primi 3 capitoli del libro

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primi 3 capitoli del libro
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LE TORPEDINI
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© 2012 Luis Devin
www.luisdevin.com
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Pubblicato in accordo con Marco Vigevani Agenzia Letteraria
I edizione: gennaio 2012
© 2012 Lit Edizioni Srl
Largo Giacomo Matteotti, 1
Castel Gandolfo (RM)
Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni
Sede operativa: Via Isonzo, 34 – 00198 Roma
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Cover: Sandokan Studio
Immagine di copertina: © Luis Devin
Luis Devin
La foresta ti ha
Storia di un’iniziazione
Ad Atemè
e a tutti i Baka,
figli della foresta
e generosi custodi
dei suoi segreti
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È un attimo.
Tutto ti succede davanti. Intorno. Dentro.
Un attimo dopo è tutto finito.
Le grida della gente non fanno rumore, adesso, i tamburi vibrano sotto le mani senza emettere un suono. E anche gli occhi dello
Spirito della Foresta, le sue grandi palpebre che si aprono e si
chiudono schioccando come frustate sulla pelle, anche quelli non
li senti più.
Atemè diceva sempre che ciò che siamo veramente, quello che
diventiamo quando il battito del nostro cuore è più forte dei tamburi è qualcuno che neanche noi conosciamo.
Io e gli altri, i ragazzi qui vicino a me, non abbiamo più fiato. Il
tempo comincia già a rallentare, rimane impigliato ai rami degli
alberi.
Ci sono pozze di sangue nero che scompare sotto terra. Pugnali
buttati nell’erba alta, gli insetti che ci volano sopra.
Con la faccia e le mani nel fango cerchiamo dentro di noi quello
che i Baka chiamano njele. Il coraggio feroce. La furia del leopardo
ferito alla zampa da una trappola, il morso del gorilla che protegge
il suo branco.
La rabbia sepolta in ognuno di noi che ci consente di non crollare, di andare avanti nonostante tutto.
Dobbiamo solo trattenere il cuore più forte che possiamo, hanno
detto gli anziani, dobbiamo impedire che salga troppo in alto, che si
arrampichi fino alla gola.
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LUIS DEVIN
I nostri corpi nudi, le braccia dipinte di rosso, le spalle, il vuoto
geometrico dei disegni sulle nostre teste rasate e le gambe, tutto
l’involucro di pelle che ci riveste è coperto da gocce di sangue e rugiada. Olio di palma. Saliva.
È quasi giorno nella foresta e da qualche parte striscia il serpente azzurro di un fiume. Ci sono nuvole incollate alle colline, laghi
rotondi come occhi.
Le donne all’accampamento non hanno ancora smesso di cantare. Le nostre madri, le nostre sorelle. Loro cantano per farci coraggio, ma non sanno esattamente quello che succede quaggiù. E per
noi sono voci lontane, voci che il vento ci soffia addosso come da
un altro tempo, da un’altra vita. Sono suoni di un mondo ordinato
e rassicurante fatto di cacce alla scimmia, capanne di foglie, raccolte di miele sugli alberi per il padre della donna che vorresti sposare e denti limati per essere più belli, un mondo di ruoli e finzioni
al quale abbiamo smesso all’improvviso di appartenere.
Dove siamo adesso è diverso. Qui nel ventre della foresta, nella
zona segreta dove gli anziani ci hanno portato per fare di noi degli
uomini, ogni cosa è fluida, in trasformazione. Ogni parola ha il tono di una profezia. Ogni rumore, fino al più piccolo fruscio, è il presentimento di una fine.
Il mondo non è più lo stesso, nella zona segreta, e noi non abbiamo più un nome, non abbiamo uno scopo. Stiamo scomparendo,
ma al tempo stesso possiamo prendere qualsiasi forma. Diventare
qualsiasi cosa.
Siamo come l’acqua. Siamo argilla appena raccolta in un buco
scavando con le mani e con il machete. Siamo metallo fuso in attesa di colare in uno stampo.
Stanotte gli anziani sono venuti alla grande capanna. Con loro
c’era Jenghi, il potente Spirito della Foresta, e c’erano i nostri padrini rituali. I padrini ci hanno preso sulle spalle e si sono messi a correre oltre il confine invalicabile, il sipario di foglie che le donne e i
bambini e gli stranieri non possono superare, e poi giù per il sentiero proibito, fino a questa piccola radura infestata di liane e di spine.
