30 dicembre 1993 e della
transazione del 22 dicembre 2008, agli atti del giudizio di appello". Con esso si sostiene che il
giudice d'appello dovrebbe poter ricavare argomenti di prova "anche dai documenti prodotti da una
delle parti per dimostrare la eventuale cessata materia del contendere al fine di ricavare, come nella
fattispecie dedotta in giudizio, la sussistenza della condotta dell'acquirente finanziatore volta ad
eludere il divieto di cui all'art. 2744 cod. civ., condotta sussistente anche qualora la volontà del
venditore a formalizzare la vendita con scopi di garanzia si sia formata con il concorso dello stesso
acquirente socio di maggioranza della società venditrice". 2. - I tre motivi - i quali, stante la loro
connessione, possono essere esaminati congiuntamente - sono infondati.
2.1. - Incorre nella sanzione della nullità per violazione del divieto del patto commissorio posto
dall'art. 2744 cod. civ. la convenzione mediante la quale le parti abbiano inteso costituire, con un
determinato bene, una garanzia reale in funzione di un mutuo, i- stituendo un nesso teleologico o
strumentale tra la vendita del bene ed il mutuo, in vista del perseguimento di un risultato finale
consistente nel trasferimento della proprietà del bene al creditore- acquirente nel caso di mancato
adempimento dell'obbligazione di restituzione del debitore-venditore.
L'art. 2744 cod. civ. costituisce infatti una norma materiale, destinata a trovare applicazione non
soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente condizionate
all'inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative risolutivamente
condizionate all'adempimento del debitore (Cass., Sez. Un., 3 aprile 1989, n. 1611). Detta norma
esprime un divieto di risultato, mirando a difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore,
assicurando nel contempo la garanzia della par condicio creditorum. E' tale risultato che giustifica il
divieto di legge, non i mezzi impiegati: con la conseguenza che, ove, sulla base della corretta
qualificazione della fattispecie, il versamento del denaro non costituisca il pagamento del prezzo, ma
l'esecuzione di un mutuo e il trasferimento del bene non integri l'attribuzione al compratore, bensi
l'atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, manca la funzione di
scambio tipica del contratto di compravendita e si realizza proprio il negozio vietato dalla legge
(Cass., Sez. 2^, 8 febbraio 2007, n. 2725; Cass., Sez. 2^, 12 gennaio 2009, n. 437; Cass., Sez. 2^, 10
marzo 2011, n. 5740).
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Perchè la vendita realizzi una forma di garanzia impropria occorre quindi, tra l'altro, l'esistenza di una
situazione di debito del venditore nei confronti dell'acquirente, preesistente o coeva alla vendita.
Nella specie, la Corte d'appello ha rilevato che nella specie difetta proprio tale presupposto,
necessario perchè l'operazione incorra nel divieto del patto commissorio.
Il giudice del merito ha anche escluso tanto la sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene
alienato e, più in generale, tra le reciproche obbligazioni nascenti dal rapporto, quanto
l'approfittamento da parte dell'acquirente della situazione dell'alienante.
Non essendo stata fornita la prova dell'esistenza coeva o precedente di un'obbligazione dell'alienante
verso l'acquirente, correttamente la Corte territoriale ha escluso che il trasferimento immobiliare
fosse destinato a sovrapporsi all'inadempimento di un rapporto obbligatorio.
Si è trattato, infatti, di una vendita "isolata" con patto di opzione, dettata da esigenze di
finanziamento, nella quale - ha rilevato la Corte d'appello, con logico e motivato apprezzamento delle
risultanze di causa - manca, tra l'altro, qualsiasi sproporzione tra il valore del bene ed il corrispettivo
versato, essendo il prezzo pagato dall'acquirente congruo rispetto ai valori indicati nella perizia
giurata effettuata in base alla richiesta della stessa Ma.El. e costituendo l'accollo dei mutui una
modalità di adempimento dell'obbligazione di pagamento del prezzo.
Dalla sentenza impugnata risulta altresì che l'equilibrio tra le prestazioni dei contraenti non è risultato
alterato per effetto della stipulazione del contratto di locazione, perchè con detta pattuizione è stato
realizzato l'interesse sia della Ma.El. (quale alienante) a conservare la conduzione dell'immobile al
fine di salvaguardare il proprio avviamento commerciale, sia l'interesse della General Trade Group ad
ottenere un corrispettivo per la locazione.
Inoltre, escludendo la sussistenza di una più generale sproporzione tra le reciproche obbligazioni
nascenti dall'intero rapporto, la Corte territoriale, ponendosi in continuità con l'accertamento
compiuto dal Tribunale, ha - implicitamente ma chiaramente - negato che il corrispettivo pattuito per
l'esercizio del diritto pote- stativo di opzione in capo all'alienante fosse di entità tale da determinare
un'alterazione degli equilibri contrattuali o una sopraffazione di una parte a danno dell'altra.
Le verifiche compiute dal giudice del merito per escludere la frode dimostrano che la Corte di Napoli
non si è fermata ad un'indagine formale dei tre atti in questione (il contratto di vendita, il contratto di
locazione ed il patto di opzione), ma ha compiuto una valutazione penetrante e d'insieme,
apprezzando ogni circostanza di fatto relativa alle pattuizioni intervenute e al risultato concreto che
l'operazione negoziale nel suo complesso era idonea a produrre.
2.2. - Anche le ulteriori censure articolate con i motivi non colgono nel segno:
la doglianza relativa alla mancata iscrizione dell'acquirente nell'albo degli intermediari finanziari
autorizzati, previsto dall'art. 106 T.U. leggi in materia bancaria e creditizia (approvato con il D.Lgs. 1
settembre 1993, n. 385), introduce nella controversia un tema d'indagine nuovo, che dal testo della
sentenza impugnata non consta abbia costituito oggetto del thema decidendum nei gradi di meritoria
critica consistente nel non avere la sentenza d'appello preso in considerazione la censura, rivolta alla
sentenza di primo grado, relativa al discostarsi dell'operazione da un vero e proprio contratto di
leasing o di sale and lease back, è priva di decisività e di pertinenza, perchè non tiene conto del fatto
che la Corte territoriale ha ampiamente motivato sia sull'insussistenza di uno scopo di garanzia alla
base della concreta operazione, sia sulla mancanza degli altri indici sintomatici della frode (la
sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato e, più in generale, delle reciproche
obbligazioni nascenti dal rapporto) (cfr.
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Cass., Sez. 3^, 16 ottobre 1995, n. 10805; Cass., Sez. 3^, 21 gennaio 2005, n. 1273; Cass., Sez. 3^; 14
marzo 2006, n. 5438; Cass., Sez. 3^, 22 marzo 2007, n. 6969);
il riferimento alìusurarietà dell'operazione negoziale contrasta con la valutazione di complessivo
equilibrio della stessa formulato dalla Corte d'appello, e muove da una lettura delle pattuizioni
negoziali già smentita dal primo giudice, il quale aveva evidenziato come la prevista liberazione per
l'intero della General Trade dall'accollo dei mutui era stata stipulata per la sola ipotesi in cui il diritto
di opzione fosse stato esercitato in epoca anteriore all'estinzione dei debiti stessi, cosicchè ove
l'acquirente fosse stata liberata dagli accolli, il relativo importo avrebbe dovuto essere detratto dal
prezzo di opzione;
in ogni caso, detta censura non considera che la nullità per usurarietà dell'intera operazione era stata
oggetto di una diversa azione giudiziaria, promossa dinanzi al Tribunale di Salerno dalla curatela del
fallimento della Ma.El. s.r.l. nei confronti della General Trade: domanda non solo rigettata da quel
giudice, ma anche oggetto, successivamente, della transazione in data 22 dicembre 2008, con la quale
la curatela, a ciò debitamente autorizzata, ha riconosciuto "la piena legittimità e liceità" dell'atto di
compravendita notar Milone del 30 giugno 1998 nonchè del contratto di locazione e del patto di
opzione di pari data.
3. - Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dalla
controricorrente, che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 6.000,00 per onorari, oltre a
spese generali e ad accessori di legge.
La procura a vendere un immobile, conferita dal mutuatario al mutuante contestualmente alla
stipulazione del mutuo, può integrare la violazione del divieto del patto commissorio, qualora si
accerti che tra il mutuo e la procura sussista un nesso funzionale. Tale accertamento è demandato al
giudice di merito, il quale tuttavia, nel compierlo, non deve limitarsi ad un esame formale degli atti
posti in essere dalle parti, ma deve considerarne la causa in concreto, e, in caso di operazione
complessa, valutare gli atti medesimi alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale,
apprezzando ogni circostanza di fatto rilevante ed il risultato stesso che l'operazione negoziale era
idonea a produrre e, in concreto, ha prodotto.
Cass. civ. Sez. II, Sent., 10-03-2011, n. 5740
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ODDO Massimo - Presidente
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Dott. BURSESE Gaetano Antonio - Consigliere
Dott. MIGLIUCCI Emilio - Consigliere
Dott. MANNA Antonio - Consigliere
Dott. BERTUZZI Mario - rel. est. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
V.G., residente in (OMISSIS), rappresentato e difeso per procura a margine del ricorso dall'Avvocato
Pacchioli Roberto, elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avvocato Aniello Costanza in
Roma, via Tacito n. 23;
- ricorrente - contro
G.I. e C.M.R., rappresentati e difesi per procura a margine del controricorso dagli Avvocati Gentile
Reno e Spadafora Giorgio, elettivamente domiciliati presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via
Panama n. 88;
- controricorrenti e Ch.Va., rappresentato e difeso dagli Avvocati Giuffrè Bruno e David Marino per procura in calce al
controricorso e dall'Avvocato Paolo Vitali per procura speciale autenticata per atto del dott. Artidoro
Solaro, notaio in Nerviano, in data 30 aprile 2008, elettivamente domiciliato presso lo studio di
quest'ultimo in Roma, via XX Settembre n. 1;
- controricorrente avverso la sentenza n. 1112 della Corte di appello di Milano, depositata il 26 aprile 2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25 gennaio 2011 dal consigliere
relatore dott. Mario Bertuzzi;
udite le difese svolte dall'avv. Francesco Cerasi per delega dell'Avv. Bruno Giuffrè per il contro
ricorrente Ch.
V.;
udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. RUSSO Libertino
Alberto, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
V.G., premesso di essere debitore in forza di un rapporto usuraio di G.S., a cui aveva conferito una
procura a vendere un proprio immobile sito in (OMISSIS), procura che il creditore aveva
effettivamente utilizzato trasferendo fittiziamente il bene alla propria moglie C.M. R. con atto
stipulato a mezzo del notaio Ch.Va. in data 6 maggio 1998, convenne dinanzi al Tribunale di Milano
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G.I., C.R.M. e Ch.Va., chiedendo che L'atto di compravendila fosse dichiarato nullo per violazione
del divieto del patto commissorio ovvero, in subordine, che venisse annullato, previa dichiarazione
che esso era affetto da simulazione relativa, ai sensi dell'arT. 1395 cod. civ., in quanto contratto dal
rappresentante con se stesso, o, in ulteriore subordine, che il G. fosse condannato a versargli il prezzo
della vendita, pari all'importo di l. 280.000.000; chiese inoltre che il notaio rogante la compravendita
fosse condannato al risarcimento del danno per avere incluso nell'atto anche il cortile antistante
l'immobile, bene che non era compreso nella procura da lui rilasciata.
Si costituirono in giudizio i convenuti opponendosi alle domande contro di loro rispettivamente
proposte e i coniugi G.I. e C.M.R. chiedendo altresì, in via riconvenzionale, la condanna dell'attore
alla restituzione del debito di L. 280.000.000.
Il giudice di primo grado, disattese nel corso dell'istruttoria le richieste di prove orali avanzate dalle
parti, respinse la domanda principale di nullità del contratto di compravendita per violazione delle
divieto di patto commissorio e quella avanzata dall'attore nei confronti del notaio Ch.; accolse invece
quella di annullamento della compravendita ai sensi dell'art. 1395 cod. civ., previa dichiarazione di
simulazione del contratto, nonchè la domanda riconvenzionale dei convenuti G. e C., condannando
l'attore al pagamento della somma richiesta, oltre interessi legali dalla data del 14 maggio 1996 al
saldo.
Interposto gravame da parte del solo V., con sentenza n. 1112 del 26 aprile 2005 la Corte di appello
di Milano confermò in toto la decisione impugnata, affermando, con riferimento alla riproposta
domanda di nullità della compravendita ex art. 2744 cod. civ., che, nella specie, difettavano i
presupposti del patto commissorio, per insussistenza di un nesso di interdipendenza tra l'assunzione
del debito e la procura a vendere l'immobile, atteso che quest'ultima, nelle intenzioni delle parti, era
destinata non già a realizzare il trasferimento della proprietà del bene in capo al creditore nel caso di
inadempimento del debito, ma di consentire la vendita del bene a prezzo di mercato, con obbligo del
creditore di versare al debitore la differenza in caso di realizzo ad un prezzo superiore al debito
stesso; in relazione all'accoglimento della domanda riconvenzionale, il giudice di secondo grado
ritenne invece che non era stata data la prova nè degli interessi usurari nè della eccepita restituzione
del debito, confermando la valutazione del primo giudice di inammissibilità delle prove orali
articolate dalla parte attrice su questi punti; ritenne infine infondato il gravame avverso il rigetto della
domanda proposta dal V. nei confronti del notaio Ch., assumendo che l'accoglimento della domanda
di annullamento del contratto da questi rogato determinava il venir meno dell'interesse ad affermare
l'eventuale responsabilità del professionista ed all'accertamento dell'eventuale danno conseguente.
Per la cassazione di questa decisione, notificata il 17 maggio 2005, con atto notificato il 5 e 6 luglio
2005, ricorre V.G., affidandosi a cinque motivi.
Con distinti controricorsi resistono in giudizio sia G. I. e C.R.M., che Ch.Va.. Il ricorrente ed il
controricorrente Ch. hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 1418, 1344 e 2744 cod.
civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto essenziale della controversia,
censurando la sentenza impugnata per avere respinto la domanda di nullità del contratto di
compravendita per violazione del divieto del patto commissario. Ad avviso del ricorso il giudice
territoriale è pervenuto a questa conclusione in forza di una non corretta interpretazione del divieto
sancito dall'art. 2744 cod. civ., il quale va esteso ad ogni atto negoziale che abbia il fine di far
conseguire al creditore la proprietà del bene del debitore in caso di inadempimento del debito. Nel
caso di specie, il nesso di interdipendenza tra l'assunzione del debito e la procura a vendere emergeva
ictu oculi, essendo stato nel corso del giudizio pienamente provato che il V. era stato costretto a
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rilasciare la procura a vendere al G. nell'ambito di un rapporto debitorio, che la suddetta procura era
stata rilasciata a garanzia delle somme mutuate e che la procura a vendere era stata in concreto
utilizzata dal creditore al fine di acquisire, dietro lo schermo della moglie, l'effettiva proprietà del
bene. La decisione di secondo grado è quindi incorsa anche nel denunziato vizio di motivazione, in
quanto il giudicante, da un lato, ha sostenuto di condividere un'interpretazione estensiva dell'art. 2744
cod. civ., affermando la sola necessità dell'interdipendenza tra i due negozi, dall'altro,
contraddicendosi, ha negato che la procura a vendere potesse considerarsi atto negoziale idoneo a far
pervenire al creditore la proprietà del bene, limitandosi sul punto ad osservare che essa era destinata
"a realizzare una vendita effettiva e al reale valore di mercato", ma senza rilevare che, nel concreto,
essa era servita al creditore per intestarsi il bene attraverso lo schermo della sua vendita simulata alla
moglie.
Nel proprio controricorso G.I. e C.M.R. eccepiscono l'inammissibilità del motivo, assumendo che la
controparte non ha interesse a coltivare la domanda di annullamento del contratto per violazione del
divieto di patto commissorio, atteso che il contratto di compravendita impugnato risulta essere stato
già annullato in accoglimento della domanda subordinata ex art. 1395 cod. civ., in forza di una
statuizione su cui, non essendo stata impugnata, si è ormai formato il giudicato. Il primo motivo di
ricorso è fondato.
L'eccezione preliminare di inammissibilità del motivo per difetto di interesse non può essere accolta,
risultando pacifico dall'esposizione delle vicende del processo che la domanda di nullità ex art. 2744
cod. civ. è stata proposta dall'attore in via principale e quella di annullamento ex art. 1395 cod. civ. in
via soltanto subordinata. Questo ordine di proposizione delle domande, che costituisce esplicazione
del diritto di azione in giudizio (art. 24 Cost.), conferisce evidentemente alla parte il diritto di
insistere sull'accoglimento della domanda principale fino all'esaurimento di tutti i gradi di giudizio,
senza che su detto interesse possa minimamente incidere l'avvenuto accoglimento della domanda
proposta in via subordinata e la mancata proposizione contro di essa di impugnazione. In disparte poi
il rilievo che la differenza degli effetti sostanziali riconducibili alla dichiarazione di nullità del
contratto rispetto alla pronuncia di annullamento conferisce un interesse anche obiettivo alla parte di
insistere sulla propria richiesta.
Tanto precisato, quanto al merito del motivo, si osserva che il giudice territoriale ha escluso nel caso
di specie che i negozi posti in essere dalle parti volessero aggirare il divieto del patto commissorio
per l'assenza del nesso di interdipendenza tra la dichiarazione di debito firmata dai V. e la procura a
vendere, dal momento che quest'ultima "era destinata non già a realizzare il trasferimento della
proprietà del bene in favore di G. stesso o di chi per lui, ma a realizzare una vendita effettiva e al
reale valore di mercato del bene, tant'è che, stimando il bene di valore superiore all'ammontare del
debito nei confronti di G., in caso di cessione dell'immobile si prevedeva che G. trattenesse per sè la
somma capitale corrispondente al proprio credito, versando a V. la differenza".
Questo ragionamento non appare condivisibile, risultando del tutto inappagante l'indagine con cui il
giudice territoriale ha escluso l'eventuale nesso di interdipendenza tra gli atti negoziali posti in essere
dalle parti, nonchè la dedotta finalità degli stessi di realizzare il trasferimento del bene del debitore in
caso di suo inadempimento.
In materia di violazione del divieto del patto commissorio, questa Corte ha già avuto modo di
precisare come non sia possibile in astratto identificare una categoria di negozi soggetti a tale nullità,
occorrendo invece riconoscere che qualsiasi negozio può integrare tale violazione, quale che ne sia il
contenuto, nell'ipotesi in cui venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato
dall'ordinamento giuridico, di far ottenere al creditore, mediante l'illecita coercizione del debitore al
momento della conclusione del negozio, la proprietà del bene dell'altra parte nel caso in cui questa
non adempia la propria obbligazione.
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Più volte, di conseguenza, è stata ritenuta la nullità, ex art. 1344 cod. civ., per frode alla legge, in
quanto finalizzati alla violazione o elusionedel divieto del patto commissorio, di atti negoziali di per
se astrattamente leciti ovvero di operazioni negoziali complesse che, pur in assenza di formale
costituzione di una garanzia ipotecaria o pignoratizia, apparivano rispondenti alla finalità di attribuire
al creditore la facoltà di acquisire la proprietà del bene in caso di mancato pagamento da parte del
debitore, così costretto a sottostare alla volontà della controparte (Cass. n. 5426 del 2010; Cass. n.
437 del 2009; Cass. n. 2285 del 2006). Nel caso in cui il debitore abbia accettato preventivamente quindi al di fuori di una concordata datio in solutum successiva all'inadempimento - la possibilità di
alienazione del proprio bene a seguito di inadempimento, viene infatti a mancare la causa tipica dello
scambio a parità di condizioni, che connota il contratto di compravendita e si verte in ipotesi di causa
illecita, che vizia e rende nullo il negozio o l'operazione negoziale conclusa.
In applicazione di questi principi, si è ritenuto quindi, per quanto qui specificatamente interessa, che
anche una procura a vendere un immobile, rilasciata dal mutuatario al mutuante contestualmente alla
stipulazione de mutuo, comporti violazione del divieto del patto commissorio, qualora si accerti che
essa sia funzionalmente connessa con il mutuo (Cass. n. 6112 del 1993) collegamento questo
necessario dal momento che il patto commissorio è configurabile solo quando il debitore sia costretto
al trasferimento di un bene a tacitazione della sua obbligazione e non anche ove tale trasferimento sia
frutto di una scelta (Cass. n. 4064 del 1995; Cass. n. 4283 del 1990). La considerazione che il patto
commissorio costituisce un vizio che attiene alla causa del contratto, che viene piegata all'interesse
del creditore ad acquisire una garanzia reale diretta, autonoma ed atipica sul bene del debitore, con
conseguente snaturamento della causa tipica del negozio di scambio, autorizza d'altra parte
l'interprete a svolgere, ai fini di tale accertamento, un'indagine penetrante, che non si può fermare agli
aspetti formali del negozio, ma deve inoltrarsi anche a verificarne la causa in concreto. In particolare,
ciò richiede che, in caso di operazione complessa, i singoli atti vengano valutati alla luce di un loro
potenziale collegamento funzionale e che a tal fine venga apprezzata ogni circostanza di fatto relativa
agli atti compiuti e, non ultimo, il risultato concreto (la funzione) che, al di là delle clausole negoziali
ambigue o non vincolanti, l'operazione negoziale nel suo complesso era idonea a produrre ed ha in
concreto prodotto (cfr.
Cass. n. 9466 del 2004).
Ora, se si legge la decisione impugnata alla luce di tali principi, non si sfugge alla conclusione che
essa li abbia sostanzialmente disattesi. La Corte territoriale ha respinto la prospettazione
dell'esistenza di un patto commissorio limitandosi ad osservare che non era ravvisabile un nesso di
interdipendenza tra la dichiarazione di assunzione del debito sottoscritta da V. e il rilascio della
procura al creditore a vendere il proprio immobile dal momento che quest'ultima era effettivamente
diretta a vendere l'immobile al reale valore di mercato, tanfo che era prevista la consegna al
rappresentato del prezzo di vendita per la parte eventualmente eccedente l'ammontare del suo debito.
Si tratta di un'indagine e di una motivazione, come detto, inappaganti. In particolare, ciò che difetta è
una lettura complessiva degli atti posti in essere dalle parti, che costituisce, come sopra si è
evidenziato, nel caso di operazioni complesse, il momento centrale dell'indagine volta ad accertare la
presunta violazione del divieto di patto commissario. La Corte territoriale ha omesso di svolgere
un'interpretazione funzionale e complessiva del comportamento negoziale delle parti, di accertare che
tipo di relazione o collegamento esse avesse inteso stabilire tra la dichiarazione di debito e la procura
a vendere l'immobile ed il risultato concreto da esse voluto, mancando, a tal fine, di prendere in
considerazione e valorizzare non solo i singoli atti negoziali, con le relative clausole, ma anche ogni
elemento o circostanza di fatto, anche temporale, in presenza della quale erano stati posti in essere,
nonchè del risultato con essi in concreto voluto, anche alla luce del comportamento successivo delle
parti (risulta ad esempio trascurato il dato secondo cui la dichiarazione di debito e la procura a
vendere risultano entrambe sottoscritte lo stesso giorno, il 14 maggio 1996, nonchè la circostanza che
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la procura a vendere ha avuto esecuzione, attraverso la stipulazione del rogito impugnato, circa due
anni dopo, il 6 maggio 1998). Trattasi, per le ragioni sopra esposte, di accertamenti tutti necessari al
fine di dare risposta al quesito se in realtà le parti con la procura a vendere l'immobile intendessero
effettivamente trasferire a terzi l'immobile al fine di realizzare una provvista da destinare
all'estinzione del debito ovvero, come ritenuto dal ricorrente, costituire un garanzia reale a favore del
creditore tale da consentire allo stesso, in caso di mancata restituzione della somma dovuta, di
acquisire la proprietà del bene o comunque il potere di disporne.
Il motivo va pertanto accolto.
Il secondo motivo di ricorso denunzia "violazione o falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. e dell'art.
2733 c.c.; ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia; in relazione alla infondatezza della domanda riconvenzionale dei convenuti C. e G.
"Con esso il ricorrente lamenta che la Corte di appello. Dell'accogliere la domanda riconvenzionale
della controparte di restituzione della somma mutuata, non abbia correttamente valutato le prove
documentali in atti, che dimostravano chiaramente che il prestito era stato dato ad interessi usurari e
che la procura a vendere l'immobile del debitore era stata data nell'ambito di tale rapporto di mutuo
ed al fine di costituire una garanzia del prestito, in tale senso depongono, ad avviso del ricorrente, le
dichiarazioni rese dalle controparti dinanzi al pretore di Milano nel corso del giudizio possessorio da
lui intentato e le stesse ammissioni fatte nella loro comparsa di risposta, cui va riconosciuto valore
confessorio.
Il terzo motivo di ricorso denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto
decisivo della controversia e violazione o falsa applicazione dell'art. 2724 cod. civ. e dell'art. 112
cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per avere disatteso, con motivazione facente mero
rinvio a quella dell'ordinanza di rigetto adottata dal giudice di primo grado, le istanze di prova orale
articolate dall'attore al fine di opporsi alla domanda riconvenzionale di restituzione del debito, volte a
dimostrare che esso era stato integralmente rimborsato, omettendo per di più di pronunciarsi sullo
specifico motivo di appello che aveva contestato la legittimità e fondatezza della decisione di primo
grado sulle istanze di prova.
I due motivi di ricorso, che possono esaminarsi congiuntamente in ragione della loro connessione
oggettiva, sono entrambi infondati.
In questo senso spinge l'assorbente rilievo che le censure sollevate, che criticano la valutazione
operata dal giudice di merito del materiale probatorio raccolto nel corso del giudizio e delle stesse
istanze istruttorie della parte, si collegano ad eccezioni svolte dal V. nei confronti della domanda
della controparte di restituzione della somma data a mutuo prive del necessario carattere di specificità
e concretezza. La difesa del ricorrente appare infatti sul punto, per come riprodotta nel ricorso,
eccessivamente generica; si assume, da un parte, che nella somma pretesa sarebbero stati computati
interessi usurari e che comunque essa sarebbe stata restituita ne tempo, ma senza invero indicare
l'esatto ammontare del prestito ricevuto, dato all'evidenza indispensabile al fine di verificare la
sussistenza del tasso di interesse usurario, nè in quali momenti e con quali pagamenti si sarebbe
verificata la dedotta restituzione del prestito; nè, merita aggiungere, tali indicazioni appaiono
concretamente ricavabili dai capitoli di prova articolati dalla parte e non ammessi dal giudice di
merito, che pure il ricorso riproduce. L'onere di provare tali fatti incombeva sicuramente sul
ricorrente, ma sul punto è opportuno precisare che l'onere della prova implica anche il preventivo
onere di specificare in modo preciso e puntuale i fatti che si ritengono idonei a paralizzare la pretesa
della controparte. Ora, poichè le censure sollevate nel ricorso si riferiscono, come sottolineato, alla
mancata valutazione ed ammissione delle prove, ne consegue che l'indeterminatezza dei fatti opposti
dall'attore alla domanda della controparte si trasmette anche alle relative prove e porta a ritenere
generiche e, quindi, inammissibili, le relative doglianze.
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Il quarto motivo di ricorso, che denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 116 e 112 cod.
proc. civ. e dell'art. 1283 cod. civ. ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto
decisivo della controversia, lamenta che la sentenza impugnata, in accoglimento della domanda
riconvenzionale, abbia condannato il ricorrente anche al pagamento degli interessi legali maturati e
maturandi sulla somma da restituire, nonostante che la stessa fosse stata determinata dalle parti
computando gli interessi usurari, in aperta violazione del divieto di anatocismo.
La Corte - prosegue il ricorrente - ha poi omesso di pronunciarsi sulla domanda formulata
dall'appellante in estremo subordine di compensazione del credito vantato dalla controparte con gli
interessi maturati sul prezzo di vendita dell'immobile, mai versato dal G., tra la data del contratto e
l'adozione della pronuncia di annullamento di primo grado. Anche questo motivo è infondato.
La prima censura, con cui il ricorrente sostanzialmente lamenta di essere stato condannato anche al
pagamento degli interessi usurari, non può essere accolta in quanto la parte, come affermato dal
giudice di merito, non ha fornito alcuna prova della convenzione usuraria.
La seconda censura è invece infondata in quanto la richiesta di pagamento degli interessi sulla
somma riscossa dal G. a titolo di prezzo sulla vendita dell'immobile si collegava chiaramente all'altra
a domanda avanzata dal V. di restituzione del prezzo, domanda proposta in via subordinata e di fatto
rimasta assorbita dalla pronuncia di annullamento della vendita, che ha altresì accertato la
simulazione dell'atto di trasferimento posto in essere dal G.. Il quinto motivo di ricorso denunzia
violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 91 ed omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia, censurando la sentenza impugnata per avere
omesso di prendere in considerazione il motivo di appello con cui l'attuale ricorrente assumeva che il
giudice di primo grado non poteva limitarsi a rigettare la domanda avanzata nei confronti del notaio
in ragione del sopravvenuto annullamento del contratto da questi rogato, ma avrebbe dovuto, sia pure
al limitato fine della decisione sulle spese di causa, verificare se tale domanda era o meno fondata o
comunque compensare tra le parti le spese di lite. Si assume inoltre che la Corte di appello,
condannandolo alla rifusione delle spese pur in assenza di soccombenza sia reale che virtuale, ha
violato l'art. 91 cod. proc. civ., adottando sul punto una motivazione contraddittoria, dal momento
che, da un lato, ha rilevato che la domanda avanzata nei confronti del notaio era divenuta priva di
interesse per effetto dell'annullamento del contratto, dall'altro ha confermato la decisione di primo
grado che aveva rigettato tale domanda. Il mezzo è infondato.
Il motivo censura la statuizione con cui l'appellante è stato condannato al pagamento delle spese di
giudizio nei confronti del notaio Ch., ma non anche il capo della decisione che ha dichiarato la
domanda di risarcimento avanzata contro quest'ultimo assorbita dalla pronuncia di annullamento del
contratto per mezzo di questi stipulato. Occorre poi chiarire che la domanda di risarcimento era
motivata non già perchè il notaio avesse rogato un atto nullo, ma perchè aveva dato corso alla vendita
anche di un bene non compreso nella procura a vendere rilasciata dall'attore.
Tanto precisato, la regolamentazione delle spese adottata dal giudice di merito appare giuridicamente
corretta, in quanto rispondente al principio di causalità che governa la materia. Questa conclusione si
impone non solo perchè il notaio era stato chiamato in causa dall'attore, ma in quanto questi aveva
chiesto in via principale che il contratto stipulato tramite il professionista fosse dichiarato nullo o
annullato, accettando pertanto la possibilità che, a seguito dell'accoglimento di tali domande, il
giudice di merito non si pronunciasse, ritenendola assorbita, sulla successiva domanda di
risarcimento del danno. In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso e rigettati gli altri. La
sentenza impugnata va quindi cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa ad altra
sezione della Corte di appello di Milano che, nel decidere, si atterrà ai principi di diritto sopra
enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio.
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Si rinvengono invece giusti motivi, tenuto conto delle ragioni della decisione, per compensare
interamente le spese di giudizio tra il ricorrente ed il Ch..
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese, ad altra sezione della Corte di
appello di Milano. Compensa le spese di lite tra il ricorrente ed il Ch..
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2) Lettera di patronage
Mix è una piccola società controllata dalla Max s.r.l.
Mix, tramite il suo rappresentante Adolfo, si recava presso la banca Delta per ottenere un prestito.
Delta chiedeva delle garanzie a Mix; quest’ultima esibiva una lettera (di patronage) con cui Max
affermava la solidità di Mix.
Delta concedeva il prestito a condizioni privilegiate.
Purtroppo, Mix non riusciva a saldare il debito assunto con Delta.
Delta scriveva a Max chiedendo la restituzione del denaro prestato, unitamente agli interessi, alla
luce dell’art. 1936 c.c.
Max si recava dal legale Vittorio.
Il candidato, assunte le vesti di Vittorio, rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla
sua attenzione.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 2
In premessa poteva essere schematizzato il fatto.
Successivamente bisognava chiedersi se è applicabile la disciplina sulla fideiussione di cui all’art.
1936 c.c. e ssgg.
In caso positivo, Max sarà ritenuto fideiussore, così da dover restituire il denaro (preso a prestito da
Mix) unitamente agli interessi in favore di Delta.
In caso negativo, Max – senza la qualità di fideiussore – potrebbe non essere tenuto a restituire il
denaro suddetto.
In senso positivo, depone il rilievo che la lettera (di patronage) redatta dalla società Max, presentata a
Delta, affermava la solidità di Mix e, pertanto, implicitamente la prima assumeva un’obbligazione
posta a garanzia del creditore, secondo lo schema dell’art. 1936 c.c.
Si ritiene, però, di rispondere in senso negativo: nel caso in esame non vi è spazio per la fideiussione
in quanto:
-nel caso di fideiussione il debitore assume un obbligo direttamente nei confronti del creditore,
diversamente dal caso de quo dove la società Max si limitava ad un’affermazione (la solidità di Mix),
senza alcuna assunzione di obblighi;
-nella fideiussione la volontà di prestare fideiussione deve essere espressa ex art. 1937 c.c., mentre
nel caso de quo non emerge tale impegno formale;
-nella fideiussione l’obbligazione deve essere personale, ovvero il garante deve impegnarsi con le
proprie sostanze a garantire l’adempimento del garantito, mentre nel caso de quo tale personalità non
emerge;
-la lettera di patronage, ai fini dell’assunzione dell’obbligazione, è una dichiarazione unilaterale, che
al più può seguire lo schema negoziale della proposta ex art. 1333 c.c.; tuttavia, in questo caso, la
lettera di patronage non conteneva neanche una proposta, così da doversi escludere pure
l’applicabilità dell’art. 1333 c.c.
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Pertanto, Max non sarà tenuto a restituire il dovuto a Delta in luogo di Mix.
Si poteva aggiungere che, a tutto concedere, potrebbe restare spazio applicativo per la tutela
risarcitoria, affermando che Max ha violato i canoni di buona fede durante le trattative sviluppatesi
tra Delta e Mix, ex artt. 1337-1338 c.c.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
Il rapporto di patronage di risultato non soggiace alla disciplina desumibile per analogia dalla
figura tipica della fideiussione, stante l'assoluta diversità oggettiva e funzionale delle diverse
garanzie utilizzate.
Cass. civ. Sez. III, Sent., 25-09-2012, n. 16259
Svolgimento del processo
1. Con citazione del 22 settembre 1999 la banca Unicredito Italiano spa conveniva dinanzi al
Tribunale di Ferrara la società cooperativa COPMA di Ferrara s.r.l. e ne chiedeva la condanna al
pagamento della somma di L. 334.090.260 oltre interessi ed accessori dal 1 settembre 1999.
Deduceva la Banca di essere creditrice nei confronti della società cooperativa a r.l. TEMAPLAST per
la somma di L. 263.486.964 in relazione ad uno scoperto di conto corrente e della somma di L.
70.602.298 in relazione ad uno scoperto di conto anticipi salvo buon fine. La Banca in data 8 aprile
1999 aveva revocato i crediti messi a disposizione della Temaplast che era stata dichiarata fallita nel
maggio 1999. Sosteneva la Banca che la COPMA con lettera di patronage scritta in data 8 agosto
1998 aveva garantito alla Banca quanto segue: "formuliamo la presente per comunicarvi che la
scrivente è impegnata a sviluppare il piano di risanamento economico e di sviluppo produttivo della
società cooperativa Temaplast indicata in oggetto. A tale scopo la società PARFIN a.r.l. di cui la
scrivente è socio unico, ha sottoscritto e versato, in qualità di socio sovventore, la somma di un
miliardo di lire a capitale sociale.
Pertanto vi assicuriamo che ogni rapporto che andrete a tenere con la succitata Temaplast sarà
costantemente improntato sulla base della massima correttezza e faremo in modo che la stessa possa
regolarmente adempiere gli impegni assunti nei vostri confronti".
2. La società COPMA si costituiva chiarendo di essere controllante della PARFIN e che questa
ultima era uno dei quattro soci sovventori della Temaplast, sosteneva che la Parfin non aveva il
controllo della Pemaplast e che la lettera del 8 agosto 1998 era una semplice promessa unilaterale
atipica e non vincolante. Chiedeva pertanto il rigetto delle domande, eccependo: a. il difetto di
legittimazione della Banca; b. la decadenza della facoltà di agire ai sensi dello art. 1957 c.c.; c. in via
gradata chiedeva l'annullamento della promessa in quanto viziata da errore essenziale.
In sede di precisazione delle conclusioni la convenuta deduceva prova per testi come dedotta in
comparsa di risposta e nelle note istruttorie.
3. Il Tribunale di Ferrara, con sentenza depositata il 21 marzo 2002, respingeva la domanda proposta
dalla Banca e compensava le spese tra le parti. Il tribunale accertava che la lettera in questione era
una semplice interposizione di buoni uffici, priva di effetti giuridici per la promettente.
3. Avverso la sentenza proponevano appello la Unicredit Banca spa, nonchè quale successore
particolare ai sensi dell'art. 111 c.p.c., Unicredit Banca di impresa spa, chiedendo la riforma della
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sentenza e lo accertamento della validità della garanzia inclusa nella lettera di patronage. La COPMA
resisteva deducendo appello incidentale in punto di compensazione delle spese, ed insisteva nelle
eccezioni dedotte in primo grado e preliminarmente deduceva la inammissibilità dello appello. In via
istruttoria insisteva nella ammissione della prova testimoniale.
4. La Corte di appello di Bologna con sentenza depositata il 13 febbraio 2006, in totale riforma della
sentenza impugnata "dichiara tenuta e condanna la Copma al pagamento in favore delle Banche
appellanti in solido e per il titolo di cui è causa, della somma di Euro 163.468,43 oltre interessi nella
misura legale dal 26 maggio 1999 al saldo". La Corte condannava la garante al pagamento delle
spese processuali dei due gradi.
La motivazione della Corte, che viene in analisi esaminando i motivi del ricorso, si sostanzia nel
riconoscimento del carattere vincolante della garanzia prestata con la lettera di patronage, intesa
come obbligazione di risultato, sia pure a contenuto variabile, con ogni conseguenza ai fini della
liberazione del patronnant nel risarcimento dei danni da inadempimento, ai sensi dello art. 1218 c.c.,
dovendo lo stesso fornire la prova che lo inadempimento non è stato determinato da impossibilità
della prestazione derivante da causa a lui non imputabile:" 5. Contro la decisione ricorre la COPMA
deducendo sette motivi di ricorso illustrati da memoria, resistono le Banche con controricorso e
memoria.
Successivamente al controricorso, notificato dalle Banche alla COPMA il 3 aprile 2007, la Unicredit
Management Banck spa con sede in Verona ha depositato una comparsa di costituzione con nuovo
difensore, con procura speciale in foglio separato, sottoscritta dal quadro direttivo della società come
sopraindicata dr. B. ed autenticata dal difensore avv.to Ugo De Nunzio.
Il documento peraltro è privo della data del deposito dello atto, e reca la data di redazione al 30
maggio 2012. Cfr. art. 369 n. 3 c.p.c. in relazione allo art. 83 c.p.c., e vedi Cass. 28 AGOSTO 2007
N.18187.
Motivi della decisione
6. Preliminarmente deve ritenersi inammissibile la costituzione della Unicredit Management spa,
essendo la procura rilasciata in foglio separato e spillato agli atti della comparsa di costituzione ed
essendo l'atto di procura privo di data, onde non è possibile il controllo del rilascio anteriore o
contestuale all'atto, onde il conferimento non risulta conforme ai precetti di cui all'art. 83 c.p.c..
Restano peraltro ferme le parti processuali che rappresentano UNICREDIT in sede di controricorso,
per le ragioni appresso precisate.
7. Il ricorso della soc. COPMA non merita accoglimento. Per chiarezza espositiva se ne offre
dapprima una sintesi descrittiva dei motivi ed a seguire la confutazione in diritto.
7.1.SINTESI DEI MOTIVI. Nel PRIMO MOTIVO si deduce "violazione e falsa applicazione
dell'art. 111 c.p.c., e art. 2967 c.c., nullità del procedimento in relazione allo art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.
Il quesito a ff.17 è in termini: "se colui che si dichiara successore a titolo particolare del diritto
controverso e in tale veste impugna la sentenza resa inter alios debba dimostrare con documentazione
completa ed univoca la qualità e se avendo la controparte contestato la idoneità di tale
documentazione, se sia tenuto a dimostrare la legittimazione ad impugnare, ed il giudice debba
motivare la ragione per cui ritiene invece tale documentazione completa".
Nel SECONDO MOTIVO si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1333, 1176, 1218,
1362 ss., 1337, 1338, 1381, 1936 ss, 1987 e 2043 c.c., e art. 2967 c.c., L. n. 59 del 1992, art. 4,
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commi 2 e 3, in relazione allo art. 360 c.c., n. 3; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione e
vizio logico in relazione allo art. 360 c.p.c., n. 5. QUESITO a ff 35 nei seguenti termini: "Se la
dichiarazione rilasciata dal socio di minoranza esuli dal campo degli obblighi giuridicamente
rilevanti; dica inoltre la Corte se la obbligazione del patronnant sia di mezzi, con conseguente onere
del creditore di provare la mancanza di diligenza del patronnant, ovvero di risultato e, in questo
ultimo caso, se il patronnant, che dimostri di avere agito in buona fede e correttezza e provi di aver
fatto tutto il possibile affinchè il patrocinato adempisse agli impegni assunti verso il creditore, possa
essere esente da responsabilità:" Nel TERZO MOTIVO si deduce violazione e falsa applicazione
degli artt. 1176 e 1218 c.c., art. 2697 c.c., comma 2, e vizio della motivazione omessa, insufficiente e
contraddittoria per vizio logico.
Quesiti a ff.44:
a. se gli artt. 1218 e 2697 debbano essere interpretati nel senso che il giudice deve consentire al
debitore la prova liberatoria e se debba prova liberatoria consista nella dimostrazione dello specifico
inadempimento che ha reso impossibile la prestazione, ovvero nella dimostrazione di avere
pienamente soddisfatto lo impegno di diligenza e di cooperazione richiesto secondo il tipo del
rapporto obbligatorio per la realizzazione dello interesse del creditore;
b. se l'art. 2697 c.c., comma 2, debba essere interpretato nel senso che il giudice deve consentire alla
parte di provare i fatti su cui si fonda la eccezione.
Nel QUARTO MOTIVO si deduce error in iudicando per violazione degli artt. 1936, 1937 e 1938
c.c., e vizio logico della motivazione per contraddittorietà, sul rilievo che la norma dello art. 1939
c.c., si applichi anche alle lettere di patronage.
Quesito in termini perentori a ff 46.
Nel QUINTO MOTIVO si deduce error iniudicando per violazione degli artt.1175 e 1957 c.c. e vizio
della motivazione su punto decisivo.
Quesito a ff.50: "se gli artt. 1175 e 1957 c.c., debbano essere applicati anche alla lettera di patronage,
con conseguente decadenza del creditore dalla azione nei confronti del patronnant nella ipotesi in cui
non eserciti il diritto di credito entro sei mesi dalla scadenza della sua obbligazione.
Nel SESTO MOTIVO si deduce error in procedendo e nullità della sentenza per la extra o
ultrapetizione nel punto in cui la sentenza condanna la COMPA al pagamento in favore degli
appellanti in solido, per il titolo per cui è causa, della somma etc.... sul rilievo che le appellanti sono
soggetti diversi dalla originaria parte processuale del giudizio di primo grado. QUESITO a pag 52.
Nel SETTIMO MOTIVO si deduce error in iudicando per violazione e falsa applicazione degli artt.
1428, 1429 e 1431 c.c., ed il vizio della motivazione su punto decisivo, in relazione alla domanda
riconvenzionale di annullamento della lettera 8 agosto 1998 per errore essenziale sulla situazione
economica della Temaplast, domanda riproposta in secondo grado in via incidentale condizionata.
Quesito a ff 56 in termini "se nel valutare la riconoscibilità dello errore essenziale di una lettera di
patronage si debba considerare la qualità di operatore professionale della banca sia le specifiche
conoscenze che questa ultima aveva per il fatto che il patrocinato era suo cliente.
NELLA MEMORIA ILLUSTRATIVA si illustrano recenti arresti giurisprudenziali a sostegno delle
tesi e delle regulae iuris proposte.
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8. CONFUTAZIONE IN DIRITTO. Il primo motivo è inammissibile in quanto il quesito in diritto
manca di una chiara sintesi o premessa introduttiva e non contesta la chiara ratio decidendi espressa
dalla Corte di appello a gg 6 della motivazione, che afferma la legittimazione attiva dei due soggetti
Unicredit, dopo aver esaminato la documentazione allegata. Manca inoltre l'interesse alla deduzione
della nullità del procedimento, posto che il debitore conosce i soggetti creditori di riferimento, la cui
legittimazione è correttamente valutata dal giudice del riesame.
Il secondo motivo è inammissibile in relazione alla errata formulazione dei quesiti, che ipotizzano
alternative tra di loro inconciliabili: dapprima si sostiene che il socio di minoranza possa fare
promesse anche insensate e non obbligatorie; subito dopo si sostiene che essendo valide tali promesse
occorreva stabilire se queste erano di mezzi e di risultato, e in ordine a tale valutazione si propongono
regole di comportamento per il patronnant.
Sfugge al ricorrente la ampia e coerente motivazione data dalla Corte di appello a ff 8 e ss della parte
argomentativa e ricostruttiva del rapporto, come obbligazione di garanzia atipica con promessa di
risultato, sia pure a contenuto variabile,con ogni conseguenza ai fini della liberazione del patronnant
dal risarcimento dei danni da inadempimento, ai sensi dello art. 1218 c.c., dovendo lo stesso fornire
la prova che lo inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da
causa a lui non imputabile.
Tale sintesi descrittiva contrasta in pieno con le alternative come sopra proposte, e non risulta
correttamente censurata.
Il terzo motivo è infondato, in quanto censura proprio il punto della motivazione che applica al
rapporto di garanzia atipico, che per locuzione dottrinale si configura come patronage con
obbligazione di risultato, la unica disciplina possibile desunta del regime generali delle obbligazioni,
e cioè quella dello esatto adempimento in relazione alla natura della promessa formulata, da ritenersi
lecita e valida e non viziata, come si deduce, ma infondatamente, nel settimo motivo.
La chiara ratio decidendi evidenzia come nessuna prova della impossibilità dello inadempimento
risulta proposta o dedotta: la Temaplast Scarl è stata dichiarata fallita proprio in ragione dello stato di
insolvenza che la dichiarazione di patronage assicurava invece che non si sarebbe verificato.
INFONDATI risultano il quarto ed il quinto motivo, che pretendono di applicare al patronage di
risultato, la diversa disciplina desunta per analogia dalla figura tipica della fideiussione, attesa la
assoluta diversità oggettiva e funzionale delle diverse garanzia utilizzate, onde risulta arduo risalire,
in via dottrinaria o speculativa, ad una configurazione di principi generali che non siano quelli propri
del sistema delle obbligazioni considerato nella parte generale e sistematica del codice civile. Non
sussiste pertanto alcuna violazione delle norme sostanziali dedotte e la motivazione è congrua e
corretta in ordine allo accertamento della responsabilità.
INFONDATO il sesto motivo, in relazione alla legittimazione attiva delle Banche e dunque alla
statuizione solidale di condanna.
Infondato il settimo motivo, posto che dalla motivazione emerge a chiare lettere che nessun errore
essenziale appare nella lettera di patronage, che invece è lo strumento che induce la Banca ad una
erogazione del credito a rischio di no fault.
IN CONCLUSIONE, dichiarata la inammissibilità della ed comparsa di costituzione della Unicredit
Management spa, il ricorso della COPMA deve essere rigettato con la condanna alla rifusione delle
spese del giudizio di cassazione in favore delle Banche resistenti con unico atto,liquidate come in
dispositivo.
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P.Q.M.
DICHIARA INAMMISSIBILE la ed comparsa di costituzione per Unicredit Credit Management
Bank spa; rigetta il ricorso COPMA e la condanna a rifondere alle Banche Unicredit come costituite,
le spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 5200,00 di cui Euro 200,00 per spese oltre
accessori e spese generali come per legge.
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3) Diritto a non nascere se non sano
Michela rimaneva incinta di Michelino.
Michela si recava spesso presso l’ospedale Alfa per farsi controllare l’andamento della gravidanza,
accompagnata dal marito Michele, padre di Michelino.
Michela chiedeva espressamente al dott. Enrico, della struttura ospedaliera Alfa, di effettuare tutti i
controlli necessari ed utili per verificare che Michelino non fosse down; altresì, Michela rendeva
edotto Enrico del fatto che, nel caso in cui fosse probabile la nascita di un figlio down, avrebbe
preferito abortire, rischiando – diversamente – di cadere in una depressione mortale.
Enrico, colpevolmente, ometteva alcuni controlli.
Michelino nasceva ed era down.
Il candidato, premessi brevissimi cenni sul contratto atipico di spedalità e sul diritto a non nascere se
non sano, rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Michelino.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 3
Bisognava procedere con i brevissimi cenni indicati nella traccia, per poi procedere all’esame del
caso:
-il contratto atipico di spedalità è un negozio giuridico normalmente intercorrente tra struttura
ospedaliera (pubblica o privata) e paziente, composto da una prestazione tipica intellettuale (quella
del singolo medico o dell’equipe medica) unitamente a prestazioni latamente alberghiere (si pensi al
vitto ed alloggio, nel caso di ricovero); è ad effetti protettivi verso terzi, ex art. 1372 comma 2 c.c.,
1411 c.c., 2 Cost.;
-il diritto a non nascere se non sano riguarda il nascituro, ovvero il suo diritto a preferire di non
nascere, piuttosto che nascere malato; solitamente viene esclusa l’esistenza di tale diritto.
Nel caso in esame, Michelino ha strumenti di tutela?
Non esiste nel nostro ordinamento un diritto a non nascere se non sano, per cui Michelino non può
dolersi – a fini risarcitori – di essere nato malato, ipotizzando che avrebbe preferito non nascere; ciò
in quanto:
-il diritto a privilegiare la vita da malato (come appunto per Michelino) spetta, al più, alla madre che
è titolare esclusiva del c.d. diritto all’aborto, di cui alla legge 194/1978;
-neanche è predicabile per la madre Michela l’aborto eugenetico, perché anche il diritto all’aborto
necessita di allinearsi con gli altri criteri di legge (tempestività – entro novanta giorni – e rischio per
la salute, anche psichica, della gestante);
-l’ordinamento tutela la nascita e non la “non nascita”;
-accogliendo una ricostruzione contraria, si arriverebbe all’absurdum per cui il figlio potrebbe agire
contro la madre per il mancato esercizio dell’aborto, in contrasto con gli artt. 2-29 Cost. che
pretendono la solidarietà familiare.
Pertanto, se così è, allora Michelino non potrebbe pretendere il risarcimento danni da Alfa.
Tuttavia, si ritiene che Michelino possa esperire l’azione risarcitoria – per il tramite della madre
Michela – nei confronti di Alfa; ciò in quanto:
-Michelino è soggetto terzo protetto dal contratto atipico di spedalità, ex artt. 1411-3172 comma 2
c.c. ed art. 2 Cost.;
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-la lesione del diritto alla procreazione cosciente e responsabile ex art. 1 della L. 194/1978 a monte,
determina a valle la propagazione intersoggettiva di effetti negativi;
-il medico Enrico colpevolmente ha omesso alcuni controlli;
-il danno sussiste non nella nascita, ma nella vita da diversamente abile; in particolare il danno è
costituito dal “disagio esistenziale” che subisce Michelino nel fare ingresso in una famiglia che si
attendeva un figlio sano, ex artt. 2-3-29-30-32 Cost.
Pertanto, Michelino potrà vedersi risarcito tale danno tramite un’azione da inadempimento ex art.
1218 c.c., concretizzabile dalla madre Michela in sua rappresentanza.
Il danno potrà essere quantificato in via equitativa ex art. 1226 c.c.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
La responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita
indesiderata va estesa, oltre che nei confronti di entrambi i genitori anche ai fratelli del neonato, che
rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante,
nei cui confronti la prestazione è dovuta, nonché al figlio nato malformato. La situazione soggettiva
tutelata è il diritto alla salute, non quello a nascere sano.
Cassazione civile, sez. III, sentenza del 2.10.2012, n. 16754
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Nel febbraio del 1999 M. B. O. e M. O., in proprio e nella qualità di genitori esercenti potestà
sulle figlie minori G., L. e M., convennero in giudizio dinanzi al tribunale di Treviso il ginecologo P.
D. e la USSL 8 di X., esponendo:
• Che la signora B., appena consapevole del proprio stato di gravidanza, si era rivolta al dott. D.
chiedendo di essere sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere malformazioni del feto;
• Che la nascita di un bimbo sano era stata rappresentata al sanitario come condizione imprescindibile
per la prosecuzione della gravidanza;
• Che il dott. D. aveva proposto e fatto eseguire alla gestante il solo “Tritest”, omettendo di
prescrivere accertamenti più specifici al fine di escludere alterazioni cromosomiche del feto;
• Che nel settembre del 1996 era nata la piccola M., affetta da sindrome di Dawn.
Il ginecologo, nel costituirsi, contestò analiticamente tutti gli addebiti, chiedendo nel contempo
l’autorizzazione alla chiamata in causa della propria compagnia assicuratrice.
Si costituì in giudizio anche l’azienda sanitaria, lamentando, in rito, la nullità del libello introduttivo
attoreo (per mancata specificazione delle ragioni di fatto e di diritto sui quali era fondata la domanda
risarcitoria) e la carenza di legittimazione attiva delle minore, eccependo poi, nel merito, il regime cd. in extra moenia - nel quale il medico aveva, da libero professionista, assistito l’attrice. L’azienda
contestò, ancora nel merito, la stessa fondatezza della pretesa risarcitoria, per resistere alla quale
chiese anch’essa il differimento della prima udienza, onde chiamare in causa le proprie compagnie
assicurative succedutesi nel rapporto di garanzia durante l’anno 1996.
L’Assitalia (compagnia assicuratrice del dott. D.), nel costituirsi, aderì in toto alle difese del proprio
assicurato.
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Le Assicurazioni Generali (originaria assicuratrice della USL) eccepì, all’atto della costituzione in
giudizio, la cessazione degli effetti della polizza stipulata con la struttura sanitaria nel 30 giugno
1996; declinò ogni responsabilità vicaria per i fatti successivi a tale data; fece proprie, nel merito, le
difese della propria garantita - salva richiesta, in caso di condanna del sanitario, di essere da questi
rimborsata di quanto eventualmente tenuta a corrispondere agli attori.
La RAS (succeduta alle Generali nel rapporto assicurativo con l’unità sanitaria) eccepì, in limine, la
non operatività della polizza, per essere la vicenda di danno lamentata dagli attori riferibile ad
un’epoca anteriore alla data del suo subingresso alla precedente compagnia, contestando poi nel
merito le pretese risarcitorie nell’an, nel quantum, nel quivis.
Il giudice di primo grado, previa declaratoria di difetto di legittimazione attiva della minore M. O.,
respinse la domanda dei genitori e dei fratelli.
2.- La corte di appello di Venezia, investita del gravame proposto dagli attori in prime cure, lo
rigettò:
- sul punto del ritenuto difetto di legittimazione attiva di M. O., facendo propri alcuni passi della
motivazione della sentenza 14888/2004 con la quale questa Corte di legittimità aveva respinto una
analoga richiesta, affermando il principio di diritto a mente del quale verificatasi la nascita, non può
dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto
da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto di informazione, messa in
condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto;
- con riferimento alla pretesa risarcitoria dei familiari, fondata sul preteso inadempimento
contrattuale del sanitario, ritenendo quest’ultimo del tutto esente da colpa.
Nel rigettare la detta pretesa, la corte lagunare osserverà, in particolare:
- che, nella specie, la sola indicazione del cd. “tritest” quale indagine diagnostica funzionale
all’accertamento di eventuali anomalie fetali doveva ritenersi del tutto giustificata, alla luce dell’età
della signora B. (al tempo dei fatti soltanto ventottenne) e dell’assenza di familiarità con
malformazioni cromosomiche, onde l’esecuzione di un test più invasivo come l’amniocentesi (che la
partoriente conosceva “per sentito dire”) avrebbe potuto essere giustificata soltanto da una esplicita
richiesta, all’esito di un approfondito colloquio con il medico sui limiti e vantaggi dei test diagnostici,
mentre non risultava né provato né allegata la richiesta di sottoposizione a tale esame;
- che l’accertamento di una malformazione fetale “non è di per sé sufficiente a legittimare
un’interruzione di gravidanza”, posto che, nella specie, tale interruzione sarebbe stata praticata nel
secondo trimestre, mentre la sussistenza dei relativi presupposti di legge, ex art. 6 della legge n.
194/1978 non era neppure stata adombrata dagli attori, onde nessuna prova poteva dirsi
legittimamente acquisita al processo in ordine alla esposizione della donna a grave pericolo per sua la
vita o per la sua salute fisica o psichica in caso di prosecuzione della gravidanza nella
consapevolezza della malformazione cromosomica del feto;
- che lo “spostamento” della quaestio iuris sul versante della carenza di informazione, operato in sede
di appello, doveva ritenersi del tutto estraneo e diverso rispetto alla fattispecie sì come
originariamente rappresentata in funzione risarcitoria: non era stata, difatti, censurata, con il libello
introduttivo, la privazione del diritto di scelta della puerpera a causa di esami fatti male o non fatti,
bensì l’inadempimento della prestazione sanitaria richiesta dalla signora B. al dott. D..
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3.- La sentenza è stata impugnata da tutti i componenti della famiglia O. con ricorso per cassazione
articolato in sei motivi.
Resistono con controricorso P. D., le Assicurazioni Generali, l’Ina Assitalia, L’Allianz, l’Azienda
sanitaria USSL 8 di Y..
Le parti ricorrenti e le resistenti Assitalia e Allianz, hanno depositato memorie illustrative.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Devono essere in limine esaminate le due preliminari questioni processuali poste al collegio dalla
difesa della controricorrente USSL 8.
Entrambe appaiono prive di pregio.
- Quanto alla erronea spendita della veste di rappresentanti legali delle due figlie - divenute nelle
more maggiorenni - da parte dei genitori (circostanza che, in sé considerata, renderebbe il ricorso
inammissibile, secondo quanto opinato da Cass. ss.uu. 15783/2005), va rilevato come, al di là ed
prescindere da tale, erronea qualificazione a loro stessi ascritta da parte dei coniugi B./O., tanto L.
quanto G. B. hanno personalmente sottoscritto la procura speciale apposta in calce al ricorso per
cassazione, onde la impropria indicazione di una (ormai spirata) rappresentanza legale dei genitori si
risolve, ai fini della regolare costituzione in giudizio, in un irrilevante flatus vocis, atteso che il nome
delle ricorrenti viene legittimamente indicato e speso in proprio dal difensore altrettanto
legittimamente fornito di procura alle liti;
- Quanto alla pretesa carenza di poteri rappresentativi in appello degli stessi coniugi O. riguardo alla
figlia L., la vicenda deve ritenersi coperta da giudicato implicito ai sensi del disposto dell’art. 346
c.p.c.: la corte territoriale, difatti, dopo aver affrontato la questione della legittimazione attiva escludendola - di M. O. (ff. 9 ss. della sentenza impugnata), rigetterà l’appello nel merito, senza
affrontare il tema (pur rilevabile ex officio, essendo stato sollevato, a torto o a ragione, una questione
di legitimatio ad causam e non di mera titolarità del rapporto sostanziale) della rappresentanza dei
genitori con riferimento alla posizione processuale di L. O. - la cui domanda verrà conseguentemente
rigettata per motivi di merito (il cui esame presuppone positivamente superata il vaglio delle
questioni pregiudiziali e/o preliminari di rito da parte del giudice procedente). Sarebbe stato pertanto
necessario proporre, da parte degli interessati, un ricorso incidentale avente ad oggetto il relativo
capo implicito della sentenza; impugnazione nella specie non proposta, senza che la relativa
eccezione contenuta nel controricorso possa ritenersi “convertita” in censura incidentale per l’assenza
dell’essenziale requisito dell’istanza di riforma della sentenza di secondo grado impugnata.
Non merita, infine, accoglimento l’eccezione, sollevata da più d’una della parti controcorrenti, di
inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. nella formulazione anteriore alla
novella del 2009, atteso che la sentenza impugnata risulta depositata il 2 novembre 2010 (epoca
successiva all’abrogazione della norma sui quesiti di diritto, pertanto inapplicabile nella specie
ratione temporis), mentre la doglianza di difetto autosufficienza del ricorso appare contraddetta ictu
oculi dalla semplice lettura dell’odierna impugnazione (cui, piuttosto, potrebbero al più muoversi
censure – peraltro irrilevanti sul piano giuridico - di segno contrario).
2.- Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 345 e 346 c.p.c. Vizio logico di motivazione.
Il motivo è fondato.
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Risulta espresso e non equivoco, nel corpo dell’atto di citazione di primo grado (che i ricorrenti
riportano, per quanto rilevante in parte qua, al folio 15 dell’odierno atto di impugnazione), il
riferimento “alla valutazione sul livello di consenso informato che il referto relativo al tritest
determina, non essendovi alcun modo per una paziente incolta di medicina di riuscire a comprendere
la relativa finalità, e che ad esso non era possibile affidarsi con certezza per sapere se vi fossero o non
vi fossero le paventate anomalie”; onde il successivo atto di appello del tutto legittimamente
denuncerà (a fronte di una sentenza di primo grado che inesattamente imputa all’attrice “di non aver
dimostrato di avere espressamente richiesto l’effettuazione di accertamenti invasivi diversi”) la
mancata informazione, da parte dei competenti sanitari, circa la complessiva attendibilità del test
prescelto a dispetto della precisa richiesta della gestante di venir resa partecipe di eventuali malattie
genetiche del feto e della altrettanto espressa intenzione, in tal caso, di non portare a termine la
gravidanza.
A tanto consegue la impredicabilità di qualsivoglia “spostamento del thema decidendum dal primo al
secondo grado” erroneamente rilevato dalla corte di appello, la cui pronuncia deve, sul punto, essere
cassata.
3.- Con il secondo motivo, si denuncia:
a) violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 1223 c.c. per mancato accertamento
dell’inadempimento contrattuale rispetto alla richiesta di diagnosi e al dovere di fornirla e di dare
corretta informazione circa l’inidoneità degli esami previsti in funzione della diagnosi richiesta;
mancata motivazione sul punto;
b) violazione dell’art. 32 comma 1 e 2 Cost.
c) violazione dell’art. 2697 c.c. in ordine al riparto degli oneri probatori relativi al’adempimento del
dovere di informazione preventiva circa i limiti oggettivi di affidabilità delle metodiche alternative
alla diagnosi suggerite
Il motivo è fondato.
Risulta provato (anche all’esito della mancata contestazione, sul punto, da parte del medico oggi
resistente, non potendosi ritenere tale la generica affermazione di stile, contenuta nell’atto di
costituzione in giudizio del dott. D., volta alla “contestazione analitica di tutti gli assunti di parte
attrice”) che la gestante avesse espressamente richiesto un accertamento medico-diagnostico per esser
resa partecipe delle eventuali malformazioni genetiche del feto, così da poter interrompere la
gravidanza.
Oggetto del rapporto professionale medico-paziente doveva, pertanto, ritenersi, nella specie, non un
accertamento “qual che esso fosse”, compiuto all’esito di una incondizionata e incomunicata
discrezionalità da parte del sanitario, bensì un accertamento doppiamente funzionale alla diagnosi di
malformazioni fetali e (condizionatamente al suo risultato positivo) all’esercizio del diritto di aborto.
Ne consegue la non conformità a diritto della motivazione del giudice territoriale nella parte in cui
ritiene (folio 15 della sentenza impugnata) “non provato e neppure allegato che la signora B. avesse
chiesto di essere sottoposto a tale esame” (l’amniocentesi), motivazione che illegittimamente
capovolge il riparto degli oneri probatori tra le parti del processo:
- onere della paziente sarebbe stato, difatti, quello di provare la richiesta della diagnosi di
malformazioni funzionale all’esercizio del diritto di interruzione della gravidanza in caso di esito
positivo;
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- onere del medico, di converso, risultava quello di provvedere ad una completa informazione circa le
possibilità (tutte le possibilità) di indagini diagnostiche, più o meno invasive, più o meno rischiose, e
circa le percentuali di falsa negatività offerte dal test prescelto (test in ipotesi da suggerire, ma non
certo da eseguire sic et simpliciter, in guisa di scelta sostitutiva e di assunzione del rischio parimenti
sostitutivo), onde consentire alla gestante una decisione il più aderente possibile alla realtà della sua
gestazione.
Ne consegue una responsabilità del medico predicabile non soltanto per la circostanza dell’omessa
diagnosi in sé considerata (ciò che caratterizzerebbe il risarcimento per un inammissibile profilo
sanzionatorio/punitivo, in patente contrasto con la funzione propria della responsabilità civile), ma
per la violazione del diritto di autodeterminazione della donna nella prospettiva dell’insorgere, sul
piano della causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica.
Deve pertanto ritenersi configurabile, nella specie, l’inadempimento alla richiesta di diagnosi sì come
funzionale all’interruzione di gravidanza in caso di positivo accertamento di malformazioni fetali (in
senso non dissimile, sia pur con riferimento a diversa fattispecie, di recente, Cass. 15386/2011), alla
luce dell’ulteriore considerazione costituita dalla (incontestata) circostanza dell’altissimo margine di
errore che il test selezionato dal ginecologo offriva nella specie (margine pari al 40% dei cd. “falsi
negativi”), onde il suo carattere, più che di vero e proprio esame diagnostico, di screening del tutto
generico quanto alle probabilità di malformazione fetale.
4.- Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. con riferimento
alla presunzione di volontà di esercizio del diritto di interruzione di gravidanza da parte di donna
risultata portatrice di patologia permanente dopo il parto della scoperta malformazione fetale.
Il motivo è fondato.
Non risulta conforme a diritto, difatti, la motivazione della corte lagunare nella parte in cui (folio 16
della sentenza impugnata) si opina “non esservi prova alcuna che, anche se a conoscenza della
malformazione cromosomica del feto, la signora B. avrebbe potuto interrompere la gravidanza”. E
ciò perché, prosegue il giudice lagunare, “non vi è alcun elemento dal quale desumere – ovviamente
con giudizio ex ante – che la prosecuzione della gravidanza avrebbe esposto la signora a grave
pericolo di vita o grave pericolo per la sua salute fisica o psichica”.
A prescindere dalla considerazione per la quale tale affermazione si pone in contrasto con un
principio già affermato in passato, anche di recente (sia pur con le precisazioni operate da Cass.
22837/2010, come rileva al folio 23 del controricorso la resistente Generali), da questa corte
regolatrice – per tutte, Cass. 6735/2002, Pres. Carbone, Rel. Vittoria (risulta erronea la citazione,
contenuta al folio 21 del ricorso, della pronuncia 6365/2004, avente diverso oggetto) a mente dei
quali in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e
conseguente nascita indesiderata, l'inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna
di compiere la scelta di interrompere la gravidanza. Infatti la legge, in presenza di determinati
presupposti, consente alla donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio
deriverebbe al proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità causale che la gestante
interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto, principi la cui portata verrà
esaminata ed approfondita dal collegio nel corso dell’esame del quinto motivo di ricorso, è qui
sufficiente osservare come, nel caso di specie, a fronte di una precisa istanza diagnostica della
signora B. espressamente funzionale ad una eventuale interruzione della gravidanza, appare di
converso ricorrere l’opposta presunzione - ovviamente predicabile ex ante sul piano della causalità
ipotetica ex lege 194/78 - di una patologia materna destinata ad insorgere a seguito della scoperta
della paventata malformazione fetale (patologia poi puntualmente insorta sotto forma di danno
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biologico psichico, come accertato in sede di consulenza medico-legale, ad indiretta conferma - sia
pur ex post e sia pur con carattere non dirimente ai fini del giudizio prognostico - della esattezza della
presunzione de qua).
5.- Con il quarto motivo, si denuncia:
a) violazione e falsa applicazione dei limiti soggettivi di legittimazione attiva all’azione di
risarcimento danni ex art. 1218 e 2043 c.c. conseguenti all’inadempimento di obbligazione
assistenziale verso una gestante.
b) Violazione dell’art. 1 c.c. e della legge 194/78 che attribuiscono la titolarità di diritti al feto solo al
momento della nascita. Revisione critica della giurisprudenza in materia anche alla luce degli
orientamenti espressi dalla Corte Suprema con la sentenza n. 10741/2009.
c) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. con riferimento alla
mancata pronuncia in ordine alla legittimazione attiva degli attori diversi dalla signora B. e di M. O.
La doglianza deve essere accolta.
Rinviando all’esame del quinto motivo la questione della cd. “legittimazione attiva” di M. O., va in
questa sede affermato il principio di diritto secondo il quale la responsabilità sanitaria per omessa
diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti
della madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato),
anche al padre (come già affermato da Cass. n. 14488/2004 e prima ancora da Cass. 6735/2002),
nonché, a giudizio del collegio, alla stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del
riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del
neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la
gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta.
L’indagine sulla platea dei soggetti aventi diritto al risarcimento, difatti, già da tempo operata dalla
giurisprudenza di questa Corte con riferimento al padre (di recente, ancora, da Cass. n. 2354/2010),
non può non essere estesa, per le stesse motivazioni predicative della legittimazione dell’altro
genitore, anche ai fratelli e alle sorelle del neonato, dei quali non può non presumersi l’attitudine a
subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere dagli eventuali risvolti e delle inevitabili
esigenze assistenziali destinate ad insorgere, secondo l’id quod plerumque accidit, alla morte dei
genitori. Danno intanto consistente, tra l’altro (come meglio si avrà modo di specificare di qui a
breve, esaminando la posizione di M. O.) nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro
confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap,
nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi
costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono invece non sempre
compatibili con lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno
fortunato; consci - entrambi i genitori - che il vivere una vita malformata è di per sé una condizione
esistenziale di potenziale sofferenza, pur senza che questo incida affatto sull’orizzonte di
incondizionata accoglienza dovuta ad ogni essere umano che si affaccia alla vita qual che sia la
concreta situazione in cui si trova - principio cardine non di una sola, specifica morale, ma di una
stessa ed universale Etica (e bioetica) della persona, caratterizzata dalla insostituibile centralità della
coscienza individuale.
6.- Con il quinto motivo, si denuncia violazione degli artt. 1218, 2043 1223 2056 c.c. con
riferimento:
• Alla dannosità dell’handicap congenito per il bambino nato
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• Al diritto del medesimo al risarcimento
• Al rilievo causale dell’inadempimento dell’obbligo di diagnosi precoce nei confronti della madre.
Il motivo è fondato.
Viene posto al collegio il delicato problema della titolarità di un diritto al risarcimento del danno in
capo al minore handicappato, nato - a seguito della omessa rilevazione, da parte del sanitario, della
malformazione genetica - da una madre che, contestualmente alla richiesta dell’esame diagnostico,
abbia manifestato la volontà di non portare a termine la gravidanza nell’ipotesi di risultato positivo
del test.
La questione chiama l’interprete, fin dai tempi del diritto romano classico, ad una complessa indagine
sulla natura giuridica (e sulle sorti) dei diritti riconosciuti a colui qui in utero est (Dig., 1.5.7.).
Essa oscilla, nella sua più intima sostanza, tra semplicistiche trasposizioni della abusata fictio
romanistica che rimanda al conceptus come soggetto pro iam nato (habetur) quotiens de eius
commodis agatur (aforisma storicamente confinato, peraltro, nell’orbita dell’acquisto di diritti
patrimoniali condizionati all’evento nascita), e contrastate adesioni alla sua rappresentazione sicut
mulier portio vel viscerum (espressiva della teoria cd. pro choice, cara a tanta parte della
giurisprudenza nordamericana in termini di diritto soggettivo assoluto della donna a decidere della
sorte del concepimento e del concepito).
La questione induce, in limine, ad indagare sulla qualità da attribuire al concepito nella sua
dimensione rigorosamente giuridica, attraverso un’analisi scevra da facili quanto inevitabili
suggestioni di tipo etico o filosofico, onde predicarne la natura di soggetto di diritto ovvero, del tutto
specularmente, di oggetto di tutela sino al momento della sua nascita.
Non è questa la sede per ripercorrere funditus, in via interpretativa, le tappe di un complesso
itinerario di pensiero segnato da norme ordinarie e costituzionali non meno che da (reali o presunte)
“clausole generali” - quali quella della centralità della persona -, itinerario funzionale a scelte di
teoria generale dell’ermeneutica tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi di cui
è compiuta e approfondita traccia (sia pur non del tutto condivisibile tanto nelle premesse
metodologiche quanto nelle conseguenti conclusioni) nella sentenza di questa stessa sezione n.
10741/2009.
Ma da tale itinerario il collegio non può, d’altro canto, del tutto prescindere, proprio al fine di
condurre a non insoddisfacente soluzione giuridica la questione di cui in premessa, ripercorrendone,
sia pur brevemente, le tappe essenziali, attesi gli espliciti riferimenti operati dalle parti dell’attuale
procedimento proprio alla sentenza n. 10741/2009.
L’analisi delle affermazioni contenute in quella pronuncia deve, peraltro, essere preceduta dall’esame
dei principi di diritto contenuti nella sentenza n. 14488/2004 di questa sezione, predicativa, come è
noto:
- della irrisarcibilità del danno da nascita malformata lamentato in proprio dal neonato;
- della speculare limitazione di tale diritto a due soli soggetti, rappresentati dalla madre e dal padre
del bambino malformato.
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6.1.-. Nella vicenda di cui questa Corte ebbe ad occuparsi nel 2004, genitori affetti da talassemia non
vennero informati dal medico, durante la gravidanza, del rischio che anche la nascitura potesse
risultarne contagiata, e perciò convennero in giudizio il professionista chiedendone la condanna al
risarcimento del danno patito sia da loro che dalla figlia nata talassemica.
Il giudice di merito riconobbe e liquidò il risarcimento dei danno subiti da entrambi i genitori per
l'omissione del medico, che aveva così precluso un'eventuale interruzione della gravidanza, negando
peraltro il medesimo diritto alla neonata, la cui malattia venne ritenuta non evitabile né rimediabile.
La corte di legittimità, sollecitata alla rivisitazione di tale dictum, confermerà nell’an quella
pronuncia, argomentando diffusamente su questioni la cui delicatezza trascende non poco il compito
dell’interprete, inducendolo a riflettere (come è stato suggestivamente osservato in dottrina) sul
“miserabile ruolo del diritto” che, nel riconsiderare tanto gli spazi concessi alla giurisprudenza
quanto quelli di esclusiva pertinenza del legislatore, affronta in questi ultimi anni, con i soli strumenti
suoi propri e perciò solo del tutto inadeguati, l’inedita dimensione della responsabilità sanitaria del
ventunesimo secolo nei suoi aspetti più problematici, quando cioè essa oscilla tra la vita (non voluta)
e la morte (voluta, per espressa dichiarazione o per silenziosa presunzione).
L’iter motivazionale della Cass. n. 14488/2004 è scandito dai seguenti passaggi argomentativi:
a) nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute della donna e il valore (e la tutela) del
concepito, l’ordinamento consente alla madre di autodeterminarsi, ricorrendone le condizioni
richieste ex lege, a richiedere l'interruzione della gravidanza. La sola esistenza di malformazioni del
feto che non incidano sulla salute o sulla vita della donna non permettono alla gestante di praticare
l'aborto: il nostro ordinamento non ammette, dunque, l'aborto eugenetico e non riconosce né alla
gestante né al nascituro, una volta nato, il diritto al risarcimento dei danni per il mancato esercizio di
tale diritto (della madre);
b) la legge n. 194 del 1978 consente invece alla gestante d'interrompere la gravidanza solo quando
dalla prosecuzione della gestazione possa derivare, anche in previsione di anomalie o malformazioni
del concepito, un reale pericolo per la sua salute fisica o psichica, ovvero per la sua vita;
c) prevale, in seno agli ordinamenti stranieri, la tendenza a rigettare la domanda proposta in proprio
dal nato malformato e ad accogliere quella dei genitori relativamente ai danni patrimoniali e non
patrimoniali; peraltro, la Corte di Cassazione francese in assemblea plenaria, nel celebre arrét
Perruche del 27.11.2001, operando un revirement rispetto alla precedente giurisprudenza, affermò
che, "quando gli errori commessi da un medico e dal laboratorio in esecuzione del contratto concluso
con una donna incinta impedirono a quest'ultima di esercitare la propria scelta di interruzione della
gravidanza, al fine di evitare la nascita di un bambino handicappato, questi può domandare il
risarcimento del danno consistente nel proprio handicap, causato dai predetti errori". A tale pronuncia
fece immediato seguito l’intervento del legislatore (loi Kouchner 303/2002), che escluse qualsivoglia
pretesa risarcitoria dell'handicappato per il solo fatto della nascita “quando l'handicap non è stato
provocato, aggravato o evitato da errore medico”;
d) la tutela giuridica del nascituro, pure prevista dal nostro ordinamento, è peraltro regolata in
funzione del diritto del concepito a nascere (sano), mentre un eventuale diritto a non nascere sarebbe
un diritto adespota in quanto, a norma dell'art. 1 c.c., la capacità giuridica si acquista al momento
della nascita, ed i diritti che la legge riconosce a favore del concepito (artt. 462 687 715 c.c.) sono
subordinati all'evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita. Nella fattispecie, invece, il
diritto di non nascere, fino alla nascita, non avrebbe un soggetto titolare dello stesso, mentre con la
nascita sarebbe definitivamente scomparso;
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e) sotto altro profilo, ma nella stessa ottica, ipotizzare il diritto del concepito malformato di non
nascere significa concepire un diritto che, solo se viene violato, ha, per quanto in via postuma, un
titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per rispettare il suo
diritto di non nascere), non vi è mai un titolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai la
possibilità di esercitarlo (non esisterebbe un soggetto legittimato a farlo valere): non può farlo valere,
ovviamente, il concepito, ancora non nato; non potrebbe farlo valere, altrettanto ovviamente, il
medico; non potrebbe essere esercitato neppure dalla gestante. Il suo diritto all'aborto non ha, infatti,
una propria autonomia, per quanto relazionata all'esistenza o meno delle malformazioni fetali, come
invece nella legislazione francese, ma si pone in una fattispecie di tutela del diritto alla salute: il
diritto che ha la donna è solo quello di evitare un danno serio o grave, a seconda delle ipotesi
temporali, alla sua salute o alla sua vita. Per esercitare detto diritto, nel bilanciamento degli interessi,
l'ordinamento riconosce la possibilità alla donna di interrompere la gravidanza, ed è la necessità della
tutela della salute della madre che legittima la stessa alla (richiesta di) soppressione del feto
scriminandola da responsabilità (se l'interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli
artt. 4 e 6 l. n. 194/1978, accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8, costituisce reato anche per la
stessa gestante ex art. 19 stessa legge);
f) il nostro ordinamento positivo tutela il concepito - e quindi l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui, se di diritto vuol parlarsi, deve
parlarsi di diritto a nascere. Già la Corte Costituzionale, con la sent. 18.2.1975, n. 27, dichiarando
costituzionalmente illegittimo l'art. 546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza
potesse essere interrotta quando la sua prosecuzione implicava danno o pericolo grave, medicalmente
accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre, aveva precisato che anche la tutela del
concepito ha "fondamento costituzionale" nell'art. 31 comma 2° della Costituzione, che "impone
espressamente la protezione della maternità" e, più in generale, nell'art. 2, che "riconosce e garantisce
i diritti inviolabili dell'uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari
caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito". La successiva legge 22.5.1978, n.
194, significativamente intitolata "norme per la tutela sociale della maternità" oltre che
"sull'interruzione volontaria della gravidanza", proclama all'art. 1 che "lo Stato .... riconosce il valore
sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio"; inizio che, come si evince dal combinato
disposto con gli articoli successivi, va riferito al momento del concepimento (e non tanto, o non solo
allo scadere del novantesimo giorno dal concepimento, cui fa riferimento il successivo art. 4);
g) va poi osservato che, se esistesse detto diritto a non nascere se non sano, se ne dovrebbe ritenere
l'esistenza indipendentemente dal pericolo per la salute della madre derivante dalle malformazioni
fetali, e si porrebbe l'ulteriore problema, in assenza di normativa in tal senso, di quale sarebbe il
livello di handicap per legittimare l'esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto
livello è legittimante della non nascita. Infatti, anche se non vi fosse pericolo per la salute della
gestante, ogni qual volta vi fosse la previsione di malformazioni o anomalie del feto, la gestante, per
non ledere questo presunto diritto di "non nascere se non sani", avrebbe l'obbligo di richiedere
l'aborto, altrimenti si esporrebbe ad una responsabilità (almeno patrimoniale) nei confronti del
nascituro una volta nato. Quella che è una legge per la tutela sociale della maternità e che attribuisce
alla gestante un diritto personalissimo, in presenza di determinate circostanze, finirebbe per imporre
alla stessa l'obbligo dell'aborto (salvo l'alternativa di esporsi ad un'azione per responsabilità da parte
del nascituro).
Nei primi commenti alla sentenza, la dottrina non mancò di osservare come il riconoscimento di un
diritto al risarcimento accordato anche al padre - terzo rispetto al contratto intercorso tra il medico e
la gestante, e privo di qualsivoglia os ad eloquendum nella sua decisione d'interrompere la gravidanza
-, con riferimento agli "effetti protettivi" del contratto verso i terzi comunque esposti ai pregiudizi
conseguenti all'inadempimento del sanitario, indebolisse la soluzione del diniego dell'analoga pretesa
fatta valere dai genitori a nome della figlia nata, che a più forte ragione doveva ritenersi ricompresa
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nella cerchia dei suddetti terzi danneggiati. Lo stesso riferimento alla non-imputabilità dell’evento
(per via dell'inevitabilità della malformazione) all'omissione del medico venne sotto vari aspetti
sottoposta a critica, volta che tale riferimento non appariva poi idoneo ad escludere non solo
l'affermata responsabilità del medico verso la madre (in quanto) privata della possibilità di
autodeterminarsi nella prosecuzione della gravidanza, ma anche quella nei confronti del padre,
sebbene non legittimato in alcun modo ad interloquire sull'interruzione della gestazione (e ciò
nondimeno, "egualmente protetto dal contratto originario").
