TRA 1 ORA E 12 MINUTI - Podoff
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TRA 1 ORA E 12 MINUTI - Podoff
Un angelo che cerca l’anarchia. E che parla inglese per far capire a tutti cosa pensa E che gioca per ore a Counter Strike. E a cui piacciono i cartoni spazzatura. Questa è la menzogna che è stata messa in scena nella prima serata di Short Theatre. Tra 1 ora e 12 minuti, spettacolo della Compagnia Induma/Manifatture Knos, diretto dall’oramai italo-tedesco Werner Waas –di lui ricordiamo Bocca di cowboy, L’addio, Jackie- ed interpretato da Lea Barletti, mette in scena la tragica parabola di Sebastian Bosse, liceale diciottenne della città di Emstetten, Westfalia, che il 20 ottobre 2006 entrò nella sua scuola armato di tutto punto iniziando a sparare all’impazzata, ferendo numerose persone e, infine, suicidandosi. Questa la nostra vittima, il nostro carnefice. Questa la menzogna. Come estremo epitaffio sulla sua vita, e sulla società intera -estremi che qui si toccano e si compenetrano-, Sebastian scelse il video, immesso su Internet poco prima della strage. Ed è da questo soliloquio digitalizzato e disperso nella Rete –e che la Rete tratterrà per sempre- che il diciottenne rimandato ben tre volte a scuola ci parla di lui, del mondo, dell’eccidio che andrà a compiere. Waas, con greve lavoro etico, politico, ed anche artistico, intuisce benissimo che il senso primo e ultimo del percorso di morte di questo ragazzo non fu l’assalto alla scuola –finora abbiam parlato di eccidio, strage, ma in modo fuorviante, falso: l’unica vittima fu lo stesso Sebastian-, ma quei pochi minuti di celebrità –rovesciando, anzi, portando al parossismo l’assunto warholiano del quarto d’ora di visibilità, ottenuto qui post-mortem, ma pur sempre ottenuto...- rubati, finalmente, agli amici (?) e ai compagni di classe protagonisti nella vita grazie ai loro abiti firmati, al loro modo di atteggiarsi scimmiottando miti che come sciacalli importano instancabilmente dal Grande Immaginario Collettivo, al loro essere primi della classe dentro e fuori le mura della scuola. E come a dare un sostegno ragionato, letteraria impalcatura da cui librarsi oltre tali sovra-strutture, Waas sceglie di affiancare alla figura di Sebastian il Forganglighet di Lars Norén, poeta-drammaturgo-scrittore svedese tra i più importanti di questo scorcio secolo, e del passato, autore dei Tre quartetti (La notte è madre del giorno, Nostre ombre quotidiane, Autunno e inverno), ispirati all’opera e alla figura dell’ “Eschilo d’America” Eugene O’Neill. Accostare Norén al liceale tedesco può apparire, superficialmente, una forzatura, ma serve al regista tedesco per scardinare e far confluire in un unico, drammatico, “punto zero”, le menzogne di cui era intessuta la vita di Sebastian. Cosa differenzia l’incessante ciarlare del diciottenne amante dei videogiochi e l’estremo bisogno di espressione artistica del drammaturgo svedese –“quando avevo nove anni, le parole divennero per me la cosa più importante. Credo che imparai a scrivere già nell’utero di mia madre. È un tale intenso piacere la scrittura”- ? Abbattere, demolire, o solamente, ed eroicamente e pateticamente, difendersi dalle eterne menzogne di una società arroccata su un consumo oramai divenuto puro cannibalismo, pregna di vuoti feticci a capo di intere, adoranti tribù, una società i cui immensi e spietati meccanismi schiacciano, inglobano, deformano, l’individualità di ognuno di io. Non bisogna sfrondare né sminuzzare nulla nell’effluvio di parole, dolore e morte che Sebastian ci ha lasciato ad imperituro monito, poiché significherebbe sottrarre -e quindi giustificare- qualcosa alle menzogne propinategli dalla società nei suoi lunghi, difficili, diciotto anni. Schopenhauer scriveva che un uomo è tutti gli uomini. Ecco dunque collidere su Sebastian ricordi di un passato da esorcizzare –le camere a gas- e aspirazioni politiche osteggiate dai più –quell’ <<Io voglio l’anarchia>> frutto di amnesie e superficialità storiche-, in una vicenda che assume tragicamente l’aspetto dell’universalità. Waas decide di seguire una strada opposta ma complementare rispetto al Gus Van Sant di Elephant: rifiutando una mostrazione estetizzata fino a sfiorare il metafisico – efficacissima nel caso del regista americano-, l’autore tedesco ci restituisce una ri-lettura –o una ri-visione, trattandosi quasi di un gioco sulla medialità- ostica e senza appigli, che ha nella ridondanza delle frasi, dell’azione scenica e della vicenda stessa il suo punto di forza. Gli sprazzi dialogici nel monologare della Barletti aprono interessanti squarci di contatto con il pubblico, con improvvise e inaspettate variazioni sullo spettro emotivo – nella serata di ieri nettamente virato verso il riso e l’ironia. E la non-recitazione di una brava Lea Barletti volutamente monocorde, assente, rendono ancora più evidente il discorso anti-spettacolare intrapreso da Waas, dolorasemente e consapevolmente impegnato a dissezionare, e a sbattere in sottotesto in faccia al pubblico, a volte con feroce ironia, a volte con rabbia volutamente retorica, una verità indicibile che accomuna tutti io.