I nostri padrini ci hanno lasciato per terra.
Hanno aspettato con noi fino alla fine, controllando che tutto si
svolgesse secondo quanto insegnato dai padri dei padri, la gente di
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prima, gli antenati. Hanno sofferto con noi. Per giorni i padrini sono
stati le nostre guide, ci hanno aiutato nei rituali e protetto da ciò che
è male. Malattie. Stregoneria. Spiriti malvagi.
Quando Jenghi è apparso nella radura abbiamo dovuto chiudere
gli occhi.
Abbiamo dovuto trattenere il respiro.
Non potevamo vederlo, ma sapevamo che era lì, proprio davanti
a noi, sapevamo che non c’era scampo.
Il grande Spirito della Foresta.
Il grande plasmatore, l’onnipotente forgiatore di uomini.
Il padre di tutti i pigmei.
Era lì, sotto il suo vestito di foglie acuminate e chiare, e un istante dopo ce l’avevamo già addosso. Con i suoi coltelli. Con il suo odore di erba, di legna bagnata, di foresta. Il grande Spirito aveva deciso che i ragazzi sarebbero morti tutti, dal primo all’ultimo.
Nascosto nel suo vestito vegetale, sbattendo le enormi e misteriose palpebre, lo Spirito si è chinato su di noi.
Gli anziani stavano ancora gridando e battendo le pelli d’antilope dei tamburi.
E tutto ha perso consistenza.
Dai rami più alti alle radici degli alberi la foresta si è sciolta in
una colata rossa bollente e di noi non è rimasto che il ritmo martellante del cuore.
Proprio come aveva detto Atemè.
Tutta la nostra vita fino a quel momento, tutto quello che abbiamo fatto e che siamo stati, in quel momento non ha più avuto importanza.
Ora un uomo che chiamano padre di Jenghi e un uomo che chiamano interprete di Jenghi e altri uomini ancora risaliranno il sentiero, attraverseranno il confine invalicabile e arrivati all’accampamento daranno l’annuncio. Diranno che lo Spirito era in collera. Alla gente che attende l’esito della prova diranno che non c’è stato nulla da fare, che alla fine Jenghi ci ha ucciso. Laggiù, nella radura segreta. Gli anziani diranno che i ragazzi sono rimasti a terra con la
pancia aperta, immobili come animali abbattuti, pezzi di carne dipinta e buttata nel fango.
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LUIS DEVIN
I ragazzi che solo pochi giorni fa erano entrati nella grande capanna senza sapere cosa li attendeva.
Quelli che sono stati spogliati, lavati, cosparsi di unguenti e paste colorate. Che sono stati benedetti con la saliva delle donne e col
sangue del dio Komba.
Noi, i candidati all’iniziazione.
Potremo rinascere una seconda volta?
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«Forgiare l’uomo», dice la voce dagli altoparlanti.
«Dargli una forma. Modellarlo…».
La ragazza seduta di fianco a me scrive tutto su fogli rosa, sottolinea frasi e parole con pennarelli colorati a punta fine. Mi allungo
per leggere i suoi appunti e capire se sono entrato nel posto giusto,
mentre la voce dagli altoparlanti dice: «Modellare l’uomo come un
vaso d’argilla, dalla materia molle e indifferenziata…».
Silenzio.
In una giacca appesa alla parete posteriore della sala vibra un
cellulare. Qualcuno dà un colpo di tosse nelle prime file.
La ragazza mi fa vedere il quaderno ad anelli con i fogli divisi per
argomento da segnapagina fluorescenti, intanto si dà una passata
di burro di cacao sulle labbra.
«Plasmare il corpo e i pensieri secondo uno specifico modello di
umanità», riprende la voce. «Così, operando scelte arbitrarie nel
novero infinito delle possibilità, la cultura cerca di colmare il vuoto
insito nella natura umana…».
Centinaia di penne scorrono all’unisono sui fogli.
«Così, nel sottoporsi ai riti d’iniziazione, i ragazzi sperimentano
una seconda nascita. Una nascita non più biologica, ma sociale…».