Per altro verso, l'argomento cardine utilizzato per negare il risarcimento richiesto (anche) dalla figlia
– costituito dalla conclamata inesistenza nel nostro ordinamento di un diritto a non nascere se non
sano, in quanto "posizione non meritevole di tutela" – venne definito “affermazione meramente
retorica - e quindi elusiva del grave problema posto a quel tempo al collegio, da riassumersi nel
quesito se una persona nata con una malformazione che ne segna la vita e di cui sicuramente non è
responsabile abbia o meno diritto a chiederne conto a qualcuno, considerato che il nostro
ordinamento, per un verso, favorisce, sì, la procreazione, ma in quanto "cosciente e responsabile", ex
art. 1 l. n. 194/1978, mentre, d’altro verso, tutela (come ribadisce la stessa sentenza) il diritto del
concepito a nascere sano. Né la mancata previsione legale di un diritto a non nascere venne ritenuto
argomento spendibile (“come avrebbe mai potuto l’ordinamento prevedere un simile diritto?”): se,
come è ovvio, ogni tutela giuridica deve essere, per necessità logica, riferita ad un soggetto esistente,
l'unica alternativa in ordine all'ammissibilità di una siffatta tutela non era tra non nascere o nascere
malato, bensì tra nascere sano o nascere malato.
Sotto altro profilo, perplessità vennero sollevate perché, nel discorrere di una pretesa assenza
dell'interesse protetto, la sentenza postulava una valutazione di "non ingiustizia" del danno estranea
all'ambito della responsabilità contrattuale, (lasciando così il fanciullo handicappato senza alcuna
tutela nei casi di abbandono, di cattiva amministrazione o di premorienza dei genitori). Si osservò,
significativamente, come la questione non consistesse nell'affermare o nel negare pretesi diritti di
nascere (o di non nascere, o di non "nascere handicappato") o di morire (o di non morire), né di
valutare quanto valga il "non-essere" rispetto all'"essere” (handicappato), posto che il vivere una vita
malformata è di per se una situazione esistenziale negativa, onde il danno ingiusto risarcibile provocato da un'azione comunque colpevole altrui – consisterebbe nell’obiettività del vivere male
indipendentemente dalle alternative a disposizione, espungendo dalla sfera del rilevante giuridico una
concezione del danno come paragone con la vita sana perché questa vita sana non ci sarebbe stata: a
seguito della nascita, si è sostenuto, “la questione non è più quella della sua venuta al mondo, ma
soltanto quella del suo handicap”.
Poco convincenti apparvero, infine, le ulteriori obiezioni che paventavano un potenziale quanto
“innaturale” diritto risarcitorio del minore esercitabile nei confronti della madre - che, correttamente
informata dal medico sui rischi della nascita, avesse liberamente deciso di generare un figlio invalido
- ovvero del padre contro la madre: danni in realtà irrisarcibili per l'assenza di una condotta colposa,
se il fatto di dare la vita, o la rinuncia, da parte della madre, a interrompere la gravidanza, non
possono mai essere considerati in termini di colpa né di ingiustizia del danno. L'atto della
procreazione è frutto di una scelta che spetta, giuridicamente, soltanto ai genitori; ma la donna è,
inevitabilmente, il solo legittimo destinatario del diritto a decidere se procedere o no all'interruzione
della gravidanza.
Ancor meno convincenti apparvero, agli occhi della più attenta dottrina, le osservazioni contenute in
sentenza circa la disciplina dell'interruzione della gravidanza allo scopo di individuare "il bene
giuridico protetto dalle norme che sanzionano l'aborto", considerato che annettere il risarcimento del
danno prenatale nei confronti del fanciullo nato handicappato al territorio della responsabilità
contrattuale indurrebbe ad opinare che “il bébé préjudice sia risarcibile nei riguardi del neonato quale
conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) dell'obbligazione
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d'informazione, senza che assuma rilievo la valutazione della condotta in termini di ingiustizia del
danno”. Onde il voler rifiutare di ammettere che un handicap sia, per l'andicappato medesimo, un
"danno" venne definito “un puro e semplice sofisma", se è non la "vita" dell'handicappato che si tratta
di assimilare a un danno, ma proprio il suo handicap.
Altro limite rilevato dalla dottrina con riguardo alla motivazione della sentenza ebbe riguardo a
quella che venne (del tutto condivisibilmente) ritenuta da più parti la questione giuridica essenziale,
quella, cioè, del rapporto di causalità. La sentenza, difatti, non affrontò specificamente il problema
del nesso eziologico (diversamente da quanto accaduto in Francia, dove sia la giurisprudenza del
Consiglio di Stato e delle Corti d'appello, sia gli autori che contestarono la decisione della Cassazione
sul caso Perruche motivarono la soluzione negativa sull'assenza del legame eziologico tra
l'inadempimento e il danno), mentre la questione del nesso di causalità per il danno patito dal
fanciullo handicappato - si disse -, lungi dal poter derivare da una analisi conseguente alla cd.
biologisation du droit , andava riguardata sotto un profilo rigorosamente giuridico, così come accade
ad esempio in caso di contagio da trasfusione, ove la causa “biologica” della malattia è certamente il
virus HIV o HCV, ma nessuno dubita che la responsabilità vada imputata, sulla base di un criterio di
causalità giuridicamente rilevante, a quel soggetto (pubblico o privato) che, con la sua colpevole
omissione, abbia provocato, reso possibile o non impedito il contagio.
6.2.- Con la sentenza n. 10741/2009, questa Corte di legittimità, nuovamente investita della questione
della risarcibilità in proprio del nascituro, sia pur sotto il diverso profilo della rilevanza - in guisa di
conseguente danno ingiusto - di una attività commissiva (oltre che omissiva) del sanitario, dopo aver
premesso che il nascituro o il concepito devono ritenersi dotato di autonoma soggettività giuridica
(specifica, speciale, attenuata, provvisoria o parziale che si voglia), perché titolari, sul piano
sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, e quelli alla salute o
integrità psico-fisica, all'onore o alla reputazione, all'identità personale, affermò il principio di diritto
secondo il quale, stante la soggettività giuridica del concepito, al suo diritto a nascere sano
corrisponde l’obbligo dei sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento condizionato, quanto alla
titolarità, all'evento nascita ex art. 1 comma 2 c.c., ed azionabile dagli esercenti la potestà) per
mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso informato) in
ordine ai possibili rischi teratogeni conseguenti alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il
rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia
del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso.
Il collegio ebbe poi cura di precisare, sia pur in guisa di mero obiter dictum, che quest'ultimo non
avrebbe avuto diritto al risarcimento qualora il consenso informato circa il rischio di malformazioni
prenatali fosse stato funzionale soltanto alla interruzione di gravidanza da parte della donna, dando
così ulteriore continuità al principio di diritto espresso dalla sentenza n. 14488/2004.
L’iter motivazionale della sentenza del 2009 – all’esito di una lunga e approfondita riflessione che,
premesse alcune considerazioni di teoria generale del diritto, specie in tema di fonti e di
interpretazione, giunge alla conclusione della attuale configurabilità, in seno all’ordinamento, di una
posizione di autonoma soggettività in capo al nascituro – si caratterizza per i seguenti passaggi
argomentativi:
a) il mancato esercizio di una doverosa informazione a ciascuno dei coniugi circa la potenzialità
dannosa di un farmaco somministrato alla futura madre per stimolarne la funzione riproduttiva aveva
precluso loro di scegliere, con avvertita coscienza dei rischi, di farne uso o meno, con conseguente
responsabilità del medico nei confronti di entrambi, in quanto destinatari delle informazioni
colpevolmente omesse;
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b) l’esistenza di un danno ingiusto risarcibile era, nella specie, predicabile anche con riguardo alla
posizione del neonato portatore di handicap e perciò vittima, dopo il suo concepimento (secondo le
accertate risultanze in fatto della vicenda) degli effetti nocivi del farmaco prescritto, attesa la
molteplicità e concordanza degli indici normativi volti a riconoscere la soggettività giuridica del
nascituro, titolare, come tale, del diritto (tra gli altri) alla salute, azionabile a fini risarcitori a seguito
della effettiva nascita;
c) il diritto al risarcimento così riconosciuto al figlio nato in conseguenza di una terapia nociva non
contraddice la esclusione di ogni tutela risarcitoria nel diverso caso della mancata informazione (sui
rischi di malformazione del feto) incidente sulla decisione della madre di interrompere, in tal caso, la
gravidanza, attesa la già affermata inconfigurabilità nel nostro ordinamento, di un diritto a non
nascere se non sano.
La grande novità della sentenza, rispetto al precedente costituto dalla pronuncia n. 6735 del 2002
(che ammise al risarcimento anche il padre del bambino nato malformato), consiste nel
riconoscimento che gli effetti protettivi del rapporto obbligatorio (contrattuale o da cd. "contatto
sociale") instaurato tra la paziente e i sanitari che la assistono durante la gestazione si producono non
solo a favore del marito, bensì anche del figlio. Per la prima volta questo giudice di legittimità si è
spinto, sia pur sotto un diverso profilo rispetto a quello che oggi occupa il collegio, a valutare
l'incidenza della nascita di un bambino in condizioni menomate sul piano dell'esistenza dell'intera
famiglia, e non più solo della coppia, riconoscendo un autonomo diritto al risarcimento anche al
protagonista principale di una vicenda di danno prenatale.
6.2.- La soluzione della questione di diritto affrontata nella sentenza n. 10741/09, al pari di quella
oggi sottoposta all’esame del collegio, non sembra, peraltro, postulare né imporre come
imprescindibile l’affermazione della soggettività del nascituro, soluzione che sconta, in limine, un
primo ostacolo di ordine logico costituito dalla apparente contraddizione tra un diritto “a nascere
sano” (un diritto, dunque, alla vita, che si perpetuerebbe nel corso della gestazione) e la sua repentina
quanto inopinata trasformazione in un diritto alla salute di cui si invocherebbe tutela solo dopo la
nascita.
In premessa, l’accurata analisi, gli approfonditi riferimenti e gli spunti critici riservati in sentenza alla
giurisprudenza cd. normativa, nell’ottica di una rinnovata funzione “creativa” della speculare
Interessenjurisprudenz, ne lascia poi impregiudicato l’interrogativo circa la collocazione di
quest’ultima nell'ambito della gerarchia delle fonti – salvo a voler riservare alle sole fonti “poste” tale
preordinazione gerarchica, onde la giurisprudenza normativa sarebbe singolarmente fuori da
quell'assetto. Se quest'ultimo appare a prima vista l’approdo più agevole sul piano dogmatico, per
altro verso non sembra seriamente discutibile che, così opinando, il giudice civile, laddove ritenga
nell’interpretare la legge alla luce dei valori costituzionali che essa non tuteli (o non tuteli a
sufficienza) una situazione giuridica di converso meritevole, interviene a creare una corrispondente
“forma” giuridica di tutela, eventualmente in contrasto con la legge stessa, ma senza subire alcun
sindacato di costituzionalità, in quanto il sistema non prevede un meccanismo immediato di sindacato
della costituzionalità degli orientamenti pretori salvo che questi riguardino la stretta interpretazione
di una o più norme di legge esistenti (e sempre che un giudice sollevi la questione di costituzionalità
secondo il consueto procedimento di cognizione incidentale).
Il problema – che non può essere approfondito in questa sede se non nei limiti in cui la risoluzione
del caso concreto lo impone e che attinge all'equilibrio stesso tra i poteri dello Stato, oltre che al
modo di essere, e dunque di evolversi, dell'ordinamento giuridico – induce l’interprete ad interrogarsi
sui limiti del suo intervento in seno al tessuto normativo e al di là di esso, senza mai omettere di
considerare che, di interpretazione contra legem (non diversamente che per la consuetudine), non è
mai lecito discorrere in un sistema (pur semi-aperto) di civil law, che ammette e legittima,
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esaurendone in sé la portata innovativa, l’interpretazione estensiva e l’integrazione analogica,
anch’essa condotta pur sempre ex lege ovvero ex iure.
Non altro. Non oltre.
Merito della sentenza è senz’altro quello di aver distinto tra due situazioni apparentemente simili, ma
in realtà, sul piano giuridico, tra loro assai diverse. Al contrario di quanto avviene nel caso di
prescrizione di farmaci teratogeni, la errata o mancata diagnosi non rileva ex se, sul piano eziologico,
con riguardo alla genesi della patologia sofferta dal bambino, vicenda per la quale i genitori possono
conseguentemente lamentare, nei confronti dei sanitari, la sola omissione di informazione circa lo
stato di salute del feto per avere tale difetto di informazione di fatto impedito alla madre di potersi
determinare ad un aborto terapeutico nei termini e alle condizioni previste dalla legge.
Meno condivisibile appare, per le ragioni che in seguito meglio si approfondiranno, il principio,
ribadito in obiter, della irrisarcibilità del danno direttamente subito dal neonato, che ad avviso del
collegio perpetua lo stesso equicovo concettuale immanente alla sentenza n. 14488/2004: quello
secondo il nato non ha comunque diritto ad alcun risarcimento del danno per essere venuto alla vita,
in quanto privo della titolarità di un interesse a non nascere.
La contraddizione in materia di diritti del concepito sta proprio, da un lato, nel considerarlo (a torto o
a ragione), in fase prenatale, soggetto di diritto e perciò centro di imputazione di alcuni diritti, della
personalità e patrimoniali - da far valere solo se ed in quanto nato -; dall'altro, nel riservargli, alla
nascita un trattamento di non-persona, disconoscendone sostanzialmente gli aspetti più intimi e
delicati della sua esistenza.
La concezione della vita come oggetto di tutela, da parte dell’ordinamento, in termini di “sommo
bene”, di alterità normativa superiorem non recognoscens - di talché non potrebbe in alcun modo
configurarsi un interesse a non nascere giuridicamente tutelato (al pari di un interesse a non vivere
una non-vita, come invece condivisibilmente riconosciuto da questa stessa corte con la sentenza 16
ottobre 2007, n. 21748) - è percorsa da forti aneliti giusnaturalistici, ma è destinata a cedere il passo
al raffronto con il diritto positivo.
Decisiva appare, difatti, la considerazione secondo cui, al momento stesso in cui l'ordinamento
giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire, sia pur nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si
palesa come incontestabile e irredimibile il sacrificio del “diritto” del feto a venire alla luce, in
funzione della tutela non soltanto del diritto alla procreazione cosciente e responsabile (art. 1 della
legge n. 194 del 1978), ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre.
Mentre non vi sarebbe alcuno spatium comparationis se, a confrontarsi, fossero davvero, in una
comprovata dimensione di alterità soggettiva, un (superiore) diritto alla vita e un (“semplice”) diritto
alla salute mentale.
E’ questo l’insegnamento, oltre che del giudice delle leggi, della stessa Corte internazionale di
Strasburgo che, con (ancora inedita) sentenza dell’agosto di quest’anno, ha dichiarato la sostanziale
incompatibilità di buona parte della legge 40/2004 in tema di fecondazione assistita (che, comunque,
consentiva anche nell’originaria formulazione il sacrificio di due dei tre embrioni fecondati in vitro),
per (illogicità e) contraddittorietà, proprio con la legge italiana sull’interruzione della gravidanza,
così mettendo in discussione ab imo la stessa ratio ispiratrice di quella normativa, già
considerevolmente vulnerata in non poche disposizioni dalla Corte costituzionale nel 2009.
Troppo spesso si dimentica che una norma statuale di rango primario, più volte legittimata dal vaglio
della Corte costituzionale, riconosce alla madre il diritto ad interrompere la gravidanza quando questa
si trovi "in circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità
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comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di
salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il
concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito" (così testualmente l’art. 4
della legge n. 194 del 1978).
Appare di indiscutibile efficacia la scelta lessicale di un legislatore che descrive la situazione
giuridica soggettiva attribuita alla gestante in termini di diritto alla procreazione cosciente e
responsabile, a lei rimesso in termini di assoluta quanto inevitabile esclusività.
Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è, dunque, attribuito alla sola madre, per espressa
volontà legislativa, sì che risulta legittimo discorrere, in caso di sua ingiusta lesione, non di un diritto
esteso anche al nascituro in nome di una sua declamata soggettività giuridica, bensì di propagazione
intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito (come incontestabilmente ammesso nei confronti
del padre) - salvo l’indispensabile approfondimento (che di qui a breve seguirà) sul tema della
causalità in relazione all’evento di danno in concreto lamentato dal minore nato malformato.
Altra e diversa questione è quella se la facoltà riconosciuta ex lege alla madre di interrompere
volontariamente la gravidanza - consentendole di porre fine, con la propria manifestazione di volontà,
allo sviluppo del feto - possa ritenersi rappresentativa di un esclusivo interesse della donna, e non
piuttosto anche del nascituro. Questione, peraltro, di stampo etico, filosofico, religioso, che pone
all’interprete interrogativi destinati a scorrere su di un piano metagiuridico di coscienza, ma non
impone la ricerca di risposte né tampoco di soluzioni sul piano del diritto positivo, postulando che
l'interesse alla procreazione cosciente e responsabile non sia solo della madre, ma altresì del futuro
bambino, e ciò anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno. La titolarità del relativo
diritto soggettivo, riconosciuto espressamente dall'art. 1 della legge n. 194 del 1978, non può che
spettare, si ripete, alla sola madre, in quanto solo alla donna è concessa (dalla natura prima ancora
che dal diritto) la legittimazione attiva all'esercizio del diritto di procreare coscientemente e
responsabilmente valutando le circostanze e decidendo, alfine, della prosecuzione o meno di una
gravidanza che vede la stessa donna co-protagonista del suo inizio, ma sola ed assoluta responsabile
della sua prosecuzione e del suo compimento.
Il rigoroso meccanismo legislativo, in consonanza con quello di natura, esclude tout court la
possibilità che il bambino, una volta nato, si dolga nei confronti della madre, come pure si è talvolta
ipotizzato seguendo gli itinerari del ragionamento per assurdo, della scelta di portare avanti la
gravidanza accampando conseguentemente pretese risarcitorie. E' la madre, infatti, che, esercitando
un diritto iure proprio (anche se, talvolta, nell'interesse non soltanto proprio, pur essendo tale
interesse confinato nella sfera dell’irrilevante giuridico), deciderà presuntivamente per il meglio: né
potrebbe darsi ipotesi contraria, a conferma della mancanza di una reale soggettività giuridica in capo
al nascituro.
A tanto consegue la non condivisibilità, sul piano strettamente giuridico, della ricostruzione delle
singole situazioni soggettive (della madre, del padre, dei componenti il nucleo familiare, del neonato
stesso) che postulino in premessa l’esistenza, in capo al nascituro, di un diritto a nascere sano,
contrapposto idealmente ad un non diritto “a non nascere se non sano". Altra questione, del tutto
fuori dall’orbita del diritto, è quella che vede tuttora discutersi a vario titolo sulla scelta legislativa di
consentire alla madre di scegliere se proseguire o meno la gravidanza in presenza di determinate
condizioni. Compiuta una simile opzione normativa da parte del legislatore ordinario, e ricevuta
ripetuta e tranquillante conferma della sua conformità al dettato costituzionale da parte del giudice
delle leggi, l’interprete è chiamato non ad un compito “creativo” di pretese soggettività limitate, ma
all’accertamento positivo di un diritto, quello della madre, e di un interesse, quello del nascituro (una
volta in vita), oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, alla procreazione cosciente e responsabile.
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Sarà poi destinata alle considerazioni che di qui a breve seguiranno l’analisi della questione centrale
della causalità, la questione, cioè, se ledere un siffatto interesse abbia come conseguenza diretta ed
immediata quella di porre il nascituro malformato in condizioni di diseguaglianza rispetto agli altri
nascituri, e se tale condotta lesiva sia o meno concausa del suo diritto al risarcimento, da valutare
anche sotto il profilo del suo inserimento in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non
preparato ad accoglierlo.
Sgombrato il campo dall'equivoco che si annida nella poco felice locuzione "diritto a non nascere se
non sano", e ricondotta la vicenda alla sua più corretta dimensione giuridica, il principio di diritto che
appare predicabile è quello secondo il quale la propagazione intersoggettiva dell’illecito legittima un
soggetto di diritto, quale il neonato, per il tramite del suo legale rappresentante, ad agire il giudizio
per il risarcimento di un danno che si assume in ipotesi ingiusto (tuttora impregiudicata la questione
del nesso causale e dell’ingiustizia del danno lamentato come risarcibile in via autonoma dal
neonato).
Ritiene, pertanto, il collegio che la protezione del nascituro non passi necessariamente attraverso la
sua istituzione a soggetto di diritto - ovvero attraverso la negazione di diritti del tutto immaginari,
come quello a “non nascere se non sano”, locuzione che semplicemente non rappresenta un diritto;
come non è certo riconducibile ad un diritto del concepito la più ferma negazione, da parte
dell’ordinamento (non soltanto italiano), di qualsiasi forma di aborto eugenetico.
E’ tanto necessario quanto sufficiente, di converso, considerare il nascituro oggetto di tutela, se la
qualità di soggetto di diritto (evidente astrazione rispetto all’essere vivente) è attribuzione normativa
funzionale all’imputazione di situazioni giuridiche e non tecnica di tutela di entità protette. Nessuna
rilevanza, in positivo o in negativo, pare assumere all’uopo il pur fondamentale principio della
centralità della persona, universalmente riconosciuto e tutelato a qualsiasi livello normativo, ma
inidoneo ex se a rientrare nel novero delle vere e proprie “clausole generali” (quali quelle della
correttezza, della buona fede, della funzione sociale della proprietà, della giusta causa del
licenziamento, della cooperazione del creditore all’adempimento del debitore, della solidarietà
passiva, tutte espressamente previste, esse sì, per via normativa). La centralità della persona (al di là
della significazione che si attribuisce al termine “persona”, la cui etimologia evoca peraltro
l’originario significato latino di maschera del teatro) è qualcosa di più e di diverso rispetto ad una
semplice clausola generale, è un “valore assoluto”, rappresentabile esso stesso come proiezione di
altre norme (tra le altre, gli art. 2 e 32 della Costituzione) e come autentico fine dell’ordinamento..
Per altro verso, una corretta e coerente attuazione dei principi cardine della giurisprudenza degli
interessi (a mente della quale la correttezza della decisione del giudice dipende dalla altrettanto
corretta valutazione dello scopo delle norme, anche a prescindere dalla relativa struttura semanticocontenutistica, secondo una ricerca del relativo significato in una dimensione teleologica,
diversamente da quanto propugnato dalla giurisprudenza dei concetti, che procede invece per
progressiva astrazione da norme di sistema valutandone soltanto il corrispondente significante)
sembra condurre alla conclusione che tutte le norme, costituzionali e ordinarie, volte a disciplinare il
delicato territorio del concepimento considerino il concepito come un oggetto di tutela necessaria,
essendo la soggettività – come s’è detto – un’astrazione normativa funzionale alla titolarità di
rapporti giuridici.
Ne è conferma tanto lo storico dictum della Corte costituzionale (di cui alla sentenza del 18 febbraio
1975, n. 27, predicativa del fondamentale principio della non equivalenza fra il diritto non solo alla
vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione
che persona deve ancora diventare) quanto le già ricordate disposizioni sull’interruzione di
gravidanza che, se realmente postulassero un confronto tra due diverse soggettività giuridiche, e cioè
fra due soggetti di diritto portatori di interessi e istanze contrapposte, non potrebbero mai operare una
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comparazione tra una malattia psichica e una vita privilegiando la prima, dovendosi di converso
lasciar ovvio spazio alla vita in quanto valore supremo superiorem non recognoscens.
Sotto un ulteriore profilo, non appare seriamente predicabile l’attuale esistenza, in capo al concepito,
dei pur rinvenuti “interessi personali quali il diritto all’onore, alla reputazione, all’identità personale”,
situazioni soggettive che presuppongono una dimensione di relazioni sociali (la reputazione,
l’identità personale) ovvero una consapevolezza di sé (l’onore), che, ipso facto, difettano tout court al
concepito sul piano naturalistico prima ancora che su quello giuridico.
Non si intende, con ciò, mettere in discussione quanto recentemente opinato da una attenta dottrina
quando osserva che, malgrado il nascituro, da un punto di vista terminologico, non sia una figura
rintracciabile nella nostra Costituzione, ciò non significa che non possa essere ricondotto nell'ambito
di tutela ad essa proprio. Quando la Costituzione – si afferma – riconosce l'idoneità a essere titolare
di situazioni giuridiche attive e passive solo a chi è partecipe della qualità e dignità di uomo, non può
che fare riferimento al carattere biologico del soggetto, dal che deriva l'innegabilità del
riconoscimento in capo al nascituro dei diritti inviolabili dell'uomo previsti dall'art. 2 della Carta
fondamentale, che esalta l'imprescindibile legame di tali diritti con la natura umana. Tale conclusione
troverebbe “puntuale conferma” negli art. 2, 30, 31, 32 e 37 Cost., mentre le stesse espressioni che
fanno riferimento alla maternità, contenute negli artt. 31, comma 2 e 37 comma 1, si saldano
logicamente con la normativa per cui la maternità viene in rilievo come situazione esistenziale
“plurima” da salvaguardare, in quanto la tutela giuridica si dirige sia verso la madre sia nei confronti
del figlio, e si estende dalla gestante al nascituro. Dalla rassegna delle disposizioni del codice civile –
si sostiene ancora - può inoltre evincersi che l'attribuzione delle situazioni giuridiche imputabili al
concepito, delle quali solo quelle di natura patrimoniale sarebbero subordinate all'evento nascita,
implica necessariamente la valutazione del medesimo come centro di interessi suscettibili di tutela.
La locuzione “centro di interessi suscettibile di tutela” è peraltro espressione anfibologica, dalla quale
è lecito dedurre tanto la conclusione (non necessaria) della soggettività giuridica del nascituro,
quanto quella, più realisticamente aderente al dato normativo ed alla stessa concezione del soggetto
in termini di fattispecie (come illuminantemente opinato, oltre sessant’anni fa, da uno dei più illustri
esponenti della civilistica italiana), in termini, cioè, di oggetto di tutela “progressiva” da parte
dell’ordinamento, in tutte le sue espressioni normative e interpretative.
Al là di alcune recenti e poco condivisibili formulazioni lessicali (si pensi alla tecnica normativa
adoperata dal legislatore della legge 40/2004 sulla procreazione assistita, la cui improprietà anche
terminologica ha cagionato, come si è avuto modo di osservare in precedenza, un inevitabile
intervento abrogans di buona parte della sue disposizioni, mentre ancora più recente risulta
l’intervento, parimenti tranchant, della Corte di giustizia europea, che ne ha evidenziato la patente
contraddittorietà), l’intero plesso normativo, ordinario e costituzionale, sembra muovere nella
direzione del concepito inteso come oggetto di tutela e non anche come soggetto di diritto. Solo a
seguito dell’evento nascita, difatti, la fattispecie scrutinata dalla sentenza 10741/2009 si presentò non
diversamente da un ordinario caso di danno alla salute: la lesione inferta al concepito si manifesta e
diviene attuale al momento della nascita, la situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute, non
quello a nascere sano. Chi nasce malato per via di un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il
concepimento non fa, pertanto, valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né tantomeno un
diritto a non nascere. Fa valere, ora per allora, la lesione della sua salute, originatasi al momento del
concepimento. Oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la
nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quotidiana) il
perdurante e irredimibile stato di infermità. Non la nascita non sana. O la non nascita.
6.3.- I principi sinora esposti risultano già in gran parte affermati da questa corte nella sentenza n.
9700 del 2011.
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La pronuncia afferma, difatti, il principio di diritto secondo il quale chi sia nato successivamente alla
morte del padre può ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali verificatisi
contemporaneamente alla nascita e/o posteriormente ad essa, essendo irrilevante la non
contemporaneità fra la condotta dell'autore dell'illecito (che ben può realizzarsi durante la fase del
concepimento) e il danno (che ben può prodursi successivamente, come già opinato da questa stessa
corte, in sede penale, con la sentenza n. 11625 del 2000).
Nella specie, si dissero risarcibili i danni subiti dal minore, a partire dal momento della nascita, in
conseguenza dell’uccisione del padre avvenuta in epoca anteriore alla nascita stessa, al tempo in cui
il minore era soltanto concepito.
Così modificata la tesi espressa da questo stesso giudice di legittimità con una risalente pronuncia
(Cass. n. 3467 del 1973, affermativa del carattere eccezionale, e dunque di stretta interpretazione,
delle disposizioni di legge che, in deroga al principio generale dettato dall'art. 1 comma 1 c.c.,
prevedono la tutela dei diritti del nascituro), La Corte ritenne irrilevante la questione della
soggettività giuridica del concepito, ed comunque impredicabile una sua giuridica configurazione al
fine di affermare il diritto del nato al risarcimento “non potendo, d'altro canto, quella soggettività
evincersi dal fatto che il feto è fatto oggetto di protezione da parte dell'ordinamento”, in evidente e
consapevole adesione all’insegnamento della civilistica classica, uno dei cui più autorevoli esponenti
ebbe efficacemente ad evidenziare come la soggettività giuridica trovi il suo normale svolgimento
nella capacità giuridica (impregiudicata la questione della soggettività indipendente dalla capacità
degli enti impersonali, che rileva piuttosto sotto il profilo dell’attitudine alla titolarità di rapporti
giuridici attivi e passivi, in guisa di soggetti di diritto - e dal diritto espressamente contemplati e
disciplinati sul piano funzionale - come attualmente esistenti, a differenza del nascituro).
D’altronde, non è senza significato la circostanza per la quale sono rimasti privi di seguito, non
essendo mai stati discussi neppure in commissione, i due disegni e le due proposte di legge presentati
nel corso dell’attuale legislatura, sia al Senato che alla Camera, volti a modificare l’art. 1 comma 1
c.c. sostituendone il testo originario nel senso che “ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal
momento del concepimento”.
La sentenza 9700/2011 evidenziò ancora, con argomentazioni che questo collegio interamente
condivide, come il diritto di credito di natura risarcitoria appartenesse alla figlia in quanto nata
orfana, e come tale destinata a vivere senza la figura paterna, mentre la circostanza che il padre fosse
deceduto prima della sua nascita per fatto imputabile a responsabilità di un terzo assumeva
significato nella sola misura in cui condotta ed evento materiale costituenti l'illecito si erano già
verificati prima che ella nascesse, ma non anche che prima di nascere ella potesse avere acquistato il
diritto di credito al risarcimento. Questo, difatti, postula la lesione di una situazione giuridica tutelata
dall'ordinamento, da identificarsi, nella specie, con il diritto al godimento del rapporto parentale,
diritto certamente inconfigurabile prima della nascita, così come solo successivamente alla nascita si
verificano le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione del diritto derivano.
Del rapporto col padre – si legge ancora in sentenza - la figlia è stata privata nascendo, non prima che
nascesse. In precedenza, esistevano solo le condizioni ostative al suo insorgere per la già intervenuta
morte del padre che la aveva concepita: ma la mancanza del rapporto interpersonale, del legame
emozionale che connota la relazione tra padre e figlio è divenuta attuale quando la figlia è venuta alla
luce.
In quel momento si è dunque verificata la propagazione intersoggettiva dell'effetto dell'illecito “per la
lesione del diritto della figlia (non del feto) al rapporto col padre, e nello stesso momento è sorto il
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suo diritto di credito al risarcimento, del quale è dunque diventato titolare un soggetto fornito della
capacità giuridica per essere nato”.
La sentenza esclude, infine, che possa revocarsi in dubbio l’esistenza di un nesso di causalità fra
illecito e danno, inteso questo come insieme di conseguenze pregiudizievoli derivate dall'evento
(morte del padre): il figlio cui sia impedito di svilupparsi nell’ambito di questo rapporto genitoriale
ne può riportare un pregiudizio che costituisce un danno ingiusto indipendentemente dalla
circostanza che egli fosse già nato al momento della morte del padre o che, essendo solo concepito,
sia nato successivamente (in tal senso, già Cass. 22 novembre 1993, n. 11503 e Cass. 9 maggio 2000,
n. 5881, pur se non condivisibilmente contraddette, di recente - con motivazione, peraltro, meramente
assertiva - da Cass. 21 gennaio 2011, n. 1410).
Pur se non direttamente investita della questione che occupa invece oggi il collegio, la sentenza in
discorso avrebbe concluso, con un breve quanto significativo obiter dictum, nel senso che, nelle
modalità di insorgenza del diritto al risarcimento, il caso scrutinato non si differenziava da quello
della lesione colposamente cagionata al feto durante il parto (dunque prima della nascita), da cui
derivi, dopo la nascita, il diritto del nato al risarcimento per il patito danno alla salute (danno da
lesione del diritto alla salute, dunque, e non già del cosiddetto "diritto a nascere sano", che costituisce
soltanto l'espressione verbale di una fattispecie costituita dalla lesione provocata al feto, ma che non è
ricognitiva di un diritto preesistente in capo al concepito, che il diritto alla salute acquista solo con la
nascita), aggiungendo poi che, “in altro ambito, null'altro che espressiva di una particolare fattispecie
è la locuzione diritto a non nascere se non sano, alla cui mancanza, in passato, si è correlata la
risposta negativa al quesito relativo al se sia configurabile il diritto al risarcimento del nato
geneticamente malformato nei confronti del medico che non abbia colposamente effettuato una
corretta diagnosi in sede ecografica ed abbia così precluso alla madre il ricorso all'interruzione
volontaria della gravidanza, che ella avrebbe in ipotesi domandato”. Onde “la diversa costruzione che
il collegio ritiene corretta consentirebbe invece, nel caso sopra descritto, una volta esclusa l'esigenza
di ravvisare la soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al
nato, di riconoscere il diritto al risarcimento anche al nato con malformazioni congenite e non solo ai
suoi genitori, come oggi avviene, sembrando del tutto in linea col sistema e con la diffusa sensibilità
sociale che sia esteso al feto lo stesso effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra
madre e medico; e che, come del resto accade per il padre, il diritto al risarcimento possa essere fatto
valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all'autodeterminazione
della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe
mancato se egli non fosse nato)”.
La pronuncia del 2011, pur senza affermarlo espressamente, ascrive pertanto la vicenda risarcitoria
alla categoria dei danni futuri: a quei danni, cioè, che al tempo della consumazione della condotta
illecita non si sono ancora (o non si sono del tutto) prodotti pur in presenza di elementi presuntivi
idonei a ritenere che il pregiudizio si produrrà (in argomento, funditus, Cass. 4 febbraio 1992, n.
1147), senza che osti a tale ricostruzione il dato letterale dell'art. 2043 c.c., che discorre di condotta
dolosa o colposa che cagiona "ad altri" un danno ingiusto, ma non esige per questo l'attuale esistenza
del danneggiato al tempo della condotta lesiva.
6.4.- Va peraltro precisato come fermo convincimento del collegio sia quello per cui l’evaporazione
della questione della soggettività giuridica del concepito non conduca punto a rinnegare l'evoluzione
subita, in materia, dal nostro ordinamento dal 1942 ad oggi, tanto alla luce delle norme costituzionali,
quanto del ruolo sempre più incisivo delle fonti sovranazionali.
Non ignora, difatti, il collegio che l'interpretazione dell'art. 1 c.c. non può prescindere da un dato
storico certo, quello secondo il quale il codice del 1942 nasce dalla fusione delle leggi civili con i
principi fondamentali del diritto commerciale, e dalla conseguente unificazione dei testi normativi
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rappresentati dal codice di commercio e da quello civile. La struttura portante del codice così
unificato corre dunque lungo l’asse dei rapporti intersoggettivi di tipo patrimoniale piuttosto che
attraversare il territorio dei diritti della persona e della personalità.
E’ del pari innegabile che nell'attuale periodo storico, caratterizzato ab imis dalla entrata in vigore
della Costituzione repubblicana, la persona - la sua libertà, la sua dignità - assurge via via a rango di
primo motore immobile dell’ordinamento giuridico e della sua interpretazione. Lo stesso giudice
delle leggi, con specifico riguardo alla posizione del concepito, ne consacrerà a più riprese un
inviolabile interesse alla protezione, sua e della sua vita (particolarmente significativa, al riguardo, la
pronuncia 10 febbraio 1997, n. 35). Né può seriamente dubitarsi che l’evoluzione legislativa abbia
introdotto una congerie di norme che prendono in considerazione il concepito in quanto tale, come ha
avuto cura di evidenziare la citata sentenza n. 10741 del 2009.
Ma tale, apprezzabile, condivisibile e probabilmente inevitabile evoluzione del costume legislativo ed
interpretativo non conduce, ipso facto, all’approdo necessario della soggettività del concepito.
Non convince, difatti, la pur suggestiva riflessione recentemente svolta da un’attenta dottrina su di un
piano rigorosamente normativo (e dunque a prescindere da considerazioni etiche, filosofiche,
teologiche) a sostegno della teoria della soggettività del nascituro.
Essa si fonda sulla generale portata precettiva dell’art. 320 comma 1 c.c. – che attribuisce ai genitori
la rappresentanza non solo dei figli nati, ma anche dei nascituri, onde “nell'interpretazione di un
linguaggio tecnico come è quello giuridico, non sarebbe revocabile in dubbio che ogni forma di
rappresentanza, ivi compresa quella legale, è effettivamente tale se c'è alterità soggettiva fra
rappresentante e rappresentato e, dunque, se il rappresentato è il soggetto giuridico in nome del quale
il rappresentante agisce”.
L’argomento in realtà prova troppo, perché le stesse norme sulla rappresentanza, in ragione della
predicata alterità soggettiva, esigono in capo al rappresentato non soltanto la capacità giuridica, ma
altresì quella di agire, limitando al rappresentante la sola capacità di intendere e di volere (se tale
rappresentanza è conferita dall’interessato). Ne consegue che la “rappresentanza” disciplinata
dall’art. 320 sì come riferita al nascituro è istituto affatto peculiare, di portata sicuramente
eccezionale, altrettanto certamente limitato al campo dei diritti patrimoniali. E ciò proprio in
conseguenza di quella che altra, pensosa dottrina ha dal suo canto definito “la singolarità della
relazione tra madre e nascituro, che fa di ogni decisione riguardo al figlio una decisione della madre”,
in una relazione non di alterità ma di immedesimazione, questa sì, realmente “organica” (come
implicitamente affermato nell’ordinanza 31.3.1988 n. 389 della Corte costituzionale, che dichiarò,
con motivazione tranchant, del tutto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5
della legge 194 nella parte in cui non riconosceva rilevanza alla volontà del padre).
Per altro verso, lungi dall’apparire “irrazionale”, appare perfettamente compatibile con la concezione
del nascituro inteso come oggetto di tutela e non come soggetto di diritto la disposizione dell'art. 578
c.p. - che punisce la madre che non solo cagiona la morte del proprio neonato subito dopo il parto,
ma anche del feto durante il parto, prima che questo si distacchi definitivamente dal proprio
organismo -, poiché non pare seriamente discutibile la piena equiparazione delle due situazioni sul
piano naturalistico prima ancora che giuridico, una volta che il parto abbia avuto inizio.
L’indiscutibile e indiscussa rilevanza giuridica del concepito nel nostro ordinamento, pur a volerne
condivisibilmente predicare, come parte della dottrina esige a gran voce, un innegabile “carattere
generale”, non limitato né limitabile ad ipotesi puntuali, non ha pertanto come ineludibile
conseguenza la creazione ex nihilo di una sua soggettività, ma si sostanzia, si ripete, nel
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riconoscimento, ben più pregnante e pragmatico, della sua qualità di oggetto speciale di tutela da
parte dell’ordinamento.
Così affrancando il discorso giuridico (come osserverà, di recente, una avveduta dottrina) “dai
pantani della soggettività, onde assegnare al concepito garanzie di difesa senza obbligare l’interprete
alla necessità pregiudiziale di attribuirgli qualità soggettive nel significato e con le conseguenze che
il diritto riconosce a tale concetto”, e finalmente liberi “dalle categorie metafisiche costituite dalla
triade concettuale personalità, soggettività, capacità”, la questione della protezione del concepito non
si discosta da quella della protezione dell’essere umano, nel senso che sarà compito di un essere
umano già vivente assicurare tutela a chi (come magistralmente insegnato dalla Corte costituzionale)
essere umano deve ancora diventare. E’ sotto questo profilo che va fermamente respinta l’opinione di
chi, dalla risarcibilità del danno da nascita malformata, pretende di inferire l’esistenza (e la rilevanza
giuridica) di un diritto ad essere abortito quale rivendicazione propria del nascituro/soggetto di
diritto, alla stregua di un preteso principio costituzionale di parità di trattamento, tutte le volte che
tale diritto all’aborto sarebbe stato esercitato dalla madre se opportunamente informata della
malformazione su sua esplicita richiesta. Sostenere – come a più riprese è stato sostenuto, specie in
seno alla dottrina francese all’indomani della sentenza Perruche - che, se alla madre è consentito
evitare la nascita in vista di una possibile malattia psichica, sarebbe del tutto contrario al principio di
uguaglianza negare il medesimo diritto al minore, risulta una evidente aporia, proprio perché il diritto
vantato dal minore non è affatto volto alla sua soppressione “ora per allora”, né tantomeno alla
rivendicazione di dover nascere sano ovvero di dover non nascere se non sano in attuazione di una
ipotetica quanto inconcepibile eugenetica postnatale, ma alla riparazione di una condizione di
pregiudizio per via di un risarcimento funzionale ad alleviarne sofferenze e infermità, talora
prevalenti sul valore della vita stessa.
7.- All’esito della ricognizione tanto delle pronunce più significative rese in subiecta materia da
questa corte, quanto del sempre fondamentale contributo della dottrina (ancor più necessario tutte le
volte che il diritto è chiamato ad affrontare tematiche che trascendono la funzione sua propria e gli
strumenti di analisi di cui dispone), sembra potersi avviare ad appagante soluzione la questione
processuale sottoposta all’esame del collegio nella sua dimensione rigorosamente giuridica, e
altrettanto rigorosamente ancorata al dato normativo (e dunque scevra da facili suggestioni etiche,
filosofiche, o anche solo “creative”).
Vanno conseguentemente analizzati tutti gli elementi della fattispecie concreta onde inferirne la
legittima riconducibilità alla fattispecie astratta dell’illecito aquiliano in tutti i suoi elementi di
struttura così come descritti dall’art. 2043 c.c.. Premesso che l’analisi delle questioni relative ai
criteri di valutazione del danno, che pur completerebbe l’indagine, è preclusa dall’estraneità del tema
al presente giudizio, il collegio ritiene necessario condurre l’esame della fattispecie con riguardo:
• al soggetto legittimato ad agire (rectius alla legittimazione soggettiva attiva);
• all’oggetto della tutela;
• all’evento di danno;
• al nesso causale;
• alla colpa dell’agente;
• ai presupposti normativi della richiesta risarcitoria (gli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978)
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• ai presupposti fattuali della domanda risarcitoria (la richiesta di diagnosi funzionale all’aborto da
parte della gestante);
• alla titolarità del diritto di rappresentanza nell’esercizio del diritto al risarcimento (e all’eventuale
conflitto di interessi con i genitori);
• al riparto degli oneri probatori.
La Corte non ritiene, difatti, del tutto appagante, nel dar vita ad un così significativo revirement
rispetto alle pronunce del 2004 e del 2009, né l’evocazione di quella sensazione di sotterfugio cui
ricorrerebbe la giurisprudenza per riconoscere il risarcimento in via indiretta all’handicappato, né la
pur suggestiva considerazione volta a rilevare la contraddizione logica del riconoscere il risarcimento
del danno ai genitori e non riconoscerlo al minore nato con la malattia, contraddizione resa ancor più
evidente se il risarcimento è riconosciuto non solo alla gestante, poiché è stato leso il suo diritto ad
interrompere la gravidanza, ma anche al marito della stessa (che non ha un tale diritto), sol perché è
diventato padre di un bambino anormale.
7.1.- La legittimazione soggettiva.
Alla luce delle considerazioni che precedono, non sembra seriamente discutibile la predicabilità di
una legittimazione attiva del neonato in proprio all’azione di risarcimento.
Superate le suggestioni rappresentate dall’ostacolo “ontologico” – l’impossibilità per un essere
vivente di esistere come soggetto prima della sua vita – e convertita in questione giuridica la
posizione del soggetto che, attualmente esistente, avanza pretese risarcitorie (ciò che sposterebbe il
piano dell’analisi non sul versante della legittimazione soggettiva astratta, ma della titolarità concreta
del rapporto controverso) e prescindendo del tutto, per il momento, dall’analisi degli ulteriori
elementi della fattispecie (id est il diritto leso, l’evento di danno, la sua ingiustizia, il nesso di
causalità), va riconosciuto al neonato/soggetto di diritto/giuridicamente capace (art. 1 c.c.) il diritto a
chiedere il risarcimento dal momento in cui è nato. Sul piano giuridico (che, non va dimenticato, è
dimensione meta-reale del pensiero, nella quale le stesse categorie spazio/tempo si annullano o si
modificano, se si pensa al commercio elettronico o alla retroattività della condizione sospensiva)
nulla sembra diversificare la situazione soggettiva dell’avente diritto al risarcimento conseguente alla
nascita malformata da quelle tradizionali pratiche testamentarie di diritto comune attraverso le quali
vengono riconosciuti e attribuiti diritti ad una “persona” che ancora deve nascere. Né rileva, ai fini
della predicabilità di tale legittimazione soggettiva, la specularità del senso dell’operazione - poichè
non di una volontà ascendente che istituisce un soggetto che nascerà si tratta, bensì di un soggetto
che, alla sua nascita, istituisce retroattivamente sé stesso, divenendo così titolare di un diritto
soggettivo nuovo, il cui esercizio non richiede, peraltro, la finzione di un soggetto di diritto prenatale.
Soggetto “autore” del minore malformato non è, pertanto, l’ascendente, il testatore, il donante, ma sé
stesso. Ben più che un nuovo diritto soggettivo, il riconoscimento di tale legittimazione istituisce un
nuovo soggetto autonomo, al punto che la qualità innata della sua vita diviene un diritto esigibile
della persona, senza che – come è stato assai suggestivamente scritto – “questo nuovo soggetto di
diritto divenga un mostro senza passato”. E senza che, va aggiunto, la sua pretesa risarcitoria appaia
una mostruosità senza passato, confondendo il tempo della vita con il tempo della costruzione (e
della finzione) giuridica.
7.2.- L’interesse tutelato.
L’assemblea plenaria della corte di cassazione francese, nell’ammettere la legittimità della richiesta
risarcitoria in proprio del piccolo Nicolas Perruche, si limitò ad osservare che questi aveva
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effettivamente subito un pregiudizio risultante dall’handicap particolarmente grave da cui era afflitto,
specificando che la causalità non potesse, nella specie, essere ridotta alla sua dimensione scientifica o
logica, ma andasse intesa in senso “giuridico”.
La sentenza, vivacemente contestata, pose e pone tuttora un problema di non poco momento: quello,
cioè, di individuare con esattezza la situazione soggettiva di cui si lamenta la lesione, onde ricondurla
al conseguente evento di danno che, da quella lesione, ebbe a generarsi (per poi ricondurre ancora la
condotta colpevole alla lesione della situazione soggettiva ed all’evento valutato in termini di contra
ius).
E’ convincimento del collegio che la domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino
malformato trovi il suo fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione.
Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, difatti, non è la malformazione in sé considerata
- non è, in altri termini, l’infermità intesa in senso naturalistico (o secondo i dettami della scienza
medica), bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intese
come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e
dell’handicap, ma sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata.
E’ violato il dettato dell’art. 32 della Costituzione, intesa la salute non soltanto nella sua dimensione
statica di assenza di malattia, ma come condizione dinamico/funzionale di benessere psicofisico come testualmente si legge nell’art. 1 lettera o) del d.lgs. n. 81 del 2008, e come recentemente
riaffermato da questa stessa Corte con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748.
Deve ancora ritenersi consumata:
- la violazione della più generale norma dell’art. 2 della Costituzione, apparendo innegabile la
limitazione del diritto del minore allo svolgimento della propria personalità sia come singolo sia nelle
formazioni sociali;
- dell’art. 3 della Costituzione, nella misura in cui si renderà sempre più evidente la limitazione al
pieno sviluppo della persona;
- degli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, volta che l’arrivo del minore in una dimensione familiare
“alterata” (come lascia presumere il fatto che la madre si fosse già emotivamente predisposta, se
correttamente informata della malformazione, ad interrompere la gravidanza, in previsione di una sua
futura malattia fisica o psichica al cospetto di una nascita dichiaratamente indesiderata) impedisce o
rende più ardua la concreta e costante attuazione dei diritti-doveri dei genitori sanciti dal dettato
costituzionale, che tutela la vita familiare nel suo libero e sereno svolgimento sotto il profilo
dell’istruzione, educazione, mantenimento dei figli.
Tali situazioni soggettive, giuridicamente tutelate e giuridicamente rilevanti, sono pertanto
riconducibili non alla sola nascita né al solo handicap, bensì alla nascita ed alla futura vita
handicappata intesa nella sua più ampia accezione funzionale, la cui “diversità” non è discriminata in
un giudizio metagiuridico di disvalore tra nascita e non nascita, ma soltanto tutelata, rispettata ed
alleviata per via risarcitoria.
Non è a discorrersi, pertanto, di non meritevolezza di una vita handicappata, ma una vita che merita
di essere vissuta meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto che di tale condizione di
disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi,
quand’anche fossero i genitori, ipoteticamente liberi di utilizzare il risarcimento a loro riconosciuto ai
più disparati fini.
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Non coglie dunque nel segno la ulteriore critica, mossa dai sostenitori della non risarcibilità
autonoma del danno da nascita malformata, che nega ogni legittimazione ad agire al minore in nome
di un preteso rispetto della sua dignità sull’assunto per cui qualificare la nascita in termini di
pregiudizio costituirebbe una mancanza di rispetto alla dignità del minore.
Tralasciando ogni considerazione in ordine ad una tale concezione della dignità umana
(dichiaratamente ostile al soggettivismo della modernità dei diritti dell’uomo, e funzionale ad un’idea
che non di diritto dell’uomo in quanto individuo si discorra, bensì di diritti del genere umano come
tali opponibili allo stesso individuo onde assoggettarlo ad obblighi verso questa generica qualità
umana che lo trascende, con conseguente negazione del fondamentale rapporto dell’individuo con sé
stesso in una non negoziabile dimensione di suitas), va osservato che un vulnus alla propria dignità
così concepito confonde la dimensione giuridica della richiesta individuale di risarcimento di un
pregiudizio altrettanto individuale da parte della vittima di quel pregiudizio con la dimensione etica
dell’attentato pregiudizievole non al sé individuale, ma ad una pretesa alterità trascendente che
alberga nel singolo essere umano in quanto rappresentante di un genere.
Al di là della condivisibilità sul medesimo piano dell’etica di tale concezione, è innegabile che essa si
pone del tutto fuori dal territorio segnato dalle norme giuridiche e dalla relativa interpretazione.
Deve pertanto concludersi che l’interesse giuridicamente protetto, del quale viene richiesta tutela da
parte del minore ai sensi degli articoli della Carta fondamentale dianzi citati, è quello che gli consente
di alleviare, sul piano risarcitorio, la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera
estrinsecazione secondo gli auspici dal Costituente: il quale ha identificato l’intangibile essenza della
Carta fondamentale nei diritti inviolabili da esercitarsi dall’individuo come singolo e nelle formazioni
sociali ove svolgere la propria personalità, nel pieno sviluppo della persona umana, nell’istituzione
familiare, nella salute.
Non assume, pertanto, alcun rilievo “giuridico” la dimensione prenatale del minore, quella nel corso
della quale la madre avrebbe, se informata, esercitato il diritto all’interruzione della gravidanza. Se
l’esercizio di questo diritto fosse stato assicurato alla gestante, la dimensione del non essere del
nascituro impedisce di attribuirle qualsivoglia rilevanza giuridica.
Come accade in altro meno nobile territorio del diritto, e cioè in tema di nullità negoziale, l’interprete
si trova al cospetto non già di una qualificazione giuridica negativa di un fatto (che ne consentirebbe
uno speculare parallelismo con la corrispondente qualificazione positiva), bensì di una
inqualificazione giuridica tout court.
Ciò che è giuridicamente in-qualificato non ha cittadinanza nel mondo del diritto, onde la assoluta
irrilevanza dell’affermazione secondo la quale “nessuno potrebbe preferire la non vita alla vita”,
funzionale ad un “dovere di vivere” - ancora una volta relegato entro i confini di una specifica
visione e dimensione etica delle vicende umane priva di seri riscontri normativi, come già affermato
da questa Corte, in tema di diritti di fine vita con la già ricordata sentenza del 2007 - che in nessun
caso può costituire legittimo speculum, sul piano normativo, del diritto individuale alla vita.
Il ragionamento apparentemente sillogistico, elaborato da gran parte della dottrina francese
all’indomani del caso Perruche, secondo cui “sarebbe insanabilmente contraddittorio considerare che
il bambino handicappato, una volta nato, possa usare la sua acquisita qualità di soggetto di diritti per
chiedere il risarcimento del danno risultante dal fatto di non essere stato abortito dalla madre, cosa
che gli avrebbe impedito di diventare soggetto di diritti”, perde ogni ragionevole senso alla luce di
quanto sinora esposto circa l’aspetto soggettivo ed oggettivo della vicenda: l’obiezione caratterizza,
difatti, l’enunciato in termini di esigenza meramente logico-discorsiva, che non impone al soggetto
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un obbligo di vivere, ma un dovere linguistico di non affermare nulla che possa portarlo a predicare
sé stesso come inesistente.
Tutto ciò resta ai margini del discorso giuridico, così come estraneo al diritto positivo, se non nei
limiti del suo altrettanto positivo recepimento in norme (ove esistenti), è una considerazione
razionale della natura dell’uomo che ne implichi un obbligo di vivere, avendo di converso
l’ordinamento positivo eletto ad essenza dei diritti dell’uomo, prima ancora della dignità
(diversamente dall’ordinamento tedesco, in conseguenza della storia di quel popolo) la libertà
dell’individuo, che si autolimita nel contratto sociale, ma resta intatta nei confronti di sé stesso, in
una dimensione dell’essere che legittima alfine anche il non fare o il rifiutare.
7.3.- L’evento di danno.
Sgombrato il campo dall’equivoco costituito dalla pretesa equazione “diritto di nascere o di non
nascere/diritto al risarcimento da nascita malformata” (pare utile rammentare che la stessa corte di
cassazione francese, il 13 luglio 2001, pochi mesi prima dell’arret Perruche, aveva respinto un ricorso
che trasponeva erroneamente il pregiudizio “sul fatto stesso di essere in vita”), risulta innegabile
come l’esercizio del diritto al risarcimento da parte del minore in proprio non sia in alcun modo
riconducibile ad un impersonale “non nascere”, ma si riconnetta, personalmente e soggettivamente, a
quella singola, puntuale e irripetibile vicenda umana che riguarda quel determinato (e altrettanto
irripetibile) soggetto che, invocando un risarcimento, fa istanza al giudice di piena attuazione del
dettato costituzionale dianzi evocato, onde essere messo in condizione di poter vivere meno
disagevolmente, anelando ad una meno incompleta realizzazione dei suoi diritti di individuo singolo
e di parte sociale scolpiti nell’art. 2 della Costituzione.
E’ pertanto un vero e proprio “dibattito sulle ombre” quello volto a sostenere che tale facoltà, in guisa
di diritto a sé stessi, potrebbe attuarsi soltanto attraverso due modalità dell’impossibile, il non essere
dell’essere ovvero l’essere del non essere. Riflessioni, si ripete, di indiscutibile spessore filosofico.
Ma irrilevanti sul piano giuridico se, tra natura e diritto (come lo stesso giusnaturalismo ammette), si
erge il triplice filtro costituito dalla legislazione, dalla giurisdizione, dalla interpretazione.
E’ dunque confinata nella sfera dell’irrilevante giuridico ogni questione formulata fuori da tale
dimensione, in particolare quella (incontrollabile dal diritto) del possibile e del non-possibile
ontologico.
La legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva, pertanto, da una omissione
colpevole cui consegue non il danno della sua esistenza, né quello della malformazione di sé sola
considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità
legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentanterappresentato, ma di includente-incluso.
Una esistenza diversamente abile rettamente intesa come sintesi dinamica inscindibile quanto
irredimibile, e non come algida fictio iuris ovvero arida somma algebrica delle sue componenti
(nascita+handicap=risarcimento), né tantomeno come una condizione deteriore dell’essere
negativamente caratterizzata, ma situazione esistenziale che, in presenza di tutti gli elementi della
fattispecie astratta dell’illecito, consente e impone al diritto di intervenire in termini risarcitori
(l’unico intervento consentito al diritto, amaramente chiamato, in tali vicende, a trasformare il dolore
in denaro) affinchè quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno
disagevole.
Consentendo, alfine, per il tramite del diritto, ciò che un logica astrattamente giusnaturalitica
vorrebbe viceversa negare.
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L’evento di danno è costituito, pertanto, nella specie, dalla individuazione di sintesi della “nascita
malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto
attualmente esistente, e non già destinata “a realizzare un suicidio per interposto risarcimento danni”,
come pure s’è talvolta opinato.
7.4.- Il nesso di causa.
La esistenza di un nesso di causalità giuridicamente rilevante tra la condotta del sanitario e l’evento
di danno lamentato a seguito della violazione di un interesse costituzionalmente protetto del minore
(questione che apparve immediatamente come la più problematica dell’intera vicenda risarcitoria
all’indomani della sentenza Perruche, e che non venne affrontata funditus dalle due sentenze di
questa corte che, nel 2004 e nel 2009, esclusero sotto altro aspetto l’esistenza di un autonomo diritto
al risarcimento in capo al minore) può ricevere soddisfacente soluzione all’esito della ricognizione
dell’evento di danno così come appena operata.
Si sono correttamente sostenute, in proposito, tanto la irrilevanza di un nesso causale tra l’omissione
di diagnosi e la nascita - attesa la inconfigurabilità di quest’ultima in termini di evento dannoso -,
quanto la inesistenza di tale nesso tra la condotta omissiva e l’handicap in sé considerato, atteso che
la malformazione non è conseguenza dell’omissione bensì del presupposto di natura genetica, rispetto
al quale la condotta del sanitario è muta sul piano della rilevanza eziologica.
Rilevanza che, di converso, appare sicuramente predicabile una volta identificato con esattezza
l’evento di danno nella nascita malformata intesa nei sensi poc’anzi esposti.
Tale evento, nella più volte illustrata proiezione dinamica dell’esistente, appare senz’altro
riconducibile, secondo un giudizio prognostico ex post, all’omissione, volta che una condotta
diligente e incolpevole avrebbe consentito alla donna di esercitare il suo diritto all’aborto (sì come
espressamente dichiarato al medico nel caso di specie).
Una diversa soluzione, sul piano causale, si risolverebbe nell’inammissibile annullamento della
volontà della gestante, senza che, in proposito possano assumere rilievo ipotesi alternative confinate,
nella specie, in una dimensione dell’improbabile – e dunque del giuridicamente irrilevante – circa la
eventualità (come ipotizzata dalla corte territoriale) di un futuro mutamento di decisione da parte
della gestante stessa in ordine alla pur programmata interruzione condizionata di gravidanza.
Va pertanto affermata, sul piano del nesso di condizionamento, la equiparazione quoad effecta tra la
fattispecie dell’errore medico che non abbia evitato l’handicap evitabile (l’handicap, si badi, non la
nascita handicappata), ovvero che tale handicap abbia cagionato (come nella ipotesi scrutinata dalla
sentenza 10741/2009) e l’errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita
malformata (evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante
derivante da una espressa disposizione di legge). Facoltà il cui esercizio la gestante aveva, nella
specie, espressamente dichiarato di voler esercitare, donde l’evidente paralogismo che si cela nella
motivazione della corte territoriale nel momento in cui onera la odierna ricorrente dell’incombente di
provare quello che risultava già provato ed acquisito agli atti del processo.
7.5.- La condotta colpevole
Si è già avuto modo di evidenziare, nel corso dell’esame del secondo, terzo e quarto motivo di
ricorso, come la colpevolezza della condotta si sia, nella specie, manifestata sotto il duplice profilo
della non sufficiente attendibilità del test in presenza di una esplicita richiesta di informazioni
finalizzate, se del caso, all’interruzione della gravidanza da parte della gestante, e dal difetto di
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informazioni circa la gamma complessiva delle possibili indagini e dei rischi ad essa correlati, onde
sull’argomento non appaiono necessarie ulteriori precisazioni.
7.6.- Gli oneri probatori
L’esistenza di una espressa e inequivoca dichiarazione della volontà di interrompere la gravidanza in
caso di malattia genetica, quale quella espressa dalla gestante nel caso di specie, esime il collegio da
ogni ulteriore valutazione circa la evidente e determinante rilevanza di tale volontà.
Ritiene tuttavia la Corte che, all’esito della disamina che precede, un chiarimento sul tema degli oneri
probatori si renda opportuno; con l’ovvia premessa che il problema della prova che all’interruzione
della gravidanza della donna si sarebbe determinata se fosse stata informata si porrà esclusivamente
nel caso in cui il convenuto ne contesti l’assunto (anche implicitamente contenuto nell’atto di
citazione)
Nell’ipotesi in cui tale volontà non sia stata espressamente manifestata dalla gestante, difatti, la
presunzione di cui sembra legittimo discorrere sul piano dell’inferenza logica di un’intenzione
(l’interruzione di gravidanza) desumibile da una condotta significante (la sola richiesta di
accertamento diagnostico), ha indubbio carattere di presunzione semplice.
Essa costituisce, cioè, l’unico elemento indiziante di una volontà che si presume orientata verso un
determinato esito finale.
Da tale elemento indiziante il giudice di merito è chiamato a desumere, caso per caso, senza il ricorso
a generalizzazioni di tipo statistico (o di cd. probabilità a priori), le conseguenti inferenze probatorie
e il successivo riparto dei relativi oneri.
Il giudice di merito dovrà in altri termini accertare e valutare, secondo il suo prudente
apprezzamento, così come disposto dall’art. 116 del codice di rito, se, tenuto conto di tutte le
circostanze del singolo caso concreto, tale presunzione semplice - che può essere legittimamente
ricondotta a quella vicenda probatoria definita dalla giurisprudenza di questa corte come “indizio
isolato” (la richiesta di accertamento diagnostico) del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza) possa o meno essere ritenuta sufficiente a provare quel fatto.
La rilevanza di tale presunzione andrà, inoltre, valutata da quello stesso giudice anche in relazione
alla gravità della malformazione non diagnosticata).
Di volta in volta, escluso qualsivoglia automatismo probatorio, le parti, preso atto della situazione
processuale di partenza costituita dall’esistenza di una vicenda probatoria “di indizio isolato” rispetto
al fatto da provare (conseguentemente presunto o presumibile), sono chiamate a fornire al giudice gli
elementi, che potranno dipanarsi anche sul piano della prova logica, funzionali a dirimere la
questione del se le circostanze concrete e specifiche della concreta vicenda processuale consentano
una valutazione di sufficienza o meno di quella presunzione semplice.
La questione, assai delicata, della materiale possibilità di ricostruzione dell’efficacia probatoria della
presunzione semplice in seno al processo, hic et inde, da parte dei difensori di ciascuna parte, trova
risposta, ancora una volta, nella specificità ed unicità di quello stesso processo: i fatti così come
narrati, le circostanze come di volta in volta evidenziate, le stesse qualità personali delle parti agenti e
resistenti (così esemplificando in modo di certo non esaustivo l’elenco degli elementi utili alla
formazione di un convincimento) potranno indurre i protagonisti del processo ad integrare o svilire la
portata della presunzione semplice che, diversamente da una semplice equazione, non sempre può
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indurre alla automatica significazione “richiesta di diagnosi=interruzione di gravidanza” in caso di
diagnosi di malformazioni.
In mancanza assoluta di qualsivoglia ulteriore elemento che “colori” processualmente la presunzione
de qua, il principio di vicinanza della prova e quello della estrema difficoltà (ai confini con la
materiale impossibilità) di fornire la prova negativa di un fatto induce a ritenere che sia onere di parte
attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da
sottoporre all’esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione
stessa all’asserto illustrato in citazione.
Non sembra, difatti, predicabile sempre e comunque la legittimità del ricorso ad un criterio
improntato ad un ipotetico id quod plerumque accidit perchè, in assenza di qualsivoglia, ulteriore
dichiarazione di intenti, non è lecito inferire sempre, sic et simpliciter, da una richiesta diagnostica la
automatica esclusione del’intenzione di portare a termine la gravidanza.
Ciò è a dirsi, oltre che sotto il profilo del corretto riparto degli oneri probatori in ipotesi di fatto
negativo da dimostrare (Cass. sez. un. 13533/2001), anche sotto quello, non meno rilevante, di
evitare di trasformare un giudizio risarcitorio (e la natura stessa della responsabilità civile) in una
sorta di vicenda para-assicurativa ex post, consentendo sempre e comunque, mercé l’automatica
allegazione della presunzione semplice in discorso, di introdurre istanze risarcitorie anche se la
volontà della gestante sarebbe stata diversamente orientata.
Diverrebbe, in tal caso, vicenda processuale non incerta, ma già segnata ab origine nel suo vittorioso
esito finale, quella che finisce per rendere automatico ogni risarcimento all’esito di una semplice
richiesta diagnostica nonostante la impossibilità della prova di un fatto negativo da parte del
convenuto (la volontà di non abortire nonostante la diagnosi infausta).
7.7.- La rappresentanza del minore
La questione centrale che pone il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in proprio in
capo al minore, quanto al suo conseguente esercizio per mezzo dei suoi legali rappresentanti - specie
quando la intensità del suo handicap gli impedisce e gli impedirà in futuro qualunque espressione di
volontà -, ruota attorno al pur ipotizzato conflitto di interessi che potrebbe investire i soggetti della
vicenda risarcitoria.
Sono state già esposte in precedenza le ragioni poste a fondamento dell’esclusione di ogni potenziale
conflitto, e della insostemibilità di ogni ipotetica rivalsa da parte del minore nei confronti della
madre.
A quest’ultima, e a lei soltanto, è rimessa la facoltà di decidere, in solitudine, della prosecuzione o
meno della gravidanza.
La dimensione diacronica della vicenda risarcitoria mostra, così, tutta la sua rilevanza sul piano del
diritto, volta che, vulnerata la facoltà di decidere per tale interruzione, il rapporto di
immedesimazione rappresentativa, anch’esso spettante per legge alla madre (oltre che al padre),
consente a quest’ultima di invocare un risarcimento per la nascita malformata del figlio.
Possono in tal guisa trovare soluzione le stesse aporie più volte denunciate in dottrina circa la
legittimità di una richiesta risarcitoria avanzata dal padre (oltre che dalla madre) del minore
malformato e non anche da quest’ultimo, aporie che non avrebbero potuto, peraltro, costituire esse
sole giustificazione e motivazione, in punto di diritto, della soluzione oggi adottata.
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***
8.- Il sesto motivo risulta assorbito nell’accoglimento di quelli che lo precedono, dovendo il giudice
del merito provvedere ad una completa revisione della disciplina delle spese processuali, il cui
precedente regolamento deve intendersi (a prescindere da qualsiasi considerazione sul quantum), ipso
facto caducato nell’an.
9.- In applicazione dei suindicati principi di diritto, il giudice del rinvio, da designarsi nella stessa
Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, nel regolare anche le spese del giudizio di
legittimità, è chiamato a rivalutare ex novo la fondatezza della richiesta risarcitoria sia della minore,
sia dei suoi familiari.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo, secondo, terzo, quarto e quinto motivo del ricorso, dichiara assorbito il
sesto, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte di
appello di Venezia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile, il 10.1.2012.
IL CONSIGLIERE ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Il nascituro ha soggettività giuridica ed ha diritto a nascere sano, con il conseguente obbligo dei
sanitari di risarcirlo (diritto al risarcimento che per il nascituro, avente carattere patrimoniale, è
condizionato, quanto alla titolarità, all'evento nascita ex art. 1, comma 2, c.c., ed azionabile dagli
esercenti la potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del
consenso informato) in ordine alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto
instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sia del
dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso. Il nascituro, diversamente, non
ha diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessiti ai fini dell'interruzione di
gravidanza (e non della mera prescrizione di farmaci), stante la non configurabilità del diritto a non
nascere (se non sano).
Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-05-2009, n. 10741
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 28-2-92, il 5-3-92 ed il 4-5-92 i coniugi P.D. e V.S., in proprio e quali genitori
del minore F., premettevano: che la V. non era riuscita ad ottenere, dopo il matrimonio, la gravidanza
per problemi di "annidamento", per cui, nel (OMISSIS), si era rivolta in (OMISSIS) al Centro Abate,
del prof. A.V., ove era stata affidata alle cure sia del dott. C.D. che del dott. R. C.; che le era stato
prescritto un medicinale denominato Clomid e che dopo alcuni mesi era insorta la gravidanza; che, a
seguito di ciò, il C. sospendeva la cura a base di Clomid e prescriveva altra terapia a base di
Progesteronum; che, durante la terapia, la V. veniva sottoposta ad indagini ed accertamenti, senza
però il rilascio di relativa certificazione medica; che in data (OMISSIS) la stessa V. partoriva presso
detto Centro, con la nascita di un bambino ai nome F., il quale presentava gravissime malformazioni
(consistenti in ectrodattilia del tipo monodactilus agli arti superiori, lobster olge agli arti inferiori,
ipospadia ed atresia anale); che, a seguito di accertamenti, era stato escluso che dette malformazioni
fossero di origine ereditaria; che, pertanto, le stesse erano dipese dalla somministrazione dei suddetti
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medicinali e non erano state rilevate nel periodo di gravidanza e di sviluppo del feto, con grave
responsabilità dei medici curanti.
Ciò premesso, convenivano in giudizio il Centro Abate, in persona di A.V., nonchè i dottori C. e R.
per sentirli dichiarare responsabili dei fatti in questione, con condanna al risarcimento di tutti i danni
patiti.
Si costituiva l' A., deducendo di non avere alcuna responsabilità contrattuale o extracontrattuale nei
confronti della V. (che si era affidata alle cure degli arai convenuti e non aveva partorito nel Centro);
inoltre, che presso detto Centro era stata solo in alcune occasioni visitata dal C. (al quale era
permesso di ricevere i pazienti nella sola giornata di sabato, usando però ricettali suoi personali).
Si costituivano altresì il C. ed il R., deducendo: di essere meri esecutori delle direttive del Centro
Abate e del tutto privi di autonomia terapeutica; che la V. non aveva avuto problemi di annidamento
bensì di ovulazione (con conseguente prescrizione del Clomid, sospeso dopo l'inizio detta
gravidanza); che sia il Clomid che il Progesteronum non avevano natura teratogena e che, comunque,
le denunziate malformazioni non potevano essere accertate, mediante ecografia, prima del quinto
mese di gravidanza.
Espletate due consulenze medico - legali di ufficio, nonchè prove testimoniali e prodotta
documentazione varia, l'adito Tribunale di Napoli, con sentenza depositata in data 25-5-2001,
dichiarava la responsabilità esclusiva dell' A., condannandolo al pagamento, in favore del P. e della
V., quali genitori di F., della somma di L. 2.152.400.000, nonchè in favore della V. in proprio della
somma di L. 78.037.000 e del P. in proprio della somma di L. 41.508.000, oltre interessi e spese di
lite; rigettava la domanda nei confronti del C. e del R. e dichiarava compensate le spese di lite ira
quest'ultimi e gli attori.
Proponeva appello l' A. che, dopo aver chiesto in via preliminare la sospensione dell'efficacia
esecutiva della sentenza impugnata, contestava che vi fosse prova della prescrizione alla V. di due
cicli di Clomid, come ritenuto dal Tribunale, e deduceva che l'unica prescrizione di tale farmaco
risultava in data antecedente a quella erroneamente ritenuta dal Tribunale (per curia relativa
assunzione era avvenuta in epoca lontana dalla gravidanza) e che non era necessario in proposito
richiedere alcun "consenso informato".
Aggiungeva che il Clomid era privo di effetti teratogeni e che essendo stato prescritto in epoca in cui
non vi era gravidanza non era possibile prevedere eventuali malformazioni del feto, teoricamente
rilevabili in epoca in cui non era più possibile ricorrere all'aborto terapeutico. Censurava, infine, la
mancata declaratoria di responsabilità dei dottori C. e R., il tasso dei riconosciuti interessi
compensativi e la condanna alte spese di lite.
Si costituivano il R. ed il C., che contestavano la natura teratogena del Clomid ed affermavano
nuovamente che le malformazioni non potevano essere rilevate in tempo utile per praticare un aborto
terapeutico; il solo C. eccepiva la prescrizione quinquennale del diritto degli attori nei suoi confronti
e l'assenza da parte sua della facoltà di prescrivere, autonomamente, terapie nel Centro.
Si costituivano altresì i coniugi P. - V., in proprio e nella qualità, proponendo a loro volta aspetto
incidentale, con il quale chiedevano dichiararsi anche la responsabilità del C. e del R., censurando la
liquidazione dei danni per come effettuata dal Giudice di primo grado.
La Corte d'Appello di Napoli, previa sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza per le somme
eccedenti l'importo di L. 500.000.000, con sentenza n. 995, depositata in data 19-3-2004, così
statuiva: "in parziale accoglimento dell'appello principale, nonchè dell'appello incidentale dei coniugi
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P., dichiara anche il dott. C.D. responsabile dei danni subiti dai predetti coniugi e dal loro figlio F. e
lo condanna, in solido con dott. A.V., al pagamento, in favore dei coniugi P.- V. in proprio e nella
qualità, delle somme già liquidate dal Tribunale a titolo di danni, con detrazione degli importi già
ricevuti dai danneggiati, nonchè alle rifusione delle spese di lite di primo grado già liquidate in favore
degli attori".
Avverso detta pronuncia propone ricorso, con atto notificato in data 3-2-2005, l' A. con tre motivi,
(r.g.n. 3697/05), illustrati da memoria; resistono con autonomi controricorso il P. e la V. nonchè il C.,
che, a sua volta, propone ricorso incidentale con cinque motivi (r.g. n. 7013/2005, con atto notificato
in data 14/15-3-2005, anche a P.F., divenuto maggiorenne in data (OMISSIS)), illustrati da memoria,
cui resiste l' A. con controricorso. Il C. ha proposto altresì ulteriore ricorso (r.g.n. 7006/2005, con atto
notificato sempre in data 14/15-3- 2005, anche a P.F.), e sempre con cinque motivi del tutto analoghi
a quelli contenuti nel ricorso incidentale; in relazione a detto ricorso del C., resistono con autonomi
controricorso sia l' A., sia i coniugi P.- V., sia in proprio P. F. (come detto divenuto maggiorenne).
Infine, il C. ha depositato nota di replica al P.G. in udienza.
Motivi della decisione
Ricorso A..
Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043, 1223 e 2056
c.c., nonchè dei principi in materia di rapporto di causalità; omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione.
Si censurano due profili argomentativi della Corte territoriale, in ordine al disposto risarcimento dei
danni: la violazione dell'obbligo informativo nei confronti della V. da parte dei medici curanti, "che
non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentati dal farmaco prescritto"; l'assunzione da parte
della V. di clomifene (contenuto nel Clomid), causa delle malformazioni del figlio.
Si afferma che "la conclusione è infondata. La Corte napoletana non imputa ai medici di aver
prescritto un farmaco erroneo, cioè incapace di curare la sterilità, ma di aver violato il dovere
informativo circa i rischi di esso. L'obbligazione di curare è stata esattamente e diligentemente
adempiuta. I medici non hanno prescritto un farmaco erroneo, e dunque, sotto questo riguardo, non
sono responsabili nè verso i genitori nè verso il minore".
Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt 115, e 191 e sgg. c.p.c.. e
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
Si afferma che, in ordine alla ritenuta somministrazione del Clomid in due cicli (uno anteriore alla
gravidanza, l'altro "più prossimo"), gli attori non hanno fornito alcuna prova (al di fuori della sola
dichiarazione resa dalla V. al consulente tecnico d'ufficio).
Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 32 Cost., art. 5 c.c.,
nonchè dei principi della L. n. 194 del 1978 e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su
un punto decisivo della controversia. Si deduce che "la sentenza impugnata omette di motivare
intorno al titolo di risarcimento accordato al minore. Posto che esso non è riconducibile
all'inadempimento del dovere informativo, è altresì da escludere che discenda da violazione del
diritto a non nascere".
Ricorso incidentale C..
Con il primo motivo si deduce "violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 324, 329, 345, 346 e
167 c.p.c., concernenti norme di legge sul procedimento, per superamento dei limiti della domanda e
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del giudicato formatosi sulla sentenza di primo grado. Violazione dei principi del contraddittorio e
del diritto di difesa (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)".
Si afferma che "del tutto illegittimamente la Corte d'Appello ha disposto la condanna del C.D. al
risarcimento dei danni pretesi dagli attori, senza considerare che mancava una domanda delle parte in
tal senso ed anzi, per effetto della mancata impugnazione da parte dei coniugi P. del capo della
sentenza di primo grado concernente il rigetto della domanda nei confronti del C., nei loro confronti
si era formato il giudicato"; si aggiunge che erroneamente la Corte d'Appello ha dichiarato la
responsabilità anche del C. in quanto mancava una domanda in tal senso; si aggiunge ancora che "la
domanda originaria formulata in citazione dai coniugi P. anche nei confronti dei C. e R. per la
declaratoria di responsabilità professionale e la condanna al risarcimento dei danni, già relegata in
forma subordinata nelle conclusioni rassegnate in primo grado dagli attori e comunque esplicitamente
rigettata dal Tribunale, doveva ritenersi del tutto abbandonata in grado di appello, non essendo stata
riproposta (art 346 c.p.c.) con appello incidentale dagli stessi coniugi P., nè avendo comunque
formato oggetto di considerazioni nei motivi della loro impugnativa parziale, con conseguente
acquiescenza (art. 329 c.p.c., u.c.) e formazione del giudicato".
Con il secondo motivo si deduce violazione dell'artt. 1228, 1299, 2055 e 2232 c.c., nonchè violazione
e falsa applicazione degli artt. 324, 329 e 346 c.p.c. concernenti norme di legge sul procedimento e
sul giudicato interno. Si afferma che "del tutto illegittimamente la Corte d'Appello di Napoli ha
condannato il C.D. al risarcimento dei danni nei confronti degli attori senza considerare che,
essendosi formato il giudicato sulla circostanza che il contratto d'opera professionale era sorto
direttamente tra la V. ed il A. nonchè in ordine alla sussistenza di un rapporto di collaborazione
retribuita tra l' A. ed il C., la fattispecie rientrava nella previsione dell'art. 2232 c.c., con la
conseguente non configurabitità di una responsabilità diretta dei collaboratori nei confronti dei clienti
del professionista, dovendo essi rispondere soltanto in sede di eventuale rivalsa esercitata dal
professionista titolare, ove ne sussistano le condizioni di legge".
Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 132 e 189 c.p.c. nonchè
118 disp. att. c.p.c., concernenti norme di legge sul procedimento, in relazione ai limiti della
domanda (att. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Violazione e falsa applicazione degli artt 1223 e 2056 c.c. per la
determinazione dei danni. Omessa motivazione.
Si afferma che "la Corte d'Appello è incorsa in un'ulteriore grave violazione là dove, condannando il
C. al risarcimento dei danni liquidati dal Tribunale, ne ha condiviso l'errore, consistente
nell'inammissibile superamento, per di più senza la benchè minima motivazione, delle indicazioni
quantitative fornite dagli attori in ordine al danno biologico ed al danno morale".
Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1228, 2043, 2232 e
2236 c.c. (art 360 c.p.c., nn. 3 e 4).
Violazione e falsa applicazione degli artt 113, 115, 116 e 132 c.p.c., nonchè art. 118 disp. att. c.p.c.,
concernenti norme di legge su procedimento e sulla valutazione delle prove per superamento delle
risultanze processuali (art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5). Omessa motivazione.
Si afferma che "manca agli atti il benchè minimo elemento per ritenere che il C. non avesse
provveduto ad informare la paziente in ordine ai rischi potenziali dell'utilizzazione del farmaco e,
stante la natura extracontrattuale dell'asserita responsabilità verso gli attori di tale medico
collaboratore dell' A., l'onere della prova incombeva ai coniugi P.".
Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1225, 2043, 2056 e
2697 c.c.. Violazione degli artt. 112, 115, 116 e 132 c.p.c. nonchè art. 118 disp. att c.p.c. concernenti
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norme di legge sul procedimento e sulla valutazione delle prove (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Omessa
motivazione. Si afferma che "in ogni caso, la sentenza impugnata è palesemente illegittima là dove la
Corte d'Appello, pur individuando la fonte della responsabilità dei medici unicamente nell'asserita
omissione dell'informativa alla paziente sui rischi dell'utilizzazione del farmaco, ha poi disposto la
condanna al risarcimento anche in favore del minore per le malformazioni con cui è nato, quasi che le
stesse potessero ritenersi cagionate dall'omessa informativa".
Preliminarmente, disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 335 c.c., deve rilevarsi sia che
ammissibile è il ricorso principale nella parte in cui risulta proposto nei confronti di P. D. e V.S.,
oltre che in proprio, quali genitori esercenti la potestà sul minore F., in quanto ad essi notificato in
data 3-2-2005 e prima che detto minore diventasse maggiorenne in data (OMISSIS); sia che è
ammissibile il ricorso incidentale del C. (nella "versione" del ricorso incidentale come anche del
ricorso dallo stesso C. proposto come "principale", ricorsi entrambi dall'identico contenuto) in quanto
proposto con atto notificato in data 17-3-05 allo stesso P. F., ormai diventato maggiorenne, in
proprio, come attestato dalla cartolina dell'avviso di ricevimento, prodotta in atti, hi relazione a tale
notifica (del ricorso incidentale del C.) si ribadisce quanto già statuito da questa Corte (Cass. n.
116/2004), secondo cui "qualora la capacità di stare in giudizio in rappresentanza del figlio minore
venga meno per il raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo dopo la pubblicazione
della sentenza, l'impugnazione va proposta nei confronti dell'ex minore divenuto maggiorenne (e
notificata presso il suo domicilio reale) e non nei confronti dei genitori (ovvero del figlio
rappresentato dai genitori)".
In relazione al ricorso principale il primo motivo presenta profili, da un lato, di inammissibilità e,
dall'altro, di infondatezza.
