Perù

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Perù
Da Cuzco al Machu Picchu
benvenuti a Gringo Alley
di Jasmina Trifoni - da Meridiani 2002
Da Cusco al Machu Pichu
Dalla “strada degli americani” di Cusco alla paccottiglia di Aguas Caliente vi raccontiamo gioie e dolori
di una vacanza in agosto nei luoghi più famosi del
Perù.
Speravo che, ad agosto, gli emuli degli Inti Illimani
fossero tutti in vacanza in Europa, a deliziare con
flauti e chitarrine i turisti davanti a Santa Maria Novella o gli ultimi milanesi superstiti in corso Vittorio
Emanuele.
Invece no. Ne incontro subito un complessino anche
qui, che contribuisce a "permeare di colore locale"
l'atmosfera di chi sgomita per ritirare i bagagli nell'area arrivi dell'aeroporto di Cusco.
Noterò presto che a Cusco i "tipici musicanti andini"
sono un esercito, molto allegro ma non per questo
meno micidiale. Il loro repertorio è, a esser benevoli,
bislacco: a parte El condor pasa - una canzone che
è una sorta di inno nazionale - azzardano arrangiamenti di Guantanamera e persino di Let it be dei
Beatles. Per la gioia, si fa per dire, dei turisti. Già, i
turisti.
Arrivandoci ad agosto, si ha la netta impressione
che siano tutti qui. Il motivo c'è, claro. Cusco è una
città bellissima.
La Plaza de Armas, al calar della sera, quando si accendono le luci sulla Cattedrale e sulla Chiesa della
Companía, è uno spettacolo. A quell'ora le indie fasulle non ti chiedono più l'obolo o propina, come dicono loro, per farsi fotografare.
I bambini non insistono più di tanto per venderti le
cartoline. E la gran parte degli stranieri è nei bar,
sotto i portici della piazza, a sorseggiare il pisco
sour, il cocktail nazionale (il primo ti rende più simpatico, il secondo ti sega le gambe).
Oppure si è già incuneata nel vicolo, fitto di risto-
rantini, che i locali, fregandosi le mani, hanno ribattezzato Gringo Alley, la "strada degli americani".
Per onore di cronaca, in Perú vi chiamano gringo
anche se siete latini di lunga data. Dicevamo, la bellezza di Cusco...
È un insieme di architettura coloniale e spesse mura
inca, un melting pot architettonico che, a pensarci
bene, è più azzardato - e storicamente più doloroso
- di quello che ci fa trovare sullo stesso menu il cuy
arrosto (il roditore che qui è considerato una prelibatezza), la pizza e le lasagne bolognesi.
O di quello che fa ascoltare, da una radio, una canzone di Laura Pausini - amatissima - ai restauratori
che lavorano all'altare della Cattedrale.
E che dire della bellezza dei dipinti della famosa
Escuela Cusquena, che ammiro nel Museo de Arte
Religioso, e che poi ritrovo, a colori più brillanti e
privi del fascino del tempo, nelle botteghe del pittoresco quartiere artigiano di San Blàs.
Qui, per merito della mia malsana cupidigia nei confronti delle "cose vecchie", devio, per la prima volta,
dalla Cusco dei turisti.
Entro in una bottega, e chiedo se sia possibile comprare un quadro antico. « Noooo, è vietato dalla
legge», strepita il proprietario.
Poi, con aria da cospiratore, sussurra che, se voglio,
mi può portare a casa di un suo amico d'antica stirpe
cusqueña che, visti i tempi che corrono, potrebbe
essere interessato a vendermi un cimelio di famiglia.
Ed eccomi su un taxi, con il bottegaio señor Pepe,
nel traffico improponibile di Cusco.
Fino a una casa nei sobborghi e poi in un salotto
così farcito di ninnoli da far sembrare quello della
signorina Felicita del Gozzano un ambiente minimal
chic.
In poltrona c'è un vecchio signore che, con fare solenne, ordina alla domestica di andare a prendere in
cantina un crocifisso di legno dipinto usato dai gesuiti, nel Seicento, per convertire gli indios.
È un oggetto bellissimo. E carissimo. Non mi spiego
perché non se lo appenda in salotto, al posto della
gigantografia di uno chalet svizzero che troneggia
sopra il tavolo da pranzo.
degli inca seguendo 1"avventuroso" Inca Trail. Ma un
amico, che da anni lavora in Perú, mi aveva detto
che ad agosto è talmente affollato che, più che ammirare il paesaggio, devi guardare dove metti i piedi
per non incespicare nelle caviglie di chi ti sta davanti.
Contratto fino a metà della cifra richiesta. Poi dico
che ci devo pensare. Tanto, c'è tempo. Tra un paio
di giorni andrò a Machu Picchu, e poi mi fermerò
ancora in città.