Inverno. Cinque gradi sotto zero.
Credo che tutto abbia avuto inizio in quel momento.
Il professore, stimato antropologo, col microfono in mano, stagliato su un’immensa foresta equatoriale proiettata alle sue spalle.
Io come altri, capitato lì quasi per caso.
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Io come altri, a guardare quelle immagini sul fondale dell’aula a
gradoni, ad ascoltare quelle parole dai tanti piccoli diffusori appesi
alle pareti. E dopo la descrizione di non so più che rituale di non so
più che popolazione, nessuno guardando fuori dalle vetrate della
sala avrebbe più visto la neve e i palazzi e la Mole Antonelliana e lo
smog sulla città e l’arco alpino all’orizzonte.
Intorno a noi c’erano alberi foreste pianure capanne e l’Africa
come ognuno voleva immaginarsela.
«Isolati dal resto della comunità», aveva continuato il professore, «i candidati all’iniziazione restano per un periodo di tempo in
uno status intermedio, indefinito…».
Il cosiddetto periodo di margine.
Dagli altoparlanti, il professore aveva spiegato che i candidati
non venivano più trattati come membri effettivi della comunità,
erano vestiti in modo differente, si comportavano in modo differente. A volte potevano anche trasgredire le più semplici regole sociali. D’altronde, l’alterità della nuova situazione portava i ragazzi
a riflettere su loro stessi, sulla loro società, magari sul carattere fittizio delle proprie costruzioni culturali.
Nell’aula a gradoni con centinaia di studenti fin sulle scale. Non
un fiato. Non un bisbiglio.
Il professore parlava dell’uomo come animale incompiuto.
Della sua cronica incompletezza.
E quello che diceva il professore dei candidati all’iniziazione, del
loro affrontare le prove con coraggio, dell’andare in foresta a morire e rinascere ritualmente come adulti, del lasciarsi smontare e rimontare dagli anziani e dalla propria cultura e alla fine sentire di
far parte di un gruppo, per sempre, beh, avrei dato qualsiasi cosa
per vivere anch’io tutto questo.
Il professore aveva già spento il microfono.
Gli studenti stavano sfollando la sala, i libri sottobraccio, le sigarette in bocca non ancora accese.
L’inverno e la città, fuori ad aspettarli.
Poi un breve fischio assordante, il battito di un polpastrello sulla
griglia protettiva della capsula a condensatore, toc-toc, il professore aveva riacceso il microfono e aveva detto che chi era interessato
a fare ricerca sul campo poteva andare a parlargli nel suo studio.
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Aveva detto che c’era in ballo un certo progetto di ricerca in Africa
equatoriale. Che c’era da andare anche in regioni poco accessibili.
Ma solo per i più avventurosi.
Non per antropologi da biblioteca.
Il giorno dopo ero davanti alla sua porta. La settimana dopo in
segreteria, a cambiare il piano di studi. Adesso sono qui, in Africa
centrale. E solo adesso, dopo tutti questi anni e muovendo i primi
passi nella foresta, mi viene in mente che partecipare a un rito di
iniziazione è esattamente ciò che mi ero immaginato quel giorno, a
quella prima lezione di antropologia culturale.
Con il mio zaino in cordura verde impermeabilizzata mi avvicino a un accampamento pigmeo.
Sono in viaggio da giorni. Finora non mi ero mai allontanato
troppo dalle grandi piste, le strade di terra rossa che attraversano la
foresta. Ieri però ho conosciuto queste suore francesi, vivono qui
da trent’anni, in una missione. E loro mi hanno parlato di una famiglia pigmea, di un piccolo gruppo di Baka che forse potrebbe
ospitarmi. L’idea è quella di raggiungere il loro accampamento in
foresta e chiedere cosa ne pensano, se posso restare con loro per
qualche mese. O almeno per stanotte.
Non sapendo quale sarà la sistemazione finale, ho riempito lo
zaino di scatole di sardine e riso e bottiglie d’acqua. In mezzo alle
sardine ci sono altre cose che al momento sembrano indispensabili, il materassino autogonfiante con kit di riparazione incluso, la
bussola professionale in bagno d’olio e base in gomma antisdrucciolo. Tutta roba che sono convinto mi servirà, la pomata per le
scottature equatoriali, il coltellino svizzero con una quantità di utilissimi accessori come il cavatappi e lo stuzzicadenti.