Infatti, quanto al primo aspetto, detta doglianza non individua la ratio decidendi dell'impugnata
decisione sul punto perchè, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, la Corte napoletana non si
limita a ritenere violato il dovere informativo in ordine ai rischi connessi all'assunzione, da parte
della madre, di clomifene ma imputa ai medici anche la prescrizione, ai fini dell'ovulazione, di detto
farmaco con proprietà teratogene, sulla base di quanto specificamente asserito in una delle espletate
consulenze tecniche di ufficio e dei dati statistici in essa indicati; ciò risulta in modo evidente dalla
motivazione della pronuncia in esame in cui, dopo aver premesso non rispondere al vero "che l'unica
prescrizione del Clomid alla paziente sia stata fatta in epoca lontana dall'ovulazione", si afferma che
il consulente "ha descritto una casistica di malformazioni su nati da donne, che avevano assunto il
clomifene; in particolare ha riportato che, su 2269 gravidanze associate con somministrazione di tale
farmaco, si sono avuti 58 prodotti del concepimento malformati ed ha descritto le malformazioni
riscontrate, fra le quali ci sono anche quelle di cui è affetto il minore F., l'ipospadia, la sindattilia e le
lesioni congenite intestinali. Ha aggiunto che in otto madri del gruppo di 58 il farmaco fu assunto
durante le prime 6 settimane di gravidanza. Ha evidenziato, inoltre, che nei primi 42 mesi di
commerciabilità della sostanza si era avuta notizia di 7 infanti malformati su 7 gravidanze. Tali dati
statistici sono incontrovertibili e, come ha assunto il primo ausiliare, la considerazione della scarsa
frequenza della teratogenicità non giustifica certo la nescienza sulla pericolosità del farmaco, già
evidenziata dalla letteratura all'epoca dell'assunzione da parte della V., nè l'aver trascurato, da parte
dei medici, te precauzioni necessarie per la somministrazione. Si noti a tale ultimo proposito che
anche il secondo ausiliario, che pure ha assunto una posizione più cauta sulla capacità teratogena del
Clomid, non l'ha negata recisamente ...".
Ed è proprio sulla ritenuta, in premessa, potenzialità dannosa del farmaco in questione, che la Corte
di merito configura la sussistenza di colpevolezza in ordine al mancato esercizio di una corretta
informazione, sostenendo che "da tutto quanto osservato discende innanzitutto la considerazione che
i medici curanti, che non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentanti dal farmaco prescritto
per la presenza di studi scientifici in proposito anche all'epoca della prescrizione, sono colpevoli in
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quanto non hanno reso edotta la donna di tali rischi, anche se non frequenti; la conoscenza di essi
avrebbe consentito ai coniugi P. di valutare appieno la scelta di ricorrere o meno a tale farmaco per
indurre l'ovulazione, ben consapevoli delle possibilità, a cui andavano incontro, di insorgenza di
malformazioni nel feto".
Riguardo, poi, al secondo aspetto, il primo motivo è infondato là dove prospetta che la mancata
corretta informazione in questione ha inciso esclusivamente sul "potere di scelta" spettante i genitori
sul "se assumere o non assumere il farmaco" per cui "la violazione del dovere informativo può dar
luogo a risarcimento del danno soltanto in favore dei genitori, nel senso che "la condotta emissiva dei
medici determina la perdita del potere di scelta ma non presenta alcun rapporto di causalità con le
menomazioni del bambino. Altro è non informare, non trasmettere dati conoscitivi, che
consentirebbero una scelta consapevole; altro, determinare un danno fisico a soggetto diverso dalle
parti negoziali".
Tale test non può assolutamente essere condivisa: ritiene, infatti, la Corte che, limitatamente alla
titolarità di alcuni interessi personali protetti, vada affermata la soggettività giuridica del nascituro, e,
in via consequenziale, il nesso di causalità tra il comportamento dei medici (di omessa informazione
e di prescrizione dei fermaci dannosi) e le malformazioni dello stesso nascituro che, con la nascita,
acquista l'ulteriore diritto patrimoniale al risarcimento. L'asserzione della configurabilità del
nascituro quale soggetto giuridico comporta lo sviluppo di due ineludibili premesse argomentative:
l'attuale modo di essere e di strutturarsi del nostro ordinamento, in particolare civilistico, quale basato
su una pluralità di fonti, con conseguente attuazione di ed. principi di decodificazione e
depatrimonializzazione e la funzione interpretativa del giudice in ordine alla formazione della ed.
giurisprudenza- normativa, quale autonoma fonte di diritto.
E' indubbio che il vigente codice civile, contrariamente alle sue origini stanche sulla scia delle
codificazioni europee ottocentesche che videro nel code napoleon la più evidente manifestazione, non
rappresenta oggi più l'unica fonte di riferimento per l'interprete in un ordinamento caratterizzato da
più fonti, tra cui una posizione preminente spetta alla Costituzione repubblicana del 1948 (che ha
determinato il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, caratterizzato da un punto di vista
giuridico dalla cd. centralità della persona), oltre alla legislazione ordinaria (finalizzata anche
all'adeguamento del testo codicistico ai principi costituzionali), alla normativa comunitaria, ed alla
stessa giurisprudenza normativa;
tale pluralità di fonti (civilistiche) ha determinato i due suddetti fenomeni, tra loro connessi, della
decodificazione e della depatrimonializzazione, intendendosi la prima come il venir meno della
tradizionale previsione di disciplina di tutti gli interessi ritenuti meritevoli di tutela in un unico testo
normativo, a seguito del subentrare di altre fonti, e la seconda nell'attribuzione alla persona (in una
prospettiva non individuale ma nell'ambito delle formazioni sociali in cui estrinseca la propria
identità e l'insieme dei valori di cui è espressione) una posizione di centralità, quale portatrice di
interessi non solo patrimoniali ma anche personali (per quanto esplicitamente previsto, tra l'altro,
nello stesso testo costituzionale, con particolare riferimento agli artt. 2 e 32).
In tale assetto ordinamentale rapporto della giurisprudenza, in specie di legittimità nell'espletamento
della funzione di "nomofilachia" (vale a dire di indirizzo ai imi di un'uniforme interpretazione delle
norme) della Corte di Cassazione, assume sempre più rilievo nel sistema delle fonti in linea con la
maggiore consapevolezza dei giudici di operare in un sistema ordinamentale che, pur essendo di civil
law e, quindi, non basato su soli principi generati come avviene nei paesi di common law (Inghilterra,
Stati Uniti ed altri), caratterizzati dal vincolo che una determinata pronuncia giurisprudenziale
assume per le decisioni successive, si configura come semi-aperto perchè fondata non solo su
disposizioni di legge riguardanti settoriali e dettagliate discipline ma anche su cd. clausole generati, e
cioè su indicazioni di "valori" ordinamentali, espressi con formule generiche (buona fede, solidarietà,
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funzione sociale della proprietà, utile sociale dell'impresa, centralità delta persona) che scientemente
il legislatore trasmette all'interprete per consentirgli, nell'ambito di una più ampia discrezionalità, di
"attualizzare" il diritto, anche mediante l'individuazione (là dove consentito, come nel caso dei diritti
personali, non tassativi) di nuove aree di protezione di interessi.
In tal modo, con evidente applicazione del modello ermeneutico tipico della interessenjurisprudenz
(cd. giurisprudenza degli interessi, in contrapposizione alla begriffsjurisprudenz o giurisprudenza dei
concetti quale espressione di un esasperato positivismo giuridico) si evita sia il rischio, insito nel cd.
sistema chiuso (del tutto codificato e basato sul solo dato testuale delle disposizioni legislative senza
alcun spazio di autonomia per l'interprete), del mancato, immediato adeguamento all'evolversi dei
tempi, sia il rischio che comporta il cd. sistema aperto, che rimette la creazione dette norme al
giudice sulla base anche di parametri socio-giuridici (ordine etico, coscienza sociale etc.) la cui
valutazione può diventare arbitraria ed incontrollata.
La funzione interpretativa del giudice, i suoi limiti, la sua vis expansiva sono, dunque,
funzionalmente collegati all'assetto costituzionale del nostro ordinamento quale Stato di diritto
anch'esso caratterizzato dal Rule of law (vale a dire dal principio di legalità), assetto in cui il primato
detta legge passa necessariamente attraverso l'attività ermeneutica del giudice.
Pertanto, proprio in virtù di una interpretazione basata sulla pluralità delle fonti e, nel caso in esame,
sulla clausola generale della centralità della persona, si addiviene a ritenere il nascituro soggetto
giuridico. Tale tesi trova conforto in numerose disposizioni di legge, oltre che in precedenti
giurisprudenziali di questa Corte e della Corte Costituzionale. Ed, infatti, la L. n. 40 del 2004, art. 1
nell'indicare le finalità della procreazione medicalmente assistita statuisce la tutela dei diritti "di tutti i
soggetti coinvolti compreso il concepito" (tra l'altro, la Corte costituzionale ha dichiarato con
sentenza n. 45/2005 inammissibile la richiesta di sottoporre a referendum abrogativo detta intera
legge perchè "costituzionalmente necessaria" in relazione agli interessi tutelati, anche a livello
internazionale, con particolare riferimento alla Convenzione di Oviedo del 4-4-1997); la L. n. 194 del
1978, art. 1 prevede testualmente che "lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e
responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio"; l'art
254 c.c., comma 1 prevede che il riconoscimento del figlio naturale può effettuarsi non solo a favore
di chi è già nato ma anche dopo il solo concepimento; la L. n. 405 del 1975, nel disciplinare
l'istituzione dei consultori familiari, afferma esplicitamente l'esigenza di protezione della salute del
"prodotto del concepimento"; l'art. 32 Cost. (che oltre a prevedere come fondamentale il diritto alla
salute e che ha costituito norma primaria di riferimento per l'interprete in relazione all'evoluzione dei
diritti della persona), riferendosi all'individuo quale destinatario della relativa tutela, contempla
implicitamente la protezione del nascituro; "il diritto alla vita", quale spettante ad "ogni individuo", è
esplicitamente previsto non solo dall'art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo del
1948 (approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-11-1948) ma anche dall'art. 2
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7-12-2000 (poi inglobata nella
Costituzione europea), alla quale il recente Trattato di Lisbona (con il quale in data 13-12- 2007 i
capi dei governi europei hanno deciso di dotare l'Unione europea di nuovo assetto istituzionale) ha
riconosciuto l'efficacia, negli ordinamenti degli Stati-membri, propria dei Trattati dell'Unione
europea; la Corte Costituzionale con la sentenza n. 35/1997 attribuisce al concepito il diritto alla vita,
dando atto che il principio della tutela della vita umana è stato oggetto anche di un riconoscimento
nella Dichiarazione sui diritti del fanciullo (approvata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite
nel 1959 a New York e nel cui preambolo è previsto che "il fanciullo, a causa della sua mancanza di
maturità fisica ed intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una
protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita").
Deve, quindi, oggi intendersi per soggettività giuridica una nozione senz'altro più ampia di quella di
capacità giuridica delle persone fisiche (che si acquista con la nascita ex art. 1 c.p.c., comma 1), con
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conseguente non assoluta coincidenza, da un punto di vista giuridico, tra soggetto e persona, e di
quella di personalità giuridica (con riferimento agli enti riconosciuti, dotati conseguentemente di
autonomia "perfetta" sul piano patrimoniale):
sono soggetti giuridici, infatti, i titolari di interessi protetti, a vario titolo, anche sul piano personale,
nonchè gli enti non riconosciuti (che pur dotati di autonomia patrimoniale "imperfetta" sono idonei a
essere titolari di diritti ed a esercitarli a mezzo dei propri organi rappresentativi; sul punto, Cass. n.
8239/2000).
In tale contesto, il nascituro o concepito risulta comunque dotato di autonoma soggettività giuridica
(specifica, speciale, attenuata, provvisoria o parziale che dir si voglia) perchè titolare, sul piano
sostanziale, di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, il diritto alla salute o
integrità psico-fisica, il diritto all'onore o alla reputazione, il diritto all'identità personale, rispetto ai
quali l'avverarsi della condicio iuris della nascita ex art. 1 c.c., comma 2 (sulla base dei due
presupposti della fuoriuscita del feto dall'alveo materno ed il compimento di un atto respiratorio, fatta
eccezione per la rilevanza giuridica del concepito, anche sul piano patrimoniale, in relazione alla
successione mortis causa ex art. 462 c.c. ed alla donazione ex art. 784 c.c.) è condizione
imprescindibile per la toro azionabilità in giudizio a fini risarcitoli; su tale punto non può non
rilevarsi come la questione della soggettività del concepito sia stata già posta più volte all'attenzione
del legislatore italiano con alcuni disegni e proposte di legge (tra cui in particolare il disegno di L. n.
436 del 1996, di iniziativa di alcuni senatori e la proposta di L. n. 2965 del 1997 di iniziativa di
alcuni deputati).
Ne deriva che, se da un lato, per quanto esposto, appaiono condivisibili le asserzioni già in
precedenza espresse da questa Cotte e di cui alla sentenza n. 11503/1993 (poi pedissequamente fatte
proprie dalla sentenza n. 14488/2004) secondo cui "lo stesso diritto alla salute che trova fondamento
nell'art. 32 Cost., per il quale la tutela della salute è garantita come fondamentale diritto
dell'individuo, oltre che interesse della collettività, non è limitato alle attività che si esplicano dopo la
nascita od a questa condizionate, ma deve ritenersi esteso anche al dovere di assicurare le condizioni
favorevoli per l'integrità del nascituro nel periodo che la precedono. Numerose norme prevedono del
resto forme di assistenza sanitaria atte gestanti non al solo fine di garantire la salute della donna ma
altresì al fine di assicurare il miglior sviluppo e la salute stessa del nascituro", non altrettanto può
dirsi, dall'altro lato, in ordine alle ulteriori affermazioni (sempre in dette sentenze) secondo cui
"attraverso tali norme non viene ovviamente attribuita al concepito la personalità giuridica, ma dalle
stesse si evince chiaramente che il legislatore ha inteso tutelare l'individuo sin dal suo concepimento,
garantendo se non un vero e proprio diritto alla nascita, che sia fatto il possibile per favorire la nascita
e la salute". Ciò in quanto, a parte la considerazione che attualmente l'espressione personalità
giuridica ha acquisito uno specifico significato tecnico (come sopra già detto) con riferimento alla
sola categoria degli enti riconosciuti (perchè è proprio il riconoscimento che attribuisce personalità,
ma non soggettività, e con essa un particolare regime di responsabilità patrimoniale), non si può
riconoscere all'individuo- concepito la titolarità di un interesse protetto senza attribuirgli soggettività.
Con specifico riferimento al thema decidendum in esame il nascituro ha, dunque, il diritto a nascer
sano, in virtù, in particolare, degli artt. 2 e 32 Cost. (senza dimenticare l'art. 3 detta citata
Dichiarazione di Diritti fondamentali dell'Unione europea che esplicitamente prevede il diritto di
ogni individuo all'integrità psicofisica); su tale aspetto, la relativa lesione in questione a carico di P.F.
risulta correttamente affermata e motivata sulla base dell'inadempimento detto specifico obbligo a
carico sia dell' A., nella qualità, che del C. di non somministrare medicinali potenzialmente dannosi,
anche dal punto di vista teratogeno nonchè dell'obbligo di corretta informazione, ai fini del consenso,
nei confronti della V. in ordine ai rischi della terapia adottata (obbligo, quest'ultimo, che "si riflette"
anche nei confronti di P.F., quale terzo destinatario di effetti protettivi in relazione al rapporto madremedico).
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73
La Corte territoriale, infetti, sulla base delle risultanze processuali e della discrezionale valutazione
dei dati delle espletate consulenze tecniche d'ufficio, non ulteriormente esaminabili nella presente
sede di legittimità, dopo aver premesso che "l' A. ha dichiarato nel suo atto di appello di non
impugnare la sentenza, nella parte in cui ha riconosciuto che la V. si rivolse al suo studio (e non al
C.) per la cura della sua sterilità ed ha, conseguentemente, dichiarato resistenza di un rapporto
contrattuale tira l'appellante e la donna, da cui è derivata la responsabilità del detto medico per le
malformazioni del minore F.", ha statuito che "da tutto quanto osservato discende innanzitutto la
considerazione che i medici curanti, che non potevano essere all'oscuro dei rischi rappresentati dal
farmaco prescritto per la presenza di studi scientifici in proposito anche all'epoca della prescrizione,
sono colpevoli in quanto non hanno reso edotta la dorma di tali rischi, anche se non frequenti; la
conoscenza di essi avrebbe consentito ai coniugi P. di valutare appieno la scelta di ricorrere o meno a
tale farmaco per indurre l'ovulazione, ben consapevoli delle possibilità, a cui andavano incontro, di
insorgenza di malformazioni nel feto. In secondo luogo, considerato che non può escludersi la
capacità teratogena del clomifene, la sua presenza in circolo all'epoca del concepimento, l'assenza di
aberrazioni cromosomiche nei genitori del piccolo F. e di altre cause scatenanti, nonchè il verificarsi
proprio di alcune di quelle malformazioni evidenziate dalla letteratura scientifica e dalla stessa casa
farmaceutica produttrice della sostanza, deve riconoscersi che le malformazioni da cui è affetto il
minore fin dalla nascita vadano ascritte alla assunzione, da parte della madre, di clomifene".
Detto argomentare evidenzia che il comportamento posto in essere dall' A. e dal C. ha riguardato,
provocando i danni per cui è processo, P.F. dopo il suo concepimento (questione di fatto non
ulteriormente valutabile da questa Corte) e risulta in linea con quanto già asserito dalla
giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità medica nei confronti del nascituro in ordine alla
somministrazione di fermaci anche potenzialmente dannosi per la salute, e indipendentemente da una
corretta informazione ai fini del consenso. Deve premettersi, in generale, che sia il contratto che la
paziente pone in essere con la struttura sanitaria e sia il contratto della stessa con il singolo medico
risultano produttivi di effetti, oltre che nei confronti delle stesse parti, anche di ulteriori effetti, ed.
protettivi, nei confronti del concepito e del genitore, come terzi (sul punto, tra le altre, Cass. n.
14488/2004, n. 698 del 2006, n. 13953/2007, e n. 20320/2005); ciò in quanto, con specifico
riferimento al tema in esame, l'efficacia del contratto, che si determina in base alla regola generale ex
art. 1372 c.c. ovviamente tra le parti, si estende a favore di terzi soggetti, più che in base alla pur
rilevante disposizione di cui all'art. 1411 c.c., in virtù della lettura costituzionale dell'intera normativa
codicistica in tema di efficacia e di interpretazione del contratto, per cui tale strumento negoziale non
può essere considerato al di fuori della visione sociale (e non individuale) del nostro ordinamento,
caratterizzato dalla centralità della persona. Se, in tale prospettiva, causa del contratto (sia tipico che
atipico) è la sintesi degli interessi in concreto dei soggetti contraenti, quale fonte dei cd. effetti
essenziali che lo stesso produce, non può negarsi all'accordo negoziale che intercorre tra una
paziente- gestante, una struttura sanitaria ed i medici l'idoneità a dar luogo a conseguenze giuridiche
riguardo al soggetto nascituro e all'altro genitore, nella sua qualità di componente familiare; detto
accordo, infatti, "si proietta" nei confronti del destinatario "finale" del negozio (il concepito che poi
viene ad esistenza) come anche nei confronti di chi (genitore), insieme alla madre, ha i diritti ed i
doveri nei confronti dei figli di cui all'art 30 Cost. ed alla connessa normativa codicistica ed
ordinaria.
Riguardo al consenso informato, deve ribadirsi che la relativa esigenza del suo "realizzarsi" trova
riscontro, oltre che in quanto previsto in tema di Codice deontologico dei medici (dapprima nella
versione del 1998 agli artt. 30 e 32 e in seguito in quella del 2006 agli artt 33 e 35, per cui il medico
deve correttamente ed esaurientemente informare il paziente in ordine alle terapie praticate al fine di
ottenere il consenso), principalmente nell'art. 32 Cost., comma 2 (a norma del quale "nessuno può
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge"), nell'art. 13
Cost. (che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di
salvaguardia della propria salute ed integrità fisica), nella L. n. 833 del 1978, art. 33 (che esclude
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trattamenti salutari contro l'assenso del paziente se questo non è in grado di esprimerlo e non
ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.);
detto consenso ha come presupposto una attività di corretta informazione, sia nella fase di formazione
del consenso, sia nella fase antecedente che in quella di esecuzione del contratto, riconducibile (come
in altri settori) alla clausola generale di buona fede del nostro ordinamento civilistico ex artt. 1175,
1337 e 1375 c.c..
La violazione di tale obbligo comporta, consistendo in un dovere di comportamento, non un vizio
(nullità) del contratto stesso, in mancanza di una esplicita previsione in tal senso, bensì il
risarcimento del danno, come di recente affermato da questa Corte a Sezioni Unite (con la sentenza n.
26724/2007).
Come bene messo in evidenza nella decisione impugnata, nella vicenda in esame la mancata
osservanza dell'obbligo dei salutari del consenso informato ha riguardato esclusivamente la
somministrazione a fini terapeutici di medicinali poi rivelatisi dannosi per il concepito e non
l'eventuale esercizio del diritto all'interruzione di gravidanza;
in proposito ha affermato la Corte territoriale che "non appare rilevante la censura dell'appello
principale riguardante l'omessa rilevazione e comunicazione alla V. delle malformazioni del feto,
onde consentirle di ricorrere all'aborto terapeutico ... non potrebbe, a prescindere dalla sussistenza o
meno di tali requisiti, comunque riconoscersi un risarcimento a tale titolo, poichè la donna non ha
dimostrato che essa avrebbe effettivamente esercitato il diritto all'interruzione di gravidanza, se fosse
stata esattamente informata dal medico sulle malformazioni del feto": è dunque evidente che detta
mancanza di consenso (ai fini della terapia e non dell'interruzione di gravidanza), in relazione anche
agli effetti nei confronti del nascituro, ha determinato l'obbligo a carico del responsabile al
risarcimento del danno.
Non sfugge, infatti, a questo Collegio che la mancanza di consenso informato, nella diversa
fattispecie da quella in esame con riguardo alla interruzione volontaria di gravidanza (e non in
relazione alla sola effettuazione di una terapia), non può dar luogo a risarcimento anche nei confronti
del nascituro poi nato con malformazioni, oltre che nei confronti della gestante-madre; ciò perchè, in
base alla condivisibile giurisprudenza di questa Corte (sul punto, tra le altre, la già citata sentenza n.
14488 del 2004, la n. 6735/2002 e la n. 16123/2006) non è configurabile nel nostro ordinamento un
diritto "a non nascere se non sarto" perchè, in base alla L. n. 194 del 1978, sull'interruzione volontaria
di gravidanza, e in particolare agli artt. 4 e 6 nonchè all'art 7, comma 3, che prevedono la possibilità
di interrompere la gravidanza nei soli casi in cui la sua prosecuzione o il parto comportino un grave
pericolo per la salute o la vita della donna, deve escludersi nel nostro ordinamento il ed. aborto
eugenetico. Pertanto il concepito, poi nato, non potrà avvalersi del risarcimento del danno perchè la
madre non è stata posta nella condizione di praticare l'aborto; tale circostanza non è in contrasto con
la tutela riconosciuta al nascituro, quale soggetto giuridico, ed ai suoi interessi e non prospetta profili
di incostituzionalità per quanto affermato anche dalla Corte Costituzionale, con la pronuncia n.
27/1975 (anche se antecedente alla legge sulla interruzione volontaria di gravidanza), secondo cui,
pur sussistendo una tutela costituzionale del concepito, deducibile dall'art. 31 Cost., comma 2, e art. 2
Cost., gli interessi dello stesso possono venire in collisione con altri beni anch'essi costituzionalmente
tutelati (come, nel caso di specie, la salute della madre). Del pari la Corte territoriale ha ritenuto la
responsabilità dei medici curanti ( A. oltre che C.) in ordine alla somministrazione di un farmaco
dannoso, e ciò sulla base di una valutazione in fatto non ulteriormente censurabile nella presente sede
di legittimità; ha affermato in proposito detta Corte:
"nè può l' A. asserire che, poichè il parto fu preso dai soli dottori C. e R., ogni responsabilità sia da
ascrivere esclusivamente ai detti medici. Invero, innanzitutto è dimostrato con i testi e la
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documentazione delta camere di commercio che il reparto della Clinica (OMISSIS), ove partorì la
donna, è riservato alle partorienti in cura pressi il Centro Abate e che il dott. A. è azionista della detta
Clinica; in secondo luogo, le malformazioni al minore non sono derivante da una cattiva conduzione
del parto, bensì dalla somministrazione del clomifene, avvenuta durante il periodo in cui la V. era in
cura presso il Centro Abate ed affidata al dott. C..
Deve, dunque, ritenersi la responsabilità concorrente dei dottori A. e C. per i danni causati agli
attori." Altresì infondata è l'ulteriore censura, sempre espressa nel primo motivo, in ordine alla
dedotta violazione "dei principi in materia di rapporto di causalità". Sul punto, deve ribadirsi quanto
già statuito da questa Corte, secondo cui la valutazione del nesso di causalità (materiale), in sede
civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 c.p. (per cui un evento è da considerarsi
causato da un altro se il primo non può verificarsi in assenza del secondo), fatte salve alcune
peculiarità, presenta una rilevante differenza in relazione ai parametri probatori. Infatti, stante la
diversità dei valori in gioco tra la responsabilità penale (in cui principale punto di riferimento per il
legislatore è l'autore del reato, in relazione a fattispecie tipiche) e quella civile (in cui il legislatore è
di regola equidistante dalle parti contendenti, con particolari situazioni di tutela del danneggiato, e
vige, per l'illecito aquiliano, la regola generale del neminem laedere), nel primo caso occorre che sia
fornita la prova "oltre ogni ragionevole dubbio" (in tal senso l'ormai consolidato indirizzo della
giurisprudenza penale di questa Corte) mentre in materia civile vige il diverso principio del "più
probabile che non", ovvero della prevalenza probabilistica, rispetto alla (quasi) certezza (sul punto, di
recente Cass. S.U. n. 576/2008 nonchè Cass. n. 21619/2007).
Deve aggiungersi, poi, che in tema è responsabilità contrattuale (o da "contatto sociale", spesso
configurabile, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, in caso di attività medico- chirurgica
nell'ambito di strutture sanitarie), come nel caso in esame, rileva in particolar modo l'oggettiva
"inesattezza" dell'adempimento da parte del debitore da compararsi al soggettivo criterio di
valutazione del suo operato in base alla diligenza media o "rafforzata" di cui, rispettivamente, all'art.
1176 c.c., commi 1 e 2.
In definitiva, diversi sono i criteri di indagine in ordine alla responsabilità penale ed alla
responsabilità civile, perchè, con riferimento a quest'ultima, l'ilecito extracontrattuale è "sanzionato"
con il risarcimento del danno ove il fatto sia oggettivamente probabile e soggettivamente prevedibile,
mentre la responsabilità contrattuale, anch'essa fonte in primis dell'obbligo risarcitorio, sussiste se la
prestazione eseguita non corrisponde a quanto pattuito (per qualità, quantità, vizi, ritardo ed altro) in
stretta connessione con il grado di diligenza richiesto nel caso di specie.
Ciò premesso, nella vicenda in esame, risultando comunque l'accertamento della sussistenza del
nesso di causalità come quaestio facti, è da rilevare che logica e sufficiente è la motivazione sul
punto: sta l' A. che il C. sono stati ritenuti responsabili contrattualmente perchè, da un lato, non
hanno informato compiutamente la V. in relazione alla pericolosità dei fermaci prescritti, con ciò
venendo meno allo specifico dovere di comportamento sopra richiamato (sul rapporto di causalità in
tema di obbligo informativo, Cass. n. 14638/2004) e, dall'altro, hanno "inesattamente" adempiuto la
prestazione a loro carico, in modo non diligente ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2 prescrivendo un
farmaco dannoso per il nascituro (sul tema, Cass. n. 11316/2003). In entrambe dette ipotesi è
evidente la sussistenza del nesso di causalità: il comportamento omissivo ha impedito alla V. di
acconsentire al trattamento (o di negarlo) in piena consapevolezza dei rischi connessi; la prescrizione
del Clomid, sulla base di un'evidente e grave negligenza (per quanto accertato dalla Corte
territoriale), ha determinato le lesioni e le malformazioni in oggetto.
In relazione a tale ultimo punto in ordine alla diligenza professionale del medico-chirurgo, la
sentenza in esame risulta in linea con quanto più volte affermato di recente da questa Corte (tra le
altre, Cass. n. 12273/2004), secondo cui, in linea con la decisione della Consulta n. 16671973, deve
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affermarsi che la limitazione stabilita dall'art. 2236 c.c., della responsabilità del prestatore d'opera
intellettuale alla colpa grave, configurabile nel caso di mancata applicazione della cognizioni
fondamentali attinenti alla professione, è applicabile soltanto per la colpa da imperizia nei casi di
prestazioni particolarmente difficili; non possono invece mai difettare, neppure nei casi di particolare
difficoltà, nel medico gli obblighi di diligenza del professionista che è un debitore qualificato, ai
sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, e di prudenza, che pertanto, pur in casi di particolare difficoltà,
risponde per colpa lieve.
In parte infondato e in parte inammissibile è il secondo motivo (del ricorso principale) in ordine alla
prova "offerta" dagli attori, con specifico riferimento alla "duplice" somministrazione del farmaco,
nonchè in ordine all'accoglimento "acritico" da parte della Corte territoriale del contenuto della
relazione tecnica. Infondata è la censura sul regime probatorio nella controversia in esame: in
proposito deve ribadirsi quanto già statuito in modo consolidato da questa Corte (tra le altre Cass. n.
9471/2004) che, dando luogo la relazione che si instaura tra medico (nonchè la struttura sanitaria) e
paziente ad un rapporto di tipo contrattuale (quand'anche fondato su solo contatto sociale), in base
alla regola di cui all'art. 1218 c.c. compete non già al paziente "allegarne" e provarne la sussistenza,
ma al medico ed alla struttura sanitaria dimostrarne la mancanza; il paziente ha l'onere di "allegare"
l'inesattezza dell'adempimento non la colpa nè tanto meno la gravità della colpa.
Per il resto detto secondo motivo è inammissibile là dove tende ad un non consentito riesame delle
risultanze di causa (modalità di somministrazione del Clomid) o dei dati della consulenza di ufficio,
discrezionalmente valutabili dal giudice di merito.
Altresì inammissibile è il terzo motivo in quanto non censura, come tra l'altro esposto in sede di
esame deprimo motivo, la ratio decidendi dell'impugnata decisione, fondata sulla violazione di due
obblighi (quello relativo all'informazione della paziente e quello riguardante la prescrizione di un
farmaco potenzialmente dannoso), limitandosi ad esporre un convincimento proprio del ricorrente in
antitesi a quello della Corte territoriale, con specifico riferimento alla violazione del diritto a nascere
sano.
Non meritevole di accoglimento è anche il ricorso incidentale in relazione a tutti i motivi.
Quanto al primo motivo si osserva innanzitutto che la responsabilità del C. è stata affermata dalla
Corte di Napoli in virtù di un compiuto esame delle risultanze processuali e con ampia e logica
motivazione; ha dedotto, infatti, detta Corte che: "egli seguì la donna nell'ambito della struttura dell'
A. per tutto il periodo della gravidanza e quello precedente, le prescrisse i fermaci e gli esami
necessari e la operò al momento del parto, avvenuto con taglio cesareo ... egli non ha dimostrato la
assunta imposizione del protocollo da seguire e dei formaci da prescrivere da parte dell' A.; ... dagli
atti di causa è emerso che egli collaborava con il Centro Abate da alcuni anni come assistente del
titolare, era inserito nella struttura e veniva retribuito regolarmente per l'opera professionale prestata
in favore delle pazienti del Centro (cfr. deposizioni dei testi di parte attrice e dei convenuti C. e R.,
nonchè ricevute di pagamento degli emolumenti prodotti dal C.). Ma l'inserimento di un medico in
una struttura pubblica o privata non lo esime certamente da responsabilità personale per l'opera
professionale prestata ai pazienti, in considerazione del fatto che è proprio il medico che valuta il
caso del paziente, decide il programma terapeutico da attuare e ne controllo l'evolversi nel tempo".
Quanto poi alla dedotta mancanza di una domanda di accertamento di responsabilità (e di
conseguente pronuncia risarcitoria) nei confronti del C., si rileva: i coniugi P.- V. hanno convenuto
sia l' A., nella qualità, che i dottori C. e R. per sentirli condannare al risarcimento di tutti danni subiti
in relazione alla loro condotta complessiva nell'ambito del rapporto sanitario-paziente, che non può
non comprendere, per quanto già esposto, sia il dovere generale di una corretta informazione, sia
l'obbligo di non prescrivere farmaci potenzialmente lesivi del bene salute (come poi "in concreto"
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accertato in sede di consulenza di ufficio); inoltre, mentre l' A., in sede di gravame, non proponeva
alcuna domanda di condanna del C., solo prospettando una differente tesi rispetto a quanto ritenuto in
primo grado, la condanna, a titolo solidale, nei confronti dello stesso C. fu introdotta innanzi al
Tribunale da detti coniugi e dagli stessi riproposta, in via d'appello incidentale secondo grado.
Nè, infine, l'appello principale dell' A. introduceva questioni "nuove" (rispetto all'originaria causa
petendi), tali da comportare l'inammissibilità del gravame, con riflessi sull'impugnazione incidentale.
Privo di pregio è anche il secondo motivo, in ordine al presunto giudicato formatosi sull'inserimento
nella struttura e sull'esistenza di un rapporto contrattuale tra la V. e l' A., con ritenuta conseguente
esclusione della responsabilità "diretta" del C.:
in base degli artt. 1228 e 2232 c.c., va rilevato che la solidarietà tra vari soggetti obbligati verso il
danneggiato non è esclusa dal diverso titolo di responsabilità a carico degli "ausiliari" o "sostituti"
rispetto ai "padroni" o "committenti", soprattutto in casi in cui un unico evento dannoso è ascrivibile
a più persone, come nella vicenda in esame, in cui, per la Corte territoriale,il rapporto tra la V. ed i
sanitari in questione, pur nella diversità dei compiti di ciascuno, era da considerarsi unico (come
testualmente si afferma alle pagine 9 e 10 nella sentenza impugnata, in relazione alla "responsabilità
concorrente dei dottori A. e C. per in danni causati agli attori").
In definitiva, si evince dalla motivazione dei giudici di secondo grado la configurazione dell'attività
svolta dal C., nell'ambito del Centro Abate, da "contatto sociale" con la V., con conseguente
assunzione di obblighi personali e diretti da parte del C..
Inammissibili sono le doglianze di cui al terzo e il quarto motivo: a parte la considerazione, come già
detto, che la Corte di Napoli ha dato ampiamente conto delle ragioni del decidere, anche con
riferimento dei danni liquidati a P.F. ed ai suoi genitori (sia non patrimoniali che patrimoniali), le
censure, in particolare, di cui a detti motivi in parte sono generiche (non è infatti dato comprendere
"l'arbitrarietà" e la mancanza di motivazione in proposito dedotte dal ricorrente incidentale nel terzo
motivo) e in parte riguardano circostanze di fatto (l'entità delle lesioni e dei danni patrimoniali in
sede di terzo motivo nonchè il comportamento del C. in ordine all'obbligo di informazione, la prova
in proposito offerta dalla V., la dannosità del Clomid in relazione alla terapia praticata nell'ambito del
quarto motivo) non ulteriormente valutabili in questa sede.
Per quanto già esposto, assorbito è il quinto motivo.
In conclusione, deve affermarsi, stante la soggettività giuridica di P.F. sul piano personale (nei limiti
indicati), quale concepito, il suo diritto a nascere sano ed il corrispondente obbligo di detti sanitari di
risarcirlo (diritto al risarcimento che per il nascituro, avente carattere patrimoniale, è condizionato,
quanto alla titolarità, all'evento nascita ex art. 1 c.c., comma 2, ed azionabile dagli esercenti la
potestà) per mancata osservanza sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del consenso
informato) in ordine alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto il rapporto instaurato dalla
madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro), sta del dovere di
somministrare fermaci non dannosi per il nascituro stesso. Non avrebbe invece quest'ultimo avuto
diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessitasse ai fini dell'interruzione di
gravidanza (e non della mera prescrizione di formaci), stante la non configurabilità del diritto a non
nascere (se non sano). Ancora, e sempre sulla base del nesso di causalità quale prospettabile nella
vicenda in esame ai sensi dell'art. 1218 c.c. e dell'art. 1176 c.c., comma 2, risulta dovuto, come
stabilito nella sentenza impugnata, il risarcimento in questione nei confronti dei coniugi P..
In relazione alla natura della controversia sussistono giusti motivi per dichiarare interamente
compensate tra tutte le parti le spese del presente giudizio.
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Infine, ricorrono i presupposti D.Lgs. n. 96 del 2003, ex art. 52, comma 2, in materia di protezione di
dati personali, per disporre, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per
finalità di informazione giuridica su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione
elettronica, che sia omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli
interessati nella presente controversia.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta sia il ricorso principale che il ricorso incidentale. Compensa le
spese. Dispone l'omessa indicazione delle generalità e dei dati identificativi degli interessati.
Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2009
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4) Presupposizione
Andrea e Luigi si incontravano dinnanzi al notaio Piero per la conclusione di un contratto di
compravendita avente per oggetto il trasferimento di Beta.
I contraenti erano entrambi convinti che il nuovo piano regolatore avrebbe permesso a Luigi di
edificare sul terreno Beta.
L’atto veniva regolarmente redatto e Beta veniva dichiarato come terreno non edificabile.
Dopo circa due mesi dal rogito, Luigi veniva a sapere che non avrebbe mai potuto costruire alcunchè
sopra Beta, perché zona sismica.
Luigi si recava da un legale, al quale precisava che, con Andrea, avevano voluto implicitamente
subordinare la validità del contratto all’edificabilità di Beta.
Il candidato, assunte le vesti del legale, rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua
attenzione.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 4
In premessa poteva essere schematizzato il fatto.
Successivamente, il discorso poteva essere inquadrato nell’ambito della presupposizione che è una
condicio iuris di efficacia, data per implicita dalle parti ed idonea a subordinare la validità del
contratto stesso; sussiste la presupposizione nel caso in esame?
Si poteva rispondere positivamente, coì da caducare il contratto di compravendita tramite la
risoluzione ex art. 1467 c.c.
Sussiste l’istituto della presupposizione perché:
-le parti Andrea e Luigi sono convinte della futura edificabilità di Beta;
-è una condizione relativa a fatti esterni dalla loro volontà;
-entrambi Andrea e Luigi avevano voluto implicitamente subordinare la validità del contratto
all’edificabilità di Beta.
Ne segue che il contratto de quo è caducabile tramite la risoluzione per eccessiva onerosità
sopravvenuta.
Era legittimo ipotizzare la nullità per difetto (sopravvenuto) di causa in concreto ovvero
l’annullabilità per errore.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
Affinchè sia configurabile una presupposizione (o condizione inespressa), è necessario che dal
contenuto del contratto si evinca l'esistenza di una situazione di fatto considerata, ma non
espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto
imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venire meno dipenda da
circostanze non imputabili alle parti stesse.
Cass. civ. Sez. II, Sent., 27-02-2012, n. 2971
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Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 13-9-1985 L.M. D., D.M., D.A. e D'.Ma. convenivano in giudizio
dinanzi al Tribunale di Messina D.C. e D'.Co. chiedendo che venisse riconosciuta e dichiarata la
validità ed efficacia giuridica della scrittura privata intervenuta tra le parti il 16-6- 1984 e delle
planimetrie redatte per l'occasione dal geometra Co.Sa. ad essa allegate e l'esecuzione della stessa,
che venisse disposta ai sensi dell'art. 2931 c.c. e segg. la divisione e l'attribuzione immobiliare per
quote del fabbricato sito in (OMISSIS), che venisse assegnata al condividente D'.Ma. la quota
contraddistinta dalla lettera C della menzionata planimetria Co., ai condividenti germani D.L.M.,
D.A. e D.M. la quota contraddistinta con la lettera B con l'area soprastante, alle condividenti D.C. e
D'.Co. congiuntamente o alla prima di esse la quota contrassegnata con la lettera A con la relativa
area soprastante, che venisse disposto ogni provvedimento consequenziale per l'attribuzione delle
quote, e che venisse ripartito in parti uguali tra le quote A e B il tratto di terreno antistante il
fabbricato compreso tra questo a la S.S. (OMISSIS); in subordine, qualora si fosse rivelata
impossibile la divisione in quattro quote di quel tratto di terreno, chiedevano che esso venisse
attribuito agli attori dietro pagamento del controvalore relativo alle quote agli altri spettanti.
All'udienza del 16-3-1992 si costituiva in giudizio D. C. chiedendo dichiararsi l'invalidità della
scrittura privata del 16-8-1984 per la mancata partecipazione ad essa di tutti i condividenti e per la
mancanza del presupposto condizionante il negozio; chiedeva disporsi la divisione del cespite o, se
impossibile, l'assegnazione di esso in proprio favore in quanto titolare della quota maggiore, e
condannarsi gli attori al rendiconto per il godimento del bene e dei frutti.
Successivamente al presente venivano riuniti altri due procedimenti rispettivamente proposti da
D.L.M. e D. M. e da D.A., D.L. e T. V. nei confronti delle due suddette convenute per l'esecuzione in
forma specifica ex art. 2932 c.c. della richiamata scrittura privata e di altra successiva scrittura
privata di transazione del 15- 4-1986.
All'udienza del 3-4-1995 si costituiva in giudizio M. G. quale procuratrice speciale di D.C..
Il Tribunale adito con sentenza del 4-8-2003 attribuiva la piena proprietà dell'immobile per cui è
causa a D.L.M., D.M. ed D.A. condannandoli in solido al pagamento in favore della M. nella predetta
qualità della somma di Euro 43.623,00 oltre interessi dal 1-1-2003 a titolo di conguaglio.
Proposto gravame da parte della M. quale erede di D.C. resistevano in giudizio L.M. D., D.M. e D.L.
introducendo altresì un appello incidentale; si costituiva in giudizio anche C.A. quale avente causa di
C. D. eccependo la sua estraneità al giudizio in quanto la propria madre in data 19-4-1985 aveva
ceduto la propria quota indivisa alla sorella D.C..
La Corte di Appello di Messina con sentenza del 12-3-2010 ha dichiarato valide ed efficaci le
scritture private di divisione stipulate tra le parti il 16-8-1984 ed il 15-4-1986 ed autentiche le
sottoscrizioni apposte dalle parti in calce alle predette scritture private ed alle allegate planimetrie del
geometra Co., previo frazionamento catastale ha ordinato al Conservatore dei Registri Immobiliari di
trascrivere le suddette scritture private, ha in parte rigettato ed in parte dichiarato assorbite tutte le
altre domande proposte dalle parti, ed ha compensato le spese di entrambi i gradi di giudizio per la
metà, condannando la M. al pagamento dell'altra metà di esse in favore degli appellati.
Avverso tale sentenza la M. quale erede di C. D. ha proposto un ricorso articolato in cinque motivi
illustrato successivamente da una memoria cui D.A., D.M. e D.L.M. da un lato e A. C. dall'altro
hanno resistito con controricorso;
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quest'ultimo ha introdotto anche un ricorso incidentale affidato ad un solo motivo cui D.A., D.M. e
D.L.M. hanno resistito con controricorso; L. D. e T.V. non hanno svolto attività difensiva in questa
sede.
Motivi della decisione
Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima
sentenza.
Venendo quindi all'esame del ricorso principale, si rileva che con il primo motivo la M., deducendo
violazione e falsa applicazione degli artt. 112-216 c.p.c., dell'art. 2932 c.c. e dell'art. 2652 c.c., n. 3
nonchè omessa motivazione, assume che il giudice di appello, dichiarando valide ed efficaci le
scritture private del 16-8-1984 e del 15-4-1986, ed ordinando al Conservatore dei Registri
Immobiliari di trascrivere dette scritture private, previo frazionamento catastale, ha violato il
principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, posto che le controparti non avevano mai
formulato domande volte a far accertare e dichiarare l'autenticità delle sottoscrizioni apposte alle
suddette scritture ai sensi dell'art. 216 c.p.c., comma 2, nè tantomeno ad ottenere la trascrizione delle
scritture o il frazionamento delle unità immobiliari, avendo invece richiesto ai sensi dell'art. 2932 c.c.
l'emissione di una sentenza che producesse gli effetti delle menzionate scritture private.
La censura è infondata.
Premesso come dato pacifico che D.L.M., D.M. ed D.A. avevano introdotto nel giudizio di primo
grado una domanda di declaratoria di validità ed efficacia della scrittura privata del 16-6-1984, estesa
poi alla successiva scrittura privata del 15-4-1986 intervenuta in pendenza di giudizio, ne consegue
che, una volta accolta tale domanda, l'accertamento in ordine alle autenticità delle relative
sottoscrizioni, anche se non richiesto, costituisce una statuizione implicita al riguardo, posto che la
sentenza che accoglie la domanda;
diretta ad accertare l'avvenuto trasferimento della proprietà di un immobile a mezzo scrittura privata
con firma non autenticata presuppone logicamente l'accertamento, con efficacia di giudicato, della
autenticità della sottoscrizione di tale scrittura (Cass. 25-9- 2002 n. 13924; Cass. 22-6-2011 n.
13695); d'altra parte nella specie non risulta che sia stata mai in contestazione l'autenticità delle
suddette sottoscrizioni.
Con riferimento poi alla statuizione relativa alla trascrizione delle suddette scritture private previo
frazionamento catastale, si tratta pur sempre di una pronuncia consequenziale all'accertamento della
autenticità delle sottoscrizioni di tali scritture ai sensi dell'art. 2657 c.c. al fine di rendere opponibile
ai terzi l'acquisto degli immobili di cui alle scritture private stesse.
Con il secondo motivo la ricorrente principale, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art.
1350 c.c., n. 11 - dell'art. 1418 c.c., comma 2, degli artt. 1421 e 713 c.c. - dell'art. 2657 c.c., comma 1
e dell'art. 216 c.p.c. nonchè omessa ed insufficiente motivazione, censura la sentenza impugnata per
aver del tutto ignorato le specifiche eccezioni sollevate da D.C. con la comparsa di costituzione e
risposta del 13-3-1992, ovvero che la scrittura del 16-8-1984 non era mai stata sottoscritta dalle
coeredi M.E. e D'.Co., non potendo per quest'ultima avere alcun valore la sottoscrizione apposta dal
figlio C.A., e che la firma rinvenibile in calce alla scrittura del 15-4-1986, apparentemente riferibile a
D'.Co., rimasta contumace in primo grado, era stata espressamente disconosciuta dal C.A. con la
comparsa di costituzione in appello del 3-12-2004, avendo dichiarato che tale scrittura non era mai
stata firmata dalla propria madre.
La censura è inammissibile.
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Sotto un primo profilo, relativo alla mancata sottoscrizione della scrittura privata del 16-8-1984 da
parte di M.E. e D'.Co., si osserva che, poichè la questione prospettata, che implica un accertamento di
fatto, non risulta trattata dalla sentenza impugnata, la ricorrente, al fine di evitare una sanzione di
inammissibilità per novità della censura, aveva l'onere - in realtà non assolto - non solo di allegare
l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di appello, ma anche di indicare in quale atto
del giudizio precedente lo avesse fatto, per dar modo a questa Corte di controllare "ex octis" la
veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa;
è quindi irrilevante al riguardo l'avvenuta proposizione della questione nel giudizio di primo grado
con la comparsa di costituzione e risposta del 13-3-1992, se la questione stessa non è stata poi
riproposta al giudice di appello.
Quanto poi alla eccezione sollevata dal C.A. nel giudizio di secondo grado, il motivo è privo di
autosufficienza, non essendo stata trascritta la deduzione in proposito contenuta nell'atto di
costituzione in appello del 3-12-1984 del C.A. stesso e non essendo quindi possibile verificare il
contenuto effettivo di tale eccezione; invero ai sensi dell'art. 214 c.p.c. il disconoscimento di scrittura
privata, pur non richiedendo l'uso di formule sacramentali, postula che la parte contro la quale la
scrittura è prodotta in giudizio impugni chiaramente l'autenticità della stessa, nella sua interezza o
limitatamente alla sottoscrizione, contestando formalmente tale autenticità, ove egli sia l'autore
apparente del documento prodotto, ovvero, nel caso di erede o avente causa dall'apparente
sottoscrittore, dichiarando di non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione di quest'ultimo (Cass. 17-2002 n. 9543).
Con il terzo motivo la M., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 28 febbraio 1985, n.
47, art. 40, commi 2 e 3 - L.R. Sicilia n. 37 del 1985, art. 9 - degli artt. 1418 e 1421 c.c., sostiene che
la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare la nullità della scrittura del 15-4-1986, posto che non
sussisteva negli atti di causa alcun atto notorio da cui fosse risultata la prescritta dichiarazione che il
fabbricato per cui è causa era stato realizzato in data antecedente al 1967; la ricorrente principale
inoltre fa presente che ai sensi dell'art. 9 della richiamata legge della Regione Sicilia la divisione di
un unico immobile in due unità autonome ed indipendenti presupponeva la preventiva concessione
edilizia e, pertanto, qualsiasi contratto traslativo o costitutivo di diritti reali, ivi compreso quello di
divisione, avente ad oggetto un immobile abusivamente modificato, deve ritenersi nullo per
contrarietà a norme imperative.
La censura è inammissibile.
Invero, poichè la questione giuridica prospettata, che implica un accertamento di fatto, non risulta
trattata dalla sentenza impugnata, la ricorrente principale, al fine di evitare una sanzione di
inammissibilità per novità della censura, aveva l'onere - in realtà non assolto - non solo di allegare
l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di appello, ma anche di indicare in quale atto
del giudizio precedente io avesse fatto, per dar modo a questa Corte di controllare "ex actis" la
veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa.
Con il quarto motivo la ricorrente principale, deducendo violazione degli artt. 1419-1421-1425-13621367 e 1375 c.c. nonchè contraddittorietà della motivazione, censura la sentenza impugnata per aver
ritenuto che l'accertata irrealizzabilità della soletta in cemento armato nel tratto di terreno antistante
tra il fabbricato e la S.S. (OMISSIS) non aveva alcun riflesso sulla validità della divisione del
fabbricato stipulata e confermata in corso di causa; in proposito rileva che dall'esame delle due
suddette scritture private emergeva che le parti avevano voluto procedere alla contestuale divisione di
tutto l'immobile, comprendente sia la casa che il terreno antistante la S.S. (OMISSIS), ed a realizzare
con la prevista soletta in cemento armato due accessi autonomi, nonchè altri due vani sottostanti;
sotto tale profilo la seconda scrittura privata, lungi dal configurarsi come una mera riproduzione della
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prima, ad integrazione e modifica di quest'ultima prevedeva una diversa divisione del terreno
antistante compreso tra il fabbricato e la S.S. (OMISSIS) e la realizzazione di una soletta in cemento
armato a livello dell'attuale piano di calpestio; pertanto la previsione della realizzazione della
suddetta soletta costituiva parte essenziale ed integrante del progetto di divisione, cosicchè la sua
irrealizzabilità si riverberava sull'intero contratto modificandone i dati essenziali.
La censura è infondata.
Il giudice di appello ha affermato che il contratto di divisione del 16-8-1984 aveva come oggetto il
fabbricato che venne ritenuto divisibile secondo porzioni assegnate con il sorteggio, e che detta
divisione era stata confermata con la successiva scrittura del 15-4- 1986 intervenuta in pendenza di
giudizio, con la quale erano stati stabiliti ulteriori atti riguardanti la divisione del terreno antistante tra
gli assegnatari della quota A e quelli della quota B e la previsione della costruzione di una soletta in
cemento armato, ferma restando la divisione del fabbricato secondo le modalità di cui alla prima
scrittura; la Corte territoriale ha ritenuto a tal punto che il fatto che la soletta prevista tra il fabbricato
e la strada non si sarebbe potuta realizzare non aveva alcun riflesso sulla divisione, in quanto la
eventuale nullità di tale clausola non poteva incidere sulla validità della divisione del fabbricato
stipulata e confermata anche in corso di causa; considerato infatti che in forza del principio di
conservazione del contratto ai sensi dell'art. 1419 c.c. la nullità di una singola clausola può
comportare la nullità dell'intero contratto soltanto se risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso
senza quella parte del suo contenuto colpito da nullità, ha rilevato che nè dall'interpretazione degli
atti nè dagli elementi probatori acquisiti era risultato che i condividenti non avrebbero concluso la
divisione se avessero conosciuto che la soletta in cemento armato non poteva essere costruita, tanto
più che in corso di causa essi avevano confermato la divisione del fabbricato con la seconda scrittura.
Orbene, in presenza di tale convincimento frutto di un accertamento di fatto sorretto da congrua e
logica motivazione, la M. si limita a prospettare una diversa interpretazione degli atti senza
comunque censurare specificatamente l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui non era
emerso dagli atti e dall'istruttoria svolta che la validità degli atti stipulati fosse condizionata alla
edificazione di altra struttura; in proposito deve osservarsi che ai sensi dell'art. 1419 c.c. la nullità
parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto se risulta
che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla
nullità, e che la norma costituisce applicazione del principio di conservazione del contratto, e trova la
sua "ratio" nella propensione dell'ordinamento a consentire che il contratto produca effetti tra i
contraenti per la parte non colpita da nullità, a meno che non risulti che, senza quella parte, essi non
lo avrebbero concluso; la regola è dunque che la nullità parziale non si estende all'intero contenuto
della disciplina negoziale se permane l'utilità del contratto in relazione agli interessi con esso
perseguiti, secondo quanto emerge dall'attività ermeneutica svolta dal giudice; per converso
l'estensione all'intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce l'eccezione, da provarsi
dalla parte interessata (Cass. 21-5-2007 n. 11673; Cass. 30-9-2009 n. 20948), mentre nella specie,
come si è osservato, tale onere probatorio non è stato assolto.
Con il quinto motivo la M., deducendo violazione dell'art. 1362 c.c. e segg.- degli artt. 2730-1175 e
1375 c.c. nonchè omessa ed apparente motivazione, sostiene che erroneamente la sentenza impugnata
ha ritenuto che non era risultato dall'istruttoria svolta che la validità degli atti stipulati fosse stata
condizionata alla sopraelevazione del fabbricato; in realtà la divisione oggetto della scrittura privata
del 16-6-1984 era stata stipulata nella concordata previsione della sopraelevazione del fabbricato,
come del resto espressamente ammesso dalle controparti negli atti di citazione del 5- 8-1985 e del 2811-1992 da esse sottoscritti, laddove si era dedotta la presupposta sopraelevazione del fabbricato;
contrariamente poi a quanto affermato dal giudice di appello, l'impossibilità giuridica di sopraelevare
il fabbricato non si era verificata successivamente alla sottoscrizione della prima scrittura, posto che
dalla relazione del CTU ingegner ca. del 29-9-1997 era emerso che in base alle norme vigenti relative
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alle costruzioni di fabbricati in zona sismica, e precisamente al D.M. 16 gennaio 1996, si doveva
concludere che "oggi, viste le attuali caratteristiche costruttive del fabbricato oggetto di causa, non è
possibile sopraelevare il fabbricato in quanto strutturalmente non conforme alla normativa
antisismica vigente".
La ricorrente principale poi evidenzia che la Corte territoriale non ha esaminato un documento
decisivo, ovvero le norme di attuazione del PRG del Comune di Taormina, secondo cui nella zona
urbana da ristrutturare (nella quale era compreso il fabbricato per cui è causa) era consentita soltanto
la mera demolizione e ricostruzione dei volumi edilizi e dei manufatti esistenti, con esclusione,
quindi, di ulteriori sopraelevazioni ed ampliamenti.
La M. pertanto conclude che le suddette scritture private di divisione erano basate sull'erroneo
presupposto comune a tutti i contraenti della possibilità giuridica di sopraelevare il fabbricato,
nonchè dell'edificabilità del tratto di terreno adiacente la S.S. (OMISSIS), circostanze che
giustificavano la maggiore superficie concessa a D'.Ma..
Tale assunto veniva avvalorato dal rilievo che, in mancanza della presupposta sopraelevazione, la
quota attribuita alla dante causa dell'esponente si sarebbe concretizzata in appena mq. 25,80, ossia in
una metratura inferiore agli stessi limiti di legge.
La censura è infondata.
La Corte territoriale ha escluso che dall'interpretazione delle due menzionate scritture private fosse
configurabile una presupposizione concernente la sopraelevazione del fabbricato, ricorrendo tale
istituto soltanto quando dal contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo
soltanto subordinatamente all'esistenza di una situazione di fatto che assurga a presupposto della
volontà negoziale e la cui mancanza comporti la caducazione del contratto stesso; ha poi aggiunto
che, risultando dalle scritture difensive che la situazione presupposto sarebbe venuta meno
successivamente alla stipula della prima scrittura, detta ipotesi avrebbe potuto condurre non già alla
nullità della divisione, bensì alla sua risoluzione.
Sotto un primo profilo deve rilevarsi che, affinchè sia configurabile una presupposizione (o
condizione inespressa), è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l'esistenza di una
situazione di fatto considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del
medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o
venire meno dipenda da circostanze non imputabili alle parti stesse; orbene tale accertamento,
esaurendosi sul piano propriamente interpretativo del contratto, costituisce una valutazione di fatto,
riservata, come tale, al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi
logici o giuridici (Cass. 18-2-2009 n. 20245), come appunto nella fattispecie.
Inoltre, in riferimento al rilievo della Corte territoriale secondo cui la situazione presupposto, ovvero
l'impossibilità della sopraelevazione del fabbricato, si sarebbe verificata dopo la stipula della prima
scrittura, si osserva che la trascrizione nel ricorso principale di parte della relazione del CTU
ingegner ca. non sembra avvalorare l'assunto della M., sia perchè in essa non si escludeva in via
assoluta la possibilità di "edificare una ulteriore elevazione, (totale o parziale)" purchè "preceduta da
un adeguato intervento di consolidamento ed adeguamento alle prescrizioni di cui al suddetto D.M.
16 gennaio 1996", sia perchè comunque l'impossibilità della suddetta sopraelevazione è collegata al
suddetto D.M. 16 gennaio 1996 recante norme relative alle costruzioni di fabbricati in zona sismica,
dunque successivo alla stipula dei suddetti atti di divisione, con conseguente applicazione
dell'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ove la situazione presupposta venga
successivamente meno nella fase esecutiva del contratto concluso, si verifica una risolvibilità del
medesimo per fatto non imputabile alle parti (Cass. 11-8-1990 n. 8200; Cass. 8-8-1995 n. 8689),
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86
mentre nella specie, come rilevato dal giudice di appello, la domanda di risoluzione non era stata
proposta.
Il ricorso principale deve quindi essere rigettato.
Venendo quindi all'esame del ricorso incidentale, si rileva che con l'unico motivo formulato il C.A.,
deducendo violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., censura la sentenza impugnata per non aver
condannato D.L.M. e consorte al pagamento delle spese di entrambe i gradi di giudizio nonostante
che la loro domanda di risarcimento danni per inadempimento ed ex art. 96 c.p.c. proposta anche nei
confronti dell'esponente quale erede di Co.
D. era stata rigettata; d'altra parte, anche qualora la Corte territoriale avesse voluto compensare dette
spese, dovendosi escludere la reciproca soccombenza, avrebbe dovuto indicare esplicitamente le
ragioni di tale compensazione.
Il C.A. aggiunge che avrebbe dovuto essere pronunciata la condanna al pagamento delle spese del
secondo grado di giudizio in proprio favore anche nei confronti della M., essendo quest'ultima ben
consapevole che sua madre D.C. aveva acquistato dalla sorella D'.Co. in data 19-4- 1985 la sua quota
di comproprietà del fabbricato comune; in ogni caso le controparti avrebbero dovuto essere
condannate al pagamento delle spese di giudizio perchè non avevano consentito (la M.) o si erano
opposte (i D.) all'estromissione dal giudizio dell'esponente.
La censura è infondata.
Premesso che la sentenza impugnata ha compensato le spese di entrambi i gradi di giudizio attesa la
reciproca soccombenza per alcune domande, deve rilevarsi anzitutto che correttamente la dante causa
del C.A. D'.Co. era stata convenuta nel giudizio di primo grado, trattandosi di un giudizio di
divisione nel quale tutti i condividenti sono litisconsorti necessari, e considerato che la suddetta
scrittura privata del 19-4-1985 con cui D'.Co. aveva venduto la sua quota ereditaria a D.C., priva del
requisito dell'autenticità, non era opponibile agli altri coeredi; inoltre deve aggiungersi che il C.A. nel
giudizio di appello, come si è visto, pur non essendovi prova che avesse disconosciuto ai sensi
dell'art. 214 c.p.c. la scrittura privata del 15-4-1986, aveva comunque dedotto che tale scrittura non
era mai stata firmata dalla madre, così opponendosi alla declaratoria di validità ed efficacia della
stessa, e restando poi soccombente al riguardo.
Pertanto in proposito la statuizione del giudice di appello, esplicazione del potere del giudice di
merito di compensare in tutto o in parte le spese di giudizio, è immune dai profili di censura sollevati
dal C.A..
Anche il ricorso incidentale deve quindi essere rigettato.
La M. soccombente nei confronti di D.A., D.M. e D.L.M. deve essere condannata al pagamento in
favore di costoro delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo; ricorrono giusti
motivi per compensare interamente le spese tra il C.A. e tutte le altre parti, considerata la natura
peculiare della decisione riguardo al rapporto processuale intercorrente tra il primo da un lato e la M.
e i D. dall'altro.
P.Q.M.
LA CORTE Riunisce i ricorsi, li rigetta entrambi, condanna la M. al pagamento in favore di D.A.,
D.M. e D.L.M. di Euro 200,00 per spese e di Euro 3500,00 per onorari di avvocato, e compensa
interamente le spese di giudizio tra il C. e tutte le altre parti.
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La presupposizione non è prevista da alcuna norma di legge, ma costituisce un principio dogmatico
(di matrice tedesca), che viene costantemente definita come obiettiva situazione di fatto o di diritto
(passata, presente o futura) tenuta in considerazione - pur in mancanza di un espresso riferimento
nelle clausole contrattuali - dai contraenti nella formazione del loro consenso come presupposto
condizionante la validità e l'efficacia del negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui
venir meno o verificarsi è del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti, e non
corrisponde - integrandolo - all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro. A tale
figura può riconoscersi invero significato pregnante solamente laddove se ne individui un autonomo
e specifico rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi - essenziali o accidentali - del contratto.
A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa ricondursi fatti e circostanze ascrivibili
alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio significato di causa
concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare: i cd. presupposti
causali assumono infatti rilievo già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno contrattuale, e
pertanto appunto la causa dello stesso.
Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di invalidità del contratto (e su tale piano,
diversamente che in passato, da una parte della dottrina viene ora propriamente ricondotto il
classico esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento riconducibile
all'interesse dalle parti concretamente inteso realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto
alla causa del medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con la venuta meno della medesima, per
la conseguente invalidità del negozio ).
Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed
in particolare la qualità del bene, giacchè in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del
contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento.
La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una qualità
giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè trattisi di qualità dovuta) rileva
sul piano dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento (ad es. la perdita
della qualità di edificabilità del terreno promesso in vendita per atto della P.A., con conseguente
impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione del contratto).
Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti
vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacchè a parte il rilievo
che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente figura, la
presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le
circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola
condizionale.
Estranei alla presupposizione vanno a fortiori tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla
stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano dal
contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto è
funzionaiizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se essi
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sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della
presupposizione, giacchè l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto. Come
correttamente osservato in dottrina, alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo
di categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze
giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti e
circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione,
assumono (per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da
parte dell'altra) un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale.
Circostanze che, pur senza essere - come detto - dedotte specificamente quale condizione del
contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo presupposto
di efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei criteri legali
d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale (es.
l'ottenimento dello sperato finanziamento).
Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o di
inefficacia del contratto, nè a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c.,
art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione, bensì all'esercizio del potere di recesso (anche qualora il
presupposto obiettivo del contratto sia già in origine inesistente o impossibile a verificarsi).
Nei contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita, ciascuna
parte assume su di se il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle rispettive
prestazioni, entro i limiti rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi pertanto da ciascun
contraente presente al momento della stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua della
dovuta diligenza.
Per interpretare correttamente la volontà contrattuale delle parti, bisogna considerare anche il
comportamento.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 25 aprile 2007, n. 12235
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato nel 1992 il Comune di Genova conveniva le Acciaierie di
Cornigliano s.p.a. (poi Ilva s.p.a.) e la Ilva s.p.a. (poi Iritecna s.p.a. e quindi Fintecna s.p.a.) avanti al
Tribunale di Genova per ivi sentir pronunziare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta o
per presupposizione del contratto stipulato il (omissis) con la società Italsider s.p.a. (poi Fintecna
s.p.a.), cui dal maggio 1985 era subentrata la società Cogea s.p.a. (poi Acciaierie di Cornigliano
s.p.a.), di permuta dell'area di mq. 13.326 in (omissis) (con accesso dalla via (omissis) di proprietà
Italsider con un quantitativo di mc. 200 milioni di acqua trattata da costruendo depuratore di acque
nere, o proveniente da altre fonti sostitutive, da fornirsi con consegne uniformemente ripartite in 20
anni a decorrere dal settembre 1977.
Esponeva al riguardo che sin dall'entrata in funzione il depuratore in questione non aveva potuto
rifornire come pattuito lo stabilimento siderurgico Oscar Senigaglia, a causa di imprevisti ed
imprevedibili scarichi abusivi di portata tale da determinare l'impossibilità per il medesimo di erogare
acqua industriale con le stabilite caratteristiche.
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Nella resistenza delle convenute società, che in via riconvenzionale chiedevano accertarsi e
dichiararsi l'inadempimento dell'Amministrazione comunale, con conseguente condanna della
medesima al pagamento degli importi corrisposti agli acquedotti privati per la fornitura sostitutiva
nonchè a rifornire lo stabilimento siderurgico della quantità d'acqua pattuita e al risarcimento dei
danni; riunito il procedimento con altri (due) avanti al medesimo tribunale instaurati nel 1993
dall'A.M.G.A. (Azienda Mediterranea Gas e Acqua s.p.a., già Azienda Municipalizzata Gas ed
Acqua) nei confronti della società Ilva s.p.a. e della società Acciaierie di Cornigliano s.p.a., per ivi
sentirle condannare al pagamento delle somme dovute a titolo di corrispettivo per la fornitura di
acqua effettuata in loro favore nei periodi di rispettiva competenza, con sentenza emessa nel 1998
l'adito giudice rigettava le domande del Comune e dell'A.M.G.A., nonchè quelle di A risarcimento
danni proposte in via riconvenzionale dalle convenute, e dichiarava inammissibile la domanda di
manleva, condannando il Comune a rimborsare alla società Acciaierie di Cornigliano s.p.a. e all'Uva
s.p.a. gli importi già corrisposti agli acquedotti privati per le forniture sostitutive, con le conseguenti
disposizioni in ordine alla regolazione delle spese.
I gravami, interposti con separati atti dal Comune e dall'A.M.G.A. e poi riuniti all'esito della
riassunzione del processo successivamente all'interruzione disposta in ragione della fusione per
incorporazione della Iritecna s.p.a. nella Fintecna s.p.a., con costituzione di quest'ultima, venivano
dalla Corte d'Appello di Genova rigettati con sentenza del 20/9/2002.
Avverso la detta sentenza della corte di merito il Comune di Genova propone ora ricorso per
cassazione affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso le società Uva s.p.a. e Fintecna s.p.a., che hanno anch'esse presentato
memoria.
La società A.M.G.A. non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il 1^ motivo l'Amministrazione ricorrente de- ( nunzia violazione e falsa applicazione degli artt.
1467, 1552, 1362, 1363, 1366, 1374 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia
prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto non applicabile l'istituto della
presupposizione, nel caso concernente il presupposto implicito del contratto determinante la volontà
negoziale che, salvo i casi eccezionali specificamente previsti, l'impianto di depurazione de quo fosse
in grado di produrre acqua trattata della qualità convenuta rispondente a determinate caratteristiche
chimico-fisiche, argomentando dalla circostanza che l'eventualità della mancata produzione di acqua
depurata era stata specificamente ed espressamente prevista in contratto laddove si era indicato che in
relazione alle eventuali fonti sostitutive "nessuna alea dovesse gravare su Italsider", non essendovi
pertanto alcuno "spazio per l'integrazione del contratto nell'ottica del bilanciamento delle prestazioni
secondo l'economia interna dello stesso".
Deduce essere non revocabile in dubbio, considerando correttamente quale scopo dello stipulato
contratto de quo il risparmio di acqua potabile a favore di usi civili per preservare le già carenti
risorse idriche (per il Comune) e l'utilizzazione dell'acqua depurata per evitare il rischio di
contingentamento in caso di siccità (per l'Italsider), che la circostanza disattesa dai giudici di merito
costituisce presupposto implicito del contratto, non risultando invero spiegabile "per quale ragione il
Comune - che ben avrebbe potuto espropriare l'area per un costo irrisorio (a quel tempo determinabile
secondo i criteri di cui alla L. n. 865 del 1971) - avrebbe dovuto assumersi il rischio di vedersi
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esposto ad un totale stravolgimento delle prestazioni contrattuali, rappresentato dall'obbligo di
fornitura di acqua potabile in luogo dell'acqua per mero uso industriale, con aumento dell'onere per la
P.A. dagli originari L. 600 milioni (valore di permuta), a L. 26 miliardi (per capitale e interessi)".
In considerazione della causa (di permuta), della durata (ventennale) e della natura (ad esecuzione
differita) del contratto, il corretto funzionamento dell'impianto costituisce ineludibile presupposto
dell'accordo in questione, invero non escluso dalla previsione dell'eventuale - limitato e temporaneo malfunzionamento dell'impianto, giacchè laddove le parti si fossero rappresentate, avuto riguardo
anche alla lunga durata del contratto, la situazione di "impossibilità assoluta di effettuare la
depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche" non si sarebbero invero indotte a stipulare un
contratto "il cui sinallagma era fondato sull'equivalenza economica delle prestazioni (trattandosi
appunto di permuta) e la cui distribuzione dei rischi era necessariamente da ricondurre e da riportare
a quel determinato tipo contrattuale".
Con il 2^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1467, 1552, 1362, 1363, 1366,
1374 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o
rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che nell'interpretare il contratto la corte di merito abbia erroneamente escluso che il mancato
funzionamento del depuratore sia da considerarsi circostanza straordinaria ed imprevedibile ai sensi
dell'art. 1467 c.c., il fenomeno dell'enorme quantità di scarichi abusivi essendosi verificato solamente
in epoca successiva alla stipulazione del contratto, una prima volta nel 1985 e poi nel 1989,
vanamente avendo tentato di ovviarvi, anche con una denuncia alla locale Procura della Repubblica.
Lamenta non potersi considerare al riguardo in qualche modo rilevante la circostanza che il controllo
sull'inquinamento delle acque rientra nelle proprie competenze amministrative, venendo altrimenti a
sovrapporsi il suo ruolo di autorità di controllo con quello di parte del contratto di permuta in
oggetto, laddove l'esercizio dei poteri pubblicistici non può invero riverberare in chiave
d'interpretazione di un contratto di diritto comune.
Lamenta la contraddittorietà della motivazione dell'impugnata sentenza nella parte in cui, dopo
essersi ritenuto rientrare nell'alea normale del contratto il rischio dell'immissione di scarichi abusivi
nelle condotte adducenti al depuratore, risulta alle parti di contratti commutativi attribuito il potere di
assumere, reciprocamente o unilateralmente, un determinato rischio, rendendo eonseguentemente per
tale aspetto aleatorio il negozio.
Deduce altresì che il rischio di fornire comunque l'acqua, anche in caso di guasti e/o fermate
dell'impianto, contrattualmente posto a suo carico, costitusce questione altra e diversa da quella
relativa. ad un "assoluto ed indefinito stravolgimento delle prestazioni originariamente previste a
titolo di permuta in conseguenza di un evento fuori dall'ordinario", giacchè il ricorso alle "fonti
sostitutive" era stato nella specie concepito come rimedio "eccezionale", tendente a riparare
circostanze contingenti e necessariamente limitate nel tempo che avessero inciso sulla regolare
attività dell'impianto.
Si duole non essersi nell'impugnata sentenza tenuto conto che il valore delle prestazioni dedotte in
contratto (e cioè il costo a me. dell'acqua, da un canto, e il valore di mercato dell'area all'epoca
determinato in L. 600 milioni, da altro canto) era successivamente venuto a risultare fortemente
squilibrato, giacchè la prestazione a suo carico era ascesa ad un valore di più di L. 26 miliardi (per
capitale ed interessi). E l'imprevedibilità deve essere valutata anche con riferimento ad un evento che
ecceda la normale distribuzione dei rischi in relazione alla "dimensione" assunta da evento già
esistente al momento della conclusione del contratto.
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Si duole, ancora, che nel considerare contrattualmente previsto un concorso della controparte (nella
misura del 30% del prezzo dell'acqua) solamente in caso di eventi di forza maggiore, la corte di
merito abbia violato le norme in tema di obbligazioni alternative, "risultando evidente che le
prestazioni di fornitura di acqua potabile aveva natura necessariamente sostitutiva e non alternativa
rispetto alla fornitura di acqua depurata per uso industriale".
Con il 3^ motivo denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1366, 1374 e 1375 c.c. in
relazione all'art. 1467 c.c. in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato
dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 .p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che l'interpretazione del contratto da parte della corte di inerito disattende il criterio della
buona fede contrattuale, cui occorre fare ricorso a fini interpretativi (art. 1366 c.c.) per valutare il
comportamento delle parti anche in fase esecutiva (art. 1375 c.c.), "non solo per dare significato al
regolamento, ma anche per bilanciare le prestazioni secondo l'economìa interna del contratto",
laddove nell'impugnata sentenza si perviene ad affermare che "tutto il rischio sarebbe stato da
addossarsi alla sola parte pubblica, mentre la parte privata sarebbe stata in ogni caso garantita di ogni
e qualunque evento che avesse inciso sull'equilibrio delle prestazioni.
Con il 4^ motivo l'Amministrazione ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt.
1559, 1562, 1563, 1564, 1569, 1570 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia
prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che "Con riguardo alla posizione AMGA (ed alle conseguenze che se ne traggono a
suffragio dell'intepretazione propugnata dal Giudicante)", la corte di merito abbia affermato che
"avrebbe dovuto competere all'acquedotto comunale dimostrare che furono Italsider, poi Ilva e poi
Acciaierie di Cornigliano a richiedere la fornitura di acqua sostitutiva, non essendo sufficiente la
circostanza che l'acqua sia di fatto pervenuta allo stabilimento siderurgico", ingiustificato ravvisando
"in assenza di un impegno di Amga in proposito" il fatto della "prosecuzione delle forniture per anni
senza alcuna interruzione, nonostante i mancati pagamenti" e conseguentemente ritenendo
"suffragata la tesi secondo cui la fornitura di acqua sostitutiva da parte di AMGA sia avvenuta in
adempimento degli accordi contrattuali assunti dal Comune, che sarebbe quindi tenuto al relativo
pagamento".
Lamenta l'illogicità e la contraddittorietà di tale argomentare, giacchè la corte di merito ha "posto a
premessa del proprio ragionamento quella che in realtà avrebbe dovuto esserne la conseguenza".
Sostiene al riguardo che "prima avrebbe dovuto accertarsi l'obbligo del Comune di fornire acqua
sostitutiva in ogni caso di malfunzionamento dell'impianto - qualunque ne fosse la causa - e solo
successivamente stabilirsi che per tale ragione la fornitura dell'Amga andava riguardata come
esecuzione di tale obbligo".
Deduce che la somministrazione può trovare fonte anche in fatti concludenti, e che non è al riguardo
significativa la circostanza che l'Amga non abbia mai richiesto il pagamento della
forniturasomministrata, atteso che ai sensi dell'art. 1562 c.c. solo nella somministrazione a carattere
periodico il prezzo è corrisposto all'atto delle singole prestazioni, laddove nel caso si tratta viceversa
di somministrazione "continuativa", senza cioè soluzione di continuità.
Lamenta che, formulata dall'A.M.G.A. la richiesta di pagamento, in unica soluzione, alle due società
somministrate con la domanda introduttiva dei giudizi oggetto di successiva riunione, la corte di
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merito "non si è peritata, sul punto, di argomentare la propria posizione se non sulla base di una
precostituita supposizione, la quale ... avrebbe dovuto seguire (e non precedere) il positivo
accertamento che la prestazione di A.M.G.A. fosse effettuata su incarico del Comune".
I motivi, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono infondati.
Il ricorrente si duole della erronea considerazione "del presupposto implicito del contratto,
determinante la volontà di entrambi i contraenti" in questione, e quindi del "corretto esercizio del
depuratore e la conseguente fornitura di acqua con le pattuite caratteristiche chimico-fisiche",
riguardato sia sotto il profilo della presupposizione che dell'eccessiva onerosità sopravvenuta del
contratto de quo.
Contratto che nell'impugnata sentenza risulta qualificato in termini di permuta, tale venendo anche
dall'odierno ricorrente considerato nell'articolazione logico-giuridica delle proprie doglianze.
Sotto il primo profilo il ricorrente in particolare si duole che la corte di merito abbia escluso,
violando la legge ed illogicamente motivando, la ricorrenza nel caso della figura della
presupposizione, da rinvenirsi allorquando "una determinata situazione di fatto o di diritto (passata,
presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali - come presupposto
condizionante il negozio (cd. condizione non sviluppata o inespressa), richiedendosi pertanto a tal
fine: 1) che la presupposizione sia comune a tutti i contraenti; 2) che l'evento supposto sia stato
assunto come certo nella rappresentazione delle parti (e in ciò la presupposizione differisce dalla
condizione); 3) che si tratti di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il
cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non
corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31.10.1989, n. 4554; tra le
più recenti, Cass. 21.11.2001 n. 14629). Sicchè la "presupposizione è ... configurabile quando dal
contenuto del contratto risulti che le parti abbiano inteso concluderlo soltanto subordinatamente
all'esistenza di una data situazione di fatto che assurga a presupposto comune e determinante della
volontà negoziale, la mancanza del quale comporta la caducazione del contratto stesso, ancorchè a
tale situazione, comune ad entrambi i contraenti, non si sia fatto espresso riferimento" (Cass.
9.11.1994, n. 9304)".
Orbene, la presupposizione - vale anzitutto osservare - non è invero prevista da alcuna norma di
legge, ma costituisce un principio dogmatico (di matrice tedesca) contestato da gran parte della
dottrina, che vi ravvisa una condizione non sviluppata del negozio o un motivo non assurto a clausola
condizionale, ma accolto in giurisprudenza anche di legittimità, ove viene costantemente definita
come obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) tenuta in considerazione pur in mancanza di un espresso riferimento nelle clausole contrattuali - dai contraenti nella
formazione del loro consenso come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio
(cd. condizione non sviluppata o inespressa), il cui venir meno o verificarsi è del tutto indipendente
dall'attività e volontà dei contraenti, e non corrisponde - integrandolo - all'oggetto di una specifica
obbligazione dell'uno o dell'altro (v. Cass., 23/9/2004, n. 19144; Cass., 4/3/2002, n. 3052; Cass.,
21/11/2001, n. 14629; Cass., 8/8/1995, n. 8689).
Va al riguardo ulteriormente precisato che, come posto in rilievo da una parte della dottrina, la
presupposizione costituisce in realtà un fenomeno articolato, cui vengono ricondotti fatti e
circostanze sia di carattere obiettivo che valorizzati dalla volontà delle parti.
A tale figura può riconoscersi invero significato pregnante solamente laddove se ne individui un
autonomo e specifico rilievo, che valga a distinguerla dagli elementi - essenziali o accidentali - del
contratto.
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A tale stregua deve pertanto escludersi che possano ad essa ricondursi fatti e circostanze ascrivibili
alla causa, nel senso cioè di condizionarne la realizzazione nel suo proprio significato di causa
concreta, quale interesse che l'operazione contrattuale è diretta a soddisfare (cfr. Cass., 8/5/2006, n.
10490).
I cd. presupposti causali assumono infatti rilievo già sul piano dell'interesse che giustifica l'impegno
contrattuale, e pertanto appunto la causa dello stesso.
Ne consegue che il relativo difetto rileva in termini di invalidità del contratto (e su tale piano,
diversamente che in passato, da una parte della dottrina viene ora propriamente ricondotto il classico
esempio del balcone affittato per assistere alla sfilata del corteo, evento riconducibile all'interesse
dalle parti concretamente inteso realizzare con la stipulazione del contratto e pertanto alla causa del
medesimo, il cui mancato verificarsi depone, con la venuta meno della medesima, per la conseguente
invalidità del negozio ).
Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cd. risultati dovuti, ed
in particolare la qualità del bene, giacchè in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del
contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell'inadempimento.
La circostanza che il bene sia idoneo all'uso previsto dall'acquirente costituisce invero una gualità
giuridica dell'oggetto, la cui mancanza se del caso (in quanto cioè trattisi di qualità dovuta) rileva sul
piano dell'inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento (ad es. la perdita della
qualità di edificabilità del terreno promesso in vendita per atto della P.A., con conseguente
impossibilità della prestazione legittimante la risoluzione del contratto: cfr. Cass., 19/3/1981, n.
1635).
Del pari distinta va tenuta l'ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti
vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, giacchè a parte il rilievo
che non vi sarebbe altrimenti ragione di enucleare un'autonoma e differente figura, la
presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le
circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola
condizionale.
Estranei alla presupposizione vanno a fortioriri tenuti i motivi, quali meri impulsi psichici alla
stipulazione concernenti interessi che, rimasti nella sfera volitiva interna della parte, esulano dal
contenuto del contratto, laddove se obiettivati divengono viceversa interessi che il contratto è
funzionaiizzato a realizzare, concorrendo pertanto ad integrarne la causa concreta. Ed anche se essi
sono comuni ad entrambe le parti, non viene comunque al riguardo in rilievo l'istituto della
presupposizione, giacchè l'interesse comune integra appunto la causa concreta del contratto. Come
correttamente osservato in dottrina, alla presupposizione può allora riconoscersi autonomo rilievo di
categoria unificante assumente specifico significato laddove nell'ambito delle circostanze
giuridicamente influenti sul contratto ad essa si riconducano, quali presupposti oggettivi, fatti e
circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto della prestazione, assumono
(per entrambe le parti ovvero per una sola di esse, ma con relativo riconoscimento da parte dell'altra)
un'importanza determinante ai fini della conservazione del vincolo contrattuale.