Aguas Calientes meriterebbe un trattato socioestetico di un esperto del kitsch. È un concentrato artificiale del Perú: un groviglio di bancarelle che vendono finti idoli inca, cappellini di alpaca e altra paccottiglia, costruzioni cresciute troppo in fretta, approssimativi alberghi da 20 soles la doppia e ristoranti che si fanno la guerra l'un l'altro offrendo pisco
sour gratis, oppure birra e bruschetta con l'aglio, a
chi ordina un pasto.
Se è deluso, il senor Pepe non lo dà a vedere.
Mi riaccompagna a San Blas, dove, mentre passeggio, vengo fermata da un tizio che, guardando la
mia macchina fotografica, mi chiede se è un attrezzo professionale, e se sono una periodista.
C'è anche Govinda, un localino indiano che serve cucina vegetariana "secondo i dettami dei Veda" e, dice
l'insegna, ha filiali a Bombay e New York.
Da Aguas Calientes parte l'autobus che sale, prima
dell'alba, al Machu Picchu.
Sorride, si presenta come "collega" e, chiacchierando, si offre di accompagnarmi, l'indomani, in un villaggio noto per i suoi curanderos, i guaritori andini.
Un percorso di un quarto d'ora che costa l'oltraggiosa
cifra di 9 dollari, ai quali vanno aggiunti i 20 per l'ingresso al sito. Ma ne vale la pena, anche se il poliziotto con cui faccio amicizia, mentre, col freddo nelle ossa, attendo che la nebbia mattutina si diradi, si
lamenta che tutti questi soldi vanno a Lima per poi
perdersi chissà dove.
Mi dà appuntamento davanti al suo posto di lavoro
di cui mi fornisce l'indirizzo. Così, il mattino dopo,
scopro che il collega fa il materassaio. Poco importa,
perché il villaggio dei curanderos è un posto fantastico.
Ci sono centinaia di indios in coda per farsi leggere
il futuro nelle foglie di coca o nelle viscere del cuy,
per farsi togliere il malocchio, farsi prescrivere l'urinoterapia (un toccasana, dicono, per molti mali) o
per richiedere un propiziatorio tributo alla divinità
inca Pacha Mama.
Presa dall'entusiasmo, mi metto in fila. Quando arrivo al cospetto del curandero, lui getta in aria le foglie di coca e prevede che avrò successo nella vita
quando andrò in un posto che dista da quello dove
vivo come Cusco da Arequipa, e lì avvierò un'attività
in proprio. Tremo, al pensiero che nel futuro venderò
materassi a Rovigo... Ma è meglio fugare oscuri presagi.
Arriva il giorno del viaggio in treno fino ad Aguas Calientes, il villaggio più vicino al Machu Picchu.
D'accordo, avrei potuto arrivare alla cittadella sacra
E lui, per star qui da mane a sera, ne guadagna 100
in un mese. Con me, ci sono migliaia di persone, sedute sulle terrazze degli incas come se fossero sugli
spalti di uno stadio a guardare questa montagna che
si è già vista mille volte sui libri e sulle cartoline.
Sarà, di nuovo, perché è agosto, ma l'atmosfera è
quella del derby a cinque minuti dal fischio d'inizio.
Appena sorge il sole, un turista inglese con la maglia
del Manchester United fa sventolare con fierezza un
bandierone della sua squadra e tutti, come un sol
uomo, partono all'arrembaggio della cittadella. Ansimando, si sale, si scende, ci s'infila nei resti degli antichi edifici cerimoniali. I seguaci della New Age - e
anche quelli sono tanti, troppi - si sdraiano sulla Pietra del Sole, per catturare l'energia delle divinità inca.
Altri, più prosaicamente, si accasciano sul prato,
togliendosi le scarpe fino a quando un poliziotto
sbraita di rimettersele, perché «Son las normas», e
poi non si vorrà mica mancare di rispetto al luogo
sacro, vero?
Dopo mezza giornata, posso dire di essere soddisfatta della mia visita. Ho visto tutto ciò che "si deve
vedere". Da adesso, e fino alla fine del viaggio,
potrò vagabondare per il Perú.
Il mio amico Alessandro, lo stesso che mi ha fatto
risparmiare l'Inca Trail, mi aveva raccontato che un
giorno, in un incontro ufficiale con il ministro del
Turismo peruviano, si era azzardato a dirgli: «Il
vostro problema è che avete Cusco e Machu Picchu,
due galline dalle uova d'oro che vi fanno dimenticare
che c'è tutto un mondo intorno».
Il ministro l'aveva guardato con sdegno. Avrà pensato: pazzo di un italiano... Caro Alessandro, avevi
ragione. L'altro Perú ha tante storie vere da raccontare. Senza turisti. E persino in agosto.
PS. Il crocifisso del Seicento, alla fine, non l'ho
comprato. E me ne pento. Durante il viaggio mi
hanno rubato la macchina fotografica professionale.
In compenso, faccio ancora la periodista. Almeno
per ora, ho a che fare con i materassi solo quando
vado a dormire.