Con me ho persino una specie di passamontagna, un cappuccio
da mettere in testa in tessuto traforato tipo zanzariera, per proteggermi dalle punture d’insetto.
Il dottore del Centro vaccinazioni internazionali dell’Ufficio d’igiene di Torino, il giovane medico con gli occhialetti rotondi e
l’hobby della cucina, lui insisteva sempre sulla profilassi comportamentale. Diceva che le anofili sono zanzare subdole. Silenziosissime. Che di notte mi sarei dovuto coprire anche le mani e la faccia,
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se non volevo prendermi la malaria. O la febbre gialla. O anche solo
la febbre chikungunya, quella che ti fa contorcere tutto e vomitare.
È per questo che ho comprato il cappuccio.
Ho anche dei fiammiferi impermeabilizzati presi in uno di quei
negozi di trekking estremo. Ero così contento di averli trovati.
Le cartine super-dettagliate dell’Institut Géographique National
comprate a Parigi. Come se la zona in cui mi trovo non fosse immancabilmente una macchia verde, un’area data per disabitata su
qualsiasi mappa.
E poi la siringa a decompressione, quella per aspirare il veleno di
ragni e serpenti. La tengo nella tasca esterna dello zaino a portata
di mano, non si sa mai. Nella scatola ci sono cinque punte intercambiabili a seconda della forma del morso. Davvero ingegnosa,
non vedi l’ora di usarla tanto funziona bene.
Ho già bevuto metà della mia riserva di acqua, da stamattina.
Sul sentiero che porta all’accampamento, qualche metro davanti a
me camminano due ragazzi pigmei. Si chiamano Andomba e
Njakè. Sono state le suore a presentarmeli.
Mi fanno capire a gesti che ci siamo quasi.
In cima allo zaino, dentro custodie ermetiche e impermeabili,
ho messo le attrezzature per studiare la musica dei Baka, l’oggetto
principale delle mie ricerche. Microfoni, registratori digitali, batterie, metà dello spazio è occupato da alimentatori a rete che da giorni non posso più utilizzare.
Quando arriviamo all’accampamento è pomeriggio inoltrato e
io ho in mano un sacchetto di sale e delle cipolle, le suore mi hanno
suggerito di portare qualcosa alla donna più anziana del gruppo. Il
suo nome è Folì, hanno detto le suore. Dovrebbe essere una potente
guaritrice, una che conosce le piante e i segreti della foresta. Non
vedo l’ora di incontrarla, di darle il regalo, di dire qualcosa a qualcuno e vedere che succede. Mi lasceranno montare la tenda qui?
Riuscirò a comunicare con questa gente?
Mi fermo sul sentiero, dove finisce la vegetazione e la strada si
allarga.
L’accampamento è una piccola radura circondata da alberi che si
ricongiungono a più di trenta metri d’altezza, oscurando gran parte
del cielo. Ci sono capanne rotonde interamente ricoperte di foglie,
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come quelle che ho visto sui libri. Davanti ad ogni capanna c’è un
fuoco con intorno donne che pestano il cibo nei mortai, donne che
spostano pentole sulla brace, donne con le tette lunghe e sottili come
lingue di cane che pendono sulla pancia.
Laggiù verso il centro della radura, un gruppo di persone discute sotto una tettoia di foglie, una specie di capanna senza pareti.
Dev’essere il luogo in cui gli uomini si riuniscono e parlano delle
questioni del gruppo. Di fianco alla tettoia c’è un enorme albero
abbattuto e qualcuno sta affilando un machete con una lima.
E poi bambini. Bambini dappertutto che giocano per terra tra le
capanne, che ridono e piangono e cantano battendo le mani.
Profumo di resina che brucia insieme alla legna.
«Nga kè!», gridano Andomba e Njakè avanzando nella radura,
forse un modo per segnalare il nostro arrivo.
Andomba si volta verso di me e dice: «Oka!». Mi fa un cenno, come a dire di seguirlo, di non avere paura a entrare. E in quel momento le donne accanto al fuoco, quelle dietro i mortai e la gente
sotto la tettoia di foglie e l’uomo con il machete e i bambini si voltano tutti verso di noi.