Circostanze che, pur senza essere - come detto - dedotte specificamente quale condizione del
contratto, e pertanto rispetto ad esso "esterne", ne costituiscano specifico ed oggettivo presupposto di
efficacia in base al significato proprio del negozio determinato alla stregua dei criteri legali
d'interpretazione, assumenti valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale (es.
l'ottenimento dello sperato finanziamento).
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Il relativo difetto legittima allora le parti non già a domandare una declaratoria di invalidità o di
inefficacia del contratto, nè a chiederne la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1256 c.c.,
art. 1463 c.c. e ss.) della prestazione (contra. v. peraltro Cass., 22/9/1981, n. 5168 ), bensì
all'esercizio del potere di recesso ( anche qualora il presupposto obiettivo del contratto sia già in
origine inesistente o impossibile a verificarsi).
Nel caso di specie il ricorrente, che non ha esercitato il recesso, non deduce la violazione della causa
o dell'oggetto o della condizione del contratto, ma lamenta invero l'erroneità della ravvisata
esclusione di rilevanza nel caso proprio della specifica figura della presupposizione, dolendosi che la
corte di merito non abbia accolto il prospettato riverberarsi sul relativo profilo causale.
Sul piano della validità del contratto, dunque. Ovvero, secondo ulteriore ed alternativa impostazione,
su quello della inefficacia del contratto laddove i fatti e le circostanze che la integrano determinano
l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione.
Orbene, va al riguardo affermato che in base al significato del contratto - accertato facendo esercizio
dei poteri loro spettanti - i giudici del merito hanno invero escluso, dandone congrua motivazione,
che nel caso le parti abbiano assegnato rilievo, quale specifico presupposto oggettivo, all'idoneità al
normale funzionamento dell'impianto di depurazione in questione.
A fronte della questione già in sede di gravame di merito oggetto di censura da parte dell'allora
appellante Comune, la corte d'appello ha infatti al riguardo posto in rilievo che "la semplice lettura
delle premesse e dell'art. 2 del contratto evidenzia come, a fronte dell'impegno dell'Ilva spa di
trasferire al Comune la proprietà di un consistente appezzamento di terreno di sua proprietà e di
garantirne il funzionamento, l'Ente locale avesse assunto l'obbligo di fornire alla società, ripartiti
uniformementente in un ventennio, duecento milioni di metri cubi di acqua trattata e depurata
nell'impianto realizzando "o eventualmente proveniente in tutto o in parte da altre fonti sostitutive"
con le modalità ed alle condizioni nel contratto in seguito elencate". Altresì sottolineando essere
"evidente come una tale prospettazione dei reciproci obblighi, con l'aggiunta nel quadro complessivo
della fornitura costante di ossigeno al depuratore a prezzo di costo, accollasse al Comune il rischio di
avvenimenti successivi che per malfunzionamento dell'impianto determinassero il ricorso per la
fornitura di acqua a risorse esterne a quelle offerte dal depuratore e, quindi, in realtà attribuissero al
Comune l'onere di apprestare e realizzare un impianto idoneo ad evitare il verificarsi di una tale
onerosa eventualità ... infatti, sebbene alle condizioni che saranno in seguito meglio illustrate, la
fornitura di acqua sostitutiva si presentava in contratto non come subordinata, ma, semplicemente,
come alternativa a quella depurata".
Se ne è quindi tratto che "l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle
obbligazioni dedotte a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di prevedibili
scarichi abusivi industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per la rete di fognature
che avrebbe dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione diligente di chiunque
avesse dovuto interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto come il Comune di
Genova, incaricato per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e frequente degli
scarichi abusivi ... cioè il Comune, accettando di fornire gratuitamente, ed anche per la totalità, acqua
sostitutiva in alternativa a quella depurata, dimostrava così di essere ben consapevole che un
qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi era certamente uno dei più semplici da
prevedere, avesse determinato il malfunzionamento del depuratore impedendo l'adeguato trattamento
dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto impedire, ciò nonostante, l'esecuzione del contratto, pur
se ciò avesse determinato un notevole aggravio economico della sua prestazione ... a questo fine
appare significativo osservare come in un apposito paragrafo (punto C dell'art. 5) fossero state
precisamente determinate le caratteristiche chimico-fisiche minime dell'acqua da fornire e come al
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punto A dello stesso articolo fosse stato posto a carico del Comune l'obbligo di realizzare la tubatura
idonea a permettere la consegna uniforme dell'acqua proveniente da fonti sostitutive".
Il rischio della fornitura sostitutiva, si sottolinea nell'impugnata sentenza, era stato cioè assunto come
rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in ogni caso, alla
società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante dal
malfunzionamento dell'impianto di depurazione. Tanto più che, comunque, "nulla prova la natura
inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, nè in se stessi,
come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, nè nelle loro dimensioni,
mentre in tale contesto (tra l'altro i malfunzionamenti sembrano essere iniziati nel 1985 e proseguiti a
partire dal 1989) non vi sono in causa elementi minimi idonei che consentano di affidare ad un
tecnico l'incarico di verificare la possibilità di fronteggiare con adeguata progettazione od opportuni
aggiustamenti tecnici la predetta situazione continuando a fornire acqua depurata idoena ad usi
industriali.
Tale interpretazione della corte di merito risulta invero correttamente operata e congruamente
motivata, in conformità ai principi più sopra richiamati, da essa con tutta evidenza emergendo come
l'idoneità dell'impianto di depurazione al normale funzionamento nella specie in realtà inerisca alla
qualità giuridica del bene. A tale stregua, pertanto, quale presupposto intrinseco della prestazione
dall'Amministrazione comunale nel casocontrattualmente assunta, il cui difetto se del caso
diversamente rileva, alla stregua di quanto sopra esposto, sul piano dell'inadempimento.
La censura del ricorrente non può trovare d'altro canto accoglimento nemmeno riguardando
l'inidoneità al normale funzionamento del depuratore de quo sotto il profilo dell'eccessiva onerosità
sopravvenuta della prestazione.
Va al riguardo anzitutto esclusa l'ammissibilità della prospettazione dell'eccessiva onerosità
sopravvenuta della prestazione quale conseguenza del venir meno della presupposizione.
Pur se in passato da questa Corte in effetti non sempre respinta (v. Cass., 17/5/1976, n. 1738), va al
riguardo osservato che - come in dottrina non si e invero mancato di porre in rilievo - il riferimento
alla presupposizione viene a far inammissibilmente ridondare l'eccessiva onerosità sul piano
dell'interpretazione del contratto, laddove essa viceversa rileva a prescindere dalla volontà delle parti,
quale rimedio dall'ordinamento concesso in reazione all'alterazione non già dei presupposti specifici (
valorizzati appunto dalla presupposizione ) bensì dei presupposti generici del contratto,
subordinandone cioè il mantenimento alla persistenza delle normali condizioni di mercato e di vita
sociale su di esso incidenti.
L'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (diversamente dalla più sopra evocata
impossibilità sopravvenuta della prestazione, quale rimedio all'alterazione del cd. sinallagma
funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta ) non incide sulla causa del contratto, non
impedendo l'attuazione dell'interesse con esso concretamente perseguito, ma trova diversamente
fondamento nell'esigenza di contenere entro limiti di normalità l'alea dell'aggravio economico della
prestazione, salvaguardando cioè la parte dal rischio di un relativo eccezionale aggravamento
economico derivante da gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici.
Mentre nei contratti a titolo gratuito l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra il valore
originario della prestazione ed il valore successivo, trattandosi come nella specie di contratto
oneroso(pennuta), l'aggravio consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni,
laddove una prestazione non trova più sufficiente remunerazione in quella corrispettiva (v. Cass.,
13/2/1995, n. 1559).
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Atteso un tanto, risponde invero a principio recepito che, per poter ai sensi dell'art. 1467 c.c.
determinare la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive ad esecuzione continuata o
periodica ovvero ad esecuzione differita, l'eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione deve
essere determinata dal verificarsi di avvenimenti straordinari ed imprevedibili.
Il carattere della straordinarietà è di natura obiettiva, qualificando un evento in base
all'apprezzamento di elementi (come la frequenza, le dimensioni, l'intensità, ecc.) suscettibili di
misurazione, tali pertanto da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quantomeno di
ordine statistico (v. Cass., 19/10/2006, n. 22396; Cass., 23/2/2001, n. 2661; Cass., 9/4/1994, n. 3342).
Il carattere della imprevedibilità deve essere valutato secondo criteri obiettivi, riferiti ad una normale
capacità e diligenza media, avuto riguardo alle circostanze concrete del caso sussistenti al momento
della conclusione del contratto (v. Cass., 13/2/1995, n. 1559), non essendo invero sufficiente l'astratta
possibilità dell'accadimento.
L'accertamento da parte del giudice di merito della sussistenza o meno dei caratteri di straordinarietà
ed imprevedibilità degli eventi che hanno determinato l'eccessiva onerosità di una delle prestazioni
corrispettive previste in contratti ad esecuzione differita spetta peraltro al giudice di merito, ed è
insindacabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione (v. Cass., 19/10/2006, n.
22396; Cass., 23/2/2001, n. 2661).
Orbene, il Comune ricorrente basa la propria odierna impugnazione sulla distinzione tra meri "casi
eccezionali specificamente previsti" di variazione e "impossibilità assoluta di effettuare la
depurazione dell'acqua con le pattuite caratteristiche" quale fattore di alterazione dell'"equivalenza
economica delle prestazioni (trattandosi appunto di permuta)".
A parte il rilievo che nell'adombrare siffatta prospettazione omette di considerare che il mutamento di
valore concerne nel caso entrambe le prestazioni, laddove in presenza di contratto come nella specie
oneroso l'aggravio consiste - come sopra esposto- nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle
prestazioni corrispettive, e non già nella sopravvenuta sproporzione tra il valore originario ed il
valore successivo della singola prestazione (viceversa rilevante per i contratti a titolo gratuito),
dovendo pertanto considerarsi non solamente il valore della pretazione a suo carico in ragione del
diverso costo dell'acqua oggetto di fornitura ma anche il valore dei beni immobili ricevuti in permuta
con relativa valutazione comparativa in ragione dei rispettivi attualizzati valori che non risulta nel
caso invero compiuta, va osservato che diversamente da quanto dal medesimo lamentato la corte di
merito ha invero esaminato e specificamente disatteso l'argomento secondo cui si sia nel caso trattato
di un evento imprevedibile.
Nel sottolineare che il fenomeno dell'allaccio abusivo di scarichi era al contrario senz'altro
prevedibile, a fortiori per chi - come appunto l'odierno ricorrente - è addirittura investito ex lege della
funzione pubblica di controllare e monitorare nonchè regolare in concreto gli interventi in materia,
anche avvalendosi dei poteri di competenza quale soggetto di diritto pubblico ("da ciò consegue
come l'impianto, nell'esclusivo interesse dello stesso Comune e nell'ambito delle obbligazioni dedotte
a suo carico, non potesse non essere realizzato anche in funzione di prevedibili scarichi abusivi
industriali che, per la zona in cui il medesimo era collocato e per la rete di fognature che avrebbe
dovuto fronteggiare, rientravano nell'ambito della previsione diligente di chiunque avesse dovuto
interessarsi alla sua realizzazione e tento più di un soggetto come il Comune di Genova, incaricato
per legge di fronteggiare e controllare il fenomeno notorio e frequente degli scarichi abusivi"), non
configurandosi invero al riguardo il pericolo di commistione di funzione e di ruoli paventato dal
ricorrente, la corte di merito ha invero posto in rilievo come nel caso le parti abbiano espressamente
preso in considerazione l'eventualità del non corretto funzionamento dell'impianto di depurazione,
specificamente prevedendo in contratto una prestazione sostitutiva ("il Comune, consapevole che
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l'Italsider non intendeva correre alcun rischio relativo a inadeguatezze dell'impianto di depurazione,
circa l'entità e la qualità dell'acqua da ricevere in contropartita della cessione del terreno, se ne è
accollato totalmente il carico anche economico, chiedendo un contributo del 30%, come subito dopo
nel contratto specificato, nel solo caso in cui il ricorso a fonti sostitutive fosse reso necessario da
cause di forza maggiore consistenti in eventi naturali, tra cui pacificamente non rientrano gli scarichi
abusivi di cui si tratta;
... dunque, non essendo indicati limiti al minor rendimento ed essendo anzi addirittura prevista la
continuità dell'erogazione anche per il caso di fermata del depuratore e per i casi di forza maggiore
dovuti ad eventi naturali, non sembra sostenibile, di fronte all'obbligo inderogabile di rifornire
uniformemente l'impianto, senza rischio alcuno per l'Italsider, la tesi per cui possa ritenersi caso
eccettuato od imprevedibile quello di inidoneità permanente dell'impianto alla depurazione dell'acqua
a causa di un evento tra l'altro così prevedibile come quello degli scarichi abusivi, sia pure di
rilievo").
Costituisce d'altro canto principio recepito in giurisprudenza di legittimità quello per il quale nei
contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita, ciascuna parte
assume su di se il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle rispettive prestazioni,
entro i limiti rientranti nell'alea normale del contratto, da tenersi pertanto da ciascun contraente
presente al momento della stipulazione per gli eventi non imprevedibili alla stregua della dovuta
diligenza (v. Cass., 23/11/1999, n. 12989).
Orbene, in esplicazione dei poteri ad essi spettanti i giudici di merito hanno nel caso accertato essere
stato tale fenomeno invero contrattualmente previsto e regolato "il Comune, accettando di fornire
gratuitamente, ed anche per la totalità, acqua sostitutiva in alternativa a quella depurata, dimostrava
così di essere ben consapevole che un qualunque evento, tra i quali quello degli scarichi abusivi era
certamente uno dei più semplici da prevedere, avesse determinato il malfunzionamento del
depuratore impedendo l'adeguato trattamento dell'acqua depurata, esso non avrebbe potuto impedire,
ciò nonostante, l'esecuzione del contratto, pur se ciò avesse determinato un notevole aggravio
economico della sua prestazione ... a questo fine appare significativo osservare come in un apposito
paragrafo") (punto C dell'art. 5) fossero state precisamente determinate le caratteristiche chimicofisiche minime dell'acqua da fornire e come al punto A dello stesso articolo fosse stato posto a carico
del Comune l'obbligo di realizzare la tubatura idonea a permettere la consegna "uniforme" dell'acqua
proveniente da fonti sostitutive ... cioè il rischio della fornitura sostitutiva era stato assunto come
rischio ordinario del contratto, con la conseguenza che non poteva attribuirsi, in ogni caso, alla
società conferente il terreno, neppure una parte dell'onere economico derivante dal malfunzionamento dell'impianto di depurazione ... d'altra parte e comunque, nulla prova la natura
inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti verificatisi, nè in se stessi,
come risultanti degli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991, nè nelle loro dimensioni
...".
Nè può d'altro canto nella specie assegnarsi in qualche modo rilievo alla tesi dottrinaria secondo cui
la sopravvenienza di circostanze pur prevedibili rende comunque eccessivamente gravosa, e pertanto
inesigibile, l'adempimento della prestazione, giacchè come si è al riguardo da altra parte della
dottrina correttamente obiettato si viene in tal caso a vertere in tema d'inadempimento, e non già di
alterazione dell'economia contrattuale.
Infondata è del pari la doglianza concernente il dedotto vizio di motivazione.
Va anzitutto osservato che in base a fermo principio di questa Corte l'interpretazione del contratto è
riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo per
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violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi di motivazione (v. Cass. 21 aprile
2005, n. 8296).
Il sindacato di legittimità può avere pertanto ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle
parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice
di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi
del ragionamento o in errore di diritto (v. Cass., 29/7/2004, n. 14495).
Pur non mancando qualche pronunzia di segno diverso (v. Cass., 10/10/2003, n. 15100; Cass.,
23/12/1993, n, 12758), costituisce orientamento consolidato quello secondo cui in tema di
interpretazione del contratto ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e
principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate, con
la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi quando la comune volontà delle
parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da
precludere la ricerca di una volontà diversa. Il rilievo da assegnare alla formulazione letterale
dovendo essere peraltro verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, e le singole clausole
considerate in correlazione tra loro, procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363
c.c., giacchè per "senso letterale delle parole" va intesa tutta la formulazione letterale della
dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte
soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice
collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., 25/10/2006, n.
22899; Cass., 22/12/2005, n. 28479; Cass., 24/11/2005, n. 24813; Cass., 2/4/2004, n. 6513).
Se è vero che l'elemento letterale assume funzione fondamentale, la valutazione del complessivo
comportamento delle parti costituisce peraltro un canone non già sussidiario bensì necessario ed
indefettibile, in quanto le singole clausole, da interpretare le une per mezzo delle altre senza arrestarsi
alla relativa considerazione atomistica, neppure quando il loro senso possa ritenersi compiuto,
debbono essere raccordate al complesso dell'atto, e l'atto deve essere esaminato valutando il
complessivo comportamento delle parti.
In questo progressivo ampliamento dell'oggetto dell'interpretazione assume allora rilievo anche il
comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, purchè sia un comportamento
comune, ovvero un comportamento unilaterale (anche tacitamente) accettato dall'altra parte, atteso
che, così come comune è l'intenzione delle parti, quale fondamentale parametro di interpretazione,
del pari comune deve essere il comportamento delle parti quale parametro di valutazione della
volontà da esse manifestata (v. Cass., 9/2/2007, n. 2901; Cass., 25/10/2006, n. 22899).
Orbene, nel caso in esame, di tali principi la corte di merito ha nell'impugnata sentenza fatto corretta
e puntuale applicazione, con motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici, in particolare
là dove, nel condividere e confermare l'avviso del giudice di prime cure, ha ritenuto che il contratto
sia stato dalle parti stipulato senza che venissero "indicati limiti al minor rendimento ed essendo anzi
addirittura prevista la continuità dell'erogazione anche per il caso di fermata del depuratore e per i
casi di forza maggiore dovuti ad eventi naturali", espressamente escludendo, "di fronte all'obbligo
inderogabile di rifornire uniformemente l'impianto, senza rischio alcuno per l'Italsider", la possibilità
di ritenersi "caso eccettuato od imprevedibile quello diinidoneità permanente dell'impianto alla
depurazione dell'acqua a causa di un evento tra l'altro così imprevedibile come quello degli scarichi
abusivi, sia pure di rilievo".
Interpretazione che la corte di merito ha ravvisato "convalidata dal comportamento del Comune
successivo alla stipula del contratto, posto che pur nel verificarsi degli eventi cd. imprevedibili fin dal
1985 e poi dal 1989, il medesimo solo in prossimità dell'azione giudiziaria contestò i suoi obblighi
così come sopra definiti, chiedendo in precedenza ancora con lettera del (omissis) la comunicazione
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da parte appellata degli elementi contabili necessari per il pagamento da parte sua delle forniture di
acqua". Al riguardo sottolineando come tale condotta sia logicamente spiegabile in considerazione
delle necessità in cui l'Amministrazione comunale "si trovava di rinnovare le rete fognaria previa
realizzazione di un depuratore", e quindi nell'interesse ad "acquisire il terreno Italsider, ottimamente
collocato, ai fini del miglior utilizzo economico dell'impianto", oltre che nella sfiducia ... sulle sue
capacità di produrre acqua depurata della qualità richiesta pur in presenza di eventi prevedibili come
quello degli scarichi abusivi industriali. E specificamente escludendo, ancora, la rilevanza in
contrario della durata e dell'esecuzione differita del contratto, in quanto il Comune, "pur partendo, in
accordo con la controparte, dalla valutazione della natura commutativa del contratto (art. 7 e
dichiarazioni di valore ai fini fiscali)", si è "esplicitamente ed implicitamente accollato il rischio di un
suo sbilanciamento in favore dell'Italsider, prendendo atto dell'esigenza inderogabile della medesima
di non dover correre alcun inconveniente rispetto alla fornitura di acqua concordata, anche sotto il
profilo economico, se non e parzialmente per il caso di forza maggiore dovuta ad eventi naturali".
A tale stregua l'impugnata decisione si sottrae invero alle censure mosse dalla ricorrente, dovendo al
riguardo farsi d'altro canto richiamo al consolidato principio secondo cui in materia di interpretazione
del contratto la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica esige la specifica indicazione
dei canoni in concreto inosservati, e del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione, mentre
la denunzia del,1^ vizio di motivazione implica la puntualizzazione dell'obiettiva deficienza e
contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice del merito.
Nessuna delle due censure può invece risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto
dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione.
Per non soggiacere al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, quella data dal giudice
al contratto non deve d'altronde essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma
una delle possibili e plausibili interpretazioni;
sicchè quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili) non è
consentito alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in
sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (v. Cass., 25/10/2006, n. 22899; Cass.,
2/5/2006, n. 10131).
Quanto alla buona fede, la quale distintamente rileva come criterio di integrazione (art. 1375 c.c.) e
quale criterio di interpretazione del contratto (art. 1366 c.c.), assumendo significati diversi (nel primo
caso, di canone di condotta o correttezza), nella specie risulta indubbiamente evocata quale criterio
ermeneutico.
Alla stregua della formulata censura i suindicati principi non risultano dal ricorrente tuttavia
osservati.
Esso si limita infatti a dedurre genericamente che "con il ricorso al principio dell'interpretazione
secondo buona fede si possono arricchire le acquisizioni cui si perviene attraverso l'operazione
ermeneutica sul dato testuale, mediante integrazione, utilizzando cioè tutti gli elementi che, rispetto a
quanto è oggetto di formalizzazione esteriorizzata dai contraenti, consentono di ricostruirne la
volontà effettiva: si tratta, in altri termini, di rapportare il dato testuale, nel concorso di tutti gli
elementi valutativi a disposizione dell'interprete, alla buona fede intesa come buona regola di
condotta, al fine di effettuare un'operazione di controllo che, nell'ambito strettamente interpretativo,
consenta di verificare l'esigibilità dell'adempimento a carico di ciascuna parte, in relazione alle
circostanze sopravvenute e a una valutazione dell'economia dell'affare attenta ad una razionale
distribuzione dei rischi ... . Il principio di buona fede garantisce un equilibrio fra gli interessi dei
contraenti conseguente con le finalità in vista delle quali si sono assunti gli impegni ed in coerenza
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appunto con l'assetto contrattuale ... la buonafede si pone nel sistema come limite interno di ogni
statuizione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, concorrendo, quindi, alla
relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo, rispetto alla fisionomia apparente ...".
Per poi, dopo aver esaminato altri profili al riguardo ravvisati interessanti in chiave di interpratazione
del contratto de quo, genericamente concludere: "Il paradosso della sentenza impugnata è invece
quello che discende dalla constatazione (invero incomprensibile) secondo cui tutto il rischio sarebbe
stato da addossarsi alla sola parte pubblica, mentre la parte privata sarebbe stata in ogni caso garantita
di ogni e qualunque evento che avesse inciso sull'equilibrio delle prestazioni".
A tale stregua risulta invero omessa l'indicazione di quali aspetti (non suscitare e non speculare su
falsi affidamenti; non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte) in
cui si specifica il significato di obbligo di lealtà che la buona fede assume quale criterio legale
d'intepretazione del contratto risulterebbero nella specie violati, la cui osservanza avrebbe condotto la
corte di merito all'adozione di altra e diversa decisione.
Orbene, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, tale censura
appare allora finalizzata piuttosto, ma inammissibilmente, a sollecitare una diversa lettura delle
risultanze di causa, in contrasto proprio con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio
di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi all'attenzione dei
giudici della Corte di Cassazione tutti gli elementi di fatto già considerati dai giudici del merito a da
costoro asseritamente in termini erronei valutati, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento di
quegli stessi elementi già sottoposti al vaglio del giudice di seconde cure (cfr. Cass., 14/3/2006, n.
5443; Cass. n. 12984 del 2006).
Quanto infine alla doglianza secondo cui la corte di merito non ha nel caso ravvisato la sussistenza di
un contratto di somministrazione (in particolare "continuativa" e non già a carattere periodico), quale
fonte della fornitura di acqua nel caso erogata dall'AMGA, precisato anzitutto che la stessa - per non
impingere nel divieto di cui all'art. 81 cpv. c.p.c. deve intendersi formulata con stretto riferimento alla
considerazione della detta prestazione quale modalità alternativa dell'obbligazione a carico del
Comune in virtù dello stipulato contratto di permuta de quo, tenuto conseguentemente al relativo
pagamento - ovvero quale contratto da quest'ultima del tutto autonomo, va al riguardo sottolineato
che, come sopra esposto, la corte di merito ha dato logica e congrua motivazione della relativa
considerazione, la censura del ricorrente invero profilandosi in termini di sostanziale - e in sede di
legittimità non consentita - contrapposizione ermeneutica.
Con il 5^ motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 62 c.p.c., in
relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, in
relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito abbia confermato la sentenza di 1 grado anche sotto il profilo della
mancata ammissione della richiesta C.T.U. volta ad accertare il mancato funzionamento dell'impianto
di depurazione, e in particolare i dettagli del fenomeno dell'impossibilità di produzione della
convenuta acqua industriale.
Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, qualora con il ricorso per cassazione siano
denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del
giudice di merito di darvi ingresso pur se ritualmente richiesti, e in particolare l'omessa ammissione
di consulenza tecnica, il ricorrente ha l'onere di indicare specificamente tali mezzi, trascrivendo le
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circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l'esistenza di un nesso
eziologico tra l'omesso accoglimento dell'istanza e l'errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia,
senza quell'errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla
decisività delle prove (v. Cass., 22/2/2007, n. 4178; Cass., 12/6/2006, n. 13556; Cass., 1/4/2004, n.
6396; Cass., 16/6/2003, n. 9616; Cass., 19/7/2002, n. 10573; Cass., 12/5/2000, n. 6115).
Nel caso, il ricorrente ad un tanto non provvede, non ponendo invero questa Corte in grado di
valutare se e quali ragioni della ritenuta indispensabilità delle indagini tecniche ai fini della decisione
(cfr. Cass., 22/3/2005, n. 6178; Cass., 2/1/2002, n. 10; Cass., 20/11/2000, n. 14979, V. anche Cass.,
8/172004, n. 88), siano state nel caso prospettate ed immotivatamente disattese.
Pacifico essendo che il ricorso da parte del giudice di merito all'ausilio del consulente tecnico
d'ufficio è meramente facoltativo e rimesso al suo potere discrezionale, con la conseguenza che le
valutazioni in merito non necessitano di motivazione ed esulano dal controllo di legittimità (v. Cass.,
25/7/2006, n. 16980; Cass., 3/3/2005, n. 4652; Cass., 16/7/2003, n. 11143; Cass., 9/5/2002, n. 6641;
Cass., 17/1/2001, n. 583); e che d'altro canto la consulenza tecnica non costituisce in linea di
massima mezzo di prova bensì strumento di valutazione della prova acquisita, ma può assurgere al
rango di fonte oggettiva di prova quando si risolve nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente
con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (v. Cass., 19/1/2006, n. 1020; Cass.,
30/11/2005, n. 26083), va osservato che nell'impugnata sentenza il giudice del merito ha per converso
spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto di non disporre nel caso la c.t.u., ponendo in rilievo che
"nulla prova la natura inusuale o meglio straordinaria ed imprevedibile degli scarichi in effetti
verificatisi, nè in se stessi, come risultanti dagli scarni rapportini in atti, riferibili agli anni 1990-1991,
nè nelle loro dimensioni", sicchè in "in tale contesto ... non vi sono in causa elementi minimi idonei
che consentano di affidare ad un tecnico l'incarico di verificare la possibilità di fronteggiare con
adeguata progettazione od opportuni aggiustamenti tecnici la predetta situazione continuando a
fornire acqua depurata idonea ad usi industriali".
All'infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
cassazione, che liquida in Euro 5.100,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari di avvocato, in favore di
ciascuno dei controricorrenti, oltre a spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007.
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La presupposizione è una condicio juris che si presume conosciuta dalle parti.
Cassazione civile Sez. I, 5.5.2010, n. 10899
Svolgimento del processo
Il Comune di Rieti, nella qualità di successore degli Istituti Riuniti di Ricovero di Rieti nella cui
amministrazione era compresa la Casa di Riposo M.P., adì il Tribunale di Rieti per chiedere la
condanna del Comune di Pescorocchiano al pagamento della somma di L. 53.666.000 per la retta di
degenza presso la detta casa di riposo del sig. S.E., maturata dal 1 gennaio 1988 fino al 12.6.93 e
rimasta insoluta, alla cui corresponsione il Comune convenuto si era impegnato con la Casa di riposo
i giusta Delib.
Giunta 27 settembre 1986, n. 415.
L'ente convenuto si costituì e, per quel che ancora rileva in questa sede, eccepì nel merito di nulla
dovere per essersi devoluto l'onere del pagamento al Comune di Rieti in quanto l'assistito, che
concorreva al pagamento, aveva ivi trasferito la propria residenza anagrafica sin dal 12.11.87, il tutto
in dipendenza del c.d. istituto di soccorso di cui alla L. n. 6972 del 1890.
Il Tribunale adito, con sentenza n. 728/2000, respinse la domanda ritenendo risolto il contratto ai
sensi dell'art. 1467 c.c., in forza della presupposizione, ravvisata nel presupposto della delibera di
giunta che aveva disposto il ricovero del S. che questi fosse residente nel Comune di Pescorocchiano,
ben noto all'altro contraente, perciò al Comune di Rieti che era subentrato alla casa di riposo.
Gravata dai rispettivi appelli delle parti, la decisione è stata confermata dalla Corte d'appello di Roma
con sentenza n. 3476 depositata il 26 luglio 2004. Avverso questa decisione il Comune di Rieti ha
proposto il presente ricorso per cassazione in base a tre mezzi ulteriormente illustrati con memoria
difensiva depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
L'intimato non ha spiegato difesa.
Motivi della decisione
Col primo motivo il Comune di Rieti, denunciando violazione dell'art. 112 c.p.c., ascrive alla Corte
territoriale errore consistito nell'aver escluso il vizio di ultrapetizione in cui era incorso il primo
giudice, e d'aver per l'effetto confermato la rilevabilità d'ufficio della risoluzione sulla base della
presupposizione, che concreta invece eccezione in senso stretto, in quanto tale rimessa alla parte
interessata. Soggiunge che il Comune di Pescorocchiano non aveva sollevato siffatta eccezione, ma
aveva invocato il c.d. domicilio di soccorso per accreditare la propria tesi, secondo cui il Comune di
Rieti era ad esso succeduto nell'obbligo di pagare la retta di degenza alla data in cui il ricoverato
aveva ivi trasferito la propria residenza. La qualificazione di tale deduzione in termini d'eccezione di
risoluzione è perciò errata.
Il motivo è infondato.
La Corte territoriale, ribadita la natura contrattuale dell'obbligazione, ha negato il vizio di
ultrapetizione, denunciato dal Comune di Rieti sull'assunto che controparte non aveva formulato nè
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eccezione, da intendersi in senso stretto, nè domanda di risoluzione del contratto. Ha sostenuto che le
parti, pur in mancanza d'espresso riferimento, avevano tenuto presente nella formazione del loro
consenso, in modo da costituire presupposto ad esse comune, il fatto che il S. fosse residente nel
Comune di Pescorocchiano.
Venuta meno tale condizione, l'accordo si era risolto.
Ciò premesso, è evidente che, ricostruita la vicenda fattuale sulla scorta delle circostanze narrate
dalle parti e sostanzialmente coincidenti, i giudici di merito hanno interpretato il dato nel senso che la
sua deduzione avesse introdotto eccezione dell'ente convenuto, che hanno quindi ricondotto, in jure,
al paradigma della presupposizione. In questa cornice l'assunto non si presta a critica poichè,
l'indagine diretta a stabilire se la situazione esaminata sia stata dai contraenti, nella formulazione del
consenso, tenuta presente secondo il delineato schema della "presupposizione" si esaurisce sul piano
propriamente interpretativo del contratto e costituisce, pertanto, una valutazione di fatto riservata al
giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità se sia immune da vizi logici e giuridici.
La sintesi conclusiva che nella specie i giudei d'appello ne hanno tratto non è perciò fondata
sull'assunzione officiosa al thema disputandum di un'eccezione rimessa esclusivamente al potere
dispositivo della parte interessata, bensì sull'interpretazione di una circostanza di fatto, ritualmente
introdotta nelle difese di parte convenuta, sulla quale, formatosi regolarmente il contraddittorio, parte
attrice ha potuto interloquire, spiegando a riguardo ogni opportuna replica. In ragione di ciò non
hanno senso i richiami al rilievo non officioso della presupposizione, indiscutibile e certamente
condivisibile - per tutte Cass. nn. 2108/2000, 6631/2006. L'approdo si fonda sulla qualificazione
giuridica, ritenuta corretta in linea di stretto diritto, di un fatto acquisito al processo nella corretta
dialettica tra domanda ed eccezione; è pertanto immune dal vizio denunciato.
Col secondo motivo, che denuncia violazione dell'istituto della presupposizione e correlato vizio di
motivazione sul punto, il ricorrente illustra la costruzione dogmatica dell'istituto controverso e le
finalità tese all'equilibrio patrimoniale che ne legittimano l'operatività nell'ambito del rapporto
contrattuale, e, anche con riferimenti a precedenti di questa Corte, ne richiama il tratto indefettibile,
rappresentato dalla comune consapevolezza dell'evento supposto. Deduce difetto di motivazione a tal
riguardo, osservando che il giudice d'appello non avrebbe chiarito per quale ragione la casa di cura
M.P. fosse consapevole che la residenza del S. costituisse presupposto di validità ed efficacia del
negozio per il Comune di Pescorocchiano ed ha attribuito rilievo al fatto che il Comune di Rieti pagò
la retta di degenza in concomitanza col cambio di residenza del S., senza nulla eccepire.
Anche questo motivo è infondato.
La decisione impugnata ha sottolineato il fatto che per circa sei anni il Comune di Rieti ha sostenuto i
costi della degenza, senza nulla obiettare. Seppur con scarna motivazione, la Corte territoriale ha
recuperato e valorizzato, applicandolo correttamente, l'antico istituto del domicilio di soccorso,
operante ratione temporis, che, introdotto dalla L. 17 luglio 1809, n. 6972, ed ormai abrogato dalla L.
8 novembre 2000, n. 328, art. 30, regolava le spese per l'assistenza ed il ricovero dei meno abbienti,
individuando i Comuni aventi "l'obbligo di provvedere al ricovero stabile presso strutture residenziali
dei soggetti in grave disagio" in quelli entro il cui territorio si trovava il domicilio della persona
bisognosa d'assistenza. L'art. 72 della legge citata prevedeva che il domicilio di soccorso si
acquistava se il povero avesse dimorato in un Comune per più di cinque anni e si perdeva con
l'acquisto di altro domicilio di soccorso.
Tale ultima condizione, accertata in causa in senso incontrovertibile per aver il S. spostato la propria
residenza nel Comune di Rieti dal 1 gennaio 1988, ha svolto nell'individuazione dell'ente tenuto
all'adempimento dell'obbligo di provvedere al regolamento economico il ruolo decisivo che in
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sostanza è tipico proprio della presupposizione, dovendo suddetta condicio juris, per sua stessa
natura, ritenersi a conoscenza delle parti contraenti. La residenza del soggetto in stato di bisogno,
parametro legale d'individuazione dell'ente tenuto all'onere del pagamento della retta di degenza, non
poteva essere ignorata dal Comune di Pescorocchiano, all'epoca in cui si assunse l'obbligo di
sostenere le spese del ricovero del suo cittadino presso la casa di cura, anzi ne rappresentò il
presupposto indefettibile, nè tanto meno era sconosciuta dal Comune di Rieti, ed ha perciò assunto
valore dirimente.
In questa chiave, la decisione impugnata non necessitava di ulteriore o meglio argomentato tessuto
motivazionale. Il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 1467 c.c., e lamenta
che la ravvisata presupposizione non giustifica l'automatica risoluzione del contratto, erroneamente
pronunciata dalla Corte territoriale che avrebbe omesso di delibare sulla sussistenza di tale requisito.
Anche questo motivo devesi dichiarare infondato.
La Corte territoriale non ha trascurato di prendere in esame il profilo funzionale del rapporto, e
proprio in questa prospettiva ha correttamente considerato, in linea di diritto, che il venir meno del
presupposto fondante l'obbligazione assunta dal Comune di Pescorocchiano configurava una causa di
scioglimento del rapporto obbligatorio, attesa l'impossibilità della sua prosecuzione.
La presupposizione, o meglio la condizione non svolta ma tenuta presente dagli originar contraenti,
per la quale il contratto ebbe a fondarsi sulla base dell'indicata "situazione di fatto" assurta a
presupposto della volontà negoziale, ove venga a mancare comporta appunto la caducazione del
contratto stesso.
Il ricorso va, pertanto, integralmente respinto.
Non vi è luogo alla pronuncia sulle spese in assenza d'attività difensiva dell'intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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5) Mediatore e responsabilità
Tizio è un mediatore immobiliare.
Tizio veniva a sapere che Caio voleva vendere la sua villa Tuscolana; veniva pure a sapere che
Sempronio era interessato a comprare la villa Tuscolana.
Tizio, allora, decideva di mettere in relazione i due, facendosi dare un anticipo sulla provvigione da
Sempronio.
Dopo qualche giorno dal versamento dell’acconto sulla provvigione, Sempronio veniva a sapere che
Caio non era il vero proprietario della villa Tuscolana. Sempronio subiva dei danni, facendo
affidamento incolpevole sulla possibilità di acquistare Tuscolana.
Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Tizio.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 5
In premessa poteva essere utile schematizzare il fatto.
Successivamente, il parere andava inquadrato nell’ambito della responsabilità del mediatore, ex art.
1759 c.c.
Il mediatore, quando la mediazione è tipica, ovvero nei casi in cui agisce senza mandato, ex art. 1754
c.c., deve attenersi a criteri di imparzialità; laddove viola tali criteri, ovvero più in generale viola
criteri di buona fede nei rapporti con i terzi, ne risponde ex art. 1759 c.c., per contatto sociale, perché:
-viola norme specifiche di condotte, ex artt. 1754-1759-1176 c.c. (nonché ex l. 39/1989, inerente
l’albo dei mediatori) e non principi generali di neminem laedere;
-entra in contatto con le possibili “parti” dell’affare.
Considerando, allora, che le parti entrano in contatto e che viene ad essere vulnerata una norma
specifica, ne segue una responsabilità qualificabile come da contatto sociale, che rende
concretamente applicabile lo schema logico dell’art. 1218 c.c.
Tizio, pertanto, potrebbe essere chiamato a rispondere per “contatto sociale” rispetto a Sempronio
che afferma di aver subito danni?
Se Tizio era a conoscenza dell’altruità del bene e non ha avvertito Sempronio, ben si configurerà la
suddetta responsabilità, derivante dalla violazione dell’obbligo di comunicazione inerente circostanze
note a proposito della valutazione e sicurezza dell’affare, ex art. 1759 c.c.; in tal caso, Tizio dovrà
risarcire, secondo lo schema logico dell’art. 1218 c.c., i danni subiti da Sempronio, ex art. 1223 c.c.
Se, diversamente, Tizio non era a conoscenza dell’altruità del bene (Villa Tuscolana), in un’ottica
difensiva, sarebbe possibile sostenere l’assenza di responsabilità, in quanto il mediatore tipico è
responsabile solo per ciò che conosce, senza che gli sia richiesto una responsabilità per mancata
comunicazione di informazioni conoscibili; tale rilievo è direttamente desumibile dalla lettera della
legge, ex art. 1759 c.c., con particolare riferimento all’inciso “comunicare alle parti circostanze a lui
note”, ovvero ciò che già si conosce, senza che gli sia chiesto di acquisire ulteriori informazioni.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
In tema di responsabilità del mediatore, non rientra nella comune ordinaria diligenza, alla quale il
mediatore deve conformarsi nell'adempimento della prestazione ai sensi dell'art. 1176 c.c., lo
svolgimento, in difetto di particolare incarico, di specifiche indagini di tipo tecnico giuridico,
dovendosi ritenere pertanto che in caso di intermediazione in compravendita immobiliare, non può
considerarsi compreso nella prestazione professionale del mediatore l'obbligo di accertare, previo
esame dei registri immobiliari, la libertà dell'immobile oggetto della trattativa da trascrizioni ed
iscrizioni pregiudizievoli.
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107
Cass. civ. Sez. II, Sent., 06-11-2012, n. 19075
Svolgimento del processo
1. - Con atto di citazione notificato in data 4 aprile 2004, T. D.D. convenne in giudizio innanzi al
Tribunale di Novara - Sez. distaccata di Borgomanero, la Immobiliare Marini s.a.s. di G. P.,
esponendo che, insieme al defunto marito, aveva stipulato un contratto preliminare di compravendita
immobiliare relativo ad una villetta con relativo terreno pertinenziale in (OMISSIS), di proprietà di
M.V., versando a titolo di caparra confirmatoria la somma di L. 10.000.000, contestualmente alla
sottoscrizione del preliminare, in data 5 agosto 2000, la somma di L. 40.000.000 l'8 agosto 2000, la
somma di L 100.000.000 il 24 agosto 2000, e che a detta stipulazione le parti erano giunte per effetto
della mediazione della convenuta, cui avevano versato L. 9.000.000 a titolo di compenso; che il
contratto preliminare dava atto dell'esistenza di una ipoteca a favore del Mediocredito s.p.a.,
prevedendo che l'immobile, al momento della stipulazione del contratto definitivo, avrebbe dovuto
essere libero da pesi; che successivamente al pagamento degli indicati acconti, i promissari acquirenti
avevano scoperto che l'immobile era gravato da ulteriori ipoteche giudiziali, che successivamente
all'incontro dinanzi al notaio essi avevano versato ulteriori acconti sino alla complessiva somma di L.
290.000.000 senza che i venditori estinguessero i debiti di cui alle iscrizioni ipotecarie, sicchè il
contratto definitivo non si era potuto stipulare.
Pertanto l'attrice, ritenendo che sussistesse una responsabilità contrattuale dell'agenzia per omessa
informazione su dati essenziali ai fini della fattibilità dell'affare, chiese la condanna della convenuta
al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di quanto versato in esecuzione del preliminare.
2. - Il Tribunale adito limitò la pretesa risarcitoria di parte attrice al danno emergente conseguito al
versamento degli acconti effettuati alla promittente venditrice sino all'incontro del 23 gennaio 2001
presso il notaio, e, quindi, alla somma di L. 150.000.000, con rivalutazione monetaria ed interessi
legali, considerando innegabile un difetto di diligenza del mediatore per non aver fornito al cliente le
informazioni conoscibili con l'ordinaria diligenza, ed accogliendo altresì la domanda di manleva nei
confronti dei terzi chiamati, i venditori, sulla base del rilievo che il soggetto interessato a proporre la
vendita di un proprio immobile non può tacere circostanze di estremo rilievo quale la presenza di
ipoteche.
3. - La Immobiliare Marini propose appello nei confronti di tale sentenza.
La Corte d'appello di Torino, con sentenza depositata il 14 aprile 2010, rigettò il gravame.
Rilevò la Corte di merito che il mediatore, secondo il principio di buona fede e diligenza in concreto
esigibile da un professionista, ha l'obbligo di acquisire concretamente le informazioni ordinariamente
accessibili con la diligenza propria del professionista che dispone di strumenti adeguati, e soprattutto
di verificare la fondatezza delle informazioni in suo possesso, fra cui la informazione circa la
iscrizione ipotecaria dal venditore data alla mediatrice.
4. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la Immobiliare Marini s.a.s. di G.P. affidandosi ad un
unico motivo. Resiste con controricorso T.D.D., che ha anche depositato memoria.
Motivi della decisione
1. - Con l'unico motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1759 c.c.,
relativo agli obblighi gravanti sul mediatore. Avrebbe errato la Corte di merito nell'affermare la
responsabilità per difetto di informazione del mediatore che non abbia acquisito e, comunque,
comunicato, circostanze che egli avrebbe dovuto e potuto conoscere con l'ordinaria diligenza, quali le
iscrizioni ipotecarie. Si richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che
assegna un contenuto meno gravoso al dovere di diligenza posto a carico del mediatore, escludendo
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che nello stesso rientri, in mancanza di conferimento di uno specifico incarico in tal senso, rientri
anche l'obbligo di provvedere allo svolgimento di specifiche indagini di carattere tecnico - giuridico,
quali sono quelle volte all'accertamento di iscrizioni o trascrizioni pregiudizievoli sull'immobile
oggetto di compravendita.
2.1. - La censura merita accoglimento.
2.2. - Secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio intende
ribadire, poichè la legge n. 39 del 1989 subordina l'esercizio dell'attività di mediazione al possesso di
specifici requisiti di capacità professionale, configurandola come attività professionale, l'obbligo di
informazione gravante sul mediatore a norma dell'art. 1759 c.c., va commisurato alla normale
diligenza alla quale è tenuto a conformarsi nell'adempimento della sua prestazione il mediatore di
media capacità, e pertanto deve ritenersi che il suddetto obbligo deve riguardare non solo le
circostanze note, ma tutte le circostanze la cui conoscenza, in relazione all'ambito territoriale in cui
opera il mediatore, al settore in cui svolge la sua attività ed ad ogni altro ulteriore utile parametro sia
acquisibile da parte di un mediatore dotato di media capacità professionale con l'uso della normale
diligenza.
Tuttavia, secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, non rientra nella comune ordinaria
diligenza, alla quale il mediatore deve conformarsi nell'adempimento della prestazione ai sensi
dell'art. 1176 c.c., lo svolgimento, in difetto di particolare incarico, di specifiche indagini di tipo
tecnico giuridico, quale, con riguardo al caso di intermediazione in compravendita immobiliare,
quella relativa all'accertamento, previo esame dei registri immobiliari, della libertà dell'immobile
oggetto della trattativa, le trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli (v., tra le altre, Cass., sentt. n.
15926 del 2009, 15274 e n. 822 del 2006, n. 16009 del 2003, n. 6389 del 2001, n. 4791 del 1999. Per
un caso in cui si è ritenuto che l'obbligo del mediatore di riferire alle parti le circostanze dell'affare a
sua conoscenza, ovvero che avrebbe dovuto conoscere con l'uso della diligenza da lui esigibile,
ricomprenda, nel caso di mediazione immobiliare, le informazioni sulla esistenza di iscrizioni o
trascrizioni pregiudizievoli, v. Cass., sent. n. 16382 del 2009).
2.3. - Nella specie, dunque, la Immobiliare Marini correttamente, sulla base del riportato
orientamento giurisprudenziale, ritenne che l'incarico ricevuto non comportasse, in assenza di una
previsione diversa, l'obbligo di svolgere approfondite indagini in ordine alla sussistenza di iscrizioni
o trascrizioni pregiudizievoli sull'immobile di cui si tratta.
3. - Il ricorso de quo va, quindi, accolto. La sentenza impugnata va, di conseguenza, cassata e la
causa rinviata ad un diverso giudice - che viene designato in altra sezione della Corte d'appello di
Palermo, cui è demandato altresì il regolamento delle spese del presente giudizio - che riesaminerà la
controversia attenendosi al seguente principio di diritto: "In tema di responsabilità del mediatore, non
rientra nella comune ordinaria diligenza, alla quale il mediatore deve conformarsi nell'adempimento
della prestazione ai sensi dell'art. 1176 c.c., lo svolgimento, in difetto di particolare incarico, di
specifiche indagini di tipo tecnico giuridico, dovendosi ritenere pertanto che in caso di
intermediazione in compravendita immobiliare, non può considerarsi compreso nella prestazione
professionale del mediatore l'obbligo di accertare, previo esame dei registri immobiliari, la libertà
dell'immobile oggetto della trattativa da trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli".
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente
giudizio, ad altra sezione della Corte d'appello di Torino.
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La mediazione tipica, disciplinata dall'art. 1754 c.c. e segg., è soltanto quella svolta dal mediatore in
modo autonomo, senza essere legato alle parti da alcun vincolo di mandato o di altro tipo, e non
costituisce un negozio giuridico, ma un'attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il diritto
alla provvigione. Tuttavia, in virtù del "contatto sociale" che si crea tra il mediatore professionale e
le parti, nella controversia tra essi pendente trovano applicazione le norme sui contratti, con la
conseguenza che il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di aver fatto
tutto il possibile nell'adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, ai
sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, e di non aver agito in posizione di mandatario.
Cass. civ. Sez. III, Sent., 22-10-2010, n. 21737
Svolgimento del processo
La House Europa s.a.s. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze la Spess Italia s.r.l. e la
Impresa Costruzioni Lombardini s.n.c. chiedendo la loro condanna al pagamento in suo favore della
somma di L. 27.800.000, oltre accessori, per l'attività di mediazione che asseriva essere stata svolta
da F.R., sua legale rappresentante, per l'acquisto da parte della stessa Spess di un capannone edificato
dalla Lombardini.
La Spess, costituendosi in giudizio, contestava le pretese attrici e sosteneva che la House Europa non
poteva vantare diritti su una prestazione eventualmente eseguita da F.R., non essendo senz'altro
riferibili alla società le attività svolte da un socio.
La convenuta sosteneva quindi la nullità della citazione per la carente esposizione dei motivi di fatto
e di diritto a fondamento della domanda e che nessuna mediazione era stata svolta nè dalla F. nè dalla
House Europa.
Secondo la convenuta a mettere in contatto le parti furono invece il geom. C., incaricato dalla stessa
Spess e la Claudio Paganelli e C. s.n.c. incaricata dalla promittente venditrice impresa Lombardini.
Ai sensi dell'art. 1758 c.c. le parti convennero che la Spess Italia pagasse il geom. C. e che l'Impresa
Lombardini pagasse la Paganelli Claudio e C. s.r.l. F.R., secondo la Spess, fu occasionalmente
presente ad uno solo dei molti incontri fra C. M. e P.C. e comunque non si mise in contatto con le
parti nè partecipò alle trattative.
La Spess avendo pagato il Geom. C. chiedeva la chiamata in causa di quest'ultimo per essere tenuta
indenne dalle richieste della società attrice o per sentirlo condannare a rifondere le somme che essa
Spess fosse stata condannata a pagare alla House Europa.
L'Impresa di costruzioni Lombardini confermava l'estraneità della F. alle trattative che si erano svolte
con la Spess Italia per l'acquisto del capannone.
Rimanevano contumaci C. e Paganelli.
Il Tribunale di Firenze, in accoglimento della domanda della House Europa S.a.s. nei confronti della
Spess Italia e della Impresa Costruzioni Lombardini condannava le società convenute al pagamento,
in favore dell'attrice, della somma di L. 27.800.000 ciascuno, oltre accessori, a titolo di provvigione
per la mediazione relativa all'acquisto da parte della Spess del capannone edificato dalla Lombardini;
condannava inoltre C.M. e P. C. alla restituzione alla Spess ed alla Lombardini della somma da
queste corrispostagli a titolo di provvigione per il medesimo affare.
Proponeva appello la Spess Italia lamentando l'erronea valutazione delle risultanze processuali ed
insistendo per il rigetto della domanda.
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La House Europa contestava la fondatezza dell'appello e chiedeva la conferma della sentenza
impugnata.
Rilevava la Corte d'Appello, quanto alla dedotta nullità della citazione, che tale atto fu proposto da
F.R. quale legale rappresentante della House Europa, assumendo che l'attività di mediazione era stata
proprio da lei espletata quale legale rappresentante della stessa House Europa il cui scopo sociale è
quello di svolgere attività di mediazione. E la F. risulta iscritta allo speciale albo dei mediatori quale
legale rappresentante della suddetta società.
Quanto al merito sosteneva la Corte d'Appello che la F. partecipò al primo incontro relativo all'affare,
nonchè ad un altro incontro fra le parti contraenti; che la Lombardini spedì alla F. una lettera con la
bozza di capitolato per i lavori da eseguire. La House Europa ha prodotto in giudizio altri documenti
il cui possesso si spiega soltanto con la sua partecipazione alle trattative in qualità di mediatore.
Rileva altresì la Corte che le convenute in primo grado non hanno offerto alcun elemento di riscontro
a sostegno delle loro tesi.
La Corte d'appello confermava quindi l'impugnata sentenza con conseguente condanna
dell'appellante alle spese del grado.
Proponeva ricorso per cassazione la Spess Italia s.r.l. con tre motivi.
Resisteva con controricorso la House Europa S.a.s.
Motivi della decisione
Per ragioni di priorità logico giuridica è opportuno esaminare in primo luogo il secondo motivo con il
quale si denuncia "Violazione e falsa applicazione dell'art. 2266 c.c. laddove si afferma che l'attività
svolta dalla F. doveva ritenersi a favore della House Europa s.a.s. per il fatto che la F. era legale
rappresentante".
Secondo la Spess Italia l'art. 2266 c.c. stabilisce che le società agiscono attraverso i loro legali
rappresentanti, ma non che qualsiasi attività svolta dal legale rappresentante debba riferirsi alla
società. Per tale ragione, sostiene quindi la ricorrente, l'argomentazione del giudice di merito secondo
la quale la F. ha promosso l'azione giudiziaria quale legale rappresentante della House Europa è del
tutto irrilevante in quanto nel rapporto sostanziale la F. non si qualificò mai quale legale
rappresentante della House Europa.
Il motivo è infondato. Come accertato dal Giudice di merito, infatti, la F. risulta iscritta allo speciale
albo dei mediatori quale legale rappresentante della suddetta società ed inoltre partecipò al primo
incontro fra le parti, nonchè ad un successivo incontro. Risulta ancora che la Lombardini spedi alla F.
(e alla Spess Italia) una lettera con la bozza del capitolato dei lavori da eseguire ai fini della
realizzazione dell'edificio in cui era ubicato il capannone oggetto di vendita, nonchè la copia degli
elaborati tecnici relativi a detto edificio.
La House Europa ha inoltre prodotto in giudizio altri documenti il cui possesso conferma la propria
partecipazione alle trattative in qualità di mediatore. Le convenute invece, secondo l'impugnata
sentenza, non hanno offerto elementi a sostegno della propria tesi.
Con il primo mezzo d'impugnazione parte ricorrente denuncia "Violazione e falsa applicazione
dell'art. 1754 laddove viene ritenute accertato il rapporto di mediazione sulla base di fatti di per sè
inconcludenti a tale fine, quali la presenza a due incontri, la spedizione dall'altro contraente di una
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lettera, inviata alla Soc. ricorrente solo per conoscenza, il possesso di copie di alcuni documenti
concernenti le trattative".
Secondo la ricorrente si configura la mediazione solo quando la volontà di avvalersi dell'opera del
mediatore sia stata espressa da entrambe le parti. Nel caso in esame, invece, la Spess non ha
manifestato alcuna volontà in tal senso ed in specie nè la presenza della F. a due riunioni, nè la
spedizione di una lettera dell'altro contraente alla stessa Spess, nè il possesso di documenti provano la
volontà di quest'ultima di avvalersi dell'attività di mediazione della F. o della House Europe.
Il motivo è infondato.
L'art, 1754 c.c. non afferma infatti che il mediatore deve essere incaricato da entrambe le parti ma
che tale è "colui che mette in relazione due parti o più parti per la conclusione di un affare senza
essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza». In
tal senso la giurisprudenza di questa Corte sostiene che il rapporto di mediazione, inteso come
interposizione neutrale tra due o più persone per agevolare la conclusione di un determinato affare,
non postula necessariamente un preventivo accordo delle parti sulla persona del mediatore, ma è
configurabile pure in relazione ad una materiale attività intermediatrice che i contraenti accettano
anche soltanto tacitamente, utilizzandone 1 risultati ai fini della stipula del contratto. Ed ove il
rapporto di mediazione sia sorto per incarico di una delle parti ma abbia avuto poi l'acquiescenza
dell'altra, quest'ultima resta del pari vincolata verso il mediatore, onde un eventuale successivo suo
rifiuto non sarebbe idoneo a rompere il nesso di causalità tra la conclusione dell'affare, effettuata in
seguito direttamente tra le parti, e l'opera mediatrice precedentemente esplicata (Cass., 20.4.1963, n.
974).
In altri termini, la mediazione tipica, disciplinata dall'art. 1754 c.c. e segg., è soltanto quella svolta
dal mediatore in modo autonomo, senza essere legato alle parti da alcun vincolo di mandato o di altro
tipo, e non costituisce un negozio giuridico, ma un'attività materiale dalla quale la legge fa scaturire il
diritto alla provvigione. Tuttavia, in virtù del "contatto sociale" che si crea tra il mediatore
professionale e le parti, nella controversia tra essi pendente trovano applicazione le norme sui
contratti, con la conseguenza che il mediatore, per andare esente da responsabilità, deve dimostrare di
aver fatto tutto il possibile nell'adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo
carico, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, e di non aver agito in posizione di mandatario (Cass.,
14.7.2009, n. 16382).
Con il terzo ed ultimo motivo si lamenta infine "Violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. in
quanto viene affermato nell'impugnata sentenza del Giudice di merito che "a fronte di tali gravi,
univoci e convergenti elementi indiziari, le convenute in primo grado non hanno offerto alcun
positivo elemento alla propria generica negativa", mentre l'art. 2697 c.c. stabilisce che "chi vuol far
valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento".
Il motivo, incentrato sull'affermazione che in nessuna delle sentenze dei Giudici di merito risulta
conseguita la prova del fatto affermato dalla Soc. attrice, è infondato.
La sussistenza di "gravi, univoci e convergenti elementi indiziari" costituisce dimostrazione
dell'avvenuto svolgimento dell'attività mediatoria. Il concreto accertamento di tali indizi è attività di
merito, non sindacabile in sede di legittimità ed è stato, nella specie, correttamente svolto
dall'impugnata sentenza.
Spetta infatti al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici,
individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai
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requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato
di legittimità.
Deve peraltro rilevarsi che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del
ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare (come nel motivo di ricorso in esame) un
convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta
illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (Cass., 2.4.2009 n. 8023).
In conclusione, per tutte le ragioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato e le spese del
ricorso per cassazione poste a carico di parte ricorrente nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del processo di cassazione che
liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre rimborso forfettario
spese generali ed accessori come per legge.
Nella mediazione tipica la responsabilità del mediatore, con specifico riferimento agli obblighi di
correttezza e di informazione, si configura come responsabilità da "contatto sociale"; nel caso in cui
il mediatore agisca invece come mandatario, assume su di sè i relativi obblighi e, qualora si
comporti illecitamente recando danni a terzi, è tenuto a favore di quest'ultimi al risarcimento dei
danni ex art. 2043 c.c., (non escludendosi in proposito un'eventuale corresponsabilità del mandante).
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 14 luglio 2009, n. 16382
Svolgimento del processo
Con scrittura in data 27-7-1989, M.R. dette incarico alla Italiana Immobiliare s.r.l. (poi divenuta
s.p.a.) di promuovere la vendila di un appartamento sito in ****, di cui aveva dichiarato di essere
comproprietaria insieme alla madre M.E. e a N.L..
O.B.E., che a sua volta si era rivolta alla Italiana Immobiliare per l'acquisto di una casa, sottoscrisse
una prima proposta di acquisto di detto appartamento in data **** e la M.R., all'atto dell'accettazione
fece presente al mediatore che comproprietari del bene erano anche M.I., M.A., N.I.V., N.A., P.R. e
P.G., anche in nome e per conto dei quali la stessa M.G. sottoscrisse l'accettazione; la stessa O.B., in
data ****, sottoscrisse una seconda proposta di acquisto per lo stesso immobile, in quanto era emersa
l'esistenza di una pratica di condono edilizio in precedenza non comunicata dalla M.G., e anche tale
seconda proposta fu accettata dalla M.G., con le ulteriori sottoscrizioni di N.L. e M.E..
In seguito, in virtù di più approfonditi accertamenti da parte del notaio rogante, risultò che l'immobile
in questione era riportato nel n.c.e.u. con due diversi numeri di partita, uno dei quali risultava
intestato per 1/8 a C.R., deceduta da anni e della quale non erano reperibili gli eredi.
Pertanto, la O.B. rinunciò ad acquistare la proprietà per intero, ottenendo la restituzione della caparra
versata, e chiedendo alla società mediatrice Italiana Immobiliare il rimborso della provvigione, oltre
al risarcimento dei danni.
Per il rifiuto della società in ordine a tali richieste, la O.B., con atto notificato il 16-9-1993,
conveniva in giudizio la Italiana Immobiliare ai fini della restituzione della provvigione e del
risarcimento dei danni; costituitasi la società (che in particolare negava ogni responsabilità a suo
carico, con particolare riferimento all'esistenza della quota della C.R.), l'adito Tribunale di Firenze,
con sentenza n. 2502/2002, accoglieva in parte la domanda condannando, la Immobiliare al
pagamento di Euro 2.582,28, corrispondenti all'importo versato, oltre interessi e rivalutazione
monetaria a titolo di restituzione della provvigione pagata dalla O.B.; ciò in quanto riteneva che il
mediatore è tenuto ad una corretta informazione, secondo il criterio di media diligenza di cui all'art.
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1176 c.c., e che pertanto doveva ritenersi responsabile per avere omesso di accertare l'effettiva
titolarità del bene.
A seguito dell'appello della Italiana Immobiliare, la Corte d'Appello di Firenze, costituitasi la O.B.,
con la sentenza in esame, in data 28-5-2004 / 22-4-2005, rigettava l'impugnazione; affermava, in
particolare, la Corte territoriale che "esaminando la proposta contrattuale che l'appellante sottopose
all'appellata, facendogliela sottoscrivere, essa appare stesa nella maniera più semplice e più piana, in
perfetta complementarietà con le diciture di rito del modulo prestampato, senza il minimo segnale
verso il grosso problema, che c'era dietro, della complicata intestazione dell'immobile. Anzi, dal
tenore letterale della proposta si esclude addirittura l'ipotesi di una comproprietà, giacchè l'oggetto
dell'acquisto proposto è la sua pozione immobiliare, sua nel senso di appartenente alla venditrice.
Insomma, la promittente acquirente sentiva di muoversi in un campo sicuro. E invece non era così. A
questo punto, le possibili soluzioni sono due: o la società di mediazione non si curò affatto di
guardare, o forse nemmeno di richiedere alla venditrice, i titoli di provenienza del suo diritto
dell'immobile; oppure, avendoli guardati, ed essendosi accorta che le venditrice non era l'unica
proprietaria, o che, comunque, la situazione dell'intestazione non era chiara, omise di farlo presente
nella proposta contrattuale fatta firmare all'appellata. Si scelga l'una o l'altra ipotesi, la responsabilità
contrattuale della società di mediazione c'è comunque. Sul dovere professionale di esaminare il tìtolo
di provenienza, prima di sottoporre come fattibile l'affare al pubblico, o anche al singolo interessato,
non esistono dubbi, perchè la funzione del mediatore professionale, con determinanti requisiti di
cultura e competenza (Cass. n. 6389 del 8-2-2001), implica innanzitutto la verifica della fattibilità
reale dell'affare, e non si riduce ad essere soltanto un megafono della grida negoziali altrui; sul
dovere di rappresentare con scrupolo e lealtà alle parti le reali difficoltà che gli constano circa la
fattibilità dell'affare non si può dubitare ugualmente, alla luce dell'insegnamento della Suprema
Corte, più volte sopra citato".
Ricorre per cassazione la Italiana Immobiliare con due motivi, illustrati con memoria; resiste con
controricorso la O.B..
Motivi della decisione
Con il primo motivo si deduce violazione degli artt. 1755 e 1759 c.c., e relativo difetto di
motivazione, in quanto erroneamente i giudici d'appello osservano che nella mediazione sarebbe
"insito" un rapporto di mandato; si aggiunge che "ciò è errato e forviante perchè la mediazione
presuppone la imparzialità del mediatore, che istituzionalmente non è nè può essere il rappresentante
o comunque il mandatario di una sola parte, se non rinunciando al proprio ruolo di intermediario
imparziale e perdendo quindi il diritto alla provvigione" ed inoltre che "in senso contrario non può
certo invocarsi il disposto della L. n. 39 del 1989, art. 2, comma 4, là dove prevede l'iscrizione nel
Ruolo, in un'apposita sezione, anche degli agenti muniti di mandato a titolo oneroso: iscrizione che
ha il solo scopo di garantire la professionalità anche di tale categoria di soggetti, ma che non implica
il venir meno della differenza ed incompatibilità oggettiva tra le due figure"; si afferma, infine, che
erroneamente "nel nostro caso la Corte di merito ha ritenuto per l'appunto che l'accertamento della
proprietà costituisse una verifica elementare, come tale dovuta dal mediatore in forza dell'obbligo di
adeguamento della propria attività al criterio di diligenza professionale media".
Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 1224 e 1277 c.c., e relativo difetto di
motivazione, in quanto "errata è poi la sentenza della Corte d'Appello di Firenze nella parte in cui ha
confermato la decisione del Tribunale di gravare l'importo di Euro 2.582,28 della rivalutazione
monetaria e degli interessi legali sulla somma così rivalutata"; si aggiunge che "la mera condanna alla
restituzione della provvigione era invece in astratto giustificata dal ritenuto inadempimento del
mediatore, ma costituiva all'evidenza debito di valuta, giacchè l'obbligo restitutorio si concretizza nel
pagamento della stessa somma ricevuta, cioè di un tantundem già predeterminato nel suo ammontare"
e che "la Corte di merito dimentica anche che il danno da svalutazione nelle obbligazioni pecuniarie
va dimostrato come danno ulteriore ex art. 1224 c.c., comma 2".
Il ricorso è infondato in relazione a entrambi i suddetti motivi.
Riguardo alla doglianza di cui al primo motivo avente ad oggetto la natura della mediazione e la
"misura" della responsabilità del mediatore, considerate dal Giudice della Corte territoriale come
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entrambe riconducibili al "rapporto di mandato", rapporto non ritenuto invece sussistente dall'odierna
ricorrente, con conseguente esclusione dell'obbligo di diligenza professionale in ordine alla
comunicazione di tutti i dati e le circostanze, note al mediatore o comunque dallo stesso conoscibili
dell'immobile oggetto di compravendita, occorre rilevare che la censura non è meritevole di
accoglimento, pur dovendosi provvedere a rivisitare le argomentazioni dei Giudici di secondo grado.
Occorre in proposito osservare, anche sulla base, in parte, di quanto recentemente affermato da
questa Corte (in particolare le sentenze nn. 24333/2008 e 19066/2006) che, oltre alla mediazione c.d.
ordinaria o tipica di cui all'art. 1754 c.c., consistente in un attività giuridica in senso stretto, è
configurabile una "mediazione" di tipo contrattuale che risulta correttamente riconducibile, più che
ad "una mediazione negoziale atipica", al contratto di mandato.
Accanto, infatti, all'ipotesi delineata dall'art. 1754 c.c., i disposti di cui agli artt. 1756 e 1761 c.c.,
supportano l'eventuale configurazione di un vero e proprio rapporto di mandato ex art. 1703 c.c..
La previsione tipica di cui all'art. 1754 c.c., individuando nel mediatore "colui che mette in relazione
due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legalo ad alcuna di esse da rapporti di
collaborazione di dipendenza o di rappresentanza", pone in rilevo tre aspetti: a) l'attività di
mediazione prescinde da un sottostante obbligo a carico del mediatore stesso, perchè posta in essere
in mancanza di un apposito titolo (costituente rapporto subordinato o collaborativo); b) "la messa in
relazione" delle parti ai fini della conclusione di un affare è dunque qualificabile come di tipo non
negoziale ma giuridica in senso stretto; c) detta attività si collega al disposto di cui all'art. 1173 c.c.,
in tema di fonti delle obbligazioni, e, specificamente, al derivare queste ultime, oltre che da contratto,
da fatto illecito, o fatto, da "ogni altro atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento
giuridico" (nel senso, quindi, che l'attività del mediatore è dallo stesso legislatore individuata come
fonte del rapporto obbligatorio nel cui ambito sorge il diritto di credito alla provvigione di cui all'art.
1756 c.c.).
Appare preferibile ritenere l'attività in oggetto (per quanto "di regola" previsto nel codice civile)
quale giuridica in senso stretto e non negoziale, non solo perchè, riconducendosi all'antica distinzione
tra atto e negozio, gli effetti della stessa sono specificamente predeterminati dallo stesso legislatore
(con particolare riferimento a detta provvigione) ma soprattutto perchè non vi è alla base della stessa
un contratto (rectius: regolamento di interessi "preventivamente" concordalo dal mediatore con una o
più parti); ciò comporta che il mediatore, sempre per quanto configurato nell'art. 1754 c.c., acquista il
diritto alla provvigione (a condizione della conclusione dell'affare) non in virtù di un negozio posto in
essere ai sensi dell'art. 1322 c.c., (in tema di autonomia contrattuale) ed i cui effetti si producono ex
art. 1372 c.c. ("il contratto ha forza di legge tra le parti", nel senso che l'efficacia contrattuale è
giuridicamente vincolante) bensì sulla base di un mero comportamento (la messa in relazione di due
o più parti) che il legislatore riconosce per ciò solo fonte di un rapporto obbligatorio e dei connessi
effetti giuridici.
Ciò non toglie, per come già esposto, che l'attività del c.d. mediatore possa essere svolta anche sulla
base di un contratto di mandato.
Per definizione, l'affidamento di un incarico "col quale una parte si obbliga a compiere uno più atti
giuridici per conto dell'altra" da luogo al contratto di mandato ex art. 1703 c.c., (oltre che ad alcune
particolari figure di contratto, quali la commissione, la spedizione e l'agenzia di cui rispettivamente
agli artt. 1731, 1737 e 1742 c.c., in cui il nucleo essenziale degli interessi dei soggetti contraenti,
caratterizzato da un'attività giuridica posta in essere da una parte per conto dell'altra, con presunzione
di onerosità, e individuante la causa, è analogo a quello tipizzante il mandato stesso ed è altresì
specificato; nella commissione: acquisto o vendita di beni per conto del committente e in nome del
commissionario; nella spedizione: conclusione di un contratto di trasporto in nome proprio e per
conto del mandante; nell'agenzia: promozione, in modo stabile, per la conclusione di contratti in una
zona determinata).
Ne deriva, come spesso avviene nella prassi (e come è facile rinvenire nei contratti standard di
mediazione immobiliare, ove appunto si indica, nella maggior parte dei casi, un mandato o un
incarico a vendere o ad acquistare beni immobili), che il mediatore in molti casi agisca non sulla base
di un comportamento di mera messa in contatto tra due o più soggetti per la conclusione di un affare
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(attività giuridica in senso stretto che prescinde da un sottostante titolo giuridico) ma proprio perchè
"incaricato" da una o più parti ai fini della conclusione dell'affare (generalmente in ordine all'acquisto
o alla vendita di un immobile); in tal caso risulta evidente che l'attività del mediatore - mandatario è
conseguenziale all'adempimento di un obbligo di tipo contrattuale (e dunque, ex art. 1173 c.c., questa
volta riconducibile al contratto come fonte di obbligazioni).
Tale diversa, duplice qualificazione giuridica dell'attività del mediatore si rinviene, al di là di detta
prassi e da un punto di vista formale, non solo, nell'ambito della disciplina codicistica della
mediazione, all'art. 1754 c.c. (diritto al rimborso delle spese nei confronti della persona per "incarico"
della quale sono state eseguite, anche se l'affare non è concluso) e all'art. 1756 c.c., (incarico al
mediatore da una delle parti di rappresentarla negli atti relativi all'esecuzione del contratto concluso
con il suo intervento), ma anche nella L. n. 39 del 1989, (recante "modifiche ed integrazioni alla L.
21 marzo 1958, n. 253, concernente la disciplina della professione di mediatore"), istitutiva del ruolo
professionale degli agenti di affari in mediazione; in quest'ultima, in particolare, rilevano l'art. 2,
punto 2 ("il ruolo è distinto in tre sezioni: una per gli agenti immobiliari, una per gli agenti
merceologici ed una per gli agenti muniti di mandato a titolo onerose, salvo ulteriori distinzioni in
relazione a specifiche attività di mediazione da stabilire con il regolamento di cui all'art. 11"), l'art. 2,
punto 4 ("l'iscrizione al ruolo deve essere richiesta anche se l'attività viene esercitata in modo
occasionale o discontinuo, da coloro che svolgono, su mandato a titolo oneroso, attività per la
conclusione di affari relativi ad immobili o ad aziende"), l'art. 5, punto 4 ("il mediatore che per
l'esercizio della propria attività si avvalga di moduli o formulari, nei quali sono indicate le condizioni
del contratto, deve preventivamente depositare copia presso la Commissione di cui all'art. 7"). Del
resto, come già detto, è la stessa giurisprudenza della Corte a prospettare la possibilità che tra
mediatore ed una delle parti intercorra un rapporto di tipo contrattuale (da ultimo, Cass. n. 8374/2009
8374/2009 ), salvo poi a verificare la compatibilità di questo con la mediazione con senso tipico.
Ciò posto, è ovvio che per il mediatore, a seconda se agisca senza mandato sulla base della generale
previsione di cui all'art. 1754 c.c., oppure quale incaricato-mandatario, muti il regime della sua
responsabilità.
Nel primo caso il mediatore pur compiendo, come detto, un'attività giuridica in senso stretto, è
comunque tenuto all'obbligo di comportarsi in buona fede, in virtù della clausola generale di
correttezza di cui all'art. 1175 c.c., (sull'estensione della regola della buona fede in senso oggettivo a
tutte la fonti delle obbligazioni ex art. 1173 c.c., ivi compreso l'atto giuridico non negoziale, Cass. n.
5140/2005), estrinsecantesi, in specie, nell'obbligo di una corretta informazione, tra cui la
comunicazione di tutte le circostanze a lui note o conoscibili sulla base della diligenza qualificata di
cui all'art. 1176 c.c., comma 2, vertendosi senz'altro in tema di attività professionale per come
ulteriormente ribadito dalla citata L. n. 39 del 1989. Tale obbligo di correttezza sussiste a favore di
entrambe le parti, messe in contatto ai fini della conclusione dell'affare, quale comprensivo di
qualunque operazione di tipo economico - giuridico (sulla posizione di "neutralità" ed "imparzialità"
nei confronti delle parti che concludono l'affare, tra le altre, Cass. n. 12106/2003, Cass. n.
13184/2007, la quale sottolinea la posizione di "terzietà" del mediatore rispetto ai contraenti posti in
contratto in ciò differenziandolo dall'agente di commercio, nonchè Cass. n. 6959/2000, che sottolinea
come carattere essenziale della figura giuridica del mediatore, ai sensi dell'art. 1754 c.c., è appunto la
sua imparzialità, intesa come assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d'opera, di
preposizione institoria e di qualsiasi altro rapporto che renda riferibile al dominus l'attività
dell'intermediario, per cui nel caso di specie la S.C. ha escluso il requisito dell'imparzialità ritenendo
sussistente un mandato costituito dall'affidamento dell'incarico di trattare la vendita dell'immobile in
norme e per conto del preponente).
In particolare, egli è tenuto a comunicare: l'eventuale stato di insolvenza di una delle parti, l'esistenza
di iscrizioni o pignoramenti sul bene, oggetto della conclusione dell'affare, la sussistenza di
circostanze in base alle quali le parti avrebbero concluso il contratto con un diverso contenuto,
l'esistenza di prelazioni ed opzioni (su tali punti, tra le altre, Cass. n. 5938/1993).
Inoltre, se, prima facie, la responsabilità del mediatore non mandatario appare agevolmente di natura
extracontrattuale, risulta preferibile, riguardando la stessa una figura professionale, applicare la più
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recente previsione giurisprudenziale di legittimità della responsabilità "da contatto sociale" (su cui,
tra le altre, Cass. S.U. n. 577/2008; Cass. n. 12362/2006 e Cass. n. 9085/2006, con specifico
riferimento al medico ed alle sue prestazioni prescindenti da un rapporto contrattuale); infatti, tale
situazione è riscontrabile nei confronti dell'operatore di una professione sottoposta a specifici
requisiti formali ed abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista l'iscrizione ad un apposito
ruolo, ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue
caratteristiche (si pensi, ad esempio, alle c.d. agenzie immobiliari dalle particolari connotazioni
professionali ed imprenditoriali).
Da tale configurazione di responsabilità a carico del mediatore, che opera ai sensi dell'art. 1754 c.c.,
in caso di contenzioso tra il mediatore stesso e le parti, deriva sia che e il primo che deve dimostrare
di aver fatto tutto il possibile, in base alla richiamata diligenza ex art. 1176 c.c., comma 2,
nell'adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico (mentre spetta alle
seconde fornire prova esclusivamente dell'avvenuto contatto ai fini della conclusione dell'affare), sia
che il termine di prescrizione per far valere in giudizio detta responsabilità del mediatore è quello
ordinario decennale (e non quello quinquennale della responsabilità ex art. 2043 c.c.).
Ancora, per quanto già esposto, è evidente che l'attore che agisce per ottenere la provvigione di una
mediazione da lui effettuata ha l'onere di dimostrare di non aver agito in posizione di mandatario di
una delle parti.
Nel secondo caso, vale a dure dell'attribuzione al professionista - mediatore di un incarico, e quindi,
per quanto esposto, della sussistenza di un mandato, anche eventualmente con poteri rappresentativi
mediante procura in ordine alla spendita del nome (mediante sottoscrizione dei relativi moduli di
contratto standard in uso presso i mediatori o le c.d. agenzie immobiliari a veste societaria,
erroneamente qualificati come "contratto di mediazione" o "conferimento incarico di mediazione per
la vendita di un immobile"), le conseguenze sul piano giuridico sono ben diverse rispetto alla figura,
tipica, ordinaria o tradizionale che dir si voglia, della mediazione ex art. 1754 c.c..
Ed infatti: il mediatore è in realtà un mandatario poichè assume "essenzialmente", sulla base della
causa in concreto del contratto posto in essere, quale derivante dalla sintesi degli interessi
regolamentati, l'incarico, di solito, di reperire un acquirente (oppure un venditore) o un locatario
(oppure un locatore) di un immobile, con "ulteriori compiti" (di consulenza anche fiscale, di
assistenza nelle trattative e sino al p momento del rogito, di pubblicizzare la relativa offerta, di far
visitare l'immobile etc.), in molti casi con la fissazione di un termine, con la previsione del c.d. diritto
di esclusiva all'incaricato nonchè del diritto di recesso per entrambi i contraenti; a fronte di dette
prestazioni riceve un corrispettivo, nella percentuale convenuta sul prezzo di compravendita, con
pagamento sospensivamente condizionato (in modo esplicito o implicito) alla conclusione dell'affare
(generalmente all'accettazione della proposta).
E' di tutta evidenza che siamo ben al di fuori della previsione codicistica della mediazione per svariati
motivi: la posizione del mandatario in esame è inconciliabile ed ostativa rispetto alla mediazione
tradizionale (in cui come detto il mediatore, senza preliminare assunzione di obblighi, compie
l'attività di messa in contatto tra due soggetti che concludono quindi contrattualmente, e non solo,
mediante comunque l'assunzione di vincoli giudici, un'operazione di natura economica - sul punto,
tra le altre, Cass. n. 2200/2007); il diritto al relativo compenso (o provvigione), sempre condizionato
all'iscrizione nel ruolo professionale ai sensi della L. n. 39 del 1989, sorge non più, ex art. 1755 c.c.,
nei confronti "di ciascuna delle parti" e solo "per effetto del suo intervento", quale appunto
conseguenziale alla sua neutralità ed imparzialità nel metterle in relazione, bensì è a carico del solo
mandante, per quanto previsto agli artt. 1709 e 1720 c.c., (così come avviene, ad esempio, nel
contratto di agenzia, ove sussiste l'obbligo di corrispondere le provvigioni a carico del solo
preponente) rispetto al quale è, a sua volta, contrattualmente vincolato, nell'espletamento dell'incarico
(di fiducia o intuitus personae) e delle connesse prestazioni, pur sempre con la diligenza ex art. 1176
c.c., comma 2, stante la sua natura professionale, in deroga a quanto stabilito all'art. 1710 c.c.; ancora,
il mandatario in esame, oltre ad essere obbligato ai sensi dell'art. 1711 c.c. e ss., è tenuto
all'osservanza della normativa in tema di contratti di consumo (ove ne ricorrano i presupposti
soggettivi, vale a dire il rapporto professionista - imprenditore, da un lato, e consumatore - persona
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fisica) di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, con particolare riferimento al generale dovere di
informazione ex art. 5, alla disciplina delle clausole vessatorie ex art. 33 e ss. ed, in specie, alla
connessa azione inibitoria ex art. 37; ferma restando, ovviamente, l'applicazione della disciplina
generale dei contratti in tema di onere della prova e prescrizione.
Tra l'altro, sul carattere "essenziale" della figura giuridica del mediatore, ai sensi dell'art. 1754 c.c.,
quale collegato all'assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d'opera, di preposizione
institoria e di qualsiasi altro rapporto, carattere non configurabile in caso di soggetto munito di
mandato (con rappresentanza o meno) per la stipulazione di un contratto con un terzo, si è da tempo
pronunciata questa Corte (si veda, in particolare, Cass. nn. 4340/1980 e 1995/1987).
Riguardo, pertanto, a detto primo motivo di ricorso, pur non risultando condivisibile la
configurazione della mediazione quale avente sempre a base un mandato, con "coinvolgimento" in
esso di entrambe le parti che concludono l'affare in un sorta di rapporto trilaterale con il mediatore,
priva di pregio è però la tesi sostenuta dal ricorrente di esclusione della sua responsabilità.
Per quanto esposto, nel caso in cui, come quello in esame, il c.d. mediatore ha in realtà agito in virtù
di un incarico consistente in un mandato (tale circostanza, oltre ad essere dedotta nella decisione
impugnata, è ammessa dalla stessa ricorrente ove afferma che "con scrittura in data **** la signora
M.R. incaricò la Italiana Immobiliare s.r.l., poi divenuta s.p.a., di promuovere la vendita di un
appartamento su due piani posto in Scandicci"), esso mandatario, e quindi, nella fattispecie in
oggetto, detta Italiana Immobiliare, risponde, ove si comporti in modo illecito, a titolo di
responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., nei confronti del soggetto "destinatario" della sua
attività che assume quindi, in quanto estraneo a detto rapporto contrattuale, la qualifica di terzo.