L’intero accampamento piomba nel silenzio.
Arrivando dalla foresta, la sensazione è quella di un luogo protettivo. Sicuro.
La sensazione, inaspettata, è di essere arrivato a casa.
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Atemè scuote la testa.
«Sei qui da quanto, una luna? Due lune?», dice. «E non hai ancora imparato questa parola, ndakó».
Non mi guarda neanche. Fissa la brace ai suoi piedi, gli occhi e la
bocca spalancati all’inverosimile.
Ndaaa – kó.
Nnnnnnnnnnndaaa – kó!
Non so perché ma questa proprio non mi entra. E dire che Atemè
la ripete tutti i giorni. Atemè, cacciatore del clan della liana che è
come la lingua della pantera, cioè ruvida, figlio primogenito della
vecchia Folì e uomo tra i più rispettati dell’accampamento e della
foresta circostante fino alla grande acqua, il fiume dove la gente
mette le trappole quando ha fame di carne di coccodrillo, forse
Atemè vuole che io faccia qualcosa.
Ma cosa?
Si sfrega un dito sui baffetti neri, nel punto in cui si è appena posato un insetto.
Dopo mesi di convivenza, lui e gli altri mi hanno insegnato centinaia di parole e io ho già riempito quaderni di appunti, disegni, tabelle. Non che io capisca sempre tutto quello che mi dicono, o che
abbia smesso di esprimermi a gesti. Anzi, i miei discorsi sono ancora dei balbettii, sono mani che disegnano oggetti nell’aria, muscoli
facciali tirati in ogni direzione possibile. Più qualche termine in
francese. Qualcuno lo capisce. I Baka che sono stati più tempo con i
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missionari, per esempio, con le suore. Quelli che tutte le settimane
ascoltano la storia di Gesù. O quelli che hanno lavorato per la gente
che taglia la foresta o per l’altra gente che spara agli elefanti, i bianchi della segheria e dei safari.
Comunque ora ricordo, ndakó vuol dire ‘tabacco’.
«Se vuoi diventare un vero uomo della foresta», mi dice Atemè,
«non puoi dimenticarti quella parola». Gli altri se la ridono. Atemè
invece sta ancora aspettando.
Siamo seduti su lunghi tronchi appoggiati a terra, nella capanna
comune senza pareti.
Devo solo smettere di scrivere e infilare le mani nello zaino e tirare fuori il sacrosanto tabacco. Ci vuole tanto?, sembra dirmi
Atemè inarcando le sopracciglia.
Le foglie di tabacco sono finite, dico io, però ci sono ancora le sigarette. Quelle che ho comprato per loro sulla grande pista, dove
vivono i Bantu. Atemè è velocissimo a prendere tutto il pacchetto.
Dice che ci pensa lui a distribuirle agli altri.
Mi dice: «Amico mio». Raccogliendo un tizzone dal fuoco che
brucia davanti a noi, posando la punta di una sigaretta sul tizzone,
dice: «Presto potrai mostrare il tuo coraggio».
Aspira una boccata lunghissima di fumo.
E dice: «Sei venuto qui per imparare i nostri canti, per capire come si battono i tamburi…».
I fratelli minori di Atemè, suo figlio Andomba, il vecchio Dwè,
tutti gli uomini annuiscono. Annuisco anche io, senza sapere dove
vogliamo arrivare.
«Hai lasciato la tua foresta per venire a vivere nella nostra foresta. Per restare con noi…».
Gli altri fanno mm-mmh. Dicono: «È una bella cosa».
Non avendo mai visto altro che la foresta e qualche villaggio, i
Baka immaginano il mondo come interamente ricoperto di alberi.
Alberi a perdita d’occhio. In ogni direzione.
«E hai smesso da tempo di cacciare gli animali delle tue parti…», mi dice.
Piccioni e gatti randagi. Ratti. È tutto quello che mi viene in
mente pensando agli animali della mia foresta.
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«Bene», dice Atemè. «Presto potrai mettere di nuovo alla prova il
tuo cuore». Si appoggia con la schiena a un palo della capanna, fuma, non aggiunge altro.