Ne deriva che la Italiana Immobiliare, incaricata dalla M.R. di vendere l'immobile in questione, nel
non rendere edotta la O.B., quale sottoscrittrice di due proposte di acquisto in ordine all'effettiva
contitolarità del bene in capo a più soggetti (di cui uno deceduto e con eredi non reperibili) ed in
ordine alle reali condizioni dell'immobile (assoggettato a pratica di condono edilizio), nel non
assolvere con la diligenza professionale richiesta i propri obblighi di mandataria, ha ingenerato
nell'odierna resistente un affidamento non colpevole sulla corrispondenza alla realtà della situazione
apparente, con il conseguente sorgere di responsabilità a suo carico ex art. 2043 c.c., (sul punto,
specificamente Cass. n. 4000/l 977 e Cass. n. 16740/2002, la quale ultima non esclude una
conresponsabilità in proposito del mandante, ai sensi dell'art. 2055 c.c., nel caso di specie esulante
dal thema decidendum, non chiesta e non provata).
Ne deriva ancora, con conferma sul punto di quanto statuito dalla Corte territoriale ("tale
inadempimento .... comporta la restituzione della prestazione ricevuta, cioè del compenso per la
mediazione, e del risarcimento del danno, il quale, a prescindere da forme di ulteriore perdita, è già
insito nel deprezzamento del danaro medio tempore trattenuto dalla parte inadempiente: il che vuoi
dire che trattasi comunque di credito di valore e non di valuta"), la sussistenza dell'obbligo
risarcitorio a carico della Italiana Immobiliare, parametrato sulla restituzione della ricevuta caparra,
in favore dell'odierne resistente, che, quale obbligazione di valore, è soggetta sia alla rivalutazione
che al pagamento degli ulteriori interessi legali (in proposito, tra le altre, Cass. n. 4791/2007), con ciò
dimostrandosi infondato anche il secondo motivo di ricorso.
Privo del requisito dell'autosufficienza è poi lo specifico profilo di censura di cui a detto secondo
motivo in ordine alle modalità di liquidazione degli interessi, essendosi la Corte territoriale limitata a
confermare sul punto la decisione di primo grado; in particolare la società ricorrente non riporta
quello che a suo dire è stato "specifico motivo di appello inerente il calcolo degli interessi sulla
somma rivalutata non di anno in anno".
In conclusione: a) la mediazione "tipica" di cui all'art. 1754 c.c., comporta che il mediatore, senza
vincoli e quindi in posizione di imparzialità, ponga in essere un'attività giuridica in senso stretto di
messa in relazione tra due o più parti, idonea a favorire la conclusione di un affare; b) la stessa è
incompatibile con un sottostante rapporto di mandato tra il c.d. mediatore ed una delle parti che ha
interesse alla conclusione dell'affare stesso, nel qual caso il c.d., mediatore - mandatario non ha più
diritto alla provvigione da ciascuna delle parti ma solo dal mandante; c) nella mediazione tipica la
responsabilità del mediatore, con specifico riferimento agli obblighi di correttezza e di informazione,
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si configura come responsabilità da "contatto sociale"; d) nel caso in cui il mediatore agisca invece
come mandatario, assume su di sè i relativi obblighi e, qualora si comporti illecitamente recando
danni a terzi, è tenuto a favore di quest'ultimi al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c., (non
escludendosi in proposito un'eventuale corresponsabilità del mandante); e) nella vicenda in esame,
risultando pacifica la circostanza dell'affidamento di un mandato a vendere alla Italiana Immobiliare
da parte di M.R., quest'ultima nel dar luogo da parte della O.B. alla sottoscrizione di proposte di
acquisto, sulla base di errati presupposti di fatto prospettati dalla società, risulta obbligata, oltre alla
restituzione di quanto indebitamente percepito, al risarcimento dei danni (restituzione e risarcimento
chiesti sin dall'atto introduttivo del giudizio).
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese della presente
fase che liquida in complessivi Euro 3.100,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi), oltre spese generali ed
accessorie come per legge.
Così deciso in Roma, il 22 aprile 2009.
Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2009.
E’ responsabile il mediatore che propone all’acquirente preliminare in forza del quale la maggior
parte del prezzo di acquisto doveva essere corrisposta senza alcuna garanzia al "proprietario per
compromesso" di un immobile intestato ad una società e nel subordinare la consegna delle chiavi al
pagamento del saldo anteriormente alla stipula dei definitivo.
Cass. civ. Sez. II, 15-10-2009, n. 21925
Svolgimento del processo
Con atto notificato l'8 luglio 1999, G.G. convenne la Artecasa di Negro Gianfranco e C. s.n.c, nonchè
i relativi soci illimitatamente responsabili N.G., I.C. e P.G., davanti al Pretore di Desio e, esponendo
che nel (OMISSIS) con la mediazione della società aveva sottoscritto una proposta irrevocabile di
acquisto di una villetta a schiera e, successivamente, un contratto preliminare, corrispondendo per la
mediazione la provvigione di L. 9.000.000, e che solo dopo l'integrale pagamento del prezzo di L.
330.000.000 aveva appreso che il trasferimento della proprietà non era possibile, giacchè titolare
dell'immobile non era il promittente venditore C. G., ma la Ilenia e Jenny s.r.l., che nel frattempo era
stata dichiarata fallita dal Tribunale di Monza, domandò la condanna dei convenuti, in solido, al
risarcimento del danno da lei sofferto, previo accertamento dalla loro responsabilità contrattuale, e, in
subordine, alla restituzione della provvigione.
La società Artecasa e l' I., costituitisi in giudizio, eccepirono la prescrizione del diritto della G. e
chiesero, nel merito, il rigetto delle domande, evidenziando, in particolare, che nel preliminare il
promittente venditore aveva specificato la propria qualità di "proprietario per compromesso".
Il Tribunale di Monza - sezione staccata di Desio -, competente a seguito dell'entrata in vigore del
D.Lgs. n. 51 del 1998, con sentenza del 2 luglio 2002 accolse entrambe le domande della G. e
condannò i convenuti, in solido, a restituire la provvigione di Euro 5.112,92, oltre interessi al saldo,
ed a risarcire nella misura di Euro 20.000,00 il disagio morale oltre che fisico cagionato all'attrice. La
decisione, gravata dalla società Artecasa, dall' I. e dal P. e, in via incidentale, dalla G., venne
riformata il 7 ottobre 2003 dalla Corte di appello di Milano che rigettò l'impugnazione incidentale e,
in parziale accoglimento di quella principale, rigettò la domanda di risarcimento del danno e
compensò per la metà le spese del doppio grado, ponendo carico dei convenuti l'altra metà.
Premessa la validità del contratto di mediazione , in quanto il rappresentante della società risultava
essere stato iscritto nell'albo dei mediatori, osservarono i giudici di secondo grado, per quello che
ancora interessa, che sul mediatore grava un dovere di imparzialità e di informazione, che gli impone
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una positiva ed efficace comunicazione alle parti da lui messe in relazione di ogni notizia in suo
possesso che possa avere per esse rilevanza od interesse, e che, costituendo un dato rilevante la
circostanza che la villetta oggetto della proposta irrevocabile e del compromesso era intestata ad una
società e non al promittente venditore, costituiva un comportamento non corretto la proposta di un
preliminare di vendita, nel quale la maggior parte del rezzo veniva corrisposta senza alcuna garanzia
al "proprietario per compromesso" prima del rogito notarile, ed un grave inadempimento l'avere il P.
sottaciuto tale circostanza nel corso delle trattative e tranquillizzato reiteratamente la G. che non
c'erano "pendenze" ed era "tutto a posto", e condizionato la consegna delle chiavi dell'immobile al
pagamento anche del saldo del prezzo, che avrebbe dovuto essere invece corrisposto al momento
della stipula del contratto definitivo.
Aggiunsero che l'attrice non aveva provato di avere subito a seguito dell'inadempimento un danno
patrimoniale, avendo infine acquistato la villetta, o psico-fisico e che in assenza di ipotesi di reato
non era risarcibile il danno morale La G. è ricorsa con un motivo per la cassazione della sentenza, la
società Artecasa e l' I. hanno notificato controricorso con contestuali due motivi di ricorso incidentale
e gli intimati N. e P. non hanno resistito in giudizio.
Motivi della decisione
A norma dell'art. 335 c.p.c., va disposta la riunione di ricorsi proposti in via principale ed incidentale
avverso la medesima sentenza. Segue, in difetto di un litisconsorzio necessario, la declaratoria
d'inammissibilità del ricorso principale nei soli confronti del N., avendo la ricorrente omesso di
ottemperare all'ordinanza del 23 gennaio 2008, con la quale questa Corte ne aveva disposto la
rinotifica nel domicilio reale dell'intimato, entro il termine di sessanta giorni. Con l'unico motivo, la
ricorrente principale denuncia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione
degli artt. 1223, 2059 e 2697 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c., dolendosi che la sentenza abbia
escluso:
- il danno patrimoniale derivatole dal pagamento dell'intero prezzo della villetta senza l'ottenimento
nè del promesso trasferimento del bene e nè della restituzione delle somme versate, in base
all'illogico rilievo che aveva successivamente acquistato l'immobile dal fallimento della società
intestataria e non aveva documentato "quanto avrebbe pagato in più", benchè il danno le fosse stato
già liquidato nel procedimento penale a carico del promittente venditore e dipendesse direttamente ed
immediatamente dal colpevole inadempimento della società;
- il danno non patrimoniale, nonostante il concorso dei partecipanti alla società nel reato ascritto al
promittente venditore ed in esso dovesse essere incluso anche ogni pregiudizio cagionatole dalla
lesione di interessi costituzionalmente protetti, quali quello alla proprietà, all'abitazione, all'integrità
patrimoniale e ad una esistenza serena;
- il danno biologico, disattendendo la deposizione del suo medico curante e non ammettendo una c.t.
per il difetto della produzione di una documentazione medica, che nulla avrebbe potuto aggiungere
alla testimonianza, e pur potendo supplire alla sua determinazione con il criterio dell'equità.
I ricorrenti incidentali, eccepita preliminarmente l'acquiescenza dell'attrice al rigetto della domanda
principale di risarcimento dei danni, non avendo impugnato l'accoglimento di quella subordinata di
restituzione della provvigione, lamentano;
- con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1754 e 1759 c.c., e degli artt. 115 e
116 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, avendo la sentenza disconosciuto che al momento della
conclusione del preliminare l'attrice era consapevole che la villetta non era di proprietà del
prominente venditore, pur essendosi egli qualificato nel preliminare come "proprietario per
compromesso", e che le vicende negoziali successive ed il pagamento del prezzo erano state gestite
direttamente dai contraenti senza l'intervento dei convenuti, dando credito a contraddittorie
deposizioni dei familiari dell'attrice, di cui quella del marito inammissibile, non essendo documentato
il regime patrimoniale vigente tra i coniugi, che contraddicevano le dichiarazioni rese dalla stessa
attrice nel procedimento penale a carico del promittente;
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- con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., avendo omesso di
parametrare le spese liquidate per il primo grado di giudizio alla riduzione della somma liquidata in
favore dell'attrice e compensato solo parzialmente le spese di entrambi i gradi, nonostante l'esito del
giudizio di appello.
Precede nell'ordine logico l'esame del primo motivo di ricorso incidentale.
Il motivo è infondato.
La decisione impugnata, sollecitata dalla società e dai suoi soci a rivalutare la circostanza che nel
preliminare il promittente venditore si era qualificato come "proprietario per compromesso", non ha
riconosciuto alla circostanza l'idoneità ad attenuare il dovere della mediatrice, da un lato, di
informare la promissoria che l'immobile oggetto del preliminare era intestato ad una società, giacchè
la circostanza imponeva attenti controlli e prudenti garanzie nella corresponsione del prezzo, e,
dall'altro, di non proporre la stipula di un preliminare nel quale la maggior parte del prezzo doveva
essere corrisposta senza alcuna garanzia a detto "proprietario per compromesso" prima dell'effettivo
trasferimento della proprietà.
Inoltre, dalle deposizioni dei testi, sia pure figlie e marito dell'attrice, risultava che la mediatrice, e
per essa il P., aveva reiteratamente rassicurato la promissaria sulla regolarità dell'operazione e
costituiva una grave violazione del dovere di imparzialità l'avere il medesimo, nonostante i rischi
connessi all'intestazione del bene ad una società ed alle condizioni stabilite nel preliminare,
subordinato, come riferito dalle testi, la consegna delle chiavi dell'immobile all'anticipato pagamento
del saldo del prezzo.
Nessuna censura i ricorrenti hanno rivolto al primo ordine di argomenti, sul quale i giudici di merito
hanno fondato la responsabilità della mediatrice e dei suoi soci, se non la generica denuncia della
violazione degli artt. 1754 e 1759 c.c., ai quali correttamente la corte territoriale ha ricollegato il
dovere del mediatore di comunicare alla promissaria le caratteristiche particolari dell'affare e gli
elementi rilevanti ai fini di una valutazione della sua convenienza e sicurezza, in quanto tenuto ad
osservare nello svolgimento della propria attività una diligenza qualificata.
Quanto al secondo ordine, le doglianze investono, sotto la specie della violazione delle norme di rito
in tema di disponibilità e libero apprezzamento delle prove, una valutazione degli elementi acquisiti
al processo, che in sede di legittimità è verificabile nei soli limiti del vizio di motivazione, di cui
all'art. 360 c.p.c., n. 5, (cfr.: Cass. civ., sez. 1^, sent. 20 giugno 2006, n. 14267) e che, relativamente
al giudizio sull'attendibilità dei testi e sulle risultanze delle prove è sindacabile soltanto per
inadeguatezza o contraddittorietà dei motivi, rientrando questo nei poteri riservati al giudice di
merito.
Nella specie, siffatto sindacato non è consentito dal mero richiamo dei ricorrenti all'esistenza di
documenti o dichiarazioni, anche se provenienti dell'attrice, contrastanti con le deposizioni
testimoniali, avendo il giudice dato idoneo e logico conto del proprio convincimento ed essendo egli
libero di attingerlo da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto all'esplicita
confutazione di quelli implicitamente disattesi, mentre 6 inammissibile la questione relativa
all'incapacità di uno dei testi, non essendo specificato nel ricorso se e con quali espressioni la stessa
fosse stata tempestivamente sollevata nel giudizio di merito.
Precede l'esame dell'unico motivo di ricorso principale la declaratoria dell'infondatezza
dell'eccezione di acquiescenza della ricorrente al rigetto della domanda principale, atteso che il
principio che per evitare la formazione di un giudicato la parte ha l'onere di impugnare, non solo il
rigetto della domanda principale, ma anche, in via condizionata, l'accoglimento di quella subordinata,
trova applicazione unicamente nel caso, che esula dalla fattispecie, in cui tale accoglimento abbia
comportato l'accertamento di un fatto incompatibile con quello posto a fondamento della domanda
principale (cfr. Cass. civ. sez. in, sent. 16 giugno 2003, n. 9631).
Nel merito il ricorso principale è parzialmente fondato.
La sentenza, ha negato che dall'esborso del prezzo della villetta non seguito dall'acquisto della
proprietà del bene o dalla restituzione delle somme versate fosse derivato un danno all'attrice,
ritenendo assorbita ogni questione sul nesso di causalità, sulla prevedibilità e sull'applicazione della
disciplina di cui all'art. 1227 c.c., commi 1 e 2, sul rilievo che la promissaria: a) aveva
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successivamente acquistato la villetta dal fallimento della società intestataria; b) sì era costituita parte
civile nel procedimento penale contro il promittente venditore ottenendone la condanna al pagamento
di una provvisionale; c) non aveva documentato di avere sopportato ulteriori esborsi per l'acquisto del
bene o di avere dovuto partecipare ad un'asta giudiziaria per aggiudicarsene la proprietà.
Orbene, puntualizzato che al pagamento dell'intero prezzo dell'immobile promesso in vendita non
erano seguiti nè l'adempimento del preliminare e nè la restituzione delle somme versate,
contraddittoriamente i giudici di secondo grado non hanno ravvisato un danno nel pregiudizio subito
dalla promissaria per il mancato rispetto del sinallagma contrattuale, essendo del tutto illogica la
presunzione di un acquisto dell'immobile a titolo gratuito dal fallimento dell'intestataria e mancando
la prova del pagamento della provvisionale di cui l'attrice era stata beneficiaria nel procedimento
penale.
Affermata, quindi, la violazione da parte dei convenuti degli obblighi di imparzialità e di
informazioni gravanti sul mediatore nel proporre all'acquirente un preliminare in forza del quale la
maggior parte del prezzo di acquisto doveva essere corrisposta senza alcuna garanzia al "proprietario
per compromesso" di un immobile intestato ad una società e nel subordinare la consegna delle chiavi
al pagamento del saldo anteriormente alla stipula dei definitivo, essi non potevano sottrarsi al dovere
di esaminare, ai fini della concreta determinazione del pregiudizio che dalla condotta dei convenuti
era derivato alla promissaria, le questioni relative al nesso di causalità tra l'inadempimento al
contratto di mediazione ed il danno subito dalla attrice in conseguenza della stipula e del l'esecuzione
del preliminare ed alla prevedibilità di esso.
Quanto al danno non patrimoniale, va invece ribadito il principio, recentemente affermato dalle
Sezioni Unite di questa Corte (cfr.:
Cass. civ., sez. un. 11 novembre 2008, n. 26972) che ai diritti inviolabili della persona va
riconosciuta la tutela risarcitoria e che in caso di loro violazione sussiste l'obbligo di ristoro dei danni,
indipendentemente dalla fonte contrattuale od extracontrattuale della responsabilità.
Su detti punti, quindi, la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese di questo giudizio, ad altra
sezione della Corte di appello di Milano.
Questione nuova, inammissibile in sede di legittimità, perchè presuppone un accertamento di fatto, è
quella relativa alla risarcibilità del danno morale per un concorso dei convenuti nel reato ascritto al
promittente venditore, mentre attengono a valutazioni di merito non sindacabili in sede di legittimità,
in quanto adeguatamente e logicamente motivate con il richiamo ad una mera e non motivata
sintetica espressione di un'opinione da parte del teste, gli assunti del difetto di prova del danno psicofisico lamentato dall'attrice e del carattere meramente esplorativo che una consulenza tecnica avrebbe
assunto con riferimento soltanto ad essa.
Resta assorbito dalla cassazione della sentenza l'esame del secondo motivo di ricorso incidentale,
attinente alla regolamentazione delle spese dei precedenti gradi del giudizio.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi.
Accoglie il primo motivo di ricorso principale nei sensi di cui in motivazione, rigetta il primo motivo
di ricorso incidentale e dichiara assorbito l'esame del secondo.
Rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di appello
di Milano.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 luglio 2009.
Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2009
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6) Donazione di cosa altrui
Tizio conosceva Caia in un locale del centro di Milano.
Tizio si fidanzava con Caia; i due andavano a convivere in via Salaria 1234 a Roma.
Caia manifestava - da subito - un immenso amore verso Tizio.
Caia era in trattative con il dott. Sempronio per l’acquisto dell’immobile Alfa; Caia e Tizio si
recavano presso lo studio del notaio Astuto, per procedere ad una donazione.
In particolare, Astuto stipulava l’atto richiesto: veniva realizzato un contratto di donazione, ex art.
769 c.c., con cui si stabiliva il trasferimento dell’immobile Alfa in favore di Tizio, laddove Caia
avesse proceduto all’acquisto del detto immobile.
Dopo alcuni giorni, Caia riusciva ad acquistare Alfa; dopo circa un mese dall’acquisto, Tizio e Caia
litigavano.
Tizio, allora, si recava dal legale BellaDonna, chiedendo lumi circa la titolarità dell’immobile Alfa.
Il candidato, assunte le vesti di BellaDonna, premessi brevi cenni sulla donazione di cosa altrui,
rediga motivato parere favorevole alla posizione giuridica di Tizio.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 6
La donazione di cosa altrui è un contratto con il quale si vuole trasferire al donatario un bene
appartenente ad altri (e non al donante); tale schema riguarda il caso perché Caia dona il bene Alfa
che al momento della donazione stessa appartiene ad altri.
E’ un istituto non espressamente previsto dal codice civile, che si limita a trattare la figura della
donazione di beni futuri all’art. 771 c.c., comminando la nullità (limitata ai beni futuri, senza colpire
l’intera operazione negoziale).
In difetto di previsione normativa, la sua validità e dubbia.
Nel caso in esame:
-se si ritiene invalida la donazione di cosa altrui, allora Alfa sarà di proprietà esclusiva di Caia;
-diversamente, se si ritiene valida la donazione di cosa altrui, allora Alfa sarà di proprietà esclusiva di
Tizio.
Invero, prima facie, la donazione di beni altrui sembrerebbe nulla: se è vietata quella di beni futuri di
cui all’art. 771 c.c., allora dovrebbe essere “proibita” anche quella di cose altrui, emergendo in
entrambi i casi una futurità del bene (ovvero non se ne ha il possesso al momento della donazioni).
Invero, si ritiene di predicare la validità del contratto di donazione posto in essere, con la
conseguenza pratica che Tizio potrà legittimamente qualificarsi come proprietario di Alfa.
Ciò per le seguenti ragioni:
-la nullità ex art. 771 c.c. è comminata solo per i beni oggettivamente futuri (ovvero quelli non
ancora venuti ad esistenza) e non per quelli soggettivamente futuri (appartenenti ad altri);
-l’art. 769 c.c. menziona la donazione obbligatoria e la donazione di cosa altrui è un tipo di
donazione obbligatoria (in quanto si assume l’impegno/obbligo a trasferire il bene successivamente);
-ad ogni modo, nel caso in esame emerge puramente una condizione sospensiva apposta sulla
donazione perché si conclude un contratto in cui già si prevede la produzione degli effetti a partire
dal momento della verificazione del fatto esterno (futuro ed incerto, ex art. 1353 c.c.); mentre, nella
donazione di cosa altrui, normalmente, il donante non è a conoscenza dell’altruità del bene (si pensi a
colui che crede erroneamente, ma in buona fede, di aver usucapito).
Pertanto, alla luce dei suddetti rilievi, ben potrà Tizio ritenersi proprietario di Alfa.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
La donazione dispositiva di un bene altrui, benché non espressamente disciplinata, deve ritenersi
nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell'art. 771 cod. civ.,
poiché il divieto di donazione di beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionatisi prima che il loro
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oggetto entri a comporre il patrimonio del donante; tale donazione, tuttavia, è idonea ai fini
dell'usucapione decennale prevista dall'art. 1159 cod. civ., poiché il requisito richiesto da questa
norma va inteso nel senso che il titolo deve essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di
determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l'acquisto del diritto si sarebbe senz'altro
verificato se l'alienante ne fosse stato titolare.
Cass. civ. Sez. II, Sent., 05-05-2009, n. 10356
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi Antonio - Presidente
Dott. MENSITIERI Alfredo - Consigliere
Dott. SCHERILLO Giovanna - Consigliere
Dott. BURSESE Gaetano Antonio - Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.T.A., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv.
OCCHINEGRO FRANCESCO, per legge domiciliata presso la cancelleria civile della Corte di
cassazione, Piazza Cavour, Roma;
- ricorrente contro
C.N., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del controricorso, dall'Avv.
MORRONE ROCCO, per legge domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione,
Piazza Cavour, Roma;
- controricorrente avverso la sentenza della Corte d'appello di Salerno depositata il 20 aprile 2004;
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 3 aprile 2009 dal Consigliere relatore
Dott. Alberto Giusti;
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udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LO VOI Francesco,
che ha concluso per l'accoglimento del secondo e del terzo motivo e per il rigetto del primo motivo.
Svolgimento del processo
1. - Con atto notificato l'11 dicembre 1995, C.N. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Salerno
S.T.A., per sentirsi dichiarare proprietario della giusta metà della part. (OMISSIS) del foglio
(OMISSIS) del Comune di (OMISSIS) - lasciatogli in eredità dalla madre St.Lu. - e per vedere
accolta la domanda di condanna della convenuta alla restituzione della zona di terreno già oggetto di
un'azione possessoria inter partes, oltre al risarcimento del danno.
Si costituì in giudizio la convenuta, la quale chiese il rigetto della domanda di rivendicazione e
propose domanda riconvenzionale affinchè il Tribunale la dichiarasse proprietaria dell'intero fondo
per avvenuto acquisto a titolo di usucapione abbreviata ovvero ordinaria.
Con sentenza in data 22 marzo 2000, il Tribunale di Salerno rigettò la domanda di rivendicazione
proposta dal C., mentre, in parziale accoglimento della riconvenzionale, dichiarò usucapita la
porzione di particella n. (OMISSIS), pervenuta alla convenuta con l'atto di donazione del 15
settembre 1982 per notar Gentile.
2. - Pronunciando sul gravame interposto dal C., la Corte d'appello di Salerno, con sentenza
depositata il 20 aprile 2004, ha rigettato la domanda riconvenzionale e, in accoglimento della
domanda principale, ha dichiarato che il C. è proprietario di una parte della part. (OMISSIS) del
foglio (OMISSIS) del Comune di (OMISSIS), come da atto di divisione per notar Caprio dell'11
marzo 1941, ed ha condannato l'appellata alla restituzione in favore della controparte della zona di
terreno posta nella parte confinante con i manufatti del C. (come indicata dai punti C-A-D-E-B
gravante su detta particella (OMISSIS), giusta l'allegata tav. (OMISSIS) della relazione del
consulente tecnico d'ufficio, facente parte integrante della decisione).
2.1. - L'errore del primo giudice - ha evidenziato la Corte territoriale - è consistito nell'avere attribuito
valore di titolo astrattamente idoneo, ai fini dell'applicabilità dell'usucapione abbreviata, all'atto del
15 settembre 1982 (con il quale P.M. donava alla figlia l'appezzamento di terreno in questione, che la
parte stessa dichiarava di avere usucapito), laddove a tale atto di donazione, che riguardava un bene
altrui, non poteva essere attribuito alcun effetto, perchè la donazione di un bene che non appartenga
al donante è nulla per assenza di causa donandi e non, semplicemente, inefficace.
In ogni caso - ha proseguito la Corte d'appello - l'esperita prova testimoniale non ha fornito la
dimostrazione certa ed obiettiva dell'intervenuto possesso, decennale o ventennale, da parte della
S.T., del bene, che ha ad oggetto una zona di modeste dimensioni, prossima al confine e un tempo
recintata metallicamente.
Quanto alla domanda proposta dal C., la Corte d'appello ha osservato che i principi in tema di prova
nel giudizio di rivendicazione non hanno carattere assoluto, ma vanno adeguati alle concrete
particolarità delle singole situazioni in relazione alla posizione difensiva della parte convenuta, la
quale, non contestando, nel caso, i titoli dell'attore, ha allegato invano di avere acquistato il bene per
usucapione.
Tanto premesso, la Corte del merito, esaminando gli atti di provenienza e recependo le conclusioni
del consulente d'ufficio, ritenute obbiettive e suffragate da corrette valutazioni tecnico-strumentali e
non contraddette da parimenti elaborate contestazioni tecniche, è pervenuta alla statuizione che deve
essere annessa alla proprietà di C.N. una superficie terriera di circa mg. 79, derivante dalla maggiore
consistenza della part. (OMISSIS), come indicata nella tavola (OMISSIS) della relazione di c.t.u. con
la specificazione dei punti C-A-D-E-B. 3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello,
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notificata il 10 giugno 2004, ha interposto ricorso S.T.A., con atto notificato il 17 settembre 2004,
articolando tre motivi di censura.
Ha resistito, con controricorso, C.N..
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo (violazione dell'art. 2909 c.c., artt. 324 e 100 c.p.c., in relazione all'art. 360
c.p.c., n. 4) la ricorrente deduce che il C. non ha proposto uno specifico motivo di appello contro il
rigetto della domanda, da esso proposta, di rivendicazione, ma si è limitato a censurare la decisione
del primo giudice perchè, con il diniego dell'ammissione della consulenza tecnica, avrebbe impedito
l'accertamento di un preteso errore commesso in suo danno nel corso dell'esecuzione della sentenza
resa in sede possessoria. Posto che il motivo di gravame non aveva alcun legame logico con la
domanda di revindica proposta in primo grado e con le ragioni del suo rigetto, la Corte salernitana
avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità del proposto appello (e dichiarare inammissibile, altresì,
per carenza di interesse, il motivo di appello relativo alla domanda riconvenzionale proposta dalla
S.T.).
1.1. - E' infondata la tesi in base alla quale il C., rivolgendo specificamente un unico sostanziale
motivo d'appello contro la pronuncia con cui era stata accolta la domanda riconvenzionale diretta alla
declaratoria d'acquisto della proprietà della particella di terreno contesa per usucapione, avrebbe
implicitamente rinunciato ad impugnare la statuizione di rigetto della domanda principale di
rivendicazione, con la conseguenza che la Corte salernitana, riformando sul punto la sentenza di
primo grado, avrebbe violato il, dedotto dall'appellata, giudicato interno formatosi su tale parte della
controversia.
Occorre premettere che il requisito della specificità dei motivi di appello, prescritto dall'art. 342
c.p.c., non può essere definito in via generale ed assoluta, ma deve essere correlato alla motivazione
della sentenza impugnata, nel senso che la manifestazione volitiva dell'appellante deve essere
formulata in modo da consentire d'individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le
specifiche critiche indirizzate alla motivazione, e deve quindi contenere l'indicazione, sia pure in
forma succinta, degli errores attribuiti alla sentenza censurata, i quali vanno correlati alla motivazione
di quest'ultima e quindi devono essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore
specificità nel caso concreto di quella motivazione (Cass., Sez. 1^, 19 settembre 2006, n. 20261;
Cass., Sez. 3^, 24 agosto 2007, n. 17960).
Dagli atti - ai quali è possibile accedere, essendo denunciato un vizio in procedendo - risulta che la
sentenza di primo grado, avendo dichiarato la fondatezza della domanda riconvenzionale della S.T. di
declaratoria dell'intervenuta usucapione decennale ex art. 1159 c.c., ha dedicato al rigetto della
domanda attrice di rivendicazione soltanto un fugace accenno, ritenendo che "dall'espletata
istruttoria, anche documentale, non si rinviene alcun elemento diretto a provare la pretesa proprietà
dell'attore su porzione di part. (OMISSIS) maggiore di quella, di fatto posseduta dalla S.".
L'atto di appello non solo contiene, nelle conclusioni, la richiesta di accoglimento della domanda di
rivendicazione avanzata con il libello introduttivo; ma si articola in due motivi di gravame: e mentre
il secondo di essi (rubricato "errata interpretazione dell'art. 1159 c.c.") censura che sia stato ritenuto
titolo idoneo, ai fini dell'usucapione decennale, la donazione del bene altrui, il primo (intitolato
"errata ed insufficiente motivazione") lamenta che la sentenza di primo grado abbia fatto leva
esclusivamente sulle risultanze del giudizio possessorio e sulla esecuzione (erronea) conseguente a
detto procedimento, senza effettuare "una nuova, e certamente più completa e più obiettiva indagine
tecnica" e senza tener conto del fatto che i testi avevano "concordemente dichiarato" la presenza di
una "rete metallica" ("la quale divideva di fatto i due fondi").
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Ora, attesa l'incompatibilità dei due diritti addotti dalle parti (cfr. Cass., Sez. 2^, 15 aprile 1987, n.
3724), è da ritenere che la censura svolta con il primo mezzo di gravame, da leggere in connessione
con le conclusioni dell'atto di appello, sia rivolta, specificamente, non solo contro l'accoglimento
della domanda riconvenzionale di usucapione, ma anche contro il rigetto della domanda principale di
rivendicazione, e indichi le ragioni concrete per la richiesta di riesame del rigetto di quest'ultima
domanda, con un supporto argomentativo idoneo a contrastare la motivazione della sentenza
impugnata.
2. - Il secondo mezzo è rubricato "violazione degli artt. 771 e 1159 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c.,
n. 3". Con esso viene censurato l'accertamento di nullità dell'atto di donazione del 15 settembre 1982
in quanto riguardante un bene altrui. Ad avviso della ricorrente, che richiama Cass., Sez. 2^, 5
febbraio 2001, n. 1596, occorre invece distinguere, ai fini del verificarsi dell'ipotesi prevista dall'art.
1159 c.c., tra donazione di cose future e donazione di cose altrui. In ipotesi di donazione di bene
altrui, quando vi sia, come nel caso di specie, la buona fede delle parti, il contratto non è nullo, ma
soltanto inefficace fino a quando non siano trascorsi gli anni prescritti nell'art. 1159 c.c..
2.1. - Il motivo è fondato, nei termini e nei limiti di seguito precisati.
Esso investe due problemi: la sorte della donazione dispositiva di beni altrui; l'idoneità della
donazione di cosa altrui a rappresentare titolo per il perfezionamento di un acquisto a non domino a
norma dell'art. 1159 c.c..
In ordine alla prima questione, nella giurisprudenza di questa Corte si confrontano due indirizzi.
Secondo un primo orientamento, la donazione di un bene non esistente nel patrimonio del disponente
è nulla. La donazione di beni altrui - afferma Cass., Sez. 2^, 20 dicembre 1985, n. 6544 - "non genera
a carico di costui alcun obbligo poichè, giusta la consolidata interpretazione dell'art. 771 c.c., dal
sancito divieto di donare beni futuri deriva che è invalida anche la donazione nella parte in cui ha per
oggetto una cosa altrui; a differenza di quanto avviene, ad esempio, nella vendita di cosa altrui, che
obbliga il non dominus alienante a procurare l'acquisto al compratore". A questo indirizzo ha aderito
- in un caso nel quale la donazione, compiuta da una pubblica amministrazione, aveva ad oggetto
un'area che la stessa si era impegnata ad espropriare - Cass., Sez. 1^, 18 dicembre 1996, n. 11311: nel
divieto riguardante i beni futuri, sancito dall'art. 771 c.c., "deve ritenersi compreso anche il bene che
non fa parte del patrimonio del disponente".
Secondo un altro, più recente orientamento, la donazione traslativa di beni che le parti considerano di
proprietà del donante, ma che in realtà appartengono a terzi, non è nulla, ma semplicemente
inefficace, sia per la ristretta portata letterale dell'art. 771 c.c., sia per la natura eccezionale del divieto
di donare beni futuri, atteso il riferimento alla disciplina della vendita di cosa altrui. La pronuncia che
esprime tale indirizzo (Cass., Sez. 2^, 5 febbraio 2001, n. 1596) fa leva sul fatto che, nella
formulazione dell'art. 771 c.c., "il riferimento del divieto" è "ai soli beni non ancora esistenti In rerum
natura", ma non manca di sottolineare l'"argomento logico costituito dal fatto che, ad altri fini, il
legislatore ha considerato separatamente gli effetti di atti di disposizione di beni futuri e di beni altrui
(artt. 1472 e 1478 c.c.)".
Il Collegio intende dare continuità - sotto il profilo della sorte della donazione dispositiva di beni
altrui - al primo indirizzo. E ciò per le seguenti ragioni.
Sebbene la nullità della donazione con cui il donante dispone di un diritto altrui, intendendo produrre
un effetto traslativo immediato, non sia espressamente comminata da alcuna norma, la conclusione si
ricava dalla disciplina complessiva della donazione.
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L'art. 769 c.c., infatti, per la fattispecie rispondente allo schema del contratto con efficacia reale,
definisce la donazione come il “contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce
l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto”. La regola di attualità dello spoglio, tratto
caratterizzante della donazione con effetti reali immediati, implica il requisito dell'appartenenza del
diritto al patrimonio del donante al momento del contratto, ossia, come precisa l'inciso della citata
disposizione, l'arricchimento realizzato mediante disposizione di un “suo diritto”.
Inoltre, mentre i principi generali sanciscono la validità tanto dell'atto su cosa futura, quanto dell'atto
sul patrimonio altrui, il microsistema della donazione, al fine di inibire liberalità anticipate, reca un
principio settoriale di tenore diverso, prevedendo, all'art. 771 c.c., comma 1, la nullità della
donazione di beni futuri. L'esigenza, che ne è alla base, di porre un freno agli atti di prodigalità e di
limitare l'impoverimento ai beni esistenti nel patrimonio del donante, accomuna futurità ed altruità,
sicchè l'istanza protettiva disvelata dalla norma citata impone di ritenere - superando
un'interpretazione pedissequa-mente ancorata all'enunciato - che il divieto da essa dettato abbracci
tutti gli atti di donazione dispositiva perfezionati prima ancora che il loro oggetto (non importa se
futuro in senso oggettivo o anche futuro in senso soltanto soggettivo) entri a comporre il patrimonio
del donante.
Se la donazione dispositiva di bene altrui è da considerare nulla, nondimeno, ai fini della soluzione,
in favore del terzo di buona fede, del conflitto di interessi che lo oppone al proprietario, essa può
fungere da coelemento della fattispecie acquisitiva a titolo originario a norma dell'art. 1159 c.c..
Difatti, la nullità della donazione di cosa altrui dipende, non da un vizio di struttura, ma
esclusivamente - come è stato osservato in dottrina - da una ragione inerente alla funzione del
negozio, ossia dalla altruità del bene donato rispetto al patrimonio del donante, altruità dalla quale,
tuttavia, occorre prescindere allorchè si procede alla valutazione della idoneità del titolo, che si ha
tutte le volte in cui l'effetto immediatamente attributivo è unicamente precluso dalla carenza di
legittimazione traslativa dell'alienante.
In altri termini, la provenienza dell'attribuzione dal non legittimato, se intacca la validità della
donazione (non consentendo ad essa, per questa sola ragione, di adempiere concretamente la funzione
traslativa del tipo al quale appartiene), non inficia la sua astratta idoneità ad inserirsi in una più
complessa fattispecie acquisitiva a non domino.
Va, pertanto, data continuità, in parte qua, alla citata sentenza di questa n. 1596 del 2001. Essa, pur
muovendo da diverse premesse (l'inefficacia anzichè la nullità della donazione dispositiva di beni
altrui), è pervenuta, superando il precedente rappresentato dalla sentenza n. 6544 del 1985 (ma
ponendosi in continuità con Cass., Sez. 2^, 23 giugno 1967, n. 1532), alla conclusione - che il
Collegio condivide - secondo cui tale negozio, quando conformato in termini di atto di alienazione,
stante l'ignoranza delle parti circa l'alienità della res donata, è suscettibile di fungere da titulus
adquirendi ai fini dell'usucapione abbreviata ai sensi dell'art. 1159 c.c., in quanto il requisito,
richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della esistenza di un titolo idoneo a far acquistare la
proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso
che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e
non in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l'acquisito del diritto si
sarebbe senz'altro verificato se l'alienante ne fosse stato titolare.
Ha errato, pertanto, la Corte d'appello a ritenere che l'atto di donazione del 15 settembre 1982 per
notar Gentile, nullo in quanto proveniente a non domino, impedisse alla donataria, sussistendone gli
altri requisiti (buona fede e trascrizione), l'acquisto del diritto per usucapione abbreviata decennale.
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3. - Il terzo motivo (violazione degli artt. 1141 e 1158 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)
lamenta che la Corte d'appello abbia negato che, nel caso di specie, sia stata fornita la prova, certa ed
obiettiva, dell'intervenuto possesso, decennale o ventennale. La motivazione al riguardo sarebbe
scarna e contraddittoria. La Corte d'appello - assume la ricorrente - non avrebbe adeguatamente
considerato la deposizione dei testi G.G. e St.Vi., non contraddette da testi I.M. e I.L.; non avrebbe
valutato le sentenze sul possesso rese dal Pretore di Eboli e dal Tribunale di Salerno; nè avrebbe
preso in esame la circostanza della omessa indicazione, da parte del C., del fondo di cui si discute
nella denuncia di successione della madre, la quale sarebbe indicativa della ritenuta appartenenza ad
altri della porzione del fondo stesso.
3.1. - Il motivo è fondato.
L'indagine diretta a stabilire se il possesso di un bene, per i suoi requisiti soggettivi ed oggettivi e per
la sua durata, sia idoneo a determinare l'acquisto, da parte del possessore, della sua proprietà per
usucapione, costituisce un accertamento di fatto, riservato come tale al giudice del merito e sottratto
al sindacato di legittimità, ove si avvalga di una motivazione adeguata e coerente.
Nella specie la Corte di Salerno ha escluso l'idoneità, al fine predetto, del possesso addotto dalla
odierna ricorrente, sulla base del rilievo che i testi escussi non avrebbero fornito la prova certa ed
obiettiva del possesso, decennale o ventennale, del bene da parte della S.T., accertato solo ai fini
dell'interdetto possessorio.
Senonchè, la motivazione al riguardo impiegata dalla Corte d'appello - che ha ribaltato la decisione
alla quale era giunto il Tribunale - non da conto del contenuto delle deposizioni testimoniali raccolte,
ma si limita ad esprimere un giudizio, approssimativo, di frammentarietà ed incertezza delle
testimonianze.
In effetti, per come risulta dalle risultanze processuali puntualmente trascritte dalla ricorrente, i testi
non si sono limitati a riferire che il confine tra i fondi prima del terremoto del 1980 era delimitato da
una rete metallica e che tale recinzione fu tolta dalla S.T. e fu collocata lungo un fienile di proprietà
del C., ma hanno anche evidenziato: che il fondo posseduto dalla S.T. arrivava fino al fienile ed era
formato dall'intera particella (OMISSIS), oltre ad una porzione della particella (OMISSIS); che il
fondo per cui è causa è sempre stato posseduto nella medesima dimensione dalla S.T., e prima di lei
dalla madre e dalla nonna; ancora, che il fondo era originariamente coltivato dalla madre della S.T.. Il
contenuto di tali deposizioni corrisponde inoltre ai risultati degli accertamenti che già erano stati
svolti dal Pretore di Salerno, sezione distaccata di Eboli, nel giudizio possessorio, nel quale, stando
alla sentenza conclusiva, è rimasto dimostrato che la S.T. "ebbe ad esercitare il possesso dell'orto
dedotto in controversia negli ultimi tempi antecedenti alla condotta del C., dopo che, in precedenza,
era stato esercitato dalla madre e dai nonni".
Ricorre, pertanto, il lamentato vizio di insufficiente motivazione, perchè dall'esame del ragionamento
svolto dalla Corte d'appello emergono l'obliterazione di elementi che avrebbero potuto portare ad una
diversa decisione e l'obiettiva deficienza del procedimento logico posto a base della impugnata
decisione.
4. - La sentenza impugnata è cassata.
Il giudice del rinvio - che si designa nella Corte d'appello di Salerno, in diversa composizione provvederà ad un nuovo esame della causa facendo applicazione del principio di diritto sub 2.1.
Al giudice del rinvio è rimessa anche la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
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La Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo ed il terzo; cassa la sentenza
impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d'appello di Salerno, in diversa
composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di
Cassazione, il 3 aprile 2009.
Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2009
La tipizzazione del contratto di donazione (artt. 769 e ss. c.c.) impone una prospettiva di indagine
che deve tendere ad una verifica in concreto della sussistenza o meno della causa del contratto;
occorre a tal fine evidenziare che lo spirito di liberalità che connota, in guisa di requisito genetico
del contratto (art. 1325 cod. civ.), l'incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del
proprio (art. 769 c.c.), va ravvisato, alla stregua dell'insegnamento di questa Corte (Cass. n. 12325
del 1998; Cass. n. 1411 del 1997; Cass. n. 3621 del 1980), nella consapevolezza del donante di
attribuire al donatario un vantaggio patrimoniale in assenza di qualsivoglia costrizione, giuridica o
morale, secondo un intento pienamente discrezionale. Dunque, se a realizzare la funzione
economico-sociale della donazione concorre la spontaneità dell'attribuzione patrimoniale, questa,
come tale, non si pone in relazione di incompatibilità, così da poter essere in concreto elisa, con la
circostanza di un esasperato rapporto conflittuale, e finanche violento, esistente tra le parti del
vincolo contrattuale, che, seppur presente al momento della conclusione del contratto, si atteggia
come elemento fattuale del tutto neutro rispetto alla valenza causale dell'attribuzione patrimoniale
operata per liberalità, non integrando nè l'ipotesi di cogenza giuridica, nè quella di costrizione
morale dell'anzidetta attribuzione, semmai corroborando proprio l'ipotesi contraria della decisa e
netta sussistenza dell'animus donandi, essendosi giunti alla formazione del vincolo nonostante il
clima di conflittualità interpersonale in essere.
Cassazione civile, Sez. II, sentenza del 21.5.2012, n. 8018
...omissis...
Motivi della decisione
1. - Con il primo mezzo, la ricorrente denuncia un vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5.
Tale vizio si anniderebbe, anzitutto, là dove la sentenza impugnata, nel riconoscere l'erroneità delle
conclusioni raggiunte dal primo giudice in ordine alla qualificazione del negozio stipulato per atto
pubblico il 5 febbraio 1998 - da quest'ultimo ritenuto integrante una divisione consensuale, raggiunta
tramite lo schema giuridico dell'atto di liberalità reciproco - ed affermando l'effettiva esistenza di un
atto di donazione, sarebbe poi caduta in contraddizione inconciliabile nel reputare che siffatta diversa
qualificazione del contratto non incidesse "sulla fondatezza dei rilievi del Tribunale (precisati a pag.
4)" di segno "diametralmente opposto", avendo quest'ultimo non già ritenuto infondata la domanda di
nullità della donazione per mancanza di causa, ma ravvisato la sussistenza di una divisione,
contrariamente, appunto, a quanto opinato dal giudice di secondo grado.
Inoltre, la Corte distrettuale sarebbe incorsa in ulteriore contraddizione nell'aver dapprima
riconosciuto che la domanda principale di nullità della donazione era stata formalmente riproposta in
appello e, poi, affermato che mancava una specifica doglianza "riguardo alla pronunzia sul punto del
Tribunale";
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doglianza che, invece, era presente nella deduzione per cui la ravvisata "esasperata conflittualità" tra
coniugi avrebbe dovuto portare all'accoglimento della domanda di nullità ex artt. 1418 e 1325 c.c.,
"essendo tale conflittualità incompatibile con l'animus demandi".
Infine, sarebbe priva di senso la ragione addotta dalla Corte d'Appello nel rilevare l'assenza di effetto
pratico di un eventuale accoglimento dell'anzidetta domanda di nullità, per aver il Tribunale
comunque esaminato e respinto la domanda subordinata di revocazione della donazione per
ingratitudine.
1.1. - Con il secondo motivo, si denuncia la violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360
c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 1418 1325 e 1421 c.c..
Posto che è indiscusso che la causa della donazione risiede nello spirito di liberalità e che, nella
specie, è risultato comprovato che tra i coniugi sussisteva, già prima della conclusione del negozio,
un "clima di estrema conflittualità", successivamente protrattosi e sfociato anche "episodi di violenza
morale e fisica", il giudice del gravame avrebbe dovuto - ad avviso della ricorrente - dichiarare,
anche d'ufficio, la nullità dell'atto pubblico stipulato il 5 febbraio 1998 per la mancanza di causa,
"essendo l'esasperata conflittualità e gli episodi di violenza assolutamente incompatibili con l'animus
donandi".
Il motivo di ricorso è assistito dal seguente quesito di diritto:
"Se l'esasperata conflittualità tra due coniugi sfociata in episodi di violenza, precedente, durante e
successiva alla stipula di un atto di donazione di beni di rilevante valore (cinque appartamenti)
comporti la mancanza della causa propria dell'atto di donazione, di cui all'art. 1325 c.c., comma 1, n.
2 in relazione all'art. 1418 c.c., cioè se sia o meno compatibile con l'animus donandi"; se, accertata la
mancanza di causa nella stipula di un atto di donazione a causa dell'esasperata conflittualità sfociata
in episodi di violenza tra i coniugi stipulanti, la nullità prevista dall'art. 1418 c.c. sia rilevabile
d'ufficio ai sensi dell'art. 1421 c.c.". 1.2. - Con il terzo mezzo è ancora denunciato un vizio di
motivazione della sentenza, ex art. 360 c.c., comma 1, n. 5.
La ricorrente si duole della palese insufficienza delle ragioni addotte a sostegno del rigetto del motivo
di gravame relativo a far valere la revocazione della donazione per ingratitudine del donatario,
avendo la Corte distrettuale omesso di esaminare una serie di episodi successivi alla stipula dell'atto
di donazione, rappresentati dall'appellato e provati nel corso del giudizio di primo grado. In
particolare, l'omissione riguarderebbe: a) l'ordinanza del 17 luglio 1998 con la quale il Tribunale
aveva disposto la cancellazione, perchè gravemente offensive e sconvenienti, delle espressioni "di cui
alla comparsa di risposta pag. 2 rigo 9 e segg....nonchè pag. 6, rigo 8 e segg."; b) l'esito delle prove
testimoniali (testi V. e L.), dalle quali era emerso che il M. apostrofava essa ricorrente con epiteti
quali "puttana" e "ancora peggio con riferimento ai rapporti anali", minacciandola di distruggerla
economicamente; c) l'episodio del (OMISSIS) - unico preso in considerazione dalla Corte d'appello allorchè, dopo averla fatta pedinare da una agenzia di investigazioni e raccolta "una moltitudine di
amici e parenti", l'aveva sorpresa "in macchina con un amico per poterla svergognare ed offendere";
d) la rivelazione in comparsa di risposta (fasc. n. 693/99), gratuita e senza scopo difensivo, della
violenza sessuale subita da essa ricorrente "da ragazzina"; e) la denuncia, in data 11 giugno 1998, di
furto a carico di essa A. al solo scopo di recarle offesa; f) il "danno grave arrecato dolosamente al
residuo patrimonio" di essa ricorrente, avendole il M., complice il di lui fratello, fatto credere
dell'esistenza di un debito comune, in gran parte estinto, al fine di sottrarle l'unico immobile che le
era stato lasciato (come documentato dalla produzione nel fasc. n. 693/99).
In definitiva, si tratterebbe di episodi tutti successivi alla stipula della donazione, che, "dato il loro
ripetersi nel tempo, rappresentano con certezza il costante sentimento del M. di grave avversione nei
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confronti della moglie, innumerevoli volte offesa tanto gravemente da ledere profondamente il suo
patrimonio morale". Peraltro, soggiunge la ricorrente, delle offese contenute negli scritti difensivi
risponde sempre la parte, la quale, come nella specie, ha sottoscritto la procura a margine delle
comparse di risposta (doc. n. 3 e 14 fasc. 693/99).
2. - L'esame dei primi due motivi di censura può effettuarsi congiuntamente, vertendo entrambi sullo
stesso thema decidendum - che ruota intorno alla asserita insussistenza dell'animus donandi - sebbene
occorra muovere dalla dedotta violazione di legge, la cui delibazione è logicamente prioritaria
rispetto a quella di vizio motivazionale, giacchè pone in radicale discussione la consistenza stessa
della statuizione resa sul punto resa dalla sentenza impugnata.
2.1. - Il motivo è infondato.
La ricorrente, come linearmente evidenziato nel formulato quesito di diritto, si duole del fatto che il
giudice del gravame non abbia ritenuto nullo per mancanza di causa la donazione inter partes, posto
che l'accertato clima di estrema conflittualità, sfociato anche in episodi di violenza morale e
materiale, esistente tra le stesse parti contrattuali si presentava incompatibile con l'animus donandi.
Premesso che la tipizzazione del contratto di donazione (artt. 769 e ss. c.c.) impone una prospettiva di
indagine che deve tendere ad una verifica in concreto della sussistenza o meno della causa del
contratto intercorso tra l' A. ed il M., occorre a tal fine evidenziare che lo spirito di liberalità che
connota, in guisa di requisito genetico del contratto (art. 1325 cod. civ.), l'incremento del patrimonio
altrui, con depauperamento del proprio (art. 769 c.c.), va ravvisato, alla stregua dell'insegnamento di
questa Corte (Cass. n. 12325 del 1998; Cass. n. 1411 del 1997; Cass. n. 3621 del 1980), nella
consapevolezza del donante di attribuire al donatario un vantaggio patrimoniale in assenza di
qualsivoglia costrizione, giuridica o morale, secondo un intento pienamente discrezionale.
Dunque, se a realizzare la funzione economico-sociale della donazione concorre la spontaneità
dell'attribuzione patrimoniale, questa, come tale, non si pone in relazione di incompatibilità, così da
poter essere in concreto elisa, con la circostanza di un esasperato rapporto conflittuale, e finanche
violento, esistente tra le parti del vincolo contrattuale, che, seppur presente al momento della
conclusione del contratto, si atteggia come elemento fattuale del tutto neutro rispetto alla valenza
causale dell'attribuzione patrimoniale operata per liberalità, non integrando nè l'ipotesi di cogenza
giuridica, nè quella di costrizione morale dell'anzidetta attribuzione, semmai corroborando proprio
l'ipotesi contraria della decisa e netta sussistenza dell'animus donandi, essendosi giunti alla
formazione del vincolo nonostante il clima di conflittualità interpersonale in essere.
Del resto, non può confondersi con l'assenza dello spirito di liberalità dell'attribuzione patrimoniale il
diverso piano, sebbene anch'esso correlato alla genesi del vincolo negoziale, delle ragioni di
annullamento del contratto risiedenti nell'esistenza di vizi della volontà e, tra questi, segnatamente
della violenza, rispetto alla quale parrebbe meglio conformarsi, in tesi, la situazione circostanziata
dedotta dalla ricorrente. Ambito, quest'ultimo, che, però, non è stato scalfito da alcuna censura in
questa sede, sebbene anch'esso sia stato oggetto di cognizione da parte del giudice del gravame, con
delibazione negativa rispetto all'interesse coltivato dalla appellante ed odierna ricorrente.
2.2. - Venendo, quindi, all'esame del primo motivo, va osservato che, una volta ritenutasi priva di
fondamento la censura imperniata sulla dedotta violazione di legge, la ricorrente difetta di interesse a
coltivare la specifica doglianza sulla motivazione, giacchè con essa si tende, al pari del motivo in
precedenza scrutinato, a demolire la sentenza impugnata nella statuizione che ha ritenuto sussistente,
nel contratto concluso dalle parti, la causa donativa e, segnatamente, l'animus donandi siccome
compatibile con la situazione di conflitto interpersonale tra gli stessi contraenti. Pertanto, seppure si
ravvisassero le supposte carenze motivazionali, con conseguente accoglimento del motivo, esso non
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avrebbe alcun effetto utile (si vedano, tra le altre, Cass., sez. 5, 19 luglio 2011, n. 11731; Cass., sez.
lav., 19 luglio 2001, n. 9777), essendosi già escluso, in diritto, l'esistenza della nullità della donazione
per mancanza di causa nei termini denunciati con il ricorso.
Tale ragione di inammissibilità del motivo è, pertanto, assorbente di ogni altro profilo di indagine.
3. - Anche il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
Con esso si denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, un vizio di motivazione della
sentenza là dove questa disattende il gravame avverso la reiezione della domanda di revocazione
della donazione per ingratitudine del donatario, senza che la censura sia, però, corredata - come
imposto, a pena di inammissibilità, dall'art. 366-bis c.p.c. (nella specie applicabile ratione temporis,
giacchè la decisione impugnata è stata resa pubblica il 25 marzo 2006, nella vigenza, dunque, della
predetta norma, introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006, posto che
l'abrogazione dello stesso art. 366-bis, da parte della L. 18 giugno 2009, n. 69, non opera
retroattivamente, trovando essa applicazione soltanto per i ricorsi proposti avverso provvedimenti
pubblicati successivamente al 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della medesima legge n. 69; n
tal senso, v. anche Cass., sez. 3, 24 marzo 2010, n. 7119) - dal cd. quesito di fatto e cioè di apposito
momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che consenta alla Corte di comprendere, in modo
immediatamente percepibile, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la
motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta
insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione (v., tra le altre, Cass., sez.
un., 1 ottobre 2007, n. 20603 e, più di recente, Cass., sez. 3, 30 dicembre 2009, n. 27680 e Cass., sez.
5, 18 novembre 2011, n. 24255 del 2011).
Del resto, la riscontrata carenza strutturale del motivo non si palesa fine a se stessa, giacchè è
sintomo rivelatore dell'obiettivo ultimo della censura, la quale, lungi dall'aggredire le deficienze o le
contraddizioni del convincimento raggiunto dal giudice di merito all'esito dell'indagine condotta sul
materiale probatorio, tende essenzialmente a sostituire ad esso l'apprezzamento della parte. Ciò
conducendo inevitabilmente all'inammissibilità di una doglianza cosi congegnata, posto che secondo l'orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte (v., tra le tante, Cass., sez. 1,
30 marzo 2007, n. 7972) - la deduzione del vizio di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 "non
consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta
nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di
ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal
giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella
sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di
merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e
delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito".
Sotto tale profilo è da ricondursi, anzitutto, l'addotta insufficiente valutazione degli elementi di prova
emergenti dalle comparse di risposta, dall'ordinanza istruttoria del luglio 1998, dalle prove
testimoniali, dalla denuncia di furto del giugno 1998, dalla documentazione relativa all'apparente
"debito comune" (fonti di prove, queste, indicate, oltretutto, senza fornire la necessaria
puntualizzazione dei relativi contenuti rilevanti e decisivi), mancando, però, di porre in discussione le
ragioni fornite dalla sentenza impugnata, nel contesto di una valutazione complessiva delle
emergenze istruttorie, sulla irrilevanza, ai fini probatori specifici, di quei fatti e di quelle risultanze di
causa collocabili temporalmente dopo la proposizione della domanda di revocazione della donazione.
Del pari è da ritenersi, poi, quanto alla pretesa rivalutazione dell'episodio ingiurioso e violento
dell'aprile del 1998, sul quale la Corte territoriale, attribuendo ad esso centralità ai fini del proprio
convincimento, si è soffermata per escludere, con motivazione priva di vizi logici e giuridici, che un
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tale fatto potesse integrare, di per sè, gli estremi dell'ingratitudine idonea a determinare la
revocazione della donazione, inserendosi invece in contesto "rapporti interpersonali estremamente
deteriorati indipendenti e irrilevanti rispetto alle volontà manifestate" con la intervenuta liberalità. Si
tratta, del resto, di motivazione che non incontra le asserite aporie, giacchè l'operata delibazione in
fatto, di esclusiva pertinenza del giudice del merito, si raccorda pianamente con la fattispecie legale
di riferimento (art. 801 c.c.), la quale, come messo in luce dalla giurisprudenza di questa Corte
(Cass., sez. 2, 5 aprile 2005, n. 7033; Cass., sez. 2, 24 giugno 2008, n. 17188 e, più di recente, Cass.,
sez. 2, 31 marzo 2011, n. 7487), ravvisa nell'ingiuria grave, quale presupposto indispensabile per la
revocabilità della donazione per ingratitudine, un comportamento, non isolato, del donatario che sia
altamente lesivo del patrimonio morale del donante, cosi da palesare una profonda e radicata
avversione di quest'ultimo verso il primo, tale da ripugnare la coscienza collettiva.
4. - Il ricorso va, dunque, rigettato.
In. considerazione delle peculiarità che hanno connotato la vicenda sostanziale versata nella
controversia oggetto di cognizione, appare equo disporre la compensazione delle spese di lite del
presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese processuali del presente giudizio.
L'intestazione fiduciaria di un bene presuppone, oltre al trasferimento del medesimo a favore del
fiduciario (effetto reale) anche l'obbligo, derivante dal "pactum fiduciae", di ritrasferire il bene al
fiduciante o al beneficiario (effetto obbligatorio). E' assente qualsiasi intento di liberalità in favore
del fiduciario, il quale acquisisce una provvisoria posizione di titolarità sul bene solo a vantaggio
del fiduciante.
Cassazione civile, sez. II, sentenza del 29.2.22012, n.3134
Il Tribunale di Civitavecchia, con sentenza in data 13 ottobre 2006, ha rigettato la domanda di C.G. poi rappresentato in corso di causa, in quanto colpito da interdizione legale per effetto di condanna
penale, dalla tutrice P. R. - ...omississ...avente ad oggetto l'accertamento della simulazione della
dichiarazione di nomina e della sua accettazione ex art. 1402 cod. civ. - ha rilevato che "l'assunto di
parte attrice è rimasto del tutto sfornito di prova, non essendo stato offerto, in particolare, alcun
effettivo e certo elemento di riscontro in ordine all'esistenza del dedotto patto di trasferimento".
Secondo la Corte territoriale, "dal tenore della corrispondenza intercorsa tra le parti, e cosi dalle
proposte conciliative formulate a suo tempo dalla Ca., emerge, al più, solo la consapevolezza che
l'azienda era stata acquistata con il denaro del padre, cosi realizzandosi una donazione indiretta
dell'azienda medesima, ma certamente non l'ammissione dell'esistenza di un obbligo, assunto dalla
stessa Ca., di trasferire la proprietà dell'azienda a favore del padre". Quanto alle prove, la Corte
d'appello ha giudicato inammissibili le richieste istruttorie formulate per la prima volta con l'atto di
gravame, sottolineando che la statuizione di irrilevanza di quelle formulate in primo grado non è stata
sottoposta a specifiche censure. 3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello la tutrice di
C.G. ha proposto ricorso, con atto notificato l'11 febbraio 2010, sulla base di tre motivi. L'intimata ha
resistito con controricorso. La parte ricorrente ha depositato una memoria illustrativa. Cessato nella
pendenza del giudizio di cassazione lo stato di interdizione legale, C.G. ha depositato una memoria in
proprio, conferendo procura speciale notarile all'Avv. Maurilio .
DIRITTO
IN DIRITTO
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1. - Il primo motivo denuncia 'violazione e falsa applicazione degli artt. 769 771 e 782 cod. civ., in
relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, ed all'art. 101 Cost., comma 2 e art. 111 Cost.,
comma 6'.
Premesso che l'azienda ristorante era stata acquistata, con scrittura privata autenticata del 1 dicembre
2000, da C.G., il quale poi, esercitando la facoltà prevista in contratto, aveva sciolto la riserva e
nominato fiduciariamente la figlia C. G., continuando tuttavia a condurre personalmente la gestione
dell'attività e curando i rapporti con il venditore, cui corrispondeva alle scadenze pattuite il prezzo, la
ricorrente, nella indicata qualità, ritiene che nella specie non sussistano l'animus donandi, la
spontaneità e la liberalità, tenuto conto del fatto che, per stessa ammissione di Ca.Gi., il padre G. si
risolvette di intestare l'azienda alla figlia a causa di disavventure giudiziarie che non gli consentivano
di svolgere alcuna attività.
D'altra parte, non ricorrerebbe l'elemento dell'impoverimento, giacchè C.G. non aveva pagato, alla
data della presunta donazione, nè in tutto nè in parte, il prezzo, e difetterebbe l'elemento
dell'arricchimento, in quanto Ca.Gi.
aveva assunto tutti gli obblighi, compreso quello dell'intero prezzo in sedici rate mensili di lire
10.000.000 ciascuna e dell'azienda il cedente si era riservata la proprietà fino al pagamento di tutte le
rate.
C.G. - si sostiene - non avrebbe assunto verso la figlia l'obbligo di pagare il prezzo di acquisto
dell'azienda a rate con scadenze successive all'acquisto operato ed alla dichiarazione di nomina e di
accettazione, nè avrebbe confermato la pur remota promessa di donazione con un atto successivo al
pagamento dell'intero prezzo.
L'azienda sarebbe di pertinenza esclusiva di C.G. e ove l'atto (la dichiarazione di nomina e di
accettazione del 4 dicembre 2000) fosse qualificabile donazione indiretta, esso sarebbe nullo, avendo
ad oggetto un bene ancora - fino al totale pagamento delle rate del corrispettivo - di proprietà del
terzo.
2. - La censura è infondata.
Affinchè ricorra l'intestazione fiduciaria di un bene - frutto della combinazione di effetti reali in capo
al fiduciario e di effetti obbligatori a vantaggio del fiduciante - occorre che il trasferimento vero e
proprio in favore del fiduciario sia limitato dall'obbligo, inter partes, del ritrasferimento al fiduciante
o al beneficiario da lui indicato, in ciò esplicandosi il contenuto del pactum fiduciae.
In detta figura manca qualsiasi intento liberale del fiduciante verso il fiduciario e la posizione di
titolarità creata in capo a quest'ultimo è soltanto provvisoria e strumentale al ritrasferimento a
vantaggio del fiduciante (Cass., Sez. 3, 2 aprile 2009, n. 8024).
La sentenza impugnata è pervenuta alla conclusione che l'effetto reale - l'acquisto dell'azienda in capo
a Ca.Gi. a seguito della dichiarazione di nomina da parte di C.G. e dell'accettazione della convenuta non è stato accompagnato da alcun patto contenente l'obbligo della persona nominata di modificare la
posizione ad essa facente capo a favore dello stipulante o di altro soggetto da costui designato.
L'assunto della parte che ha promosso l'azione - ha rilevato la Corte d'appello, con congruo e logico
apprezzamento delle risultanze di causa - 'è rimasto del tutto sfornito di prova, non essendo stato
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offerto, in particolare, alcun effettivo e certo riscontro in ordine all'esistenza del dedotto patto di
ritrasferimento'.
E poichè la prova del pactum fiduciae non discende, automaticamente, dal fatto che il bene sia stato
acquistato con denaro dello stipulante, la decisione della Corte d'appello resiste alle censure del
ricorrente.
La Corte d'appello, esclusa l'esistenza del pactum fiduciae, ha poi qualificato la fattispecie
dell'acquisto dell'azienda da parte della nominata con denaro del padre stipulante in termini di
donazione indiretta.
Le doglianze articolate con il motivo, tutte dirette a contestare proprio tale ricostruzione o ad ottenere
una declaratoria di invalidità della donazione (tra l'altro neppure proposta con la domanda di primo
grado), non colgono nel segno.
La Corte d'appello ha rilevato: che C.G. ha stipulato il contratto di compravendita dell'azienda per sè
o per persona da nominare; che la parte acquirente, sciogliendo la riserva, ha provveduto alla
dichiarazione di nomina della figlia e quest'ultima ha accettato detta dichiarazione; che il denaro
occorrente per l'acquisto dell'azienda è stato fornito dal padre.
Tali essendo i presupposti di fatto, correttamente la Corte d'appello ha ravvisato nell'acquisto del
complesso aziendale con denaro proprio del disponente e nell'intestazione della relativa titolarità in
favore della persona designata e cosi beneficiata - la quale, con l'accettazione della dichiarazione di
nomina, è divenuta parte in senso sostanziale del negozio stesso, cancellando ogni situazione
giuridica riconducibile al soggetto che aveva svolto per lei l'attività materiale di autore del contratto una donazione indiretta di quella universitas.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, la donazione indiretta è caratterizzata dal fine
perseguito, che è quello di realizzare una liberalità, e non già dal mezzo, che può essere il più vario,
nei limiti consentiti dall'ordinamento, e può essere costituito anche da più negozi tra loro collegati,
come nel caso in cui un soggetto, stipulato un contratto di compravendita, paghi o si impegni a
pagare il relativo prezzo ed, essendosene riservata la facoltà nel momento della conclusione del
contratto, provveda ad effettuare la dichiarazione di nomina, sostituendo a sè, come destinatario degli
effetti negoziali, il beneficiario della liberalità, cosi consentendo a quest'ultimo di rendersi acquirente
del bene ed intestatario dello stesso (Cass., Sez. 2, 16 marzo 2004, n. 5333).
La configurabilità della donazione indiretta e la validità della stessa non sono impedite dalla
circostanza che la compravendita del complesso aziendale sia stata stipulata, nella specie, con riserva
della proprietà in favore del venditore fino al pagamento dell'ultima rata di prezzo, giacchè quel che
rileva è che lo stipulante abbia pagato il corrispettivo (non importa se in unica soluzione o a rate) o
messo a disposizione del beneficiario i mezzi per il relativo pagamento.
L'ulteriore deduzione della parte ricorrente, secondo cui difetterebbero lo spirito di liberalità, il
depauperamento e l'arricchimento, perchè Ca.Gi. si sarebbe obbligata in realtà a pagare tutte le rate
del prezzo, contrasta con gli accertamenti compiuti dalla Corte di merito, la quale è giunta alla
conclusione dell'avvenuto acquisto dell'azienda con denaro del disponente in base al 'tenore della
corrispondenza intercorsa tra le parti' e delle 'proposte conciliative formulate a suo tempo dalla Ca.',
da cui emerge 'la consapevolezza che l'azienda era stata acquistata con il denaro del padre'.
Del resto, come si ricava dalla parte della sentenza impugnata dedicata allo svolgimento del processo
(pag. 2), è stato lo stesso attore a dichiarare 'di avere provveduto con mezzi propri in data 1 dicembre
2000 all'acquisto dell'azienda (OMISSIS)'.
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2. - Con il secondo mezzo (violazione e falsa applicazione degli artt. 183, 184 240 e 345 cod. proc.
civ., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e all'art. 111 Cost., comma 6) si deduce che 'l'art.
345 cod. proc. civ. non impedisce alla Corte d'appello, che è giudice del merito, di ammettere i mezzi
di prova già articolati davanti al Tribunale e di integrarli, qualora si dimostri che ciò non è stato
possibile nel giudizio di primo grado instaurato prima del primo giugno 2006, specialmente se è stata
omessa l'udienza di cui agli artt. 183 e 184 cod. proc. civ. secondo la formulazione a quella data
vigente e che consentiva nell'udienza ex art. 183 anche di modificare le domande e rendeva
obbligatoria la fissazione dell'udienza di cui al successivo art. 184. Addirittura non è impedito al
giudice di appello di accedere sia alla modifica delle domande che alla ammissione di nuovi mezzi di
prova. E non costituisce nuovo mezzo di prova neppure il giuramento suppletorio de scientia,
richiamato nell'atto di appello e che può essere disposto in sede di gravame, qualora si ritenga, a
compiuta istruttoria, che possa giovare ai fini della corretta decisione, che deve essere aderente al
principio di legalità'.
Con il motivo si chiede anche conclusivamente di dichiarare che 'anche per quanto espresso in ordine
all'irregolare andamento del giudizio di primo grado, poteva essere proposta la modifica delle
domande in appello, modifica che rientra pur sempre in fattispecie similare al patto fiduciario e che
consiste nella simulazione della dichiarazione ex artt. 1401 e 1402 cod. civ., malamente ritenuta
donazione indiretta, per la quale, in considerazione del rapporto familiare (padre e figlia) era
ammissibile la prova orale'.
2.1. - Il motivo è infondato.
La Corte territoriale - nel ritenere precluse le istanze istruttorie formulate soltanto con il motivo di
gravame e non articolate in primo grado in sede di precisazione di conclusioni, in mancanza di
assegnazione del termine per le deduzioni istruttorie, ai sensi dell'art. 184 cod. proc. civ., (nel testo
ratione temporis applicabile) - si è attenuta alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, 21 febbraio
2002, n. 2504; Sez. 2, 29 luglio 2005, n. 16092;
Sez. 3, 24 agosto 2007, n. 17965; Sez. 3, 3 ottobre 2007, n. 20745).
Secondo il costante indirizzo, l'udienza per le deduzioni istruttorie indicata dall'art. 184 cod. proc.
civ. non costituisce un momento indefettibile che debba necessariamente precedere la rimessione
della causa al collegio, giacchè, a norma dell'art. 187 codice di rito, il giudice, ove ritenga che la
causa sia matura per la decisione senza necessità di assunzione di mezzi di prova, rimette le parti
davanti al collegio per la decisione, e la rimessione al collegio non comporta la perdita del diritto ad
integrare le deduzioni istruttorie, ove si consideri che l'art. 187 c.p.c., comma 4, prevede che, qualora
risulti necessario procedere all'istruzione della causa, i termini di cui all'art. 184, se richiesti e non
concessi prima della rimessione al collegio (o del trattenimento della causa per la decisione), devono
essere assegnati dal giudice istruttore su istanza di parte nella prima udienza dinanzi a lui.
L'altra doglianza veicolata con il motivo - relativa alla mancata osservanza, nel giudizio di primo
grado, delle sequenze procedimentali rivolte alla definitiva determinazione del thema decidendum muove da un inesatto presupposto interpretativo.
E' infatti erroneo l'assunto secondo cui, proposta con l'atto di citazione domanda rivolta a vedersi
attribuito il trasferimento del bene in attuazione del pactum fiduciae, sarebbe consentito all'attore, in
virtù della facoltà che l'art. 183 cod. proc. civ. concede alle parti di precisare e modificare la
domanda, di introdurre il tema della interposizione fittizia di persona, derivante dalla simulazione
della dichiarazione di nomina ex artt. 1401 e 1402 cod. civ..
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Invero, costituisce domanda nuova - e non semplice precisazione o modificazione della domanda già
proposta - avanzare in corso di causa una richiesta volta al riconoscimento della proprietà di un
determinato bene o di un complesso di beni sul presupposto del carattere fittizio dell'intestazione
discendente dalla simulazione tanto della dichiarazione di nomina da parte dello stipulante quanto
dell'accettazione della persona nominata, laddove l'atto di citazione sia diretto ad ottenere il
trasferimento di quei medesimi beni in favore dell'istante in forza dell'obbligo assunto dall'intestatario
fiduciario, e ciò data la diversità tra le due anzidette situazioni, deducendosi con la prima un'ipotesi di
divergenza tra volontà e manifestazione e con la seconda l'esistenza di un contratto valido ed
efficace, sia pure con la costituzione a carico del fiduciario dell'obbligo di ritrasferire il bene a
vantaggio del fiduciante (Cass., Sez. 2, 27 marzo 1999, n. 2944).
3. - Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 91 cod. proc. civ..
Il motivo non reca in realtà una autonoma censura, ma è proposto in via riflessa rispetto ai primi due
motivi. La cassazione della statuizione sulle spese e la condanna della controparte al rimborso delle
spese di legittimità sono richieste come conseguenza dell'accoglimento dei primi due motivi del
ricorso.
Il loro rigetto comporta, pertanto, l'assorbimento del terzo motivo.
4. - Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente, nella qualità, al rimborso delle spese processuali
sostenute dalla controricorrente, liquidate in complessivi Euro 2.700, di cui Euro 2.500 per onorari,
oltre a spese generali e ad accessori di legge.
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7) Contratto immorale ed illecito
Noemi svolgeva l’attività di prostituta, presso Via del CorpoBello in Bologna.
Tramite tale attività, guadagnava una somma considerevole, tanto da acquistare la Villa Sensual,
situata sul lago di Como.
Al momento dell’acquisto di detta Villa, Noemi chiedeva al notaio dott. Bravo di cointestarla al
convivente Culdesac, senza che quest’ultimo erogasse alcuna somma di denaro.
Purtroppo, successivamente ed improvvisamente, Noemi decedeva.
La figlia di Noemi riteneva nulla la donazione indiretta fatta dalla madre in favore di Culdesac, data
la provenienza del denaro utilizzato; così contattava Culdesac per chiedergli di pagare il canone di
locazione, inerente l’utilizzo della Villa Sensual.
Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua attenzione, dopo aver
premesso brevissimi cenni sulla differenza tra contratto immorale ed illecito.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 7
In premessa, bisognava accennare alla differenza tra contratto immorale ed illecito:
-il primo si ha quando viene realizzato con causa contraria al buon costume, ex art. 1343 c.c., che
rende predicabile l’art. 2035 c.c.;
-il secondo si ha quando viene realizzato con causa o oggetto illecito, ossia contrario alla legge; in tal
caso, ne discende la nullità con la conseguenza pratica di poter agire ex art. 2033 c.c. per la
ripetizione dell’indebito.
Successivamente, bisognava chiedersi: la donazione indiretta fatta da Noemi a Culdesac è nulla
perché illecita, con la conseguenza che potrà pretendere da Culdesac un canone di locazione?
Invero, nel caso in esame non si intravedono ragioni di nullità del contratto di acquisto della villa
Sensual perché:
-il denaro utilizzato per l’acquisto non è di provenienza illecita;
-l’acquisto della villa non ha vulnerato alcuna norma.
Pertanto, ben potrà Culdesac ritenersi comproprietario di Sensual, senza che la figlia di Noemi possa
avanzare pretese volte ad ottenere il pagamento di un canone di locazione.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
La donazione indiretta, consistente nell'intestazione in favore del beneficiario di una quota di
immobile acquistata con danaro proprio della disponente, proveniente dall'attività di meretricio di
quest'ultima, dalla quale il primo traeva guadagno, non è affetta da nullità per illiceità della causa,
rimanendo la condotta di sfruttamento della prostituzione irrilevante rispetto all'atto di liberalità,
espressione di piena autonomia negoziale ed oggetto di semplice accettazione da parte del
donatario.
Cass. civ. Sez. II, 25-03-2013, n. 7480
Con atto di citazione del 9-12-1986 R.L. quale erede di T.D. conveniva in giudizio dinanzi al
Tribunale di Roma D.G.C. chiedendo lo scioglimento della comunione esistente tra le parti
sull'appartamento sito in (OMISSIS), e la condanna della convenuta alla corresponsione in proprio
favore della metà del valore di un preteso fitto da calcolare in base alla normativa sull'equo canone.
L'attrice asseriva che il suddetto immobile era stato acquistato da R.D. insieme alla D.G. allorchè i
due erano conviventi, e che il proprio diritto di comproprietà su di esso le era pervenuto per
successione "mortis causa".
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Costituendosi in giudizio la convenuta eccepiva di aver acquistato il suddetto bene, all'epoca
consistente in una soffitta abusiva priva di servizi ed abitabilità, esclusivamente con denaro proprio,
non avendo il T. alcuna disponibilità economica; aggiungeva di aver provveduto personalmente alla
trasformazione della soffitta in appartamento e, sempre con denaro proprio, di aver pagato la
sanatoria dell'abuso edilizio; deduceva che la cointestazione al R. per ragioni sentimentali
dell'immobile doveva comunque essere qualificata una donazione nulla per non essere stata redatta
alla presenza di testimoni come richiesto dalla L. 16 dicembre 1913, n. 89, artt. 47 e 48, ed in difetto
del consenso del beneficiario, e per illiceità del motivo della supposta accettazione sanzionato dalla
L. 28 febbraio 1958, n. 75, art. 3; la D.G. chiedeva quindi il rigetto delle domande attrici ed in via
riconvenzionale l'accertamento della sua esclusiva proprietà in ordine al predetto immobile, ed in
subordine del suo diritto all'incremento di valore conseguito dall'appartamento a seguito della
trasformazione e del successivo condono.
Il Tribunale adito con sentenza del 13-8-1999 respingeva la domanda riconvenzionale della D.G.,
dichiarava aperta la successione di R.D., dichiarava che l'eredità era costituita dalla quota di 34 del
predetto appartamento, dichiarava che tale quota si era devoluta per successione in favore dell'attrice,
disponeva lo scioglimento della comunione, disponeva la vendita dell'immobile al pubblico incanto al
prezzo di L. 107.000.000 con attribuzione del ricavato in ragione di metà per ciascuna delle parti,
disponeva con separata ordinanza le modalità della vendita, accertava il diritto della D.G. a percepire
dalla R. la somma di L. 5.000.000 quale incremento di valore dell'immobile, condannava la D.G. al
pagamento in favore della R. della somma di L. 11.400.500 quale quota parte dei frutti civili relativi
al godimento del bene oltre interessi legali e respingeva la domanda della convenuta per il rimborso
degli oneri condominiali.
Proposto gravame da parte della D.G. cui resisteva la R. la Corte di Appello di Roma con sentenza
del 7-2-2006 ha rigettato l'impugnazione.
Per la cassazione di tale sentenza la D.G. ha proposto un ricorso affidato a cinque motivi; la R. non
ha svolto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, deducendo violazione degli artt. 115 e 166 c.p.c., artt. 2697, 1100,
936 e 713 c.c., nonchè vizio di motivazione, assume che l'oggetto della controversia era costituito
dallo scioglimento di una comunione ordinaria dove era necessario preliminarmente accertare se la
quota del bene in contestazione fosse validamente entrata nel patrimonio del defunto del quale la
controparte si dichiarava erede; spettava quindi alla R. provare sia la sua qualità di erede, sia il fatto
che la quota del bene suddetta fosse entrata nel patrimonio del defunto; in ogni caso l'incremento di
valore (e non soltanto il rimborso dei costi) doveva essere accreditato per intero all'esponente.
La ricorrente sostiene che vi era prova documentale in atti di aver corrisposto interamente il prezzo di
acquisto dell'appartamento in questione, ed aggiunge che solo in sede della stipula notarile del 27- 51981 l'esponente aveva consentito che il bene venisse cointestato al R..
Con il secondo motivo la D.G., denunciando violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 2697 c.c.,
comma 2, e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto non provato
l'acquisto dell'immobile per cui è causa da parte dell'esponente esclusivamente con denaro proprio,
laddove sulla base delle prove testimoniali era emersa inconfutabilmente la circostanza che R.D. non
lavorava e che si era confessato debitore della D.G. stessa, secondo le dichiarazioni del teste B.; nè in
senso contrario poteva attribuirsi rilievo all'esito dell'interrogatorio formale reso dalla stessa R. L..
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142
Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 115, 116 e 213 c.p.c., e vizio di
motivazione, assume che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante l'indagine circa
l'appartenenza dei fondi, la traenza e l'incasso degli assegni occorsi per l'acquisto dell'immobile per
cui è causa considerandola in contrasto con la tesi dell'appellante circa l'esistenza di una donazione in
favore del R.; in realtà proprio dalla completezza della prova in ordine alla totale appartenenza alla
D. G. delle somme spese per l'acquisto del bene, per la sua trasformazione e per il condono si
confermava la donazione di esso in favore del R..
Con il quarto motivo la D.G., deducendo violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2697, 1418,
1343 e 2035 c.c., art. 185 c.p., L. 28 febbraio 1958, n. 75, art. 3, e vizio di motivazione, rileva come
fatto provato dalle deposizioni dei testi assunti che l'esponente traeva i propri guadagni dal fatto che
si accompagnava con uomini che la retribuivano per tale compagnia, e che questa attività veniva
svolta con il consenso del convivente R.;
pertanto quest'ultimo, quale beneficiario e sfruttatore dei guadagni della D.G., aveva posto in essere
un comportamento costituente reato e dunque "contra legem", e ed era quindi tenuto alla restituzione
delle somme provenienti da tale attività; invece il giudice di appello aveva ignorato tali risultanze ed
aveva stravolto il principio di diritto in tema di negozio nullo per illiceità della causa.
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono infondate.
La Corte territoriale, premesso che la stessa D.G. aveva dedotto di aver effettuato una donazione in
favore del R. (da intendersi avente ad oggetto il denaro corrispondente alla metà del prezzo
dell'immobile per cui è causa, donazione della quale l'appellante chiedeva dichiararsi la nullità per
illiceità della causa, trattandosi di denaro proveniente da attività svolta "contra bonos mores"), ha
ritenuto che, anche qualora la provenienza del denaro e la consapevolezza della medesima da parte
del R. potessero ritenersi provate, l'accertata illiceità della causa e la conseguente nullità del negozio
avrebbero escluso la possibilità per l'appellante di chiedere la rimozione degli effetti del medesimo,
ed in particolare la ripetizione del denaro donato o la restituzione del bene con esso conseguito alla
stregua del principio "in pari causa turpitudinis melior est condicio possidendi".