È in quel momento che nell’accampamento irrompono voci, sghignazzi, frammenti di canto subito interrotti. Sono le donne che rientrano dalla raccolta, ci passano vicino con in mano il machete, le
grandi ceste sulla schiena, le cinghie di sostegno delle ceste che girano intorno alla fronte. Ogni volta che vanno in foresta, queste donne
trovano una quantità di prodotti interessanti, e io devo essere pronto
a prendere nota di ogni cosa, devo fare delle foto, documentare tutto.
Tra queste donne c’è anche Yawè, la moglie di Atemè.
Si sfila la cesta di dosso e comincia a tirare fuori enormi foglie di
ngongó, foglie così verdi e lucide che sembrano finte, di plastica. I
Baka le usano come tegole per le capanne, come vassoi, piatti per
mangiare, imbuti, bicchieri, ventagli, e mille altre cose. Come presine isolanti per sollevare le pentole bollenti. Come materiale da
imballaggio.
Yawè ci mette sopra i prodotti raccolti.
Ignami.
Lumache giganti.
Ciuffi di arachidi ancora interrate.
E uno, due, tre, quattro pacchetti misteriosi. Fatti anche quelli
con le foglie di ngongó, è chiaro. Ogni pacchetto contiene meraviglie che solo un Baka può comprendere veramente.
Quando mi avvicino a Yawè veniamo subito circondati da una
piccola folla, gente che si diverte un mondo a guardarmi nascosto
dietro il mio nido dei lampi, la fotocamera con il flash, persone che
ogni volta si sbellicano per le domande che faccio, per le espressioni di stupore che metto su davanti alle cose più normali e ordinarie.
Una rotula di elefante usata per sminuzzare semi sul tagliere.
Una termite viva in bocca, che non riesco a masticare.
Quello scopino che Atemè pianta nel terreno dalla parte del manico, che ricopre con farina di manioca, il tutto come rituale per
impedire alla pioggia di sorprenderlo durante un viaggio in foresta.
Un giorno vado dietro all’accampamento e raccolgo dei torsoli
di pannocchia. Mi chiedo dove le hanno trovate, le pannocchie, forse in una piantagione bantu. Insomma prendo i torsoli in mano e li
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porto alla mia tenda, comincio a fotografarli da tutte le angolazioni, tanto per documentare la dieta pigmea.
Li uso anche per accendere il fuoco, sono belli secchi.
Già che ci sono ci appoggio sopra i plantani, per cuocerli alla
brace come ho visto fare da Atemè.
La gente mi guarda.
Più tardi viene fuori che i torsoli di pannocchia li usano per pulire
i bambini. Cioè, li sfregano sul culo dei bambini dopo che hanno fatto la cacca, su e giù. Grattano via. Poi li buttano dietro alle capanne.
La gente se lo racconta ancora adesso, quando mi vede mangiare
un plantano.
I pacchetti di foglie di Yawè, dicevo. Yawè li dispone sul terreno
e li apre lentamente, poco alla volta, come per creare un’atmosfera
di attesa. Le mani della donna sciolgono il nodo che tiene legato il
primo pacchetto. Piano piano.
Le foglie si schiudono.
Tutti allungano il collo per guardare che c’è, dentro a queste foglie.
E tutti dicono: «Oh».
Anch’io guardo, prima il pacchetto, poi la faccia di Yawè e quella
della gente in piedi intorno a noi, che a sua volta mi osserva. E in
questo gioco di sguardi è sempre più evidente che non sono solo io
a studiare loro, anche loro mi studiano, cercano di capire cosa mi
passa per la testa.
Scrivo sul quaderno. Primo pacchetto: funghi.
Nome dei funghi? Eventuali usi rituali?
«Prendine uno», mi incoraggia Yawè. Si mette le dita in bocca, il
gesto per dire di mangiarlo. Allora io raccolgo un fungo da terra.
Dopo averlo annusato e toccato con la punta della lingua do un piccolo morso al bordo del cappello.
Scroscio di risate.
Nel divertimento generale per me incomprensibile si fanno battute che non capisco. Cerco di cogliere indizi nei volti, mi sforzo di
riconoscere il suono delle parole.
Non dovevo mangiarlo?, chiedo.