Il Collegio ritiene che tale motivazione sia erronea, ma che il dispositivo sia conforme al diritto, con
la conseguenza che in questa sede occorre soltanto correggere la motivazione stessa ai sensi dell'art.
384 c.p.c., u.c..
Premesso che non risulta essere stato oggetto di contestazione almeno in grado di appello il fatto che
R.L. fosse erede di R.D., si osserva che, secondo la stessa prospettazione dell'attuale ricorrente,
l'intestazione in favore del R. di una quota pari alla metà dell'immobile predetto al momento
dell'acquisto del bene per cui è causa da parte della D.G. doveva essere qualificata una donazione; se
questo è quindi il negozio che giustifica l'acquisto da parte del R. della quota dell'immobile stesso,
non appare fondata la tesi della ricorrente in ordine alla pretesa nullità di tale donazione indiretta per
illiceità della causa; infatti il fatto che il denaro impiegato per l'acquisto del bene provenisse dalla
attività di prostituzione della D.G. è ininfluente al riguardo in quanto attinente ad una fase pregressa
rispetto alla donazione, che in effetti è stato il frutto dello spirito di liberalità con il quale l'attuale
ricorrente intese beneficare il T., all'epoca suo convivente; al riguardo è irrilevante la circostanza che
quest'ultimo traesse dei guadagni dall'attività di meretricio della D.G. una volta che resta
incontestato, ed anzi è stato dedotto dalla stessa ricorrente, che essa con l'intestazione al T. della metà
dell'immobile acquistato aveva voluto effettuare una donazione di tale quota in favore di
quest'ultimo, da ricondurre quindi ad un atto di piena autonomia negoziale; il riferimento generico
quindi all'attività del T. di sfruttamento della prostituzione è irrilevante rispetto a questo specifico
atto di donazione, oggetto semplicemente di accettazione da parte di quest'ultimo.
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Con il quinto motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 782 c.c., L.
16 dicembre 1913, n. 89, artt. 47 e 48, nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata
per non aver ravvisato la nullità della suddetta donazione per difetto di forma, in assenza di testimoni.
La censura è infondata.
Premesso che nella fattispecie ricorre una donazione indiretta, ovvero l'acquisto di un immobile posto
in essere per spirito di liberalità per quanto riguarda l'intestazione della quota parte di esso in favore
del T., acquisto che ha prodotto il medesimo effetto di una donazione contrattuale, è agevole rilevare
che per la validità delle donazioni indirette non è richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo
sufficiente l'osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di
liberalità, dato che l'art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di
liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall'art. 769 c.c., non richiama l'art. 782 c.c.,
che prescrive l'atto pubblico per la donazione (Cass. 29-3-2001 n. 4623; Cass. 16-3-2004 n. 5333).
Il ricorso deve quindi essere rigettato; non occorre emettere alcuna pronuncia sulle spese del presente
giudizio, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2013
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8) Garanzia per evizione e promessa del fatto del terzo
Tizio, proprietario dell’immobile Alfa, si incontrava con Caio.
Caio manifestava la volontà di acquistare Alfa; Tizio rendeva noto che sull’immobile gravava una
domanda giudiziale, ma che sarebbe riuscito a cancellarla entro 6 mesi dalla stipula dell’atto di
trasferimento dell’immobile.
Così, i due concludevano un contratto di compravendita avente per oggetto il trasferimento del diritto
di proprietà di Alfa; nell’atto veniva scritto: “Il venditore Tizio si impegna a cancellare la domanda
giudiziale gravante sull’immobile entro 6 mesi dalla stipula del presente atto”.
Successivamente, passavano 9 mesi, ma Tizio non si attivava in alcun modo per procedere alla citata
cancellazione.
Caio si recava da un legale.
Il candidato, assunte le vesti del legale, premesse le differenze tra garanzia per l’evizione e promessa
del fatto del terzo, rediga motivato parere sulla questione giuridica proposta.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 8
In premessa bisognava tracciare le differenze tra garanzia per l’evizione e promessa del fatto del
terzo:
-la prima è disciplinata dall’art. 1483 c.c. e riguarda una garanzia sul bene; incide sul presente; in
caso di violazione, impone il risarcimento in capo al venditore (dovendosi provare anche il danno);
-la seconda è disciplinata dall’art. 1381 c.c. e riguarda l’assunzione di un’obbligazione inerente il
comportamento altrui; incide sul futuro; non incide direttamente sul bene, ma sul comportamento
altrui; in caso di violazione, impone l’indennizzo in capo al promittente (venditore), senza prova del
danno.
Nel caso in esame, la clausola intercorsa nel contratto tra Tizio e Caio, avente per oggetto il
trasferimento della proprietà di Alfa, rientra nella prima fattispecie oppure nella seconda?
Se si opta per la prima fattispecie, allora Tizio sarà tenuto a risarcire il danno causato a Caio;
diversamente, se si opta per la seconda fattispecie, allora Tizio sarà tenuto solo ad indennizzare Caio.
Si ritiene che sussista la seconda fattispecie perché:
-Tizio ha assunto un’obbligazione;
-la citata obbligazione è proiettata sul futuro;
-merge un facere e non solo un dare.
Pertanto, alla luce di tali rilievi, Tizio dovrà indennizzare Caio, ex art. 1381 c.c.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-02-2013, n. 5034
Svolgimento del processo
La M.T.M. Manifattura Tessile Montalese s.r.l., acquirente di un complesso immobiliare posto in
comune di Montemurlo, agiva innanzi al Tribunale di Pistoia nei confronti della L.A.R.C.E. s.a.s.,
società venditrice, affinchè quest'ultima fosse condannata a cancellare i gravami ancora esistenti sui
beni alienati, che si era obbligata a eliminare il prima possibile, e a risarcire il relativo danno. Nel
resistere in giudizio la società convenuta deduceva che le formalità pregiudizievoli erano state
cancellate e che, ad ogni modo, ove ancora esistenti, la relativa responsabilità sarebbe stata dei
soggetti terzi a favore dei quali erano state effettuate.
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Ritenuta quale unica formalità ancora esistente la trascrizione di una domanda giudiziale, come tale
cancellabile solo in forza di sentenza passata in giudicato ovvero col consenso dell'avente diritto, il
Tribunale escludeva la responsabilità della società venditrice e rigettava la domanda.
Tale sentenza era riformata dalla Corte d'appello di Firenze, che accoglieva la domanda di condanna
al risarcimento dei danni proposta dalla M.T.M. Manifattura Tessile Montalese s.r.l..
Inquadrata la fattispecie sotto la norma dell'art. 1381 c.c., la Corte territoriale riteneva che la società
venditrice non aveva provato, nè offerto di provare di essersi attivata per ottenere il consenso alla
cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale, essendo a tal fine del tutto inutile la sola
produzione della copia di un verbale della causa tra la stessa L.A.R.C.E. e il terzo a favore del quale
era stata trascritta la domanda, verbale nel quale la prima chiedeva al giudice istruttore di ordinare la
cancellazione della formalità, valutata l'infondatezza della pretesa. Osservava, quindi, la Corte
fiorentina che la società obbligata non aveva fatto nulla affinchè quella trascrizione fosse cancellata,
come ad esempio presentare opportune offerte economiche alla controparte, per cui tale condotta
omissiva doveva essere qualificata come inadempimento e fonte di responsabilità risarcitoria. In
ordine alla quale, infine, la Corte toscana rilevava che la mancata disponibilità da parte della M.T.M.
di una parte considerevole del prezzo di rivendita a terzi del medesimo immobile, a causa proprio
della mancata cancellazione della domanda giudiziale trascritta sul bene, costituiva un danno
prevedibile al momento in cui era sorta l'obbligazione, considerata la natura imprenditoriale del
soggetto acquirente; e che il nocumento poteva essere risarcito attraverso la corresponsione degli
interessi legali sulla somma di cui era stato sospeso il pagamento alla M.T.M..
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la L.A.R.C.E. s.a.s..
Resiste con controricorso la M.T.M. Manifattura Tessile Montalese s.r.l., che ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. - Preliminarmente va respinta l'eccezione, sollevata dalla parte controricorrente, d'inammissibilità
del ricorso per mancata formulazione dei quesiti di diritto ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c., in quanto a
norma del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2, tale disposizione si applica ai ricorsi per
cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di
entrata in vigore del medesimo decreto, e dunque a far data dal 2.3.2006.
1.1. - La sentenza impugnata, invece, è stata pubblicata il 20.9.2005, e dunque in epoca anteriore
all'introduzione dell'art. 366- ter c.p.c..
2. - Ugualmente infondate sono le eccezioni ulteriori d'inammissibilità del ricorso per mancata
specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui esso si fonda, ai sensi dell'art. 366
c.p.c., n. 6, e d'improcedibilità del ricorso stesso per mancato deposito di tali atti e documenti, ai
sensi dell'art. 369 c.p.c., n. 4.
2.1. - La prima, non considera che l'omessa indicazione dei documenti e degli atti produce
l'inammissibilità del ricorso solo qualora riguardi atti e documenti necessari per accogliere i mezzi
d'annullamento proposti. In difetto di ciò, la mancata indicazione - come nella fattispecie - di atti o
documenti a base dell'impugnazione non conduce a conseguenze di sorta sulla validità dell'atto
propulsivo dell'impugnazione.
2.2. - Quanto alla seconda, poichè l'art. 369 c.p.c., n. 4 fa obbligo al ricorrente di depositare gli atti e i
documenti sui quali si fonda il ricorso e non già gli interi fascicoli del giudizio di merito, il ricorso
per cassazione è inammissibile per violazione del suddetto obbligo solo quando la mancata
produzione riguarda atti o documenti già acquisiti al giudizio di merito, il cui esame sia necessario
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per la decisione della causa. A tal fine il giudizio sulla sufficienza o meno degli atti depositati è
rimesso al criterio valutativo del giudice e non della parte (Cass. n. 11169/97). E nella specie non vi
sono ragioni per ritenere necessario l'esame di atti non depositati dalla parte ricorrente.
3. - Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell'art. 1381 c.c., in relazione all'art.
360 c.p.c., n. 3. Premesso che la fattispecie ipotetica dell'art. 1381 c.c. non può consistere nella
promessa di adempimento di un obbligo cui il terzo sia già tenuto, parte ricorrente deduce che nel
caso in esame è stato l'inadempimento del terzo che aveva trascritto la domanda giudiziale a
determinare le lungaggini processuali concluse, poi, con la sentenza che aveva ordinato la
cancellazione della trascrizione.
In realtà, sostiene parte ricorrente, l'art. 1381 c.c. non poteva essere applicato alla fattispecie, la quale
configura invece una promessa di garanzia per evizione, peraltro già dovuta per legge.
4. - Col secondo motivo è dedotta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto
decisivo della controversia, relativamente alla configurabilità della promessa del fatto del terzo, in
relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.
La motivazione della sentenza della Corte territoriale, nella parte in cui ritiene configurato lo schema
legale dell'art. 1381 c.c. per il solo fatto che la trascrizione della domanda giudiziale fosse avvenuta
ad istanza e nell'interesse di un soggetto terzo, è illogica, poichè da ciò non consegue che, assunto
l'obbligo di cancellare detta formalità, sia stato promesso il fatto del terzo.
Nello specifico, la clausola contrattuale non prevedeva che la L.A.R.C.E. s.a.s. dovesse ottenere il
consenso alla cancellazione, ma solo che essa si obbligava a cancellare la trascrizione, come logica e
giuridica conseguenza della garanzia per evizione.
Del resto, prosegue la parte ricorrente, la cancellazione della domanda giudiziale può avvenire o in
forza del consenso della parte che ha ottenuto la trascrizione o in forza di sentenza passata in
giudicato (art. 2668 c.c.), per cui è evidente che in difetto di consenso, la causa col terzo sia
proseguita per ottenere la pronuncia giudiziale.
5. - Col terzo motivo è dedotta la violazione degli artt. 1362, 1366 e 1371 c.c., in punto
d'interpretazione della clausola negoziale contenente l'obbligo di cancellare la trascrizione come
promessa del fatto del terzo, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
La Corte territoriale ha violato il canone d'interpretazione letterale del contratto, lì dove non ha
considerato che la L.A.R.C.E. si era obbligata a cancellare la trascrizione, non ad ottenere l'assenso
del terzo alla cancellazione. Nè ha considerato che, nonostante la presenza della trascrizione della
domanda giudiziale, la M.T.M. avesse pagato l'intero prezzo dell'immobile, e che inoltre, le parti non
avevano stabilito alcun termine per l'adempimento della ridetta obbligazione di cancellazione, nè
alcuna penale in caso di inadempimento. La relativa clausola contrattuale, pertanto, doveva
interpretarsi come promessa di liberare l'immobile dalla trascrizione esistente, non appena ciò fosse
stato possibile e, quindi, non appena passata in giudicato la sentenza contenente l'ordine di
cancellazione.
6. - Il quarto motivo deduce il vizio motivazionale della decisione impugnata per l'omessa
valutazione di documenti decisivi, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.
La Corte fiorentina non ha considerato che dai verbali, prodotti in giudizio, della causa tra la
L.A.R.C.E. e la Dinamica s.r.l., in favore della quale era stata trascritta la domanda, risultava che la
L.A.R.C.E. aveva fatto tutto il possibile per adempiere l'obbligo assunto con la M.T.M., e di essere
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riuscita nell'intento solo poco prima del passaggio in decisione della causa in appello. In particolare,
la Corte di merito non ha menzionato l'ottenimento della sentenza con l'ordine di cancellazione della
domanda giudiziale, nè ha motivato in ordine alla condotta positiva posta in essere dalla L.A.R.C.E.
nel corso della causa con il terzo, allo scopo di conseguire la pronuncia di cancellazione.
7. - Il quinto motivo denuncia la violazione e/o errata applicazione degli artt. 1381 e 1218 c.c. nonchè
il difetto di motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione, rispettivamente,
all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
A parte la già dedotta inapplicabilità dell'art. 1381 c.c., ricorrerebbe una causa di esonero della
responsabilità prevista dall'art. 1218 c.c., in quanto il ritardo nell'adempimento è stato determinato da
impossibilità non imputabile alla società debitrice, avendo più volte la Dinamica s.r.l. manifestato
nella causa con la L.A.R.C.E. la propria contrarietà alla cancellazione della domanda giudiziale,
come risulta dai verbali di causa prodotti.
8. - Col sesto motivo è dedotta la violazione degli artt. 1223, 1225, 1227 e 1481 c.c., nonchè il difetto
di motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione, rispettivamente all'art. 360
c.p.c., nn. 3 e 5.
La sentenza impugnata non ha considerato che quand'anche vi fosse stato un inadempimento
imputabile alla società odierna ricorrente, per riconoscere il diritto al risarcimento sarebbe stato
necessario un danno che non solo fosse conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento o del
ritardo nell'esecuzione della prestazione (art. 1223 c.c.), ma che fosse altresì prevedibile nel tempo in
cui era sorta l'obbligazione (art. 1227 c.c.). Inoltre, la Corte distrettuale avrebbe dovuto considerare
che il danno asseritamente subito dalla M.T.M. avrebbe potuto essere evitato usando l'ordinaria
diligenza, ai sensi dell'art. 1227 c.c., comma 2, "perchè la venditrice non era affatto tenuta a subire la
sospensione del pagamento del prezzo da parte dell'acquirente, ai sensi dell'art. 1481 c.c.".
Su tali questioni la motivazione della sentenza d'appello sarebbe, secondo la parte ricorrente,
profondamente carente.
9. - Con il settimo ed ultimo motivo parte ricorrente deduce la violazione dell'art. 2702 c.c. e il difetto
di motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione, rispettivamente all'art. 360
c.p.c., nn. 3 e 5. Sostiene che il danno asseritamente subito dalla M.T.M. è stato riconosciuto sic et
simpliciter sulla base di documenti provenienti da terzi, di per sè sforniti di efficacia probatoria ai
sensi dell'art. 2702 c.c. e mai confermati in via testimoniale.
10. - I primi cinque motivi vanno esaminati congiuntamente in quanto replicano, sotto titolazioni e
con argomentazioni diverse, una medesima tesi giuridica, quella secondo cui la parte venditrice
obbligata a cancellare le formalità pregiudizievoli gravanti sul bene immobile alienato, non
risponderebbe della mancata cancellazione imputabile al difetto di cooperazione del terzo a favore
del quale le formalità stesse risultano trascritte o iscritte.
10.1. - Detti motivi sono, nei termini che seguono, infondati.
10.1.1. - La Corte distrettuale ha accertato che la L.A.R.C.E. doveva procurare il prima possibile la
cancellazione della domanda giudiziale trascritta sull'immobile venduto. Parte ricorrente ha attaccato
tale accertamento non già dimostrando la contraddittorietà interna della motivazione che lo sostiene,
ma deducendo l'esistenza di elementi fattuali a suo giudizio idonei a consentire un'interpretazione
alternativa della clausola, come diretta semplicemente ad obbligare il venditore a cancellare la
domanda non appena ciò fosse stato possibile, ossia una volta passata in giudicato la sentenza
contenente l'ordine di cancellazione. Ma una tale ricostruzione della fattispecie sollecita un
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inammissibile sindacato di puro merito, distonico rispetto alla funzione che l'ordinamento assegna al
giudice di legittimità.
Ferma, pertanto, l'interpretazione del contratto operata dalla Corte fiorentina, la riconduzione
dell'obbligo della società venditrice sotto la previsione dell'art. 1218 c.c., quale riflesso della garanzia
per l'evizione, piuttosto che sotto quella dell'art. 1381 c.c., non muta minimamente i termini della
questione in senso favorevole alla parte ricorrente. Nell'un caso come nell'altro, infatti, la
responsabilità del venditore è esclusa solo dall'impossibilità della prestazione per causa non
imputabile al debitore, impossibilità che nella specie la Corte distrettuale ha escluso con motivazione
anch'essa congrua ed esente da vizi logico- giuridici, incentrata sulla mancata prova di una condotta
idonea a indurre la parte a favore della quale era stata trascritta la domanda giudiziale a desistere
della propria pretesa.
11- Anche il sesto motivo è infondato.
E' fuor di luogo il richiamo all'art. 1481 c.c., in base al quale il pagamento del prezzo non può essere
sospeso se il pericolo di evizione era noto al compratore al momento della vendita.
Premesso che la mancata cancellazione da parte del promittente venditore di iscrizioni o trascrizioni
pregiudizievoli sull'immobile promesso abilita il promissario a sospendere il pagamento del
corrispettivo, tanto che egli può ugualmente domandare l'emissione di sentenza costitutiva ai sensi
dell'art. 2932 c.c. senza formalizzare l'offerta del residuo prezzo (giurisprudenza costante di questa
Corte: cfr. Cass. nn. 19135/04, 5228/99, 936/97 e 7013/88), va osservato che la stessa parte ricorrente
fornisce l'argomento base per l'inapplicabilità alla fattispecie dell'art. 1481 c.c. Nel sostenere a pag.
19 del ricorso che il terzo acquirente dalla M.T.M. era a conoscenza della trascrizione della domanda
giudiziale a favore della Dinamica s.r.l. e contro la L.A.R.C.E., parte ricorrente, pur riservando
l'enfasi di scrittura alla sola frase che esprime tale concetto, non manca di riprodurre il testo seguente,
da cui pure si desume che la stessa M.T.M. si era comunque obbligata a far cancellare dalla propria
dante causa la domanda giudiziale. Al pari di quanto innanzi verificato nel rapporto tra la L.A.R.C.E.
e la M.T.M., anche in quello tra quest'ultima e il terzo acquirente dell'immobile la cancellazione della
ridetta formalità era oggetto di un'obbligazione inadempiuta, e come tale legittimava la sospensione
del pagamento del saldo prezzo.
12. - Anche il settimo motivo è infondato.
Nel processo civile le scritture private provenienti da terzi estranei alla lite costituiscono meri indizi,
liberamente valutabili dal giudice e contestabili dalle parti senza necessità di ricorrere alla disciplina
prevista in tema di querela di falso o disconoscimento di scrittura privata autenticata (cfr. tra le
ultime, Cass. n. 24208/10 e S.U. n. 15169/10).
Nella specie, la Corte territoriale ha motivato la propria decisione in merito valutando come fonti del
proprio convincimento una lettera della Banca Toscana in data 24.1.1997 e una lettera dell'avvocato
del soggetto acquirente dalla M.T.M. datata 30.4.1998 (v. pag. 6 sentenza impugnata). Orbene, il
contenuto di tali documenti non risulta riprodotto nel motivo in esame, che pertanto pecca di
autosufficienza non consentendo a questa Corte di valutare se ed in qual misura la motivazione della
sentenza impugnata incorra nel denunciato vizio di insufficienza o di contraddittorietà.
13. - In conclusione il ricorso va respinto.
14. - Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della
parte ricorrente.
P.Q.M.
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150
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 4.200,00, di cui
200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di
Cassazione, il 9 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2013
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151
9) Responsabilità del notaio
Tizio è notaio in Roma.
Caia è proprietaria del fondo Tuscolano; Sempronia è interessata a comprare il fondo Tuscolano
pagando una somma pari ad euro 650.000,oo.
Caia e Sempronia concludevano un contratto di compravendita avente per oggetto il trasferimento del
citato fondo Tuscolano, al prezzo concordato di euro 650.000,oo; l’atto veniva formalizzato dal
notaio Tizio.
Dopo due mesi dall’acquisto, Sempronia scopriva che:
-sul detto immobile gravava ipoteca giudiziale pari ad euro 150.000,oo;
-il contratto avente per oggetto il trasferimento di Tuscolano non era stato qualificato come di classe
“AB”, di cui al piano regolatore, che avrebbe permesso di fruire di sgravi fiscali.
Sempronia si recava da un legale a cui manifestava la volontà di:
-agire contro il notaio, chiedendo a quest’ultimo di cancellare a sue spese l’ipoteca giudiziale;
-agire contro il notaio per chiedere il risarcimento danni derivanti dalla mancata qualificazione
dell’operazione negoziale nell’ambito della classe “AB” che avrebbe permesso un vantaggio fiscale
legittimo.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Sempronia, rediga motivato parere rispondendo alle
richieste della propria assistita.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 9
In premessa si poteva schematizzare il fatto.
Successivamente, e nell’ordine suggerito, bisognava rispondere ai quesiti:
-Sempronia può agire e chiedere il risarcimento in forma specifica al notaio Tizio, pretendendo da
questo la cancellazione a sue spese dell’ipoteca?
-Sempronia può pretendere il risarcimento danni derivanti dalla scelta negoziale di Tizio che non ha
optato per il regime fiscale più vantaggioso?
Relativamente al primo quesito, si poteva dare risposta positiva, evidenziando che:
-il notaio è responsabile per aver realizzato un atto senza aver informato le parti dell’esistenza di
un’ipoteca, in base all’art. 1176 c.c.;
-il risarcimento può essere realizzato in modo specifico ex art. 2058 c.c. in quanto è possibile,
trattandosi di prestazione non personale e che pretende una sola erogazione di denaro (con consenso
del creditore).
Pertanto, ben potrà Sempronia chiedere ed ottenere il risarcimento in forma specifica al notaio Tizio.
Relativamente al secondo quesito, del pari poteva essere data risposta positiva:
-se si evidenzia che il notaio Tizio avrebbe dovuto eseguire la prestazione con diligenza, ex art. 1176
c.c., e che questa richiede anche di tenere presente le esigenze ed interessi delle parti in un’ottica di
solidarietà, ex art. 2 Cost., allora Tizio stesso è stato inadempiente nel non aver individuato il
“percorso fiscale legittimo” più vantaggioso;
-laddove si opinasse diversamente, si finirebbe per legittimare il notaio a non tenere in
considerazione le esigenze dei clienti, arrivando, ad absurdum, ad esempio a ritenere corretto
l’operato del notaio che al posto di una compravendita realizzi due donazioni (il donante cede il
denaro al donatario, e quest’ultimo – a sua volta – cede gratuitamente il bene, concretizzando due
donazioni), con aumento notevole dei costi.
Pertanto, alla luce di quanto osservato, ben potrà Sempronia agire e chiedere il risarcimento danni, ex
artt. 1218 – 1223 c.c., derivante dalla mancata qualificazione dell’operazione negoziale nell’ambito
della classe “AB” che avrebbe permesso un vantaggio fiscale legittimo.
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152
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
Ove il notaio rogante dichiari libero un bene che risulta, invece, gravato da ipoteca, il risarcimento
del danno conseguente può essere disposto anche in forma specifica, mediante condanna del notaio
alla cancellazione della formalità non rilevata, a condizione, tuttavia, che vi sia la possibilità di
ottenere, a tal fine, il consenso del creditore procedente e che il relativo incombente non sia
eccessivamente gravoso, sia per la natura dell'attività occorrente, che per la congruità, rispetto al
danno, della somma da pagare.
Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 16.1.2013, n. 903
...omissis...
Da ciò, la responsabilità professionale del notaio, fondata sul "dedotto ed ammesso inesatto
adempimento" dei suoi obblighi professionali "quale è quello di corretta informazione alle parti ed
alla banca mutuante in relazione gli oneri gravanti sul bene oggetto del contratto ai fini
dell'erogazione del finanziamento e quello di presentare una relazione attestante una situazione
ipotecaria corrispondente a quella reale" (cfr pag.28) ed il danno subito dagli attori "consistente nello
stesso fatto di ritrovarsi in una posizione ipotecaria più gravosa rispetto a quanto legittimamente si
aspettavano......ed in relazione al fatto che il finanziamento avrebbe dovuto essere erogato e versato
alla Poliedro solo una volta che questa avesse provveduto a cancellare, secondo l'obbligo che le
incombeva, le ipoteche gravanti sull'immobile a favore della Cariplo per farne iscrivere una di primo
grado a favore della Banca Commerciale Italiana" (cfr pag.29 della sentenza impugnata).
Ciò posto, appare pertanto evidente come la Corte abbia escluso ogni rilevanza alle circostanze
dedotte dalle parti ricorrenti ed è appena il caso di sottolineare che la valutazione delle risultanze
probatorie, al pari della scelta di quelle - fra esse - ritenute più idonee a sorreggere la motivazione,
postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a
fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di
altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre, non incontra altro limite che
quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e
discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.
Passando all'esame delle altre censure, formulate dal ricorrente principale e sostanzialmente
condivise dalla sopraindicata ricorrente incidentale, va osservato che con la prima doglianza,
deducendo la violazione e la falsa applicazione dell'art.2058 c.c., l'Accolla ha censurato la sentenza
impugnata nella parte in cui la Corte di Appello ha disposto a suo carico la reintegrazione in forma
specifica, benchè parte attrice non avesse fornito alcuna prova nè in ordine alla possibilità, da parte
del debitore, di compierla nè in ordine alla non eccessiva gravosità della medesima.
Con la successiva doglianza per omessa o insufficiente motivazione, l'Accolla ha altresì lamentato
che la Corte non avrebbe motivato circa la sua possibilità di ottenere la cancellazione dell'ipoteca e
circa la non eccessiva onerosità della soluzione trascurando che un terzo, diverso dal creditore
ipotecario, non ha il potere di cancellare l'ipoteca nè può esprimere alcun consenso a tale
cancellazione.
I motivi in questione, che vanno esaminati congiuntamente in quanto sia pure sotto diversi ed
articolati profili, prospettano ragioni di censura intimamente connesse tra loro, sono fondati e
meritano di essere accolti.
A riguardo, corre l'obbligo di rilevare che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, se da
un lato è stato affermato che il notaio officiato di un atto comportante il trasferimento di un
immobile, che non abbia compiuto diligentemente le visure ipocatastali non rilevando l'esistenza di
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153
un'ipoteca, può essere condannato a titolo di risarcimento in forma specifica, a procurare la
cancellazione della formalità (sent. 26 gennaio 2004 n. 1330), dall'altro, è stato precisato che tale
risarcimento in forma specifica presuppone la possibilità di ottenere il consenso del creditore, che
l'incombente non sia eccessivamente gravoso sotto i profili dell'attività da svolgere e della congruità,
rispetto al danno, dalla somma da pagare (sent. 26 gennaio 2004, cit.).
Tale orientamento è stato ribadito recentemente statuendosi che, ove il notaio rogante dichiari libero
un bene che risulta, invece, gravato da ipoteca, il risarcimento del danno conseguente può essere
disposto anche in forma specifica, mediante condanna del notaio alla cancellazione della formalità
non rilevata, a condizione, tuttavia, che vi sia la possibilità di ottenere, a tal fine, il consenso del
creditore procedente e che il relativo incombente non sia eccessivamente gravoso, sia per la natura
dell'attività occorrente, che per la congruità, rispetto al danno, della somma da pagare.
(Cass. n. 14813/2006, n. 15726/2010).
Ora, a fronte di una situazione come quella oggetto di causa, era obbligo del giudice di merito
verificare la sussistenza delle condizioni richieste dall'art.2058 cc e spiegare perchè esse fossero tali
da giustificare la condanna al risarcimento in forma specifica:
attività che la Corte territoriale si è invece ben guardata dal fare, limitandosi ad affermare, assai
genericamente ed immotivatamente, che nella specie il risarcimento poteva essere accordato in forma
specifica, tale essendo in effetti la forma più adeguata per riparare il pregiudizio subito dagli
acquirenti. Ne consegue che nella specie l'omesso compimento degli accertamenti indicati non solo
inficia la correttezza del ragionamento svolto dalla Corte di merito ma ne determina altresì la sua
censurabilità.
All'accoglimento delle censure in esame consegue altresì l'assorbimento dell'ultima doglianza, per
violazione dell'art. 1917 c.c., formulata dal ricorrente principale e fondata sulla considerazione che la
Corte di Appello avrebbe dovuto in applicazione della norma citata condannare le compagnie
assicuratrici a rimborsare al notaio le spese legali dovute al danneggiato manierandolo da tale
obbligazione. Ugualmente resta assorbita la terza doglianza, articolata dall'altra ricorrente incidentale,
la Fondiaria Sai Spa, sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1917 c.c., la quale
si fonda sulla considerazione che la Corte territoriale avrebbe sbagliato quando ha fatto rientrare
nell'obbligazione dell'assicuratore ex art. 1917 c.c., anche le spese necessario alla cancellazione delle
ipoteche, le quali al contrario esulano completamente dal concetto di danno risarcibile oggetto di
copertura assicurativa, da limitarsi al solo importo dovuto dall'assicurato al danneggiato equivalente
all'ammontare del danno Occorre infine portare l'attenzione sulle prime due doglianze, formulate
dalla Fondiaria SAI Spa, doglianze,intimamente connesse tra loro - la prima articolata sotto il profilo
della violazione o falsa applicazione dell'art. 1917 c.c., la seconda per omessa o insufficiente
motivazione - con cui la ricorrente incidentale ha dedotto che la Corte di merito nell'accogliere la
domanda di manleva del notaio avrebbe del tutto omesso di considerare che il titolare della venditrice
Poliedro fosse il cugino dell'Accolla e che il comportamento di quest'ultimo sarebbe stato
caratterizzato da malafede al fine di agevolare l'ottenimento di un finanziamento volto all'ottenimento
del pagamento a favore della Poliedro, che altrimenti non sarebbe stato ottenuto. Da ciò la violazione
della norma citata, la quale esclude l'obbligo a carico dell'assicuratore della responsabilità civile di
tenere indenne l'assicurato per i danni derivanti da fatti dolosi.
Entrambe le censure sono inammissibili. A riguardo, occorre premettere che la Corte di merito ha
espressamente escluso la sussistenza di comportamenti dolosi da parte dell'Accolla affermando che la
condotta, pur inadempiente, del notaio doveva essere giudicata meramente colposa in mancanza di
fondati elementi idonei a dimostrare l'adombrato interesse personale del notaio nell'affare. Ciò posto,
appare evidente come la sentenza, pur motivata assai sobriamente, consente di seguire con assoluta
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chiarezza il percorso argomentativo della Corte di merito e di comprendere le ragioni che l'hanno
portata ad escludere l'ipotesi del comportamento doloso.
Ora, è principio di diritto che i vizi di motivazione non possono consistere in un apprezzamento dei
fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalle parti, perchè spetta soltanto al giudice del
merito individuare le fonti del proprio convincimento ed all'uopo valutare le prove, controllarne
l'attendibilità e la concludenza, scegliere fra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a
dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvi i casi
tassativamente previsti dalla legge.
Ne deriva l'inammissibilità delle doglianze in quanto la ricorrente in realtà tende - prospettando una
soggettiva valutazione e ricostruzione dei fatti - ad una rilettura dei documenti e ad un riesame del
merito della causa, e dunque ad una nuova e diversa valutazione da parte del giudice di legittimità,
allo stesso preclusa.
Alla stregua di tutte le pregresse considerazioni, vanno accolte le prime due censure, proposte dal
ricorrente principale A. F.G. e dalla ricorrente incidentale Le Assicurazioni Generali Spa; vanno
dichiarate assorbite l'ultima censura formulata dal ricorrente principale e la terza censura formulata
dalla ricorrente incidentale La Fondiaria Sai Spa; va dichiara inammissibile ogni altra doglianza; va
infine cassata la sentenza impugnata nei limiti dei motivi accolti. Con l'ulteriore conseguenza che,
occorrendo un rinnovato esame da condursi nell'osservanza del principio richiamato, la causa va
rinviata alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine al
regolamento delle spese della presente fase di legittimità.
P.Q.M.
La Corte decidendo sui ricorsi riuniti accoglie le prime due censure, proposte dal ricorrente principale
A.F.G. e dalla ricorrente incidentale Le Assicurazioni Generali Spa; dichiara assorbite l'ultima
censura formulata dal ricorrente principale e la terza censura formulata dalla ricorrente incidentale La
Fondiaria Sai Spa; dichiara inammissibile ogni altra doglianza; cassa la sentenza impugnata nei limiti
dei motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione,
che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese della presente fase di legittimità.
Il notaio, quand'anche venga esonerato dal compiere le visure relative al bene immobile oggetto di
compravendita, laddove sia a conoscenza o abbia anche solo il mero sospetto della sussistenza di
un'iscrizione pregiudizievole gravante sul predetto immobile, è tenuto, in ogni caso, ad informarne le
parti, dovendo quest'ultimo eseguire il contratto di prestazione d'opera professionale secondo i
canoni della diligenza qualificata di cui all'art. 1176, comma 2, c.c. e della buona fede.
Cass. civ. Sez. III, 29-01-2013, n. 2071
Svolgimento del processo
Con sentenza del 20/7/2010 la Corte d'Appello di Roma respingeva il gravame interposto dal sig.
B.F. nei confronti della pronunzia Trib. Roma n. 24072/2004, di condanna al pagamento di somma in
favore dei sigg.ri G.M. e C.L. a titolo di risarcimento dei danni dai medesimi sofferti in conseguenza
di compravendita di immobile sito nel Comune di (OMISSIS), in relazione al quale risultavano
iscritte formalità pregiudizievoli e trascritto un pignoramento dal predetto, nella sua qualità di notaio,
non rilevati. Con rigetto altresì, per decorsa prescrizione, della domandata manleva da parte delle
chiamate compagnie assicuratrici Lloyd Adriatico s.p.a. e S.I.A.D. s.p.a..
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155
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il B. propone ora ricorso per cassazione,
affidato a 4 motivi, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso il G. e la C., che hanno presentato anche memoria, nonchè, con separato
controricorso, le compagnie assicuratrici Allianz s.p.a. (già Lloyd Adriatico s.p.a.) e U.G.F.
Assicurazioni s.p.a. (già S.I.A.D. s.p.a. e poi Meie Aurora s.p.a.).
Motivi della decisione
Con il 1^ motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2703 c.c., in
riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, c.p.c.; nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito non abbia considerato che nel caso trattavasi di mera autenticazione di
scrittura privata, sicchè non era tenuto ad "effettuare accertamenti circa l'esistenza di eventuali
pregiudizialità sull'immobile".
Lamenta al riguardo che "il legislatore ha voluto porre un distinguo tra la scrittura privata e l'atto
pubblico, prevedendo che soltanto quest'ultimo sia redatto con le richieste formalità, da un notaio o
altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli, fede nel luogo dove l'atto è formato, in modo tale
da assumere piena prova delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale
attesta", e che pertanto, mentre "nell'ipotesi di redazione di un atto pubblico, il notaio non può
limitarsi a registrare ciò che le parti dichiarano, ma deve indagare la loro volontà (cfr. art. 47, L. n.) e
accertare la sussistenza o meno di eventuali vizi dell'atto (cfr. art. 28, L. n.)", allorquando come nella
specie trattisi di "scrittura privata" il notaio viceversa "attesta semplicemente che la sottoscrizione è
stata apposta in sua presenza".
Si duole non essersi tenuto invero conto che "dal tenore della normativa vigente in materia, appare di
tutta evidenza che le prestazioni a cui è tenuto il notaio si differenzino notevolmente nell'ipotesi di
autentica di scrittura privata rispetto a quella di redazione di un atto pubblico", risultando pertanto
"chiaro che la corte territoriale ha errato nel non dare alcun rilievo al fatto che le parti abbiano fatto
ricorso al notaio solo per l'autenticazione delle firme di una scrittura privata di compravendita" e "nel
ritenere responsabile il notaio", giacchè l'omessa verifica delle formalità pregiudizievoli "è stata
giustificata dalla scelta operata dalle parti stesse. In altri termini, i sig.ri G., decidendo di redigere essi
stessi l'atto di compravendita de quo, si sono assunti il rischio che sull'immobile potessero gravare
formalità pregiudizievoli".
Il motivo è infondato.
Superato l'orientamento formatosi sotto la previgente codificazione che - in assenza di espresso e
specifico incarico al riguardo - escludeva il relativo obbligo per il notaio rogante, si è da epoca ormai
risalente da questa Corte affermato che ove richiesto della stipulazione di un contratto di
compravendita immobiliare il medesimo è tenuto al compimento delle attività accessorie e successive
necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti, e in particolare all'effettuazione delle
c.d. visure catastali e ipotecarie, allo scopo di individuare esattamente il bene e verificarne la libertà
(v. Cass., 28/7/1969, n. 2861, e, più recentemente, Cass., 24/9/1999, n. 10493; Cass., 18/1/2002, n.
547).
La sussistenza di tale obbligo è stata dalla giurisprudenza di legittimità dapprima argomentata dal
combinato disposto di cui all'art. 2913 c.c., e art. 28 L. N. in ragione della funzione pubblica del
notaio (v. Cass., 1/8/1959, n. 2444), ovvero da quello di cui al D.P.R. n. 640 del 1972, artt. 4
(secondo cui alle domande di voltura debbono essere acquisiti i certificati catastali) e 14 (che fa
obbligo al notaio di chiedere la voltura), in base al quale il notaio è tenuto ad espletare attività di
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verifica catastale ed ipotecaria volta ad accertare la condizione giuridica ed il valore di un immobile,
da tenersi distinta dalla normale indagine giuridica occorrente per la stipulazione dell'atto (v. Cass.,
23/7/2004, n. 13825).
Successivamente, rimasta invero priva di seguito nella giurisprudenza di legittimità la tesi dottrinaria
riconducente tale obbligo all'uso negoziale ex art. 1340 c.c., (da provarsi da colui che l'invoca), nel
sottolinearsi che l'opera professionale di cui è richiesto il notaio non si riduce al mero compito di
accertamento della volontà delle parti e di direzione nella compilazione dell'atto ma si estende alle
attività preparatorie e successive perchè sia assicurata la serietà e la certezza degli effetti tipici
dell'atto e del risultato pratico perseguito dalle parti (da ultimo cfr. Cass., Sez. Un., 31/7/2012, n.
13617, ove la relativa omissione si è considerata integrare anche illecito deontologico comportante
responsabilità disciplinare, trattandosi di violazione prevista dalla L. n. 89 del 1913, art. 138, come
sostituito dal D.Lgs. n. 249 del 2006, art. 22), la fonte dell'obbligo in argomento è stata da questa
Corte ravvisata nella diligenza che il notaio è tenuto ad osservare (v. già Cass., 1/3/1964, n. 525, e, da
ultimo, Cass., 28/9/2012, n. 16549; Cass., 27/10/2011, n. 22398. V. anche Cass., 2/3/2005, n. 4427)
nell'esecuzione del contratto d'opera professionale (v. già Cass., 25/10/1972, n. 3255, e, da ultimo,
Cass., 5/12/2011, n. 26020; Cass., 28/11/2007, n. 24733; Cass., 23/10/2002, n. 14934; nel senso che
tra notaio ed il cliente intercorre un rapporto professionale inquadrabile nello schema del mandato v.
peraltro Cass., 18/03/1997, n. 2396), il cui contenuto si è da ultimo affermato essere da tale obbligo
integrato ai sensi dell'art. 1374 c.c., (v. Cass., 27/11/2012, n. 20991).
La responsabilità del notaio, si è al riguardo altresì precisato, rimane esclusa solamente in caso di
espresso esonero - per motivi di urgenza o per altre ragioni - del notaio per concorde volontà delle
parti, con clausola inserita nella scrittura (v. Cass., 16/3/2006, n. 5868; per l'ammissibilità di una
dispensa anche in forma verbale v.
peraltro Cass., 1/12/2009, n. 25270), da considerarsi pertanto non già meramente di stile bensì quale
parte integrante del contratto (v. Cass., 1/12/2009, n. 25270; Cass., 12/10/2009, n. 21612), sempre
che appaia giustificata da esigenze concrete delle parti (v. Cass., 1/12/2009, n. 25270).
Quand'anche sia stato esonerato dalle visure, si è ulteriormente sottolineato, il notaio che sia a
conoscenza o che abbia anche solo il mero sospetto della sussistenza di un'iscrizione pregiudizievole
gravante sull'immobile oggetto della compravendita deve in ogni caso informarne le parti, essendo
tenuto all'esecuzione del contratto di prestazione d'opera professionale secondo i canoni della
diligenza qualificata di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e della buona fede (v. Cass., 2/7/2010, n.
15726; Cass., 11/1/2006, n. 264; Cass., 6/4/2001, n. 5158).
Orbene, a parte il rilievo che una limitazione della misura dello sforzo diligente dovuto
nell'adempimento dell'obbligazione, e della conseguente responsabilità per il caso di relativa
mancanza o inesattezza, non può farsi in ogni caso discendere (diversamente da quanto invero da
questa Corte pure in passato affermato: cfr. Cass., 26/5/1993, n. 5926; Cass., 29/8/1987, n. 7127;
Cass., 23/6/1979, n. 3520; Cass., 2/4/1975, n. 1185; Cass., 17/5/1972, n. 1504) dalla qualificazione
della prestazione dovuta dal notaio in termini di "obbligazione di mezzi" (cfr. Cass., 9/10/2012, n.
17143; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 577; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., Sez. Un., 28/7/2005, n.
15781), va al riguardo (ulteriormente sviluppandosi.
quanto già emergente in nuce nelle più sopra richiamate pronunzie Cass., 2/7/2010, n. 15726; Cass.,
11/1/2006, n. 264; Cass., 6/4/2001, n. 5158) osservato come (essendo nella specie in ogni caso non
rilevante - oltre che ratione temporis inapplicabile - la modifica legislativa costituita dall'introduzione
da parte dal D.L. n. 78 del 2010, art. 19, comma 14, (conv. in L. n. 122 del 2010) della L. n. 52 del
1985, art. 29, comma 1 bis, secondo cui "Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi
aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su
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fabbricati già esistenti (ad esclusione dei diritti reali di garanzia) devono contenere, per le unità
immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie
depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto
dei dati catastali e delle planimetrie (sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La
predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico
abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale). Prima della stipula dei predetti atti
il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri
immobiliari") la fonte dell'obbligo per il notaio rogante di effettuare le visure in questione deve
invero propriamente ravvisarsi non già nella diligenza professionale qualificata (la quale non può
essere comunque intesa in termini deponenti per la limitazione della responsabilità del professionista,
e del notaio in particolare (in tal senso v. invece Cass., 15/6/1999, n. 5946), in caso di prestazione
implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà - nella specie d'altro canto nemmeno
dedotti come sussistenti -, in quanto l'art. 2236 c.c., non contempla un'ipotesi di responsabilità
attenuata e non esonera affatto il professionista- debitore da responsabilità nel caso di insuccesso di
prestazioni complesse, ma si limita a dettare un mero criterio per la valutazione della sua diligenza,
sicchè la diligenza esigibile dal professionista nell'adempimento delle obbligazioni assunte
nell'esercizio delle sua attività è una diligenza speciale e rafforzata, di contenuto tanto maggiore
quanto più sia specialistica e professionale la prestazione richiesta: cfr., da ultimo, Cass., 25/9/2012,
n. 16254) bensì nella clausola generale (nell'applicazione pratica e in dottrina indicata anche come
"principio" o come "criterio") di buona fede oggettiva o correttezza ex artt. 1175 c.c. (cfr. Cass.,
2/30/2012, n. 16754; Cass., 11/5/2009, n. 10741).
Come osservato anche in dottrina, oltre che regola (artt. 1337, 1358, 1375 e 1460 c.c.) di
comportamento (quale dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost. (v. Cass., 10/11/2010, n. 22819;
Cass., 22/1/2009, n. 1618; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, 28056) che trova applicazione a prescindere
alla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei
rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e
di avviso, nonchè volto alla salvaguardia dell'utilità altrui nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla
cui violazione conseguono profili di responsabilità: v. Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., Sez. Un.,
25/11/2008, n. 28056; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 27/10/2006, n.
23273; Cass., 20/2/2006, n. 3651. V. altresì Cass., 24/9/1999, n. 10511; Cass., 20/4/1994, n. 3775), e
regola (art. 1366 c.c.) di interpretazione del contratto (v. Cass., 23/5/2011, n. 11295), la buona fede
oggettiva o correttezza è infatti anche criterio di determinazione della prestazione contrattuale,
costituendo invero fonte - altra e diversa sia da quella eteronoma suppletiva ex art. 1374 c.c., (in
ordine alla quale v. la citata Cass., 27/11/2012, n. 20991) che da quella cogente ex art. 1339 c.c. (in
relazione alla quale cfr. Cass., 10/7/2008, n. 18868; Cass., 26/1/2006, n. 1689; Cass., 22/5/2001, n.
6956. V. altresì Cass., 9/11/1998, n. 11264) - di integrazione del comportamento dovuto (v. Cass.,
30/10/2007, n. 22860), là dove impone di compiere quanto necessario o utile a salvaguardare gli
interessi della controparte, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (che non si sostanzi cioè in attività
gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (v. Cass., 30/3/2005, n.
6735; Cass., 9/2/2004, n. 2422), come ad esempio in caso di specifica tutela giuridica, contrattuale o
extracontrattuale, non potendo considerarsi implicare financo l'intrapresa di un'azione giudiziaria (v.
Cass., 21/8/2004, n. 16530), anche a prescindere dal rischio della soccombenza (v. Cass., 15/1/1970,
n. 81)).
L'impegno imposto dall'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza va quindi correlato alle
condizioni del caso concreto, alla natura del rapporto, alla qualità dei soggetti coinvolti (v. Cass.,
30/10/2007, n. 22860).
L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza è infatti da valutarsi alla stregua della causa concreta
dell'incarico conferito al professionista dal committente, e in particolare al notaio (cfr.
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158
Cass., Sez. Un., 31/7/2012, n. 13617. V. anche Cass., 28/1/2003, n.1228; Cass., 13/6/2002, n. 8470.
Per il riferimento alla serietà e certezza dell'atto giuridico da rogarsi e alla sua attitudine ad assicurare
il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla
stipula dell'atto medesimo cfr. altresì Cass., 28/11/2007, n. 24733, e, conformemente, Cass.,
5/12/2011, n. 26020), e cioè con lo scopo pratico dalle parti perseguito mediante la stipulazione, o, in
altre parole, con l'interesse che l'operazione contrattuale è propriamente volta a soddisfare (cfr. Cass.,
Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973;
Cass., 7/10/2008, n. 24769; Cass., 24/4/2008, n. 10651; Cass., 20/12/2007, n. 26958; Cass.,
11/6/2007, n. 13580; Cass., 22/8/2007, n. 17844; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 27/7/2006, n.
17145;
Cass., 8/5/2006, n. 10490; Cass., 14/11/2005, n. 22932; Cass., 26/10/2005, n. 20816;
21/10/2005, n. 20398. V. altresì Cass., 7/5/1998, n. 4612; Cass., 16/10/1995, n. 10805;
6/8/1997, n. 7266; Cass., 3/6/1993, n. 3800. Da ultimo v. Cass., 25/2/2009, n. 4501;
12/11/2009, n. 23941; Cass., Sez. Un., 18/2/2010, n. 3947; Cass., 18/3/2010, n. 6538;
9/3/2011, n. 5583; Cass., 23/5/2011, n. 11295, nonchè la citata Cass., 27/11/2012, n. 20991).
Cass.,
Cass.,
Cass.,
Cass.,
L'obbligo di effettuare le visure ipocatastali incombe allora senz'altro al notaio officiato della
stipulazione di un contratto di trasferimento immobiliare anche in caso di utilizzazione della forma
della scrittura privata autenticata (v. Cass., 1V12/2009, n. 25270;
Cass., 31/5/2006, n. 13015; Cass., 16/3/2006, n. 5868).
Nè al fine di escluderne la responsabilità rilievo alcuno può invero riconoscersi alla circostanza che
l'utilizzazione della forma della scrittura privata come nella specie risponda a scelta della parte, la
quale si sia rivolta al notaio "per la autenticazione delle firme di una scrittura privata di
compravendita" in precedenza da terzi o come nella specie da essa stessa redatta (diversamente v.
peraltro Cass., 23/12/2004, n. 23934; Cass., 18/1/2002, n. 547. E già Cass., 22/3/1994, n. 2699; Cass.,
6/4/1995, n. 4020; Cass., 20/1/1994, n. 475).
La clausola di buona fede o correttezza ha infatti - come detto - valenza generale, e trova anche in tal
caso applicazione.
Orbene, dei suindicati principi la corte di merito ha nel l'impugnata sentenza fatto invero corretta
applicazione.
Nell'affermare la necessità di valutare se "nel caso specifico si possa ritenere sussistente una
responsabilità del notaio appellante in relazione agli obblighi di diligenza media e di buona fede a cui
lo stesso deve improntare la sua prestazione nell'interesse del cliente", tale giudice, facendo richiamo
al precedente costituito da Cass. n. 5926 del 1993, ha infatti correttamente sottolineato come "per il
notaio, richiesto della stipula di un atto di compravendita di un bene già gravato da una iscrizione
ipotecaria, la preventiva verifica della libertà del bene costituisce, salvo l'espressa dispensa degli
interessati, obbligo da ricomprendersi nel rapporto di prestazione di opera professionale: siffatto
obbligo va adempiuto impegnando la diligenza ordinaria media rapportata alla natura della
prestazione".
La corte di merito ha dato quindi al riguardo risposta positiva in ordine alla sussistenza nella specie
dell'obbligo di visura de quo, e negativa al corretto assolvimento del medesimo ("Nel caso in esame
risulta che l'appellante notaio non abbia correttamente eseguito la prestazione contrattuale a favore
degli appellati secondo la diligenza richiesta ad un professionista, mediamente preparato ed
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159
avveduto, per avere omesso (non la visura) di riportare nell'atto - o di avvisare gli acquirenti che sul
bene esistevano altre formalità pregiudizievoli oltre alla iscrizione dell'ipoteca della B.N.L.; ciò
costituendo elemento che comportò la omessa indicazione del pignoramento gravante sul bene
immobile all'epoca della stipula della compravendita").
Al riguardo ha argomentato dal rilievo che fosse "proprio il contesto specifico in cui veniva ad
inserirsi l'atto negoziale demandato al notaio" che al medesimo imponeva "maggiore attenzione e
scrupolo professionale nell'interesse primario dei clienti che a lui si erano rivolti anche se con una
scrittura privata da sottoporre ad autenticazione".
Non risultando nella specie esservi stato espresso esonero del medesimo dallo svolgimento delle
attività accessorie e successive necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti, e in
particolare dal compimento delle c.d. visure ipotecarie, la consapevolezza del notaio odierno
ricorrente in ordine alla causa concreta del contratto richiestogli di rogare risulta quindi
motivatamente desunta dalla accertata circostanza che "alla data di stipulazione dell'atto" di
compravendita de quo gli fu consegnata somma di denaro per provvedere alla cancellazione di (altra)
ipoteca che risultava iscritta sull'immobile de quo ("è illuminante ciò che la parte fece in presenza
dell'ipoteca iscritta dalla Banca Nazionale del lavoro, avendo lasciato in deposito al notaio l'importo
di L. 60 milioni affinchè fosse versato alla BNL ed in vista della cancellazione della predetta ipoteca.
L'avere omesso di indicare in modo pieno e completo la situazione dell'immobile che all'epoca
dell'atto risultava gravato da altra ipoteca e da un pignoramento immobiliare, non può essere
considerato un adempimento completo e puntuale dell'obbligazione professionale gravante sul notaio
appellante, tanto più se si considera che alla data di stipulazione dell'atto egli ricevette delle somme
per poter tacitare la BNL ed impedire che essa potesse sfruttare la procedura esecutiva immobiliare
già attivata dal Banco di S. Spirito presso il Tribunale di Livorno (che anche in presenza di una
rinuncia del creditore procedente, poteva essere portata avanti dalla intervenuta creditrice BNL)": v.
pag. 4 della sentenza impugnata).
Del tutto correttamente la corte di merito ha quindi ritenuto che l'odierno ricorrente fosse, nella sua
qualità, tenuto nel caso all'effettuazione delle visure in argomento, escludendo qualsivoglia rilevanza
in contrario alla "circostanza che, nella specie, le parti avessero fatto ricorso al notaio per la
autenticazione delle firme di una scrittura privata di compravendita", e che "anche in tale situazione il
notaio ha l'obbligo di informare le parti e di evidenziare la situazione ipocatastale dell'immobile da
compravendere".
Con il 2^ motivo il ricorrente denunzia "nullità del procedimento ai sensi e per gli effetti dell'art. 360
c.p.c., n. 4".
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto prescritta la garanzia assicurativa benchè
"i documenti nn. 22 e 23 (nde. Le lettere datate 3 maggio 1991 e 20 maggio 1991), dai quali
risulterebbe che i sig.ri G. avrebbero cominciato ad avanzare richieste risarcitorie nei confronti del
notaio fin dal 1991, sarebbero risultati assenti dal fascicolo di parte dei sig.ri G.".
Con il 3^ motivo denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punto decisivo
della controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente fondato l'impugnata decisione sui documenti
ritenuti indebitamente ritirati dal fascicolo di parte, senza al riguardo seguire "la procedura a tal fine
prevista dal legislatore".
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Con il 4^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., in riferimento all'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole che la corte di merito abbia ritenuto decorsa la prescrizione pur essendosi le compagnie
assicuratrici limitate a richiamare i documenti nn. 22 e 23 allegati dai sigg. G..
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in
parte infondati.
Va anzitutto osservato (avuto in particolare riguardo al 2^ motivo) che, come questa Corte ha già
avuto più volte modo di affermare, il ricorso per cassazione richiede, per ogni motivo di cui si
compone, la redazione di una rubrica, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui il motivo
medesimo - tra quelli espressamente previsti dall'art. 360 c.p.c., è proposto.
E' altresì necessaria l'illustrazione del singolo motivo, con esposizione degli argomenti invocati a
sostegno delle censure mosse alla sentenza impugnata e l'analitica precisazione delle considerazioni
che, in relazione al motivo quale espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della
sentenza (v.
in particolare Cass., 19/8/2009, n. 18421).
Risponde per altro verso a massima consolidata nella giurisprudenza di legittimità che i motivi posti a
fondamento dell'invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della
specificità, della completezza, e della riferibilità alla medesima, con - fra l'altro - l'esposizione di
argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi
di diritto, essendo inammissibile il motivo ove non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo
(se per contrasto con la norma indicata, o con l'interpretazione della stessa fornita dalla
giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione in cui si
assume essere incorsa la pronunzia di merito.
E' cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del
"fatto", sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle
critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.
Cass., 4/6/1999, n. 5492).
Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si
configura solamente quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta
dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia
prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni
adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della
decisione (cfr., in particolare, Cass., 20/3/2006, n. 6091; Cass., 25/2/2004, n. 3803).
Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell'apprezzamento dei fatti e delle prove preteso
dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass.,
20/10/2005, n. 20322).
La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione
conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda
processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della
correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del
merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di
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assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le
complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità
dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all'uno o
all'altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).
Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall'odierno ricorrente.
Già sotto l'assorbente profilo dei requisiti ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2,
n. 4, va posto in rilievo come esso faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es.,
all'"atto di citazione del giorno 8 novembre 1994", all'"atto rogato dal notaio B.F.", alla transazione
"con la B.N.L.", alla comparsa di costituzione del B., alla "sentenza n. 24072/04" del Tribunale di
Roma, all'"atto di citazione in appello, notificato ai sig.ri G. in data 29 ottobre 2004", alla "comparsa
del 23 febbraio 2005" di costituzione in grado di appello delle compagnie assicuratrici, all'"atto del
20 febbraio 2005" di costituzione in grado di appello dei G., ai "documenti... contenuti nel fascicolo
processuale", alla "comparsa conclusionale del 19 novembre 2007"), di cui lamenta la mancata o
erronea valutazione, limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente - per la parte
d'interesse in questa sede - riprodurli nel ricorso, ovvero, laddove riportati, senza puntualmente ed
esaustivamente indicare i dati necessari al reperimento in atti degli stessi (v. Cass., Sez. Un.,
3/11/2011, n. 22726; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n.
29279), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr.
Cass., 19/9/2011, n. 19069; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008,
n. 29279. E da ultimo, Cass., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 6/11/2012, n. 19157).
Come infatti da questa Corte - anche a Sezioni Unite - ripetutamente affermato, l'indicazione degli
atti e dei documenti posti a fondamento del ricorso esige che sia specificato in quale sede processuale
il documento risulti prodotto, tale prescrizione ritenendosi soddisfatta qualora: a) il documento sia
stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la
produzione del fascicolo, purchè nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in
cui il documento è rinvenibile; b) il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla
controparte, mediante l'indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di
controparte, pur se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento, ai sensi
dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per il caso in cui la controparte non si costituisca in sede di
legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o lo produca senza documento; c) si tratti di
documento non prodotto nelle fasi di merito, relativo alla nullità della sentenza od all'ammissibilità
del ricorso (art. 372 p.c.) oppure di documento attinente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la
fase di merito e comunque dopo l'esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione
del documento, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell'ambito del ricorso (v.
Cass., Sez. Un., 25/3/2010, n. 7161; Cass., Sez. Un., 2/12/2008, n. 28547. Da ultimo v. Cass., Sez.
Un., 3/11/2011, n. 22726).
Ne consegue che il ricorrente non pone invero questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto
controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base
delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini
integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass.,
24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).
Quanto al 3 motivo, va posto ulteriormente in rilievo che la ricostruzione giuridica dei fatti quale
compiuta dall'originario attore nella citazione introduttiva e nei successivi atti del 1^ grado di
giudizio, sia le difese svolte nel corso del giudizio dalle controparti integrano invero quel "contegno
delle parti nel processo" dal quale il giudice del merito ha la facoltà di desumere argomenti di prova
ex art. 116 c.p.c., comma 2, (v. Cass., 23/2/1998, n. 1940).
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162
L'art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito il potere discrezionale di trarre elementi di prova dal
comportamento processuale delle parti (v. Cass., 5/12/2011, n. 26088; Cass., 10/8/2006, n. 18128, e
già Cass., 26/2/1983, n. 1503), e il comportamento (extraprocessuale e) processuale - nel cui ambito
rientra anche il sistema difensivo adottato dal rispettivo procuratore - delle parti può in realtà
costituire non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite ma anche unica e sufficiente
fonte di prova, idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito, che con riguardo a tale
valutazione è censurabile nel giudizio di cassazione solo sotto il profilo della logicità della
motivazione (v. Cass., 26/6/2007, n. 14748).
Orbene, come correttamente osservato dalle controricorrenti compagnie assicuratrici nei loro scritti
difensivi, la corte di merito ha nell'impugnata sentenza fondato la decisione esclusivamente sul
comportamento processuale ex art. 116 c.p.c., e tale ratio non risulta invero dal ricorrente
idoneamente censurata.
Il medesimo si è infatti limitato, da un canto, a proporre denunzia di violazione dell'art. 115 c.p.c.,
dolendosi del valore e del significato attribuito al contenuto di determinati documenti prodotti in
giudizio e poi ritirati dal fascicolo (sostenendo che "in ogni caso, qualunque siano state le ragioni che
hanno determinato l'assenza dal fascicolo di una parte di alcune sue produzioni documentali, queste
ultime non possono essere considerate come tuttora acquisite al processo e, dunque, costituire
materiale probatorio su cui il giudice possa fondare la propria decisione;
l'organo giudicante è tenuto... a decidere esclusivamente in base alle prove effettivamente assunte,
oltre che ai documenti sottoposti al suo esame, in quanto contenuti nel fascicolo processuale; ciò
premesso, il ragionamento della corte territoriale nel ricostruire il contenuto delle missive de quibus è
totalmente errato e contrario a diritto, ove si sia limitato a compiere tale ricostruzione utilizzando un
meccanismo presuntivo, invece di disporre, ad esempio, la ricostruzione del fascicolo").
Per altro verso, ha meramente lamentato di non comprendere "in forza di quale principio o ragione"
la corte di merito "abbia potuto opinare che possa ritenersi provato che i sig.ri G. e C. sin dal 1991
avessero sollecitato il notaio a farsi carico delle sue responsabilità... (cfr. sent. impugnata pag. 8)".
Ciò il ricorrente ha fatto senza invero indicare argomento alcuno a sostegno della mossa censura, in
ogni caso non estesa anche all'art. 116 c.p.c., al di là della mera ed erronea (stante quanto più sopra
rilevato ed esposto) deduzione secondo cui "la Corte d'Appello ha ritenuto di dare per acquisita una
specifica e decisiva prova documentale (nde. Lettere di messa in mora nei confronti dei notaio datate
3.5.91 e 22.5.91), sulla base, non già di una dichiarazione confessoria della parte, ma soltanto in forza
di una condotta processuale... posta in essere dal difensore della parte medesima e che sicuramente
non comporta in alcun modo il riconoscimento di altrui diritti e pretese".
Non può d'altro canto al riguardo nemmeno sottacersi che, giusta principio consolidato nella
giurisprudenza di legittimità, il vizio di motivazione non può essere invero utilizzato per proporre
un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id
est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.
Il giudizio di legittimità non è infatti un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi
all'attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del
merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n.
5443).
Le spese, liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza.
P.Q.M.
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163
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione,
che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari, oltre ad accessori come
per legge, in favore del G. e della C.; in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorari,
oltre ad accessori come per legge, in favore della società Allianz s.p.a.
(già Lloyd Adriatico s.p.a.) e della società U.G.F. Assicurazioni s.p.a. (già S.I.A.D. s.p.a. e poi Meie
Aurora s.p.a.).
La funzione del notaio non si esaurisce nella mera registrazione delle dichiarazioni delle parti, ma si
estende all'attività di consulenza, anche fiscale, nei limiti delle conoscenze che devono far parte del
normale bagaglio di un professionista che svolge la sua attività principale nel campo della
contrattazione immobiliare. Ne consegue che si rende responsabile della violazione dell'obbligo di
cui all'art. 1176, secondo comma, cod. civ. il notaio che non svolga una adeguata ricerca legislativa
(ed una successiva consulenza) al fine di far conseguire alle parti il regime fiscale più favorevole.
Cass. civ. Sez. II, 13-01-2003, n. 309
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 14 marzo 1988 Simone Angeli conveniva il notaio Angelo Frillici davanti al
Tribunale di Perugia ed esponeva:
- che in relazione ad un atto di donazione stipulato il 20 settembre 1986 aveva corrisposto la somma
di L. 9.000.000 al notaio convenuto, di cui lire 800.000 per onorari ed il resto per spese;
- che, in realtà, le spese ammontavano a lire 4.700.000, di cui lire 3.300.000 per Invim;
- che l'Invim non avrebbe dovuto essere pagata, in considerazione della qualità di coltivatori diretti
delle parti dell'atto;
sulla base di tali premesse l'attore chiedeva la condanna del convenuto alla restituzione di lire
6.500.000.
Il notaio Angelo Frillici, costituitosi, deduceva che, in realtà, l'attore gli aveva corrisposto la somma
di lire 8.700.000, la quale era destinata a coprire anche gli onorari relativi ad altri atti rogati per conto
dell'attore.
Per quanto riguardava l'Invim deduceva che non era suo compito accertare la sussistenza dei requisiti
per l'esenzione da tale imposta e che la dichiarazione per ottenere l'esenzione doveva essere fatta
dalla parte; ad ogni modo l'attore, se avesse presentato tempestivamente la domanda di rimborso, non
avrebbe subito alcun danno a tale titolo.
Con sentenza in data 23 maggio 1997 il Tribunale di Perugia riteneva che, in linea di principio, era
ravvisabile una responsabilità del notaio per avere taciuto al cliente, o ignorato, l'esistenza di un
beneficio fiscale, ma il danno non era conseguenza diretta di tale comportamento, in quanto avrebbe
potuto essere evitato con la richiesta di rimborso.
Contro tale decisione proponeva appello principale Simone Angeli.
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Il notaio Angelo Frillici proponeva appello incidentale, dolendosi del fatto che fosse stato ritenuto
responsabile di negligenza professionale.
Con sentenza in data 26 gennaio 2000 la Corte di Appello di Perugia rigettava l'appello incidentale ed
accoglieva l'appello principale.
I giudici di secondo grado ritenevano, in primo luogo, non provato che il notaio, a fronte di un
assegno di lire 9.000.000 versatogli da Simone Angeli, avesse corrisposto a quest'ultimo un resto pari
a lire 300.000.
Ugualmente non era provato che Simone Angeli fosse obbligato a corrispondere al notaio Angelo
Frillici gli onorari per atti diversi dalla donazione in data 20 settembre 1986.
Uno di tali atti riguardava la vendita di una autovettura avvenuta circa due anni prima da parte del
fratello di Simone Angeli, che, quale venditore, non era tenuto a pagare le spese; gli altri due atti
erano successivi alla donazione in data 20 settembre 1986 ed alla emissione dell'assegno, oltre a non
avere interessato Simone Angeli.
I giudici di secondo grado confermavano a responsabilità professionale del notaio, ritenendo,
peraltro, che erroneamente il Tribunale di Perugia aveva affermato che Simone Angeli avrebbe
potuto agevolmente evitare il danno consistente nel pagamento dell'imposta non dovuto chiedendone
tempestivamente il rimborso, in quanto la mancanza richiesta di esenzione contestuale all'atto gli
aveva precluso la successiva possibilità di dimostrare l'esistenza dei requisiti per godere delle
agevolazioni per la piccola proprietà contadina.
In definitiva, pertanto, il notaio doveva restituire la differenza tra la somma di L. 9.000.000 e quanto
Simone Angeli avrebbe dovuto effettivamente pagare a titolo di spese ed onorari.
Contro tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il notaio Angelo Frillici, con otto motivi,
illustrati da memoria.
Resiste con controricorso Simone Angeli.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente ribadisce la sua tesi secondo la quale l'assegno di lire 9.000.000 era
destinato a coprire anche le spese della vendita dell'autovettura del fratello (ed in proposito deduce
che cliente del notaio in tal caso è il venditore la cui dichiarazione di vendita viene autenticata)
dell'attore e dei due atti in data successiva, nei quali è vero che Simone Angeli non era parte, ma
erano stati comunque rogati nell'interesse di suoi familiari.
Il motivo è infondato.
Nulla esclude in linea teorica che le spese relative ad atti notarili siano oggetto di accollo ad opera di
un soggetto il quale sia rimasto estraneo alla loro stipulazione; nulla esclude, sempre in linea teorica,
che un soggetto paghi in anticipo le spese di atti non ancora stipulati ed ai quali non è direttamente
interessato.
Della ricorrenza di tale ipotesi, però, il notaio deve fornire la prova e nella specie il ricorrente non
chiarisce quali elementi, trascurati dai giudici di merito, deponevano in senso favorevole alla sua tesi.
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Con il secondo motivo il notaio Angelo Frillici, denunziando violazione e falsa applicazione dell'art.
2697 c.c. deduce testualmente:
La Corte di Appello di Perugia ha comunque errato nell'applicare l'art. 2697 c.c., quando non ha
tenuto conto che il notaio Angelo Frillici aveva in ogni caso provato l'utilizzazione la somma di lire
9.000.000, versatagli a mezzo di un assegno a firma di Angeli Simone, per il pagamento di tasse e
competenze inerenti ad atti della famiglia Angeli.
Lo stesso appellante ha confermato che l'autovettura Volvo era stata venduta dal proprio fratello
convivente Angeli Gregorio e che il pagamento delle imposte Invim, rispettivamente di lire 840.000 e
lire 220.000, era stato effettuato per conto del padre convivente Angeli Giuseppe.
Ai sensi dell'art. 2697 c.c., costituiva onere della controparte eccepire l'inefficacia di tali fatti,
provando i fatti sui quali fondare l'eccezione.
La controparte avrebbe almeno dovuto indicare chi in vece di Angeli Gregorio pagò le spese della
vendita dell'autovettura e chi in vece di Angeli Giuseppe rimborsò al Notaio i versamenti Invim
effettuati per i due atti di vendita.
Il motivo è infondato, in quanto si basa su presupposti non solo non accertati, ma addirittura smentiti
implicitamente dalla sentenza impugnata (l'utilizzazione della somma di lire 9.000.000, versatagli a
mezzo di un assegno a firma di Angeli Simone, per il pagamento di tasse e competenze inerenti ad
atti della famiglia Angeli) ed ipotizza un onere probatorio a carico di Simone Angeli (indicare chi in
vece di Angeli Gregorio pagò le spese della vendita dell'autovettura e chi in vece di Angeli Giuseppe
rimborsò al Notaio i versamenti Invim effettuati per i due atti di vendita) che manca di qualsiasi
fondamento giuridico, dal momento che in base ai normali principi in tema di ripartizione dell'onere
della prova spettava al notaio Angelo Frillici provare che l'assegno versatogli da Simone Angeli era
destinato a coprire spese relative ad atti cui erano interessati i suoi familiari.
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della liquidazione degli onorari operata dai giudici di merito
e deduce testualmente:
La Corte di Appello di Perugia, dopo avere affermato che non è possibile ricostruire l'onorario
dell'atto di cui è causa, perché confuso nella documentazione del notaio con altre prestazioni, ha
ritenuto di poter determinare gli onorari spettanti al notaio Angelo Frillici, facendo riferimento allo
schema di una fattura proforma rilasciata dal Consiglio Notarile di Perugia in data 23 aprile 1998.
Tale documento è peraltro illegittimo e privo di qualsiasi efficacia in quanto non previsto dalla legge
16 febbraio 1913, n. 89 che, con l'art. 93, stabilisce le attribuzioni spettanti ai Consigli notarili.
D'altra parte, la legge 5 marzo 1973 n. 41 ha attribuito al Consiglio nazionale notarile l'esclusiva
potestà di determinare gli onorari, i diritti accessori e le indennità ed i criteri per il rimborso delle
spese spettanti al notaio.
Di conseguenza, la tariffa notarile, approvata dal Ministro di Grazia e Giustizia su deliberazione del
Consiglio nazionale notariato, è l'unica fonte per la determinazione degli onorari, dei diritti e dei
compensi dovuti al notaio per le sue prestazioni, nonché, per i rinvii operati dagli art. 15 N.T. e art.
29 della legge n. 1158 del 1954, delle quote di onorari spettanti alla cassa Nazionale Notariato e della
tassa spettante agli Archivi notarili.
In base a tali norme, la parcella non è costituita dai soli onorari graduali indicati dall'articolo 2 del
DM 30 dicembre 1980 e rapportati al valore indicato nell'atto, ma comprende altri elementi, che
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vanno determinati in relazione alla tipicità di ciascuna pratica e che necessitano di una indagine
specifica dell'atto.
Così l'articolo 28 concerne il rimborso delle spese e delle indennità d'accesso dovute in relazione alle
prestazioni particolari accessorie compiute fuori studio, quali gli accessi per visure ipotecariecatastali, per trascrizioni e volture catastali quando, come nella fattispecie, gli uffici immobiliari e
catastali sono situati in città diversa da quella ove è la sede del Notaio rogante.
Così l'articolo 30 determina un complesso supplementare commisurato alle particolari caratteristiche
e difficoltà della pratica svolta.
A fondamento delle proprie eccezioni, la controparte avrebbe dovuto richiedere al Presidente del
Consiglio notarile non uno schema generalizzato di fattura, ma, a norma dell'articolo 89 della legge
16 febbraio 1913 n. 89, un giudizio di congruità della parcella effettivamente emessa dal notaio
Frillici. In ogni caso, la Corte di appello di Perugia avrebbe dovuto determinare gli onorari e le
competenze del notaio Frillici unicamente applicando essa stessa la tariffa notarile in vigore.
Il motivo è infondato, per la elementare considerazione che il ricorrente non indica in quali errori
sarebbe incorsa la Corte di appello nella liquidazione degli onorari, ma si limita a criticare il metodo
seguito.
Con il quarto motivo il notaio ricorrente deduce che i giudici di merito non potevano affermare la sua
responsabilità in ordine ad una attività (compilazione della dichiarazione relativa all'Invim) che la
legge poneva a carico della parte.
Il motivo è infondato, per l'assorbente considerazione che la responsabilità del notaio è stata
affermata non per le modalità di compilazione della dichiarazione in questione, quanto per il fatto che
il notaio non aveva reso edotto Simone Angeli del fatto che l'Invim, nella specie, non era dovuta.
Con il quinto motivo il ricorrente deduce testualmente:
La Corte di Appello di Perugia ha erroneamente deciso la causa applicando l'articolo 5 della legge 6
agosto 1954 modificato dall'art. 35 della legge 26 maggio 1965 n. 590 ed ha posto a fondamento della
decisione la sentenza 7 settembre 1984 n. 4777 di Cassazione che a tale normativa si riferisce.
La Corte di Appello di Perugia non ha considerato che la legge n. 604 del 1954 e la legge n. 590 del
1965 si riferiscono alle agevolazioni delle imposte di registro e trascrizione.
Invece, oggetto della causa è l'applicazione dell'articolo 25, lett. d), del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643
relativa all'imposta Invim.
Le due disposizioni hanno natura, destinatari, normative completamente diverse e producono
conseguenze diverse.
Il motivo è infondato.
È vero che la sent. n. 4777/1984 di questa S.C. si riferisce alle agevolazioni fiscali in tema di imposta
di registro ed ipotecaria, ma ciò non dimostra che, invece, in tema di Invim, è possibile ottenere la
restituzione dell'imposta pagata ove non sia stata chiesta l'esenzione contestualmente alla stipulazione
dell'atto.
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Secondo il ricorrente la norma in questione sarebbe costituita dall'art. 47, secondo comma, del D.P.R.
26 ottobre 1972 n. 637, al quale rinvia l'art. 19, primo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643.
Si tratta di una tesi infondata.
L'art. 19, primo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643, non rinvia espressamente all'art. 47,
secondo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 637, ma si limita a stabilire che "in base agli elementi
risultanti dalle dichiarazioni previste dall'art. 18, primo e terzo comma, l'ufficio accerta e riscuote
l'imposta nei modi e nei termini stabiliti per l'imposta di registro o di successione".
L'art. 47 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 637, poi, è norma speciale per la imposta di successione,
prevedendo il rimborso non in relazione ad un errore iniziale nella corresponsione della stessa, ma
per il venir meno, successivamente al suo pagamento, dei presupposti cui la stessa era ancorata.
Con il sesto motivo il ricorrente deduce testualmente:
La Corte di Appello di Perugia afferma che, per l'atto di donazione stipulato dai signori Angeli,
dovevano senz'altro spettare i benefici fiscali previsti per favorire la piccola proprietà contadina, dal
momento che la cessione si svolgeva nell'ambito di una famiglia di agricoltori, fatto di cui il notaio
dava atto nello strumento.
Tale affermazione è peraltro priva di qualsiasi fondamento in quanto, contrariamente a quanto
sostengono la controparte e la Corte di Appello, non risulta dall'atto che le parti avessero la qualifica
di "coltivatori diretti".
Nell'atto ricevuto dal notaio Frillici, soltanto Angeli Giuseppe si è dichiarato "coltivatore diretto"
mentre Angeli Simone e Gregorio si sono dichiarati "coltivatori".
Fondamentale, per l'ottenimento della agevolazione fiscale di cui all'articolo 25, lettera d), del D.P.R.
n. 643 del 1972 è la distinzione tra "coltivatore diretto" e "coltivatore".
Il termine "Coltivatore diretto" identifica colui che è dedito alla lavorazione manuale della terra, si
sensi della legge n. 604 del 1954 e della legge n. 590 del 1965:
Il termine "coltivatore" identifica semplicemente l'imprenditore agricolo a titolo principale ex artt. 12
e 13 della legge n. 153 del 1975.
Si contraddice, pertanto, la Corte di Appello di Perugia quando afferma che dallo stesso atto rogato
dal notaio Frillici risulta che spettavano i benefici fiscali previsti per favorire la piccola proprietà
contadina e, comunque, erra quando afferma che la semplice qualifica di agricoltore sia sufficiente
per ottenere le agevolazioni previste dall'art. 25 del D.P.R. n. 643 del 1972.
Il motivo è infondato, in quanto con esso si solleva una questione del tutto nuova.
Nel giudizio di appello (v. comparsa conclusionale), infatti, l'attuale ricorrente aveva impostato le sue
difese sotto il profilo che non vi era la prova che il trasferimento fosse avvenuto nell'ambito di una
famiglia diretto-coltivatrice, come prescritto dall'art. 25 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643, ed aveva
testualmente affermato: È evidente come la sussistenza e l'accertamento di tali requisiti non potesse
essere dedotta dalla semplice dichiarazione di essere coltivatori e/o coltivatori diretti fatta dalle parti
al momento della stipula dell'atto di donazione.
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Con il settimo motivo il ricorrente deduce che: a) 11 art. 18 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643
stabilisce che le parti che stipulano l'atto devono produrre la dichiarazione relativa all'Invim al notaio
incaricato, il quale è solo obbligato alla presentazione della stessa ed al pagamento dell'imposta
risultante; b) l'art. 25, lett. d), del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643 prevede l'esenzione per i
trasferimenti nell'ambito di una famiglia diretto-coltivatrice ove sussistano determinati requisiti, da
provare con una certificazione dell'Ispettorato Provinciale Agrario, che non può che essere rilasciata
ad iniziativa della parte.
Sulla base di tali premesse il notaio Angelo Frillici deduce che non poteva essere affermata la sua
responsabilità in relazione al mancato compimento di attività che esulavano dai suoi compiti
istituzionali e che gravavano sulla parte interessata ad ottenere l'agevolazione.
Anche tale motivo è infondato.
Nella specie, infatti, la responsabilità del notaio non è stata affermata in relazione alla violazione di
obblighi istituzionali connessi alla redazione dell'atto pubblico, ma sul presupposto, pacifico nella
giurisprudenza di questa S.C., secondo il quale la funzione del notaio non si esaurisce nella mera
registrazione delle dichiarazioni delle parti, ma si estende alla attività di consulenza, anche fiscale,
nei limiti delle conoscenze che devono far parte del normale bagaglio di un professionista che svolge
la sua attività principale nel campo della contrattazione immobiliare.
A tale proposito va sottolineato che nella specie l'esenzione fiscale era prevista nel testo
fondamentale in tema di Invim e che è notorio che i coltivatori diretti godono di agevolazioni ai fini
dalla formazione della piccola proprietà contadina, per cui un notaio accorto, chiamato a stipulare un
atto in cui le parti interessate si dichiarano "coltivatori", ha l'obbligo, ai sensi dell'art. 1176 c.c., di
svolgere una adeguata ricerca legislativa (e di successiva consulenza) al fine di far conseguire alle
parti il regime fiscale più favorevole, ove per avventura, non fosse già a conoscenza dello stesso.
Con l'ottavo motivo il notaio ricorrente deduce testualmente:
Contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello di Perugia, i signori Angeli, nonostante la
mancata richiesta della agevolazione fiscale con la denuncia Invim, se ed in quanto ne avessero
effettivamente avuto diritto, come già aveva ritenuto il Tribunale di Perugia, avrebbero comunque
potuto chiedere il rimborso dell'imposta pagata ai sensi dell'art. 47, comma 2°, del D.P.R. 26 ottobre
1972 n. 637, cui fa rinvio l'art. 19, comma 1°, del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643, se avessero
presentato la necessaria domanda entro tre anni dal giorno dell'avvenuto pagamento.
Il motivo è inammissibile, in quanto esso ha ad oggetto una questione che non risulta sollevata nel
giudizio di merito.
Il ricorso, pertanto, va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione,
che liquida nella somma di € 66,68 oltre € 1.000,00 per onorari.
Roma, 31 ottobre 2002.
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10) Attività pericolosa e partita di calcetto
Michelino, diciottenne, gioca spesso a calcetto con i propri amici.
Durante una partita, a gioco fermo, Franceschino (maggiorenne) dava un calcio di punta al ginocchio
di Michelino, che cadeva a terra dolorante.
Ricoverato in ospedale, si riscontrava che Michelino – a causa del calcio di Franceschino – aveva una
frattura.
Michelino, allora, prendeva contatti con un avvocato.
Il candidato, premessi brevi cenni sull’art. 2050 c.c., rediga motivato parere in ordine ad un’eventuale
azione risarcitoria in favore di Michelino e contro Franceschino.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 10
In premessa, come richiesto, bisognava scrivere brevi cenni sull’art. 2050 c.c., che codifica la
responsabilità da attività pericolosa:
-si tratta di una fattispecie derogatoria rispetto al regime generale dell’art. 2043 c.c., che permette
un’inversione dell’onere probatorio, in quanto il danneggiato può limitarsi a provare il danno, mentre
spetterà al danneggiante provare di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno;
-è una fattispecie di responsabilità presunta;
-sono attività pericolose per lo più quelle che contengono un’alta (rilevante) possibilità di subire
danni.
Premesso che Franceschino è responsabile dell’accaduto visto che ha cagionato un danno a gioco
fermo, senza che possa operare alcuna scriminante/scusante (codificata e non), l’attività sportiva del
calcetto è qualificabile come pericolosa?
Se si risponde positivamente, allora Michelino potrà fruire del regime probatorio proprio dell’art.
2050 c.c.; se si risponde negativamente, allora Michelino non potrà utilizzare il regime probatorio
dell’art. 2050 c.c., ma dovrà fruire di quello – più oneroso –dell’art. 2043 c.c.
Si poteva rispondere negativamente; ciò in quanto:
-l’attività di calcetto non può essere considerata pericolosa, in quanto la possibilità di subire danni è
ridotta e non è fisiologicamente connessa al gioco normale, ma esclusivamente al suo esercizio
abnorme;
-non è attività pericolosa, tanto che nelle scuole viene tradizionalmente praticata ed esercitata da
minori.
Pertanto, Michelino potrà agire per il risarcimento danni (principalmente danno alla salute) contro
Franceschino, utilizzando lo strumentario proprio della norma generale dell’art. 2043 c.c., dovendo
così provare tutti gli elementi essenziali dell’illecito, ivi compreso il nesso di causalità (attiva).
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
L'attività sportiva riferita al gioco del calcio non può ricondursi ad un'attività pericolosa rilevante
nei termini di cui all'art. 2050 c.c., poiché trattasi di una disciplina che privilegia l'aspetto ludico,
pur consentendo, con la pratica, l'esercizio atletico. Quando innanzi trova conferma nell'ulteriore
circostanza che tale sport viene normalmente praticato all'interno delle scuole di tutti i livelli come
attività di agonismo non programmatico finalizzato a dare esecuzione ad un determinato esercizio
fisico. In tal senso, pertanto, l'infortunio occorso al giocatore nel corso di una partita di calcio, in
assenza di qualsivoglia elemento idoneo a dimostrare la violazione di obblighi e cautele da parte
della società sportiva, ovvero il verificarsi di un'azione anomala e/o in contrasto con le regole del
gioco, deve ricondursi ad un normale incidente di gioco determinato da caso fortuito, in relazione al
quale nessuna responsabilità può attribuirsi alla predetta società sportiva, ovvero al danneggiante.
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Cass. civ. Sez. III, 27-11-2012, n. 20982
Svolgimento del processo
Nel febbraio del 2003 i genitori del minore R.D. evocarono in giudizio, dinanzi al tribunale di
Monza, la società sportiva "La Dominante", lamentando che, nel corso di uno stage multisportivo
organizzato nella città di (OMISSIS) (e in particolare nel corso di una partitella di calcio svoltasi a
fine mattinata) il figlio era stato colpito al viso da una pallonata, riportando danni ai denti incisivi.
Il giudice di primo grado accolse la domanda, condannando la convenuta al complessivo pagamento
della somma di 7000 Euro, rigettandone la domanda di manleva proposta nei confronti della Vittoria
Assicurazioni, chiamata in causa in corso di giudizio (giudizio che venne invece dichiarato estinto
quanto al rapporto processuale tra La Dominante e le compagnie assicurative Milano e Sportass, a
loro volta chiamate in causa).
La corte di appello di Milano, investita del gravame proposto dalla società sportiva, lo accolse,
rigettando la domanda risarcitoria avanzata dagli attori in prime cure.
La sentenza è stata impugnata da R.D. in proprio - avendo raggiunto la maggiore età nelle more del
giudizio - con ricorso per cassazione sorretto da 4 motivi di doglianza.
Resistono con controricorso l'Inail (successore ex lege della Sportass), La Dominante e la Vittoria
Assicurazioni (a sua volta ricorrente incidentale).
Motivi della decisione
I due ricorsi, principale e incidentale, sono infondati.
Son infondati, in particolare, il secondo e quarto motivo del ricorso principale (in essi risultando
assorbito il primo), mentre il terzo è inammissibile.
IL RICORSO PRINCIPALE. Con il primo motivo, si denuncia, testualmente, nell'intestazione della
doglianza: Art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione agli artt. 112 e 346 c.p.c..
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto:
E' o non è conforme a diritto gravare gi appellati che hanno chiesto il rigetto dell'appello dell'onere di
censurare - i.e. di proporre appello incidentale - la sentenza di primo grado che abbia accolto la loro
domanda disattendendo una diversa qualificazione della domanda stessa da loro proposta in primo
espressamente riproposta in secondo grado? Con il secondo motivo, si denuncia: Art. 360 c.p.c., n. 3,
in relazione all'art. 2050 c.c. - Violazione e falsa applicazione di norma di diritto: art. 2050 c.c..
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto:
Il gioco del calcio, insegnato presso società sportiva, rientra tra le attività pericolose ai sensi dell'art.
2050 c.c.? Con il quarto motivo, si denuncia: Art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all'art. 112 c.p.c., e art.
360, n. 3, in relazione all'art. 2697 c.c., art. 360, n. 5.
Il motivo sì conclude con il seguente quesito di diritto:
E' conforme a diritto considerare eccezionale e imprevedibile, e quindi riconducibile a fortuito, nel
corso di una partitella tra giocatori di diversa età e potenza fisica e privi di specifica preparazione
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tecnica, che una violenta pallonata colpisca al volto uno dei giocatori e gli procuri lesioni? Il secondo
motivo va esaminato in via preliminare.
Al suo rigetto consegue l'assorbimento della prima censura.
Il rigetto del secondo motivo consegue alla inconfigurabilità del gioco del calcio in termini di attività
pericolosa, come già affermato da questa corte regolatrice con la sentenza 1197 del 2007, a mente
della quale deve escludersi che all'attività sportiva riferita al gioco del calcio possa essere
riconosciuto il carattere di particolare pericolosità, trattandosi di disciplina che privilegia l'aspetto
ludico, pur consentendo, con la pratica, l'esercizio atletico, tanto che è normalmente praticata nelle
scuole di tutti i livelli come attività di agonismo non programmatico finalizzato a dare esecuzione ad
un determinato esercizio fisico, sicchè la stessa non può configurarsi come attività pericolosa a norma
dell'art. 2050 c.c..
A tale principio il collegio intende dare ulteriore continuità.
Tale principio esclude implicitamente, per altro verso, la bontà della doglianza rappresentata alla
Corte con il quarto motivo del ricorso, avendo il giudice territoriale, nel analiticamente i fatti,
condivisibilmente affermato che, nella specie, non poteva legittimamente discorrersi che dì un
normale incidente di gioco determinato da caso fortuito, per il quale - attesa l'assenza di qualsivoglia
elemento idoneo a dimostrare la violazione di obblighi e cautele da parte della società sportiva,
ovvero il verificarsi di una azione anomala e/o in contrasto con le regole del gioco - nessuna
responsabilità poteva attribuirsi (nè alla società sportiva La Dominante, nè) al danneggiante, dell'età
di circa 14 anni (e non di diciotto come erroneamente affermato dal giudice di prime cure).
Con il terzo motivo, si denuncia: art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione agli artt. 2697 e 2043 c.c. - Omessa
motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio.
La doglianza - prima ancora che infondata nel merito, poichè inammissibilmente volta a censurare le
risultanze di fatto emergenti dalla sentenza dì secondo grado che, con motivazione scevra da errori
logico-giuridici, ha esattamente ricostruito la dinamica dei fatti, cui il ricorrente pretende dì
sovrapporne una diversa e a lui più favorevole, dimentico dei precisi limiti che assistono il giudizio di
legittimità risulta inammissibile in rito, poichè in essa manca del tutto la - pur indispensabile ratione
temporis - sintesi espositiva del motivo (sintesi che, per costante insegnamento di questo giudice di
legittimità, costituisce il pendant del quesito di diritto funzionale alla denuncia dei vizi ex art. 360
c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) così come imposta dal'art. 366 bis qualora si denunci alla corte - come nella
specie - un decisivo difetto di motivazione.
Non può trovare, infine, accoglimento l'unico motivo cui è affidato il RICORSO INCIDENTALE
proposto dalla Vittoria assicurazioni in tema di spese di giudizio poichè, contrariamente all'assunto
della compagnia assicurativa, la Corte territoriale ha fornito una idonea spiegazione (l'incertezza sulla
copertura assicurativa del sinistro) della sua decisione di compensare quelle spese. Entrambi i ricorsi
sono pertanto rigettati.
La disciplina delle spese - che possono equitativamente essere compensate in questa sede - segue
come da dispositivo.
P.Q.M.
La corte, decidendo sui ricorsi riuniti, li rigetta entrambi, e dichiara compensate le spese del giudizio
di cassazione.
Così deciso in Roma, il 3 maggio 2012.
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173
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2012
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174
11) Immissioni
Francesco è proprietario dell’immobile Alfa, posto nelle vicinanze dell’immobile Beta di Francesca.
Francesco faceva realizzare presso il proprio immobile un caminetto, la cui canna fumaria veniva
direzionata verso la finestra della Camera da letto di Francesca.
La realizzazione della canna fumaria si rivelava non conforme alle normative pubblicistiche.
Il candidato individui gli eventuali strumenti di tutela in favore di Francesca, tenendo conto anche
che accusava difficoltà respiratorie determinate dall’eccesso di immissioni di “aria nociva per la
salute”.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 11
In premessa si poteva riassumere sinteticamente il fatto.
Successivamente, il discorso andava inquadrato nell’ambito della tutela da immissioni ex art. 844
c.c.; la formulazione della traccia chiede di individuare strumenti di tutela, così pretendendo un taglio
pratico/processuale/strategico e non una mera trattazione dell’istituto delle immissioni.
Pertanto, l’interrogativo (implicito) presente nella traccia è: come può tutelarsi Francesca?
Si ritiene che possano attivarsi due azioni in via cumulativa:
-l’azione inibitoria, ex art. 844 c.c., chiedendo anche l’eliminazione o l’adeguamento alla normativa
della canna fumaria;
-l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c., relativamente al danno alla salute subito causalmente
dipendenti dalle immissioni nocive (difficoltà respiratorie).
Il cumulo è ammissibile perché:
-l’azione ex art. 844 c.c. ha natura reale e mira solo ad impedire la prosecuzione del fatto illecito
(ratio);
-l’azione ex art. 2043 c.c. ha natura obbligatoria e mira a riparare quanto ingiustamente arrecato ad
altri (ratio).
Pertanto il cumulo è giustificato:
- dal fatto che la tutela, per essere davvero satisfattiva coerentemente con l’art. 24 Cost., deve mirare
sia ad impedire la “perpetuatio” del danno, e sia risarcire quello già prodotto;
- dal fatto che le due azioni presentano “ratio” diverse e, dunque, non vi è il rischio di duplicazione
inutile o abusiva (c.d. divieto di abuso del diritto) di tutele.
Sotto tali profili, Francesca ben potrà agire cumulando le due azioni citate.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
A conclusione del dibattito, può ritenersi consolidata in giurisprudenza la distinzione tra l'azione ex
art. 844 c.c., e quella di responsabilità aquiliana per la lesione del diritto alla salute e, allo stesso
tempo - ciò che maggiormente rileva in questa sede - l'ammissibilità del concorso delle due azioni.
L'azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione delle cause di
immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far
accertare in via definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche
strutturali del bene indispensabili per farle cessare. Nondimeno l'azione inibitoria ex art. 844 c.c.,
può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute,
salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 c.c., nonchè la
domanda di risarcimento del danno informa specifica ex art. 2058 c.c.
Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-05-2013, n. 12828
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175
Svolgimento del processo
1. La sentenza impugnata, per quanto interessa in questa sede, così riassume la vicenda processuale.
"Con ricorso per manutenzione del possesso (...) Z.V. e Z.G.B., proprietari di un immobile sito in
Comune di (OMISSIS), confinante con l'immobile di P.C., chiedevano la immediata cessazione delle
turbative poste in essere da quest'ultimo con il funzionamento delle caldaie e del caminetto poste sul
tetto del fabbricato e, quindi, che venisse posto fine alle immissioni e disposta la demolizione della
canne fumarie. (...) Si costituiva in giudico P.C. il quale contestava la domanda di cui chiedeva il
rigetto. Assumeva, in particolare, che le canne fumarie si trovavano a distanza di metri 11 (quella a
servizio del camino), e di metri 7,70 (quella destinata allo sfiato della caldaietta a gas); eccepiva
l'inammissibilità della domanda avanzata, fondata sul pregiudizio costituito dalle asserite immissioni
di fumo e non dalla violazione delle norme sulle distanze;
deduceva comunque l'infondatezza della pretesa in quanto l'impianto era perfettamente in regola, e
l'assenza di prove certe e concrete della asserita nocività dei fumi.
Con ordinanza in data 12 ottobre 2002 il Pretore di Bergamo rigettava il ricorso, ritenendo non
dimostrata la nocività delle esalazioni (...). Con nuovo ricorso depositato in data 25 novembre 2002,
Z.V. e Z.G.B. chiedevano, ai sensi degli artt. 669 septies e 669 decies c.p.c., l'adozione di
provvedimenti cautelari idonei a far cessare le turbative dipendenti dall'utiliziamone delle canne
fumarie. (...) Svolta attività istruttoria il Tribunale, con sentenza emessa nel marzo-aprile 2004, ha
accolto la domanda condannando P. C. ad astenersi dall'utilizzare la stufetta e il caminetto a legna e
quindi i camini relativi. Il Tribunale, considerando esperibile l'azione possessoria anche "di fronte al
fenomeno delle immissioni", ha ritenuto, sulla base della consulenza tecnica espletata, che le
immissioni di fumi ed odori (...) eccedevano la normale tollerabilità, da valutare rigorosamente data
la vocazione residenziale del luogo e la destinazione dei locali dei ricorrenti ad abitazione (...).
Avverso la predetta sentenza ha proposto appello P.C. lamentando l'erroneità e l'illogicità della
decisione e la falsa applicazione delle norme di diritto con riferimento:
al limite della normale tollerabilità come interpretato dal Tribunale: la previsione di cui all'art. 844,
era di carattere oggettivo ed andava rapportata alla condizione dei luoghi, al contesto sociale e
produttivo (...) all'entità degli interessi in conflitto.. alle concorrenti abitudini della popolazione dei
luoghi.
(...) La reciprocità dei diritti e degli obblighi dei proprietari dei fondi contemplata dall'art. 844 c.c.,
non era stata presa nella giusta considerazione dal Tribunale che, con la decisione adottata, aveva
dato preminenza... all'immobile di proprietà degli appellati... finendo per abbassare del tutto
inopinatamente, la soglia della normale tollerabilità. (...).
Si sono costituiti in giudizio Z.V. e Z. G.B. i quali hanno resistito all'appello avanzato (...) e, in via di
appello incidentale, hanno chiesto che venisse disposta la chiusura dei camini per cui è causa".
2. La Corte territoriale rigettava l'appello principale ed accoglieva quello incidentale.
Riteneva che "l'accensione delle stufe collegate ai camini di cui si discute crea nell'abitazione dello
Z.c. che superano la normale tollerabilità".
Rilevava che non era necessario "per integrare il superamento dei limiti della normale tollerabilità, la
creazione di una condizione di provata nociuta...e quindi di effettiva lesione dell'integrità
fisiopsichica", in quanto "la tutela del diritto alla salute dell'appellato si concretista anche nel diritto a
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condizioni di salubrità dell'ambiente in cui esplica la sua vita, e postula l'adozione dei provvedimenti
idonei ad evitare che si verifichino condizioni che la pongano anche soltanto potenzialmente a
rischio. La presenza di odori e gas nocivi... costituisce, indubbiamente, violazione dei diritti (alla
salute ed al libero godimento dell'immobile) fatti valere dallo Z.". Osservava poi la Corte territoriale
che "rispetto a questa situazione è del tutto ininfluente la eventuale regolarità della realizzazione dei
camini di cui si discute".
La Corte territoriale accoglieva, infine, l'appello incidentale relativo alla richiesta di rimozione o
quantomeno di chiusura dei camini, osservando che "la difficoltà della esecuzione di un ordine di
astensione, rispetto a cui la reazione dell'ordinamento rischia di essere decisamente tardiva, giustifica
pienamente la domanda".
3. Impugna tale sentenza il ricorrente, il quale articola quattro motivi di ricorso.
Resistono gli intimati con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
Prima di esaminare analiticamente i motivi di ricorso, appare opportuno richiamare i punti
significativi della decisione impugnata.
La Corte territoriale ha osservato che "la tutela della salute nei rapporti privati richiede accertamento,
caso per caso, della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività per lo
svolgimento della vita di ogni soggetto interessato.
Nel caso concreto (...) l'accensione delle stufe collegate ai camini di cui si discute crea nell'abitazione
dello Z. condizioni che superano la normale tollerabilità. Infatti il c.t.u., all'esito delle indagini svolte
(...) ha accertato che nell'abitazione della Z. era presente un odore proveniente dai fumi di scarico in
atmosfera dai comignoli posti sulla copertura del tetto della casa sottostante (...), monossido di
carbonio (...) e ha concluso affermando che l'uso dei camini causarono inquinamento da sostarne
chimiche all'interno dell'abitazione dello Z.".
Osserva, quindi, la Corte territoriale che "Le critiche mosse dall'appellante non scalfiscono le
acquisizioni istruttorie del giudizio di primo grado e la corretta valutazione del Tribunale
inevitabilmente discendente dalle prove raccolte: innanzitutto è agevole osservare che la presenta di
odore è imprescindibilmente legata alla presenta della sostanza da cui l'odore stesso promana; la
rilevazione di gas nocivo all'interno dell'abitazione, poi, indipendentemente dalla durata di tale
accertamento, è indice della situazione di degrado che si crea nell'immobile dello Z. quando sono
utilizzati i camini per cui è causa. Non è certo necessario, per integrare il superamento dei limiti della
normale tollerabilità, la creazione di una condizione di provata nociuta (che nel caso in esame
sarebbe esclusa dagli accertamenti dell'ASL competente) e quindi di effettiva lesione dell'integrità
fisiopsichica: la tutela del diritto alla salute dell'appellato si concretizza anche nel diritto a condizioni
di salubrità dell'ambiente in cui esplica la sua vita, e postula l'adozione dei provvedimenti idonei ad
evitare che si verifichino condizioni che la pongano anche soltanto potenzialmente a rischio. In
presenza di odori e gas nocivi, qualunque sia la loro concentrazione, in locali destinati alla abitazione
e quindi, come esattamente rilevato dal Giudice di primo grado, in luoghi in cui si esplica la
dimensione esistenziale prevalente dell'uomo costituisce, indubbiamente, violazione dei diritti (alla
salute ed al libero godimento dell'immobile) fatti valere dallo Z.. (...) dispetto a questa situazione è
del tutto ininfluente la eventuale regolarità della realizzazione dei camini di cui si discute: infatti,
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come opportunamente sottolineato dal Tribunale, la posizione delle due abitazioni è tale per cui
anche l'eventuale innalzamento dei camini (nell'ipotesi di altezze non regolari) non risolverebbe il
problema del convogliamento dei fumi derivanti dalla combustione verso l'abitazione degli appellati".
2. - I motivi del ricorso.
2.1 - Col primo motivo di ricorso si deduce: "violazione e falsa applicazione degli artt. 1170, 844 e
2043 c.c., e art. 703 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa motivazione con
riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5". Osserva il ricorrente che "la Corte d'Appello di Brescia, nella
propria motivazione, sostanzialmente, fa esclusivo riferimento alla violazione del diritto alla salute,
sostenendo la valenza della decisione del giudice di prime cure, che ha reputato l'accensione delle
stufe alimentate con legna, collegate ai camini in discussione, come circostanza che determina la
presenta di esalazioni, che superano la normale tollerabilità, nell'abitazione dei convenuti. La Corte,
tuttavia, non ha motivato sul punto, pur sollevato, secondo cui il giudizio verte in tema di immissioni
e non anche di diritto alla salute, per la cui tutela si sarebbe dovuta esperire azione risarcitoria avente
carattere personale e non reale". Rileva, altresì, il ricorrente che la tutela della lesione del diritto alla
salute richiede una domanda autonoma e distinta (Cass. 1995 n. 1003, Cass. Sezioni unite 1998 n.
10186).
Viene formulato il seguente quesito: "Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte se il diritto alla
salute possa essere tutelato con l'azione di manutenzione del possesso esperita con riferimento alla
violazione dell'art. 844 c.c., in tema di immissioni".
2.2 - Il motivo è infondato quanto alla dedotta violazione di legge e inammissibile, e comunque
infondato, quanto al dedotto vizio di motivazione.
Quanto alla violazione di legge, in via generale occorre osservare che questa Corte fin dall'arresto
citato dal ricorrente (Sez. U, Sentenza n. 10186 del 15/10/1998, Rv. 519722), ha precisato gli stretti
rapporti intercorrenti tra azione a tutela della proprietà in conseguenza di immissioni e azione a tutela
delle lesioni al diritto alla salute in conseguenza di immissioni oltre il consentito ex artt. 2043 e 2058
c.c.. Al riguardo, ha affermato che "le propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite
della normale tollerabilità costituiscono un fatto illecito perseguibile, in via cumulativa, con l'azione
diretta a farle cessare (avente carattere reale e natura negatoria) e con quella intesa ad ottenere il
risarcimento del pregiudizio che ne sia derivato (di natura personale), a prescindere dalla circostanza
che il pregiudizio medesimo abbia assunto i connotati della temporaneità e non della definitività"
(Cass. n. 7420 del 2000 - Rv. 537210). Nella motivazione le Sezioni Unite, affrontando il tema del
concorso delle azioni e della tutela apprestabile, hanno concluso come segue: "A conclusione del
dibattito, può ritenersi consolidata in giurisprudenza la distinzione tra l'azione ex art. 844 c.c., e
quella di responsabilità aquiliana per la lesione del diritto alla salute e, allo stesso tempo - ciò che
maggiormente rileva in questa sede - l'ammissibilità del concorso delle due azioni. L'azione esperita
dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l'eliminazione delle cause di immissioni rientra
tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via
definitiva l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del
bene indispensabili per farle cessare (Cass., Sez. II, 23 marzo 1996, n. 2598; Cass., Sez. 2^, 4 agosto
1995, n. 8602). Nondimeno l'azione inibitoria ex art. 844 c.c., può essere esperita dal soggetto leso
per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la
responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 c.c., nonchè la domanda di risarcimento del danno
informa specifica ex art. 2058 c.c. (Cass., Sez. Un. 9 aprile 1973, n. 999)".
La Corte territoriale non ha fatto altro che applicare tale condiviso principio, ritenendo che gli odierni
resistenti abbiano esperito l'azione inibitoria ex art. 844 c.c.... per conseguire la cessazione delle
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esalazioni nocive alla salute. Nessuna violazione di legge, quindi, ma soltanto applicazione della
stessa in conformità a principi da tempo affermati da questa Corte.
Il dedotto vizio di motivazione risulta inammissibile, perchè avanzato senza il necessario momento di
sintesi richiesto dall'art. 366 bis, ratione temporis vigente, e comunque è infondato avendo la Corte di
merito chiarito, per quanto sopra riportato, di aver ricondotto l'azione proposta nel solco dell'art. 844
c.c., a tutela del diritto alla salute.
3.1 - Col secondo motivo di ricorso si deduce: "Violazione o falsa applicazione dell'art. 844 c.c., del
regolamento locale d'igiene della regione Lombardia punto 3.4.43 e D.P.R. n. 1391 del 1970 punti
6.15 e 6.17, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5".
Osserva il ricorrente che la "normale tollerabilità" non è un criterio assoluto, ma variabile. Il limite
della normale tollerabilità, posto dall'art. 844 c.c., costituisce "criterio oggettivo", da verificarsi in
relazione alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo nel quale si svolge l'attività che si
assume lesiva e degli interessi in conflitto, nonchè alle concorrenti abitudini della popolazione del
luogo. L'indagine non può prescindere dalla condizione di luoghi, intesa sotto il profilo sociale e cioè
in relazione al carattere delle attività normalmente svolte in una determinata zona. La collocazione
dell'art. 844 nel capo secondo del codice civile testimonia come "dette norme siano state previste per
disciplinare i rapporti tra proprietari dei fondi vicini, avendo presente la necessità di stabilire diritti ed
obblighi reciproci dei proprietari di immobili". Tale reciprocità non è stata considerata dalla Corte
d'appello, che ha finito per "dare preminenza all'immobile dei ricorrenti, abbassando inopinatamente
la soglia della normale tollerabilità, senza addurre alcuna giustificazione e senza apportare alcuna
motivazione". Sia il giudice di prime cure, sia la Corte territoriale hanno dato una lettura dell'art. 844
c.c., che "trasforma il concetto di tollerabilità in sinonimo di lesività dei diritti personali dei
proprietari confinanti", omettendo di considerare uno dei criteri che la norma impone di osservare: la
valutazione dello stato dei luoghi.
In particolare la Corte non aveva considerato che "le abitazioni sono situate in un Comune di
montagna, dove le case sono normalmente a dislivello e dove tutti posseggono camini alimentati con
legna da ardere o utilizzino cucine economiche funzionante a legna". I giudici dei due gradi avevano
"omesso di considerare che il criterio adottato dalla norma per operare il bilanciamento tra le diverse
situazioni soggettive dei proprietari interessati è quello... della maggiore utilità sociale". La
previsione legislativa di un obbligo di sopportazione, in rapporto alla condizione dei luoghi,
costituisce l'applicazione di un più ampio principio di solidarietà nell'interesse comune, garantito
dalla Costituzione in misura non minore del diritto alla salute". Ad essere comparate devono essere le
esigenze abitative dei due nuclei familiari, "esigenze aventi pari dignità". Secondo il ricorrente, "non
è stata tenuta in alcuna considerazione l'accertata mancanza di nociuta delle esalazioni, la conformità
dei camini alle norme del regolamento locale di igiene ed il rispetto delle distanze legali". Viene
formulato il seguente quesito: "Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte: a) se il parametro della
normale tollerabilità di cui all'art. 844 c.c., debba avere carattere obiettivo o soggettivo; b) se il
giudizio sulla tollerabilità o intollerabilità delle immissioni debba essere affidato a valutazioni
condotte in termini relativi, rispetto allo stato dei luoghi; c) se il limite della normale tollerabilità
posto dall'art. 844 c.c., debba essere stabilito in relazione alle condizioni dei luoghi, al contesto
sociale e produttivo, nel quale si svolge l'attività che si assume lesiva, all'entità degli interessi in
conflitto, nonchè alle concorrenti abitudini della popolazione del luogo in cui l'emissione avviene; d)
se il criterio della normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c., comma 2, debba ritenersi operante
non solo quando concorrano proprietà e produzione, ma anche tra situazioni soggettive dei
proprietari, in relazione al principio della maggior utilità sociale e in rapporto alla condizione dei
luoghi, in applicazione di un più ampio principio di solidarietà nell'interesse comune,
costituzionalmente garantito; e) se il giudice, nella valutazione del criterio della normale tollerabilità,
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debba comparare il diritto alla salute con il diritto all'abitazione, tenendo conto dello stato dei luoghi,
degli usi e delle abitudini locali e della regolarità delle fonti delle presunte emissioni lesive del diritto
alla salute rispetto alle norme previste dal Regolamento locale di Igiene, della conformità edilizio urbanistica dell'opera e del rispetto delle distante legali; f) se il Giudice possa porre a fondamento
della sua decisione situazioni di fatto difformi da quelle previste dalla norma che intende applicare".
3.2. - Il motivo è infondato. Il giudice di merito, nella sua valutazione, ha tenuto conto di tutte le
argomentazioni esposte dal ricorrente (contrasto tra analoghe situazioni abitative, località montana,
conformità dei camini alla disciplina edilizia ed al regolamento sanitario) e ha poi ha valutato se le
esalazioni riscontrate rientrassero o meno nella "normale tollerabilità" sulla base delle emergenze
istruttorie, in particolare sulla base della espletata CTU. Con riguardo al carattere relativo della
nozione della tollerabilità (quesiti lettere da a ad è), la Corte territoriale non ha fatto altro che
applicare i principi affermati da questa Corte (di recente con Cass. n. 3438 del 2010, Rv. 611513),
secondo la quale "Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma è relativo alla
situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini
degli abitanti;
spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e
individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa". La Corte,
infatti, ha analizzato la specificità della situazione, nella quale l'uso dei camini del ricorrente, in
relazione alla posizione dei relativi immobili, ove pure in regola con la normativa urbanistica e
sanitaria, determinava il fenomeno delle immissioni, da valutarsi in concreto rispetto alla norma
codicistica, restando solo da accertare il superamento della normale tollerabilità. E' appena il caso di
osservare, infatti, da un lato, che le immissioni conseguenti a violazioni delle norme pubblicistiche
determinano "un'attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d'essere l'imposizione di un
sacrificio, ancorchè minimo, all'altrui diritto di proprietà o di godimento, sicchè non essendo
applicabili i criteri dettati dall'art. 844 c.c., viene in considerazione unicamente l'illiceità del fatto
generatore del danno arrecato a terzi secondo lo schema dell'azione generale di risarcimento danni di
cui all'art. 2043 c.c." (Cass. n. 10715 del 2006, Rv. 590127) e che, dall'altro, il rispetto dei limiti
imposti dalle norme pubblicistiche non ha rilievo nei rapporti tra proprietà, avendo invece rilievo solo
con riguardo alla sfera pubblicistica. Tali disposizioni, infatti, non escludono l'applicabilità, nè
dall'art. 844 c.c., nè degli altri principi che tutelano la salute nei rapporti interprivati, che richiedono
l'accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività.
Quindi, la Corte territoriale ha applicato correttamente i principi di diritto elaborati da questa Corte
con riguardo alla applicazione dell'art. 844 c.c., nella sua interpretazione costituzionalmente orientata
da tempo consolidatasi e, nel caso di specie, nel conflitto tra due proprietà e delle relative modalità di
esplicazione del diritto (uso del camino e tutela della salute), ha correttamente ritenuto di dare la
prevalenza a quest'ultimo per il maggior rilievo che assume la tutela della salute rispetto ad una delle
possibilità modalità di fruizione e di godimento della proprietà privata.
Sicchè non sussiste, come si è detto, la violazione di legge denunciata, restando generico il quesito
articolato sub lett. f (se il Giudice possa porre a fondamento de Ih sua decisione situazioni di fatto
difformi da quelle previste dalla norma che intende applicare).
Quanto alla cesura relativa al vizio di motivazione, essa risulta anche in questo caso inammissibile,
per le medesime ragioni esposte nell'esame del primo motivo, ed, in ogni caso, infondata, trattandosi
di valutazione (quella della "normale tollerabilità") riservata al giudice e censurabile in cassazione
solo sotto il profilo del vizio di motivazione, che nel caso in questione non sussiste.
Al riguardo, occorre, in proposito, precisare che la denuncia di un vizio di motivazione, nella
sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5), non conferisce al
giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito dell'intera vicenda processuale
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sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica
e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via
esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del
proprio convincimento. Di conseguenza il vizio di motivazione deve emergere - secondo il
consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte. Cass. S.U. n. 13045/97 e
successive conformi) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla
sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile
traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati
dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni
complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logicogiuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato,
attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi
che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità
(dall'art. 360 c.p.c., n. 5) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia
dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione
esaminata. Tale revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di
fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento
al giudice di legittimità.
Nè, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma
inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se - confrontando la sentenza con
le risultanze istruttorie - prendesse d'ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore
rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il
ricorso "sub specie" di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, il citato art. 360 c.p.c., comma
1, n. 5), non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della
causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica,
l'esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del
proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la
concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti
in discussione. (Cass. n. 4766 del 06/03/2006 - Rv. 587349).
In definitiva, le censure concernenti vizi di motivazione devono indicare quali siano i vizi logici del
ragionamento decisorio e non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze
processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (Cass. n. 12467 del 25/08/2003 - Rv.
566240). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può
giungere solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice del merito,
quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il
giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato
difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. n. 20322 del 20/10/2005 - Rv.
584541).
Nel caso in questione, il ricorrente non formula precise censure nei termini su indicati, ma si limita ad
una propria valutazione del materiale istruttorio (CTU), prospettando una conclusione diversa da
quella della Corte di merito.
4.1 - Col terzo motivo di ricorso si deduce: "Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa
un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 5".
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181
Il ricorrente osserva che il CTU "concludeva per la irregolarità dei camini, in quanto, a suo giudizio,
avrebbero dovuto sovrastare di un metro il colmo del tetto, sul presupposto che la documentazione
fotografica allegata agli atti conferma che i camini non rispettano le prescrizioni del Regolamento di
Igiene tipo, L.R. 26 ottobre 1981, n. 64, ex art. 53, (norma che imponeva il sovrano di un metro dal
colmo del tetto ai parapetti in presenta di ostacoli a distanza inferiore a 10 metri)". Tale conclusione,
ad avviso del ricorrente, è errata perchè "il CTU applicava una norma del Regolamento Locale di
Igiene non più in vigore, essendo stata superata dal successivo regolamento pubblicato sul Bollettino
Ufficiale della Regione Lombardia in data 25.10.1989 (in atti), il cui contenuto impone un sovralzo
di 40 cm dal colmo del tetto, quando vi siano ostacoli a distanza inferiore di 8 metri. Soltanto
quest'ultimo regolamento doveva essere considerato ai fini della valutazione della conformità dei
camini de quibus alle prescrizioni vigenti, non quindi il Regolamento considerato dal C.T.U., in
quanto abrogato, e, neppure la disposizione di cui al punto 6.15 dell'art. 6 del D.P.R. 1391 del
22.12.1970, a cui pure fa riferimento il perito d'ufficio, in quanto norma applicabile ai soli impianti
termici (esclusi, quindi, per sua stessa ammissione, camini e stufe) di potenzialità superiore alle
30.000 kcal/h".
Rivela il ricorrente ancora che "i camini sulla proprietà P. distano dall'abitazione dei ricorrenti più di
10 metri" e conclude il motivo, osservando che in presenza di specifiche osservazioni delle parti, "il
giudice del merito è tenuto a fornire un'adeguata motivazione così della sua adesione alle
argomentazioni ed alle consequenziali conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, come del mancato
ricorso ad un supplemento o ad un rinnovo della consulenza tecnica d'ufficio".
4.2 - La questione del rispetto delle distanze, della regolarità urbanistica dell'immobile del ricorrente
e della applicabilità della normativa sanitaria in materia, resta assorbita dalle considerazioni svolte
nel rigetto del precedente motivo.
5.1 - Col quarto motivo di ricorso si deduce: "violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342 e
345 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 4". Osserva il ricorrente che "Gli appellati hanno
formulato appello incidentale del seguente letterale il motivo per cui chiediamo la rimozione o
quantomeno la chiusura dei camini a legna è dovuto al fatto che gli stessi sono abusivi in quanto mai
approvati dalla Commissione Edilizia e ancor peggio mai progettati.
Altro motivo è legato al fatto che lo stesso P. non ha sempre rispettato il divieto di utilizzo imposto
dalla sentenza accendendo il camino in tarda serata in modo che nessun passante sulla strada potesse
vedere il fumo, ad esclusione dello Z., che tanto potrebbe fornire prove per testi".
La Corte territoriale sul punto ha accolto l'appello incidentale così motivando: "La difficoltà della
esecuzione di un ordine di astensione, rispetto a cui la reazione dell'ordinamento rischia di essere
decisamente tardiva, giustifica pienamente la domanda".
Secondo il ricorrente, si trattava di una domanda nuova, sulla quale non era stato accettato il
contraddittorio, fondata su motivi privi di specificità e su affermazioni che risultavano non vere e
comunque smentite dalla documentazione in atti (regolarità amministrativa dei camini).
Viene formulato il seguente quesito: "Dica l'Ecc.mo Collegio della Suprema Corte: a) se l'appellante
incidentale, nel proporre l'appello, al fine di assolvere all'onere della specificazione dei motivi
d'appello previsto dall'art. 342 c.p.c., debba esprimere articolate ragioni di doglianza su punti
specifici della sentenza di primo grado; b) se l'appellante incidentale, nel dedurre i motivi d'appello,
debba comunque formulare espressa censura su un punto decisivo della controversia, sul quale il
giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi; c) se il giudice possa emettere una statuizione
basando la decisione su fatti costitutivi dedotti per la prima volta in appello e/o su fatti costitutivi
diversi da quelli dedotti, sforniti di prova".
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5.2 - Anche tale ultimo motivo è infondato, posto che il giudice d'appello, investito della questione
dell'applicabilità al caso in questione dei principi civilistici in materia d'immissioni, non ha
considerato le questioni, in tesi nuove, della conformità o meno dei camini alle prescrizioni
pubblicistiche, avendo, come detto, fatto applicazione dei principi da tempo affermati da questa Corte
al riguardo e sopra riportati. Nè l'appello è carente di specificità, essendo sufficientemente indicate le
ragioni della decisione impugnata e le richieste dell'appellante (appunto l'adozione di idonei
strumenti atti ad evitare le immissioni). Nè, ai fini della decisione in concreto resa per evitare le
immissioni, la Corte territoriale ha fatto riferimento ai fatti, che, secondo il ricorrente, sarebbero stati
dedotti dagli appellanti per la prima volta in appello. Richiesta di un provvedimento adeguato alla
soluzione del problema, la Corte ha operato una scelta di merito, non censurabile in questa sede,
perchè adeguatamente motivata.
6. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 2.500,00
(duemilacinquecento) Euro per compensi e 200,00 (duecento) Euro per spese, oltre accessori di
legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2013
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185
12) Prescrizione e danni lungolatenti
In data 17.7.2002, Michele intratteneva rapporti sessuali non protetti con Mikaela, in Bologna presso
l’Hotel Fortunitas di Via Zamboni.
Dopo il rapporto occasionale, Michele non aveva più incontrato Mikaela.
Nel 2013, Michele iniziava a manifestare alcuni sintomi strani e si recava in ospedale per controlli,
dove gli veniva diagnosticato di essere affetto da HIV.
Michele faceva un giro di telefonate e veniva a sapere che Mikaela, al momento del rapporto
sessuale, era affetta da Hiv.
Michele si recava da un legale, al quale raccontava in fatti manifestando anche la preoccupazione
dell’eventuale maturata prescrizione dell’azione risarcitoria.
Il candidato, assunte le vesti del legale, rediga motivato parere sulla questione proposta.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 12
In premessa, si poteva schematizzare il fatto.
Successivamente, il discorso andava inquadrato nell’ambito della prescrizione; considerando che il
diritto al risarcimento del danno da illecito si prescrive in cinque anni, Michele è ancora in tempo per
agire fruttuosamente?
Se si lega il dies a quo al momento causativo (17.7.2002), allora sarà maturata la prescrizione;
diversamente, se si lega il dies a quo al momento percettivo o di manifestazione esterna (2013), allora
non sarà maturata la prescrizione.
Come va decodificato l’art. 2947 c.c., laddove afferma che la prescrizione inizia a decorrere “dal
giorno in cui il fatto si è verificato”?
Per la tesi del dies a quo ancorato al momento causativo, si afferma che:
-l’art. 2947 c.c. parla di fatto, ed il fatto antigiuridico coincide con il momento causativo; nel caso in
esame con il 17.7.2002;
-anche l’art. 2043 c.c. attribuisce molta importanza al momento fattuale e non percettivo (“qualunque
fatto doloso o colposo”);
-se sussistono dubbi interpretativi, bisogna privilegiare la tesi più coerente con la ratio della
prescrizione che è quella di attribuire certezza ai rapporti giuridici; il momento certo è quello del
fatto e non della conoscenza dei danni derivanti dallo stesso che può mutare da soggetto a soggetto ed
è pure difficilmente controllabile;
-diversamente opinando si rischierebbe di avere una prescrizione sine die.
E’ più condivisibile la tesi che lega il dies a quo al momento conoscitivo (2013), con la conseguenza
pratica che Michele potrà ancora agire in via risarcitoria.
Ciò in quanto:
-il fatto a cui si riferisce l’art. 2947 c.c. è quello di cui all’art. 2043 c.c., inerente anche gli effetti
della condotta; pertanto, il fatto si completa al momento della produzione dei danni e della loro
conoscenza;
-diversamente opinando verrebbe vulnerato in concreto il diritto di difesa ex art. 24 Cost., perché il
danneggiato si vedrebbe prescritta l’azionabilità del suo diritto senza alcuna colpa.
Alla luce dei citati rilievi, pertanto, Michele potrà agire contro Mikaela per il risarcimento danni
patrimoniali e non patrimoniali.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
La prescrizione non necessariamente decorre dalla data in cui il fatto si è verificato nella sua
materialità e realtà fenomenica, ma piuttosto dal momento in cui esso si evidenzi all'esterno con tutti
i connotati che ne determinano l'illiceità.
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186
Cass. civ. Sez. III, Sent., 04-06-2013, n. 14027
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 3707/2006, depositata il 3 dicembre 2006, la Corte di appello di Napoli ha respinto
la domanda di risarcimento dei danni proposta ai sensi dell'art. 33 legge 10 ottobre 1990 n. 287 da S.
W. contro la s.p.a. Axa Assicurazioni, a seguito del Provvedimento 28 luglio 2000 n. 8546
dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), che ha inflitto sanzioni ad un largo
numero di società assicuratrici, fra cui AXA, per avere posto in essere un'intesa orizzontale, nella
forma di una pratica concordata, consistente nello scambio sistematico di informazioni commerciali
sensibili tra imprese concorrenti, con riferimento alle polizze di RCA. L'Autorità garante ha altresì
rilevato che detta pratica ha comportato un notevole incremento dei premi, nel periodo interessato dal
comportamento illecito (anni 1994 - 2000), con riferimento sia al livello in vigore prima del 1994,
anteriormente alla liberalizzazione delle tariffe; sia alla media dei premi sul mercato Europeo, che è
risultata inferiore di circa il 20% rispetto alla media dei premi praticati in Italia.
L'odierna ricorrente - avendo concluso con Axa, nel periodo indicato, varie polizze di assicurazione
RCA - ha chiesto il risarcimento dei danni nell'importo di Euro 269,96, pari al 20% dei premi versati
dal 23.4.1996 al 23.10.2000 quale corrispettivo delle suddette polizze.
La domanda è stata rigettata per intervenuta prescrizione, quanto ai premi pagati fino al 23.10. 2000,
e per mancanza di prova del nesso causale fra l'illecito sanzionato dall'AGCM e l'incremento dei
premi, quanto ai pagamenti successivi.
La S. propone due motivi di ricorso per cassazione.
Resiste Axa con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1.- La sentenza impugnata - premesso che nella specie è applicabile il termine di prescrizione
stabilito dall'art. 2947 c.c., per l'illecito civile, e non quello di cui all'art. 2952 c.c., relativo ai diritti
derivanti dal contratto di assicurazione, come affermato dalla convenuta - ha ritenuto che il termine
debba farsi decorrere dalla data in cui sono stati effettuati i pagamenti dei premi ritenuti eccessivi, e
non dalla data in cui la danneggiata ha avuto notizia dell'illecito, tramite la pubblicazione del
Provvedimento n. 8546/2000 dell'AGCM. Ha addotto a motivazione che la norma dell'art. 2935 c.c.,
considera impeditive della decorrenza della prescrizione solo le cause giuridiche che rendono
impossibile l'esercizio del diritto; non gli ostacoli di mero fatto, e tale deve considerarsi la mancata
conoscenza dell'intesa fra le compagnie, dalla quale è derivato l'indebito incremento dei premi.
Ha pertanto dichiarato prescritto il diritto al risarcimento dei danni, con riferimento alle somme
pagate dall'assicurata oltre cinque anni prima del 18.11.1999, data del primo atto di costituzione in
mora.
Quanto all'unico pagamento successivo a tale data, ha respinto la domanda sul rilievo che non è stata
offerta la prova che gli aumenti dei premi siano stati effettivamente causati dall'intesa sanzionata
dall'AGCM. Ha rilevato che l'Autorità garante si è limitata ad accertare la potenzialità lesiva dello
scambio di informazioni, senza concretamente accertare se ne sia effettivamente derivato il lamentato
rialzo dei premi assicurativi; che la mera produzione in giudizio della decisione dell'Autorità garante
non costituisce prova sufficiente del danno lamentato, in quanto il nesso eziologico e l'evento
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dannoso non sono stati oggetto di accertamento da parte dell'Autorità e l'attrice nulla ha chiesto di
provare in proposito.
Ha escluso che il Provvedimento presenti gli estremi per dedurne la prova presuntiva, poichè da un
parere espresso dall'ISVAP si desume che nel periodo in questione si è verificato un notevole
incremento dei costi gravanti sulle compagnie assicuratrici, che rende ragione degli aumenti dei
premi. Non si spiegherebbe, altrimenti, perchè l'assicurata non si sia rivolta ad alcuna delle
compagnie non partecipanti all'intesa, per ottenere migliori condizioni.
2.- Con il primo motivo, denunciando violazione degli artt. 2935 e 2947 c.c., la ricorrente richiama i
principi più volte affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nei casi analoghi a
quello in oggetto la prescrizione comincia a decorrere non dal momento in cui l'agente compie
l'illecito, ma da quello in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno, divenendo
oggettivamente percepibile e riconoscibile come fatto ingiusto e suscettibile di giustificare il
risarcimento; il che nella specie si è verificato solo a seguito della pubblicazione del Provvedimento
28 luglio 2000 n. 8546 dell'AGCM. 2.1.- Il motivo è manifestamente fondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito che la prescrizione non necessariamente
decorre dalla data in cui il fatto si è verificato nella sua materialità e realtà fenomenica (nella specie,
richiesta di un prezzo eccessivo e ricezione del relativo pagamento); ma piuttosto dal momento in cui
esso si evidenzi all'esterno con tutti i connotati che ne determinano l'illiceità (cfr., con riferimento ad
altra fattispecie, Cass. civ. Sez. 3, 21 febbraio 2003 n. 2645, ed in relazione al caso in esame, Cass.
civ. Sez. 3, 2 febbraio 2007 n. 2305: ".... l'azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale, proposta ai
sensi del secondo comma della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 33, si prescrive, in base al combinato
disposto degli art. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il
danno abbia avuto, usando l'ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e
della sua ingiustizia").
Ed invero, la nozione di impossibilità dell'esercizio del diritto che impedisce il decorrere della
prescrizione, va individuata non sulla base di nozioni formali e aprioristiche circa il carattere
giuridico o di fatto dell'ostacolo, ma calibrando natura e significato di questi termini sulle
connotazioni concrete della fattispecie esaminata. Costituisce violazione della lettera e dello spirito
dell'art. 2935 c.c., il considerare "giuridicamente possibile" l'esercizio di un diritto che il relativo
titolare non sapeva e non poteva sapere di avere, per mancanza di informazioni sui fatti che ne
costituiscono il fondamento, trattandosi di informazioni che egli non aveva il potere di acquisire
legittimamente, prima che venissero pubblicamente divulgate.
A fronte del danno derivante da un'intesa illecita - tenuta ovviamente riservata agli occhi del
pubblico; accertata ed accertabile solo nella competente sede amministrativa, a seguito di un lungo e
complesso procedimento - non può che essere ribadito quanto questa Corte ha affermato, cioè che
"...l'assicurato ha avuto la completa conoscenza del danno e della sua ingiustizia (con il corredo di
tutte le circostanze e le modalità del fatto).... nel momento in cui è stato adeguatamente e
ragionevolmente informato circa il fatto che quellfaumento (delle tariffe, n.d.r.) era conseguenza di
un'intesa vietata e quindi nulla tra imprese assicurative"; ....... "...la lungolatenza del danno - ovvero
lo scollamento temporale fra il momento dell'inflizione ad opera del danneggiante e il momento della
sua percezione da parte del danneggiato - fa si che il titolare del diritto possa dirsi in stato di
inerzia........solo al momento in cui sia adeguatamente edotto dalle circostanze di questo particolare
fenomeno di illecito prospettato dalla L. n. 287 del 1990".
Va altresì ribadito che è a carico di chi eccepisca la prescrizione l'onere di provarne la decorrenza, e
che il relativo accertamento compete al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione, se
sufficientemente e coerentemente motivato (Cass. civ. n. 2305/2007 cit.).
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La sentenza impugnata si è discostata da questi principi e non ha compiuto alcun accertamento in
proposito, incorrendo nella violazione dell'art. 2935 c.c., ed in palese carenza di motivazione.
3.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione degli art. 2697 e 1226 c.c., in relazione
all'art. 360 c.p.c., n. 3, nel capo in cui ha escluso che il Provvedimento dell'AGCM offra sufficienti
elementi di prova del collegamento fra il comportamento illecito e l'incremento dei premi
assicurativi, verificatosi nel medesimo periodo. Richiama i principi affermati dalla Corte di
cassazione, secondo cui il contratto finale fra imprenditore e consumatore costituisce il compimento
stesso dell'intesa anticompetitiva, che costituisce la condotta preparatoria dell'illecito, rispetto alla
condotta finale, consistente nell'aumento del premio (Cass. civ. 4 febbraio 2005 n. 2207); ragione per
cui all'assicurato è sufficiente produrre, a prova del danno, il provvedimento sanzionatorio e la
polizza contenente l'indicazione del premio pagato.
3.1.- Il motivo è fondato, sotto il profilo dell'assolvimento dell'onere probatorio.
La ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni subiti a causa dell'illecito concorrenziale, che lo ha
posto in condizione di dover pagare un premio di assicurazione RCA superiore a quello che avrebbe
potuto essergli richiesto in mancanza dell'illecito.
Se è pur vero che l'onere di fornire la prova del nesso causale grava in linea di principio sul
danneggiato, è principio altrettanto generale che la prova può essere fornita anche tramite
presunzioni, gravi, precise e concordanti, ai sensi degli art. 2727 e 2729 c.c., e che la giurisprudenza
di questa Corte ha più volte rilevato, nell'esame di casi analoghi a quello in oggetto, che la
motivazione del Provvedimento n. 8546/2000 dell'AGCM, evidenzia molteplici accertamenti e
rilievi, sulla base dei dati acquisiti nel corso dell'istruttoria che ha preceduto la sua decisione, tali da
offrire quanto meno la prova presuntiva del collegamento causale qui controverso. Ed ha
effettivamente affermato il principio richiamato dal ricorrente, per cui - ove l'assicurato produca in
giudizio la polizza assicurativa ed il provvedimento amministrativo che ha accertato l'intesa illecita il giudice potrà desumere l'esistenza del nesso causale anche attraverso criteri di alta probabilità
logica e per il tramite di presunzioni, salvo che l'assicuratore offra adeguati elementi di prova in
contrario (cfr. Cass. civ. Sez. 3, 2 febbraio 2007 n. 2305; Cass. civ. Sez. 3, 26 maggio 2011 n. 11610;
Idem, 9 maggio 2012 n. 7039, fra le tante).
L'AGCM ha accertato che lo scambio di informazioni fra le compagnie assicuratrici è andato ben
oltre le finalità - lecite e fisiologiche per le imprese del settore - di comunicarsi i dati rilevanti per la
determinazione del c.d. premio puro (cioè di quella parte del premio che è commisurata alla natura e
all'entità dei rischi), e si è esteso a comprendere i c.d. dati sensibili, che concorrono a determinare
l'importo del premio commerciale: cioè del premio concretamente convenuto in polizza, che include,
oltre al premio puro, le imposte, i caricamenti corrispondenti ai costi ed alle spese generali, e
soprattutto l'utile di impresa (cfr. pp. 239 - 251, 257 del Provvedimento n. 8546/2000). Ciò ha
consentito alle imprese partecipanti di "coordinarsi rapidamente.....su di un equilibrio di mercato
collusivo, anche in assenza di accordi espliciti sui prezzi" e di "adeguare le proprie strategie alla
realizzazione di equilibri di prezzo a cui sia associato il massimo profitto congiunto per l'industria nel
suo complesso, con grave danno per il corretto funzionamento del mercato e per i consumatori" (pp.
251; 254 ss.).
Ha soggiunto che tale comportamento ha anche permesso di incrementare la frequenza degli aumenti
di tariffa, passati dall'unica variazione annuale, nel primo anno di liberalizzazione, alle oltre quattro
variazioni nel corso del 1999.
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Ogni impresa era infatti in grado di verificare che i concorrenti si conformassero alle proprie
iniziative incrementative, il che consentiva, dopo un periodo di riallineamento, di assumere
un'ulteriore, analoga iniziativa (pp. 71, 244, 258).
Nell'analisi della situazione di mercato ha poi accertato che, in conseguenza di tali comportamenti,
fra il 1994 ed il 2000 i premi normalmente praticati per le polizze di RCA sono aumentati, del
96,55% rispetto al periodo precedente (p. 70 Provv. 8546/2000), e del 63% rispetto alla media
Europea; che, se nel medesimo periodo i premi italiani per le polizze RCA avessero seguito
incrementi analoghi a quelli della media degli altri paesi Europei, i consumatori avrebbero
risparmiato settemila miliardi di lire, nel solo anno 1999 (p. 76).
Ha altresì rilevato che tale incremento dei premi non si è accompagnato ad un aumento dei costi
particolarmente sostenuto, nè è attribuibile a circostanze esterne e non controllabili dalle imprese (p.
77: pag. 5 della sentenza). Si tratta di affermazioni specifiche e concrete, compiutamente illustrate nel
Provvedimento sanzionatorio prodotto in giudizio dell'attore e fondate sui dati accertati nel corso
dell'istruttoria, dati costituenti fonte di prova e dell'illecito, e delle indebite maggiorazioni dei premi,
di cui la Corte di appello non ha tenuto alcun conto, nel motivare la sua decisione.
Il parere dell'ISVAP è stato acquisito dall'AGCM, nel corso dell'istruttoria, e non è stato
evidentemente ritenuto sufficiente ad evitare che l'Autorità formulasse i rilievi sopra indicati, circa gli
effetti pregiudizievoli dell'intesa sul livello dei premi.
Esso si risolve infatti nella generica indicazione di una serie di circostanze che avrebbero provocato
l'incremento dei costi a carico delle compagnie, senza alcun riferimento concreto e specifico alle
modalità di formazione delle tariffe assicurative, prima, durante e dopo gli anni interessati dal
comportamento sanzionato, nè alla concreta struttura ed entità dei costi, in relazione a quelli riferibili
al periodo precedente ed a quelli in vigore sul mercato Europeo.
L'AGCM ha tenuto conto dei dati di costo esposti dalle imprese ed ha rilevato che le perdite
denunciate dalle compagnie assicuratrici sono anche effetto di inefficienze produttive e del mancato
controllo dei costi, conseguente alla violazione delle regole della concorrenza (pp. 255 ult. cpv. e
263).
Il comportamento collusivo ha infatti impedito che le imprese stesse fossero indotte ad operare in
modo da ridurre i loro costi per poter ridurre i prezzi, comportamento che rientra fra i benefici effetti
di un mercato concorrenziale (cfr. pp. 77, 78, 240, 259 ss., 263).
Il Consiglio di Stato, nel confermare per questa parte la decisione dell'Autorità, ha a sua volta rilevato
che neppure il fatto che il settore assicurativo della RCA operi in perdita vale ad escludere l'illiceità
dello scambio di informazioni sui dati sensibili, anche e soprattutto perchè il comportamento
collusivo, eliminando ogni incertezza sul comportamento dei concorrenti, disincentiva "ogni diversa
politica commerciale, potenzialmente idonea anche a mutare le condizioni di perdita del mercato"
(cfr. Cons. Stato, sentenza n. 2199/2002, par. 7.2.5).
E' nota del resto la polemica circa l'aggravio dei costi del settore assicurativo, provocato per esempio
dalle anomalie del sistema di distribuzione ed in particolare, dagli oneri economici inerenti al
peculiare assetto delle agenzie di assicurazione.
3.2.- In definitiva, a fronte degli specifici accertamenti di cui al Provvedimento n. 8546/2000
dell'Autorità Garante e del carattere generico e non significativo dei rilievi contenuti nel Parere
dell'ISVAP, l'esclusione del nesso causale fra l'illecito e il danno appare inversione delle regole di
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legge in tema di acquisizione delle prove provenienti da un giudice esterno (Consiglio di Stato) e da
un provvedimento dell'autorità di garanzia.
3.3.- Palesemente illogica è poi la motivazione della sentenza impugnata, ove afferma che l'assicurato
avrebbe potuto e dovuto rivolgersi agli operatori non coinvolti dall'intesa illecita, per evitare il danno.
In primo luogo l'aspirante assicurato avrebbe dovuto sapere, per porsi il problema, che era in corso un
comportamento anticonconcorrenziale, che alcune imprese vi partecipavano ed altre no, e quali
imprese non vi partecipavano: circostanze tutte non note al pubblico, negli anni a cui risale la
conclusione del contratto in oggetto, che sono emerse solo a seguito della pubblicazione del
provvedimento dell'AGCM. In secondo luogo e soprattutto, i costi dell'illecito debbono gravare su
chi lo compie; non su colui che ne subisca danno, imponendo a quest'ultimo maggiori oneri e costi di
contrattazione, per compiere le indagini di mercato necessarie a difendersi dall'illecito
comportamento altrui.
4.- In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla
Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, perchè riesamini la questione della prova del
nesso causale fra l'illecito e il danno e decida la vertenza con congrua e specifica motivazione, se del
caso previo esperimento delle opportune indagini tecniche.
5.- La Corte di rinvio deciderà anche in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Napoli, in diversa
composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2013
La prescrizione del diritto al risarcimento del danno subìto da chi abbia contratto per contagio una
malattia decorre dal giorno in cui essa viene percepita quale danno ingiusto conseguente all'altrui
condotta dolosa o colposa, ovvero può essere percepita come tale, in relazione all'ordinaria
diligenza del soggetto leso e tenuto conto delle comuni conoscenze scientifiche dell'epoca.
Cass. civ. Sez. Unite, 11-01-2008, n. 581
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 27.10.1999, 223 attori convenivano davanti al tribunale di Roma il Ministero
della Sanità, chiedendone la condanna al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, ai
sensi degli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c., per non avere evitato che agli attori o ai loro danti causa, che
necessitavano per patologie congenite di continue trasfusioni, venissero somministrati prodotti
emoderivati senza i necessari controlli, per cui questi contraevano varie affezioni, quali HIV, HBV ed
HCV, alle quali a distanza di alcuni anni in alcuni casi seguiva la morte.
Intervenivano in giudizio anche altri soggetti che assumevano anch'essi di aver contratto il contagio e
di avere diritto al risarcimento del danno.
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191
Il Tribunale accoglieva la domanda di condanna generica al risarcimento del danno.
L'appello proposto dal Ministero veniva rigettato dalla corte di appello di Roma, con sentenza
depositata il 12.1.2004.
Riteneva la corte territoriale che l'eccezione di prescrizione era infondata, in quanto a norma dell'art.
2935 c.c., il diritto può essere esercitato solo allorchè il titolare abbia raggiunto la piena cognizione
dell'esistenza e del fondamento del medesimo, ed individuando il dies a quo nel momento del rilascio
delle certificazioni relative all'indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, da parte delle Commissioni
medico ospedaliere. Riteneva la corte di merito che il termine di prescrizione era decennale,
trattandosi di fattispecie di reati di epidemia colposa, lesioni colpose plurime e di omicidio colposo.
Nel merito riteneva la corte che, trattandosi di accertamento del solo an debeatur non era necessario
valutare la prescrizione in relazione alle singole posizioni, attenendo tale valutazione al successivo
giudizio di liquidazione dei danni, mentre risultava accertata la riconducibilità degli eventi dannosi
alla responsabilità dell'amministrazione per essere gli stessi stati causati da emotrasfusione o
assunzione di emoderivati con sangue infetto, come riconosciuto dallo stesso Ministero che aveva
erogato l'indennità di cui alla L. n. 210 del 1992.
Riteneva poi il giudice di appello che l'Amministrazione era in possesso delle fin dagli anni '70 di
elementi di studio e di ricerca tali da consentire di individuare almeno il virus dell'epatite B e quindi
da rendere obbligatoria l'adozione di misure di prevenzione.
La corte riconosceva, inoltre, agli attori anche il diritto al risarcimento del danno morale.
Nelle more interveniva una transazione tra il Ministero e gran parte degli attori.
Il Ministero della salute impugnava la sentenza della corte di appello nei confronti dei soggetti con
cui non aveva transatto la lite e cioè: A.C., + ALTRI OMESSI I predetti intimati, ad eccezione degli
ultimi tre, resistevano con controricorso; essi hanno presentato anche memoria.
Motivi della decisione
1.1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare
importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta
omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti; alla
responsabilità del Ministero della Salute per danni "da sangue infetto". 1.2. Preliminarmente va
dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti di A.C., per sopravvenuta carenza di interesse.
Infatti come risulta dalla documentazione prodotta da quest'ultima, tra lei ed il Ministero della Salute
è intervenuta una transazione, la quale, comportando la cessazione della materia del contendere, fa
venire meno l'interesse del ricorrente alla decisione del ricorso nei confronti dell' A..
1.3. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt.
2697, 2934, 2935, 2943, 2946, 2947 c.c., art. 112 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, a norma dell'art. 360 c.p.c., nn.
3, 4 e 5.
Il ricorrente assume che erratamente, ai fini della prescrizione, nel corso del giudizio di merito non
sono state vagliate autonomamente le varie posizioni degli attori, risalenti a diversi momenti,
giustificando ciò con il rilievo che nella fattispecie si trattava di domanda di condanna generica al
risarcimento del danno.
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Assume poi che i fatti nella maggior parte dei casi si collocavano tra il 1978 ed il 1988 e che quindi
al momento della proposizione della domanda erano maturate sia la prescrizione decennale che quella
quinquennale, le quali andavano valutate con riferimento al verificarsi del danno.
Secondo il ricorrente in ogni caso il termine di prescrizione è quinquennale e non decennale, sia
perchè il convenuto nel giudizio risarcitorio non coincide con l'autore dell'illecito penale, sia perchè
manca l'esistenza dell'elemento soggettivo del reato, sia perchè nella fattispecie sussistevano cause di
giustificazione, quali la scriminante dell'attività medico-chirurgica e quella del consenso dell'avente
diritto.
2.1. Il motivo è solo in parte fondato.
Esso è fondato nella parte in cui censura l'impugnata sentenza, allorchè questa ritiene che la
posizione dei singoli attori, ai fini dell'eccepita prescrizione, non fosse rilevante nella fattispecie,
trattandosi di accertamento del solo an debeatur, mentre solo nel successivo giudizio di
quantificazione del danno tale singole posizioni andavano vagliate ai fini della prescrizione.
Infatti non rileva che, nella specie, fosse stata chiesta una condanna in forma generica, dal momento
che anche questo tipo di statuizione conforma autoritativamente i contenuti sostanziali del rapporto
obbligatorio, imponendo all'obbligato di eseguire una prestazione e rende il vincitore titolare di actio
iudicati (cfr. Cass. n. 18825 del 2002; n. 3727 del 2000), cosicchè la parte convenuta ha l'onere di
eccepire tempestivamente la prescrizione, essendole precluso di farlo nel giudizio sul quantum (cfr.
Cass. n. 3243 del 1985; n. 5211 del 1980).
Pertanto anche a fronte di una domanda di condanna in forma generica, il convenuto che assuma che
il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale
giudizio nei termini di legge a pena di decadenza (cfr. Cass., 23/04/2004, n. 7734; Cass. 27/05/2005,
n. 11318). Ciò comporta che il giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che
integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno
ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato (Cass. 04/04/1992, n.
4151; Cass. 1/08/1987, n. 6651).
Solo cosi impostata e risolta la questione si intende il consequenziale principio secondo cui la
sentenza di condanna generica passata in giudicato determina l'assoggettamento dell'azione diretta
alla liquidazione al termine prescrizionale di cui all'art. 2953 c.c., nonchè la produzione degli effetti
interruttivi della prescrizione nei confronti di coloro che hanno esercitato le azioni concluse con la
condanna generica (Cass. 15/09/1995, n. 9771; Cass. 13/12/2002, n. 17825; Cass. 04/04/2001, 4966).
2.2. Fondata è anche la censura secondo cui nella fattispecie non è ipotizzabile un reato di epidemia
colposa o lesioni colpose plurime.
Per poter usufruire di un termine più lungo di prescrizione rispetto a quello quinquennale di cui
all'art. 2947 c.c., comma 1, sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o
di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.
Sebbene il regime della prescrizione penale sia cambiato (L. 5 dicembre 2005, n. 251), va, tuttavia,
osservato che la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all'art. 2947 c.c., comma 3, è
quella prevista alla data del fatto, mentre i principi di cui all'art. 2 c.p., attengono solo agli aspetti
penali, per effetto di successioni di leggi penali nel tempo. Nella fattispecie è da escludere il reato di
epidemia colposa (artt. 438, 452 c.p.), in quanto quest'ultima fattispecie, presupponente la volontaria
diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente
incontrollabilità dell'eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di
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soggetti, non appare conciliarsi con l'addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in
termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la
posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A ciò si
aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono: a) la sua diffusività incontrollabile
all'interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell'HCV e dell'HBV non si è al
cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti; b)
l'assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella
fattispecie è necessaria l'attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il carattere contagioso e
diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poichè altrimenti si verserebbe
in endemia).
Va esclusa anche la configurabilità del reato di lesioni colpose plurime, stante l'impossibilità di
individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni
sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni di
controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi
e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.
2.3. Rimane, quindi, solo la configurabilità dei reati di lesioni colpose, anche gravissime, o del reato
di omicidio colposo non potendosi negare che il comportamento colposamente omissivo da parte
degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno
concorrente, nella produzione dell'evento dannoso.
Sennonchè va osservato che la prescrizione decennale nell'ipotesi di configurabilità di omicidio
colposo opera solo in favore di quegli attori (congiunti del contagiato) che abbiano agito in giudizio
(iure proprio) per il risarcimento del danno causato dal decesso ascrivibile all'emotrasfusione (o
all'assunzione di emoderivati) con sangue infetto e non per tutti gli altri attori che abbiano agito nello
stesso giudizio solo per richiedere il risarcimento del danno conseguente a lesioni colpose.
2.4. Quando, invece, ricorra solo quest'ultima ipotesi (lesioni colpose) va osservato che anche la
prescrizione del reato di lesioni colpose matura in cinque anni.
2.5. Infondata è la censura secondo cui non sarebbe possibile nella fattispecie un'equiparazione del
termine prescrizionale civile a quello penale (nei termini di cui all'art. 2947 c.c., comma 3) non
essendo il Ministero l'autore dell'illecito penale.
Infatti in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, la
previsione dell'art. 2947 c.c., comma 3, si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili
soggetti passivi della pretesa risarcitoria e si applica, pertanto, non solo all'azione civile esperibile
contro la persona penalmente imputabile, ma anche all'azione civile diretta contro coloro che siano
tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (Cass. 09/10/2001, n. 12357; Cass. 6/02/1989,
n. 729).
2.6. Infondata è anche la censura secondo cui la corte territoriale non avrebbe valutato l'esistenza
dell'elemento psicologico, pur necessario ai fini della ritenuta sussistenza dei reati di omicidio
colposo (per le sole fattispecie in cui ricorra) o lesioni colpose.
E' vero che nel caso in cui l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio
penale non sia stato promosso, l'eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato si applica anche
all'azione di risarcimento dei danni, a condizione che il giudice civile accerti "incidenter tantum" la
sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi,
soggettivi e oggettivi (Cass. 28/07/2000, n. 9928; Cass. 10/06/1999, n. 5701).
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Sennonchè nella fattispecie la sentenza impugnata (pag. 16) riscontra l'elemento colposo
dell'Amministrazione (e, quindi, dei suoi funzionari) nel non adottare gli accorgimenti utili a
scongiurare il contagio di tali note patologie effettuando determinati trattamenti ed analisi del sangue
acquisito.
2.7. Inammissibile è la censura secondo cui l'Amministrazione avrebbe agito in presenza delle
scriminanti dell'attività medico-chirurgica e del consenso dell'avente diritto e che di tanto avrebbe
dovuto tener conto il giudice di appello.
A parte ogni altra considerazione, va rilevato che il ricorrente non ha indicato se e quando tale
questione sia stata posta all'esame del Giudice di merito, non risultando sul punto alcunchè nella
sentenza impugnata.
Qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti
trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in
sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha
l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al Giudice di merito, ma
anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del
giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis" la veridicità di
tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 21/02/2006, n. 3664; Cass.
22/05/2006, n. 11922; Cass. 19/05/2006, n. 11874; Cass. 11/01/2006, n. 230).
3.1. Il punto di maggior rilievo è l'individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione
in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio.
Come è noto, in base all'art. 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte
interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto
può essere fatto valere. L'art. 2947 c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da
fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il “fatto si è verificato”.
Nell'evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha
affrontato il significato da attribuirsi all'espressione “verificarsi del danno”, specificando che il danno
si manifesta all'esterno quando diviene “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in
relazione alla sua rilevanza giuridica.
La Corte, successivamente, ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del
danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un
terzo inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo
determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si
manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale
danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria
diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia
conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poichè la malattia,
sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sè a concretizzare il "fatto"
che l'art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n .2645;
Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).
Viene applicato, unitamente al principio della “conoscibilità del danno”, quello della “rapportabilità
causale”. 3.2. Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento.
L'individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'”esteriorizzazione
del danno” può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che
giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti.
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E' quindi del tutto evidente come l'approccio all'individuazione del dies a quo venga a spostarsi da
una mera disamina dell'evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito
o dell'inadempimento - e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno “occulto”
a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi
delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta
diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza,
ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il danno,
ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al
convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di
non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò è pacifico negli
ordinamenti anglosassoni, in tema di medicai malpractice).
3.3. Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis, non apre la strada ad
una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente
ancorato a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al
parametro dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca,
comunque entrambi verificabili dal Giudice senza scivolare verso un'indagine di tipo psicologico. In
particolare, per quanto riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non
andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria diligenza dell'uomo
medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni
patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia
era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi)
la persona lesa.
3.4. I principi, quindi, che vanno affermati, sono i seguenti:
"Anche allorchè sia proposta domanda di condanna generica al risarcimento del danno, da liquidarsi
in separato giudizio, il convenuto, che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto,
ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza e
non nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il Giudice di primo grado ha l'obbligo di
decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della
prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto
azionato".
"Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per
contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell'art. 2935 c.c., e art.
2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno
altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita
o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un
terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze
scientifiche". 4. Il problema che si pone, anche con riferimento al giudizio in esame, è la valenza del
responso delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui alla L. n.
210 del 1992, art. 4, ai fini della decorrenza della prescrizione.
In linea generale non può ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la
prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito.
Tale tesi non pare convincente, per diversi ordini di motivi: perchè offre effettivamente il destro al
creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione; perchè potrebbe portare ad affermare
che il dies a quo inizi anche a decorrere a causa già iniziata, negando l'effetto interruttivo connaturato
alla proposizione dell'azione; perchè rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico-legale
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(effettuata peraltro in riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell'indennizzo). Inoltre è
illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è
comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto
all'indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso.
Tenuto conto che l'indennizzo è dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni,
emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento
della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto
una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze
dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle
commissioni mediche.
5. Ne consegue che nella fattispecie sono fondate le censure relative al mancato accertamento della
prescrizione in relazione a ciascuna posizione soggettiva anche in sede di giudizio relativo solo a
domanda di condanna generica, alla ritenuta decorrenza decennale della prescrizione del diritto al
risarcimento del danno perchè il fatto costituirebbe un'ipotesi di reato di epidemia colposa o lesioni
personali plurime, (mentre la prescrizione è decennale in relazione a domande relative a risarcimento
del danno da decesso, proposte da congiunti iure proprio, in cui è ipotizzabile un omicidio colposo); è
infondata la censura, per violazione di norme di diritto, relativamente al dies a quo della decorrenza
della prescrizione, avendo il giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data in cui il danneggiato
ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa era conseguenza
della trasfusione con sangue infetto; è fondata la censura di vizio motivazionale della sentenza nella
parte in cui ha ritenuto che il danneggiato avesse avuto conoscenza del danno, anche sotto il profilo
eziologico, ai fini dell'exordium praescriptionis solo con il responso della commissione medico
ospedaliera.
6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt.
2043, 2056 c.c., nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Il Ministero lamenta la violazione di legge in ordine all'accertamento del nesso causale e
dell'elemento psicologico della colpa in capo al Ministero.
In particolare il ricorrente assume che i virus in questione e le tecniche di rilevazione sarebbero stati
individuati solo nel corso degli anni '80, per cui, precedentemente a tale data, non poteva ritenersi
sussistente, nè un nesso causale tra la pretesa attività omissiva del Ministero e l'evento del contagio
da emotrasfusione o da assunzione di emoderivati nè l'elemento soggettivo; che è errato e non
motivato l'assunto apodittico secondo il quale il Ministero già dagli anni 70 sarebbe stato in grado di
conoscere ed individuare tali virus;
che è errato l'assunto secondo cui, divenuto conoscibile il primo virus (epatite B), il Ministero
sarebbe tenuto al risarcimento anche per gli altri due (HIV ed epatite C), anche se ancora non
conosciuti alla data dell'emotrasfusione o dell'assunzione degli emoderivati, sulla base del principio,
affermato dalla sentenza impugnata, che in tema di responsabilità extracontrattuale si risponde anche
dei danni non prevedibili.
Infine il Ministero, sulla base della normativa all'epoca vigente, nega che su di esso gravasse un
obbligo di vigilanza e controllo tale da renderlo responsabile dei singoli casi di contagio, avendo egli
solo un dovere di vigilanza complessiva e non specifica sul singolo caso.
7.1. Il motivo è infondato.
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Va anzitutto esaminata la normativa che regolava l'attività del Ministero in tema di emotrasfusione e
di emoderivati all'epoca dei fatti.
La L. n. 592 del 1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l'organizzazione, il
funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e
distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita
la vigilanza, nonchè (art. 21) il compito di autorizzare l'importazione e l'esportazione di sangue
umano e dei suoi derivati per uso terapeutico.
Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di
controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112).
La L. n. 519 del 1973, attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute
pubblica.
La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero
della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti
di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria,
importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici
e degli emoderivati (art. 6, lett. b, c), mentre l'art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e
la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale.
Il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla ed. "farmacosorveglianza" da
parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui
farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio.
Ne consegue che, anche prima dell'entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la
disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in
materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia
di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di
programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L'omissione da parte del Ministero di attività
funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui
concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come
nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse
pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti
soggettivi dei terzi.
7.2. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex
art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va osservato che, come statuito da Corte Cost. 22.6.2000 n. 226 e
18.4 1996 n. 118, la menomazione della salute derivante da trattamenti sanitari può determinare le
seguenti situazioni: a) il diritto al risarcimento pieno del danno, secondo la previsione dell'art. 2043
c.c., in caso di comportamenti colpevoli; b) il diritto a un equo indennizzo, discendente dall'ari. 32
della Costituzione in collegamento con l'art. 2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia
conseguenza dell'adempimento di un obbligo legale; c) il diritto, ove ne sussistano i presupposti a
norma degli artt. 38 e 2 Cost., a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore, nell'ambito
dell'esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali.
In quest'ultima ipotesi si inquadra la disciplina apprestata dalla L. n. 210 del 1992, che opera su un
piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica in tema di risarcimento del danno,
compreso il cosiddetto danno biologico.
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Per quanto qui interessa, al fine di evidenziare la distanza che separa il risarcimento del danno
dall'indennità prevista dalla legge predetta, basta rilevare che la responsabilità civile presuppone un
rapporto tra fatto illecito e danno risarcibile e configura quest'ultimo, quanto alla sua entità, in
relazione alle singole fattispecie concrete, valutabili caso per caso dal giudice, mentre il diritto
all'indennità sorge per il sol fatto del danno irreversibile derivante da infezione post-trafusionale, in
una misura prefissata dalla legge. Ciò comporta che vada condiviso l'orientamento favorevole della
più avvertita dottrina al concorso tra il diritto all'equo indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, ed il
diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., per cui nel caso in cui ricorrano gli estremi di una
responsabilità civile per colpa la presenza della L. n. 210 del 1992, come modificata dalla L. n. 238
del 1997, non ha escluso in alcun modo che il privato possa chiedere e che il Giudice possa procedere
alla ricerca della responsabilità aquiliana, senza che esista automatismo tra le due figure (mentre non
è oggetto di questo ricorso il diverso problema se si tratti di diritti alternativi, ovvero cumulabili ed in caso positivo- in quali termini).
8.1. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex
art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di
responsabilità.
Osserva preliminarmente questa Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile
dell'elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni
moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana
intorno al danno ingiusto, anzichè al "fatto illecito", divenuto "fatto dannoso".
In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale
è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della
responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.
E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perchè la responsabilità sorga, giacchè l'imputazione del
danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui all'art. 2043 c.c. e segg., le
quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una
condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto
chiamato a rispondere.
Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze
risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.
Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno
conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo).
Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione
risarcitoria.
8.2. Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea,
sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio
aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica
causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41
c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che
costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria.
A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c., (richiamato dall'art. 2056 c.c.), per
il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del
fatto lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso
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causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le
conseguenze dannose risarcibili.
Secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che
deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità
"strutturale" (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al
danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di
delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende
Kausalitat).
Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel
primo e nell'art. 1227 c.c., comma 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella
produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza,
rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema civilistico l'unico profilo dedicato al nesso
eziologico, è previsto dall'art. 2043 c.c., dove l'imputaizione del "fatto doloso o colposo" è addebitata
a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", o, come afferma l'art. 1382, Code Napoleon "qui cause au
autrui un dommage".
Un'analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di
responsabilità ed. contrattuale o da inadempimento, perchè in tal caso il soggetto responsabile è, per
lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E
questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall'ovvio presupposto
di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di
soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare
il "risarcimento del danno", cui è dedicato l'art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune
ipotesi particolari, in cui l'inadempimento dell'obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il
problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra
comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.
Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in
virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di
responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 c.c.. A queste norme si deve
aggiungere il principio ricavabile dall'art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza
tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente
avvenuta.
8.3. Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la
dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che
un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si
sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la
produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna
di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile
dal secondo comma dell'art. 41 c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito
esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere
irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254;
Cass. 15.1.1996, n. 268).
Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente
rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che,
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nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si
presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata
o quella similare della ed. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n.
15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).
8.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di
common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o
omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in
tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle
modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al
momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è
interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni
secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in
cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che si deve
accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta
discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla
giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana,
che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con
valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza
dell'elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva
va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della
conoscenza dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poichè non si
tratta di accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale).
In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire)
da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle
stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento.
Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e
svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da
ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei
doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l'elemento
soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito.
Inoltre se l'accertamento della prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato
ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed
il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di
sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell'accertamento positivo del nesso causale (con la
conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità
oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale grava l'onere della prova del nesso causale).
8.5. Nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la
condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004;
Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell'affermazione
dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio,
che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.
E' questa l'ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di
antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema
causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione della
regola di cui all'art. 40 c.p., comma 2.
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Poichè l'omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo
causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da
una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della
posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di
particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di
intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla
sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì
postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in
capo al soggetto. L'individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l'apprezzamento di
una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione
al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è
possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale.
La causalità nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poichè ex nihilo nihil fit.
Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell'omissione e non la
causalità normativa (basata sull'equiparazione disposta dall'art. 40 c.p.) fanno coincidere l'omissione
con una condizione negativa perchè l'evento potesse realizzarsi.
La causalità è tuttavia accettabile attraverso un giudizio ipotetico: l'azione ipotizzata, ma omessa,
avrebbe impedito l'evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione
quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito
l'evento prospettato: la responsabilità non sorge non perchè non vi sia stato un comportamento
antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sè un comportamento antigiuridico),
ma perchè quell'omissione non è causa del danno lamentato.
Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità
omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in
essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi.
L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che
pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta
doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.
8.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in
materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla "regolarità causale", in assenza di altre
norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e
conformi a massime di esperienza.
Tanto vale certamente allorchè all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o
commissiva, secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c..
Nè può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze
morfologiche e funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento dell'illecito penale,
essendo il primo fondato sull'atipicità dell'illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva
ed essendo diverso il sistema probatorio.
La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può
definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature
quante l'atipicità dell'illecito.
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Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni
questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da
quella sopra esposta, con riferimento all'art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato ad un
soggetto chiamato a risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno è tutto normativo.
8.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale
mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi generali di cui agli
artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla " regolarità causale", ai fini della ricostruzione del nesso eziologico
va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile.
Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al
verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente
in seguito.
E' vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale
intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur
sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un'assicurazione contro i
danni, peraltro in assenza di premio.
L'atipicità dell'illecito attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e
l'elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.
E' vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della
responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri
di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non
modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico.
Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E'
esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione del costo del danno a carico
di un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene
generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., secondo il principio
classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: "ohne schuld keine haftung), ma ha una
determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a
sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell'illecito, al principio di
solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della costbenefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo
verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi
del danno discende da un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.
Sennonchè il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad
indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo
ed orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire
autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità
elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o
l'ingiustizia del danno.
8.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non
può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi
con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima
funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella
responsabilità per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della
qualificazione di quest'ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i
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criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita,
alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità.
Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perchè nella
fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra
evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o
addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura,
inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve
mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio
di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena
causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la
catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale
deve gravare il costo del danno.
8.9. Sennonchè detto ciò, ai fini dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal
criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e, di volta in
volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di
altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051,
2052 c.c., art. 2054 c.c., comma 4), posti all'inizio della serie causale.
Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la
condotta di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento (di cui debba rispondere il
soggetto gravato della responsabilità oggettiva).
In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far
riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il
nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra
l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso.
In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di
riferimento iniziale la condotta dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto
di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa
il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto
il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative,
rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente
dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell'allocazione del costo del danno, possono
sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero
supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell'illecito
civile.
8.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della
ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è
la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr.
Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della
preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel
processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due
parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità di tali standars delle
prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in
questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass.
5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE
è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico
(CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in
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danno del consumatore se "appaia sufficientemente probabile" che l'intesa tra compagnie assicurative
possa avere un'influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE,
15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che "occorre postulare le
varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili").
Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente
alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità
quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato
riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di
esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità
logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata
l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei
sistemi anglosassoni).
8.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità,
portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla
responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza, correttamente
applicato dalla sentenza impugnata:
"Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di
impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche
strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè fosse
utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi,
il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di
produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile
veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da
virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in
assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e
che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la
versificazione dell'evento". 9.1. Dal principio sopra esposto in tema di nesso causale da
comportamento omissivo, emerge anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità
del Ministero. Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n. 11609, osservava che, finchè non erano
conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perchè l'evento
infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente
sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in
quanto all'interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento
in cui si produsse l'omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili,
tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa. La corte di
legittimità, quindi, riteneva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto
di delimitare la responsabilità del Ministero a decorrere dal 1978 per l'HBC (epatite B), dal 1985 per
l'HIV e dal 1988 per l'HCV (epatite C), poichè solo in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla
scienza mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazione.
9.2. Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza
di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali
autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica
(essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto - contagio
infettivo - lesione dell'integrità.
Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui individuazione, costituendo un
accertamento fattuale, rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito) sussiste la
responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi
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autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità
fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era
obbligato per legge.
Di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge,
deve inoltre sottolinearsi che si arresta la discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare
le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. Il dovere del Ministero di vigilare
attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula un dovere
particolarmente pregnante di diligenza nell'impiego delle misure necessarie a verificarne la sicurezza,
che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità
della trasfusione.
9.3. E' infondata anche la censura relativa alla mancato accertamento dell'elemento psicologico
colposo del Ministero. Avendo ritenuto il giudice di merito che il Ministero aveva l'obbligo di
controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i
donatori non presentassero alterazioni delle transaminasi, l'omissione di tale condotta, integrando la
violazione di un obbligo specifico, integra la colpa.
10. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt.
2043, 2059 c.c., nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Assume il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha riconosciuto agli attori il danno
morale, mentre per il combinato disposto dell'art. 2059 c.c., e art. 185 c.p., sarebbe stato necessario
individuare una persona fisica che potesse rispondere del reato e che la stessa fosse legata al
Ministero da rapporto di dipendenza.
11.1. Il motivo è infondato.
Anzitutto va osservato che l'azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a
rispondere dell'operato dell'autore del fatto che integra un'ipotesi di reato, è ammessa - tanto per i
danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali - anche quando rimanga ignoto l'autore del fatto
che integra un'ipotesi di reato, sempre che sia certa l'appartenenza di quest'ultimo ad una cerchia di
persone legate da un rapporto organico o di dipendenza con il soggetto che di quell'attività deve
rispondere (Cass. 10/02/1999, n. 1135; Cass. 21/11/1995, n. 12023).
Ne consegue che, una volta che il giudice di merito aveva accertato che il Ministero non aveva
compiuto l'attività di farmacosorveglianza, cui era normativamente tenuto, tale omissione non poteva
che essere addebitata che ad uno o più funzionari preposti a tale attività, risultando indifferente che
poi gli stessi fossero rimasti ignoti.
11.2. In ogni caso l'infondatezza del motivo discende anche dal nuovo orientamento interpretativo
dell'art. 2059 c.c., adottato da questa Corte con le sentenze 31.5.2003 n. 8827 ed 8828, ed ormai
consolidato (cfr. Cass. 27.6.2007, n. 14846) secondo cui il danno non patrimoniale conseguente
all'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto,
ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non
presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacchè il rinvio ai casi in cui la
legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in
vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il
riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura
economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso
determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
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12. Pertanto va accolto parzialmente il primo motivo di ricorso e vanno rigettati il secondo ed il terzo.
Va cassata, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza e va rinviata la causa, anche per le
spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si uniformerà ai
principi di diritto esposti al punto 3.4.
Esistono giusti motivi per compensare per intero le spese di questo giudizio di cassazione tra A.C. ed
il ricorrente Ministero.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero della Salute nei confronti di A.C. e
compensa tra gli stessi le spese di questo giudizio di Cassazione. Quanto agli altri, accoglie, nei
termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso e rigetta i restanti motivi. Cassa, in relazione
al motivo accolto, l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di
Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2008
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13) Comunione legale tra coniugi e preliminare ad effetti anticipati
Tizio e Caia erano comproprietari, in virtù di comunione legale tra coniugi, del terreno Alfa.
Tizio concludeva con Sempronio un contratto preliminare avente per oggetto il trasferimento del
suddetto terreno, senza nulla dire alla moglie Caia.
Nel dettaglio, veniva concluso un contratto preliminare ad effetti anticipati di compravendita, con
cui l’acquirente Sempronio pagava nell’immediato la somma di euro 140.000,oo in favore di Tizio;
quest’ultimo assicurava a Sempronio la possibilità di utilizzo immediata – in attesa del definitivo –
del terreno Alfa.
Sempronio, una sera, incontrava casualmente Caia, che gli diceva di non sapere alcunchè del
contratto preliminare, precisando che senza il suo consenso fosse da considerarsi radicalmente nullo.
Sempronio – preoccupato – si recava dal legale Quarto.
Il candidato, premessi brevi cenni sul contratto preliminare ad effetti anticipati, rediga motivato
parere.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA CIVILE 13
In premessa si doveva accennare alla figura del contratto preliminare ad effetti anticipati (contratto di
mutuo gratuito collegato a comodato):
-è un negozio giuridico con cui si assume l’obbligo di realizzare successivamente un contratto
definitivo;
-l’effetto traslativo del diritto di proprietà di realizza al momento del definitivo;
-alcuni effetti sono anticipati; in particolare, la possibilità di utilizzare il bene viene garantita al
momento del preliminare stesso;
-il promissario acquirente (in questo caso Sempronio) diviene detentore qualificato (non possessore).
Nel caso de quo, Tizio in comunione legale con Caia concludeva il suddetto contratto senza il
consenso della moglie; è valido il contratto così concluso?
Si poteva rispondere positivamente:
-non è possibile predicare la nullità, in quanto non si versa in casi di assenza di un elemento
essenziale del contratto e neanche di violazione di norme imperative, ex art. 1418 c.c.;
-neanche è possibile parlare di inefficacia, nel senso di improduttività degli effetti fino al consenso al
trasferimento della moglie Caia perché l’art. 184 c.c. predica che il contratto concluso in assenza del
consenso dell’altro coniuge è annullabile, se non convalidato; ciò vuol dire che produce da subito
effetti, ma può successivamente essere caducato nelle forme dell’annullamento;
-non rileva il fatto che il preliminare sia ad effetti anticipati, potendosi parificare ad un normale
contratto solo che alcuni effetti sono immediati ed altri successivi.
Pertanto, il contratto preliminare ad effetti anticipati posto in essere da Tizio e Sempronio è valido ed
efficace, ma esposto ad una possibile azione di annullamento, a meno che:
-Caia non proceda a convalida, eventualmente anche in sede di definitivo;
-si lasci decorrere il termine annuale per l’impugnazione, di cui al comma 2 dell’art. 184 c.c.
GIURISPRUDENZA RILEVANTE
In regime di comunione legale tra i coniugi, il contratto preliminare di vendita di bene immobile
stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell'altro è soggetto alla disciplina
dell'art. 184 primo comma c.c., e non è pertanto inefficace nei confronti della comunione, ma
solamente esposto all'azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente, nel breve
termine prescrizionale entro cui è ristretto l'esercizio di tale azione, decorrente dalla conoscenza
effettiva dell'atto, ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione.
Cassazione civile, sezione II, sentenza del 31.1.2012, n. 1385
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208
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 21-12-2000 C.G. assumeva:
in data 24-6.1996 l'esponente aveva stipulato con T.F. un preliminare di compravendita immobiliare
avente ad oggetto un fabbricato ed annesso terreno siti in (omissis) per il corrispettivo di lire
119.500.000 di cui lire 60.000.000 versati al momento della stipulazione, lire 20.000.000 in data 127-1996 e la residua somma di lire 39.5000.000 da pagare all'atto del rogito;
l'immobile oggetto del contratto era in comproprietà tra il T. e la moglie L.E., impedita alla firma per
le gravi condizioni di salute psicofisica nelle quali ella versava;
nel preliminare si dava atto del fatto che il T. aveva presentato un ricorso ex art. 183 c.c. per
l'esclusione della moglie dall'amministrazione dei beni comuni, cosicché il preliminare stesso era
sottoposto alla condizione risolutiva costituita dal rigetto del ricorso: (il T. aveva rinunciato alla
suddetta procedura, ed in data 6-12-1996 era deceduto, mentre il ricorso ex art. 183 c.c. era stato
riproposto dai suoi figli, che peraltro avevano invocato la risoluzione del contratto preliminare per il
verificarsi della condizione risolutiva; l'attore era riuscito a stipulare il rogito notarile di
compravendita con i figli G., L. e T.P., mentre il figlio T.V. (che era stato nominato tutore della
madre, la quale era deceduta il xxxxxxxx) non si era presentato davanti al notaio.
Tanto premesso, il C. conveniva in giudizio T.V. dinanzi al Tribunale di Saluzzo chiedendo
pronunciarsi sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. offrendo il pagamento della residua quota di prezzo
spettante al convenuto; in via subordinata chiedeva la condanna del T. al risarcimento dei danni nella
somma indicativa di lire 50.000.000.
Si costituiva in giudizio il convenuto contestando il fondamento delle domande attrici di cui chiedeva
il rigetto.
Il Tribunale di Saluzzo con sentenza del 9-9-2002 respingeva le domande del C. .
Proposto gravame da parte di quest'ultimo cui resisteva il T. la Corte di Appello di Torino con
sentenza del 14-2-2005 ha rigettato l'impugnazione, attribuendo rilevanza decisiva al fatto che dal
rogito notarile prodotto risultava che intestataria formale degli immobili era solo la L., moglie di
T.F.; orbene, avendo stipulato il suddetto preliminare soltanto quest'ultimo, non intestatario del bene,
non poteva applicarsi l'art. 184 c.c. ipotizzando la possibilità di una azione di annullamento dell'atto
da parte dell'altro coniuge, ma si doveva ritenere l'atto stesso inefficace, perché la parte interessata
non era in grado di conoscerlo e, quindi, di attivarsi nel termine di un anno previsto dall'art. 184 c.c.
Per la cassazione di tale sentenza il C. ha proposto un ricorso basato su di un unico articolato motivo
illustrato successivamente da una memoria cui il T. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
Con l'unico motivo formulato il C. , denunciando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 184 c.c.
ed insufficiente e contraddittoria motivazione, assume che la tesi del giudice di appello -secondo cui
l'operatività dell'art. 184 c.c. sarebbe esclusa sia nel caso in cui il bene oggetto di comunione legale
tra i coniugi risulti intestato ad entrambi, sia nel caso in cui l'atto dispositivo del bene sia stato posto
in essere dal solo coniuge non intestatario - non può essere condivisa sotto diversi profili.
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209
Il ricorrente rileva anzitutto che il testo dell'art. 184 c.c. non autorizza a distinguere tra atti
concernenti beni intestati nei registri immobiliari esclusivamente al coniuge disponente da un lato,
ed atti concernenti beni intestati alla comunione coniugale ovvero non intestati al disponente
dall'altro, considerato che gli artt. 177 e seguenti c.c., a differenza di quanto attiene alla comunione
ordinaria, fanno riferimento ai beni della comunione coniugale indipendentemente dalla loro formale
intestazione; né ciò appare in contrasto con il principio della continuità delle trascrizioni, poiché,
quando i coniugi operano congiuntamente, risulta disponente del bene anche il coniuge non indicato
nell'atto di provenienza; inoltre, poiché in caso di acquisto di un bene operato da uno solo dei coniugi
in regime di comunione l'acquisto opera automaticamente anche a vantaggio dell'altro, non si
comprende perché lo stesso principio non debba valere anche nel caso di disposizione del bene
medesimo.
Il ricorrente evidenzia poi l'infondatezza dell'ulteriore assunto della Corte territoriale secondo cui la
sottoscrizione del preliminare suddetto da parte del solo T.F. non intestatario formale comporterebbe
l'inefficacia dell'atto, e non la semplice azione di annullamento ex art. 184 c.c., anche per la ragione
che il coniuge intestatario non sarebbe stato in grado di conoscere l'atto e di attivarsi quindi nel
termine di un anno di cui all'art. 184 c.c.; invero il giudice di appello è incorso nell'equivoco di
considerare il momento dai quale decorre il suddetto termine coincidente con la stipula dell'atto,
laddove invece esso decorre dal momento in cui il coniuge pretermesso ha effettiva conoscenza
dell'atto e, in via sussidiaria, entro un anno dalla trascrizione.
Il C. inoltre, sottolineando che l'art. 184 c.c. si limita a prevedere solo l'annullabilità (o la convalida)
dell'atto di disposizione dell'intero bene da parte del singolo coniuge a richiesta del coniuge
pretermesso, afferma che la norma suddetta presuppone la piena efficacia dell'atto di disposizione
dell'intero immobile fin dall'origine, nell'ambito di una scelta legislativa di bilanciamento della tutela
da un lato della posizione del coniuge pretermesso e dall'altro del terzo acquirente.
La censura è fondata.
La sentenza impugnata ha affermato che, poiché il contratto preliminare del 24-6-1996 riguardante
un immobile oggetto di comunione legale tra i coniugi T.F. ed L.E. era stato stipulato dal solo marito,
non intestatario del bene, si versava in una ipotesi non già di annullamento dell'atto ex art. 184 c.c.,
non essendo la parte interessata in grado di conoscerlo e quindi di attivarsi nel termine annuale ivi
previsto, ma di sua inefficacia; a tal riguardo ha considerato tale caso assimilabile a quello di
immobile che, pur appartenente alla comunione legale, sia intestato ad entrambi i coniugi, dove pure
si determinerebbe una situazione di inefficacia dell'atto, richiamando a conforto di tale assunto secondo cui quindi l'art. 184 c.c. troverebbe applicazione solo nell'ipotesi di atto compiuto,
nonostante il regime di comunione legale, dal coniuge intestatario del bene stesso -la pronuncia di
questa Corte 2-2-1995 n. 1252.
Tale convincimento è frutto di un errata interpretazione dell'art. 184 c.c. ed anche di un palese
fraintendimento della sentenza ora menzionata, che invero ha affermato un principio di diritto del
tutto diverso rispetto a quello sostenuto dalla Corte territoriale.
Muovendo dunque con tale ultimo rilevante profilo, è bene sottolineare che con tale pronuncia si è
ritenuto che in tema di comunione legale tra i coniugi tutto gli atti di disposizione di beni immobili o
beni mobili registrati appartenenti alla comunione legale, compiuti da un solo coniuge senza il
necessario consenso dell'altro, ovverosia in violazione della regola dell'amministrazione congiunta,
sono validi ed efficaci e sottoposti alla sola sanzione dell'annullamento ai sensi dell'art. 184 c.c. in
forza dell'azione proponibile dal coniuge (il cui consenso era necessario) entro i termini previsti dalla
stessa norma, ed ha cassato la sentenza del giudice di merito, il quale aveva ritenuto che
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l'annullabilità prevista dall'art. 184 c.c. riguarderebbe la sola ipotesi in cui l'atto di disposizione sia
compiuto dal coniuge che risulti unico intestatario del bene.
Occorre poi evidenziare che la motivazione della pronuncia 2-2-1995 n. 1252 di questa Corte offre
esaurienti e convincerti argomentazioni a sostegno de! principio di diritto sopra enunciato; è stato
invero ivi affermato in particolare che, a differenza della comunione ordinaria, la comunione legale
tra i coniugi prescinde rigorosamente dal dato della intestazione formale dei beni, e che d'altra parte,
se le risultanze dei registri immobiliari sono indifferenti per quanto attiene all'accertamento circa
l'appartenenza dei beni alla comunione legale, è del tutto arbitrario affermare che la norma in esame
non riguardi qualsiasi atto, ma soltanto gli atti concernenti i beni intestati nei registri immobiliari al
coniuge disponente.
Rilevato poi che, in mancanza di espresse disposizioni derogatorie, gli effetti della disposizione
dell'intera cosa comune nella comunione tra i coniugi soggiacciono alle stesse regole stabilite per la
comunione ordinaria, e che nessun argomento autorizza a ritenere che l'art. 184 c.c. preveda che gli
atti di disposizione posti in essere da uno solo dei coniugi siano soggetti a sanzioni diverse dalla
annullabilità e, quindi, sottoposti ad una disciplina diversa, la sentenza impugnata ha concluso che
tale norma, per l'esigenza di tutelare la rapidità e la certezza della circolazione dei beni in regime di
comunione legale, disciplina il conflitto tra il terzo ed il coniuge pretermesso in modo più favorevole
al primo, con il regime degli effetti tendente alla conservazione del negozio.
Alla luce di tali considerazioni si deve concludere che il convincimento della sentenza impugnata in
ordine alla asserita inefficacia dell'atto di disposizione di un immobile oggetto di comunione legale
tra i coniugi da parte del coniuge non intestatario del bene appare sprovvisto di ogni aggancio
positivo ed in contrasto con il sistema di circolazione dei beni in regime di comunione legale come
sopra delineato; del resto l'orientamento consolidato di questa Corte esclude una disciplina
differenziata per tale ipotesi, ritenendo che, in regime di comunione legale tra i coniugi, il contratto
preliminare di vendita di bene immobile stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il consenso
dell'altro è soggetto alla disciplina dell'art. 184 primo comma c.c., e non è pertanto inefficace nei
confronti della comunione, ma solamente esposto all'azione di annullamento da parte del coniuge non
consenziente, nel breve termine prescrizionale entro cui è ristretto l'esercizio di tale azione,
decorrente dalla conoscenza effettiva dell'atto, ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo
scioglimento della comunione (Cass. 21-12-2001 n. 16177; Cass. 11-6-2010 n. 14093).
In definitiva in accoglimento del ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata, e la causa deve
essere rinviata da altra sezione della Corte di Appello di Torino che deciderà la controversia in
conformità del principio di diritto sopra enunciato e che provvedere anche alla pronuncia sulle spese
del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa anche per la pronuncia
sulle spese del presente giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Torino.
Il c.d. contratto preliminare ad effetti anticipati non è una figura atipica, perché non è intesa a
realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei singoli contratti
tipici che in essa sono confluiti.
Il criterio distintivo fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non va
ravvisato in elementi formali - quali l'unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto
può essere unico anche se ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la
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mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche in momenti diversi in
relazione ad esigenze sopravvenute) - ma nell'elemento sostanziale dell'unicità o pluralità degli
interessi perseguiti, dacchè il "contratto collegato" non è un tipo particolare di contratto, ma uno
strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti caratterizzato dal fatto che le
vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi
sull'altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno
soltanto dei contratti sia subordinato all'altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in
rapporto di principale ad accessorio.
Pertanto, affinchè possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la
considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il requisito oggettivo,
costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle
parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia il
requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l'effetto
tipico dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la
realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria
autonomia anche dal punto di vista causale.
Nel c.d. contratto preliminare ad effetti anticipati emergono dei contratti accessori al preliminare
(necessariamente perchè funzionalmente connessi e, tuttavia, autonomi rispetto ad esso),
rispondendo ciascuno ad una precisa tipica funzione economico-sociale e, pertanto, disciplinati
ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale: contratti con i quali le parti pervengono ad una
regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben definita, dei rapporti accessori funzionalmente
collegati al principale e nei quali, vanno ravvisati, quanto alla concessione dell'utilizzazione della
res da parte del promittente venditore al promissario acquirente, un comodato e, quanto alla
corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al promittente venditore, un mutuo
gratuito.
Ne consegue, con riferimento al primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della
res nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha
natura di detenzione qualificata esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 27 marzo 2008, n. 7930
Svolgimento del processo
O.E., con citazione del 27.4.95, conviene la S.p.A. Ice- Snei innanzi al Tribunale di Napoli e, sulla
premessa del possesso esclusivo ed ininterrotto dal 5.1.68 d'un appartamento e pertinente box
nell'edificio alla traversa 2 della via *** in ***, catastalmente intestato alla convenuta, chiede
dichiararsi l'intervenuto suo acquisto della proprietà dell'immobile per usucapione.
Costituendosi, la convenuta S.p.A. Ice-Snei si oppone alla domanda, deducendo che l'attore aveva
avuto la mera detenzione dell'immobile, consegnatogli in esecuzione d'un preliminare di vendita inter
partes, appunto del 5.1.68, e chiede, in via riconvenzionale, dichiararsi la risoluzione del detto
preliminare per grave inadempimento della controparte, questa avendo corrisposto sul prezzo di
vendita soltanto un anticipo di L. 42.815, e, quindi, condannarsi la stessa controparte alla restituzione
del bene ed al risarcimento dei danni.
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Decidendo delle contrapposte domande con sentenza del 2.3.00, il tribunale adito, in accoglimento
della principale, dichiara acquisita dall'attore la proprietà dell'immobile.
Tale decisione, impugnata dalla S.p.A. Ice-Snei, viene riformata con sentenza del 27.1.03 dalla Corte
di Appello di Napoli, che rigetta sia la domanda principale sia quelle riconvenzionali sulla
considerazione: da un lato, che l' O., a seguito del preliminare di vendita, avesse acquisito la sola
detenzione dell'immobile e che i successivi comportamenti tenuti dallo stesso non fossero stati idonei
a mutare detta detenzione in un possesso utile all'usucapione; dall'altro, che non avendo la S.p.A. IceSnei rivolto l'invito a stipulare l'atto definitivo di trasferimento a termini di contratto alla controparte,
a quest'ultima non fosse addebitabile un inadempimento al preliminare neppure in relazione al
mancato pagamento del prezzo convenuto.
Avverso la sentenza di secondo grado la S.p.A. Ice-Snei propone ricorso per cassazione, con atto
notificato il 5.4.03, affidato a due motivi; l' O., a sua volta, propone ricorso per Cassazione, con atto
notificato il 7.4.03, affidato anch'esso a due motivi; al primo ricorso l' O. resiste con controricorso del
14.5.03, contestualmente proponendo ricorso incidentale nel quale si riporta al proprio precedente
ricorso; la S.p.A. Ice-Snei, a sua volta, con atto del 16.5.03, propone controricorso e contestuale
ricorso incidentale, nel quale anch'essa si riporta al già proposto ricorso.
Entrambe le parti fanno seguire memoria.
La Seconda Sezione, disposta ex art. 335 c.p.c. all'udienza 13.6.06 la riunione dei ricorsi proposti in
via principale ed incidentale avverso la medesima sentenza, con ordinanza 19.7.06 evidenzia come la
questione relativa alla qualificazione, in termini di possesso piuttosto che di detenzione, della
disponibilità del bene conseguita dal promissario d'una vendita immobiliare in forza di clausola del
contratto preliminare questione ritenuta propedeutica anche rispetto a quella, sollevata dal medesimo
ricorrente con il secondo motivo, relativa al difetto d'integrità del contraddittorio quanto alla
domanda di risoluzione del contratto, proposta in via riconvenzionale dalla controparte ed oggetto del
ricorso per cassazione di quest'ultima abbia avuto soluzioni difformi nella giurisprudenza di
legittimità, anche all'interno della stessa Sezione, e rimette, quindi, la causa al Primo presidente, dal
quale è disposta la trattazione della questione stessa da parte di queste Sezioni Unite per la
composizione del contrasto.
Motivi della decisione
Preliminarmente, devesi confermare che i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra
loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..
Va, inoltre, del pari preliminarmente rilevato come i ricorsi rubricati sub nn. R.G. 13911/03 ( O. c/
ICE-SNEI) e R.G. 13686/03 (ICE-SNEI c/ O.), proposti contestualmente ai rispettivi controricorsi e
con i quali, tra l'altro, le parti riprospettano le medesime questioni fatte valere con i loro ricorsi
originari, siano da considerare inammissibili.
E', infatti, principio acquisito che la parte, dalla quale siasi già proposto ricorso per cassazione (sia
esso principale od incidentale) contro alcune delle statuizioni della sentenza di merito, nel rapporto
con un determinato avversario, non possa successivamente presentare un nuovo ricorso, nell'ambito
dello stesso rapporto, nemmeno se nel frattempo abbia ricevuto notificazione del ricorso di detto
avversario, ed a prescindere dal fatto che quest'ultimo possa suggerire un'estensione della contesa
anche con riguardo ad altre pronunzie relative a quel rapporto, atteso che l'ordinamento non consente
il reiterarsi o frazionarsi dell'iniziativa impugnatoria in atti separati (secondo il principio della
cosiddetta consumazione dell'impugnazione) e che il relativo divieto non trova deroga nelle
disposizioni di cui all'art. 334 c.p.c., le quali operano soltanto in favore della parte che, prima
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dell'iniziativa dell'altro contendente, abbia fatto una scelta di acquiescenza alla sentenza impugnata
(da ultimo, Cass. 2.2.07 n. 2309, 14.11.06 n. 24219, 27.10.05 n. 20912, 26.9.05 n. 18756, 10.2.05 n.
2704, 24.12.04 n. 23976).
Si può, quindi procedere all'esame dei due ricorsi originar, dei quali quello previamente proposto
(R.G. n. 10084/03 ICE-SNEI c/ O.) va considerato principale e quello successivo (R.G. 10431/03 O.
c/ ICE-SNEI) incidentale.
1. - RICORSO PRINCIPALE. Con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente, denunziando
violazione del principio della domanda con riferimento agli artt. 99 e 112 c.p.c., sotto il profilo della
corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del principio dell'onere della prova con riferimento all'art.
2697 c.c., si duole, rispettivamente: che il giudice a quo non abbia tenuto conto della domanda di
risoluzione del preliminare, siccome formulata per inadempimento della controparte non
all'obbligazione di stipulare il definitivo, unica presa in considerazione nell'impugnata sentenza pur
senza domanda in tal senso, bensì alla diversa obbligazione di pagamento del prezzo, posta con l'art.
4 del contratto, laddove le parti avevano espressamente previsto che il ritardo nel pagamento o il
mancato pagamento anche di una sola rata di mutuo avrebbe comportato la facoltà per la venditrice di
risolvere il contratto, obbligazione della quale nella sentenza stessa non è stato tenuto alcun conto;
che il giudice a quo abbia escluso l'inadempimento della controparte in relazione al pagamento del
prezzo convenuto nonostante questa non a-vesse fornito dimostrazione alcuna di tale pagamento.
Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente denunzia vizi di motivazione sulle
questioni sollevate con il motivo precedente.
Le riportate censure - che, per connessione, possono essere trattate congiuntamente - non meritano
accoglimento sotto alcuno dei prospettati profili d'omessa pronunzia e d'extrapetizione.
Quanto al primo profilo, per inammissibilità: dacchè, come ripetutamente evidenziato da questa
Corte, l'omessa pronunzia, quale vizio della sentenza, dev'essere, anzi tutto, fatta valere dal ricorrente
per cassazione esclusivamente attraverso la deduzione del relativo error in procedendo e della
violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4 e non già in relazione all'art. 360
c.p.c., nn. 3 e 5.
Ciò che la ricorrente non ha fatto.
Può aggiungersi che, onde possa utilmente dedursi il detto vizio, è necessario, da un lato, che al
giudice del merito fossero state rivolte una domanda od un'eccezione autonomamente apprezzabili,
ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si rendesse necessaria ed
ineludibile, e, dall'altro, che tali domanda od eccezione siano riportate puntualmente, nei loro esatti
termini e non genericamente e/o per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con
l'indicazione specifica, altresì, dell'atto difensivo del giudizio di secondo grado nel quale l'una o
l'altra erano state proposte o riproposte, onde consentire al giudice di legittimità di verificarne, in
primis, la ritualità e la tempestività della proposizione nel giudizio a quo ed, in secondo luogo, la
decisività delle questioni prospettatevi; ove, infatti, si deduca la violazione, nel giudizio di merito,
dell'art. 112 c.p.c., ciò che configura un'ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è
giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur
sempre che il potere- dovere del giudice di legittimità d'esaminare direttamente gli atti processuali sia
condizionato all'adempimento da parte del ricorrente, per il principio d'autosufficienza del ricorso per
cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito,
dell'onere d'indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma
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ricerca ma solo una loro verifica (Cass. 19.3.07 n. 6361, 28.7.05 n. 15781 SS.UU., 23.9.02 n. 13833,
11.1.02 n. 317, 10.5.01 n. 6502).
Anche rispetto a tali oneri la ricorrente risulta inadempiente, donde un'ulteriore ragione
d'inammissibilità della censura.
Quanto al secondo profilo, per infondatezza, dacchè, almeno nei termini in cui sono state prospettate,
le censure d'extrapetizione e di connesso vizio di motivazione non trovano rispondenza all'esame
della sentenza impugnata.
Con la quale la causa petendi della riconvenzionale in risoluzione proposta dall'odierna ricorrente è
stata correttamente individuata, nel fatto che " O.E. con detto preliminare si era impegnato al
pagamento della complessiva somma di L. 8.337.360, ma non aveva provveduto al pagamento delle
rate in cui era stato dilazionato il prezzo nè al pagamento delle rate del mutuo accollato", ma ne è
stato escluso il fondamento, in quanto vi si è ritenuto che, risultando contrattualmente pattuita la
stipulazione del definitivo nei dieci giorni dall'invito rivolto per lettera raccomandata dalla
promittente venditrice al promissario acquirente e la prima non avendo mai provveduto al riguardo,
nessun inadempimento fosse imputabile al secondo "neanche in relazione al pagamento del prezzo
convenuto".
In siffatto se pur sintetico iter logico-argomentativo - evidentemente ispirato al principio per cui un
inadempimento del promissario acquirente all'obbligazione di pagamento del prezzo non può
ravvisarsi ove non siano stati contrattualmente stabiliti versamenti a scadenze determinate anteriori
alla stipulazione del definitivo - sarebbero stati eventualmente ravvisabili e denunziabili errori
d'interpretazione del contratto preliminare e/o d'inappropriata applicazione del richiamato principio al
caso di specie, peraltro neppure accennati con i motivi in esame, ma non sono ravvisabili i dedotti
vizi d'extrapetizione e di connesso difetto di motivazione.
D'altra parte, la censura neppure presenta il requisito dell'autosufficienza, ed è pertanto
inammissibile, dacchè non vi è riportato il testo del contratto o, quanto meno, delle clausole tutte
pertinenti alla prospettata questione, di guisa che il giudice di legittimità, cui non è consentito l'esame
diretto dell'incarto processuale se non nelle ipotesi di denunziati errores in procedendo, non è posto in
condizione di valutare la dedotta erronea applicazione del regolamento pattizio.
2. - RICORSO INCIDENTALE. L' O. - denunziando con il primo motivo del ricorso n. 10431/03 la
violazione dell'art. 1158 c.c. e art. 116 c.p.c., nonchè omessa o insufficiente e contraddittoria
motivazione - oltre a dolersi dell'inadeguatezza delle argomentazioni svolte dalla corte territoriale,
laddove ha escluso l'interversione della sua detenzione sull'immobile de quo in un possesso utile
all'usucapione, contesta, anzi tutto, la stessa qualificazione come detenzione, anzichè come possesso,
data da quel giudice alla materiale disponibilità del bene quale da lui conseguita in esecuzione di
specifica clausola del contratto preliminare; assume, al riguardo, che, tale pattuizione avendo avuto la
funzione di anticipare gli effetti del trasferimento del diritto di proprietà, oggetto del contratto cui era
intesa la volontà delle parti, e, quindi, anche l'effetto dell'immissione nel possesso e non nella
detenzione dell'immobile, non fosse conseguentemente necessario alcun atto d'interversione perchè
ne avesse luogo l'usucapione con il decorso del termine ventennale di prescrizione acquisitiva
dall'immissione nel godimento dello stesso.
In tal senso svolgendo le proprie tesi, l' O. contrappone alla soluzione adottata dal giudice a quo che, come ricordato nell'ordinanza di rimessione, si è conformato alla giurisprudenza di legittimità
prevalente - la difforme soluzione adottata da un indirizzo giurisprudenziale minoritario e, tuttavia, a
tratti riemergente in alcune pronunzie, anche relativamente recenti, di questa Corte.
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La motivazione della maggior parte delle quali si traduce in affermazioni apodittiche, riproduttive di
massime tralaticie, mentre, nelle poche obiettivamente argomentate, l'iter logico dell'adottata
soluzione prende le mosse dalla considerazione per cui il possesso non è escluso dalla conoscenza del
diritto altrui, nè è subordinato all'esistenza della correlativa situazione giuridica,dacchè esso è
ricollegato, sia sotto il profilo materiale (corpus) sia sotto quello psicologico (animus), ad una
situazione di fatto, che si concretizza nell'esercizio di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in
un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale e distinguentesi
dalla detenzione solo per l'atteggiamento psicologico del soggetto che lo esercita, caratterizzato, nel
possesso, dal cd. animus rem sibi habendi (ossia, l'intenzione o il volere di esercitare la signoria che è
propria del proprietario o del titolare del diritto reale) e, nella detenzione, dal cd. animus detinendi
(che implica il riconoscimento della signoria altrui).
Soggiungendosi, poi, che tale principio di carattere generale non soffre deroga nei casi in cui il
soggetto che assume d'essere possessore abbia ricevuto il godimento dell'immobile per effetto d'una
convenzione negoziale, con la precisazione che, se la convenzione ha effetti obbligatori, perchè
diretta ad assicurare il mero godimento della cosa, senza alcun trasferimento immediato o differito
del bene, colui che, avendo ricevuto la consegna per questo solo scopo, si è immesso, nomine alieno,
nel godimento del bene, necessariamente stabilisce con la cosa un rapporto di mera detenzione che
gli consente di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa solo attraverso un atto di
interversione del possesso, ai sensi dell'art. 1141 c.c., comma 2.
Vi si evidenzia, quindi, che ciò spiega la ragione del principio, ripetutamente affermato da questa
Corte, secondo il quale "per stabilire se in conseguenza di una convenzione con la quale un soggetto
riceve da un altro il godimento di un immobile si abbia un possesso idoneo alla usucapione o una
mera detenzione, occorre fare riferimento all'elemento psicologico del soggetto stesso ed a tal fine
stabilire se la convenzione sia un contratto ad effetti reali o un contratto ad effetti obbligatori, dato
che solo nel primo caso il contratto è idoneo a determinare nel predetto soggetto l'animus possidendi
(sent. n. 4819 del 1981; sent. n. 4698 del 1987; sent. n. 741 del 1983)"; che, tuttavia, proprio la
ragione del principio di diritto ora enunciato ne fissa anche il limite, escludendone l'applicazione alle
convenzioni con le quali, per quanto con effetti solo obbligatori, le parti tendano a realizzare il
trasferimento della proprietà del bene o di un diritto reale su di esso quando ad esse si aggiunga un
patto accessorio d'immediato effetto traslativo del possesso, sostanzialmente anticipatore degli effetti
traslativi del diritto che, con la convenzione, le parti stesse si sono ripromesse di realizzare.
Vi si perviene, così, alla conclusione per cui nelle ipotesi predette, tra le quali rientra quella più
diffusa del contratto preliminare di compravendita, la convenzione non tende solo ad attribuire il
godimento del bene (che si realizza, appunto, attraverso il trasferimento della mera detenzione,
caratterizzando coerentemen-te la consegna della cosa) ma è in funzione di un comune proposito di
trasferimento della proprietà o di un diritto reale, alla quale è coerente il passaggio immediato del
possesso, che costituisce solo un'anticipazione dell'effetto giuridico finale perseguito; onde il patto di
immediato trasferimento del possesso che eventualmente acceda a queste convenzioni, con le quali è
perfettamente compatibile, caratterizza, dunque, anche la consegna che ad esso faccia seguito,
conferendole effetti attributivi della disponibilità possessoria e non della mera detenzione, anche in
mancanza dell'immediato effetto reale del contratto cui il patto accede, tenuto anche conto che la
consegna, essendo il possesso un fenomeno che prescinde dal fondamento giustificativo, è atto
neutro, o negozio astratto, per il quale non si richiede affatto il requisito del fondamento causale.
Tali essendo le ragioni giustificative delle esaminate decisioni, devesi considerare che, sfrondate dei
superflui richiami ai principi generali, che si dichiarano condivisi, esse si riducono, in buona
sostanza, alla sola affermazione per cui, nonostante la natura esclusivamente obbligatoria del
preliminare, con il prevedervi anche l'immediata consegna del bene verso la contestuale
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corresponsione, in tutto od in parte, del prezzo, i contraenti intendono anticipare "l'effetto traslativo
del diritto" proprio del definitivo.
Tesi siffatta non può trovare adesione, sia che della fattispecie in esame si consideri l'aspetto
possessorio, in quanto il possesso non è suscettibile di trasferimento disgiuntamente dal diritto reale
del quale costituisce l'esercizio, sia che se ne consideri quello contrattuale, in quanto la disponibilità
della res conseguita dal promissario acquirente deriva da un contratto di comodato collegato al
preliminare per il quale al comodatario è attribuita la detenzione e non il possesso; ciò per le ragioni
che di seguito si espongono.
In primis, è lo stesso invocato intento delle parti ad esservi erroneamente individuato e/o travisato, in
quanto, con lo stipulare un preliminare, sono per l'appunto gli effetti reali traslativi, propri del
definitivo, che le parti non vogliono si verifichino per effetto immediato e diretto della conclusa
convenzione.
La situazione giuridica in esame, come evidenziato anche in dottrina, è, in vero, il portato d'una
prassi contrattuale sviluppatasi, essenzialmente nel settore immobiliare, in ragione della sua attitudine
a fornire uno strumento idoneo a soddisfare sollecitamente determinate esigenze delle parti,
principalmente la disponibilità del bene per l'una e del denaro per l'altra ma ulteriori se ne possono
agevolmente ipotizzare, pur contestualmente garantendone i rispettivi diritti sui beni oggetto delle
reciproche attribuzioni, indipendentemente dalla sorte della convenzione, per il tempo necessario a
che si realizzino quelle condizioni oggettive e/o soggettive, agevolmente ipotizzabili anch'esse nella
loro molteplicità, in ragione delle quali - tanto che siano rimaste del tutto estranee alla convenzione,
eppertanto giuridicamente irrilevati anche a solo livello di presupposizione, quanto che, invece,
sianvi espressamente previste come condizioni sospensive o risolutive - le parti stesse non hanno
voluto o potuto addivenire ad un contratto definitivo.
Sono usuali, al riguardo, particolarmente nella materia delle compravendite immobiliari - che è quella
più interessata dal fenomeno - le ipotesi in cui il promittente venditore debba portare a termine
procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell'edificio od opere di completamento dell'edificio
stesso o delle infrastrut- ture accessorie od estinguere ipoteche o mutui, in difetto di che non sussiste
l'interesse e conseguentemente la volontà di perfezionare l'acquisto da parte del promissario
acquirente; o quelle in cui quest'ultimo debba, a sua volta, procurarsi, anche in più riprese, le
disponibilità necessarie alla corresponsione integrale del prezzo, il conseguimento del quale
condiziona parimenti interesse e volontà del promittente venditore alla realizzazione della vendita.
Dottrina e giurisprudenza, quando - sulla considerazione per cui la terminologia "promette di vendere
o di acquistare" non è automaticamente indicativa d'una semplice promessa e la cosiddetta
anticipazione degli effetti della vendita può essere indice dell'intento di porre in essere un contratto
definitivo se il differimento della manifestazione di volontà non risulti chiaramente dal contratto affermano che, al fine di attribuire ad una stipulazione il contenuto del contratto di compravendita o
piuttosto quello del preliminare di compravendita, è determinante l'identificazione del comune
intento delle parti - diretto, nel primo caso, al trasferimento della proprietà della res verso la
corresponsione di un certo prezzo, conformemente alla causa negoziale dell'art. 1470 c.c., e, nel
secondo caso, all'insorgenza di un particolare rapporto obbligatorio che impegni ad un'ulteriore
manifestazione di volontà, alla quale sono rimessi il trasferimento del diritto dominicale sulla res e
l'adempimento dell'obbligazione del pagamento del prezzo - onde il giudice del merito deve
esaminare la stipulazione nel suo complesso al fine di accertare la comune volontà delle parti nell'un
senso piuttosto che nell'altro, compiono, in verità, solo un primo approccio alla questione in esame,
che, evidentemente, più non si porrebbe ove l'accertamento demandato al giudice si risolvesse nel
senso del contratto ad effetti reali, dacchè, in tal caso, non vi sarebbe, evidentemente, luogo a parlare
di preliminare, dacchè le prestazioni rese avrebbero già realizzato gli effetti del definitivo.
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Viceversa, se l'accertamento compiuto dal giudice dovesse approdare al preliminare, è da escludere in
re ipsa, come si è già sottolineato, che le parti intendessero realizzare qualsiasi effetto del definitivo,
eppertanto, ai fini della soluzione della questione in esame, si rende necessaria un'indagine ulteriore e
diversa in ordine alla volontà delle parti, onde identificare quali effetti, differenti da quelli propri del
definitivo ma aggiuntivi rispetto a quelli ordinari del preliminare, le parti stesse avessero inteso far
derivare dalla convenzione, in attuazione della quale ed in particolare delle pattuizioni aggiuntive
hanno, di seguito, operato alcune prestazioni corrispondenti a quelle proprie del definitivo.
Al fine della qual ulteriore indagine, devesi preliminarmente considerare come la previsione e
l'esecuzione della traditio della res e/o del pagamento, anche totale, del prezzo non siano affatto, di
per se stessi, incompatibili con l'intento di stipulare un contratto solo preliminare di compravendita,
dacchè, in tal guisa operando, le parti manifestano e concretamente realizzano esclusivamente
l'intento d'anticipare non gli effetti del contratto di compravendita - l'impegno alla cui futura
stipulazione costituisce l'oggetto delle obbligazioni assunte con la convenzione stipulata nella
prescelta forma del preliminare, mentre tali effetti rappresentano, per contro, proprio quel risultato
cui le parti stesse non hanno inteso, al momento, pervenire - ma solo quelle prestazioni che delle
obbligazioni nascenti dalla compravendita costituiscono l'oggetto, id est la consegna della res ed il
pagamento del prezzo, quali, ex artt. 1476 e 1498 c.c., sono poste a carico, rispettivamente, del
venditore e del compratore (nel tempo, Cass. 19.4.00 n. 5132, 7.4.90 n. 2916, 3.11.88 n. 5962, ma già
1.12.62 n. 3250).
Escluso che con la stipulazione del preliminare, sia pure con previsione, ed esecuzione, della
consegna della res e/o del pagamento del prezzo, le parti debbano avere necessariamente inteso che si
verificassero gli effetti della compravendita - nel qual caso, d'altronde, come si è già evidenziato, si
sarebbe in presenza d'un definitivo e non d'un preliminare - devesi anche escludere che, in virtù di
tale esecuzione, possa essersi trasmesso dal promittente venditore al promissario acquirente il
possesso della res.
In vero, come questa Corte ha già avuto occasione d'evidenziare - richiamando anche accreditata
dottrina, per la quale "ciò che si trasferisce è solo l'oggetto del possesso, il quale, invece, non si
compra e non si vende, non si cede e non si riceve per l'effetto di un negozio", e, perciò, "l'acquisto a
titolo derivativo del possesso è un'espressione da usarsi solo in senso empirico e traslato" - dalla
stessa nozione del possesso, definito dall'art. 1140 cod. civ. come "il potere sulla cosa che si
manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale", si evince
ch'esso non può essere trasferito per contratto separatamente dal diritto del quale esso costituisca
l'esercizio, considerato che un'attività non è mai trasmissibile, ma può solo essere intrapresa, e
l'intrasmissibilità è maggiormente evidente in ordine al possesso, in quanto l'attività che lo
contraddistingue deve essere accompagnata dall'animus possidendi (volontà di esercitare sulla cosa
una signoria corrispondente alla proprietà o ad altro diritto reale), cioè da un elemento che, per la sua
soggettività, può essere proprio soltanto di colui che attualmente possiede e non di chi ha posseduto
in precedenza. (Cass. 27.9.96 n. 8528).
Quindi esattamente si è affermato in dottrina che, essendo il possesso uno stato di fatto, l'acquisto ne
è in ogni caso originario, sì che anche chi propende per la tesi contraria riconosce che di acquisto
derivativo possa parlarsi "soltanto per sottolineare che l'acquisto del possesso ha luogo con l'assenso
e la partecipazione del precedente possessore e non con il solo contegno di colui che acquista il
possesso, come accade nell'apprensione".
L'unica eccezione a questa regola si ha nella successione universale, ma è un'eccezione
espressamente prevista e regolata dal legislatore che, in forza dell'elaborata fictio legis, ha consentito
la continuazione nell'erede del possesso esercitato dal de cuius, con effetto dall'apertura della
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successione, indipendentemente dalla verificazione dei suoi presupposti di fatto, ma, appunto perchè
di diritto singolare ed eccezionale, l'istituto non può essere utilizzato onde pervenire ad una soluzione
diversa da quella indicata con la richiamata regola generale.
Nè, a sostegno della tesi della possibilità d'una trasmissione contrattuale del possesso, può
richiamarsi l'art. 1146 c.c., comma 2, perchè per tale norma l'accessio possessionis, da essa prevista,
ha, per presupposto indispensabile, l'esistenza di un titolo, anche viziato, idoneo in astratto, alla
cessione del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) del bene formante oggetto del possesso (Cass.
6552/81, 3876/76, 3369/72, 936/70, 1378/64, 1044/62); inoltre, la norma non prevede affatto la
trasmissione del possesso da un soggetto all'altro, ma soltanto la possibilità per il successore a titolo
particolare (acquirente o legatario) di unire al proprio possesso quello distinto e diverso del dante
causa per goderne gli effetti sostanziali e processuali.
Per altro verso, devesi considerare che il preliminare di compravendita con il quale siano
contestualmente pattuite anche la consegna anticipata della res e la corresponsione del pari anticipata
del prezzo in una o più soluzioni non è un contratto atipico, almeno se con tale termine s'intende
definire un contratto caratterizzato da una funzione economico-sociale non riconducibile agli schemi
normativamente predeterminati e tuttavia suscettibile di riconoscimento e di tutela, sul presupposto
dell'autonomia contrattuale che l'ordinamento riconosce ai privati, in ragione dellasua liceità e della
sua meritevolezza.
Nella fattispecie in esame va ravvisata, infatti, la convergenza, in un'unica convenzione, degli
elementi costitutivi di più contratti tipici, nel qual caso resta escluso che la convenzione stessa possa
essere qualificata come atipica, dal momento che, sia pure considerata nelle sue plurime articolazioni,
non è intesa a realizzare una funzione economico-sociale nuova e diversa rispetto a quelle dei singoli
contratti tipici che in essa sono confluiti.
Pertanto, considerato che le parti, nell'esplicazione della loro autonomia negoziale, possono, con
manifestazioni di volontà espresse in un unico contesto, dar vita a più negozi tra loro del tutto distinti
ed indipendenti, come pure a più negozi variamente interconnessi, la qualificazione della fattispecie
va, piuttosto, effettuata con riguardo alla sua riconducibilità nell'ambito d'una delle categorie,
elaborate da dottrina e giurisprudenza nell'esame delle fattispecie congeneri, dei contratti misti o
complessi, o dei contratti collegati.
I contratti misti o complessi sono quelli maggiormente assimilabili al contratto atipico, se pur se ne
differenziano per non essere intesi alla realizzazione d'una funzione economico-sociale nuova e
diversa rispetto a quelle dei contratti tipici che vi confluiscono, dacchè in essi la pluralità degli
schemi contrattuali tipici u- tilizzati si combina in guisa che, per la fusione delle cause, gli elementi
costitutivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi costitutivi di un negozio rispetto a
ciascun d'essi autonomo e distinto caratterizzato dall'unicità della causa; con la precisazione,
evidenziata da alcuna parte della dottrina, per cui, nei contratti misti, si ha un solo schema negoziale,
al quale vengono apportate alcune variazioni mediante l'inserimento di clausole assunte da uno o più
diversi schemi, mentre, in quelli complessi, si ha la convergenza di tutti gli elementi costitutivi tratti
da più schemi negoziali tipici nella regolamentazione dell'unico negozio risultantene.
Nell'una ipotesi come nell'altra, la disciplina del contratto è unitaria, come unitaria ne è la causa, e va
ravvisata in quella del negozio di maggior rilievo, questo da individuarsi, quanto al contratto misto,
nell'unico contratto cui sono stati aggiunti singoli elementi tratti da altri e che in esso si fondono
(teoria dell'assorbimento), e, quanto al contratto complesso, in quello, tra i più contratti integralmente
confluiti nell'unica convenzione, cui, all'esame della volontà quale in concreto manifestata dalle parti,
risulti essere stato conferito rispetto agli altri il maggior rilievo in considerazione della finalità
perseguita (teoria della prevalenza).
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Minor seguito ha, in dottrina, la tesi per cui, nell'ipotesi del contratto complesso, i vari profili della
convenzione andrebbero singolarmente disciplinati con riferimento allo schema contrattuale
corrispondente (teoria della combinazione); ed, in effetti, tesi siffatta non consente, poi, a differenza
dalla teoria della prevalenza, un'adeguata differenziazione di disciplina tra la fattispecie del contratto
complesso e quella dei contratti collegati.
La quale ricorre ove più contratti autonomi, ciascuno caratterizzato dalla propria causa, formino
oggetto di stipulazioni coordinate, nell'intenzione delle parti, alla realizzazione di uno scopo pratico
unitario, costituito, di norma, dall'agevolare la realizzazione della funzione economico-sociale dell'un
d'essi.
Il collegamento contrattuale, come è stato ripetutamente evidenziato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza prevalenti, nei suoi aspetti generali non da luogo ad un autonomo e nuovo contratto,
ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e
complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto, bensì attraverso una pluralità
coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato
ad un unico regolamento dei reciproci interessi.
Ond'è che il criterio distintivo fra contratto unico, se pur misto o complesso, e contratto collegato non
va ravvisato in elementi formali - quali l'unità o la pluralità dei documenti contrattuali (un contratto
può essere unico anche se ricavabile da più testi, mentre un unico testo può riunire più contratti) o la
mera contestualità delle stipulazioni (i contratti posso essere stipulati anche in momenti diversi in
relazione ad esigenze sopravvenute) - ma nell'elemento sostanziale dell'unicità o pluralità degli
interessi perseguiti, dacchè il "contratto collegato" non è un tipo particolare di contratto, ma uno
strumento di regolamentazione degli interessi economici delle parti caratterizzato dal fatto che le
vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi
sull'altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno
soltanto dei contratti sia subordinato all'altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in
rapporto di principale ad accessorio.
Pertanto, affinchè possa configurarsi un collegamento negoziale in senso tecnico, che impone la
considerazione unitaria della fattispecie, è necessario che ricorrano sia il requisito oggettivo,
costituito dal nesso teleologico tra i negozi, volti alla regolamentazione degli interessi reciproci delle
parti nell'ambito di una finalità pratica consistente in un assetto economico globale ed unitario, sia il
requisito soggettivo, costituito dal comune intento pratico delle parti di volere non solo l'effetto tipico
dei singoli negozi in concreto posti in essere, ma anche il coordinamento tra di essi per la
realizzazione di un fine ulteriore, che ne trascende gli effetti tipici e che assume una propria
autonomia anche dal punto di vista causale.
Tanto considerato, risulta evidente come la fattispecie in discussione debba essere ricondotta alla
categoria dei contratti collegati.
In essa, infatti, le parti, onde agevolare, per le plurime ragioni quali in precedenza accennate, la
realizzazione delle finalità perseguite con la stipulazione del preliminare di compravendita, stipulano
altresì - e, come del pari si è già evidenziato, ciò può aver luogo contemporaneamente e
contestualmente al preliminare ma anche in tempi e con atti diversi, a seconda che le circostanze lo
richiedano - dei contratti accessori, al preliminare necessariamente perchè funzionalmente connessi e,
tuttavia, autonomi rispetto ad esso, rispondendo ciascuno ad una precisa tipica funzione economicosociale eppertanto disciplinati ciascuno dalla pertinente normativa sostanziale.
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220
Contratti con i quali le parti pervengono ad una regolamentazione, se pur provvisoria tuttavia ben
definita, dei rapporti accessori funzionalmente collegati al principale e nei quali, secondo
un'autorevole opinione dottrinaria meritevole d'esser condivisa, vanno ravvisati, quanto alla
concessione dell'utilizzazione della res da parte del promittente venditore al promissario acquirente,
un comodato e, quanto alla corresponsione di somme da parte del promissario acquirente al
promittente venditore, un mutuo gratuito.
Ne consegue, con riferimento al primo dei considerati contratti, che la materiale disponibilità della
res nella quale il promissario acquirente viene immesso, in esecuzione del contratto di comodato, ha
natura di detenzione qualificata esercitata nel proprio interesse ma alieno nomine e non di possesso.
Possesso che il promissario acquirente può, dunque, opporre al promittente venditore solo nei modi
previsti dall'art. 1141 c.c., in particolare assumendo e dimostrando un'intervenuta interversio
possessionis.
Questa, come ha correttamente ricordato il giudice a quo, non può aver luogo mediante un semplice
atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia
consentito desumere che il detentore ha cessato d'esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine alieno
ed ha iniziato ad esercitarlo esclusivamente nomine proprio ed, inoltre, manifestazione siffatta
dev'essere non solo tale da palesare inequivocabilmente l'intenzione del soggetto di sostituire al
precedente animus detinendi un nuovo animus rem sibi habendi, ma anche essere specificamente
rivolta contro il possessore, in guisa che questi sia posto in condizione di rendersi conto dell'avvenuto
mutamento, quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere della concreta opposizione
all'esercizio del possesso da parte del possessore stesso; tra tali atti, ove non accompagnati da altra
manifestazione dotata degli indicati connotati dell'opposizione, non possono ricomprendersi nè quelli
che si traducano in una inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata
costituita, verificandosi in tal caso un'ordinaria ipotesi d'inadempimento contrattuale, nè quelli che si
traducano in ordinari atti d'esercizio del possesso, verificandosi in tal caso una mera ipotesi di abuso
della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.
Al qual riguardo l' O. addebita al giudice a quo, denunziando vizi di motivazione, di non aver desunto
dalle emergenze istruttorie quegli evidenti elementi costitutivi della fattispecie ch'egli ritiene vi
fossero adeguatamente rappresentati.
La censura non merita accoglimento.
Per costante insegnamento di questa Corte, in vero, il motivo di ricorso per Cassazione con il quale
alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5
dev'essere inteso a far valere, a pena d'inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro
specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell'attribuire agli
elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le
varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto
tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei
fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare,
non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati
acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione
degli e-lementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice
e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in
esame; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe - com'è, appunto, per quello
di cui trattasi - in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del
giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio
di legittimità.
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Nè, com'è del pari da tralaticio insegnamento di questa Corte, può imputarsi al detto giudice d'aver
omesse l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi
di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l'una nè l'altra gli sono richieste, rientrando nel suo
potere discrezionale, a norma dell'art. 116 c.p.c., individuare le fonti del proprio convincimento,
mentre soddisfa all'esigenza d'adeguata motivazione che questo, una volta raggiunto, risulti da un
esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano
state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perchè sia rispettata la
prescrizione desumibile dal combinato disposto dell'art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
non si richiede al giudice del merito di dar conto dell'esito dell'avvenuto esame di tutte le prove
prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica
ed adeguata dell'adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla
ovvero la carenza di esse.
Nella specie, non solo il motivo, già non inteso a censurare la rado decidendi ma a prospettare una
diversa interpretazione degli accertamenti in fatto, estranea alle valutazioni consentite al giudice di
legittimità, è per ciò solo inammissibile, ma la motivazione fornita dal giudice a quo all'assunta
decisione risulta logica e sufficiente, basata com'è su argomentazioni adeguate in ordine alla valenza
oggettiva dei plurimi e pertinenti elementi di giudizio presi in considerazione e su razionali
valutazioni di essi;
un giudizio operato, pertanto, nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito a fronte del
quale, in quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 c.p.c., n. 5 la
diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalla
norma stessa.
Con il secondo motivo, il ricorrente - denunziando violazione dell'art. 102 c.p.c. - si duole che il
giudizio di merito promosso dalla controparte per la risoluzione del preliminare si sia svolto a
contraddittorio non integro, in quanto il contratto in discussione era stato stipulato anche da suo
fratello Ettore, rimasto estraneo al giudizio, e che tale nullità non sia stata rilevata d'ufficio dal
giudice a quo.
La doglianza va disattesa, in quanto l' O., totalmente vittorioso sul punto essendo stata respinta
l'avversa domanda di risoluzione tanto in primo grado quanto in appello, difetta d'interesse ad
impugnare per cassazione al riguardo se non condizionatamente all'accoglimento del ricorso di
controparte, condizione che, come da reiezione del ricorso principale, non si è avverata.
3. - CONCLUSIONI. Nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, entrambi i ricorsi
vanno, dunque, respinti.
Tale esito del giudizio di legittimità giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del
giudizio stesso.
P.Q.M.
LA CORTE
Decidendo a Sezioni Unite, dichiara inammissibili i ricorsi iscrittial R.G. con i numeri 13911/03 e
13686/03; respinge i ricorsi iscritti al R.G. 10084/03 e 10431/03; compensa integralmente tra le parti
le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 maggio 2007.
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Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2008.
In caso di inadempimento di preliminare di vendita avente ad oggetto un bene della comunione
legale tra i coniugi, concluso da uno solo di questi, in qualità di promittente alienante, è impossibile
la domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. da parte del promissario acquirente,
laddove non sia stato integrato il contraddittorio anche nei confronti del coniuge non contraente,
configurandosi un caso di litisconsorzio necessario exart. 102 c.p.c.. Il relativo giudizio è, quindi,
nullo.
Cass. civ. Sez. Unite, 24-08-2007, n. 17952
Svolgimento del processo
L.G.M. ha convenuto il fratello L. C. innanzi al tribunale di Firenze chiedendone, ex art. 2932 c.c., la
condanna al trasferimento in proprio favore dell'unità immobiliare costituita da un appartamento al
quarto ed ultimo piano dell'edificio sito alla via (OMISSIS) di quella città ed, in subordine, al
risarcimento dei danni, sulla premessa: che per contratto preliminare 28.7.89, B.G. gli aveva
promesso in vendita l'intero edificio al concordato prezzo di L. tre miliardi; che il 13.10.89 il
nominato fratello gli aveva proposto di sostituirsi a lui nell'acquisto, promettendogli la cessione
dell'unità immobiliare in questione, a compenso della svolta attività di mediazione, ove quel
preliminare, subordinato al mancato acquisto del medesimo intero immobile da parte della
Sovrintendenza, avesse avuto esecuzione, - che, in seguito, acquistato definitivamente l'immobile, il
fratello, sottraendosi all'obbligazione assunta, aveva, invece, rifiutato di trasferirgli la proprietà della
detta unità immobiliare.
A tale domanda L.C. si è opposto eccependo, preliminarmente in rito, il proprio difetto di
legittimazione passiva, per essere stato l'edificio acquistato in comunione di beni con la propria
moglie, non convenuta in giudizio, e quindi, nel merito, sia l'inefficacia della propria dichiarazione
13.10.89, in quanto promessa unilaterale cui la legge non riconosceva tale effetto, sia la nullità della
dichiarazione stessa, non essendo la controparte iscritta all'albo dei mediatori, sia, in fine, essere
l'obbligazione assunta limitata al trasferimento del solo usufrutto e non della proprietà, come ex
adverso preteso, giusta la contemporanea dichiarazione in tal senso sottoscritta dalla controparte nel
medesimo contesto.
Accoltasi la domanda ex art. 2932 c.c. dall'adito tribunale con sentenza 11.7.00, questa L.C. ha
impugnato con appello cui si è opposto L.G.M..
Decidendone con sentenza 28.9.02, la corte d'appello di Firenze ha accolto l'impugnazione ed, in
totale riforma della decisione di primo grado, ha rigettato entrambe le originarie domande, principale
d'adempimento coattivo e subordinata di risarcimento, sulla considerazione in ordine alla prima unico argomento rimesso alla decisione in questa sede - che l'eccezione riproposta dall'appellante,
relativa alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti della propria moglie
comproprietaria in comunione dei beni dell'immobile controverso, fosse infondata, in quanto l'azione
ex art. 2932 c.c. può essere promossa anche solo nei confronti del promittente, pur essendo il bene
promesso oggetto di comunione di beni con il coniuge dello stesso, ove l'attore intenda conseguire
una pronunzia limitata al trasferimento della quota del promittente medesimo; che, tuttavia, dacchè
nella specie l'originario attore non aveva limitato la pretesa alla sola quota dell'obbligato ma aveva
chiesto il trasferimento dell'intera porzione immobiliare, costituente un unicum inscindibile del quale
l'uno dei comproprietari non poteva disporre senza il consenso dell'altro, il giudizio sarebbe stato da
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promuovere anche nei confronti di quest'ultimo e, ciò non essendosi fatto, la domanda andava,
appunto, rigettata.
Avverso tale decisione L.G.M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, cui
resiste L.C. con controricorso, anche contestualmente proponendo ricorso incidentale condizionato,
cui, a sua volta, il ricorrente principale resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Passata la causa in decisione, la 2^ Sezione Civile, esaminando il primo motivo del ricorso
principale, con il quale è denunziato un vizio dell'impugnata sentenza per non essersi ravvisata nella
specie un'ipotesi di litisconsorzio necessario, ha rilevato la sussistenza d'una divergenza d'opinioni,
nella giurisprudenza di legittimità ed in seno alla stessa Sezione, in ordine alla necessità o meno della
partecipazione del coniuge in comunione dei beni al giudizio nel quale si chieda il trasferimento
coattivo d'un immobile ricompreso nella comunione familiare; donde la trasmissione degli atti al
Primo Presidente, che ha assegnato a queste Sezioni Unite la soluzione del segnalato contrasto.
Motivi della decisione
Preliminarmente, i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno
riuniti ex art. 335 c.p.c..
Va, poi, esaminata la questione sollevata dal controricorrente, con la memoria 27.12.06,
relativamente alla ritenuta necessità d'esaminare preliminarmente il terzo motivo del ricorso
principale, con il quale l'impugnata pronunzia è censurata nel capo in cui, decidendo della
subordinata domanda risarcitoria, il giudice a quo ha escluso che dal rapporto inter partes, valutatene
le varie possibili qualificazioni, potessero derivare gli effetti giuridici pretesi dall'originario attore;
sostiene il controricorrente che, ove tale censura venisse disattesa, verrebbe meno l'interesse alla
decisione sulla necessità o meno dell'integrazione del contraddittorio nel giudizio di merito.
La questione, anche a voler prescindere dalla non consentita tardiva proposizione in memoria, va
comunque disattesa, in quanto, attenendo al merito della controversia, è essa necessariamente
condizionata alla previa soluzione della questione posta sull'integrità del contraddittorio ab origine e
non viceversa.
Con il motivo da esaminare in questa sede, si duole il ricorrente - denunziando violazione degli artt.
2932, 177, 184, 189 c.c., art. 354 c.p.c. - che il giudice a quo erroneamente abbia escluso la
sussistenza del litisconsorzio necessario tra i coniugi in comunione dei beni nel giudizio ex art. 2932
c.c. che il promissario acquirente del bene oggetto di comunione, promessogli in vendita non da
entrambi ma da uno soltanto dei coniugi comproprietari, abbia promosso nei soli confronti di
quest'ultimo e, pur avendo riconosciuto che detta azione, ove intesa ad ottenere il trasferimento non
della sola quota del promittente ma dell'intero bene, debba essere promossa nei confronti d'entrambi i
coniugi, abbia tuttavia rigettato la domanda invece di rimettere la causa al primo giudice ex art. 354
c.p.c. per l'integrazione del contraddittorio.
La censura è fondata: per la contestata esclusione del contraddittorio, oltre che per l'evidenziata
contraddizione in termini.
La comunione ordinaria, quale regolata dagli artt. 1100 e 1116 c.c., si configura come comunione pro
indiviso o proprietà plurima parziaria, nella quale il diritto di proprietà è unico ed ha ad oggetto il
bene nella sua interezza e, tuttavia, il diritto di ciascuno dei partecipanti non ha per oggetto nè il bene
nella sua interezza, nè una parte fisicamente individuata di esso, bensì una quota ideale,
proporzionata al suo diritto di partecipazione, del quale costituisce la misura.
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In tale situazione, la promessa di vendita di un bene in comunione (come hanno evidenziato queste
SS.UU. con la sentenza 8.7.93 n. 7481) è, di norma, considerata dalle parti attinente al bene
medesimo come un unicum inscindibile e non come somma delle singole quote che fanno capo a
ciascuno dei comproprietari - salvo che l'unico documento predisposto per il detto negozio venga
redatto in modo tale da farne risultare la volontà di scomposizione in più contratti preliminari in base
ai quali ognuno dei comproprietari s'impegna esclusivamente a vendere la propria quota al
promissario acquirente, con esclusione di forme di collegamento negoziale o di previsione di
condizioni idonee a rimuovere la reciproca insensibilità dei contratti stessi all'inadempimento di uno
di essi - di guisa che i detti comproprietari costituiscono un'unica parte complessa e le loro
dichiarazioni di voler vendere si fondono in un'unica volontà negoziale; onde, quando una di tali
dichiarazioni manchi (o sia invalida), non si forma (o si forma invalidamente) la volontà di una delle
parti del contratto preliminare, escludendosi, pertanto, in toto la possibilità per il promissario
acquirente d'ottenere la sentenza costitutiva di cui all'art. 2932 c.c. nei confronti dei soli
comproprietari promittenti, sull'assunto di una mera inefficacia del contratto stesso rispetto a quelli
rimasti estranei, dacchè, da un lato, non è configurabile un interesse alla sua esecuzione parziale da
parte del promissario acquirente (per mancanza del diritto su cui tale interesse si dovrebbe fondare) e,
dall'altro, il comproprietario promittente venditore che ha espresso il suo consenso (o lo ha espresso
validamente) non oppone un semplice interesse contrario (giuridicamente apprezzabile o meno)
all'avversa richiesta d'esecuzione parziale, ma invoca l'insussistenza stessa del diritto vantato dalla
controparte.
La situazione è diversa ove si verta in tema di comunione legale tra coniugi, quale regolata dagli artt.
177 e 197 c.c..
Fondamentale è stata, al riguardo, la ricostruzione che dell'istituto ha operato la Corte costituzionale
con la sentenza 17.3.88 n. 311, nella quale si è evidenziata la netta distinzione tra comunione
ordinaria e comunione legale tra coniugi, questa configurata come una proprietà plurima parziaria,
per più versi analoga alla classica communio ercto non cito, sulla considerazione:
che trattasi di comunione senza quote; che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di
quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della
comunione; che la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la
misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari, la misura
della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori
della comunione, la proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo e il passivo debbono essere
ripartiti tra i coniugi od i loro eredi.
Configurazione cui consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge ha il potere di disporre dei
beni della comunione e che il consenso dell'altro, richiesto dal modulo dell'amministrazione
congiuntiva adottato dall'art. 180 c.c., comma 2 per gli atti di straordinaria amministrazione, non è un
negozio unilaterale autorizzativo, nel senso d'atto attributivo di un potere, ma piuttosto nel senso,
secondo la nota teoria formulata dalla giuspubblicistica, di atto che rimuove un limite all'esercizio di
un potere e requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui
mancanza, ove si tratti di bene immobile o mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio, onde
l'ipotesi regolata dall'art. 184 c.c., comma 1 tecnicamente si riferisce non ad un caso d'acquisto
inefficace perchè a non domino, bensì ad un caso d'acquisto a domino in base ad un titolo viziato.
Per il che, nella comunione legale tra coniugi, la mancanza del consenso d'uno dei condomini al
negozio avente ad oggetto diritti reali su immobili o mobili registrati non determina, come nella
comunione ordinaria, l'invalidità assoluta del negozio, ma solo la sua annullabilità nello stabilito
termine di prescrizione annuale (e tuttavia, come affermato nella massima CCos. 0010600, la prevista
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annullabilità dell'atto non costituisce deroga al generale principio d'inefficacia degli atti di
disposizione posti in essere da alienante non legittimato, onde da parte della dottrina anche si sostiene
che l'atto posto in essere dal singolo coniuge è colpito dalla sanzione generale dell'inefficacia dell'atto
compiuto dal non legittimato nei confronti del coniuge pretermesso, e che in favore di quest'ultimo si
aggiunge la possibilità d'esperire altresì l'azione speciale d'annullamento ex art. 184 c.c. al fine
d'evitare di rimanere personalmente obbligato per l'inadempimento verso il terzo).
La riportata metodologia ricostruttiva dell'istituto non ha trovato larghi consensi in dottrina - dalla
quale se n'è anche evidenziata l'incoerenza con la ratio della comunione legale, quale introdotta dalla
novella n. 151/1975, come intesa al superamento della discriminazione del coniuge più debole, insita
nel precedente regime della separazione dei beni, ed alla maggiore tutela patrimoniale della famiglia e tuttavia ha costituito la base delle pronunzie adottate in materia dalla successiva giurisprudenza di
legittimità che, non di meno, pur partendo da tale comune presupposto, sulla questione che ne occupa
è pervenuta, come si è visto, a soluzioni diametralmente opposte.
In particolare, la recente Cass. 28.10.04 n. 20867 - ponendosi in consapevole contrasto con la
prevalente giurisprudenza anteriore, in ordine alla quale rileva come l'inevitabile coinvolgimento nel
giudizio ex art. 2932 c.c. del coniuge rimasto estraneo al preliminare vi fosse stato asserito in modo
generico - sulla considerazione che i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota
ma solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni della comunione, che nei rapporti con i
terzi ciascun coniuge ha il potere di disporre dei beni della comunione, che l'azione ex art. 2932 c.c.
non ha natura reale ma personale, perviene alla conclusione per cui in quest'ultima non sia ravvisabile
un'ipotesi di litisconsorzio necessario, non vertendosi in situazione sostanziale caratterizzata da un
rapporto unico ed inscindibile con pluralità di soggetti e non rivestendo, quindi, il coniuge rimasto
estraneo al preliminare, del quale si chiede l'esecuzione in forma specifica, la qualità di parte la cui
presenza in giudizio sia condizione essenziale affinchè la sentenza non venga inutiliter data.
In realtà, di quest'ultimo asserto - che non costituisce affatto una logica conseguenza delle premesse,
atteso anche il carattere di specialità con il quale si pone la normativa regolatrice dell'istituto della
comunione familiare - l'esaminata sentenza non fornisce dimostrazione alcuna, a differenza dai
disattesi precedenti che, affatto generici al riguardo, la contraria opinione fondano su una pluralità
d'argomenti validi, condivisi ed integrati dalla prevalente dottrina.
Non appare, in vero, conclusiva la ragione - mutuata dalle remote Cass. 27.4.82 n. 2635 e 28.12.88 n.
7081 - addotta in considerazione della natura obbligatoria e non reale del preliminare.
Va, infatti, considerato che i richiamati precedenti pervenivano a tale affermazione in funzione della
ritenuta esperibilità dell'azione ex art. 2932 c.c. limitatamente alla quota del coniuge promittente
venditore, tesi disattesa dalla giurisprudenza successiva, con espresso richiamo ai principi posti dal
Giudice delle leggi con la richiamata sentenza 311/88, sulla considerazione dell'inconciliabilità
dell'ingresso d'un estraneo nella comunione familiare con la natura e la disciplina peculiari
dell'istituto (Cass. 2.2.95 n. 1252, 14.1.97 n. 284, 11.4.02 n. 5191, 19.3.03 n. 4033); d'altro canto,
stante il pacifico principio per cui, in tema d'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un
contratto ex art. 2932 c.c., la sentenza che tenga luogo del contratto definitivo non concluso deve
necessariamente riprodurre, nella forma del provvedimento giurisdizionale, il medesimo assetto
d'interessi assunto dalle parti quale contenuto del contratto preliminare, senza possibilità di introdurvi
modifiche (e pluribus, Cass. 29.3.06 n. 7273, 25.2.03 n. 2824, 7.8.02 n. 11874, in tema di comunione
Cass. 1.3.95 n. 2319, 3 0.12.94 n. 11358, 8.7.93 n. 7481, 2.8.90 n. 7749 e, nello specifico, Cass.
19.5.88 n. 3483), una volta che il preliminare abbia avuto ad oggetto l'obbligazione di trasferire
l'intero bene, neppure potrebbe il promissario acquirente agire per il trasferimento della sola quota del
promittente venditore.
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La tesi in discussione, d'altronde, può giustificare, al più, il difetto di legittimazione attiva del
coniuge rimasto estraneo all'atto compiuto dall'altro senza il suo consenso quando trattisi di diritti
d'obbligazione, in quanto la comunione legale fra i coniugi, di cui all'art. 177 c.c., attiene agli
"acquisti", id est agli atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione
di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei
coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all'acquisizione di
una res, non sono suscettibili di cadere in comunione (Cass. 1.4.03 n. 4959, 4.3.03 n. 3185, 13.12.99
n. 13941, 18.2.99 n. 1363, 27.1.95 n. 987, 11.9.91 n. 9513); ma tali ragioni, peraltro fortemente
criticate in dottrina, non possono valere nel caso inverso, laddove, come meglio in seguito,
l'obbligazione del coniuge che ha agito senza il consenso dell'altro è fatta valere dal terzo e
l'adempimento coattivo comporta l'aggressione al patrimonio familiare in generale ed al diritto di
comproprietà del coniuge pretermesso in particolare.
Inoltre, dalla giurisprudenza e da parte della dottrina si è anche evidenziato come, stante il disposto
dell'art. 184 c.c., comma 1, la categoria dei negozi immobiliari, per i quali è previsto il consenso
congiunto dei coniugi, sia da identificare in base alla natura del bene sul quale cadono gli effetti del
contratto, ricomprendendo, quindi, tanto i negozi ad effetti reali quanto quelli ad effetti obbligatori;
come debbasi, ancora, fare riferimento al regime degli effetti, reale o personale che sia l'azione, ai
fini dell'affermazione o meno della necessità del litisconsorzio (Cass. 31.3.06 n. 7698, 6.7.04 n.
12313, 14.5.03 n. 7404, 5.7.01 n. 9083, 1.7.97 n. 5895 SS.UU.).
E', piuttosto, evidente che l'essere ciascun coniuge titolare del bene per l'intero, e dell'intero poter
disporre, non può implicare, di per sè, che debba escludersi la necessaria partecipazione dell'altro
coniuge al giudizio nel quale si discuta della traslazione del bene stesso, evento rispetto al quale non
può negarsi l'interesse ad interloquire del detto altro coniuge, pur sempre comproprietario del bene
stesso.
Partire, infatti, dal presupposto che, al momento dell'introduzione del giudizio ex art. 2932 c.c., il
coniuge promittente venditore abbia già efficacemente alienato il bene, così che il coniuge rimasto
estraneo al negozio abbia perso, contestualmente alla stipulazione del preliminare, la propria
contitolarità sul bene e non possa fare ricorso se non all'azione d'annullamento, oltre ad essere in
palese contrasto con la lettera dello stesso art. 184 c.c., comma 1, che prevede una possibilità di
convalida successiva inconciliabile con una già intervenuta perdita della titolarità del bene, implica
una non condivisibile attribuzione a tale tipo di contratto d'un effetto traslativo, estraneo alla sua
funzione ed alla sua natura, che non gli è riconosciuto neppure da quella parte della dottrina per la
quale esso sarebbe configurabile come una sorta di vendita obbligatoria ed il definitivo come un
semplice atto esecutivo o ripetitivo.
Vero è, per contro, che, stipulato il preliminare, nel momento in cui il coniuge promittente venditore
si rende inadempiente e costringe il promissario acquirente all'azione d'esecuzione specifica, l'altro
coniuge, che non abbia partecipato al negozio nè vi abbia prestato altrimenti il proprio consenso, è
ancora contitolare del bene e su di esso legittimato ad esercitare i suoi poteri d'amministrazione
congiunta; atteso l'effetto solo obbligatorio del preliminare, l'attività negoziale posta in essere dal
coniuge promittente con l'impegnarsi ad alienare non ha prodotto ancora l'effetto di sottrarre il bene
al patrimonio comune ed alla contitolarità su di esso d'entrambi i comproprietari, onde il coniuge
rimasto estraneo al preliminare è ancora titolare d'una situazione giuridica inscindibile che lo rende
litisconsorte necessario nel giudizio d'esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre.
E', infatti, ancora sul piano degli effetti della promossa azione ex art. 2932 c.c. che occorre muoversi
ai fini della soluzione del problema che ne occupa.
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Come evidenziato dalla dottrina prevalente e da quella parte della giurisprudenza che si ritiene qui di
confermare, ove dal preliminare scaturiscano controversie, non può disconoscersi al coniuge rimasto
estraneo al negozio l'interesse a partecipare ai relativi giudizi, in quanto, pur se non è rimasto
personalmente obbligato e se non è corresponsabile assieme al coniuge stipulante, unico obbligato,
tuttavia l'impegno assunto da quest'ultimo e la responsabilità personale del medesimo sono comunque
tali da incidere sul patrimonio comune e sul tenore di vita della famiglia, giacchè, ex art. 189 c.c.,
espongono all'altrui azione esecutiva non solo i beni del promittente ma anche quelli della
comunione, essendo, infatti, la richiesta pronunzia ex art. 2932 c.c., o l'alternativa pronunzia
risarcitoria quanto meno per responsabilità precontrattuale, destinate ad incidere anche sul diritto del
coniuge comproprietario o contitolare non stipulante e sulla consistenza del patrimonio familiare.
Ne consegue l'ineludibile presenza in giudizio del coniuge rimasto estraneo al preliminare, dacchè,
come questa Corte ha ripetutamente evidenziato, si ha litisconsorzio necessario, oltre che nei casi
espressamente previsti dalla legge, allorquando la decisione richiesta, indipendentemente dalla sua
natura (di condanna, d'accertamento o costitutiva), sia di per sè inidonea a spiegare i propri effetti,
cioè a produrre un risultato utile e pratico, anche nei riguardi delle sole parti presenti, stante la natura
plurisoggettiva e concettualmente unica ed inscindibile, sia in senso sostanziale, sia, alle volte, in
senso solo processuale, del rapporto dedotto in giudizio, nel quale i nessi fra i diversi soggetti, e tra
questi e l'oggetto comune, costituiscono un insieme unitario, con conseguente immutabilità del
rapporto medesimo ove non vi sia la partecipazione di tutti i suoi titolari (da ultimo, Cass. 7.3.06 n.
4890, 6.7.04 n. 12313, 23.9.03 n. 14102, 5.7.01 n. 9083, 11.4.00 n. 4593 e 1.7.97 n. 5895 a SS.UU.).
Per altro verso, la necessaria partecipazione del coniuge rimasto estraneo al preliminare va affermata
anche in applicazione dell'art. 180 c.c., dal quale, coerentemente alla ratio della novella che riconosce
quale principio informatore del diritto di famiglia la parità di diritti e doveri tra i coniugi, si stabilisce
che l'amministrazione dei beni della comunione spettano disgiuntamente a ciascuno di essi per gli atti
d'ordinaria amministrazione ma congiuntamente ad entrambi per quelli di straordinaria
amministrazione e per la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali
di godimento nonchè la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi.
Un valido criterio discretivo tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione generalmente accolto
è quello della normalità dell'atto di gestione, che viene travalicata ove questo comporti un rischio di
pregiudizio sulla consistenza del patrimonio o la possibilità d'alterazione della sua struttura, per il che
a determinare il discrimine non è tanto il contenuto, modesto o rilevante, dell'atto, quanto piuttosto la
sua finalità ed il suo effetto; onde può dirsi che, in linea di massima e rapportando comunque il
criterio a ciascun singolo caso concreto, ove il negozio sia per sua natura intrinsecamente idoneo ad
alterare la consistenza del patrimonio, a pregiudicarne le potenzialità economiche, a sottrarne o
modificarne elementi costitutivi, esso è di straordinaria amministrazione, mentre è di ordinaria
amministrazione ove sia tendenzialmente idoneo a conservare la consistenza quantitativa del
patrimonio pur se rischioso.
Alla luce di tale criterio, non si può non riconoscere carattere pregiudizievole al contratto anche solo
ad efficacia obbligatoria, in quanto potenzialmente idoneo ad incidere sulla consistenza del
patrimonio dello stipulante; in particolare, carattere siffatto va riconosciuto al contratto preliminare di
vendita, che, come è stato evidenziato in dottrina ed in giurisprudenza, si pone quale momento
originario d'una serie obbligatoria consequenziale e successiva, il cui esito finale necessitato è il
trasferimento della proprietà del bene promesso in vendita, sì che, in ragione dell'effetto conclusivo
della sequenza, tale contratto, che alla serie obbligatoria da inizio, va considerato atto eccedente
l'ordinaria amministrazione.
Anche il contratto preliminare può avere, dunque, una rilevanza pregiudizievole sulla consistenza
patrimoniale della comunione e sulle condizioni di vita della famiglia, in considerazione
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dell'obbligazione assunta dal disponente, che pur vincola unicamente costui, e della responsabilità
dello stesso per l'inadempimento;
onde il contratto preliminare di vendita di bene immobile in regime di comunione legale costituisce
negozio eccedente l'ordinaria amministrazione e, per il richiamato espresso disposto dell'art. 180 c.c.,
comma 2, le azioni che da esso traggono origine richiedono la presenza in giudizio d'entrambi i
coniugi.
In definitiva, per tutte le esposte ragioni, devesi ritenere che nell'azione ex art. 2932 c.c. promossa dal
promissario acquirente, per l'adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento
precontrattuale, nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comunione dei
beni, abbia stipulato senza il consenso dell'altro coniuge, quest'ultimo sia litisconsorte necessario;
che, di conseguenza, ove il coniuge rimasto estraneo alla stipulazione del preliminare non sia stato
convenuto in giudizio unitamente al coniuge stipulante e nei suoi confronti non sia stato integrato il
contraddittorio, il giudizio svoltosi sia nullo e debba essere, pertanto, nuovamente celebrato a
contraddittorio integro.
Nella specie, deve, dunque, essere dichiarata la nullità delle sentenze di primo e di secondo grado,
con conseguente rinvio della causa, ex art. 383 c.p.c., u.c., al Tribunale di Firenze il quale provvedere
anche sulle spese, comprese quelle della presente fase del giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE riuniti i ricorsi, accoglie il primo motivo del principale, assorbiti gli altri e l'incidentale,
cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, al tribunale di Firenze.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2007
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