Esamino di nuovo il fungo che ho in mano. È marrone, profuma
di muschio e di muffa.
Provo ad assaggiarne un altro pezzo.
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LUIS DEVIN
Questa volta non faccio in tempo ad addentarlo che la gente si sta
già rotolando per terra. Anche un gruppo di anziane arrivate nel
frattempo dall’accampamento vicino, anche loro ridono come delle
matte. Chi si appoggia a un’altra per non cadere. Chi si spancia piegata in due. Anch’io sorrido. Cos’altro potrei fare?
Una ragazza mi viene davanti e mi scruta dalla testa ai piedi, torna di corsa dalle sue amiche. Vengono altri, sembra quasi che tutti
mi fissino lì, in mezzo alle gambe. E poi ridono.
Secondo pacchetto.
A fatica si è fatto un po’ di silenzio. Yawè scioglie il nodo che tiene insieme la foglia, il nodo realizzato con il gambo, lo scioglie e il
secondo pacchetto si apre.
Sono palline grigie. Yawè me ne porge una e mi dice di annusarla,
facendo il gesto con il naso. Tirando su aria dal naso. E io annuso.
Nghimba, non ho dubbi.
Specie di piccole cipolle selvatiche che ho già visto ai piedi di
certi alberi. Le donne le mettono nei sughi della selvaggina insieme
all’olio di palma. I bambini invece le infilzano con dei rametti, tipo
stecchini, ci fanno delle trottole.
Quando indovino il nome delle cipolle la gente grida yi-eeeh, in
segno di approvazione.
Yawè intanto apre il terzo pacchetto.
Bruchi.
Da cuocere in pentola, dice, o da farci gli spiedini. Nel quarto pacchetto ci sono strani semi discoidali, ma Yawè se ne è già andata, si
è messa in bocca un paio di funghi ed è corsa via per un sentiero.
La gente resta lì, non dice niente.
Sto scrivendo gli ultimi appunti, facendo le ultime foto, quando
dal sentiero arrivano dei versi, delle grida – tah, tah, tah! – e tutti ricominciano a ridere. Di nuovo.
Tah, tah, tah!
La voce si fa più forte, più strozzata.
Appare Yawè, con un ramo di palma che le esce da sotto il vestito, in mezzo alle cosce. La donna ci viene incontro spingendo il bacino in avanti ritmicamente. Tutt’a un tratto si ferma, si guarda tra
le gambe con soddisfazione, ci mostra il suo grande fallo vegetale.
Riprende a dare colpi di bacino, tah, tah!
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Con le mani dietro i fianchi, con le mani dietro la testa.
La parodia di un uomo che cammina nudo per l’accampamento,
a quanto pare. Un uomo orgoglioso della sua erezione.
Le donne si contorcono dal ridere.
Mi si avvicina la figlia di Atemè, la bella Ambaka. «Tolo na mókose», mi dice all’orecchio.
I funghi dell’uomo.
Allunga il braccio a indicare i prodotti raccolti dalla madre, i
funghi marroni. «Quelli che hai mangiato prima, no?», insiste la
ragazza.
Quelli che avrebbero dovuto provocarmi un’erezione.
Il viagra della foresta.
L’erezione che tutti hanno immaginato sotto i miei jeans dopo il
primo assaggio.
Yawè continua a dimenarsi, mentre le altre donne battono le
mani e improvvisano un canto. «La vedete tutti?», grida Yawè.
Tah, tah, tah!
La sua gigantesca erezione verde.
Yawè grida: «Mi servono altri funghi». Alla gente, grida: «Chi ha
preso il mio tabacco? Voglio fumare».
E tutti si slogano la mascella, hanno le lacrime agli occhi.
Sta imitando qualcuno, Yawè.
La donna divora una manciata di funghi. Si guarda il pacco, fa il
gesto di aspirare fumo da una sigaretta. E immediatamente l’immagine di Yawè si sovrappone all’immagine di suo marito.
Atemè.
Per chi ha raccolto tutti questi funghi, se non per lui?
Yawè si avvicina alla sua capanna danzando, e proprio sull’entrata, appena prima di varcare la soglia, si gira verso di noi.
Ci guarda, serissima.
Dà un tiro alla sigaretta immaginaria.
E tah, tah, tah!
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